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Prefazione

PAROLE, NON COMANDI

Fabio Rosini

Q uando si citano i Dieci Comandamenti tutti


pensano ad un rigurgito di legalismo e ad un
passo indietro nel mondo delle imposizioni e dei
divieti.
Se poi si prendono i singoli temi, come «non uc-
cidere» o «non commettere adulterio», ad esempio,
allora scattano tutti gli all’erta dello scontro fra vi-
sioni etiche e tutte le loro fazioni implicate.
Alla notizia che il Papa avrebbe affrontato questo
tema potevamo domandarci: potrà mai Francesco
fare un salto indietro nel legalismo? Ma anche: evan-
gelico come è, quanto calcherà la mano sul richiamo
alla radicalità?
Ci dovevamo aspettare una serie di sferzate morali
austere e salutari?
Niente di tutto questo.

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FABIO ROSINI

Papa Francesco entra con tutt’altra prospettiva


nella lettura dei Dieci Comandamenti, e il presen-
te volume, che consente di leggere di seguito le 17
udienze dedicate al tema, permette di apprezzare l’a-
spetto forse più rilevante di queste catechesi papali:
non sono una collezione episodica di meditazioni sui
singoli comandamenti, ma un percorso unitario che
presenta le varie parti del Decalogo come un unico
sentiero nella fede proposto alla Chiesa e a tutti gli
uomini.
Nelle prime udienze in modo nitido, e nelle ultime
in modo ancor più esplicito, i singoli comandi fanno
parte di un processo organico, prezioso, sorprenden-
te, eppure assai ben fondato nella più pura tradizione
biblica, soprattutto paolina.
La spiegazione spazia dall’analisi oggettiva delle
parole di cui è composto il Decalogo allo sguardo
disincantato e oggettivo sull’uomo e sul mondo. Il
senso delle cose concrete si impasta con una lettura
fedele del testo per cui ci si sente appoggiati su una
base solida allo scopo di fare un tuffo nella realtà,
non in un’analisi astratta ma vitale, reale, utile, a
portata di mano. Non ci si poteva aspettare altro da
questo Papa, d’altronde.

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Ma la cosa più notevole è che il percorso è svolto


per arrivare ad una mèta inaspettata, in un certo
senso tenuta nascosta per tutto il viaggio e svelata
nelle ultime due udienze, e quasi rincresce palesarla
in questa introduzione, perché l’intento è raggiunto
per bene solo lasciandosi prendere per mano da que-
sta intenzione nascosta per arrivare al risultato che
queste udienze cercano di enucleare nell’ascoltatore.
Eppure quel che il Papa cerca di suscitare con que-
ste catechesi non è assolutamente niente di nuovo;
anzi, è così antico da essere stato trascurato e poterci
così sorprendere, visto che non ci si pensava più.
Tecnicamente queste udienze, infatti, innescano il
trauma della legge che fonda il passaggio alla grazia.
Ma spieghiamoci per bene.
Ci potevamo aspettare una serie di riflessioni sui
doveri morali, ma quando il testo del Decalogo inizia
ad essere commentato, ossia dalla seconda udienza
in poi, questo aspetto etico non è centrale, mentre
ne appare naturalmente un altro: ogni specifica parte
del Decalogo viene sempre riferita al Signore Gesù.
E mentre sembra che si stia parlando di noi e dei
nostri doveri, il discorso scivola verso di Lui. E siamo
dolcemente guidati a guardare nella sua direzione.

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L’attenzione è spostata dal richiamo morale al volgere


«lo sguardo verso colui che hanno trafitto» (Gv 19,37),
ma l’effetto non è il disimpegno. Tutt’altro.
Pian piano e sempre più intensamente capiamo
che il Decalogo ci conduce, come dice il Santo Padre
nell’ultima catechesi, davanti ad una «radiografia» di
Gesù, perché Lui è quella vita di cui questi comandi
parlano, Lui è colui che vive l’esistenza tratteggiata
da questo antico testo. Il Decalogo è quindi, dice
sempre il Papa, una sorta di «negativo fotografico che
lascia apparire il suo volto – come nella sacra Sindone».
E così mentre volta per volta capiamo meglio il
contenuto del Decalogo, in realtà conosciamo me-
glio Cristo, lo guardiamo sotto una prospettiva più
luminosa.
Eppure noi non restiamo fuori dal discorso, ma
percepiamo sempre meglio qualcosa che nel nostro
intimo corrisponde a quel Volto. Come se tutto quel
che vien detto ci risuonasse nostro, non estraneo ma
consono, interiormente riconoscibile come vero.
È il nostro cuore.
È la nostra voglia di vivere e di amare, di essere
liberi, autentici, adulti, amorevoli, fedeli, generosi,
sinceri e belli. La legge, scritta su due tavole di pietra,

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la ritroviamo scritta dentro di noi, come risvegliata.


E non per suscitare un dovere ma un desiderio. Non
per costringerci dentro uno schema ma per permet-
terci di essere, fino in fondo, noi stessi.
Quel che regolarmente appare nell’analisi di ogni
comandamento, infatti, non è la negazione della
formulazione ma l’affermazione che gli è sottesa, e
questo è importantissimo: papa Francesco non legge
il Decalogo per vedere quale sia il “no” da dire, ma
il “sì” da annunciare. Non è tanto importante sco-
prire cosa ci sia di proibito, ma cosa sia implicato di
positivo e liberante.
Ecco come il Santo Padre si esprime in un uno dei
passaggi finali dell’ultima catechesi: «In Cristo, e solo
in Lui, il Decalogo smette di essere condanna (cfr. Rm
8,1) e diventa l’autentica verità della vita umana, cioè
desiderio di amore – qui nasce un desiderio del bene,
di fare il bene – desiderio di gioia, desiderio di pace, di
magnanimità, di benevolenza, di bontà, di fedeltà, di
mitezza, dominio di sé. Da quei “no” si passa a questo
“sì”…».
Eppure questo processo, pur se assertivo, è comun-
que doloroso.
Perché niente quanto il bene sa mettere in crisi e

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mostrare quel che manca. Guardare una stanza pu-


lita fa capire quanto la propria possa essere sporca.
Contemplare una cosa ben fatta svela quanto c’è di
mal fatto in quel che si sta combinando. E questo,
per l’appunto, è amaro. Ma è un’amarezza necessaria.
In queste udienze si usano dei toni che esortano
verso la bellezza, la verità e l’amore, indicando la via
della vita, e suscitando come motore interiore l’attra-
zione verso il cambiamento e non i sensi di colpa, il
fascino per il bene e non il rimorso. Ma questo nasce
da un dolore, come si diceva, che è positivo, smuove
e non ottunde, mette voglia e non scoraggia. Ma
pur sempre dolore è: quello del bene mancante. È il
cuore trafitto che prelude alla vita nuova.
È una chiave essenziale di questo pontificato: oc-
cuparsi di quel che c’è da sperare e amare, e, come
direbbe papa Francesco, “misericordiare” quel che c’è
da rinnegare e abbandonarlo, non rimarcarlo. Rico-
struire, non accusare.

* * *

Le catechesi partono dal giovane ricco del decimo


capitolo del Vangelo di Marco, e parlano della voglia

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di qualcosa di grande, attaccando frontalmente la


mediocrità, che è il vero nemico aggredito in tutte
queste catechesi. E capiamo subito cosa sta cercando
di fare papa Francesco: mettere il desiderio di trovare
quel che manca, e sentirlo mancare. Così il Santo
Padre loda l’inquietudine, il non accontentarsi di
vivere di mezze misure, la fame di andare «oltre»,
l’appetito del «di più».
Allora si comincia il viaggio con la prima gioiosa
scoperta: nella seconda catechesi viene svelato che il
testo del ventesimo capitolo del libro dell’Esodo che
contiene il Decalogo non parla di Comandamenti,
ma di Parole. La differenza fra parola e comando è
quella che c’è fra la relazione e l’estraneità. La di-
stinzione viene illuminata profondamente e cambia
tutta la prospettiva della fede nel Dio di Gesù Cristo:
un Padre, non un tiranno. E questa distinzione è
il passaggio dal falso cristianesimo al cristianesimo
autentico, e così, verso la conclusione dell’udienza, il
Papa dichiara: «Il mondo non ha bisogno di legalismo,
ma di cura».
Sulla stessa falsariga la terza catechesi illumina l’im-
portanza della prima frase del testo del Decalogo che
non è una mera citazione di quel che ha preceduto la

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consegna delle Dieci Parole, ma il fare memoria per


aprirsi alla gratitudine, che è la chiave per accogliere
quel che segue; con entusiasmo papa Francesco dice:
«… quante cose belle ha fatto Dio per ognuno di noi!
Quanto è generoso il nostro Padre celeste!» e propone
un esercizio di memoria e di riconoscenza. È questa
la base della fiducia: avere nel cuore «Colui che ci ha
dato tanto, infinitamente più di quanto mai potremo
dare a Lui».
In questa stessa udienza il Santo Padre ha parole
durissime contro uno stile educativo incentrato su
obblighi, impegni e coerenze che non mette al centro
la generosità di Dio, che non parta da Lui e dalla
sua tenerezza. Molti di noi hanno dei tristi ricordi
in proposito, ed è consolante ascoltare un Papa che
dica questo così chiaramente.
Ma arriva il tema poderoso dell’idolatria che pren-
derà il tempo di due udienze; nella prima sarà luci-
damente focalizzata la tragedia della schiavitù agli
idoli, mentre nella seconda si analizzerà con finezza il
meccanismo e la radice dell’attaccamento alle cose e
alle idee, che risiede nel rifiuto della propria fragilità.
Così inizia un lavoro sottile di riconciliazione con la
nostra condizione, e in lungo e largo il Papa, nelle

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udienze, affronterà la povertà umana con serenità,


senza alcuna condanna. Man mano che si scopri-
ranno le miserie del proprio cuore, l’invito sarà a
riconoscerle e accoglierle e non scappare da esse. Alla
fine, infatti, ci serviranno più di quanto ci si aspetti.
Quindi arriviamo all’udienza sul rispetto del Nome
di Dio, e papa Francesco ci fa scoprire che è la Parola
sulla relazione con il Signore, il quale chiede un rap-
porto autentico, bello, vero, di essere conosciuto e
invocato per nome, senza ipocrisie. Ma anche questo
parte dall’atteggiamento di Dio stesso manifestato in
Cristo, e il Papa, dopo aver esortato a farsi carico del
Nome di Dio con radicalità, afferma: «Vale la pena
di prendere su noi il nome di Dio perché Lui si è fatto
carico del nostro nome fino in fondo, anche del male
che c’è in noi; Lui si è fatto carico per perdonarci, per
mettere nel nostro cuore il suo amore».
Così, per l’ennesima volta, il Santo Padre rovescia
la prospettiva e trasforma, o meglio, riconduce quel
che sembrava una imposizione ad una relazione da
uomini grati, amati, liberati.
Seguono le due sorprendenti udienze sulla Terza
Parola, le quali svelano il duplice segreto del vero
riposo: esso è fatto di riconciliazione con il passato e

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di libertà da se stessi. Il mondo odierno sembra «un


grande parco giochi dove tutti si divertono» e affermano
il proprio diritto a frantumare ogni limite, ma viene
tristemente riconosciuto per quel che è: un cosmo di
fuggiaschi schiavi del proprio ego. Allora il peccato
non è autoaffermazione ma autodistruzione: la vera
realizzazione dell’uomo e la sua autentica libertà è
l’amore.
Allora, nella Quarta Parola, si può affrontare il
tema dell’amore verso le proprie radici, e il valore
equilibrato da dare all’infanzia, ai genitori e a tutto
quello da cui l’uomo proviene, affermando la libe-
rante possibilità di sanare anche la memoria delle
storie più tragiche in una accoglienza della paternità
di Dio.
Se ci si lascia rigenerare da questa paternità, da
figli di Dio si diviene fratelli, e possono arrivare le
due catechesi sulla Quinta Parola, che proclamano
la preziosità della vita e la cura di essa; in queste
due udienze il Papa mette il fondamento di tutta la
seconda tavola con la scoperta basilare e illuminante
che per «non uccidere» il prossimo in realtà bisogna
amarlo. Un millimetro sotto l’amore inizia la necro-
si dei rapporti. Non senza passare per l’accoglienza

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della propria stessa vita e della riconciliazione con


essa, di cui si è già parlato nei comandi sul riposo e
sui genitori.
Nel corso di questa parte sulla cura della vita papa
Francesco mette una delle molte digressioni che in-
serisce nel testo da cui parte, digressioni tipiche di
una comunicazione da pastore che ama intrattenersi
con le pecore e sottolineare quel che gli sta a cuore, e
questa volta mette una digressione durissima contro
l’aborto. Altrove morbidissimo, qui implacabile. Va
notato: la difesa del debole non ammette sconti.
Una nota particolare richiedono le due catechesi
su «non commettere adulterio»: l’argomento dell’af-
fettività e della sessualità richiamerebbe, per la sua
delicatezza, una certa tensione nel discorso… invece
siamo di fronte a due udienze serene, tutt’altro che
polemiche ma costruttive, propositive. Ancora una
volta vediamo come l’intento sia quello di affermare,
non di negare.
Senza sconti è anche l’udienza su «non rubare», ma
la sua prospettiva, ancora una volta, è assolutamente
costruttiva: il possesso non è colpa ma occasione, è
una chiamata all’amore. «Non rubare», infatti, per
papa Francesco vuol dire: ama con i tuoi beni.

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E così la catechesi su «non dire falsa testimonian-


za» non è solo un richiamo alla veracità ma una luce
profonda su ogni atto umano, che proprio perché è
umano è comunicativo, e quindi implica l’esercizio
della verità. Questa verità, neanche a dirlo, è l’amo-
re; ma non uno qualsiasi, bensì quello che Cristo ha
manifestato. Infatti l’amore del Padre è creduto o
meno in ogni nostro singolo atto, e in ogni nostra
scelta manifestiamo se ci abbandoniamo o no alla
sua Provvidenza. Alla fin fine testimoniare la verità
è vivere da figli «lasciando emergere in ogni atto la
grande verità: che Dio è Padre e ci si può fidare di
Lui».

* * *

Ed ecco le due udienze più importanti, quelle


finali, che riguardano entrambe gli ultimi due co-
mandi – che per la tradizione ebraica sono in realtà
uno solo: non desiderare.
Le Parole «non desiderare il coniuge altrui; non
desiderare i beni altrui» sono presentate in due parti
come le due facce di una stessa realtà: la pars de-
struens e la pars construens. Non una senza l’altra.

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Anzitutto c’è da ammettere i desideri malvagi,


perché tutto il male nasce dal cuore, come dice Cri-
sto stesso, e non guariremo mai l’uomo senza sanare
l’origine dei suoi atti; comincia così la terapia che si
gioca su quell’amarezza di cui si è parlato più sopra,
che funge da valida diagnosi, ossia da buon punto
di partenza per una terapia seria. E papa Francesco
richiama esplicitamente il testo che ispira questa
dinamica, ossia il settimo capitolo della Lettera ai
Romani, laddove Paolo arriva a dire cose del tipo:
«Non riesco a capire ciò che faccio: infatti io faccio
non quello che voglio, ma quello che detesto… infatti
io non compio il bene che voglio, ma il male che non
voglio… Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo
di morte?» (Rm 7,15.19.24).
Ammettere la sorgente del disordine dentro di sé
e riconoscersi impotenti di fronte a questa dinamica
interiore è la strada per arrivare alla verità che la
legge non può che svelarci: che siamo poveri, che
abbiamo bisogno di essere liberati da una dinamica
distruttiva che è in noi. E il Papa dice senza mezzi
termini: «È vano pensare di purificare il nostro cuore
in uno sforzo titanico della nostra sola volontà: questo
non è possibile».

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Ecco manifestata la sorprendente logica della legge


biblica per come in Cristo si compie: non serve ad
addestrare un esercito di soldatini che cerchino inu-
tilmente di riuscire a compierla ma a smascherare il
cuore umano nella sua miseria, e arrivare allo scopo
perseguito sin dall’inizio: «le ultime parole del Deca-
logo educano tutti a riconoscersi mendicanti».
E questo a cosa serve? Ad aprire il cuore allo Spiri-
to Santo, l’unico che può mettere nell’uomo la vita
stessa di Dio. E come farà?
Ecco l’ultima udienza: una descrizione semplice
eppure abissalmente profonda del dono del cuore
nuovo, un dono che passa per i desideri dello Spirito.
Infatti: «… nella contemplazione della vita descrit-
ta dal Decalogo, … noi, quasi senza accorgercene, ci
ritroviamo davanti a Cristo. Il Decalogo è la sua “ra-
diografia”, lo descrive come un negativo fotografico che
lascia apparire il suo volto – come nella sacra Sindone.
E così lo Spirito Santo feconda il nostro cuore mettendo
in esso i desideri che sono un dono suo, i desideri dello
Spirito».
Il movimento di riferire ognuna delle Dieci Pa-
role a Cristo non era un doveroso passaggio teolo-
gico ma la verità profonda del Decalogo. Le Dieci

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Parole descrivono la vita, il cuore, gli atti di Cristo,


e, mentre mostrano una bellezza sconfinata, rivelano
quel che più profondamente desideriamo, qualcosa
che l’uomo ha in sé perché è creato ad immagine e
somiglianza di quella bellezza.
In realtà le Parole sull’idolatria, sulla relazione au-
tentica con Dio, sul vero riposo, sull’amore per le
proprie radici, sulla cura della vita, sulla fedeltà, sulla
generosità e sulla verità sono quel che desideriamo
incontrare, quel che è bello, quel che è giusto e vero e
ci dà gioia. È l’uomo, la donna che vorremmo essere
e che da soli non possiamo essere, ma soprattutto
è quel che la Chiesa annunzia essersi fatto carne in
Cristo e in coloro che da Lui riscattati, ne ricevono
lo Spirito.
Papa Francesco conclude:
«La vita nuova infatti non è il titanico sforzo per
essere coerenti con una norma, ma la vita nuova è lo
Spirito stesso di Dio che inizia a guidarci fino ai suoi
frutti, in una felice sinergia fra la nostra gioia di essere
amati e la sua gioia di amarci...
Ecco cos’è il Decalogo per noi cristiani: contemplare
Cristo per aprirci a ricevere il suo cuore, per ricevere i
suoi desideri, per ricevere il suo Santo Spirito».

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Alla fin fine queste catechesi accendono questi de-


sideri, fecondano la voglia di amare, e aprono all’o-
pera di Dio in noi. Un seme che, come già detto,
innesca il più biblico dei processi di salvezza: essere
smascherati dalla legge per aprirsi alla grazia. Niente
di nuovo, eppure tutto questo è sorprendente, con-
solante, incoraggiante, positivo, costruttivo.

Potremmo riassumere in una immagine la “svolta”


che queste udienze possono dare a chi le accolga con
semplicità e con profondità? La parola più ripetuta
in tutte le catechesi, probabilmente, è “figlio”.
Il poter ricondurre tutta la logica dell’obbedienza
a Dio da una mentalità da sudditi ad una fiducia
da figli dipende dall’immagine che si ha di Dio, e il
Santo Padre dice: «la prima norma che Dio ha dato
all’uomo, è l’imposizione di un despota che vieta e co-
stringe, o è la premura di un papà che sta curando i
suoi piccoli e li protegge dall’autodistruzione? … I suoi
comandamenti sono solo una legge o contengono una
parola, per curarsi di me? Dio è padrone o Padre?», e
aggiunge a braccio: «Dio è Padre: non dimenticatevi
mai questo!».
Non siamo sudditi, siamo figli.

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