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Appunti sulla conferenza I pannilani nel Medioevo, dalla tessitura al finissaggio, tenuta a
Gandino il 23 ottobre 2015, presso il Salone mons. Maconi (Casa parrocchiale).
1
I
TELAIO (evoluzione)
Telaio verticale a pesi con un solo bastone dei licci. Telaio verticale a pesi con tre bastoni dei licci.
1
DOMINIQUE CARDON, La draperie au Moyen Âge. Essor d’une grande industrie européenne, Parigi, CNRS
Éditions, 1999, pagg. 391-400.
2
dell’Impe-ro romano d’Occidente (476 d.C.). Risulta ancora utilizzato ai giorni
nostri presso i popoli meno progrediti.
La sua struttura era molto semplice: due pali verticali di legno come montanti,
collegati da due traverse orizzontali, in modo da formare una cornice rettangolare.
Il tutto era tenuto insieme, nel caso più semplice, con lacci di cuoio o di fibre
vegetali oppure, in modo più elaborato, mediante incastri. A seconda del tessuto
che si voleva confezionare, due o più coppie di pioli a forcella, infissi
perpendicolarmente nei montanti, servivano da supporto ai bastoni dei licci. Il
telaio poteva essere posizionato appoggiandolo, con una leggera inclinazione, ad
una parete o tenendolo in posizione verticale con i montanti saldamente
conficcati nel terreno.
Prima di iniziare a tessere, venivano legati alla traversa superiore i fili dell’or-
dito, che non dovevano ovviamente superare la lunghezza del telaio, ma restare a
qualche palmo da terra. I fili pari e i fili dispari erano mantenuti separati e
ordinatamente incrociati da due stecche orizzontali di legno. Per tenerli ben tesi si
riunivano in tanti mazzetti della stessa serie (i pari con i pari, i dispari con i
dispari), legando ciascuno di questi ad un peso solitamente forato a tale scopo e
Pesi di varie forme e dimensioni per tendere i mazzetti dei fili dell’ordito
forgiato con una grande varietà di forme e di materiali (pietra, argilla cruda
seccata al sole, terracotta, bronzo, ossidiana, ecc.). Una serie di fili d’ordito (ad es.
quelli pari) venivano collegati ad una barra orizzontale mediante laccetti di filo
resistente chiamati licci.
A questo punto si poteva cominciare ad
operare. Il tessitore o la tessitrice, tirando a sé la
bara dei licci e appoggiandola per comodità sulle
forcelle di una delle coppie di pioli infissi nei
piantoni, sollevava la serie i fili pari e
conseguentemente la separava da quella dei
dispari, che rimaneva dietro. Creava in tal modo
un varco a forma di losanga, il cosiddetto passo,
attraverso il quale faceva passare il filo di trama
avvolto sopra una cannetta. Lasciava quindi
andare la barra dei licci, e i fili dell’ordito
tornavano per inerzia, sotto l’azione dei pesi, alla
posizione di partenza. Si formava così un altro
passo, che incrociava la trama, la quale veniva
subito compattata ed eguagliata dal tessitore
mediante l’ausilio di un pettine di legno o di osso,
mosso dal basso verso l’alto. Operando
alternatamente e in successione, egli andava via
Schema base di funzionamento del telaio
verticale a pesi
3
via creando il tessuto, che cominciava a formarsi dall’alto, a partire dalla traversa
superiore, verso il basso.
Con questo telaio di tipo arcaico si poteva tessere solo fino a una certa distanza
dai pesi, per cui i manufatti realizzati avevano dimensioni ridotte e i loro fili,
proprio a causa dei pesi, non dovevano essere troppo sottili.
b) Telaio verticale evoluto
Comparso in epoca storica e tuttora
diffuso nell’Africa settentrionale e nel
vicino e medio Oriente per la produzione
di tappeti e altri tessuti pregiati, non
necessariamente di lana, risulta
tecnicamente più avanzato rispetto al
precedente. La tensione dei fili d’ordito
era assicurata con il tiraggio tra il subbio
mobile installato nella parte superiore del
telaio e intorno al quale veniva avvolta la
quantità desiderata di ordito e il
subbiello, anch’esso mobile, allocato nella
parte inferiore, sul quale si arrotolava di
volta in volta il tessuto prodotto. In tal
modo la tessitura si compiva dall’alto
verso il basso, con innegabile comodità
per l’operatore, che poteva starsene
seduto. Ma ciò che più conta è che la
nuova macchina consentiva di tessere
stoffe molto lunghe, indipendentemente
dalle sue dimensioni.
Salvo le ricorrenti pause per allentare
l’ordito e avvolgere il tessuto man mano
che si formava, ripristinando la giusta
tensione dei fili, le modalità operative di
tessitura restavano le stesse. Solo per la Telaio verticale tecnicamente più evoluto. Come si può
battitura o compattamento della trama notare, il tessuto viene confezionato in basso e avvolto
venne abbandonato il pettine e sostituito sul subbiello. L’attrezzo a forma di spada, appoggiato a
destra in primo piano, serve per battere e compattare la
con uno strumento di legno a forma di trama. Disegno da E. Crowfoot – F. – K. Staniland, Textiles and Clothing,
spada con lama smussata e arrotondata2. cit., pag. 21.
2.
2
ELISABETH CROWFOOT - FRANCES PRITCHARD - KAY STANILAND, Textiles and Clothing, C.1150-1450: Finds
from Medieval Excavations in London, Londra, 2001, pagg. 21-25.
3
PAOLO MALANIMA, I piedi di legno. Una macchina alle origini dell’industria medievale, Milano, 1988, pagg.
80-82; DOMINIQUE CARDON, op. cit., pagg. 400-416.
4
scavi archeologici compiuti nell’Europa orientale, dove sono stati portati alla luce
numerosi frammenti, che vengono fatti risalire al X secolo. Non sono certo la
5
II
TELAIO 5
6
c. Cassa. Parte oscillante del telaio, che serve a battere e a compattare più o meno
il filo della trama nel tessuto. Consta di due legni paralleli, posti l’uno al di sopra
dell’altro, saldamente connessi fra loro e distanti quanta è la larghezza del pettine
(m), che vi è inserito come in una cornice.
c1. Staggi della cassa. Sono due aste verticali di legno, innestate a un tondino di
ferro filettato (1), grazie al quale la cassa viene sospesa con un dado a galletto (2)
alle due traverse superiori, dove sono praticate delle tacche (3), che la fermano
nel punto dove il tessitore desidera. Esisteva anche un’altra versione, in cui gli
staggi erano direttamente saldati al porta cassa, una stanga orizzontale poggiante
sulle traverse superiori del telaio, in modo da girare su di sé ai due capi, che
fungono da perni. Anche in questo caso le due traverse hanno delle tacche
graduate, per regolare il posizionamento ottimale della cassa.
d. Coperchio. È il legno superiore della cassa, che viene impugnato con la mano
sinistra dal tessitore, per far muovere la cassa avanti e indietro, serrando la
trama contro il pettine.
e. Guscio. Così è comunemente chiamato il legno inferiore della cassa,
anteriormente sagomato in modo da formare un piano sul quale poggiano i fili
dell’ordito quando si abbassano e lungo il quale scorre la navetta che trasporta la
trama.
f. Piano di scorrimento della navetta e di appoggio dei fili dell’ordito, già
descritto alla lettera (e).
g. Verga di ferro che funge da sostegno alla squadra o croccia (h). Montata su
ciascuna delle due estremità del coperchio della cassa, è sagomata in modo da
consentire lo scorrimento e l’arresto nei due sensi della squadra corrispondente,
che spinge la navetta lungo il piano di scorrimento (f).
h. Squadra. Ferro sagomato a L, che scorre lungo la verga. Sul lato più corto è
inserito il battente (i).
i. Battente. Piccolo pezzo di legno montato sulla squadra, dal quale la navetta
viene spinta in avanti ad ogni comando del tessitore e contro il quale si arresta
dopo aver percorso la larghezza della tela.
k. Navetta o spola. Arnese di legno o, raramente, d’altro materiale, foggiato in
forma di navicella, mediante il quale, durante la tessitura, il filo della trama si fa
passare fra quelli dell’ordito. I fianchi, detti guance (1), si riuniscono in punta
ottusa alle due estremità (2). Per facilitare lo scorrimento, la parte inferiore e la
guancia a contatto col pettine sono provvisti di rotelle (5-6). Entro la sua cavità,
detta borsa (3), è infisso il fusello o spoletto (4), supporto di ferro sul quale viene
7
infilzato il cannello o spolino pieno di filo di trama, che in genere ha forma
conica. Svolgendosi dal cannello, il filo passa su un piccolo tamburo girevole di
legno (7 ), per poi uscire attraverso la maglietta (8), piccolo foro praticato sulla
guancia della navetta opposta al pettine (v. particolare). In alcuni tipi di navetta,
fa la funzione del tamburo, un ferretto a forma uncinata, chiamato gancino.
Nonostante l’invenzione della navetta volante, in alcune zone rurali, ancora nel
secolo XIX, si continuava a tessere alla vecchia maniera, con una produttività
decisamente bassa.
l. Cordicella con i capi collegati a ciascuno dei due battenti. Tirandola
alternatamente, prima in un senso poi nell’altro, il tessitore fa passare la navetta
da destra a sinistra e da sinistra a destra della tela.
m. Pettine. Organo del telaio consistente in una serie di qualche centinaio di
lamelle o stecchine, sottili, parallele e vicinissime, ognuna formata da due bucce
solitamente di canna (Arundo donax), unite e combacianti dalla parte interna, e
fatta passare in una filiera, per essere ridotta allo stesso calibro. Fra ciascuna di
queste lamelle, chiamate denti, dalla superficie esterna molto liscia, qual è
appunto quella della canna, passava uno dei fili dell’ordito. Ogni dente, poi, era
inserito entro apposite scanalature, praticate, in alto e in basso, sui due listelli
orizzontali di un telaio di legno, e fermato a ciascun capo mediante un giro di
8
spago incatramato o impeciato, che garantiva anche una spaziatura regolare fra i
denti stessi.
n. Manichetto. Corto cilindro di legno collegato ad una corda, le cui estremità
erano a loro volta fissate al battente di ciascuna delle due opposte squadre. Il
tessitore impugnava il manichetto per lanciare la navetta da un capo all’altro
della tela.
o. Maestrella o porta licci. Cantinella di legno appoggiata alle due traverse
superiori del telaio o sospesa ad esse, che serve a sostenere una o due girelle (s),
su ciascuna delle quali scorre una corda (t ) collegata a due licci (R).
p. Scorritoio. Asse di legno tagliato a squadra, dove è praticata un’apertura nel
senso della lunghezza, attraverso la quale passa e scorre il tessuto, avvolgendosi
al subbiello o carretta (y).
q. Subbio. Cilindro di legno che attraversa in senso orizzontale la parte posteriore
del telaio ed è allogato alle due traverse di mezzo in modo da poter girare su se
stesso nell’uno e nell’altro senso, perché l’ordito possa prima avvolgersi nel corso
dell’insubbiatura e poi svolgersi durante la tessitura.
r. Liccioli. Stecche parallele di legno che delimitano la parte superiore e inferiore
di ciascun liccio (R ). I liccioli inferiori sono collegati mediante una cordicella alla
corrispondente calcola (v). Quelli superiori, invece, sono legati a due a due a
ciascun capo di un’unica cordicella (t ), che passa per la gola della girella (s)
appesa alla maestrella (o).
R. Licci o lame. Serie di fili di spago tutti della stessa dimensione, saldati ai
liccioli (r) e pendenti tra il subbio (q) e il pettine (m), ma più vicini a questo,
ciascuno provvisto di una piccola asola, detta staffa, posta nella metà della sua
lunghezza, attraverso la quale passa un filo dell’ordito. La loro funzione è quella
di rialzare alternatamente una parte dei fili della tela. In epoca più recente (fine
del sec. XIX - inizi del XX) i licci vennero realizzati in filo di ferro molto sottile.
s. Girella. Le sue funzioni sono già state ampiamente illustrate alle lettere o - r.
t. Corda che passa per la gola della girella ed è collegata ai liccioli superiori.
u. Maniccia entro la quale è innestato il perno della girella.
v. Calcola. Regoli di legno in numero pari ai licci montati sul telaio. Sono
imperniati, ad uno dei capi, in una chiavarda fissata nella traversa anteriore e
inferiore del telaio, mentre dall’altro sono attaccati ad uno dei liccioli inferiori.
Premendo alternatamente coi piedi l’una o l’altra calcola, il tessitore fa alzare
l’uno o l’altro liccio collegato, così che i corrispondenti fili dell’ordito si aprono in
modo alternato, consentendo al filo della trama, condotto dalla spola o navetta, di
passare attraverso l’apertura angolare così formata.
x. Panchetta o banco. Asse sulla quale sta appoggiato, più che seduto, il
tessitore al lavoro, così da avere piena libertà e forza nelle gambe per azionare con
i piedi le calcole (v).
y. Subbiello o carretta. Specie di subbio collocato in basso nella parte anteriore
del telaio, sul quale si va man mano avvolgendo il tessuto.
z. Stella. Ruota dentata, di legno o anche di ferro, montata ad un capo del
subbiello o carretta (y), per tendere e mantenere tesi l’ordito e il tessuto,
mediante l’avvolgimento di questo sul subbiello stesso, che viene poi bloccato da
una piccola leva, detta cagna o cane, imperniata ad un capo sul brancale
9
anteriore destro del telaio, in prossimità della stella, nei cui denti ricurvi imbocca
con l’altro capo tagliato a scalpello.
&. Piccolo pezzo di legno montato, a guisa di corridoio, sul piano di scorrimento
della navetta (f ), a ciascuna estremità della cassa (c), in corrispondenza del
battente (i ), con la parte interna vagamente sagomata ad S. Ha due fori W1 e W2,
attraverso i quali passano due punte di ferro che lo fissano al piano di
scorrimento (f ). Il primo ha lo stesso diametro della punta di ferro che lo
attraversa, il secondo è più largo, in modo da consentire al pezzo stesso piccole
oscillazioni in senso orizzontale pari al diametro del foro stesso. Quando la
navetta arriva dall’altro capo della tela, giunge agevolmente fino al foro W1; ma
proseguendo urta una specie di gobba praticata sul pezzo di legno &, che è
costretto a divaricarsi tanto quanto lo consente il diametro del foro W2.
Contemporaneamente, la sua parte iniziale, facendo perno in W1, si serra sulla
parte rastremata della navetta, impedendo a quest’ultima di rinculare, quando
nella sua corsa è arrivata contro il battente (i ).
10
III
FASI DELLA TESSITURA
Insubbiatura, operazione che consisteva nell’avvolgere l’ordito o catena sul
subbio. Erano necessari almeno due operai, posizionati dietro il telaio. In primo
luogo essi facevano passare l’ordito ben disteso sulla traversa posteriore alta e
successivamente sulla corrispondente traversa anteriore. Utilizzando una specie
di rastrello chiuso sopra e sotto, con un numero di denti pari a quello delle mezze
portate o, più raramente, delle portate intere, e distanti l’uno dall’altro in
proporzione alla larghezza dell’ordito, distribuivano quest’ultimo in ragione di una
mezza portata o di una portata intera per ogni spazio fra dente e dente.
a. Denti del rastrello (fra i loro intervalli si distribuivano le singole mezze portate o anche le
portate intere dell’ordito).
b. Parte superiore rimovibile.
c. Cavicchi o viti per fissare all’intelaiatura del rastrello la barra superiore (b).
a. Subbio.
b. Canale: scanalatura nella quale si inserisce la bacchetta per bloccare l’ordito al subbio.
c. Fori per accogliere i pioli con i quali si fa girare manualmente il subbio su se stesso.
6
Cfr. HENRI LOUIS DUHAMEL DU MONCEAU, op. cit., pagg. 84-87.
7
Cfr. FRANCESCO GRISELINI - MARCO FASSADONI, Dizionario delle arti e de’ mestieri, Venezia, 1768-1773, vol.
V, pagg. 278-279.
11
Una volta che l’ordito o catena era stato montato e avvolto sul subbio, si
toglieva il rastrello, semplicemente levando la barra superiore, fissata solo alle
due estremità. Si infilavano, quindi, nell’incrocicchiatura delle singole portate, in
sostituzione dei legacci che ne garantivano la tenuta, due lunghe pertiche
levigate, che venivano a loro volta fissate con spago alle due traverse di mezzo del
telaio. Questa operazione faceva sì che tutti i fili dell’ordito mantenessero
l’incrocicchiatura originaria.
Terminata così la fase preparatoria, iniziava l’incorsatura vera e propria,
durante la quale i fili venivano fatti passare attraverso i licci, pendenti l’uno
vicino all’altro dall’alto del telaio, in posizione ortogonale rispetto all’ordito. Nelle
staffe del primo liccio si introducevano, l’uno di seguito all’altro, i fili dispari, che
poggiavano sopra la pertica separatrice più vicina e in quelle del secondo i fili pari
sottostanti, mantenendo esattamente l’ordine col quale erano stati orditi. Questo
nei telai a due soli licci. Negli altri l’incorsatura risultava più complessa e l’ordine
di inserimento dei fili era in relazione al tipo di armatura che si voleva dare al
tessuto. Sempre mantenendo l’ordine sopra descritto, i fili venivano poi fatti
passare attraverso il pettine, due per ogni dente, e quindi raccolti a piccoli mazzi
e annodati. Ciò fatto, si infilavano sopra una bacchetta, lunga quanto l’altezza del
tessuto, che veniva a sua volta assicurata al subbiello mediante cordicelle legate
ad essa in più punti. Bastava allora agire sul subbiello, perché l’ordito e il tessuto
fossero portati uniformemente al grado di tensione ottimale.
Insubbiatura e incorsatura dell’ordito, due importanti e delicate fasi preliminari alla tessitura
vera e propria.
Incisione da HENRI LOUIS DUHAMEL DU MONCEAU, Art de la draperie, tav. IV.
L’incorsatura non si effettuava tutte le volte che si dava inizio ad una nuova
pezza, ma solo quando mutava l’armatura del tessuto o cambiava il numero delle
portate. Se si continuava a tessere lo stesso tipo di panno, allorché l’ordito era
giunto alla fine, i capi dei fili si lasciavano infilati così com’erano nelle staffe dei
licci e nei denti del pettine, per essere poi annodati ad uno ad uno con quelli del
nuovo ordito. Occorreva comunque prestare la massima attenzione a non
12
annodare i fili dispari con i fili pari o viceversa e a mantenere l’ordine di
ciascuno8.
Tessitori al lavoro: il primo (a) è ritratto di fronte, il secondo (b) di spalle. Operano su telai per panni bassi del tipo più
antico, sprovvisti di navetta volante. (Incisione dall’Encyclopédie di Diderot – d’Alambert, 1751-1780).
13
operazione che richiedeva l’intervento combinato di due operatori, quando il
tessuto era alto.
Ogni volta che tirava a sé la cassa, il tessitore batteva la trama comprimendola
e raddrizzandola, così che, a seconda dei colpi dati col pettine, il tessuto risultava
più o meno battuto, cioè compatto. In genere i pannilani comuni venivano battuti
a quattro colpi, quelli fini a nove e quelli alti o doppi a 15 ed anche più 10.
Per mantenere ben disteso il tessuto, nel senso della sua larghezza, in modo
che non si raggrinzasse e il pettine svolgesse meglio la sua funzione di pareggiare
i fili della trama, egli si serviva di un dispositivo molto ingegnoso, chiamato
tempiale o tentella. Questo era una sorta di regolo costituito da due stecche di
legno parallele, scorrenti sullo stesso piano l’una contro l’altra. La prima era
munita di tacche, che consentivano di bloccare, con l’ausilio di una cordicella,
l’allungamen-to delle stecche in funzione dell’altezza del panno da tessere. Le
estremità del tempiale, poi, erano munite di punte di ferro, che venivano piantate
nelle due cimosse (v. ill.)11.
TEMPIALE
a. Stecca superiore dentata.
b. Stecca inferiore.
c. Dentatura graduata.
d. Spaghetti per tenere unite le stecche.
e. Cordicella trasversale per bloccare l’allun-
gamento del tempiale, passando per il fo-
ro praticato nella stecca inferiore ed anco-
randosi ad un dente della stecca superiore.
f. Foro praticato nella stecca inferiore.
g. Uncini da piantare nelle due cimosse del
tessuto.
Quando sul telaio si era accumulata una quantità di tessuto tale da riempire il
piano di lavoro, il tessitore faceva spazio avvolgendo sul subbiello la parte
eccedente.
Natura e funzione della cimossa. Per cimossa o cimosa si intende ciascuna delle
due bordure laterali di un tessuto in pezza 12. Poiché questa parte è soggetta a
maggiore attrito, a causa dei ripetuti passaggi della navetta ad ogni ritorno della
trama, deve giocoforza essere realizzata con fili d’ordito più resistenti e spesso più
grossi degli altri. Inoltre, durante le varie fasi di apparecchiatura del tessuto, e in
particolare del pannolano, è soprattutto la cimossa che deve sopportare gli sforzi
maggiori. Basti pensare alla tiratura in chiodera o sul banco del cimatore. Perciò
la sua armatura, indipendentemente dal resto del tessuto, è di solito quella della
tela, che risulta più legata e compatta.
In passato l’ordito della cimossa dei pannilani si preparava con fili di lana
sottoposti a maggiore torcitura e solitamente ad addoppiatura 13. La qualità aveva
un peso secondario: ciò che importava era la lunghezza e la resistenza della fibra.
10
Ibid., pag. 284.
11
Cfr. HENRI LOUIS DUHAMEL DU MONCEAU, Art de la draperie, principalement pour ce qui regarde les draps
fins, in Descriptions des arts et métiers, vol. VII, Neuchatel, 1777, pag. 83. Le illustrazioni sono tratte da l’En-
cyclopédie, ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers, Livourne, 1770-1778.
12
Il termine è specifico per i panni di lana o di seta. Per le tele di cotone o di lino, invece, si usa quello più
specifico di vivagno, anche se l’uno e l’altro sono spesso adoperati come sinonimi. Cfr. GIACINTO CARENA,
Vocabolario italiano d’arti e mestieri, cit., pag. 330.
13
Cfr. SILVANA ANNA BIANCHI, Il lanificio veronese fra XIII e XIV secolo: strutture organizzative, tecniche,
prodotti, in Giuliana Ericani – Paola Frattaroli, Tessuti nel Veneto. Venezia e la Terraferma, Verona, 1993,
pag. 70.
14
Per questo in alcune località si utilizzava anche pelo di capra o, meglio ancora, di
becco, che aveva il pregio di ritirarsi di meno durante la follatura; infine, ma più
raramente, pelo di mucca14. Nei panni più fini e pregiati si ricorreva alla seta o al
lino; in quelli più grossolani anche alla canapa. Nella produzione dei pannilani,
l’utilizzo di altre fibre per i fili d’ordito della cimossa non rientrava nella tradizione
laniera della Val Gandino. Materie prime come la canapa, il lino e la seta non
ricevono affatto la follatura; mentre al follo il pelo di capra o di mucca risponde in
modo diverso da quello di pecora. Il loro impiego, perciò, è possibile solo per i
panni destinati a una follatura leggera o a non essere follati affatto. In caso
contrario si avrebbe una cimossa o moscia o raggrinzita rispetto al resto del
tessuto. Gli stessi fili di lana, poi, più sono torti meno si lasciano follare. Per
ovviare all’inconveniente, si disponevano i fili delle cimosse su due piccoli subbi
supplementari, disposti ai lati del telaio, sottoponendoli a maggiore tensione
rispetto al resto dell’ordito, il quale ritirandosi di più in fase di follatura, tendeva
ad uniformarsi alle cimosse stesse. Anche questo accorgimento tecnico non
risulta adottato dai lanieri valgandinesi.
Quella descritta è la cosiddetta cimossa piana, dello spessore di circa un dito.
Esisteva anche la cimossa rotonda, praticamente ridotta ad una cordicella di lana
o d’altra fibra, molto robusta e resistente. A Verona, una norma statutaria del
1371 prescriveva quest’ultima per i panni alti a tre licci, in modo da distinguerli
immediatamente da quelli a quattro licci, a cimossa piana 15.
Non di rado l’inizio e la fine di una pezza di panno era segnata da una riga o
striscia di tessuto, detta tirella, che si eseguiva utilizzando un filo di trama di
diverso colore. Essa serviva da limite originario, dal momento che la lunghezza
dell’intero panno sarebbe variata nel corso dell’apparecchiatura.
Terminata una pezza, il tessitore ne iniziava un’altra, lasciando fra le due una
striscia più o meno larga di ordito non tessuto, chiamata penero o penerata,
lungo la quale egli tagliava la pezza stessa per toglierla dal telaio 16.
14
Cfr. HENRI LOUIS DUHAMEL DU MONCEAU, Art de la draperie, cit., pagg. 87-88.
15
Cfr. SILVANA ANNA BIANCHI, Il lanificio veronese, cit., pag. 70; Rossini-Mazzoui, [II], p. 601.
16
Cfr. GIACINTO CARENA, Vocabolario italiano d’arti e mestieri, loco cit.
15
IV
RIFINITURA DEI PANNILANI
prima dizzeccolatura17/riveditura o curatura in grasso, operazione di
controllo sulla pezza di pannolano avente lo scopo di eliminare eventuali
imperfezioni. Collocato il tessuto su una tavola inclinata, gli operai addetti,
chiamati riveditori18, lo raschiavano con coltelli a taglio quadro e con pinzette o
mollette di ferro, frugando con le mani alla ricerca di pagliuzze o altre sporcizie
che vi fossero rimaste durante la tessitura, e soprattutto di nodi e fili volanti, che
eliminavano recidendoli. Durante tale operazione occorreva prestare la massima
attenzione a non tirare i fili dell’ordito, che non possono restare spezzati o
spiantati con il rischio di provocare dei buchi nei panni 19.
17
Da dizzeccolare o dizeccolare, levare gli zeccoli, cioè i grumi di lana non ben pettinata. Cfr. SALVATORE
BATTAGLIA, Grande dizionario della lingua italiana, Torino, 1961-2004, alle voci. Il termine era anche usato,
ma impropriamente, per indicare analoga operazione effettuata sulla lana.
18
In genere erano donne, fanciulle e ragazzini appositamente addestrati. Cfr. FRANCESCO GRISELINI -
MARCO FASSADONI, Dizionario delle arti e de’ mestieri, Venezia, 1768-1773, vol. V, pag. 293.
19
«Dopo che i panni saranno stati curati, convien avere grande attenzione di distenderli sopra le pertiche,
qualora non si mandino subito al follo, imperocché il miscuglio dell’olio della pettinatura, della colla e
dell’acqua, che servì a umettare lo stame, li farebbe riscaldare ed imputridire se non si distendessero per farli
asciuttare» (Ibid., pag. 294).
20
Con il termine purgo si indicava sia l’operazione di purgare i pannilani sia il locale dove questa
avveniva. Questo veniva anche chiamato purgatoio.
21
Vasca di pietra, posta sul davanti di ciascun ceppo e affondata nel terreno, nella quale è contenuto il
bagno. I ceppi sono una serie di vasche rettangolari o trogoli, a tre sole sponde, alte un uomo, con fondo di
pietra fortemente inclinato sul davanti privo di sponda, dove invece c’è la pila.
16
fine, può, poi, essere facilmente rimossa con acqua. L’argilla smettica è più nota
come terra da follone, pietra a staccare, terra del soldato, terra saponaria o,
semplicemente, saponaria.
Come sgrassante si utilizzava anche l’urina, la quale però tende ad indurire la
lana dei panni. Perciò vi si faceva ricorso solo nelle stagioni in cui gli oli
fermentano, con la conseguenza che non si riesce ad eliminarli perfettamente dai
pannilani col solo sapone o con la sola terra da follone 22.
Da notare che nel secolo XVIII erano già largamente impiegati i molini o folli da
purgo, macchine grazie alle quali la purgatura dei pannilani riusciva più veloce e
meno faticosa23. Erano simili a molini da follare o folli veri e propri, ma con i
manici dei magli disposti orizzontalmente, invece che perpendicolarmente, e con
le pile aperte24.
MOLINO DA PURGO
A. La cosiddetta torre, ovvero supporto
dove stanno adattate le estremità dei
manici dei magli.
B. Trave che serve da traversa, per unire e
saldare le due parti della macchina.
c. Manici dei magli.
d. Magli.
e. Pila.
f. Chiusure che trattengono i magli, impe-
dendo che oscillino.
g. Albero.
h. Camme o eminenze, che fanno
innalzare i magli.
i. Sella che sorregge il perno dell’albero.
k. Perno dell’albero.
22
«È stato osservato, che verso i mesi di Febbraio e di Marzo, tempi in cui gli ulivi entrano nel loro
succhio, e nei mesi di Luglio e di Agosto, ove i caldi sono gagliardi, ed ove gli oli fermentano, eglino sono
maggiormente tenaci ne’ panni medesimi ...» (Ibid., pagg. 298-299).
23
È questo del resto l’unico sistema descritto dal Griselini nel suo Dizionario delle arti e de’ mestieri. Cfr.
Ibid., pagg. 294-297.
24
Ibid. pag. 300.
17
opportunamente distanziate, mentre i riveditori si ponevano nell’intervallo fra le
due porzioni di tessuto, esaminando il tessuto controluce 25.
follatura/sodatura/gualcatura, operazione con la quale, mediante acqua,
argilla, sapone e altro, e con l’ausilio di ripetute percussioni, si soda il pannolano,
col risultato che il tessuto acquista maggior corpo e diventava più sodo. I fili che
compongono il tessuto, bagnato con acqua calda, intriso di sapone e manipolato
(battuto, sfregato, pressato), si infeltriscono, grazie a processi meccanici e
chimici, per cui le piccole intercapedini presenti nei punti di intersezione tra
l’ordito e la trama si chiudono. La loro legatura è data dalla compenetrazione
delle microscopiche squame corticali che rivestono la superficie dei peli. Processo
progressivo e
irreversibile, la
follatura può
essere
applicata a
tutti i tipi di
tessuto
realizzati con la-
na o con altri
filati contenenti
pe-lo (mohair26,
alpaca27,
Schizzo di monumento funerario Incisione anonima del 1770 raffigurante un particolare cashmere28).
romano dedicato a un follone sistema di follatura ancora usato in Scozia nel XIX sec.
Già al tempo
dei Romani era in funzione una piccola industria che in apposite officine, le
fullonicae, provvedeva all’operazione di follatura. Le pezze tessute venivano messe
a bagno in grandi vasche piene d'acqua calda cui era stata aggiunta della creta,
25
Ibid., pag. 299.
26
Il Mohair è un filato con caratteristiche simili alla seta, ricavato dal pelo della capra d'angora. La parola
mohair deriva dall'Arabo mukhayyar, che significa scelta (khayyara, ha scelto). Il vello, lungo e morbido,
viene rasato senza ferire l'animale e viene filato in modo diverso a seconda dell'età dell'animale da cui è
tratto, poiché con l'invecchiamento ne cambiano le caratteristiche. Il diametro del mohair varia tra 24 e 60
micron, a seconda dell'età dell'animale da cui è tratto. La lana di animali giovani è usata per i prodotti di
qualità maggiore (abbigliamento e parrucche), mentre quella dei più anziani, più spessa e resistente, viene
usata per i tappeti e per i tessuti resistenti. Il mohair è uno dei tipi di filato più antichi, e unisce
caratteristiche di resistenza e durevolezza ad un pregevole effetto lucido. Per le sue particolari proprietà
riflessive, viene spesso mescolato ad altri filati meno pregiati per migliorare la qualità del prodotto finito. Un
altro fattore che rende il mohair pregiato è l'attitudine ad essere tinto: la coloritura risulta uniforme e
resistente, ben radicata nella fibra.
27
Gli Alpaca sono originari degli inospitali altipiani andini del Cile, del Perù e della Bolivia. Sono animali
domestici da più di cinquemila anni: l'inizio dell'allevamento risale agli Inca, che tenevano in grande
considerazione il loro splendido pelo lucido, forte e caldo. Caldissima e anallergica tanto da poter essere
usata anche nell'abbigliamenti intimo dei neonati, la lana di Alpaca è rinomata per la sua leggerezza e la sua
setosità. Nelle sue caratteristiche troviamo una vasta gamma di colori naturali che vanno dal bianco puro al
fulvo, alla gamma del marrone, al grigio, al nero e gli sfumati. Infatti sono 22 i colori finora riconosciuti dalle
industrie tessili. Ogni capo produce circa 2,5 Kg per le femmine e circa 4 Kg per i maschi di lana all'anno; la
lana del “Cria” (il piccolo di Alpaca) è ancora più pregiata per la brillantezza e finezza della prima tosatura.
28
Il cashmere, kashmir è formato dal pelo della capra hircus, che vive nelle regioni montuose e dagli
altipiani dell’Asia. La mano del cashmere è morbida, setosa e vellutata, dà una sensazione calda e soffice. Ha
preso il suo nome dal Kashmir, provincia dell'India, da dove si esportò verso l'Europa sin dall'inizio del XIX
secolo. La parte più sottile e fine, chiamata duvet, è la peluria del sottomantello, cioè lo strato inferiore soffice e
lanoso; mentre la parte più grossa con peli rigidi e ruvidi proviene del mantello esterno ed è chiamata giarre.
Per raccoglierlo si esegue una pettinatura manuale del mantello durante la stagione della muta, che avviene in
primavera.
18
per essere battute coi piedi (saltus fullonicus) e sfregate e torte con le mani dagli
operai, in genere schiavi.
La follatura con i piedi era molto faticosa e comportava tempi di lavorazione
piuttosto lunghi. Ma nei secoli intorno al 1000 venne progressivamente introdotta
una macchina rivoluzionaria, la gualchiera o follo o follone o molino da follo 29, che
consentiva di eseguire la battitura dei tessuti di lana, anziché con i piedi, tramite
due pesanti magli di legno azionati dalla forza dell’acqua 30. In tal modo la
produttività del lavoro di follatura si accrebbe notevolmente e venne a cessare la
fatica disumana di quell’infima categoria di operai costituita dai follatori.
Nella follatura meccanica il tessuto veniva rinchiuso entro la pila, forte cassa di
legno con fondo incavato in figura semi ovale, nella quale si introducevano pezzi
di sapone e molta acqua, con l’aggiunta, a volte, di terra da follo o di orina. Prima
però il panno era stato piegato in due secondo la sua lunghezza, congiungendo le
cimosse, e ligiato31. Entravano quindi in azione due pesanti magli di legno con il
capo inferiore opportunamente sagomato a sguincio, sul quale erano intagliati a
scalare nel senso della larghezza cinque denti. In tal modo il panno, sotto i colpi
alternati dei magli, girava progressivamente su di sé, ricevendo una sodatura
uniforme. Le pile erano chiuse, affinché il tessuto, non avendo aria, si riscaldasse
più presto e venisse quindi follato con maggior facilità. Per la follatura si usava
sia acqua fredda sia acqua calda. Quest’ultima, però, era particolarmente
indicata per i panni destinati ad essere forti. La durata variava a seconda della
qualità del tessuto e del grado di sodatura che si voleva raggiungere. Quelli più
fini richiedevano, in genere, dalle 8 alle 10 ore, quelli di qualità media intorno alle
14 ore e quelli più grossi fino a 18 o 20 ore di gualchiera. Ogni due ore i panni
venivano estratti, per cancellarne le pieghe e arrestarne il restringimento. Al
29
Il termine gualchiera, follo, molino da follo indicava sia l’edificio dove si praticava la follatura sia la
macchina per follare.
30
Durante l’alto medioevo, in talune aree venne introdotto l’uso di mazze di legno per eseguire la
follatura. Anziché pestare il tessuto con i piedi, si cominciò a batterlo entro pile con attrezzi di legno azionati
a mano. È stata suggerita l’ipotesi che questo metodo intermedio sia stato introdotto dalle popolazioni
germaniche. Cfr. PAOLO MALANIMA, I piedi di legno. Una macchina alle origini dell’industria medievale, Milano,
1988, pagg. 23-24, che cita in proposito V. GERAMB, Ein Beitrag zur Geschichte der Walkerei, in “Worter und
Sachen”, XII, 1929, pagg. 38 e segg.
31
Ripiegato su di sé a pieghe alterne da destra a sinistra, come a ventaglio. Cfr. GIACINTO CARENA,
Vocabolario italiano d’arti e mestieri, Napoli, 1858, pagg. 341-342.
19
termine del procedimento si operava il risciacquo, immettendo in continuazione
acqua pulita nella pila, fino a quando non ne usciva chiara e limpida 32.
tiratura e asciugatura. Dopo le operazioni precedenti, il panno si presentava
sgualcito, più o meno ristretto33, irregolare nelle dimensioni, ondulato nei bordi,
oltre che bagnato. Andava perciò asciugato, stirato e reso di uguale lunghezza e
larghezza in tutta l’estensione della pezza. Per questo si metteva sulle ramate o
stenditoi o tiratoi, meglio conosciuti con il nome di chiodere (in Val Gandino,
ciodére).
Antiche chiodere a Gandino nella zona degli Opifici (da un disegno di Luigi Angelini)
Le chiodere erano grandi telai verticali di legno, lunghi e alti quanto le maggiori
pezze di panno, collocati sotto tettoie al riparo dalle intemperie e orientati in
modo da ricevere in modo ottimale il calore del sole 34. Ai due capi stavano i
capitagnoli, due pilastri, alti circa un uomo, saldamente impiantati nel suolo, e
Leva per
abbassare la
resta inferiore,
mobile
a. Capitagnoli o pilastri, rispettivamente di testa e di coda. b. Colonne o piantoni.
c. Resta o traversa superiore, fissa. d. Resta o traversa inferiore, mobile.
e. Rastrelli, quello di testa scorrevole, quello di coda fisso. f. Semicircolo di ferro, corredato di due uncini,
g. Girella sulla quale passa la corda durante l’operazione ai quali si attacca la testa della pezza.
di allungamento della pezza. h. Guide praticate nelle reste per consentire lo
scorrimento del rastrello mobile.
nello spazio fra l’uno e l’altro un congruo numero di colonne, staggi quadrangolari
32
FRANCESCO GRISELINI - MARCO FASSADONI, Dizionario delle arti e de’ mestieri, cit., pagg. 300-302.
33
Con la follatura le dimensioni del panno si riducevano del 10-15% in lunghezza e del 15-20% in
larghezza, talvolta perfino della metà. Dipendeva dalla qualità della lana, dal modo in cui era stata filata,
dalla durata del trattamento, dai tipi di reagenti utilizzati, dalla temperatura dell’acqua. Cfr. SILVANA ANNA
BIANCHI, Il lanificio veronese fra XIII e XIV secolo: strutture organizzative, tecniche, prodotti , in Giuliana Ericani
– Paola Frattaroli, Tessuti nel Veneto. Venezia e la Terraferma, Verona, 1993, pag. 76.
34
In Val Gandino i solai dei palazzi degli imprenditori lanieri erano spesso adibiti a ciodére.
20
o piantoni, inseriti a distanza regolare l’uno dall’altro e parimenti fermati sul
pavimento. Legavano il tutto le reste, due traverse orizzontali, una superiore,
fermamente intelaiata con le cime dei capitagnoli e delle colonne; l’altra inferiore,
mobile, in modo da potersi alzare e abbassare. Completavano la struttura due
stanghe lunghe quanto la larghezza (altezza) del panno, dette rastrelli. Uno dei
due rastrelli stava saldato in capo al primo capitagnolo, l’altro invece scorreva in
senso orizzontale fra le due reste entro apposite guide.
Il panno veniva attaccato per la cimossa ai chiodi ad uncino impiantati in gran
numero e a distanza regolare lungo le traverse di legno. La testa veniva fissata ai
chiodi del rastrello scorrevole e la coda a quelli del rastrello fisso. Il tessuto,
ancora umido, veniva tirato in lunghezza e in larghezza, mediante appositi
congegni, fino alla misura regolamentare, che asciugandosi manteneva 35.
Si iniziava con l’allungamento, reso possibile dal fatto che il rastrello scorrevole
era attaccato ad una corda, che passava per una girella e si tendeva girando una
ruota. Solo a questo punto gli operai addetti agganciavano le due cimosse della
pezza di pannolano ai chiodi della resta superiore e inferiore, staccando dai
rastrelli la testa e la coda, per procedere all’allargamento. A tal fine, facendo forza
con una sorta di leva36, spingevano in basso la traversa inferiore, mobile, e la
bloccavano, una volta raggiunta la misura, mediante caviglie di ferro infilate nei
fori praticati nella parte inferiore dei capitagnoli e delle colonne.
21
Tenendo disteso il tessuto, opportunamente inumidito, su due pertiche poste
ad altezza d’uomo, i garzatori impugnavano due garzelle e passavano
contemporaneamente il garzo dall’alto verso il basso, sul diritto con la mano
destra e sul rovescio con la sinistra. In tal modo le garzelle offrivano appoggio
l’una all’altra. Questo per i panni garzati sul diritto e sul rovescio, come ad
esempio i calmucchi, i peloni e i pelosoni. Negli altri casi si passava sul diritto del
panno solo la garzella impugnata con la mano destra, facendo continuato
appoggio sul rovescio col dorso dell’altra garzella. Si chiamava tratto di garzo ogni
nuova passata dello stesso su tutta la lunghezza della pezza; per cui si diceva
uno, due, tre, ecc. tratti di garzo. Si procedeva prima a cardo morto, cioè con
cardo già usato in precedenza, e poi a cardo vivo, cioè impiegato per la prima
volta, passando da un tratto moderato ad un tratto più appoggiato 39.
Fatta eccezione per i calmucchi, peloni e pelosoni, i panni cardati erano panni
a doppia faccia, lisci e lucidi da un lato, morbidi dall’altro. I mezzalana o misti,
come i santellari, erano garzati a parte plus lane, cioè sul diritto; quelli tuttalana
sul rovescio, a parte minus lane40.
I residui dell’operazione di cavare il pelo ai panni coi cardi prendevano il nome
di carzatura. Questa veniva recuperata e nuovamente filata per l’impiego in panni
di minor pregio.
In luogo della garzatura a mano, nel corso del Cinquecento venne introdotto
l’argagno41, strumento a uno o due tamburi coperti per tutta la loro superficie di
cardi. Girando per mezzo di una ruota dentata, mossa a mano o ad acqua, essi
garzavano la pezza di panno che veniva fatta passare in mezzo42.
Simile, ma distinta dalla garzatura, era l’accotonatura o rattinatura,
operazione di rifinitura che rendeva sollevato e crespo il pelo di certi panni che
39
«La gran cautela da prendersi è di non isfondrare il panno a forza di cercar di guernirlo, e di renderne
viloso il di fuori» (FRANCESCO GRISELINI - MARCO FASSADONI, Dizionario delle arti e de’ mestieri, cit., pag. 307).
40
Cfr. SILVANA ANNA BIANCHI, Il lanificio veronese fra XIII e XIV secolo: strutture organizzative, tecniche,
prodotti, cit., pag. 76. I termini a parte plus lane e a parte minus lane sono mutuati da LUIGI SIMEONI (a cura
di), Gli antichi statuti delle arti veronesi secondo la revisione scaligera del 1319, Venezia, 1914, pagg. 26 (st.
CXV, drappieri) e 116 (st. XXXV, garzatori).
41
Prende il nome di argagno anche il locale dove tale macchina è collocata (garzatoio, garzeria).
42
«Tutto l’inconveniente, che può nascere, è che, rompendosi o perdendo della loro forza le punte dei
cardi in alcuno dei siti, ove trovansi affissi su i rotoli, possa di qui rimanere malamente cardate le porzioni
della pezza del panno, che sopra i detti cardi spuntati o privi di forza sono costrette a trascorrere [...]»
(FRANCESCO GRISELINI - MARCO FASSADONI, Dizionario delle arti e de’ mestieri, cit., pag. 308).
22
non dovevano poi essere sottoposti a cimatura. Col nome di cottone si designava
la macchina adibita a tale scopo.
FORBICI DA CIMATORE
a. Coltello maschio.
b. Coltello femmina.
c. Calcagno del coltello. PARTICOLARE DEL MANICO
d. Punta del coltello.
a. Palmello attraversato da un foro.
e. Costola.
b. Supporto per agganciare il palmello al-
f. Gamba.
la costola del coltello femmina.
g. Anello.
c. Vite con galletto.
h. Manico (v. particolare).
d. Cordicella tesa.
i. impugnatura.
e. Martelletto.
f. Testa del martelletto.
g. Manico del martelletto.
h. Intaccatura longitudinale praticata nel-
la testa del martelletto.
Disteso il panno su una robusta tavola, coperta di grossa tela di canapa, bene
imbottita di cimatura, e fermatolo con l’ausilio degli uncinelli45, il cimatore
impugnava con ambo le mani le forbici, che passava sopra tutta la superficie del
tessuto, tagliando il pelo di lunghezza irregolare e con ciò livellandolo. In termine
tecnico si diceva che il cimatore lavorava in prima via.
Dopo di che gli dava una seconda garzatura, cioè lo rigarzava, servendosi però
soltanto di cardi un po’ più robusti di quelli usati precedentemente. Il panno
43
«Coltello maschio, quello il cui taglio, nello stringere, monta sopra il taglio dell’altro coltello. Coltello
femmina, quello il cui taglio è sormontato da quello dell’altro coltello. Esso è posto di piano sul panno, ed
aggravato di un piombo» (GIACINTO CARENA, Vocabolario italiano d’arti e mestieri, cit., pag. 345).
44
Si chiamava punta la parte superiore del taglio e calcagno quella inferiore. Cfr. ibid., loco cit.
45
«Pezzetti di lamina di ferro, con due punte adunche a ciascun capo, una delle quali si pianta
nell’imbottitura della tavola, l’altra nel panno, sì che stia ben teso» (ibid., pag. 343).
23
veniva quindi rimesso nuovamente al cimatore, che
lo lavorava di ripassata, e dopo essere andato ancora
una volta dal garzatore, ritornava per ultimo dal
cimatore, che lo finiva con l’affinatura46. Per rialzare
il pelo e agevolarne il taglio, si utilizzava la
rimorsetta, pezzo di lamiera a forma di mezzo disco,
dentato sul lato retto (quello che si passava sul
tessuto). Nella cimatura dei tessuti più fini era
sostituita dalle pettinelle o piane, assicelle munite di
impugnatura, con la parte a contatto del panno
rivestita di minuti chiodi metallici o di uno strato di
sabbia, limatura di ferro e di vetro fissato con colla.
In seguito a tutti questi passaggi la pezza di
pannolano perdeva mediamente una libbra di peso
(0,81 kg), che finiva in tondella47.
uncinelli
pettinelle
46
I tre passaggi indicati sono solo indicativi. Non esisteva un numero fisso di garzature e cimature,
dipendendo queste dalla qualità del panno. Cfr. ibid., pag. 309.
47
Dicesi tondella o anche cimatura quella specie di borra che la forbice recide dal panno nel cimarlo. Cfr.
GIACINTO CARENA, Vocabolario italiano d’arti e mestieri, cit., pag. 342.
24
rivestita di uno strato di resina, argilla e limatura macinati sulla pietra. Applicata
fino a cinque o sei volte sulla superficie cimata della pezza di pannolano, attirava
a sé ogni benché minimo corpuscolo.
lustratura, operazione con la quale si dava il lustro ai panni con lo strettoio o
torchio, mediante i cartoni e le soppresse, e con l’aiuto del calore. Si iniziava
ligiando il panno, cioè ripiegandolo su di sé in pieghe quadrate e alternate a
destra e a sinistra. Quindi lo si incartonava, cioè si interponevano cartoni lisci fra
ogni ripiegatura. Al panno così ripiegato e incartonato si sovrapponevano le
soppresse, robuste asse di legno, sopra le quali si collocava la lastra, grossa
48
«Macchina che strigne per forza di vite, mossa da una stanga» (ibid., pag. 345). A Verona e a Vicenza lo
strettoio si chiamava “torceto per soppressare i panni” o più semplicemente “soppressa”.
49
«Grossa e lunga spazzola di setole, colla quale si dà nella calmuccatura l’acqua di gomma ai panni»
(ibid., loco cit.).
50
Soluzione di gomma arabica o di gomma adragante.
25
tenuto teso mediante le morse51 su una tavola imbottita, e poi asciugato col ferro52
caldo.
messa in pieghe, è la piegatura finale che, con l’ultima strettoiata, si dà al panno
prima di metterlo in commercio.
51
«Così chiamano, per somiglianza di ufficio più che di figura, due regoli di legno, fra i quali è presa la
testa del panno, serrati l’uno contro l’altro per mezzo di due viti, che sono in capo della tavola. Una forte
intaccatura longitudinale in essi regoli impedisce vie più il panno dallo scorrer via dalle morse» (ibid., loco
cit.).
52
«Pesantissima piastra di ferro, larga un palmo, grossa circa un pollice, lunga quanto è largo il panno: il
ferro ha due grossi manichi pure di ferro, fasciati di cenci, per non iscottarsi le mani i due lavoranti che, uno
per parte della tavola, lo fanno scorrere caldissimo sul panno, nel verso del pelo, per rasciugarlo dall’acqua di
gomme, e dargli il lustro. Al ferro usasi dare un poco di cera, perché meglio sgusci, come fa appunto la
stiratora delle biancherie. Il ferro si passa due volte per ogni tavolata» (ibid., loco cit.).
26