Ma nel momento stesso nel quale egli se ne andava verso il cielo si girò per l’ultima volta, per dire addio per sempre a quella che era la sua sposa: la sua amata Psiche. Nel girarsi vide negli occhi della donna lacrime di amore, di paura, ma soprattutto di un odio verso se stessa e di essersi fidata di quelle che credeva sue sorelle, coloro che avrebbero dovuto amarla e aiutarla in ogni circostanza. Cupido guardandola capì che quello sguardo lucido e puro sarebbe stato il suo tormento per il resto dei suoi giorni. Egli era certo che tra lui e Psiche c’era amore, un amore impossibile, e l’unica cosa che Cupido poteva fare era dargli un addio sospirato nella vastità di quel cielo azzurro. Non volle però abbandonarla, così attraverso un soffio di vento leggero la riportò in quel palazzo incantato, dove era nata la loro passione. Il tempo passava, ma la ferita che Cupido provava non guariva, egli aveva provato per la prima volta un legame vero e aveva assaggiato l’amarezza dell’abbandono, il dire addio ad un amore che doveva ancora essere vissuto; ogni sera chiudeva gli occhi senza concedere lacrime, aveva scelto una destinazione ignota: rinunciare all’amore; era ciò che la vita aveva scelto per lui: una tristezza di lacrime che non scendono, quella tristezza che pian piano ti distrugge. I secondi, i giorni, i mesi passarono, il tempo sembrava scorrere ma Cupido non aveva più una meta, non c’era quel punto di luce, quello spiraglio che ritrovava nelle notti passate accanto a Psiche in quel castello incantato, per lui che erano come raggi di sole in un inverno rigido. Amore cantava attraverso semplici poesie gli occhi lucidi di una ragazza che avevano inflitto a lui una punizione, il dolore causato dalla sua mancanza; e negli occhi di lui si rivedeva la fine di un amore travagliato da sentimento e sbagli, di momenti sfuggenti che non bastavano per colmare la mancanza del corpo dell’uno e dell’altro durante i giorni d’assenza. Cupido era un debole, un debole che aveva bisogno di scappare dalla realtà, un’anima fragile che non sapeva accettare di esserlo, e vagava per il mondo pensando che sopravvivere sarebbe stato tutto ciò a cui poteva mai anelare. Ma esso forse si ritrovava in un mondo di persone senza umanità, cuori incapaci di amare, e lui era uno di quelli. Egli che era il Dio dell’amore non faceva altro che contrastarlo inutilmente. Psiche intanto viveva ogni giorno come quelli passati, soltanto alla notte sentiva la mancanza di suo marito. Nel mentre il tempo passava e il dolore la uccideva secondo per secondo. Ma lei voleva vivere ed essere felice. Voleva amare di nuovo. Non voleva ricordare. Voleva dimenticare Cupido. Volevo ricordare solo quel primo sentimento. Voleva prenderlo, donarlo un altro uomo e sorridere di nuovo, perché il cuore era troppo pieno, troppo vivo per non amare ancora. Perché il cuore aveva bisogno di amore di volare via. E perché la vita era lunga. Andò avanti e smise di affliggersi, sorrise, cantò di nuovo, scherzò di nuovo, dopo tutto era viva, era ancora su questa terra ed era sempre la stessa persona, che aveva bisogno di ridere di tanto in tanto, pur sapendo che, nei molti giorni a venire, non avrebbe più amato come aveva fatto con Cupido. Il ricordo rimaneva così tanto che una sera si abbandonò ad esso e con la sua ingenuità invocò Venere chiedendole di parlare. Era una mattinata di agosto quando Venere, dea della bellezza e dell’amore, si presentò in quel castello, Psiche vedendola si inginocchio ad essa:” Te che sei la madre di Cupido, mio sposo, a te che mandasti lui ad abbandonarmi su una rupe per essere ceduta a una belva; chiedo a te Venere di poter essere amata ogni giorno da Cupido e permettere a noi di vivere felici in un questo castello. Oh Venere ti concederò qualunque cosa tu voglia, anche la mia bellezza, in cambio di un amore spensierato e felice.” La dea rise alle sue parole e se ne andò senza dire nulla. Si presentò così al cospetto del figlio e con aria beffarda disse a lui le parole che la ragazza aveva conferito ad essa, e Cupido all’udire di quelle parole iniziò a piangere per la prima volta dopo tanto tempo, in quel preciso istante capì di amarla. La madre vedendo gli occhi sgorganti di lacrime del figlio gli disse:” Cupido, ragazzo mio, il tuo sguardo mi fa capire quanto tu tenga a lei, è per questo quindi che io ti concedo di amarla, di amarla fino alla fine dei tuoi giorni. Ora vola da lei e dichiarale tutto ciò che provi.”. Cupido non esitò neanche un secondo, con le lacrime ancora agli occhi si presentò al castello, domandando a uno dei servitori dove ella fosse, ed esso gli rispose:”Oh caro Cupido, arrivi tardi, dopo le parole che tua madre, Venere, ha concesso a Psiche, lei ha deciso di arrendersi al sentimento che provava per te, dando fine alla sua vita, invocando Ade di portarla negli Inferi e darle finalmente la libertà.”, Cupido smise di respirare, il suo cuore si spezzò ma egli senza accorgersene si mise a correre nei corridoi di quella fortezza, prima che il tempo gli togliesse tutto quanto e una parte di lui. Aprì la porta e la ritrovò distesa nel letto nel quale egli, come un fuggitivo, si presentava ogni notte, la rivide dopo molto tempo, rivide la sua pelle candida, i suoi occhi azzurri e quei capelli che egli tanto amava; e con un sospiro pronunciò le parole che da anni erano rimaste bloccate in gola:” Ti amo, Psiche. Mi senti? Ti amo come non ho mai amato nessuno in tutta la mia vita. Svegliati ti prego.” Gli occhi puri della ragazza si aprirono dolcemente e un lieve sorriso si formò sulle sue labbra, Cupido si chinò e attraverso un semplice gesto d’amore capì che egli sarebbe appartenuto a lei, nonostante tutto.