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IL DESERTTO DEI TARTARI

Fino ad allora egli era avanzato per la spensierata età della prima giovinezza, una strada
che da bambini sembra infinita, dove gli anni scorrono lenti e con passo lieve, così che
nessuno nota la loro partenza. Si cammina placidamente guardandosi con curiosità
attorno, non c’è bisogno di affrettarsi, nessuno preme di dietro e nessuno ci aspetta,
anche i compagni procedono senza pensieri, fermandosi spesso a scherzare. Dalle case,
sulle porte, la gente grande saluta benigna, e fa cenno indicando l’orizzonte con sorrisi
d’intesa; così il cuore comincia a battere per eroici e teneri desideri, si assapora la vigilia
delle cose meravigliose che si attendono più avanti; ancora non si vedono, no, ma è certo,
assolutamente certo che un giorno ci arriveremo.

Dino Buzzati

Il deserto dei Tartari è un libro di Dino Buzzati edito per la Rizzoli nel 1940. La trama del
libro è assai lineare:[1] Giovanni Drogo, giovane ufficiale, viene spedito alla fortezza
Bastiani, ai confini estremi di un regno dai contorni e geografia non precisati. Al principio
Giovanni non è particolarmente felice di insediarsi nella fortezza. Già l’abbandono della
casa natia, con i parenti e gli amici e una potenziale futura moglie, gli lasciano un senso di
smarrimento privo di compenso che egli stesso intuisce ma non comprende. Chiede
immediatamente il trasferimento, ma gli viene sconsigliato per ragioni di carriera: è
possibile, certamente, ma perché doverlo fare subito? Meglio aspettare qualche mese,
quattro possibilmente, così da dare l’aria di aver svolto il minimo di tempo del servizio per
poi potersi congedare dalla fortezza senza macchie.

Al principio, dunque, Giovanni Drogo percepisce solo un senso di vuoto permanente e di


imprecisa insensatezza. Perché mai sta in quella fortezza, abbandonata dagli uomini, dalla
patria e da Dio? Non c’è niente di attraente lì per lui. Eppure con il tempo qualcosa
incomincia a penetrare dentro il suo animo. La mente gira a vuoto con il vuoto e così tutte
quelle presenti nella fortezza Bastiani, i cui unici elementi ricreativi sono le partite a
scacchi. La quotidianità precisa, regolare, monotona offre di per sé una motivazione di
esistenza priva di sogno. Eppure il vuoto produce sempre qualcosa di affascinante, un
fascino mefistofelico e pericoloso che sospinge gli uomini verso di esso con una potenza
invincibile: i Tartari. Non si sono mai propriamente visti, nessuno sa dire come siano fatti
ma di là del deserto di certo ci sono. Vivono, mangiano e pensano. Devono esserci.
Nessuno pensa che siano cattivi, ma sono il nemico. L’ideale nemico di cui tutti hanno
bisogno. E’ possibile che arrivi una guerra per mano loro. Quando nessuno sa dirlo, ma è
sicuro che prima o poi arriveranno. Così Drogo finisce invischiato dentro il buco nero,
dapprima nelle zone lontane del vortice e poi sempre più velocemente.

Al principio, infatti, non vede che il vuoto da troppo lontano ma poi, vivendoci dentro,
finisce irretito dal nulla e i sogni dell’infanzia si sostituiscono ai ben più perigliosi sogni ad
occhi aperti della maturità. Durante questa fase, infatti, si tende a credere di essere meno
ingenui che da bambini, eppure quei fuochi fatui del mezzogiorno, quando si è sospesi
dopo il lavoro e si lascia andare la mente libera, sono molto più accesi di quanto noi stessi
vogliamo ammettere: essi sono la base per le nostre illusioni che costituiscono l’unico
baluardo, l’ultimo, contro l’ammissione della resa incondizionata alla sopravvivenza. Non
alla vita. Perché giorno per giorno ci diciamo che dobbiamo resistere, perché dobbiamo
sopravvivere. Ma certamente se la vita fosse questa, ah, allora ci lasceremmo andare di
sicuro per una morte o rapida o immediata. Sopravvivere, certo, come scusa per non
vivere perché prima o poi si dovrà pur sostituire alla semplice forma primordiale di
esistenza una più sofisticata, piena a dimensione d’uomo.

E invece giorno per giorno ci costruiamo piccole visioni, piccole asticelle da raggiungere.
Non irrealistiche (così ci pare) come quelle infantili: non più uomini di stato, generali,
conquistatori, scienziati. Ah, ma no! Un aumento di stipendio, un aumento di grado
(insignificante), un aumento di visibilità pubblica… pubblicare il libro che è sempre (guarda
caso) rimasto dentro il quaderno chiuso dentro il cassetto chiuso dentro allo studio che
non si frequenta che nei rimpianti. Piccoli modesti sogni. Assolutamente più concreti.
Certo! E più in basso si scende, meno si ha avuto modo di essere infanti, e più i sogni
tendono a coincidere con qualcosa di apparentemente accessibile. Ad ogni uomo il suo
sogno. Una famiglia per cui lottare e di cui si ignora la vita del figlio o della moglie. Un
lavoro da conquistare ma di cui non si ha nessun amore. Una posizione da ottenere, ma di
cui si riconoscono solo i limiti.

Giovanni Drogo è uno di questi. Ogni giorno è sopravvivenza per un sogno di vita ben più
grande, che coinvolge eserciti e cannoni. E ogni giorno è sempre identico al precedente e
nulla lascia supporre che il domani sia migliore o semplicemente diverso (sarebbe già
qualcosa!):

Un ufficiale gira per i lavatoi deserti, altri sono di servizio alle varie ridotte, altri cavalcano
sulla sassosa spianata, altri siedono negli uffici. Ciascuno non riesce a capire bene cosa
sia successo, ma le facce degli altri gli danno ai nervi. Sempre le stesse, pensa
istintivamente, sempre gli stessi discorsi, lo stesso servizio, gli stessi documenti. E intanto
fermentano teneri desideri, non è facile stabilire con esattezza che cosa si vorrebbe, certo
non quelle mura, quei soldati, quei suoni di tromba.[2]

Ma Drogo è solo uno dei tanti che ha sacrificato la vita in nome di un ideale vago e,
proprio perché lontano, rassicurante: vivere lottando per i propri sogni significa sguainare
la spada della vita, non della sopravvivenza. Anche conquistare il cuore di una ragazza fa
parte delle sfide concrete. Appunto, troppo. Troppo per giustificare questa vita sempre
uguale di miseria, di confine e frontiera di un mondo chiuso. Il grande ideale, vago,
lontano. Questo è quello che serve per vivere! Tutti sopravvivono e allora il sogno diventa
collettivo, una potente allucinazione ben regolata e regolare. Così, quando arriva un po’ di
movimento nel deserto sembra che siano arrivati i Tartari, finalmente. Ma non è così. E il
vecchio colonnello, credendo di aver ormai terminato i giorni dedicati ai sogni di guerra,
gloriosi e significativi, si arrabbia con se stesso per aver osato sperare:
Se l’era sentita fin da principio, il colonnello Filimore. Non potevano essere nemici. Lo
sapeva bene: lui non era nato per la gloria, tante volte si era stupidamente illuso. Perché –
si domandava con rabbia – perché si era lasciato ingannare? Se l’ era sentita fin da
principio che doveva finire così.[3]

Eppure il colonnello alla guerra continua a crederci. Non per lui, per gli altri. Lui non
l’avrebbe vista la gioia del grande evento, dell’occasione per riscattare l’intera mediocrità
dell’esistenza. Lui no. Per lui ormai era la condanna. Eppure, in un certo senso, il sogno è
proiettato. Esiste pur sempre questa possibilità dell’evento (non viene adombrata la
possibilità che tale evento sacrale, di per sé così pieno di importanza da investire tutta la
sfera dell’esserci, non sussista affatto e che ogni gesto deciso dall’Io in piena
consapevolezza di sé sia questo evento). E infatti così si confessa il colonnello Filimore:

Tacque e sembrava affaticato. Egli aveva visto sulle facce degli ufficiali scendere, mentre
lui parlava, un velo di delusione, li aveva visti, da guerrieri ansiosi di lotta, ridiventare
incolori ufficiali di guarnigione. Ma erano giovani, pensava, loro facevano ancora in
tempo.[4]

Ed è in questo passo che si vede la natura concettuale dell’illusione collettiva che il vuoto
della fortezza Bastiani ha costruito dentro tutti gli individui che ne fanno parte: l’illusione di
un evento, dell’attesa di qualcosa che potrebbe non arrivare mai. L’attesa per l’ignoto non
è altro che lo slittamento della percezione del vuoto presente che, come tale, è intollerabile
per qualsiasi uomo. L’idea che la vita sia priva di sostanza, che anche nel migliore dei casi
sia solo un gioco privo di senso non può essere presa troppo sul serio. No. Altrimenti, è
evidente, perché non abbandonare gli altri uomini, questo mondo e che tutto vada in
malora? No. Non è concepibile. E allora, se così non è, deve pur arrivare qualcosa,
qualunque cosa. Ma che sia degna. Altrimenti, che senso ha?

E così fluiscono i giorni, ma Giovanni Drogo non ha più intenzione di andarsene. Prima
passano quattro anni, poi arrivano i confinanti a fissare un punto non precisato della
delimitazione. Alla fine, Drogo si concede qualche giorno in città. Ma la vita l’ha cambiato e
così pure la città. Non è più un invitante ritorno al noto dall’ignoto. Le cose sono cambiate
e lui non se n’è accorto. Ora il noto è la fortezza Bastiani, dai ritmi regolari e sempre
identici. Ora l’ignoto è la vecchia amica, il vecchio compagno. La vecchia casa! Calda non
giunge più la voce della madre. Non giunge più affatto. Non si sveglia più per lui. Non tiene
più desta la mente fino a tardi per sentirlo tornare. La madre non è più la Donna. E’ una
donna, come tutte le altre. Anche lei ha finito il suo servizio, anche lei ha terminato il suo
ruolo. Non può più ritornare nel grembo materno neanche in senso figurato. Nella casa
ormai non trova che l’eco dei ricordi che gli impongono la distanza tra il passato e il
presente. Fortezza Bastiani. Sto arrivando.

Il tempo intanto correva, il suo battito silenzioso scandisce sempre più precipitoso la vita,
non ci si può fermare neanche un attimo, neppure un’occhiata indietro. “Ferma, ferma!” si
vorrebbe gridare, ma si capisce ch’è inutile. Tutto quanto fugge via, gli uomini, le stagioni,
le nubi; e non serve aggrapparsi alle pietre, resistere in cima a qualche scoglio, le dita
stanche si aprono, le braccia si afflosciano inerti, si è trascinati ancora nel fiume, che pare
lento ma non si ferma mai.[5]

Alla fine, forse, qualcosa potrebbe arrivare per Giovanni Drogo, quel sognatore che non ha
compreso che i sogni vanno vissuti giorno per giorno e non posticipati prima nella mente e
poi nella realtà. Ma quel che potrebbe fornire un valido riscatto potrebbe giungere troppo
tardi. E allora il sogno diventa beffa. Non rimane, allora, che sorridere all’ultima sfida.
Quella che nessuno affronta in compagnia, ma nella più piena solitudine.

Il deserto dei Tartari è uno dei libri più angoscianti dei classici della narrativa italiana. A
livello letterale, il primo da considerare, non si tratta che di una storia di una fortezza
militare. A livello metaforico, la fortezza potrebbe essere considerata come una città nella
quale vivono le persone, tutte con degli orari precisi, tutte con delle idee sul mondo e sulla
gente. Eppure nessuna realmente capace di vincere. Regole in un mondo che le incarna,
le calza e ne rimane svuotato. In realtà, non c’è spazio per grande cattiveria, le cose non
stanno così perché qualche entità malvagia ha imposto questo stato di cose.
Semplicemente è così che vanno le cose quando non c’è niente da fare in cui credere. Ci
si abbandona al sogno solo per non dover accettare l’idea del proprio fallimento, proprio e
della propria comunità. Il fatto che tutti possono essere stati tratti in inganno costituisce
una parte fondamentale del senso di vacuità individuale: tutti si riconoscono nel sogno del
simile, che, in fondo, è identico a sé. In questo modo ognuno si conferma nella vacuità
dell’altro, nell’alternativa dell’altro per finire invischiati tutti dentro lo stesso vortice.

Vortice che è duplice, sia in senso interiore che in senso esteriore: interiormente esso è
l’immagine della mente che pensa e gira a vuoto e produce, per ciò, dei palliativi
computazionali per avvinghiare alla testa qualche sostanza. Perché mangiare e copulare,
per quanto ci si provi, hanno sempre lasciato una parte di esistenza vuota che deve
essere riempita in qualche modo. In qualsiasi modo. E’ la vita che si prende la rivincita
sulla sopravvivenza. E’ questa la vera angoscia: riconoscere che si è solo una bestia pur
senza esserlo. Ma è facile vivere come un animale essendo un uomo. Più difficile è essere
un uomo pur sapendo di aver fatto di tutto per essere una bestia. In senso esteriore il
vuoto si estrinseca come l’ineluttabile trascorrere del tempo che distrugge tutto ciò che è
rifinito dentro e non verrà mai restituito. Il passato che non torna e il futuro che non serve
sono la percezione del duplice senso di vuoto, agli estremi del nostro segmento di vita in
questo universo che distrugge tutto ciò che passa e che non produce niente dal futuro.
Immerso nel presente, nel fluido costante nel quale a destra e a sinistra non c’è che il
nulla. Così l’esistenza tramonta in una parvenza di vita che è solo sufficiente a costituire il
grande inganno prima della beffa. Per questo essere e tempo non sono che due risvolti del
nulla, causa e non risultato dell’angoscia.

Siamo di fronte ad un indubbio capolavoro della narrativa per dei meriti ineludibili. La
condizione umana trasposta in una grandiosa allegoria che uno stile semplice restituisce
con una freddezza adamantina che può lasciare disarmati. Ogni parola è come il sasso del
deserto. Ogni pezzo di frase è come il picco di una montagna della landa e ogni frase non
è altro che una parvenza, il fantasma che porta il lettore a prendere coscienza di quanto
poco ci è dato e di quanto quel poco deve sembrarci molto. Uno stile lineare, per una vita
lineare, per una dimensione dell’esistenza orizzontale. Ed è in questa parvenza, nella
costruzione di una grande illusione collettiva che il gelo penetra, parola dopo parola, sin
dentro il cuore, costringendo il lettore a guardare fino in fondo dentro se stesso.

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