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istituto italiano per gli studi filosofici

saggi
3
Giulio Gisondi

«PROFONDA MAGIA»
Vincolo, natura e politica in Giordano Bruno

prefazione di Fabrizio Lomonaco

Istituto Italiano per gli Studi Filosofici Press


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isbn 978-88-97820-32-1 (versione elettronica nel formato PDF)

Printed in Italy – Stampato in Italia


Indice

Prefazione9
Abbreviazioni13
Introduzione21
Ringraziamenti31

I. δεσμος συνδεσμος, vinculum nexus.


appunti per una storia terminologica
e concettuale 33
1. Il vinculum tra magia, ontologia e cosmologia 33
2. Δεσμός, σύνδεσμος. Prigioni dell’anima,
catene dell’essere, legami del cosmo  40
3. Vinculum, nexus. Catene del debito,
vincoli di perfezione, nodi d’amore 46
4. Tra teologia e filosofia naturale.
Alle origini della nozione bruniana di vinculum e nexus  57
5. Problemi di metodo e di lessico
nella formazione del giovane Bruno  61
6. «Spiritus intus alit».
Su di un adagio virgiliano tra teologia e filosofia 71
II. dalla philosophia occulta alla phisyca magica 77
1. Il ricorso di Bruno alla magia prima del De magia 77
2. Fides e Credulitas:
il «primum fundamentum universae unionis» 84
3. Magia, fides, contractio e imaginatio.
Elementi teorici del Sigillus Sigillorum nel De magia89
4. Imaginatio attiva e passiva tra il Sigillus e il De magia.
Agire ed essere agiti 94
5. Scala naturae e sapientia triceps
6. Spiritus seu anima: il presupposto formale della magia naturale 106
7. La fisica del De magia: il problema del vacuum,
dell’aether e del motus continuus111
8. Motus naturalis e praeternaturalis:
per una fisica dei vincula e delle attractiones 116
9. Dalle qualità occulte alla physica magica 122
10. Tra fisica e magia: il vinculum tra dissolubilità
e indissolubilità dei mondi 125

III. vinculum nexus nella relazione


tra unità e molteplicità 137
1. David de Dinant: la riscoperta di una filosofia in oblio 141
2. La ricezione scolastica di David de Dinant:
da Alberto a Tommaso 147
3. Forme neoplatoniche della ricezione di David de Dinant:
da Cusano a Ficino 152
4. Ontologia e magia tra il De la causa e il De vinculis157
5. Unità e legame tra il Sigillus e il De la causa:
«unam simplicem radicem» 162
6. L’antiqua vera philosophia nel ciclo della vicissitudine 165
7. Essere e natura nella critica di Aristotele agli antiqui philosophi169
8. Fisica, metafisica e filosofia naturale. Essere e natura 171
9. La riscoperta delle filosofie presocratiche.
Prima e oltre Aristotele 176
10. Eraclito e Parmenide nella nolana filosofia 180
11. «Deus et hyle et mens una sola substantia sunt» 184
IV. «potentia et actus utriusque nexus».
unità e vincolo di materia e forma 187
1. Cosa mostra un certo arabo chiamato Avicebron 187
2. Necessità di due generi di sostanza:
«l’uno che è forma, l’altro che è materia» 190
3. «In che modo al fine qualche logica intenzione
viene ad esser posta principio di cose naturali» 194
4. La materia come potenza e la materia come soggetto.
Il ricorso a Cusano 197
5. «Il primo et ottimo principio» come identità di potenza e atto 200
6. Filosofia naturale e vera teologia:
«diversi modi di diffinire della divinità» 205
7. «Potentia et actus utriusque nexus».
Vinculum e nexus di materia e forma 209
8. La materia come soggetto 213
9. La filosofia naturale nella considerazione dialettica
della materia e della forma 216

V. il vinculum amoris
tra filosofia naturale e politica 225
1. Il De vinculis nel contesto degli scritti magici 225
2. Dalla filosofia naturale alla riflessione antropologica e politica 230
3. Il vinculum Cupidinis tra i Furori e il De vinculis:
poesia, verità e caccia filosofica 234
4. Dalla critica del bello platonico
alla relatività del sentimento d’amore  249
5. Appetitus e Cognitio: le ragioni universali del vincire 254
6. Gerarchia dei vincula e degli amori superiori e inferiori 261
7. Dall’indeterminatezza del desiderio
alla determinazione antropologica 265
8. De vinciente in genere: coloro che vincolano 269
9. Reciprocità del vincolo:
il modello della relazione tra materia e forma 274
10. De vincibilibus in genere: coloro che sono vincolabili 276
11. Il vincolo dell’immaginazione 284
12. Dal vinculum amoris al vinculum civile286
e religio. dal vinculum amoris
VI. lex
al vinculum civile 291
1. Ontologia e politica nello Spaccio291
2. Unità, pace e contrarietade 295
3. Immagini della Verità, della Sofia
e della Legge tra la Cena e lo Spaccio 299
4. La religio come vinculum civile307
5. Religio civilis e machiavellismo 312
6. Re-ligare e re-legare: la falsa religio dei riformati 320
7. Dalla critica dei riformati a quella dei Conquistadores:
sintomi della crisi europea dalla Cena allo Spaccio328
8. Ozio e fatica.
Dalla critica dell’età dell’oro all’elogio del lavoro 337
9. Mano e intelletto.
Unicità dell’uomo e manipolazione della natura 342
10 Rivoluzione sempiterna e metempsicosi delle anime 347
11 Dal vincolo della legge al vinculum amoris.
Natura, magia e politica 349
12. Dal vinculum amoris al vinculum civile.
Politica, immaginazione e sovranità 357

Conclusioni 369

Indice dei nomi 375


Prefazione

Questo studio di Giulio Gisondi nasce da una serie di ricerche coor-


dinate e attentamente perseguite da borsista negli anni di post-dottorato
presso l’Istituto italiano per gli studi storici e l’Istituto italiano per gli
studi filosofici di Napoli. Il costante e attento lavoro di interpretazione
dei testi è stato alimentato anche da impegni didattici tenuti nell’Ateneo
napoletano Federico II e in enti europei di ricerca, a Lione, a Lugano e
a Parigi. Ne è venuta fuori una ragionata selezione di indagini intorno
alla questione del vincolo in Bruno, introdotta nei tardi manoscritti
“magici” (il De magia mathematica, il De magia naturali, le Theses de
magia e il De vinculis in genere), ma poco frequentata dalla letteratura
critica e, laddove considerata, priva delle relazioni all’ampio quadro di
interessi filosofici e teologici, antropologici e politici costitutivi della
cultura italiana ed europea tra Medioevo e Rinascimento. In tale dire-
zione si è mossa, invece, la ricerca di Gisondi, tanto ambiziosa quanto
sempre disposta alla cautela e alla sorvegliatissima impresa, meritoria
per aver individuato proprio nel nexus un nuovo centro di rilettura e
di comprensione della filosofia naturale del Nolano al fine di eman-
ciparla da un’interpretazione magico-ermetica alla luce del dibattito
10 prefazione

medievale (scolastico) e rinascimentale, sia cattolico sia riformato, in


autori presenti a Bruno, da Paolo di Tarso a Tommaso, da Cusano a
Calvino, da Ficino ad Agrippa, da Leone Ebreo a Pico della Mirandola.
Si tratta in effetti di un variegato complesso di teorie e di linguaggi che
interpretano il gran modello della metafisica aristotelica e che la potenza
teorica di Bruno trasforma radicalmente, prospettando, innanzitutto,
una nuova via d’accesso al sapere.
Le ricercate connessioni innovative tra fisica e metafisica mettono
in luce un modernissimo metodo che è tale perché deliberatamente
rifiuta ogni conoscenza data. Questa sensibilità teorica e metodologica
coincide con quel senso dell’ordo che il Nolano scopre fuori di sé, nell’in
sé di cui ogni ente è parte. La coerenza dell’ordo del pensiero bruniano
e della vita con l’ordo naturae è il motivo teorico che, a mio giudizio,
sostiene i contributi più originali offerti dalla prime pagine del volume
alla questione del passaggio dalla «filosofia occulta» alla «magia fisica».
È, questo, il transito ideale-effettivo, il luogo di rielaborazione della
giovanile educazione al teologico e al naturale (affidata all’agostinismo
neoplatonico di Teofilo Vairano e alla “filologia” di Valla e di Era-
smo, accomunati dall’idea del sapere come costante ricerca del senso
dell’origine nella “pratica” della vita), per giungere alla ridefinizione
della magia che è profonda, perché non è accertamento del prodigioso
o dell’eccezionale né meno che mai trasformazione delle “apparenze”.
La magia bruniana è al fondo della realtà naturale, è questa stessa realtà
nell’unità di universale e particolare che è innanzitutto movimento,
tensione continua e alimento dell’imaginatio, come attestano il Sigillus
e il De magia, indagati da Gisondi nella cornice assai originale della
cosmologia del Nolano, dall’analisi del De umbris alle opere latine di
argomento fisico. Non quindi la magia e la natura, ma la magia che
è natura, ansiosa di essere conosciuta lontano dai falsi e ingannevoli
luoghi della credenza religiosa e della teologia tradizionale con i suoi
dogmi (la Trinità) accanto a quella meno “conformistica”. Penso, in
particolare, al rapporto di Bruno con la “via negativa” di Cusano, fatto
di tesi condivise (antiaristotelismo) e, soprattutto, di trasposizioni sul
piano della filosofia naturale come nel caso del De possest nel De la causa.
In quest’ultimo testo, radicale e direi dirompente spiegazione del Verbo
prefazione 11

divino generante infinite forme da infinita materia, si coglie l’intreccio


di ontologia e cosmologia che è al centro delle riflessioni di Gisondi
sul rapporto tra «unità e molteplicità» e sulle relazioni di «vincolo tra
materia e forma». Sono, com’è noto, i grandi problemi della filosofia
occidentale, dalle sue esperienze naturalistiche pre-aristoteliche alle
fonti medievali (con pagine molto interessanti su David de Dinant e
Avicebron) fino alle note tesi del neoplatonismo cristiano che contri-
buiscono alla ridefinizione dell’autonomo nesso bruniano tra fisica,
metafisica e filosofia naturale. E tale connessione si riverbera in altre
facce del prisma della vita e del sapere sulle quali le pagine di Gisondi
non sono avare di analisi e di acute ricostruzioni, come attestano i due
capitoli finali dedicati rispettivamente ai Furori e al De vinculis, alla
Cena e allo Spaccio. Essi toccano i temi “vincolanti” della religione e
della politica come spazi pubblici e disomogenei che vivono del legame
sociale, specchio dell’intero, di quell’Uno riformulato in termini di
naturalizzazione della teologia, di coappartenenza al mondo terreno.
Per tutto ciò si comprende bene il tipo di nexus che il Nolano in-
troduce e che segna di fatto il moderno: non una connessione di tipo
logico né una relazione trinitaria tra Padre, Figlio e Spirito Santo ma un
nodo d’amore, niente di sentimentale o di esteriore, ma anche in questo
caso, verrebbe da dire, una «profonda magia» vincolante l’universo-
natura al primo principio e alla causa infinita. Salta il dogma trinitario
perché è inaccettabile la mediazione di Cristo, generato e non creato,
della stessa sostanza del Padre, così come è rifiutata l’incarnazione
quale umanizzazione del divino, introduzione del tempo e della storia.
Bruno non interpreta né può interpretare Dio come altro dalla natura
che resta l’espressione dell’Uno complicato nella totalità infinita. Il suo
Dio è l’essere che non crea ma genera la natura e l’umano, gli spazi di
attrazione e repulsione, di forze in movimento, non isolate, tutte im-
manenti all’eterno ritmo della natura in una prospettiva propriamente
ontologica. In essa è la compresenza di forme in perenne divenire e di
uniformità che assolvono al bisogno bruniano di includere nella propria
cosmologia anche la cultura, la politica e la storia. Fa bene Gisondi a
presentare come problematico questo approdo del Nolano tra divenire
e ontologia, perché il discorso sulla sua modernità si complica e, insie-
12 prefazione

me, si definisce. Alle origini il moderno non ha astrattamente reciso


le proprie radici antiche ma le ha rivissute e anche drammaticamente
trasfigurate come possono documentare solo le ricerche dettagliate e
documentate come quelle proposte in questo bel volume.

Fabrizio Lomonaco
Abbreviazioni

Opere italiane

dfi G. Bruno, Dialoghi filosofici italiani, M. Ciliberto (a cura di),


N. Tirinnanzi (note ai testi), M.P. Ellero (Bibliografia), F.
Dell'Omodarme (Indice analitico), Milano 2000
Cabala Cabala del cavallo Pegaseo con l’aggiunta dell’Asino cillenico
Cena La cena de le ceneri
Causa De la causa, principio et Uno
Infinito De l’ infinito universo e mondi
Furori De gli eroici furori
Spaccio Spaccio de la bestia trionfante
Candelaio Il Candelaio, G. Barberi Squarotti (a cura di), Torino 1964

Opere magiche

Om G. Bruno, Opere magiche, M. Ciliberto (diretta da), S. Bassi,


E. Scapparone, N. Tirinnanzi (a cura di), Milano 2000
De magia math. De magia mathematica
14 abbreviazioni

De magia De magia naturali


De vinculis De vinculis in genere
Lampas Lampas triginta statuarum
Theses Theses de magia

Opere mnemotecniche

Omn I G. Bruno, Opere mnemotecniche, M. Ciliberto (diretta


da), M. Matteoli, R. Sturlese, N. Tirinnanzi (a cura di),
Milano 2004, vol. I
Cantus Cantus Circeus
De umbris De umbris idearum

Omn II G. Bruno, Opere mnemotecniche, M. Ciliberto (diretta


da), M. Matteoli, R. Sturlese, N. Tirinnanzi (a cura di),
Milano 2009, vol. II
Explicatio Explicatio triginta sigillorum
Sigillus Sigillus sigillorum

Opere latine

Articuli adversus
peripatheticos Centum et viginti articuli de natura et mundo adversus Pe-
ripatheticos, Articuli adversus peripathetico, E. Canone (a
cura di), trad. it. C. Monti, Pisa-Roma 2007

Ol Jordani Bruni Nolani Opera latine conscripta, publicis


sumptibus recensebat F. Fiorentino [F. Tocco, H. Vitelli, V.
Imbriani, C.M. Tallarigo], Neapoli-Florentiae, voll. I-III,
t. 8, 1879-1891
Camoeracensis
Acrostimus Camoeracensis Acrostimus seu rationes articulorum adversus
Peripatheticos, vol. I, t. 1
De immenso De immenso et innumerabilis, vol. I, t. 1-2
De minimo De minimo triplici et mensura, vol. I, t. 3
De monade De monade, numero et figura, vol. I, t. 2
abbreviazioni 15

Libri physicorum Libri physicorum aristotelis explanati, vol. I, t. 4


Summa Summa terminorum metaphysicorum

Documenti V. Spampanato, Vita di Giordano Bruno con documenti


editi e inediti, Messina 1921
Processo L. Firpo, Il processo di Giordano Bruno, D. Quaglioni (a
cura di), Roma 1993
Anche il sacerdote che innalza l’ostia consacrata per il
volgo è uno stregone, come la fattucchiera che fa suffumigi
sotto il gufo impagliato. Interrogano ambedue il mistero,
sono ambedue interpreti di un mondo soprannaturale
che l’anima incolta e grossa del credente volgare (al quale
sfugge il gioco delle forze umane razionali che regolano
il destino del mondo e la storia degli uomini) crede gli
sovrasti, schiacciandolo con la sua fatalità ineluttabile.
L’indifferenza religiosa dei tempi normali, l’assenza della
pratica del culto, non è indipendenza, non è liberazione
dagli idoli. La religione è un bisogno dello spirito.

Antonio Gramsci, Stregoneria, 4 marzo 1916


A mia madre e a mio padre
Introduzione

Nel suo Giordano Bruno and the hermetic tradition del 1964, la
studiosa inglese Amelia Frances Yates collocava il filosofo all’interno
della vasta ed eterogenea tradizione dell’ermetismo e del cabalismo
magico rinascimentale1. Tuttavia, al di là di alcuni brevi riferimen-
ti, Yates non fondava la sua lettura di Bruno mago ermetico e della
magia bruniana su di un’analisi e un confronto sistematico dell’opera
complessiva e degli ultimi manoscritti cosiddetti magici2 del Nolano,
il De magia mathematica, il De magia naturali, le Theses de magia, il
De rerum principiis et elementis, la Lampas triginta statuarum e il De
vinculis in genere, composti tra il 1589 e il 1592 e rimasti incompiuti,
ma esclusivamente sui riferimenti all’ermetismo presenti nelle opere
mnemotecniche, nei dialoghi italiani e nei poemi francofortesi.

1
A.F. Yates, Giordano Bruno and the hermetic tradition, Chicago 1964, pp. IX-XI.
2
Sulla storia, la datazione, la composizione e l’ordine di lettura di questi scritti,
cfr. Nota ai testi, in Om, pp. XXXVIII-CXXII; cfr. Introduzione, in Ol, vol. III,
pp. III-LXIV.
22 giulio gisondi

La minore fortuna e attenzione agli scritti magici bruniani non


costituiva un elemento isolato alla sola indagine della Yates, ma un
tratto comune della più generale storiografia di quegli anni. In effetti,
già nel 1962, nel saggio L’antropologia naturalistica del «De vinculis in
genere» di Giordano Bruno3, poco presente nella recente storiografia, il
giovane Fulvio Papi osservava come, dopo gli studi d’inizio secolo di
Felice Tocco4, agli scritti magici e al breve e incompiuto trattato sui
vincoli del Nolano non fosse stato più dedicato uno specifico esame.
Egli sottolineava che, per quanto riguardava il quadro generale della
storiografia bruniana, questi scritti non avevano avuto la fortunata
sorte delle opere mnemotecniche e dei dialoghi.
Gli studi condotti in quegli anni da Paolo Rossi, Cesare Vasoli,
Antonio Corsano, Nicola Badaloni ed Eugenio Garin, a cui Papi faceva
riferimento, possedevano il merito di aver spazzato via pregiudizi nei
confronti della nolana filosofia, d’aver codificato un rigoroso metodo
storiografico e aperto nuove prospettive di ricerca. Si era finalmente «in
grado di spostare l’asse della complessiva valutazione storiografica»5 e
si erano poste le basi affinché ciò potesse avvenire «superando quelle
schematiche e puntigliose riduzioni del pensiero bruniano cui una
lunga tradizione di prospettive trascendentalistiche, materialistiche e
idealistiche, rigidamente selettive, avevano condotto»6.
Da questa prospettiva storiografica ha avuto inizio una profonda
riscoperta, italiana ed europea, della filosofia bruniana. Ciò ha prodotto
il fiorire di numerosi studi e orientamenti, spesso anche molto distanti
tra loro, ma che dagli anni Settanta del Novecento sino a oggi hanno
approfondito aspetti problematici del pensiero del Nolano, la totalità
delle sue opere, fino agli scritti magici. Nel solco di questa riscoperta è
possibile collocare le ricerche sul tema della magia in Bruno, tra cui gli

3
F. Papi, L’antropologia naturalistica del «De vinculis in genere» di Giordano Bruno,
«Acme. Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Statale di Milano»,
XV, 3 (1962), pp. 151-178.
4
F. Tocco, Le opere inedite di Giordano Bruno, «Atti della Reale Accademia di
Scienze morali e politiche di Napoli», XXV, Napoli 1891, pp. 221-267.
5
F. Papi, L’antropologia naturalistica, cit., p. 152.
6
Ibidem.
introduzione 23

studi di Simonetta Bassi7 e di Vittoria Perrone Compagni8, che hanno


ricostruito ed evidenziato come il ricorso alla magia costituisca un ele-
mento presente sin dagli inizi della produzione bruniana e non limitato
alla sua ultima fase; o ancora i lavori di Michele Ciliberto9, Elisabetta
Scapparone10 e Nicoletta Tirinnanzi11, che hanno approfondito il tema
del vincolo, strettamente connesso alla magia, nel suo originarsi già al
cuore della riflessione ontologica, religiosa ed etico-politica del Nolano.
Queste tesi non sono lontane da quanto già osservava Papi laddove,
definendo il De vinculis un’opera di «fisica pragmatica»12, considerava
come in questo scritto «si stratifichino, dal particolare punto di vista
dell’opera, molti problemi tipici e […] strutturali del pensiero bruniano
e come, in ordine a questi risultati più complessivi, si designino temi
nuovi che l’opera stessa si propone – più di quanto non fosse avvenuto
con la produzione precedente – di mettere in luce»13.
La presente ricerca muove in questa linea interpretativa, indivi-
duando nella nozione di vinculum il legame e la relazione tra la filo-
sofia naturale e politica di Bruno. L’esigenza è quella di esaminare e

7
Cfr. S. Bassi, magia, mago, in Giordano Bruno. Parole, concetti, immagini, M.
Ciliberto (direzione scientifica), Pisa 2014, vol. II, pp. 1136- 1141 e pp. 1144-1149.
8
V. Perrone Compagni, «magia», in Enciclopedia Bruniana & Campanelliana,
Giornate di studi 2001-2004, E. Canone e G. Ernst (a cura di), Pisa-Roma 2006,
vol. I, pp. 90-105.
9
Cfr. M. Ciliberto, Esistenza e verità: Giordano Bruno e il «vincolo» di Cupido,
Introduzione, in G. Bruno, Eroici furori, S. Bassi (a cura di), Roma-Bari 1995, pp.
VII-XLI.
10
E. Scapparone, «vinculum», in Enciclopedia Bruniana & Campanelliana, Gior-
nate di Studio 2005-2008, E. Canone e G. Ernst (a cura di), Roma 2010, vol. II,
pp. 182-194; Ead., «Tempus vinciendi». Filosofia dell’amore e civile conversazione nel
De vinculis, in La filosofia di Giordano Bruno. problemi ermeneutici e storiografici,
Convegno internazionale (Roma, 23-24 ottobre 1998), E. Canone (a cura di), Firen-
ze 2003, pp. 343-365; Ead., Magia, politica e filosofia dell’amore nel De vinculis, in
Autobiografia e filosofia. L’esperienza di Giordano Bruno, Atti del convegno (Trento,
18-20 maggio 2000), N. Pirillo (a cura di), Roma 2003, pp. 53-68.
11
E. Scapparone-N. Tirinnanzi, Giordano Bruno e la composizione del De vinculis,
«Rinascimento», XXXVII (1997), pp. 155-231.
12
Cfr. F. Papi, L’antropologia naturalistica, cit., p. 154.
13
Ivi, p. 152.
24 giulio gisondi

ricostruire quale sia e in che modo si strutturi la relazione tra filosofia


naturale, politica e antropologia, comprendere se l’analisi del politico
possa essere sganciata dall’indagine sulla natura, o se prenda origine
e si sviluppi proprio nel cuore della conoscenza del mondo naturale.
Lo scopo di questo lavoro è quello di tracciare un percorso a ritroso
nel pensiero e nelle opere di Bruno: dagli scritti magici, dove maggiore
è la presenza del termine vinculum, ai lavori degli anni precedenti, il
De umbris idearum, il Candelaio, il Sigillus sigillorum, passando per i
dialoghi italiani, sino a giungere alle opere latine di argomento fisico
pubblicate tra il 1586 e il 1591. Da questo confronto è possibile, da
un lato, osservare la torsione a cui egli sottopone la riflessione magica,
naturalizzandola e spogliandola della sua dimensione occulta, per farla
rientrare nella struttura ontologica e cosmologica, fisica e metafisica,
elaborata nei dialoghi; dall’altro, ripercorrere l’elaborazione del vinculum
dagli scritti magici sino agli inizi della sua filosofia, per rintracciarne
l’origine e il suo cammino.
Da questo stesso confronto è, altresì, possibile constatare come la
nozione di vincolo non giunga a Bruno dalla sola letteratura magica,
ma sia mediata dai riferimenti al δεσμός/σύνδεσμος e al vinculum/nexus
presenti nella filosofia presocratica e platonica e nel dibattito sul dogma
trinitario. È a partire da questi contesti che egli ripensa, traspone e
rilegittima il vincolo nell’orizzonte della filosofia naturale, come espres-
sione di una nozione originariamente ontologica e cosmologica, non
teologica. Ciò costituisce l’inveramento e il compimento dei motivi
latenti e sommersi delle tradizioni filosofiche presocratiche di cui egli
si serve costantemente, dall’eleatismo all’atomismo, nonché di fonti
medievali non scolastiche come David de Dinant e Avicebron. Se il
termine vinculum trova la sua piena definizione soltanto negli ultimi
scritti magici, tuttavia il problema del legame e della relazione rappre-
senta un punto nodale della sua filosofia, rintracciabile sin dai primi
lavori. È, perciò, necessario ripercorrere le differenti fonti e tradizioni
alle quali Bruno attinge nell’elaborazione della sua riflessione natura-
listica e politica, metterne a fuoco la presenza critica e problematica, la
costante riformulazione, comprendere come egli combini e organizzi
tra loro molteplici saperi, tradizioni e linguaggi, quali fonti siano prio­
introduzione 25

ritarie rispetto ad altre, se il loro utilizzo muti, e come, nelle opere in


esame. Ciò consente di emancipare la riflessione bruniana sul vinculum
da un’interpretazione esclusivamente magico-ermetica, chiarendo il
suo rapporto con tale tradizione. Nella ricca e vasta bibliografia degli
studi bruniani, risulta a oggi ancora assente uno studio sistematico
sul vinculum, che ne ricostruisca origini e sviluppi, in un’analisi non
limitata ai soli scritti magici, ma che possa inquadrarli nel contesto
della più ampia produzione filosofica del Nolano.
Sia nello spazio politico che in quello naturale è nel ricorso alla
magia naturale, presente in tutta l’opera di Bruno, ma approfondita solo
negli ultimi manoscritti, che il tema del vinculum e del vincire trova la
sua piena elaborazione, pur essendo rintracciabile già all’origine della
sua filosofia. La nozione di legame, vincolo o relazione è costitutiva
della magia naturale: in quanto arte di legare tra loro elementi o in-
dividui differenti attraverso tecniche di attrazione, essa rappresenta il
tentativo di riprodurre ed emulare il principio d’amore e d’unità che è
la natura. La physis che egli descrive è un principio d’unità, un corpo
unico e omogeneo infinito in cui materia e forma sono legate da un
vincolo d’amore indissolubile, separabile dalla mente umana da un
punto di vista logico, ma di cui tale separazione può cogliere soltanto
una parte limitata.
Nella redazione degli scritti magici e nella definizione di una magia
per vincula egli riformula e ripensa la magia naturale nel solco della
prospettiva ontologica e cosmologica, fisica e metafisica, dei dialoghi.
Questa magia naturale non è più diretta sulle virtù occulte presenti
nella physis. Il ricorso all’occulto non è in grado di fornire né una cono-
scenza né tantomeno una spiegazione adeguata dei vincoli naturali. È
invece una physica magica a poter comprendere come dietro i fenomeni
di attrazione spontanea presenti in natura siano rintracciabili sia cause
fisiche, legate alla fuoriuscita di atomi da un corpo a contatto con un
altro simile o contrario; sia al movimento d’influsso e d’efflusso degli
atomi in ogni elemento naturale, provocato dalla philautia, dall’amore
di sé, tensione del soggetto a conservarsi nella sua forma attuale o a
espandersi verso ciò che lo accresce. Il tentativo del Nolano è quello
di descrivere fenomeni tradizionalmente considerati occulti attraverso
26 giulio gisondi

un linguaggio fisico che non faccia ricorso al miracolo, al prodigio o


al sovrannaturale nella considerazione delle attrazioni, ma che possa
inquadrarli nell’ordine naturale. La conoscenza dei fenomeni di at-
trazione a cui ogni corpo semplice e composto è sottoposto in natura
costituisce un presupposto necessario nella riforma e nel ripensamento
della magia, nella piena naturalizzazione e umanizzazione di essa intesa
come arte di legare non più gli elementi naturali, ma l’essere umano.
Se la magia è conoscenza tanto universale quanto particolare delle at-
trazioni naturali e della ragione da cui queste sono originate, capacità e
tecnica del vincolare umano, allora essa si configura come coessenziale
e necessaria alla teoria e all’azione politica nello spazio civile.
Sin da una prima lettura degli scritti bruniani, il politico sembra
configurarsi come uno spazio pubblico in cui il campo della religione,
della legge e della scienza appaiono saldamente intrecciati e finalizzati
all’esercizio del potere inteso come capacità di condurre a unità i diffe-
renti e molteplici soggetti che animano la polis. Lo spazio comunitario
è già di per sé politico: esso è il luogo in cui ogni essere umano può farsi
cittadino soltanto potenziando le facoltà di pensiero e azione, mano e
intelletto, theoria e praxis. Proprio le differenze costitutive di ogni sog-
getto, come di ogni elemento e corpo naturali, non corrispondono a un
impedimento nella costruzione di una comunità politica pacifica e ben
organizzata: l’elemento conflittuale determinato dalla pluralità e dalla
diversità degli individui è uno stimolo alla costante ricerca dell’equilibrio,
alla costruzione dei vincoli civili necessari alla concordia e al progresso
degli esseri umani. Al contrario una pace intesa come assoluta omogeneità
e uniformità, che annulli le differenze, le contrarietà e le specificità di
ognuno, si rivela una tirannia in cui sono sfaldati i vincoli necessari alla
costruzione della repubblica degli uomini, una pace apparente in cui
ogni individuo è isolato chiuso nella propria finitezza, nell’accrescimento
esclusivamente materiale, instabile e impermanente di sé.
L’istituzione di vincoli e rapporti d’attrazione corrisponde alla pos-
sibilità di operare nel mondo civile secondo il modello incarnato dalla
natura. Come la physis, originario e indissolubile vinculum amoris tra
materia e forma, conduce a unità ogni sua particolare manifestazione
per mezzo di legami e attrazioni in un equilibrio sempre mutevole e
introduzione 27

senza annullare le specificità e le differenze, così l’azione politica si


caratterizza come costruzione, istituzione, trasformazione e rinnova-
mento permanente dei vincoli e dei simboli costitutivi e necessari alla
repubblica degli uomini. È questa una filosofia che non separa politica
e natura. La descrizione dei vincoli civili non è data in una prospettiva
che pone l’umanità al di fuori della natura, né tantomeno afferma alcun
primato ontologico dell’essere umano su questa. La filosofia di Bruno è
a tutti gli effetti un’antropologia naturalistica, un pensiero nel quale lo
spazio del politico è sempre radicato nella natura e da essa non separabile.
Ciò significa che il riconoscimento della relazione ontologica tra l’Uno
e il molteplice, tra l’infinità dell’essere e le sue manifestazioni finite,
conduce alla comprensione della natura come modello a cui il pensiero
e l’azione devono ispirarsi e che non può essere ignorata. In quanto
vinculum amoris, relazione e legame eterno tra l’unità dell’essere e la
molteplicità delle sue manifestazioni sensibili, la natura è l’exemplum,
il paradigma necessario a ogni prassi civile.
Ma questo principio mimetico non significa che occorra semplice-
mente imitare o riprodurre la natura: in quanto infinita, essa è irripro-
ducibile dall’essere umano. Si tratta, piuttosto, di riprodurre ciò che
essa incarna, la sua capacità infinita di legare tra loro elementi e corpi
differenti e contrari, senza sopprimerne le specificità. E in effetti, è
questa la capacità continua e infinita di rinnovare immagini, simboli
e legami che resistono ai cambiamenti temporali e naturali, nella quale
l’umanità può scoprire la propria forma d’infinità, nella storia e nella
natura. È questo il presupposto teorico della «profonda magia»14, che
consiste nel «saper trarre il contrario dopo aver trovato il punto de
l’unione»15, agendo sul molteplice per ricondurlo nuovamente all’unità.
Da questa prospettiva di ricerca emerge come la riflessione di Bruno
sul vinculum incarni la possibilità di pensare natura e cultura senza sepa-
razioni, ma l’una come originata a partire dall’altra. La dimensione antro-
pologica e politico-civile, la storia e il mondo umano è parte integrante
della storia naturale e non separabile da questa. Le nazioni, i popoli, gli

14
Causa, p. 295.
15
Ibidem.
28 giulio gisondi

Stati, le repubbliche, le diverse forme di civiltà rientrano all’interno della


stessa alternanza della vita naturale, nel ritmo eterno della metamorfosi
delle forme finite, del processo di generazione e rigenerazione degli ele-
menti, di ciò che Bruno definisce la vicissitudine universale.
Questa non delimitazione dello spazio politico, la sua apparente non
separabilità da quello della physis costituisce uno dei nodi maggiormente
problematici. Proprio il vinculum assume in questa prospettiva una fun-
zione necessaria: esso si pone come categoria di passaggio o legame tra
l’ambito della riflessione naturalistica e quella politica, tra natura e cultura.
Quest’ultima non rappresenta un salto dalla prima, ma si realizza soltanto
attraverso la conoscenza della physis e dal riconoscimento dell’eterno,
universale e permanente vinculum amoris che essa incarna. Ripercorrere
l’elaborazione della nozione di vinculum e il suo sviluppo permette, dun-
que, di mettere a fuoco un punto nodale della nolana filosofia, dal legame
ontologico e cosmologico tra materia e forma, tra l’infinità di Dio e l’infi-
nità dell’universo, al vincolo civile, strumento di azione sul piano politico.
La riflessione naturalistica, politica e antropologica di Bruno sul
vinculum e sul tema del vincire si rivela un momento originalissimo
sia nel contesto delle filosofie del Rinascimento, sia in rapporto al
sorgere della modernità. Egli apre all’esigenza delle scienze moderne
d’indagare e comprendere i fenomeni naturali a partire da un principio
d’omogeneità e uniformità del reale, attraverso un linguaggio che non
faccia ricorso al dogma o al miracolo nella comprensione della realtà
fisica, investigando la natura al di là del principio d’autorità e distin-
guendo l’ambito proprio della teologia da quello filosofico e scientifico.
Ciò può avvenire proprio a partire dalla nuova prospettiva inaugurata
dal Nolano, quella cioè del riconoscimento dell’unicità della sostanza
nell’universo, nell’infinitamente piccolo e nell’infinitamente grande.
Tuttavia, l’immagine bruniana della natura come legame indissolubile
di forma e materia pone una distanza tra quanti in quegli stessi anni
tentavano un’osservazione meccanicistica e materialista sia del mondo
fisico che di quello storico, isolando l’aspetto quantificabile, calcolabile
e misurabile del reale dalla sua controparte qualitativa. Se la natura è per
Bruno continua processualità in cui materia e forma sono indissolubil-
mente legate poiché unum et idem, ciò vuol dire che l’idea della perfetta
introduzione 29

coincidenza e identità tra il linguaggio matematico e la physis non è che


un’illusione: la natura non può essere ridotta a puro meccanicismo. La
sola matematica in grado di misurare e comprendere la natura dovrebbe
poter concepire nella realtà numerica sia il dato quantitativo che quello
qualitativo, così da esprimere al proprio interno il vincolo indissolubile
e originario di materia e forma. In altre parole, l’osservazione fisica della
natura non può prescindere dal legame con la metafisica intesa come
l’esigenza di una prospettiva d’ordine formale non limitata al solo dato
quantitativo, vale a dire a una comprensione dell’immaterialità della realtà
e della vita, della sua irriducibilità a pura meccanica dei corpi.
Su questi passaggi è possibile registrare la distanza che intercorre tra
la filosofia di Bruno e la modernità. Ma se può sembrare che la nolana
filosofia sia lontana e opposta alla considerazione moderna, tanto del
mondo fisico quanto di quello storico, della natura e dell’essere umano,
ci si potrebbe chiedere se la riflessione naturale, politica e antropologica
di Bruno, con la sua teorizzazione dell’infinito in senso ontologico e
cosmologico, con la rivendicazione della libertà filosofica, scientifica e
religiosa, non costituiscano una forma di modernità differente e altra
da quella che definiamo abitualmente come tale. Se la nozione di mo-
dernità non equivale esclusivamente a una periodizzazione storiografica,
ma anche a una categoria problematica che marca costantemente un
giudizio di valore su ciò che la precede, una rilettura delle periodiz-
zazioni storiografiche che sappia intenderle non alla stregua di realtà
ontologiche, ma osservando la circolazione delle idee e dei saperi da
un’epoca all’altra, seguendone continuità e discontinuità, evoluzioni e
contaminazioni, consentirebbe di abbandonare una contrapposizione
tra Antichi e Moderni compresa in termini di vincitori e vinti. Ciò
permetterebbe di rimettere in discussione il mito di una nascita della
modernità, di una sovrapposizione della nostra idea di moderno al
reale corso degli eventi storici, risultando proficua a una più ampia
comprensione, non soltanto storiografica, ma anche del nostro tempo.

Parigi, febbraio 2020


Ringraziamenti

Questo lavoro è il frutto dell’approfondimento e dello sviluppo


della mia tesi, discussa nel 2017 a Lecce, al termine di un Dottorato in
co-tutela tra l’Università del Salento e l’Université de Paris Sorbonne,
nonché delle ricerche successivamente condotte all’Università Federico
II di Napoli, all’Istituto Italiano per gli Studi Storici e all’Istituto
Italiano per gli Studi Filosofici. Desidero, perciò, ringraziare chi, a
diverso titolo, ha supportato in questi anni il mio lavoro: Fabrizio
Lomonaco, per aver letto il testo sin dalle prime fasi e per averlo voluto
presentare, per aver sempre promosso i miei studi e le mie ricerche e
per aver reso possibile la pubblicazione di questo volume; Maurizio
Cambi, per le letture, i suggerimenti e il confronto durante la reda-
zione della tesi; Marie-Dominique Couzinet, per avermi incoraggiato
affinché i miei studi diventassero ricerche; Vincent Carraud e Franco
A. Meschini per la disponibilità con cui hanno diretto la tesi; Giulia
Belgioioso, Igor Agostini e Maria Cristina Fornari, insieme ai docenti
e ai colleghi della scuola di dottorato in Forme e storie dei saperi fi-
losofici e del Centro di studi cartesiani E. Lojacono dell’Università del
Salento, per avermi consentito di proseguire le mie ricerche dopo gli
32 giulio gisondi

studi universitari e per la libertà con la quale ho potuto lavorare tra


Parigi e Lecce.
La mia gratitudine va a Tristan Dagron, per la possibilità di con-
tinuo confronto, per avermi lasciato intravedere linguaggi e approcci
senza i quali questo lavoro non sarebbe stato tale, per la curiosità e gli
interessi che questo dialogo ha suscitato in me; ad Antonella Del Prete,
per la presenza, il tempo, le continue letture, i preziosi suggerimenti e
l’attenzione con cui ha seguito e supportato il mio lavoro; alla comunità
scientifica dei docenti e dei colleghi dell’Istituto Italiano per gli Studi
Filosofici, Fiorinda Li Vigni e Geminello Preterossi, Marco Ivaldo e
Wolfgang Kaltenbacher per la libertà di pensiero e di parola che ho
potuto incontrare nelle aule di Palazzo Serra di Cassano, per avermi
consentito di proseguire il mio lavoro, per aver accolto la pubblicazione
di questo volume. Desidero, inoltre, ringraziare, Maria Cristina Pitassi
e Daniela Solfaroli Camillocci per avermi accolto durante i soggiorni
all’Institut d’Histoire de la Réformation dell’Université de Genève,
consentendomi d’intravedere nuove prospettive e linee di ricerca.
Tra le tante persone, i colleghi e gli amici con cui ho potuto condivi-
dere soddisfazioni e delusioni, gioie e frustrazioni, desidero ringraziare
Hélène, Ilaria, Vito e Rosario, per avermi sempre accolto; Federico, per
il suo vizio di dire sempre la verità.
Questo libro sarebbe rimasto soltanto un proposito senza il soste-
gno di alcune persone a cui va la mia più profonda gratitudine: a mia
madre, Valeria, e a mio padre, Antonio, per avermi fatto scoprire, sin
da bambino, cosa fossero un archivio e una biblioteca, per il loro con-
tinuo sostegno in ogni mia scelta; a mio fratello, Marcello, a cui rubavo
vestiti e idee, per avermi sostenuto nel cercarne di mie; a Nagore, per
la sua concreta serenità e per il dono di Luka, nuova vita. A Cecilia,
incontrata grazie a Bruno, per il sorriso e l’infinita tenerezza con cui
illumina i miei giorni.
I. Δεσμóς, σύνδεσμος – vinculum, nexus.
Appunti per una storia terminologica e concettuale

1. Il vinculum tra magia, ontologia e cosmologia

Qual è il posto che la nozione di vinculum occupa nel pensiero di


Bruno? È questo un elemento centrale della sua filosofia o esclusivo della
riflessione sulla magia sviluppata nei suoi ultimi scritti? Seppur l’utilizzo
del lemma vinculum sia raramente rilevabile nelle opere precedenti gli
scritti magici, ciò tuttavia non corrisponde necessariamente all’assenza
della nozione nel senso di legame e relazione, che appare, invece, lar-
gamente presente attraverso il ricorso a una serie di sinonimi, latini e
volgari, quali nexus, connexio, unum-unitas, vinto, laccio, unione, legare.
A una prima lettura, l’utilizzo del lemma vinculum potrebbe sem-
brare strettamente connesso alle fonti che Bruno raccoglie nel De magia
mathematica, primo fra gli scritti magici. Questo si presenta come una
raccolta di testi ricavati per la gran parte dal De occulta philosophia
di Cornelio Agrippa von Nettesheim, dal De mineralibus e dal Liber
secretorum dello Pseudo Alberto Magno, dalla Theologia Platonica e dal
De vita di Marsilio Ficino, dalla Steganografia di Giovanni Tritemio.
Il De magia mathematica assume una rilevanza particolare, sia per gli
34 giulio gisondi

elementi raccolti, sia per il ruolo che riveste nella redazione dei testi
successivi. Come rileva Simonetta Bassi, questo lavoro rappresenta una
«personale antologia»1, una raccolta di citazioni, annotazioni, appunti
schedati e classificati, temi e problemi che Bruno riprende e rielabora
in una riflessione sulla magia che progressivamente si allontana, nei
lavori successivi, dalle fonti raccolte.
E, in effetti, il problema dei vincula con cui attrarre e legare è par-
ticolarmente presente in una di queste fonti, nel XXXIII capitolo del
terzo libro del De occulta philosophia di Agrippa, dedicato ai vincoli
degli scongiuri con cui, nella magia cerimoniale, è possibile dominare
o allontanare gli spiriti maligni2. Tuttavia, la prospettiva demonologica
nella quale Agrippa colloca il ricorso alle diverse specie di vincula, non
corrisponde all’operazione compiuta da Bruno: se questa è presente nel
De magia mathematica, radicalmente diverso è, invece, il contesto in
cui la riflessione sul vinculum è tracciata dal De magia naturali sino
al De vinculis passando per le Theses. Tra il De magia mathematica e il
successivo De magia emergono differenze rilevanti. Il titolo di questo
scritto fu attribuito dagli editori ottocenteschi ricavandolo dalle prime
parole del testo3. Come rilevava Tocco, Bruno si riferisce a esso nel De
vinculis con il titolo De naturali magia4 e nel De minimo5 con quello
di De physica magica. In questo scritto, come nei successivi, il Nolano

1
S. Bassi, Le parole della magia, in «Physis», vol. XXXVIII, 1-2 (2001), p. 100.
2
C. Agrippa, De occulta philosophia libri tres, V. Perrone Compagni (a cura di),
Leiden-New York-Köln 1992, lib. III, cap. 33, pp. 501-502: «Vincula autem, quibus
alligantur spiritus obtestanturque vel exterminantur, triplicia sunt. Quaedam eorum
enim sumuntur ex mundo elementali, ut puta quando adiuramus spiritum aliquem
per res inferiores et naturales illi cognatas aut adversas, quatenus illum invocare vel
exterminare volumus […]. Secundum vinculum sumitur ex mondo coelesti, quando
videlicet adiuramus per coelum, per stellas, per horum motus, radios […]. Tertium
vinculum ipsum est ex mundo intellectuali atque divino, quod religione perficitur,
ut puta cun adiuramus per sacramenta, per miracula, per divina nomina, per sacra
signacula et caetera religionis mysteria».
3
Cfr. F. Tocco, Le opere inedite di Giordano Bruno, «Atti della Reale Accademia
di Scienze morali e politiche di Napoli», XXV, Napoli 1891, p. 101.
4
Cfr. De vinculis, p. 492.
5
Cfr. De minimo, p. 210.
δεσμος συνδεσμος – vinculum nexus 35

esclude dal suo campo d’indagine la considerazione sull’esistenza dei


demoni e sul loro intervento nell’azione del mago: pur collocando le
realtà spirituali all’interno dell’ordine naturale, egli rifiuta quelle forme
di magia fondate sull’invocazione di potenze demoniche, rielaborando
una magia naturale saldamente ancorata alla dimensione fisica, alla
teoria del moto e dei movimenti di attrazione tra gli atomi, gli elementi
e i corpi, nella quale include anche quelle, comunemente considerate
occulte, tra il ferro e il magnete, tra l’ambra e la paglia.
I due capitoli De vinculis spirituum6 e De analogia spirituum7, de-
dicati alle capacità vincolanti degli spiriti dei demoni, alla loro classi-
ficazione e gerarchizzazione, in cui Bruno elenca circa venti specie di
vincoli ripresi prevalentemente da Agrippa, appaiono nell’architettura
e nella prospettiva generale del De magia particolarmente problematici.
Già Tocco osservava come «questi due capitoli sono una stonatura nella
Magia che dal Bruno stesso è chiamata naturale»8, segnalando che le
battute iniziali del primo di essi, con cui l’autore si riferisce a prece-
denti passaggi del testo9, non rimandano a nessun luogo del De magia,
quanto piuttosto a questioni presenti nel De magia mathematica10. L’ul-
tima sezione dello scritto comprende cinque capitoli in cui egli espone
altrettante specie di attrazioni che, però, non rientrano nelle tipologie
dei vincula descritti in precedenza. Il primo di questi capitoli riprende
il titolo del precedente De vinculis spirituum, ma riporta l’aggiunta «de
eo quod est ex triplici ratione agentis, materiae et applicationis»11. Si
tratta, dunque, di due sezioni che pur avendo in parte lo stesso titolo
trattano di questioni differenti. Se la prima affronta il problema dei
legami provenienti dall’azione degli spiriti dei demoni, in quest’ultima
l’orizzonte teorico tracciato da Bruno muta radicalmente: come segnala
Bassi, «dai vincoli degli spiriti dei demoni si passa, infatti, a trattare
dei principi di azione e passione, cioè delle forme di applicazione della

6
De magia, pp. 222-232.
7
Ivi, 232-250.
8
F. Tocco, Le opere indite di Giordano Bruno, cit., p. 101.
9
De magia, p. 222.
10
De magia math., pp. 16, 18.
11
De magia, p. 250.
36 giulio gisondi

magia puramente naturale»12. Da una considerazione del problema del


vincire legato a potenze sovrannaturali, a una comprensione e possibilità
di questo come inserito in un ordine fisico non più occulto: è questo
il passaggio a cui assistiamo nelle pagine del De magia.
In questo scritto Bruno traccia una prima presentazione dei vincoli
che derivano dal gusto, dall’udito e dalla vista, fino a quelli legati alla
fantasia e alla facoltà cogitativa13. Le cinque tipologie di vincoli esposte
in chiusura costituiscono elementi elaborati in autonomia rispetto alle
fonti utilizzate nel De magia mathematica. Nel De magia sono assenti,
ad esempio, gli elenchi dei demoni e degli angeli o prìncipi esposti nello
scritto precedente14, così come le cerimonie e i tempi per compierle, i
caratteri e le lettere divine da utilizzare nelle invocazioni magiche15.
Allo stesso modo, Bruno evita qui di condurre un esame approfondito
della magia nera questione cui era dedicato, invece, ampio spazio nel
De magia mathematica. Nella struttura di questo scritto i riferimenti
alle forme deviate di magia scompaiono o assumono una rilevanza
minore rispetto al precedente. Dall’esame comparato tra il De magia
mathematica e il De magia naturali emerge il tentativo di neutralizzare
alcuni dei principi costitutivi della magia occulta, come la possibilità di
agire su elementi naturali in cui siano racchiuse particolari proprietà, o
l’invocazione di intelligenze superiori attraverso il ricorso a preghiere,
cerimonie e sacrifici, così che il mago possa farsi vaso e strumento
della potenza invocata, sia essa angelica o demoniaca. Bruno cerca di
ricondurre nell’ambito della filosofia naturale ciò che nelle sue fonti
compariva legato all’occulto16.
Nella riformulazione del materiale raccolto nel De magia mathema-
tica, egli ripensa e adatta la riflessione sulla magia e il tema del vincire
alla prospettiva ontologica, cosmologica ed etico-politica tracciata
quasi dieci anni prima sia nelle opere latine, sia in quelle volgari: un

12
S. Bassi, L’arte di Giordano Bruno. Memoria, Furore, magia, Firenze 2004, p. 107.
13
Cfr. De magia, pp. 250-284
14
De magia math., pp. 12-20, pp. 26-48.
15
Ivi, p. 20.
16
Cfr. S. Bassi, Le parole della magia, cit., pp. 102-105.
δεσμος συνδεσμος – vinculum nexus 37

processo di acquisizione delle categorie concettuali ricavate dalle sue


fonti, manipolate e riadattate a una struttura fisica e metafisica già
esistente. È questa la probabile ragione delle modifiche e delle distan-
ze riscontrabili tra il De magia mathematica e il De magia naturali.
Dal confronto tra i primi due scritti magici e delle fonti raccolte nel
primo di essi, la philosophia occulta di Agrippa sembra rivelarsi una
fonte soltanto parziale.
Oltre che in Agrippa, la nozione di vinculum è largamente presente
anche nella Theologia Platonica di Ficino, laddove il termine deno-
ta il ruolo intermedio che l’anima razionale occupa all’interno della
gerarchia degli esseri o scala naturae: «rationalis animae genus, inter
gradus huiusmodi medium obtinens, vinculum naturae totius appa-
ret, regit qualitates et corpora, angelo se iungit et deo, ostendemus id
esse prorsus indissolubile, dum gradus naturae connectit»17. L’anima
razionale è il medio, il legame che unisce le realtà inferiori e materiali
a quelle superiori, immateriali, divine, operando come un laccio, un
nodo indissolubile che garantisce la comunicazione tra i diversi gradi
dell’essere e del cosmo. Allo stesso modo, essa è il vincolo tra l’eterno
e il temporale, tra il finito e l’infinito: «inter quae sunt aeterna solum
atque illa quae solum sunt temporalia esse animam quasi quoddam
vinculum utrorumque»18. Legame indissolubile tra i diversi gradi dell’es-
sere, l’anima razionale è «nodus et copula mundi»19, connessione e
concatenazione dell’essere e del mondo, volto di tutte le cose. In quanto
vinculum mundi, essa rappresenta la catena dell’essere, quel legame che
stringendo e mettendo in comunicazione le realtà superiori a quelle
inferiori garantisce l’indissolubilità dell’essere e del cosmo. Il vinculum
assume qui un senso e una significazione differenti da quelli sinora os-
servati, la cui declinazione costituisce un fondamentale riferimento per
la riflessione bruniana del Nolano. Seppur il nome di Ficino compaia

17
M. Ficini Theologia Platonica sive de immortalitate animarum, in Opera, Basilea
1576, vol. I, lib. I, cap. 1, p. 79.
18
Ivi, lib. III, cap. 2, p. 119.
19
Ivi, lib. III, cap. 2, p. 121.
38 giulio gisondi

nelle opere bruniane solo in un caso20, questi rappresenta per il Nolano


una celata ma costante fonte critica 21.
Tuttavia, se nel Ficino della Theologia Platonica il vinculum mundi
è incarnato dall’anima razionale, che nella scala verticale dell’essere
unisce due realtà o due mondi differenti, quello materiale e finito a
quello divino e infinito, per Bruno, invece, come vedremo, tale gerar-
chia ontologico-cosmologica è riformulata in un senso esclusivamente
logico-gnoseologico.
La nozione di vinculum possiede, inoltre, per il Nolano, un carat-
tere non verticale ma orizzontale o omnidirezionale: il legame non è
il termine medio tra i diversi gradi dell’essere, ma in quanto vinculum
cupidinis, esso è totalmente immanente ad una natura in cui non sus-
sistono più le precedenti gerarchie e le classiche separazioni ontologi-
che e cosmologiche tra mondo superiore o lunare e mondo inferiore
o sublunare. Svanita la rappresentazione verticale dell’essere e di un
cosmo geocentrico e finito, nell’universo descritto da Bruno la nozione
del legame che stringe e unisce in un solo organismo la molteplicità
e la contrarietà degli elementi presenti in natura muta radicalmente.
Se in Ficino la rappresentazione verticale, scalare e gerarchica dell’es-
sere, in cui l’anima razionale è medio e vincolo tra le realtà divine e
quelle materiali, corrisponde all’immagine di un cosmo geocentrico
e finito in cui l’uomo è centro e scopo della creazione, al contrario,
Bruno rifiuta e decostruisce tale struttura sia in senso ontologico, sia
cosmologico. Nell’universo infinito e acentrico della Cena22, del De la
causa, principio et Uno23, del De l’ infinito universo e mondi24 e del De
immenso et innumerabilis25, le nozioni di centro e periferia del cosmo

20
De monade, p. 408.
21
Cfr. A. Ingegno, Il primo Bruno e l’ influenza di Marsilio Ficino, «Rivista critica
di storia della Filosofia», 2 (1968), pp. 149-170; cfr. R. Sturlese, Le fonti del Sigillus
sigillorum del Bruno, ossia: il confronto con Ficino ad Oxford sull’anima umana, «Gior-
nale critico della filosofia italiana», LXXIII (1994), pp. 33-72.
22
Cena, p. 12, p. 76.
23
Causa, pp. 279-280.
24
Infinito, p. 354, p. 381.
25
De immenso, p. 30.
δεσμος συνδεσμος – vinculum nexus 39

sono relativizzate: ogni pianeta può essere centro in rapporto a uno e


periferia in rapporto a un altro, a seconda del punto di osservazione
dell’universo.
Allo stesso modo, l’essere umano non è più il centro, lo scopo della
creazione, l’anello intermedio, ma è posto al pari livello di tutti gli
altri esseri naturali. Dal punto di vista dell’infinito svanisce la possi-
bilità d’intravedere l’universo come una struttura gerarchica in cui la
prospettiva umana è l’unica ammissibile. L’essere umano non è più il
solo osservatore, ordinatore e costruttore dell’universo, ma è assorbito
nell’immensità dell’universo infinito26, nella paura e nell’angoscia della
perdita di senso che l’infinità porta con sé. Ciò scardina quell’unica
visione del cosmo finita e rassicurante che la rappresentazione cristiana e
aristotelico-tolemaica portavano con sé. Nella mutata rappresentazione
ontologica e cosmologica bruniana, il vinculum non è più un legame
verticale ma omnidirezionale, poiché la potenza erotica e unificante
della natura fa sì che tutti gli elementi e i corpi si muovano associandosi
per ricercare il simile e si allontanino per fuggire il contrario. Anche
Ficino, come Agrippa, si rivela, nell’analisi del vinculum, una fonte
critica soltanto parziale.
Se si vuol ricostruire l’utilizzo e la centralità che questa nozione
assume nella riflessione filosofica di Bruno, occorre procedere a ritroso
nelle sue opere, rintracciando come e da dove si origini e attraverso quali
fonti. Da un’approfondita e più ampia analisi emerge come quella di
legame non rappresenti una nozione di carattere esclusivamente magico,
ma particolarmente feconda nella tradizione filosofica e teologica antica,
medievale e rinascimentale. Se è vero, come ha osservato Ilenia Russo27,
che la riflessione bruniana sul vinculum maturi nel confronto con la
letteratura magica ed ermetico-neoplatonica rinascimentale, occorre
altresì osservare come essa sia centrale in molteplici ambiti disciplinari
e in differenti fonti, alcune delle quali particolarmente presenti nella
biblioteca ideale e materiale di Bruno. A tal fine, tenteremo di tracciare

26
Infinito, p. 375.
27
Cfr. I. Russo, vinculum, in Giordano Bruno. Parole, concetti, immagini, M.
Ciliberto (direzione scientifica), Pisa 2014, vol. II, pp. 2054-2060.
40 giulio gisondi

una ricostruzione di alcuni degli usi e delle significazioni della nozione


di legame in tradizioni filosofiche e teologiche e in dirette e indirette
fonti bruniane.

1. Δεσμός, σύνδεσμος. Prigioni dell’anima, catene dell’essere, legami


del cosmo.

La nozione di vincolo porta con sé una forma d’ambivalenza costitu-


tiva. Il suo essere etimologicamente catena, carcere, prigione e, al tempo
stesso, nodo, vincolo, legame, giuntura, è presente sia nel mondo greco,
nei termini δεσμός e σύνδεσμος28, sia in quello latino, negli equivalenti
vinculum e nexus29. Le significazioni della nozione che, a partire dal
mondo greco, hanno trovato larga diffusione, prima in ambito romano,
per essere poi inglobate nel contesto della patristica cristiana, e, infine,
nuovamente trasposte e riformulate tra Medioevo e Rinascimento, sono
molteplici e differenti.
Tra queste, una prima significazione metafisico-teologica della no-
zione è quella che intravede nel corpo il δεσμ ωτήριον30, la catena, il
carcere in cui l’essere umano è costretto a patire, incatenato a una
dimensione mortale. L’idea del corpo-prigione è riscontrabile, come ha
ricostruito Pierre Courcelle31, in una lunga tradizione interpretativa che
trova le sue radici nell’Orfismo32 e un’ulteriore elaborazione in Platone33.
Si tratta di un tema variamente declinato tanto tra i filosofi, quanto nella
patrologia greca e latina, che ben si amalgama al tema della caduta e

28
Cfr. H. Estienne, Thesaurus graecae linguae, Genève 1572, p. 961; cfr. W. Johann,
Lexicon graecolatinum, Basilea 1537, pp. 469, 472; cfr. P. Chantraine, Dictionnaire
étymologique de la langue grecque, Paris 1968, t. 1, p. 269.
29
A. Calepinii Dictionarium, Genève 1553, p. 292.
30
Cfr. Platone, Cratilo, 400 c7; cfr. Id., Gorgia, 486 a9; cfr. Id., Leggi, X 909c 1.
31
Cfr. P. Courcelle, Connais-toi toi-même. De Socrate à Saint Bernard, «Études
Augustiniennes», Paris 1975, pp. 295-324, 325-441.
32
Cfr. ivi, p. 346.
33
Cfr. F. Astius, Lexicon Platonicum sive vocum platonicarum, Lipasiae 1819-1838,
vol. I, pp. 439-440, vol. III, p. 320.
δεσμος συνδεσμος – vinculum nexus 41

del peccato originale. Proprio in questo senso, ad esempio, Agostino34


interpreta il tema del nexus, dei vincula, delle catena e dei nodi che
chiudono l’anima nella prigione corporea35, come la conseguenza di
una punizione inflitta all’umanità: tutti i mali inerenti alla condizione
umana provengono dalla condanna di Adamo.
Il tema del corpo-prigione, della catena a cui l’anima è legata in
modo permanente durante la vita terrena, è comune anche alla letteratu-
ra ermetica36. Nel Corpus Hermeticum, secondo un vocabolario proprio
alla tradizione platonica37, l’essere umano è spinto a lacerare la tunica
che lo riveste, il tessuto dell’ignoranza, la catena della corruzione, il
corpo e i sensi, prigione e tormento interiore. È secondo questa significa-
zione che nel trattato VII della versione latina, intitolato Quod summus
malum est hominibus ignorare Deum, Ficino traduce il greco «τόν τής
φθορᾶς δεσμόν» con il corrispettivo latino «corporis vinclis»38, mostran-
dosi fedele proprio a quella lunga tradizione cristiano-neoplatonica che
aveva interpretato la corporeità come il limite materiale dell’anima, sua
inscindibile catena mortale.
Una seconda significazione della nozione, contenuta nel termine
δεσμ ός, è rintracciabile nell’analisi del problema dell’essere come tra-
mandato dai frammenti del Περί Φύσεως di Parmenide. L’Eleate ricorre
all’immagine dei «πείρασι δεσμῶν»39, dei grandi o possenti legami che

34
P. Courcelle, Connais-toi toi-même. De Socrate à Saint Bernard, cit., p. 313.
35
Cfr. Sancti Aurelii Augustini Confessionum Libri Tredecim, in Patrologia latina
(d’ora in avanti PL), J.-P- Migne (a cura di), Parisiis 1841, vol. XXXII, t. 1, lib. VI,
cap. 12, p. 730; ivi, lib. VIII, cap. 5, p. 753; ivi, lib. III, cap. 1, p. 683; ivi, lib. III,
cap. 8, p. 690; ivi, lib. IV, cap. 6, p. 698; ivi, lib. VII, cap. 7, p. 739; ivi, lib. VIII,
cap. 6, p. 754; ivi, lib. VIII, cap. 9, p. 760; ivi, lib. IX, cap. 1, p. 763.
36
Cfr. P. Courcelle, Connais-toi toi-même, cit., pp. 349-350.
37
Cfr. Platone, Fedone, 67 d.
38
Cfr. M. Ficini, Mercurij Trismegisti Pymander, de potestate et sapientia Dei item
Asclepius voluntate Dei, in Opera, cit., vol. II, cap. VII, p. 1845; cfr. Id., Mercurii
Trismegisti Pimander sive de potestate et sapientia Dei, testo greco a fronte, M. Cam-
panelli (a cura di), Torino 2011, p. 47.
39
Parmenide, Frammenti B 8.26-30 Diels-Kranz, in I Presocratici. Prima tra-
duzione integrale con testi originali a fronte delle testimonianze e dei frammenti della
raccolta Hermann Diels e Wather Kranz, G. Reale (a cura di), Milano 2006, p. 490.
42 giulio gisondi

mantengono l’essere immobile e immutabile, permanentemente identico


a sé stesso, ingenerato, unigenito, senza principio né fine, essendo state
scacciate da esso nascita e morte, in modo che mai possa mutare dive-
nendo altro da ciò che è. L’essere è una sfera rinchiusa dalla Necessità
inflessibile nei legami del limite, «ἐν δεσμοῖσιν ἔχει»40, affinché non
sia senza compimento, né manchevole di nulla. Questa limitazione
non è, però, l’effetto di un’immobilità imposta dall’esterno. Essa è,
piuttosto, il risultato di un’autolimitazione necessaria all’affermazione
dell’identità dell’essere.
Immutabilità, identità, atemporalità, permanenza, sono gli attributi
dell’immobilità in cui la necessità mantiene l’essere saldo, completo,
compiuto e inalterabile, per mezzo dei grandi e possenti legami del
limite. Essere immobile e immutabile che non è qui astratta ed esclu-
siva rappresentazione logica e metafisica, ma la stessa physis nel suo
intimo, continuo e infinito dispiegarsi senza disperdersi: una natura
al cui interno vi è movimento, ma che non si esaurisce in esso, né
tantomeno ne è affetta.
La nozione di legame e d’immobilità dell’essere che emerge dal
poema parmenideo rimanda, come ha osservato fra gli altri Barbara
Cassin41, sia per ragioni stilistico-formali, sia per motivi tematici e di
contenuto, a un altro poema e a un’altra immobilità: quella di Ulisse,
nel racconto dell’Odissea, che per sua volontà e su consiglio di Circe,
ordina ai suoi compagni di legarlo all’albero della nave con un «δεσμῷ
δήσατ»42, un nodo difficile o doloroso, affinché possa lui solo ascoltare
il canto delle Sirene rimanendo piantato lì, saldo al suolo, e di legarlo
con dei «δεσμοῖσι π ιέζειν»43, dei nodi ancor più numerosi e stretti,
qualora comandi di essere slegato.

40
Ibidem, B 8.31-34 Diels-Kranz.
41
B. Cassin, L’effet sophistique, Paris 1995, pp. 34-40; Id., Présentation, in Par-
ménide, Sur la nature ou sur l’ étant. La langue de l’etre?, B. Cassin (a cura di), Paris
1998, pp. 48-60.
42
Cfr. Omero, Odissea, introduzione e commento di A. Heubeck, trad. it. G.A.
Privitera, Milano 1983, vol. III, lib. XII, 160, p. 156.
43
Ibidem.
δεσμος συνδεσμος – vinculum nexus 43

Il linguaggio e l’esametro a cui Parmenide ricorre nel suo poema


sono direttamente ripresi dai poemi omerici. Questi costituiscono il
canone e il modello, il vocabolario e il lessico di riferimento di un nuovo
linguaggio filosofico poeticamente espresso. Come notava Allan. H.
Coxon44, nei circa centocinquanta versi pervenutici del Περί Φύσεως,
soltanto un termine ogni tre non è omerico; di questi cinquantacinque,
tutti, eccetto cinque, sono derivati o composti da termini presenti in
Omero45. Non si tratta di semplici parallelismi o del solo recupero dello
stile omerico, quanto piuttosto di una vera e propria riscrittura. Se
Omero è colui che ellenizza, che insegna a parlare e ad agire in greco,
Parmenide è colui che ne raccoglie l’eredità, il linguaggio, lo stile, il
verso. Egli, osserva ancora Cassin, è questa stessa eredità, colui che ha
preso il posto d’Omero, raccontando il suo poema come la nuova o
l’ultima Odissea, per cantare non più le imprese di Ulisse, ma un nuovo
e ultimo eroe, la natura o l’essere46.
Anche dal punto di vista tematico e contenutistico, l’Odissea offre
a Parmenide la sua materia. Ma l’Eleate riprende il poema omerico
donandogli una nuova significazione, interpretandolo e utilizzandolo
come un bacino di termini e concetti filosofici. Ecco, allora, che l’au-
tolimitazione di Ulisse, la sua immobilità forzata, violenta, esterna e,
al tempo stesso, interna, voluta e ordinata ai suoi compagni, offre la
possibilità di pensare l’altra immobilità, quella della natura o dell’essere,
come una sfera rinchiusa dalla necessità, Ἀνάγκη, nodo, nexus infalli-
bile e potente in grado d’incatenare nei legami del limite. Attraverso
il racconto omerico, riletto filosoficamente da Parmenide e trasposto
nel poema dell’essere o della natura, il δεσμός, il legame, il vincolo, la
catena, assume una significazione ontologica, particolarmente rilevante
nella successiva tradizione platonica e cristiano-neoplatonica.
L’accezione parmenidea del δεσμ ός, autolimitazione della sfera
dell’essere o natura, sembra far da sfondo a una terza significazione

44
A.H. Coxon, The Fragments of Parmenides, Assen 1986, p. 7.
45
B. Cassin, Présentation, in Parménide, Sur la nature ou sur l’ étant. La langue
de l’etre?, cit., p. 48.
46
Ivi, p. 49.
44 giulio gisondi

ontologica e cosmologica della nozione di vincolo, qual è quella riscon-


trabile nel Timeo di Platone. Esponendo nella prima parte del discorso
di Timeo come il cosmo includa in sé la totalità dei quattro elementi
fisici, Platone osserva che, affinché due cose si compongano bene e in
maniera bella, è necessario che vi sia tra loro un «δεσμὸν ἐν μέσῳ»,
un legame nel mezzo che congiunga l’una con l’altra. Il più bello dei
legami, «δεσμῶν δὲ κάλλιστος», è infatti quello che di sé stesso e delle
cose legate, συνδούμενα, fa una cosa sola. Solo ciò compie la bontà, la
bellezza, la proporzione47.
È questa stessa ragione a determinare, qualche riga oltre, la scelta
del Demiurgo di non voler dissolvere quanto è stato legato bene e in
maniera bella, poiché sciogliere ciò che è buono, bello e proporzionato
è da malvagi. Gli dei, i pianeti o corpi vitali, il cosmo intero, hanno vita
poiché sono stati avvinti dal Demiurgo con dei vincoli vitali, «δεσμοῖς
τε ἐμψύχοις σώματα δεθέντα ζῷα ἐγεννήθη»48. In quanto generati, essi
non sono eterni, ma dissolubili; tuttavia, non saranno disciolti, poiché
la volontà del Demiurgo è un legame maggiore e più forte di quello col
quale sono stati generati49.
Il δεσμός con cui il Demiurgo tiene legati a sé gli dèi, i pianeti e il
cosmo, ne impedisce la dissoluzione, garantendone l’unità e l’eternità.
Quest’unità cosmica, questo δεσμ όν indissolubile, si riflette in ogni
grado della realtà molteplice. Su ordine e a imitazione dell’azione del
Padre e Artefice, gli dèi, prendendo a prestito particelle dei quattro
elementi e congiungendole tra loro, legano i singoli corpi alle anime
immortali. Questi legami non sono però indissolubili, come quelli
con cui sono stati avvinti gli dèi e i pianeti, ma invisibili per la loro
piccolezza e dissolubili50.
Allo stesso modo, quest’unità cosmica del molteplice si riflette nella
costituzione dei corpi, le cui parti – sangue, vene, nervi, ossa e midollo
– sono tutte legate tra loro. Se giovani i corpi conservano la loro costi-

47
Platone, Timeo, 31b-34c.
48
Ivi, 38e-39a.
49
Ivi, 41a-41c.
50
Ivi, 42e-43a.
δεσμος συνδεσμος – vinculum nexus 45

tuzione originaria e possiedono una connessione vigorosa tra i singoli


elementi, mantenendosi vivi, saldi e resistenti agli elementi esterni, così
non è in vecchiaia. Questa non è che il deperimento del corpo inteso
come l’allentarsi, il venir meno e il disciogliersi dei suoi legami originari
che, non resistendo al sopravvento di elementi esterni, si dividono e si
sciolgono fino a provocare la morte, liberando le catene dell’anima51.
Il δεσμός non è, in queste pagine del Timeo, semplicemente l’espres-
sione di un legame particolare, singolo e individuale. Esso è, invece, la
rappresentazione cosmica, proporzionata, armoniosa e unitaria di una
realtà molteplice, strutturata in una serie inestricabile di numerosi e
indefiniti δέσμοι, di vincoli, di catene e nodi intrecciati e connessi gli
uni agli altri: dal legame indissolubile con cui il Demiurgo stringe a sé
gli dèi e i pianeti, garantendo l’eternità del cosmo, ai legami temporanei
con cui le anime sono contenute nei corpi, fino ai nodi e alle giunture
che mantengono i corpi vivi. Il δεσμός è, in altre parole, l’espressione
naturale dell’unità del molteplice, sinonimo di bontà, bellezza, propor-
zione e armonia, ragion per cui esso è indissolubile.
Questa realtà, in cui ogni cosa è proporzionalmente legata al suo si-
mile e contrario, intimamente concatenata, necessita, per essere appresa
e compresa correttamente, di un metodo adeguato che sappia riflettere
la continua dialettica dell’identificarsi e del trapassare dell’uno nel
molteplice e viceversa, delle parti nel tutto. A coloro che riflettano con
metodo sarà, allora, manifesto come un «δεσμὸς […] πεφυκὼς πάντων
τούτων»52, un solo legame naturale sia insito in tutte le cose. Legame,
unità, concatenazione presente in ogni manifestazione della realtà, in
ogni figura e composizione numerica, in ogni struttura armonica: dal
mondo naturale, con le rivoluzioni degli astri alla matematica, dalla
musica alla grammatica. Nel Filebo Platone osserva, per bocca di Socra-
te, come la grammatica sia la scienza in grado di riconoscere il legame
unico – «τοῦτον τὸν δεσμὸν αὖ λογισάμενος»53 – che lega tra loro le
lettere dell’alfabeto. Nella prospettiva logico-linguistica e retorica, il

51
Ivi, 81d-81e.
52
Id., Epinomide, 991e-992a.
53
Id., Filebo, 18c-18d.
46 giulio gisondi

δεσμ ός si riflette nel λέγειν, incarna cioè la congiunzione e la giuntura


tra le lettere e le parole, tra le parti della frase e del discorso, così come
tra le immagini e i pensieri, configurandosi come ciò che ne garantisce
l’ordine, l’armonia, la proporzione, la bellezza e l’efficacia. Conoscere
corrisponde alla capacità di riconoscere il legame profondo insito in
ogni cosa, in modo da saper e poter ricondurre l’uno ai molti e viceversa.
Il δεσμ ός, il legame, agisce in queste significazioni platoniche in
senso cosmologico, ontologico e gnoseologico. La generazione del co-
smo e della φύσις, con tutte le sue manifestazioni, e la concatenazione
dell’essere, coincidono fino a fondersi e a confondersi l’una nell’altra.
Il vincolo è ciò che lega cielo e terra, sensibile e soprasensibile, mondo
superiore e inferiore, umano e divino, finito e infinito, unità e molte-
plicità, l’anello di congiunzione che tiene unito il cosmo e, al tempo
stesso, garantisce la comunicazione tra piani diversi dell’essere.

2. Vinculum, nexus. Catene del debito, vincoli di perfezione, nodi


d’amore

La nozione di legame nel mondo latino proviene da lontano. Nel


diritto romano delle XII tavole, questa è originariamente associata
al nexum, il vincolo di fede e di parola tra creditore e debitore: «cum
nexum faciet mancipiumque, uti lingua nuncupasit, ita ius esto»54. Si
tratta di una delle più antiche forme di obbligazione non contrattuale,
fondata sul rituale detto per aes et libram, con cui il creditore, tenendo
nelle proprie mani una certa quantità di bronzo e pronunciando di
fronte a cinque testimoni una damnatio, dichiarava l’entrata in vigore
del nexum55. Il debitore era così vincolato a lavorare al servizio del
creditore fino al rimborso del debito contratto.

54
P.F. Girard, Textes de droit romain, vol. II., Les lois des Romaines, Napoli 1977,
p. 23.
55
Cfr. H. Lévy-Bruhl, L’act «per aes et libram», in Nouvelles études sur le très ancien
droit romain, Paris 1947, p. 97.
δεσμος συνδεσμος – vinculum nexus 47

Nonostante gli effetti concreti e le conseguenze materiali che po-


tevano verificarsi dalla mancata restituzione del debito, il nexus si fon-
dava esclusivamente sul rito e sulla parola. Questo non rappresentava,
infatti, una necessità contrattuale, ma astratta o metafisica. Proprio
in questo senso Henry Lévy-Bruhl, George Gurvitch e Paul Huvelin
hanno interpretato questa forma d’obbligazione come ciò che permette
di considerare le forme arcaiche del diritto romano in una dimensione
magica e rituale56. Vi è magia nel nexum nella misura in cui vi è un po-
tere, non contrattuale, che eccede il soggetto stesso e a cui quest’ultimo
non può sottrarsi. La damnatio pronunciata dal creditore corrispondeva
all’esercizio o all’atto di una pratica di potere essenzialmente magica57.
La magia legata al nexum si configurava come un mezzo tecnico in
grado di garantire un diritto, in un tempo in cui la contrattazione
non implicava ancora un’obbligazione, ma era limitata alla forma di
un impegno fondato innanzitutto sulla parola e sul rito. La magia
rappresentava, così, la condizione richiesta per l’istituzione di un vin-
colo di diritto. Soltanto nel VI secolo d. C. la nozione di legame sarà
pienamente espressa secondo la nota definizione raccolta nel Corpus
iuris civilis giustinianeo, «obligatio est iuris vinculum quo, necessitate,
adstringimur alicuius solvendae rei, secundum nostrae civitatis»58.
Questi problemi non sono estranei a un’analisi della formulazione
bruniana di vinculum. I concetti e il lessico del diritto romano non sono
elementi confinati a un remoto passato, ma costituiscono una viva e,
a volte, inconscia eredità terminologica e concettuale, rielaborata non
solo nella letteratura giuridica, ma nel patrimonio teologico, politico
e filosofico medievale e rinascimentale. Se in una prospettiva contem-
poranea questi ambiti del sapere possono essere distinti, sia in base al

56
Cfr. Id., Nexum et mancipation, in Quelque problème du très ancien droit romain.
Essais de solutions sociologiques, Paris 1994, p. 138; cfr. G. Gurvitch, La magie et le droit,
F. Terré (a cura di), Paris 2004; cfr. P. Huvelin, Le tablettes magiques et le droit romain,
in Études d’ histoire du droit commercial romain, H. Lévi-Bruhl (a cura di), Paris 1929.
57
P. Huvelin, La magie et le droit individuel, in «L’année sociologique», 1905, p. 35.
58
Cfr. Iustiniani Institutiones, I, 3, 13; cfr. J. Gaudemet, Naissance d’une notion
juridique. Les débuts de l’«obligation» dans le droit de la Rome antique, in «Archive de
philosophie du droit», XLIV (2000), pp. 19-32.
48 giulio gisondi

linguaggio proprio a ciascuna disciplina, sia alle categorie concettuali


utilizzate, questa separazione non sembra poter valere pienamente prece-
dentemente all’età moderna. Il linguaggio teologico, politico, giuridico
e filosofico e i rispettivi limiti tra questi ambiti, rappresentano, almeno
sino alla fine del XVI secolo, dei confini labili e non pienamente de-
finibili, sovrapposti l’uno all’altro. Queste discipline si alimentano di
uno stesso patrimonio terminologico e concettuale.
Un caso particolarmente rilevante d’acquisizione e trasposizione
di lessici e concetti provenienti dalla terminologia giuridica romana
è legato al loro uso teologico. L’operazione compiuta dai padri latini
della Chiesa si caratterizza per il recupero del patrimonio linguistico
della cultura romana classica, riformulato ai fini della creazione di un
apparato terminologico e concettuale cristiano. E ciò vale anche per
l’utilizzo del termine vinculum e della significazione che questa assume
nella patristica latina e, successivamente, nella teologia scolastica.
La presenza del lemma vinculum è attestata in diversi luoghi della
Vulgata di Girolamo, in particolare, nelle Epistolae di Paolo di Tarso.
In Colossesi 3, 14, ad esempio, l’amore e la carità sono definite come
«vinculum perfectionis»59 o «σύνδεσμος τῆς τελειότητος»60. Secondo lo
stesso modello, in Efesini 4, 2-3, l’Apostolo definisce la carità il vinculum
pacis in cui la comunità cristiana deve raccogliersi al fine di rimanere
unita in un solo corpo: «solliciti servare unitatem spiritus in vinculo
paci»61, o «τῷ συνδέσμῳ τῆς εἰρήνης»62. Si tratta di due passaggi centrali
e particolarmente problematici nell’esegesi delle Epistolae paoline, specie
nei testi di commento di due autori ben noti a Bruno.
La formula vinculum pacis ripesa da Ef. 4, 3 è, ad esempio, larga-
mente utilizzata da Agostino per definire lo Spirito Santo come legame
che unisce non solo il Padre al Figlio, ma l’intera comunità cristiana in

59
Paolo, Lettera ai Colossesi, 3, 14, in Nuovo Testamento, P. Beretta (a cura di),
testo greco di Nestle-Aland, trad. interlineare A. Bigarelli, testo latino della Vulgata
Clementina, testo italiano della Nuovissima versione della Bibbia, Milano 2005, p. 1661.
60
Ivi, p. 1660.
61
Ivi, p. 1597.
62
Ivi, p. 1596.
δεσμος συνδεσμος – vinculum nexus 49

un solo e unico corpo63. L’importanza che Agostino attribuisce a tale


espressione è testimoniata dalla frequenza con cui essa compare nel
corpus: circa centotrenta occorrenze, di cui la maggior parte rintrac-
ciabili negli scritti di condanna di letture considerate erronee o non
ortodosse del cristianesimo64. Come lo Spirito Santo unisce il Padre e
il Figlio in una sola sostanza, allo stesso modo, esso è vincolo di pace,
in quanto raccoglie tra loro tutti i cristiani in una sola e unica Chiesa65.
In questa prospettiva appare chiara la ragione per cui Agostino utilizzi
l’espressione vinculum pacis in particolare contro Donatisti e Pelagiani:
questi ultimi sono, infatti, responsabili di aver rotto l’unità della Chiesa
e il vincolo della pace su cui essa era stata fondata66.
Lo Spirito Santo non è solo vincolo di pace, ma anche vinculum per-
fectionis67 ripreso da Col. 3, 14. In quanto carità e amore, la terza persona
rappresenta sia il legame teologico che permette di pensare l’identità tra
il Padre e il Figlio, sia il vinculum pacis e perfectionis spirituale e civile
su cui costruire l’unità religiosa e temporale delle comunità cristiane,
nel solco del messaggio e dell’opera dell’Apostolo Paolo. L’utilizzo delle
espressioni vinculum pacis e vinculum perfectionis assume sin da subito,
nella storia del cristianesimo, un valore non esclusivamente teologico,
ma civile, laddove i due ambiti non sembrano essere distinti.
Un’accezione particolarmente significativa e originale di vinculum
è quella che compare nella conclusione del libro I del Periphyseon di

63
Cfr. Sancti Aurelii Episcopi Enarratio in Psalmum LIV in PL, cit., vol. XXXVI,
t. IV, pars 1, 1865, p. 638; Id., Contra Faustum Manichaeum, Libri XXXIII, in PL,
cit., vol. XLII, t. VIII, 1865, lib. XII, cap. 6, p. 262.
64
Cfr. R.J. Rombs, Vinculum pacis: Ef 4, 3 en la pneumatología de Augustín, in
«Augustinus. Revista trimestral publicada por los Augustinos recoletos», LVI (2011),
220-221, p. 176.
65
Cfr. Sancti Aurelii Augustinii Sermo LXXI, in PL, cit., vol. XXXVIII, t. 5,
pars 1, 1845, cap. 12, pp. 453-456.
66
Cfr. Id., Epistula XLIII, in PL, cit., vol. XXXIII, t. 2, 1865, cap. 8, p. 171; ivi,
Epistola XLIV, cap. 5, p. 179; ivi, Epistola LXI, p. 229.
67
Cfr. Id., In Ioannis Evangelium tractatus centum viginti quatuor, in PL, cit., vol.
XXXV, t. 3, 1864, tr. CXVIII, p. 1949; cfr. Id., Contra Cresconium grammaticum
Partis Donati, in PL, cit., vol. XLIII, t. 9, 1865, lib. II, cap. 14, pp. 476-477; Id., De
gratia et libero arbitrio, vol. XLIV, t. 10, pars 1, 1845, lib. I, cap. 17, p. 902.
50 giulio gisondi

Giovanni Scoto Eriugena, laddove fornisce una definizione dettagliata


dei termini connexio e vinculum:

Primum igitur hanc amoris definitionem accipe. Amor est connexio


ac vinculum, quo omnium rerum universitas ineffabili amicitia inso-
lubiique unitate copulatur. Potest et sic definiri: Amor est naturalis
motus omnium rerum quae in motu sunt, finis quietaque statio, ultra
quam nullus creaturae progreditur motus68.

L’amor è per Eriugena la connexio di tutte le realtà dell’universo, il


vinculum che tiene legata ogni cosa in un rapporto di amicizia universale
e in un’unità indissolubile. L’amore è il moto naturale di tutte le cose,
il fine, la quiete al di là della quale non procede nessuna cosa. Amore
è Dio, luogo di tutti i luoghi, coincidenza di tutte le cose.
Attraverso i termini e i concetti di amor, connexio e vinculum, Eri-
ugena recupera un patrimonio terminologico e concettuale più pros-
simo all’accezione greca e platonico-parmenidea del δεσμός, unità del
molteplice, coincidenza di ogni manifestazione dell’essere, piuttosto
che la formulazione paolina e agostiniana. L’accezione eriugeniana di
vinculum, amor e connexio, costituisce un supporto all’elaborazione
dell’idea di coincidentia che sarà propria a Nicolò Cusano e a Bruno.
Seppur non sappiamo quanto il Nolano possa aver avuto accesso a
una lettura diretta del Periphyseon, quest’ultimo è, però ampiamente
presente nell’opera di Cusano, diretta e centrale fonte bruniana69. La
formulazione eriugeniana del vinculum, legame amoroso della molte-
plicità dell’esistente, rappresenta un fondamentale presupposto, nella
cultura teologica e filosofica latina, all’immagine di Dio e della natura
intese come connessione e coincidenza di tutte le cose.

68
G. Scoto Eriugena, Periphyseon, N. Gorlani (a cura di), Milano 2013, lib. I,
518c-519b, pp. 386-387.
69
Cfr. P. Secchi, «Del mar più che del ciel amante». Bruno e Cusano, Roma 2006;
cfr. C.M. Riccati, “Processio” et “explicatio”. La doctrine de la création chez Jean Scot
et Nicolas de Cues, Napoli 1983.
δεσμος συνδεσμος – vinculum nexus 51

Oltre all’accezione agostiniana della terza persona quale vinculum


pacis o perfectionis, profondamente ancorata alla lettura e al messaggio
paolino, o di quella eriugeniana di Dio e della natura come luogo e
amoris vinculum di tutte le cose naturali, è negli scritti dell’Aquinate
che occorre ricercare un approfondimento maggiore della questione. Se
Tommaso riprende in diversi luoghi della Summa Theologiae la declina-
zione paolina e agostiniana dello Spirito Santo come legame di carità
o d’amore, necessario a ogni cristiano e all’intera comunità, anche più
della stessa fede70, questa non rappresenta, tuttavia, la sola accezione.
Negli Scripta super libros Sententiarum, riprendendo quanto affermato
da Dionigi Areopagita a proposito della forza unitiva dell’amore, nonché
la nozione di carità come vinculum pacis presente in Ef. 4, 3, egli scrive:

Contra, Dionysius (De div. nom. 4): «amorem sive divinum sive an-
gelicum sive intellectualem sive animalem sive naturalem dicamus,
unitivam quamdam et concretivam accipimus virtutem». Sed spiritus
sanctus est amor patris et filii. Ergo est unio ipsorum. Hoc etiam
videtur ex auctoritate apostoli, Eph. 4, 3: «solliciti servare unitatem
spiritus in vinculo pacis»; et ita amor habet rationem vinculi et nexus71.

Lo Spirito Santo è il vinculum o il nexus, l’amore e la forza unitiva


che lega il Padre e il Figlio in una stessa sostanza. Tuttavia, qualche
riga oltre, Tommaso pone una distinzione nel modo di considerare
la terza persona. Lo Spirito Santo è persona in quanto procede, ma
al tempo stesso, si configura come amore o vincolo per il modo della
processione dal Padre al Figlio: «Ad primum ergo dicendum, quod
ex ipsa processione spiritus sanctus habet quod procedat ut persona;
sed ex modo processionis habet quod sit vinculum vel unio amantis

70
Sancti Thomae Aquinati Summa Theologiae, in Opera omnia iussu impensaque
Leonis XIII P.M. edita, Romae 1888-1906: cfr. I-II, t. VII, 1892, q. 107, a. 1 co., p.
279; cfr. ivi, II-II, t. VIII, 1895, q. 4, a. 7, ad. 4, p. 52; cfr. ivi, II-II, t. VIII q. 39 a.
1 co., p. 306; cfr. ivi, III, t. XII, 1906, q. 73, a. 3, ad. 3, p. 141.
71
Id., Commento alle sentenze di Pietro Lombardo, Libro I, Distinzioni 1-21, in-
troduzione di I. Biffi, trad. it. P.R. Coggi, con testo integrale di Pietro Lombardo,
Bologna 1999, vol. I, d. 10, q. 1, a. 3, p. 598.
52 giulio gisondi

et amati72. Ogni amore è vincolo o unione tra l’amato e l’amante, allo


stesso modo in cui il Padre e il Figlio si amano tra loro. E ancora,
interrogandosi nel primo libro, sulla scorta di Ugo di San Vittore, se
la terza persona sia amore o persona, osserva come «omnis amor quo
aliqui se diligunt, est vinculum vel nexus uniens eos73. Ogni amore
rappresenta un vincolo e un nodo. Poiché lo Spirito Santo procede
dal Padre al Figlio in quanto amore, esso non è soltanto persona, ma
legame indissolubile sia in senso teologico in rapporto alla trinità, sia
in senso ontologico in rapporto all’ambito del creato.
Tra i Libri super sentantiarum e la Summa theologiae il vocabolario
dell’Aquinate muta leggermente: l’utilizzo di vinculum scompare dalle
definizioni attribuite alla terza persona, per lasciare il posto al solo
nexus, in alcuni casi associato a unio74. Egli recupera un termine e una
nozione originariamente estranei al lessico teologico, per formalizzare la
relazione d’amore tra Padre e Figlio per mezzo dello Spirito Santo. Ma
se in questi passi Tommaso sembra ispirarsi a una tradizione esegetica
già consolidata, avvalorando la sua tesi con riferimenti a Ugo di San
Vittore, a Dionigi Areopagita, ad Agostino o a Paolo, egli propone,
invece, una definizione della terza persona che si spinge oltre queste
fonti. Nell’introdurre l’espressione nexus amoris egli rimanda in diversi
casi al De trinitate del vescovo d’Ippona75. Tuttavia, come rilevato da
Christine Osborne76, nel testo agostiniano quest’espressione è assente.
Tommaso rielabora la formulazione agostiniana dell’amore copulans,
trasposta nella definizione dello Spirito Santo come unio vel nexus,
forza o virtù che lega e stringe la prima e la seconda persona della
Trinità in un’unione reale. Tuttavia, proprio questa trasposizione e
questa formulazione della terza persona come nodo d’amore tra Padre

72
Ibidem.
73
Ivi, Libro I, Distinzioni 22-48, vol. II, d. 32, q. 1, a, 1, pp. 396-398.
74
Id., Summa theologiae I, in Opera omnia, cit., t. IV, q. 37, a. 1, ad. 3, p. 388.
75
Cfr. ivi, I-II, in Opera omnia, cit., t. VI, q. 26, a. 2, p. 189; cfr. ivi, q. 28, a.
1, p. 197
76
C. Osborne, The nexus amoris in Augustine’s Trinity, «Studia Patristica», vol.
XX, Leuven 1989, pp. 309-312.
δεσμος συνδεσμος – vinculum nexus 53

e Figlio, pongono una distanza tra l’interpretazione tomista e quella


agostiniana della Trinità.
L’utilizzo di vinculum, nexus e connexio sia nella definizione del
ruolo intermedio della terza persona nel dogma trinitario, sia nella
formulazione eriugeniana di Dio quale unione e legame universale,
rappresentano due elementi significativi tra XV e XVI. Cusano, ad
esempio, rielabora in diversi luoghi delle sue opere, il tema e il lessico
eriugeniano della divinitas come coincidentia di tutte le cose, amor,
unitas, nexus e connexio. Nel diciassettesimo capitolo del libro II del De
coniecturis, egli definisce Dio un’infinita unità, uguaglianza e connes-
sione: attributi questi che, soltanto in un essere assolutamente semplice
quale egli è, coincidono: «Divinitas autem est unitas infinita, aequalitas
atque conexio, ita quidem quod in unitate sit aequalitas et conexio,
in aequalitate unitas et conexio, in conexione unitas et aequalitas»77.
La connexio rende possibile l’unire, il legare, la perfetta eguaglianza e
coincidenza del molteplice nell’unità divina. Essa è la manifestazione
dell’amore con cui Dio, legando il creato e le creature, permette a ogni
cosa, ognuna secondo il proprio grado e le proprie possibilità, di parte-
cipare all’unità e alla perfezione divine. Ogni cosa è connessa e legata
all’altra, al suo simile, al suo contrario e opposto, così come all’infinità
di Dio e al suo infinito amore. Connexio e amor sono essenzialmente
legati, posti l’uno e l’altro in relazione all’unità di Dio. Cusano identi-
fica questi due termini, poiché entrambi rappresentano l’atto con cui
la forza divina crea il mondo e lo mantiene eternamente legato:

Elicis ex te ipso equidem hanc amoris conexionem firmissimam esse,


quae est in unitate. Nam amorem conexionem et unitatem dicere
vides. Unit enim amor amantem cum amabili. Non est autem amor
seu naturalis conexio, qua caput corpori tuo unitur, alius amor quam
ille, qui ex unitate atque aequalitate procedit78.

77
N. Cusano, De coniecturis, in Opere filosofiche, teologiche e matematiche, E. Peroli
(a cura di), Milano 2017, lib. II, cap. 17, rr. 173-174, p. 508.
78
Ivi, lib. II, cap. 17, rr. 181-182, pp. 516.
54 giulio gisondi

Riformulando la nozione di legame recepita dalla tradizione cri-


stiano-neoplatonica, Dio è per Cusano unità e semplicità assolute,
infinito amore, connexio naturale e cosmica. Questa non è, però, l’unica
accezione relativa alla nozione di legame.
Nel De possest egli recupera e riformula in senso platonico il lessico
tomista utilizzato nella definizione della Trinità come unitrinitarietà
di Dio, «absoluti posse quam nominamus patrem», del Verbo, «quam
quia est ipsius nomunamus filius patris» e dello Spirito Santo «utriu-
sque nexum, quam spiritum vocamus, cum naturalis amor sit nexus
spiritalis patris et filii»79. Dio è per Cusano coincidenza di posse ed
esse, o meglio, di posse facere e posse fieri, aequalitas di potenza e atto,
di poter essere e poter essere fatto, colui il quale è in atto tutto ciò che
può essere in potenza, possest.

Cum igitur haec sit se habeant, quod deus sit absoluta potentia et
actus utriusque nexus et ideo sit actu omne possibile esse, patet ipsum
complicite esso omnia. Omnia enim, que quocumque modo sunt aut
esse possunt, in ipso principio complicantur, et quaecumque creata
sunt aut creabuntur, explicantur ab ipso, in quo complicite sunt80.

Se Dio è in atto tutto ciò che può essere, così non è per il mondo
creato. La creazione e le creature sono escluse dall’uguaglianza e coin-
cidenza riservate alla relazione tra Padre e Figlio, permanendo sempre
uno scarto ontologico tra l’ambito finito della creazione e quello infinito
della generazione. In quanto unitrinitarietà delle persone divine, Dio
è relazione di consustanzialità e di co-eternità, assoluta uguaglianza e
coincidenza di esse. Il rapporto tra il Padre e il Figlio per mezzo dello
Spirito Santo rappresenta per Cusano il legame tra l’assoluta potenza,
l’essere infinito e il loro nexus. Questi tre termini, posse, esse e nexus sono
in Dio una stessa e identica cosa. Soltanto nella relazione trinitaria tra
Dio e Cristo per mezzo dello Spirito Santo vi è coincidenza assoluta
di potenza e atto e del loro nesso.

79
Id., Trialogus de possest, in Opere, cit., rr. 48-49, p. 1408.
80
Ivi, rr. 8-9, p. 1358.
δεσμος συνδεσμος – vinculum nexus 55

Nam sine potentia et actu atque utriusque nexu non est nec esse potest
quicquam. Si enim aliquid horum deficeret, non esset. Quomodo enim
esset si esse non possest? Et quomodo esset si actus non esset, cum
esse sit actus ? Et si posset esse et non esset, quomodo esset ? Oportet
igitur utriusque nexum esse. Et posse esse et actu esse et nexus non
sunt alia et alia. Sunt in enim eiusdem essentiae, cum non faciant
nisi unum et idem81.

Cusano riafferma il dogma della Trinità attraverso una conside-


razione che lega il linguaggio tomista all’unitrinitarietà di Dio, sul
modello della relazione platonico-parmenidea tra l’unità dell’essere e la
molteplicità delle sue manifestazioni. In altre parole, in quanto struttura
interna del divino, la potenza, l’essere e il loro nesso, si explicano nell’in-
tero universo riflettendosi sotto forma di connexio, aequalitas e unitias:

Quoniam unitas aeterna est, aequalitas aeterna est, similiter et


connexio aeterna. Sed plura aeterna esse non possunt. Si enim plura
essent aeterna, tunc, quoniam omnem pluralitatem praecedit unitas,
esset aliquid prius natura aeternitate; quod est impossibile. Praeterea,
si plura essent aeterna, alterum alteri deesset ideoque nullum illo-
rum perfectum esset; et ita esset aliquod aeternum, quod non esset
aeternum, quia non esset perfectum. Quod cum non sit possibile,
hinc plura aeterna esse non possunt. Sed quia unitas est, aequalitas
aeterna est, similiter et connexio: hinc unitas, aequalitas et connexio
sunt unum. Et haec est illa trina unitas, quam Pythagoras, omnium
philosophorum primus Italiae et Graeciae decus, docuit adorandum82.

Il ricorso alla coppia terminologica e concettuale vinculum/nexus


costituisce, infine, un tratto comune anche alla prospettiva riformata.
Giovanni Calvino, ad esempio, ricorre alla relazione intrapersonale tra
Padre e Figlio sia per descrivere il rapporto tra la comunità dei fedeli

81
Ivi, rr. 47-48, p. 1406.
82
Id., De docta ignorantia, in Opere, cit., lib. I, cap. 7, rr. 21-22, p. 28.
56 giulio gisondi

e Dio per mezzo di Cristo, sia il legame tra i fedeli e Cristo attraverso
lo Spirito Santo.
Nel primo capitolo del libro III dell’Institutio christianae religionis,
Calvino definisce lo Spirito Santo il «vinculum» che «nos sibi efficaciter
devincit Christus»83. Come la terza persona, così il Cristo rappresenta
il legame attraverso il quale la pietà di Dio consente ai fedeli di strin-
gersi in un solo corpo. Nel capitolo secondo del libro III, recuperando
l’immagine del Cristo vinculum pacis e perfectionis egli scrive:

Ille est filius dilectus in quo residet et aequiescit amor patris (Matt.
3, 17 et 17, 5), et ad nos deinde ab eo se diffundit: sicut docct Paulus
(Eph. 1, 6) […]. Proinde apostolus alibi pacem nostram ipsum vocat,
alibi ceu vinculum proponit, quo paterna pietate Deus nobiscum de-
vinciatur (Eph. 2, 4; Rom. 8, 3)84.

Se si è condotti a Dio dalla mediazione del Figlio, vinculum pacis,


soltanto tramite lo Spirito Santo è possibile congiungersi a Cristo. Come
Calvino rileva nel diciassettesimo capitolo del libro IV: «Dominus
largitur, ut unum corpore, spiritu et anima secum fiamus. Vinculum
ergo istius coniunctionis est spiritus Christi, cuius nexu copulamur; et
quidam veluti canalis, per quem quidquid Christus ipse et est et habet,
ad nos derivator»85. Anche nella trattazione calvinista dell’Institutio il
vinculum svolge un ruolo necessario, non soltanto nella definizione
dogmatica della relazione intrapersonale, ma anche sul piano antropo-
logico del rapporto della comunità dei cristiani con le persone divine
per mezzo dello Spirito.
Il ricorso a vinculum e nexus nella definizione del rapporto intratri-
nitario e, al tempo stesso, della relazione tra Dio e la comunità dei fedeli
per mezzo di Cristo e dello Spirito Santo, rappresenta un elemento co-

83
Ihoannis Calvini Institutio christianae religionis, in Opera quae supersunt omnia,
ediderunt J.-W. Baum, E. Cunitz, E. Wilhelm, E. Reuss, Berlin 1864, vol. II, lib.
III, cap. 1, p. 394.
84
Ivi, lib. III, cap. 2, p. 425.
85
Ivi, lib. IV, cap. 17, p. 1011. 
δεσμος συνδεσμος – vinculum nexus 57

mune tanto alla prospettiva cattolica, quanto a quella riformata. Quella


di legame, δεσμός e σύνδεσμος, vinculum e nexus, con le sue molteplici
significazioni e usi, è una nozione originaria, centrale e necessaria in
tutta la tradizione cristiana, pur nelle sue differenti forme.

3. Tra teologia e filosofia naturale. Alle origini della nozione bruniana


di vinculum-nexus

Dalla ricostruzione terminologica e concettuale svolta è possibile


osservare come la nozione di legame, giunga a Bruno attraverso la
mediazione della riflessione teologica sul ruolo intermedio della terza
persona nel dogma trinitario, prim’ancora che per il tramite della let-
teratura magica.
Dalla lettura delle opere di Cusano e indirettamente, di Eriugena,
di Dionigi Areopagita e dei Padri della Chiesa, dallo studio diretto dei
testi di Tommaso e di Agostino, egli riformula e traspone, sin dalle
prime opere parigine, la nozione di legame dalla teologia alla filosofia
naturale. Il legame non è più l’amore trinitario tra Padre e Figlio per
mezzo dello Spirito Santo. Questo è, invece, il nexus, il vinculum amo-
ris che lega e riconduce la molteplicità delle manifestazioni dell’essere
all’unità della causa e principio primo. Il rifiuto del dogma della Trinità
e dell’Incarnazione costituisce non soltanto uno dei più gravi capi d’ac-
cusa in sede processuale, ma il presupposto necessario nell’impalcatura
teorica della sua filosofia, radicato sin dagli anni della formazione nel
convento domenicano di San Domenico Maggiore a Napoli:

Parlando christianamente et secondo la teologia che ogni fidel cristiano


et chatolico deve creder, ho in effetto dubitato circa il nome di persona
del Figliuolo et del Spirito Santo, non intendendo queste due persone
distinte dal Padre se non nella maniera che ho detto de sopra parlando
filosoficamente, et assegnando l’intelletto del Padre per il Figliuolo et
l’amore per il Spirito Santo, senza conoscer questo nome persona, che
appreesso sant’Augustino è dichiarato nome non antico, ma novo et di
suo tempo; et questa opinione l’ho tenuta da disdotto anni della mia
58 giulio gisondi

età sino adesso […]. Ho creduto et tenuto indebitamente tutto quello


che ogni fidel cristiano deve tenere et credere della prima persona.
Quanto alla seconda persona io dico che realmente ho tenuto essere
in essentia una con la prima, et cusì la terza; perché, essendo indistinte
in essentia, non possono patire inegualità, perché tutti li attributi che
convengono al Padre convengono anche al Figliuolo et Spirito Santo;
solo ho dubitato come questa seconda persona se sia incarnata, come
ho detto de sopra, et habbi patito, ma non ho però mai ciò negato,
né insegnato. Et se ho detto qualche cosa di questa seconda persona,
ho detto per refferir l’opinione d’altri, come è de Ario et Sabellio et
altri seguaci86.

Dalla riflessione teologica sull’ambigua natura di Cristo, finita e


infinita, contraddizione non ammissibile ai suoi occhi, «perché tra
la substantia infinita et divina, finita et humana, non è proporzione
alcuna com’è tra l’anima et il corpo, o qual si voglian due altre cose
le quali possono fare uno subsistente»87, Bruno riconosce, come la
definiva Nicoletta Tirinnanzi, la «dissimmetria che sussiste tra essere
assoluto ed essere comunicato»88, la sproporzione tra «conoscibile og-
getto e conoscitiva potentia»89. Questa sproporzione, questo scarto tra
finito e infinito, costituisce il punto nodale e originario della filosofia
bruniana, costantemente in bilico tra Ombra e Luce, Uno e molteplice,
complicato ed explicato.
Il rifiuto della Trinità e dell’incarnazione sul piano teologico è stret-
tamente legato al modo di concepire il problema dell’infinito e della
relazione tra il principio e i principiati, tra Dio e la sua generazione. Se
l’incarnazione di Cristo e la distinzione trinitaria delle persone divine
non sono legittime sul piano teologico, lo divengono, invece, in una
prospettiva ontologica e cosmologica in cui, all’immagine di Cristo
generato e non creato, della stessa sostanza del Padre, vi è «lo universo,

86
Cfr. Processo, p. 170.
87
Ivi, p. 173.
88
Causa, p. 1051, nota 6.
89
Ivi, p. 1031, nota 10.
δεσμος συνδεσμος – vinculum nexus 59

che è il grande simulacro, la grande imagine e l’unigenita natura»90.


È questa una radicale trasposizione delle categorie della tradizione
teologica riformulate e applicate alla filosofia naturale: come osserva
Antonella Del Prete, «ce phénomène n’a cependant pas le sens d’une
théologisation du monde, mais d’une naturalisation du divin, qui perd
tous les caractères personnels qui lui étaient traditionnellement attri-
bués par la théologie chrétienne»91. Bruno fonda il rifiuto del dogma
trinitario sull’impossibilità di una distinzione reale delle persone divine,
vale a dire dell’assolutamente semplice e indivisibile. Tuttavia, se questa
distinzione gli appare inconciliabile sul piano teologico, egli traspone
la terminologia trinitaria su di un piano ontologico, riformulando la
nozione di relazione come vinculum e nexus, «impiegato non più in
divinis ma in naturalibus»92: se in Tommaso e in Cusano il legame
pone la co-eternità e l’unione delle persone divine, per Bruno esso di-
viene il tramite che permette la relazione tra Dio e l’universo. In questa
prospettiva egli opera, come suggerisce Pietro Secchi93, un passaggio
dalla «fidel teologia» alla «vera teologia»94: non è più il Cristo ma l’u-
nigenita natura, l’universo, a essere il vero figlio di Dio, simulacro e
immagine della sua infinità95.
Quello che nasce e si origina come un problema di carattere teologi-
co si tramuta in Bruno, nel corso degli anni conventuali, nella presa di
coscienza di una questione filosofica. Si tratta di una naturalizzazione
della teologia e dell’immagine di Dio: una divinità nella quale non
sussiste più separazione tra necessità e libertà, ma in cui la libera volontà
è posta come assoluta necessità. Dio, causa e principio vitale, non può
che manifestare infinitamente la sua potenza nell’eterno processo di ge-

90
Causa, p. 248.
91
A. Del Prete, La relation entre dieu et l’univers chez Giordano Bruno, in Giordano
Bruno. Une philosophie des liens et de la relation, A. Del Prete e T. Berns (a cura di),
Bruxelles 2016, p. 22.
92
P. Secchi, «Del mar più che del cielo amante», cit., p. 122.
93
Ivi, p. 126.
94
Cena, p. 13.
95
Cfr. S. Carannante, Unigenita natura. Dio e universo in Giordano Bruno, Roma
2018, pp. 49-89.
60 giulio gisondi

nerazione e rigenerazione dell’universo, «essendo l’azzion sua necessaria,


perché procede da tal volontà, quale per essere inmutabilissima, anzi
la immutabilità istessa, è ancora la stessa necessità»96. Il superamento
della distinzione e della separazione tra libera volontà e necessità in
Dio apre a una nuova immagine sia del divino, sia dell’universo, non
creato, ma generato dal Padre e di conseguenza infinito97.
Se dalla riformulazione dell’immagine di Dio, Bruno ridefinisce la
rappresentazione dell’universo, allo stesso modo, l’affermazione dell’in-
finità di questo porta con sé un ripensamento di Dio. La generazione
divina dell’universo non è il risultato di una libera volontà, ma l’espres-
sione di una necessità. E ciò appare possibile in quanto quella tra Dio e
l’universo è una relazione necessaria98. Tra il Padre e il Figlio, tra Dio
e l’universo vi è un rapporto di assoluta aequalitas, pur essendo questi
due termini distinti. Il prodotto della generazione divina non è pertanto
una degradazione dalla causa e principio primo: essendo consustanziale
a Dio, l’universo conserva l’infinità del Padre, seppur un’infinità expli-
cata che si dispiega nello spazio e nel tempo, e non complicata. È questa
un’«ontologie de la relation»99, nel senso che Bruno istituisce tra due
termini distinti, Dio e l’universo, un originario e indissolubile vincolo
simmetrico, che porta a identificarli e a sovrapporli. Una relazione
in cui non vi è alcun reale primato da parte di uno dei due termini
sull’altro, ma in cui entrambi sono necessari e coeterni l’uno all’altro. Il
primo e originario vinculum amoris rintracciabile negli scritti bruniani
è proprio questa relazione tra il Padre e il Figlio, non nel senso espresso
dalla teologia trinitaria, bensì dalla vera teologia o filosofia naturale, in
cui l’universo è il prodotto della generazione, l’immagine della divinità
immanente, ma conoscibile «difficilissimamente anco in vestigio»100.
Una trascendenza immanente di Dio che, pur essendo intimamente

96
Infinito, p. 336.
97
Cfr. M.A. Granada, Il rifiuto della distinzione tra «potentia absoluta» e «potentia
ordinata» di Dio e l’affermazione dell’universo infinito in Giordano Bruno, in «Rivista
di storia della filosofia», XCIV, 3 (1994), pp. 495-532.
98
Cfr. Processo, p. 268.
99
A. Del Prete, La relation entre Dieu et l’univers chez Giordano Bruno, cit., p. 27.
100
Causa, p. 205.
δεσμος συνδεσμος – vinculum nexus 61

presente nella natura, non si disvela e non si esaurisce mai pienamen-


te101. Alla radice di questa trasposizione della relazione trinitaria, vi è
da parte di Bruno il tentativo di rilegittimare la filosofia naturale come
originaria rispetto alla teologia cristiana, di liberare e restituire quelle
categorie e quel lessico alla loro fonte più autentica.

4. Problemi di metodo e di lessico nella formazione del giovane Bruno

La trasposizione bruniana del trinitarismo sul piano della filoso-


fia naturale non costituisce un problema esclusivamente dogmatico e
dottrinale, ma anche metodologico. Si tratta, cioè, del rifiuto di un
principio di autorità che impone l’unicità del lessico, del metodo e del
pensiero scolastico-tomista, sia in ambito teologico, sia filosofico. In
una considerazione infinita dell’essere e della natura, ogni linguaggio
e ogni pensiero possono rappresentare, cusanianamente, un tassello
progressivo e congetturale nell’accesso a una verità infinita e inattin-
gibile. Sin da giovane, tra le mura di San Domenico Maggiore, Bruno
contrappone all’unicità del lessico e del metodo dominante, la possibilità
di procedere attraverso una pluralità di linguaggi filosofici e teologici,
da quello dei padri della chiesa, tra cui gli eretici Ario e Sabellio102, ad
Agostino103 e Tommaso104.
Quest’atteggiamento, molto distante dalla metodologia domenica-
na, si comprende ripercorrendo sia la biblioteca ideale del Nolano, sia
le letture compiute, gli incontri e gli studi svolti prima dell’entrata in
convento tra il 1562 e il 1565. Non occorre insistere sulla formazione
conventuale avvenuta tra il 1565 e il 1576105, quanto, invece, soffermarci
brevemente sul ruolo che nel suo percorso biografico e intellettuale

101
A. Del Prete, La relation entre Dieu et l’univers chez Giordano Bruno, cit., p. 34.
102
Cfr. Processo, p. 191.
103
Ibidem.
104
Ivi, p. 177.
105
Cfr. Documenti, pp. 67-193; cfr. Giordano Bruno. Gli anni napoletani e la
‘peregrinatio’ europea: immagini, testi, documenti, E. Canone (a cura di), Cassino
1992, pp. 64-67.
62 giulio gisondi

assumono le tradizioni filosofiche e teologiche con cui venne a contatto


nei tre anni precedenti l’ingresso a San Domenico Maggiore: dall’inse-
gnamento presso lo Studio Pubblico dell’aristotelico-averroista Giovan
Vincenzo Colle detto il Sarnese, a quello privato del frate agostiniano
Teofilo da Vairano106.
Che questi incontri rappresentino un momento decisivo, è Bruno
stesso a testimoniarlo: nelle sue conversazioni con Guillaume Cotin,
bibliotecario dell’abbazia di Saint Victor di Parigi, egli contrappone
ed equipara il metodo aristotelico-scolastico dei domenicani a quello
tipico degli agostiniani, nonché di colui che considererà «le principal
meystre qu’il aite u en philosophie»107. La figura di Teofilo da Vairano
riveste un’importanza particolare: questi non è solo l’unico e vero ma-
estro, ma anche il portavoce della nolana filosofia nei dialoghi italiani.
In questa stessa conversazione con Cotin, egli aggiunge un secondo
elemento metodologico e dottrinale rilevante, laddove sostiene che le
«les subtilitez des scholastiques, des Sacres ments et mesmenent de
l’Eucharistie»108 non si ritrovano né in Pietro, né in Paolo, contrappo-
nendo il messaggio del cristianesimo delle origini alle interpretazioni
di matrice scolastico-tomista. Il rifiuto delle subtilitates scolastiche a
proposito del mistero eucaristico, a favore di una riscoperta del più
autentico messaggio apostolico, sembra giungere a Bruno proprio at-
traverso l’insegnamento di Teofilo.
Di quest’ultimo personaggio non conosciamo il nome al secolo.
Molto probabilmente prese i voti e si formò nello stesso centro di
Vairano, in provincia di Caserta, lasciandolo nel 1558, anno in cui
secondo i Regesti dell’Ordine venne assegnato allo Studio agostiniano

106
Processo, p. 156; cfr. C. Carella, Nuovi documenti su Teofilo da Vairano, «Bru-
niana & Campanelliana», XVIII, 2 (2012), pp. 405-419; cfr. Ead., Et solevo sentir
le lettioni publiche d’uno che si chiama il Sarnese, in «Nuovelles de la République des
Lettres», 1-2 (2004), pp. 133-135; cfr. Ead., Tra i maestri di Giordano Bruno. Nota
sull’agostiniano Teofilo da Vairano, «Bruniana & Campanelliana», I (1995), pp. 63-82.
107
L. Auvray, Giordano Bruno d’après le témoignage d’un contemporaine (Guillaume
Cotin) 1585-1586, «Mémoires de la Société de l‘Histoire de Paris et de l‘Isle-de-
France», XXVII (1900), p. 10.
108
Ibidem.
δεσμος συνδεσμος – vinculum nexus 63

di Napoli, entrando a far parte della comunità degli Eremiti del con-
vento di San Giovanni a Carbonara. Il convento degli agostiniani di
Napoli a cui Teofilo fu affidato era, insieme a quello domenicano di
San Domenico Maggiore, uno dei più importanti centri di studio e
formazione filosofica e teologica in Italia. Fino al 1551 era stato retto
dall’allora generale dell’Ordine, il cardinale e arcivescovo di Salerno
Gerolamo Seripando109, tra le voci di spicco del Concilio di Trento e di
una maggiore riforma della Chiesa. Allievo e segretario del precedente
generale dell’Ordine, il cardinale neoplatonico Egidio da Viterbo, Seri-
pando era stato amico e corrispondente di Juan de Valdés, pur restando
lontano dalle idee dei riformati sul piano dottrinale. Impegnato in
un’operazione di riconciliazione delle differenti posizioni all’interno
della chiesa cattolica, convinto sostenitore della pacificazione con i ri-
formati e della necessità di punire non l’eretico ma l’eresia, egli sostenne
durante il concilio tridentino tesi tutt’altro che controriformistiche e in
termini nient’affatto scolastici110. Seppur la posizione di conciliazione
e di riforma espressa dal cardinale all’interno del Concilio risultò mi-
noritaria, egli si adoperò, anche dopo la sua successione come generale
degli agostiniani e reggente di San Giovanni a Carbonara, affinché
tra le mura del convento vigessero gli stessi principi da lui sostenuti
a Trento, e ancor prima dal suo maestro Egidio da Viterbo, pur nel
rispetto dell’ortodossia cattolica.
È in questo contesto culturale, filosofico e religioso, che studiò e si
formò quel fra’ Teofilo da Vairano. Nel 1562, lo stesso anno dell’arrivo
di Bruno a Napoli, Teofilo fu promosso lettore e maestro111, titolo che
lo abilitava all’insegnamento della filosofia all’interno dell’Ordine che
affiancava all’attività privata. Nel suo cursus studiorum Teofilo lesse e
commentò Aristotele, per quel che atteneva la preparazione filosofica,

109
Cfr. H. Jedin, Girolamo Seripando. La sua vita e il suo pensiero nel fermento
spirituale del XVI secolo, G. Colombi e A.M. Vitale (a cura di), trad. it. A. Dente,
Brescia 2016, voll. II.
110
Cfr. A. Marranzini, Il problema della giustificazione, in Gerolamo Seripando e
la Chiesa del suo tempo, Atti del convegno (Salerno, 14-16 ottobre 1994), A. Cestaro
(a cura di), Roma 1997, p. 228.
111
Cfr. Documenti, pp. 98-99.
64 giulio gisondi

mentre si formò in materia teologica «iuxta sententiam Aegidii Ro-


mani vel sancti Thomae»112, secondo la ratio studiorum agostiniana.
Il programma di studi agostiniano era stato riformato dal Concilio
di Trento, che attribuiva all’Ordine la responsabilità di aver generato
l’eresia luterana: come osserva Candida Carella, questa era «una ratio
studiorum apparentemente simile a quella domenicana – lo stesso Egidio
Romano, allievo di san Tommaso, verrà definitivamente sostituito dal
Dottore Angelico, subito dopo l’edizione romana del 1570 delle opere
dell’Aquinate – ma quanto mai diversa nell’impostazione filosofica e
teologica»113.
Proprio il metodo col quale Teofilo faceva lezione dovette colpire
la mente e il carattere del giovane Filippo Bruno. Metodo fondato non
sulla disputatio tipica dei Domenicani, ma, come sottolinea Ciliberto,
«secondo il canone proprio dell’argumentare di Agostino, preferendo i
“colloquii” come via privilegiata nella ricerca della verità»114: «non per
modum disputationis, quae longe abesse a scientia salutis debet, sed per
modum familiari et pii colloqui»115. Inoltre, l’approccio degli agostiniani
ai problemi sia di carattere teologico, sia filosofico, si caratterizzava per
la conoscenza del greco e dell’ebraico, finalizzate a un’esegesi biblica
filologica, affiancata allo studio della matrice filosofica dell’agostinismo,
il platonismo e il neoplatonismo cristiano116.
Il giovanissimo Filippo Bruno ebbe modo di formarsi tramite il suo
maestro all’interno di questo contesto filosofico e religioso, frequentan-
do la biblioteca del convento che Seripando aveva costituito e arricchito
negli anni con le maggiori opere della tradizione neoplatonica cristiana,

112
Cfr. D. Gutierrez, Gli Agostiniani dal protestantesimo alla riforma cattolica
(1518-1648), Institutum Historicum Ordinis Fratrum S. Augustini, Roma 1972,
pp. 168-172.
113
C. Carella, Tra i maestri di Giordano Bruno. Nota sull’agostiniano Teofilo da
Vairano, cit., p. 69.
114
M. Ciliberto, Giordano Bruno, Il teatro della vita, Milano 2007, p. 23.
115
D. Gutierrez, Gli Agostiniani dal protestantesimo alla riforma cattolica, cit.,
p. 170.
116
C. Carella, Tra i maestri di Giordano Bruno. Nota sull’agostiniano Teofilo da
Vairano, cit., p. 69.
δεσμος συνδεσμος – vinculum nexus 65

degli scritti ermetici e di magia, facendo di essa uno dei più importanti
luoghi di letture e di discussioni filosofiche e teologiche del Regno
di Napoli, non riservato ai soli appartenenti all’Ordine, ma aperta e
accessibile a ogni studioso. Se il centro degli studi della Scolastica a
Napoli era sempre stato il convento di San Domenico Maggiore con la
sua prestigiosa Libraria117, il convento e la biblioteca di San Giovanni
a Carbonara118 furono nel XVI secolo uno dei più importanti centri di
studio del neoplatonismo cristiano, una vera e propria scuola di studi
platonici119: scuola che, come ha osservato Ingrid Rowland, «esercitò
una forte influenza su Bruno agli esordi del suo periodo napoletano»120
e dove egli poté accostarsi alla filosofia platonica, prim’ancora che agli
scritti di Aristotele e di Tommaso.
L’approccio degli agostiniani alla ricerca della verità, sia essa te-
ologica o filosofica, è particolarmente riconoscibile nelle pagine del
De gratia Novi Testamenti121, opera di Teofilo da Vairano redatta tra
il 1570 e il 1577, dedicata al cardinale Antonio Carafa, ma mai data
alle stampe. Nella seconda parte del suo De gratia, Teofilo, convinto
della validità del suo metodo, sceglie lo stile del dialogo, «a indicare
il carattere colloquiale – e non controvertistico – con cui deve proce-
dere la ricerca della verità»122. Egli descrive, sulla scia del progetto di
riforma sostenuto da Seripando, una chiesa in grado di non separare,
ma d’includere l’intera comunità dei cristiani attraverso il messaggio
d’amore e di carità del Nuovo Testamento. Le argomentazioni del frate

117
Cfr. E. Canone, Contributo per una ricostruzione dell’antica ‘Libraria’ di S.
Domenico Maggiore, in Giordano Bruno. Gli anni napoletani e la ‘peregrinatio’ europea,
cit., pp. 191-246.
118
Cfr. D. Gutiérrez, La biblioteca di San Giovanni a Carbonara di Napoli, «Ana-
lecta Augustiniana», vol. XXIX (1966), 59-212.
119
I. Rowland, Un fuoco sulla terra. Vita di Giordano Bruno, trad. it. G. Ernst,
Roma 2011, p. 46.
120
Ibidem.
121
Il manoscritto del De gratia Novi Testamenti, mm. 266 x 205, cc 272, oggi
Vat. Lat. 12056, proviene dal vecchio fondo Arm. X dell’Archivio Segreto Vaticano
(Arm. X, 68), oggi riordinato in Miscellanea Armadi I-XV, consultabile attraverso i
vecchi indici 218 e 210 e i nuovi indici 1029 I-II.
122
M. Ciliberto, Giordano Bruno, Il teatro della vita, cit., p. 23.
66 giulio gisondi

e teologo agostiniano, esposte sotto forma di dialoghi tra l’autore stesso


e personaggi come Pelagio e Donato, Tommaso ed Egidio Romano, fino
ai contemporanei Erasmo, Lutero, Melantone e Calvino, divergevano
radicalmente dall’ortodossia allora prevalente e sancita dal Concilio
di Trento: soffermandosi sull’aggettivo greco καθολικός e mostrando
come il prefisso καθα lo trasformasse nel superlativo di óλος, ovvero
“tutto”, “intero”, egli propone un’immagine della chiesa come comu-
nità universale123. Il maestro agostiniano osserva come i patriarchi
ebrei non fossero meno partecipi della verità divina di quanto non lo
fossero stati i santi cristiani, allo stesso modo in cui i primi cristiani
non erano meno ebrei degli stessi ebrei124. Ripercorrendo il Nuovo e
l’Antico testamento, gli scritti di Agostino e di Dionigi Areopagita, egli
contesta le affermazioni degli scolastici sulla grazia divina, il battesimo
degli infanti, il peccato originale e il libero arbitrio. Infine, un interes-
se particolarmente simbolico assume per Teofilo il fiume Giordano,
simbolo del «passaggio dall’ignoranza alla conoscenza, così che il suo
attraversamento da parte degli ebrei verso la terra promessa avrebbe
avuto un significato più spirituale che fisico. Nella sua visione, la loro
conseguente rinascita era esattamente comparabile al battesimo di Gesù
e al battesimo di ogni fedele cristiano»125.
Non sappiamo quanto questa visione della chiesa e del messaggio
evangelico, della metodologia di approccio ai testi e alle differenti tra-
dizioni di pensiero, siano stati centrali nelle lezioni di Teofilo al giovane
Bruno. Tuttavia, questa forma mentis socratica e filologica, molto vicina
alla tradizione umanistica nel modo d’affrontare problemi sia filosofici
sia teologici, sarà centrale nell’opera di Bruno. Il giovane allievo dovette
rimanere affascinato da questo personaggio, a tal punto da rivestirlo
del titolo di «fidel relatore della nolana filosofia»126, elevandolo a ideale
stesso di maestro, dedicato completamente e «indefesse»127 allo studio e

123
Cfr. I. Rowland, Un fuoco sulla terra. Vita di Giordano Bruno, cit., p. 48.
124
Ibidem.
125
Ivi, pp. 48-49.
126
Causa, p. 253.
127
C. Carella, Tra i maestri di Giordano Bruno. Nota sull’agostiniano Teofilo da
Vairano, cit., p. 74.
δεσμος συνδεσμος – vinculum nexus 67

all’insegnamento della logica e della filosofia. Quando nel 1566 Teo-


filo abbandonò Napoli alla volta di Firenze, dove era stato nominato
rettore dell’Università agostiniana, per poi assumere l’insegnamento
di metafisica nel 1569 presso lo Studium Urbis di Roma, la Sapienza, il
giovane Filippo Bruno faceva il suo ingresso a San Domenico Maggiore
assumendo il nome di fra’ Giordano da Nola.
Risultano ancor oggi poco chiare le ragioni della scelta di Bruno
nel 1566 di vestire l’abito domenicano, allontanandosi non solo dal
metodo e dallo spirito dell’insegnamento di Teofilo, ma ancor più da un
approccio alla verità teologica e filosofica fondato su di una continua e
instancabile ricerca esistenziale e intellettuale. Durante la fase romana
del processo Francesco Graziano, compagno di carcere del Nolano a
Venezia, riferiva agli inquisitori le ragioni confidategli da quest’ultimo
sulla scelta che lo portò a farsi frate «con occasione che sentì disputare
a san Domenico in Napoli, e così disse che quelli erano dii della terra,
ma poi scoperse che tutti erano asini et ignoranti»128. Bruno rimase
forse colpito proprio dalla capacità retorica e di persuasione di quei
frati, dal loro modo di disputare che li faceva sembrare dii de la terra.
Fortemente opposta alla formazione di tipo agostiniana, quella dei
domenicani consisteva in una preparazione filosofica durante i primi tre
anni in cui il novizio era detto studente materiale: questi comprendeva-
no lo studio della dialettica, della filosofia naturale e della metafisica,
prevalentemente svolto sui commenti di Tommaso ad Aristotele, a cui si
aggiungeva a Napoli un quarto anno di retorica che succedeva all’anno
di prova. L’ars dicendi assumeva un ruolo fondamentale nel programma
di studi di un Ordine che faceva della predicazione, della difesa e della
custodia dell’ortodossia la propria missione. Ai primi quattro anni di
studio se ne aggiungevano altri due in teologia, per poi approdare al
triennio accademico come studente formale. Il triennio in teologia si
basava sullo studio della «Biblia, Historiis et Sententiis tam in textu
quam in glossis»129, delle Sententiae di Pietro Lombardo con i relativi

Processo, p. 251.
128

Regula beati Augustini. Constitutiones Fratrum Ordinis Praedicatorum, Romae,


129

MDLXVI, c. 119v.
68 giulio gisondi

commenti di Tommaso d’Aquino e la sua Summa Theologiae130. Questo


tipo di formazione accrebbe ampiamente la preparazione di Bruno: la
sistematica organizzazione scolastica del sapere, unita alla dialettica
platonica appresa grazie all’insegnamento di Teofilo, rappresentano
nei suoi scritti due anime distinte ma, allo stesso tempo, convergenti.
Seppur gli anni trascorsi a San Domenico Maggiore giovarono senza
dubbio alla sua formazione, tuttavia la scelta dell’ordine non si rivelò
la migliore, né per il suo carattere, poco incline all’obbedienza, né per
un’irriducibile curiositas. Sin dall’entrata in convento, Bruno non riuscì
a tenere a freno la forma mentis assunta tramite le lezioni di Teofilo e
che lo porterà, ben presto, a subire alcuni procedimenti disciplinari. Il
primo nel 1566, quando, ancora novizio, decise di buttar via dalla sua
cella le immagini dei santi, e di tenere con sé «un crocifisso solo»131,
toccando un punto delicato della dottrina post tridentina e mostrando
vicinanza a posizioni riformate, come il problema dell’adorazione delle
immagini dei santi, sul quale il Concilio si era espresso favorevolmente
e in contrasto con la Riforma. E ancora, col dire «a un novitio che
leggeva la Historia delle sette allegrezze della Madonna in versi, che
cosa voleva far de quel libro, che lo gettasse via et leggesse più presto
qualche altro libro, com’è la Vita de’ Santi padri»132, egli manifestava
la vicinanza a quel metodo filologico di ricerca antidogmatica del vero.
Seppur estraneo all’Umanesimo sotto tanti punti di vista, Bruno «è
figlio della tradizione umanistica italiana»133, è figlio dell’atteggiamento
e del metodo di ricerca umanistico, appreso da Erasmo, prima ancora
da Lorenzo Valla e dalla lezione di Teofilo da Vairano. Proprio quel
maestro, dal quale era stato spinto allo studio del neoplatonismo, della
teologia negativa di Dionigi Areopagita, di Eriugena e Cusano, sarà per
lui, come scrive Ciliberto, «una sorta di occhio presbite: gli consentirà

130
M. Miele, L’organizzazione degli studi dei domenicani di Napoli al tempo di
Bruno, in Giordano Bruno. Gli anni napoletani e la peregrinatio europea, cit., p. 47.
131
Processo, p. 157.
132
Ibidem.
133
M. Ciliberto, Giordano Bruno, Il teatro della vita, cit., p. 25.
δεσμος συνδεσμος – vinculum nexus 69

di vedere territori lontani di cui non aveva saputo cogliere subito tutta
l’importanza»134.
Quest’atteggiamento è particolarmente visibile nel secondo proce-
dimento disciplinare che Bruno subì a San Domenico Maggiore nel
1576 e che gli costerà la fuga dal convento e da Napoli. Già sacerdote
e dottore, ragionando con i suoi superiori sulla legittimità di procedere
in teologia attraverso metodi e lessici non scolastici, alla maniera dei
padri della chiesa, egli citava le eresie di Ario e di Sabellio sulla non
consustanzialità del Figlio rispetto al Padre, richiamando in proposito
anche l’opinione di Agostino, e lasciando esterrefatti quei padri:

Io non saprei immaginarmi de che articuli mi processassero, se non


è che, ragionando un giorno con Mont’Alcino, che era un frate del
nostro ordine, lombardo, in presentia de alcuni altri padri, et dicendo
egli che questi heretici erano ignoranti et che non avevano termini
scholastici, diss’io che si bene non procedevano nelle loro dechiarationi
scholasticamente, che dichiaravano però la loro intentione comoda-
mente et come facevano li padri antichi della santa Chiesa, dando
l’esempio della forma dell’heresia d’Ario, che gli scholastici dicono
non intendeva la generazione del Figlio per atto di natura et non di
volontà; il che medesmo si può dire con termini altro che scholastici,
rifferiti da sant’Augustino, cioè che non è di medesma substantia il
Figlioulo et il Padre, et che proceda come le creature dalla volontà
sua. Onde saltorno quelli padri con dire che io diffendevo li heretici
et che volevo fossero dotti135.

Anche in questo caso egli recupera la polemica del suo maestro e dello
stesso Seripando contro la Scolastica, contrapponendo al metodo della
disputa quello degli antichi padri, facendo sua sia la lezione appresa dagli
agostiniani, sia da Erasmo e Valla. Attraverso la lettura delle opere di
Tommaso, Bruno poté indirettamente avvicinarsi allo studio delle eresie
di Ario e di Sabellio sul dogma dell’Incarnazione e della Trinità, ribal-

134
Ivi, p. 27.
135
Processo, p. 191.
70 giulio gisondi

tando positivamente i termini della critica tomista. Negli stessi articoli


degli Scripta super libros Sententiarum dedicati alla definizione della terza
persona come vinculum vel nexus nella relazione d’amore tra il Padre e il
Figlio, compare a più riprese il riferimento all’eresia ariana136. Allo stesso
modo, nel libro IV della Summa contra gentiles, l’Aquinate dedica una
trattazione approfondita alle eresie di Ario e di Sabellio, includendo i
rispettivi allievi e le dottrine elaborate da questi ultimi137. Si tratta di testi
ben noti a Bruno, che egli doveva aver studiato e commentato durante
gli undici anni trascorsi a San Domenico Maggiore.
L’Aquinate non è, però, l’unica fonte in proposito. Tra le opere censite
da Eugenio Canone presenti nella Libraria di San Domenico Maggiore
durante gli anni trascorsi da Bruno in convento, compare l’edizione
veneziana del 1567 delle Prediche sopra il simbolo degli Apostoli138 di Se-
ripando. Si tratta di un ciclo di prediche pronunciate dal Cardinale tra il
1556 e il 1557 durante l’episcopato salernitano (1554-1563) e che, insieme
a quelle sul Paternoster139 del 1559, costituiscono l’unica testimonianza
scritta della sua predicazione. Con queste Seripando volle affrontare, in
esplicita polemica con l’eresia ariana, il problema del dogma trinitario,
dello Spirito Santo e della relazione tra il Padre e il Figlio. Oltre alle pre-
diche incentrate sull’unità di Dio e sul modo d’intendere le tre persone,
la sesta dal titolo Qual bisogna che sia la fede della divinità di Iesù Christo.
Sopra le parole decretate contra Ario nel grande e santo concilio Niceno […]

136
Cfr. S. Tommaso d’Aquino, Commento alle sentenze di Pietro Lombardo, Libro
I, Distinzioni 22-48, introduzione di I. Biffi, trad. it. P.R. Coggi, con testo integrale
di Pietro Lombardo, Bologna 2000, vol. II, d. 24, q. 2, art. 1, pp. 288-290; ivi, d. 25,
q. 2, art. 1, pp. 308-310; ivi, d. 31, q. 1, a, 1, p. 356-358; ivi, d. 31, q. 2, a. 1, p. 366.
137
Cfr. Sancti Thomae Aquinati Summa contra gentiles, in Opera omnia iussu
impensaque Leonis XIII P. M. edita, Romae 1918-1930, t. XV, 1930, lib. IV, cap. 4-10,
pp. 9-31, cap. 32, pp. 115-117, cap. 41, pp. 140-142.
138
G. Seripando, Prediche […] sopra il simbolo degli apostoli, dichiarato co simboli
del concilio Niceno, et di santo Athanasio, in Vinezia, al segno della Salamandra, 1567,
oggi conservato presso la Biblioteca Universitaria di Napoli (Z. b. 162); cfr. E. Canone,
Contributo per una ricostruzione dell’antica ‘Libraria’ di San Domenico Maggiore, in
Giordano Bruno. Gli anni napoletani e la peregrinatio europea, cit., p. 240.
139
G. Seripando, Prediche sul paternoster, in R.M. Abbondanza, Girolamo Se-
ripando tra Evangelismo e Riforma cattolica. Le prediche sul paternoster, Roma 1999.
δεσμος συνδεσμος – vinculum nexus 71

è direttamente dedicata alla confutazione dell’antitrinitarismo ariano.


L’autore ripercorre la storia dello scontro avvenuto durante il concilio
di Nicea tra il partito degli Ariani e i santi padri. La predicazione di
Seripando a difesa del dogma trinitario contro l’eresia ariana s’inserisce
all’interno di una fase di diffusione dei movimenti antitrinitari in Italia e
in particolar modo tra Napoli e Salerno140. È questa una delle principali
ragioni che spinsero il Cardinale a svolgere una predicazione a difesa
dei principali dogmi della dottrina cattolica, contro la diffusione dei
movimenti ereticali antitrinitari. Ed è propriamente in questo clima di
lotta all’antitrinitarismo, sia sul piano dottrinale, sia su quello della pre-
dicazione, che Bruno ebbe modo di formarsi, di rileggere e riformulare
positivamente non soltanto la critica ariana al dogma trinitario, ma quel
lessico e quelle categorie.

5. «Spiritus intus alit». Su di un adagio virgiliano tra teologia e filosofia

Nel primo volume dell’In memoriae subsidium, testo appartenente


a una raccolta in sei volumi di manoscritti autografi di Seripando141,
redatti tra il 1530 e il 1560, compare un dato di particolare interesse
che ci fornisce un caso esemplare del metodo con cui Bruno legge,
manipola e reinterpreta le sue fonti teologiche.
Seppur questa raccolta di manoscritti del Cardinale agostiniano
non fosse presente nella biblioteca di San Domenico Maggiore, ma in

140
Cfr. M. Miele, Presenza protestante a Salerno durante l’episcopato di Geronimo
Seripando, in Geronimo Seripando e la chiesa del suo tempo, cit., pp. 283-289.
141
Dell’In memoriae subsidium si conservano presso la Biblioteca Nazionale di
Napoli i primi due volumi con la collocazione ‘Codici VIII AA 21-22’. Il primo codice
di 150 x 220 mm, 4 fogli non numerati, 322 numerati, rilegato in pergamena, riporta
sul frontespizio la dicitura «In memoriae dumtaxat subsidium / F. Hier[onimus] Seri-
pandus […] Anno post netum servatorem 1530». Cfr. D. Ragazzoni, Bruno, Seripando
e l’Arii error, Considerazioni sulle origini dell’antitrinitarismo bruniano negli anni di
San Domenico Maggiore, in Favole metafore e storie. Seminario su Giordano Bruno,
introduzione di M. Ciliberto, O. Catanorchi e D. Pirillo (a cura di), Pisa 2007, p.
344; cfr. G. Seripando, Discorsi, testo critico e trad. it. A. Marranzini, Roma 2001.
72 giulio gisondi

quella di San Giovanni a Carbonara, in essa emerge, come ha ricostruito


David Ragazzoni, «una consonanza significativa» con il Nolano «sul
piano dottrinale, soprattutto sul modo in cui i testi classici e biblici
vengono utilizzati all’interno di quell’umanesimo cristiano che costitu-
isce la ‘cultura condivisa’ di Seripando e Bruno»142. Nel capitolo XLIII,
dedicato alla trattazione dello Spiritus Sancti divinitas, compaiono sulla
carta iniziale due versi annotati con la stessa calligrafia del resto del
manoscritto e, dunque, della mano del Seripando, che recitano:

Spiritus Domini ferebatur super aquas


Camposque liquentes, spiritus intus alit143.

Questi due versi tratti, il primo, dalla Sapienza di Salomone e, il


secondo, dal sesto libro dell’Eneide di Virgilio, sono legati insieme,
a formare un unico verso in cui non vi è più distinzione tra la fonte
biblica e quella virgiliana. È un verso che il Cardinale pone all’inizio
dell’ultimo capitolo dedicato al dogma trinitario.
Questi stessi due versi, composti nello stesso modo e legati l’uno
all’altro, «quasi non avessero vita se spezzati»144, ricorrono in Bruno
sia nelle pagine del De la causa, sia nelle testimonianze rese durante la
fase veneta del processo. Nello stesso costituto del 2 giugno 1592 in cui
riferiva agli inquisitori i suoi dubbi sulla Trinità e sull’Incarnazione,
richiamando le eresie di Ario e di Sabellio, egli afferma:

Così quanto al Spirito divino per una terza persona, non ho possuto
capire secondo il modo che si deve credere; ma secondo il modo pitta-
gorico, conforme a quel modo che mostra Salomone, ho inteso come
anima dell’universo, overo assistente all’universo, iuxta illud dictum
Sap[ientiae] Salomonis: “Spiritus Domini replevit orbem terrarum,
et hoc quod continet omnia”, che tutto conforme pare alla dottrina
pitagorica esplicata da Vergilio nel senso dell’Eneide:

142
D. Ragazzoni, Bruno, Seripando e l’error Arii, cit., p. 379.
143
Codice VIII AA 21-22 della Biblioteca Nazionale di Napoli, f. CCLXIIr.
144
D. Ragazzoni, Bruno, Seripando e l’error Arii, cit., p. 379.
δεσμος συνδεσμος – vinculum nexus 73

Principio coelum et terras composque liquentes


Lucentemque globum lunae Titaniaque astra,
spiritus intus alit totamque infusa per artus
mens agitat molem…

[…] Da questo spirito poi, che è detto vita dell’universo, intendo nella
mia filosofia provenire la vita et l’anima a ciascuna cosa che have anima
et vita, la qual però intendo essere immortale; come anco alli corpi.
Quanto alla loro substantia, tutti sono immortali, non essendo altro
morte che divisione et congregatione; la qual dottrina pare espressa
nell’Ecclesiaste, dove dice “Nihil sub sole novem: quid est? Ipsum quod
fuit” […]145

Nell’accostare le parole di Salomone e quelle di Virgilio, Bruno pone


sullo stesso piano la fonte biblica e quella pagana, proponendo una tesi
che possa accordarsi sia con l’interpretazione del testo sacro, sia con la
filosofia pitagorica e platonica. I nomi del «Teologo»146 e del «Poeta»147
sono, infatti, accostati nell’interpretazione della terza persona o dello
Spirito Santo come anima del mondo.
Se Seripando accosta le due fonti nel tentativo di stabilire una lettura
concordistica del testo sacro e della tradizione classica, ai fini di una
riaffermazione del dogma trinitario e della terza persona, profondamen-
te divergente è l’operazione di Bruno, seppur ne riprenda lo schema.
Egli non interpreta la fonte virgiliana in senso teologico, riconoscendo
lo spirito divino come già presente ancor prima della predicazione di
Cristo, ma lo legge in termini naturali, naturalizzando, al tempo stesso,
la fonte biblica parzialmente svuotata del suo contenuto teologico. Sia
il Poeta che il Teologo hanno parlato di quello spiritus o anima del
mondo insito nella natura, che non corrisponde alla terza persona del
dogma trinitario, quanto piuttosto a Dio inteso come causa e principio
primo infinito immanente alla natura.

145
Processo, p. 169.
146
Causa, pp. 219-220.
147
Ivi, p. 220.
74 giulio gisondi

Osservando la centralità che l’adagio biblico-virgiliano e l’associa-


zione tra Salomone e Pitagora occupano in Bruno, si comprende come,
proprio dalla lettura dei testi di Seripando sull’Arii error e sullo Spirito
Santo, egli poté elaborare una riflessione sulla nozione di spiritus e di
persona nel dogma trinitario, seppur in una direzione radicalmente
distante da quella del cardinale agostiniano. Il suo antitrinitarismo pog-
gia, infatti, su di un rifiuto del termine persona, argomentato a partire
dall’esitazione espressa da Agostino sull’utilizzo di questo stesso termine

Io dico d’haver tenuto et creduto che vi sia un Dio distinto in Padre


in Verbo et in Amore, che è il Spirito divino, et sono tutti questi tre
un Dio in essentia; ma non ho potuto capir, et ho dubitato, che queste
tre possono sortir nome di persone; poiché non mi pareva che questo
nome di persona convenisse alla divinità, confortandomi a questo le
parole di san Augustino, che dice: “Cum formidine proferimus hoc
nomen personae, quando loquimur de divinis, et necessitate coacti
utimur”; oltra che nel Testamento vecchio et novo non ho trovato né
letto questa voce, né forma del parlar148.

Si tratta di una questione su cui Bruno insiste più volte durante


i suoi interrogatori, anche durante la fase romana del processo: «Et
per questo credo che sant’Agostino ancora temesse di proferir quel
nome “persona” in questo caso, che hora non mi riccordo in che loco
sant’Augustino lo dica»149.
In effetti, nel libro VII del De trinitate, il vescovo d’Ippona ricorda
come i Greci parlassero di una essenza, e tre sostanze, mentre i Latini
di una essenza o sostanza e tre persone, essendo sinonimi i termini
essenza e sostanza. Di fronte al problema della definizione, Agostino
afferma l’ineffabilità e la trascendenza di Dio sul linguaggio umano:
ogni tentativo di nominarlo possiede soltanto un valore relativo, non
potendo di fatto giungere ad alcuna sua definizione. Tuttavia, seppur
la Scrittura non parli di tre persone, per la necessità del linguaggio e

148
Processo, pp. 172-173; cfr. ivi, p. 173; cfr. ivi, p. 170, p. 191, p. 255.
149
Cfr. ivi, p. 173.
δεσμος συνδεσμος – vinculum nexus 75

della disputa siamo costretti a utilizzare questa definizione, non essendo


ciò in contraddizione. Facendo riferimento all’eresia di Ario, Agostino
adduce alla povertà umana la necessità di parlare di tre realtà pur nell’u-
nicità di una sola essenza, affinché non si intendano differenze nella
summa aequalitas divina. I Greci e i Latini hanno cercato d’indicare
con l’espressione una essenza l’unità divina, mentre, con l’immagine
della Trinità tre sostanze o persone150. L’utilizzo del termine persona
possiede, dunque, un valore di comodo, una denominazione estrinseca
che non soddisfa né definisce pienamente il divino.
Bruno recupera proprio quest’impossibilità agostiniana a esprimere
e a definire il divino. Attraverso la teologia negativa egli ripensa l’ineffa-
bilità di Dio e l’incapacità umana di definirlo e nominarlo, poiché ogni
definizione e ogni nome sono una distinzione. Ma Dio è al di sopra di
ogni distinzione, semplice, infinito, Uno. L’utilizzo del termine perso-
na in riferimento alla divinità appare, dunque, inconciliabile, poiché
equivarrebbe a porre una distinzione in Dio. L’esitazione o il dubbio
espresso circa la definizione di persona nell’articolazione trinitaria di
Dio, e con esso il riferimento all’autorità di Agostino, non rappresen-
tano esclusivamente una strategia difensiva che egli adotta durante le
fasi del processo; né tantomeno tale riferimento rientra nel tentativo di
distinguere tra un parlare filosoficamente e uno secondo la teologia, in
cui vengono riversati i dubbi circa la Trinità e l’Incarnazione.
Il riferimento ad Agostino nella decostruzione filosofica delle cate-
gorie teologiche fa da contraltare al richiamo all’autorità di Tommaso,
di cui Bruno si serve durante il processo per dare prova della pro-
pria ortodossia151. Tuttavia, dalle sue posizioni in merito alla Trinità e
all’Incarnazione emerge un velato contrasto tra l’autorità di Agostino
e quella di Tommaso152. Da un lato, l’anima platonico-agostiniana a
cui egli era approdato grazie all’insegnamento di Teofilo e attraverso
la lettura dei testi seripandiani; dall’altro, la dottrina dell’Aquinate,

150
Cfr. Sancti Aurelii Augustini De Trinitate, in PL, cit., vol. XLII, t. 8, 1865,
lib. cap. VII. pp. 932-946.
151
Cfr. Processo, p. 259.
152
Cfr. D. Ragazzoni, Bruno, Seripando e l’Arii error, cit., p. 384.
76 giulio gisondi

fondamento degli studi e della preparazione di un giovane teologo


domenicano e della sua ortodossia. Il riferimento prima all’uno poi
all’altro nel corso del processo non è, dunque, una semplice strategia
difensiva, ma il segno della complessità e la molteplicità delle letture
compiute e degli approcci alla verità a cui era stato formato nel corso
degli anni napoletani. Il rifiuto della Trinità e dell’Incarnazione, sul
piano del lume naturale, sembra suggerire l’origine del suo incontro con
l’eresia ariana: «non dalla famiglia di Tommaso, ma da quella di Teofilo
da Vairano e, ancor prima di lui, di Egidio da Viterbo e di Girolamo
Seripando»153. Il ricorso all’eresia di Ario è innanzitutto rivolto contro
la filosofia e la teologia scolastica: prima che quest’ultima divenisse il
lessico, il metodo e il modello dominante con cui disputare, Ario e in
parte Agostino avevano, cioè, criticamente messo in evidenza aspetti
e problemi centrali del pensiero e della dottrina filosofica e teologica
cristiana.
Se si considera, dunque, il ruolo che la formazione giovanile di Bru-
no, con le letture compiute, gli incontri e gli studi svolti, svolge nella
trasposizione del trinitarismo dal piano teologico a quello filosofico
naturale, si comprendono, altresì, la centralità e la risonanza che questa
riveste nella riflessione sulla nozione di vinculum e nexus. È a parti-
re dalla considerazione di problemi di carattere teologico e filosofico
prim’ancora che magico, che s’intravede nella nolana filosofia l’origi-
narsi della riflessione su questa nozione, nei termini della relazione tra
l’infinità della causa e principio primo e l’universo o l’unigenita natura.
È per queste ragioni che, oltre all’esame del problema del vinculum e
del vincire come elaborato negli scritti magici, abbiamo qui scelto di
ripercorrere l’origine di questa nozione, la quale non nasce né tantomeno
si esaurisce nella sola riflessione magica. Essa è, invece, profondamente
radicata e non scindibile dalla prospettiva propriamente ontologica
della filosofia di Bruno, in cui sia le questioni di carattere magico, sia
quelle teologiche, sembrano essere incluse e completamente assorbite.

153
Ivi, p. 385.
II. Dalla philosophia occulta alla physica magica

1. Il ricorso di Bruno alla magia prima del De magia

Un esame delle opere pubblicate da Bruno tra il 1582 e il 1590


consente di osservare come il ricorso alla magia si strutturi sin dai suoi
primi lavori. La riflessione elaborata tra il 1588 e il 1592 negli scritti
magici non rappresenta un momento scisso dalla precedente produ-
zione filosofica. Il ricorso alla magia è, invece, un elemento di lungo
periodo che attraversa la gran parte della sua speculazione, facendo da
sfondo sia a questioni gnoseologiche, ontologiche e cosmologiche, sia
a problemi di carattere religioso ed etico-politico.
Sin dal Candelaio, commedia filosofica pubblicata a Parigi nel 1582,
la magia rappresenta un elemento centrale nella comprensione della
realtà e della trama delle relazioni umane. Egli mette in scena due
forme di magia: una prima, intesa come inganno capace di legare
agendo sulla credulità popolare, incarnata dal mago Scaramuré1; una

1
Cfr. Candelaio, pp. 48-51, pp. 71-73, pp. 137-140.
78 giulio gisondi

seconda, intesa come capacità di operare «contra natura»2, incarnata


dall’alchimista Bartolomeo. Se Scaramuré irride e castiga la credulità
popolare attraverso i suoi inganni, violenta è, invece, la satira che col-
pisce Bartolomeo3. Convinto di poter trasformare i metalli vili in oro
prezioso per effetto del Pulvis Christi, quest’ultimo è il sintomo più
evidente della mistificazione del sapere magico.
La satira del Candelaio si rivolge alla magia intesa come scienza
occulta, divinatoria, esoterica, astrologica e alchemica, che pretende
di operare sulla natura al di là delle leggi naturali4. Magia è, invece,
ciò che ristabilisce l’ordine naturale che l’essere umano ha sovvertito
rovesciando il rapporto tra l’essere e le sue parvenze. Nel Cantus Circeus,
anch’esso pubblicato a Parigi nel 1582 insieme al De umbris idearum,
Circe è colei che, per mezzo d’incantesimi, riconduce alla loro forma
naturale uomini che sono tali solo in virtù delle loro sembianze, ma
che in realtà celano anime bestiali5. La magia è possibilità d’intervento
sulla natura, ciò che rende visibile la vera forma delle cose, che disvela
e fa trasparire una realtà confusa, ingannevole e cangiante6.
Il ricorso di Bruno alla magia si delinea e si complica ulteriormente
nel Sigillus sigillorum pubblicato a Londra nel 1583. In questo trattato,
dedicato all’esame delle diverse specie di contractiones animi, egli traccia
una chiara distinzione tra due forme di magia: una prima, che opera
per mezzo di una «regulatam fidem»7, nel tentativo di assecondare o
migliorare l’azione della natura8; e una seconda che, servendosi della
credulità popolare o di forme depravate di fede, trasforma la natura
migliore in una realtà deteriore9. La definizione della magia procede di
pari passo alla comprensione dell’unico «sensus»10 che accomuna tutti

2
Cfr. ivi, p. 37.
3
Ivi, pp. 38-41, pp. 71-73, pp. 117-120, pp. 132-134.
4
Ivi, p. 38.
5
Cantus, p. 602.
6
Ivi, pp. 618-622.
7
Sigillus, p. 264
8
Ibidem.
9
Ivi, p. 262.
10
Ivi, p. 264.
dalla philosophia occulta alla physica magica 79

gli elementi e i corpi naturali, permettendo la reciprocità delle relazioni,


delle attrazioni e dei legami. Quest’unico sensus che pervade la natura
è un grande demone «qui amor est»11, il quale lega l’anima al corpo e
congiunge tra loro tutti gli enti che compongono l’universo. L’amore
è la forza che permette di riconoscere come la magia sia intimamente
presente in ogni essere vivente. Esso è il motore di tutti gli elementi e
i corpi. Questi, infatti, non sono mossi da una forza a loro esterna, ma
si muovono in virtù di un principio intrinseco, per un impulso che li
spinge a fuggire il male o il contrario per ricercare il bene o il simile12.
Bruno inserisce l’amore, insieme alla magia, tra i quattro Rectores in
virtù dei quali tutto è stato prodotto: esso rappresenta il sensus da cui
discende l’«appetitus»13 insito in ogni cosa. Persino i grandi animali e
dèi che sono i pianeti14, si muovono per un principio d’amore intrinseco
intorno a ciò che garantisce loro la conservazione. Tutti i corpi, dai
più semplici ai composti, partecipano dello stesso sensus o amore che
è la stessa natura.
Non è un caso se, nel paragrafo del Sigillus dedicato alla trattazione
della magia, egli faccia costantemente riferimento all’amore come forza
motrice: in quanto fondata e non scindibile dal principio per cui tutte
le cose muovono verso ciò che è a loro più conveniente15, la magia è
definibile soltanto in relazione all’amore e viceversa. Essa è, al tempo
stesso, strettamente connessa alla natura, definibile in rapporto a questa
e al principio d’amore e d’unità che incarna. Soltanto attraverso il rico-
noscimento di tale forza insita nell’universo, del rapporto di simpatia
e antipatia che pervade tutti gli elementi, la magia potrà farsi «naturae
cunctipotentis aemula et socia»16.
Tra natura, magia e amore vi è, dunque, un rapporto d’interdipen-
denza reciproca. La natura agisce come principio d’amore che lega tra
loro l’infinita molteplicità dei contrari che la compongono. Essa rap-

11
Ibidem.
12
Cfr. ivi, p. 266.
13
Ivi, p. 264.
14
Cfr. Ibidem.
15
Cfr. ivi, p. 266.
16
Ibidem.
80 giulio gisondi

presenta il paradigma esemplare da cui trae origine la magia: quest’ul-


tima stabilisce legami e relazioni tra tutti gli enti, ivi compreso l’essere
umano, allo stesso modo in cui la natura stringe e lega tra loro i corpi
e gli elementi che si muovono al suo interno. La natura, grande demo-
ne o amore, e la magia, si delineano in tutta la produzione bruniana
come termini non separabili e in cui ognuno rimanda vicendevolmente
all’altro. Nonostante il Sigillus non sia un’opera magica, tuttavia la
prospettiva teorica, il linguaggio e le questioni esaminate costituiscono
l’orizzonte in cui Bruno collocherà la riflessione sulla magia nei suoi
ultimi scritti.
Anche nei dialoghi italiani il ricorso alla magia è associato all’af-
fermazione della natura come vincolo d’amore che riconduce a unità il
molteplice. Nel De la causa, pubblicato a Londra nel 1584, il solo ricorso
alla magia compare in associazione al riconoscimento dell’unità in cui
tutti i contrari si ricongiungono17. La possibilità d’agire sulla moltepli-
cità del reale per mezzo della magia è fondata sulla comprensione del
processo per cui tutte le differenze procedono dall’Uno e a questo fanno
ritorno. Soltanto attraverso la comprensione di quest’intima dinamica
naturale, il filosofo, mago e sapiente sarà in grado d’agire per legare
tra loro i contrari. L’ontologia dell’identità e della differenza tra l’Uno
e il molteplice, elaborata nel De la causa, rappresenta la prospettiva
filosofico-naturalistica in cui è collocato non soltanto il ricorso alla
magia, ma in cui è elaborata, in linea di continuità, sia la riflessione
cosmologica che quella etico-civile.
Questa non separabilità della comprensione dell’unità della natura
dalla considerazione della molteplicità e contrarietà degli enti, è parti-
colarmente visibile nello Spaccio pubblicato a Londra nel 1584. Bruno
dedica diverse pagine all’analisi della magia, laddove, ripercorrendo il
mito dell’antichissima sapienza degli Egizi18, la descrive come un’arte
in grado di porre gli esseri umani in comunicazione con gli dèi, ri-
stabilendo la connessione tra l’uomo, la natura e Dio, interrottasi con
l’avvento delle religioni giudaico-cristiane. Anche in questo caso è in

17
Cfr. Causa, p. 295.
18
Spaccio, pp. 631-632.
dalla philosophia occulta alla physica magica 81

atto un rifiuto delle forme di idolatria per cui alcuni falsi sapienti «cer-
cano la divinità, di cui non hanno raggione alcuna, ne gli escrementi
di cose morte et inanimate»19. È questa l’evoluzione di un processo
di demistificazione del sapere magico, di quello che Maurizio Cambi
definisce il «recupero di una sapienza originaria»20, che dal Candelaio
al Cantus, dal Sigillus al De la causa, dallo Spaccio sino al De monade21,
occupa le pagine delle opere bruniane e che troverà uno specifico spazio
d’approfondimento negli ultimi scritti magici.
Il richiamo al mito di un’antichissima sapienza degli Egizi non
assume nello Spaccio i caratteri di un elemento sostanziale o di recu-
pero dell’ermetismo neoplatonico, quanto piuttosto, di un argomento
funzionale al progetto di riforma etico-civile esposto. Quato richiamo
fa da contraltare alla decadenza dei falsi maghi, sapienti e profeti che
hanno operato una scissione tra l’uomo, la natura e la divinità, non
riconoscendo come quest’ultima sia percepibile proprio attraverso la
comprensione dell’unità e del legame d’amore che stringe tra loro la
molteplicità dei contrari. La riflessione sulla magia è anche qui, come
nelle opere precedenti, sempre legata a una concezione ontologica e
cosmologica della natura, «del cosmo vivente» inteso come un «sa-
crum animal»22. Ogni atomo, particella e corpo che abita l’universo è
connesso a ogni altro per mezzo dell’unico sensus, dell’amore iscritto
in tutte le cose.
Anche negli Eroici Furori, ultimo dei sei dialoghi italiani, pubbli-
cato a Londra nel 1585, il riferimento alla magia è inserito all’interno
della comprensione della relazione ontologica tra l’unità dell’essere e
la molteplicità delle sue manifestazioni. A mutare rispetto ai dialoghi
precedenti è, invece, l’impostazione gnoseologica: Bruno si spinge oltre

19
Ivi, p. 632.
20
Cfr. M. Cambi, il De magia e il recupero della sapienza originaria. Scrittura e
voce nelle strategie magiche di Giordano Bruno, «Archivio di storia della cultura», VI,
(1993), pp. 9-33.
21
Cfr. De monade, p. 415.
22
M. Cambi, Esoterismo. Giornata di studi intorno al volume 25 degli Annali della
Storia d’Italia Einaudi, in «Laboratorio dell’ISPF», VIII, 1-2 (2001), p. 21.
82 giulio gisondi

i limiti posti nel De la causa23 che escludevano la possibilità di accesso


alla causa e principio primo. Il furioso, filosofo, mago e sapiente, colui
che vuol penetrare l’unità della natura, ricerca un oggetto mutevole e
proteiforme che si sottrae a ogni tentativo di apprensione e definizio-
ne. Soltanto attraverso i «mastini et i veltri»24 dell’immaginazione e
dell’intelletto, della cognizione e della volontà, dell’isolamento e del
ripiegamento su sé stesso, egli potrà tendere le sue capacità e accedere
alla visione di Diana, riflesso, nella natura, dell’unità dell’essere. La
traccia da seguire è quella delineata nel Sigillus, la via che dall’amore
all’unità del senso conduce sino al riconoscimento dell’Uno. Tuttavia,
mentre nel Sigillus e nei dialoghi precedenti l’apprensione dell’unità
procedeva secondo una rappresentazione scalare, nei Furori essa è rifrat-
ta, spezzata, moltiplicata come in uno specchio in cui ogni frammento
lascia intravedere e scorgere la totalità 25. Un’apprensione questa, o una
conquista, mai definitiva ma temporanea e instabile.
I Furori si caratterizzano, più dei dialoghi precedenti, per un lessico
che rimanda al tema dell’eros, particolarmente riscontrabile nel ricorso
al tema dell’«esca edace»26: un’esca d’amore che colpisce gli occhi del
furioso accecandolo e rendendolo amante e servo della verità, in un
legame indissolubile con il proprio desiderio di conoscenza 27. L’esca,
la «mors osculi»28, il «laccio»29 o il «nodo»30 che incatenano il furioso
al desiderio di scorgere l’unità della natura sono un elemento portante
del dialogo.
Seppur risulti assente nel contesto teorico dei Furori la prospettiva
civile che sarà propria del De vinculis31, questi si configurano come una

Causa, pp. 205-207.


23

Furori, p. 819.
24

25
Cfr. Processo, p. 301; cfr. S. Bassi, L’arte di Giordano Bruno. Memoria, Furore,
magia, Firenze 2004, p. 80.
26
Furori, p. 941, p. 841.
27
Cfr. ivi, pp. 917-918.
28
Cfr. ivi, p. 895; cfr. De vinculis, p. 526-528.
29
Cfr. ivi, pp. 807-809, p. 826, p. 850, p. 870, p. 902, p. 941.
30
Cfr. ivi, p. 772, pp. 808-809, p. 846, p. 902, p. 941.
31
Cfr. S. Bassi, L’arte di Giordano Bruno, cit., p. 83.
dalla philosophia occulta alla physica magica 83

specifica trattazione dell’amore, quasi raccogliendo, approfondendo e


riformulando le questioni poste nel Sigillus e nel De la causa. Molte-
plici sono i richiami ai Furori presenti nel De vinculis, oltre a quelli
testuali32. Come il furioso non può fissare direttamente e con occhio
fermo Diana nuda, ma osservarla per pochi istanti nascondendosi nella
penombra della selva, così il vinciens deve agire fugacemente sul soggetto
da vincolare, velando lo sguardo e dissimulando la propria intenzio-
ne33. Gli strumenti necessari al furioso nella sua infaticabile ricerca
sono gli occhi e il cuore, la cognizione e il desiderio: gli stessi senza i
quali non è possibile vincolare né, tantomeno, essere vincolati34. Ma
la ragione più profonda dello strettissimo legame tra i Furori e il De
vinculis sta nella centralità attribuita all’amore, radice di ogni vincolo.
Come nel De magia e nelle Theses, così anche nell’ultimo degli scritti
magici Bruno recupera e approfondisce quanto elaborato nei Furori e
nelle precedenti opere, vale a dire la dipendenza di tutte le attrazioni
dall’universale legame d’amore35.
Il ricorso alla magia costituisce un elemento teorico costante della
riflessione filosofico naturalistica e politico-civile del Nolano. Nelle
opere pubblicate tra il 1582 e il 1585 appaiono condensate alcune delle
principali questioni che saranno poi ripercorse qualche anno più tardi
proprio negli scritti magici. Questi ultimi lavori non sono estranei alla
precedente riflessione filosofica, ma incarnano, piuttosto, la necessità
di approfondire lo studio della magia, nel tentativo di ripensarla e
riformularla in una prospettiva naturalistica, radicandola nel contesto
dell’ontologia, della fisica e della cosmologia proprie della nolana filosofia
esposta nei dialoghi.

32
Cfr. De vinculis, p. 426; cfr. Furori, p. 795.
33
Cfr. De vinculis, p. 446.
34
Cfr. ivi, p. 450.
35
Cfr. ivi, p. 492.
84 giulio gisondi

2. Fides e credulitas. Il «primum fondamentum universae unionis»

Una delle prime questioni che Bruno riformula nel passaggio dal De
magia mathematica al De magia è quella relativa alla fides36, presupposto
necessario all’istituzione di vincoli reciproci, «primum fundamentum
universae unionis»37.
La necessità della fides quale elemento indispensabile all’azione del
mago rappresenta un motivo ricorrente, dal Picatrix latinus38, passando
per il De vita39 di Ficino sino al De occulta philosophia di Agrippa40. La
fides è una ferma intenzione e una forte applicazione che rinvigorisce
quanto si ha in animo di compiere. Essa è indispensabile anche nella
pratica medica, poiché soltanto la fiducia nel medico e nei suoi rimedi
può garantire una guarigione, a volte anche più del farmaco stesso41.
Tanto nella medicina quanto nella magia sono necessarie una fortis-
sima fede nelle proprie possibilità e una capacità di suscitare consenso
in coloro su cui si opera. Il rapporto di fede è duplice: verso sé stessi
e la propria capacità di attrazione; verso coloro su cui si opera e sulla
fiducia che si è in grado di accordare.
In questa stessa riflessione Bruno fa rientrare anche la prassi religio-
sa, ovvero la profezia. Il vincolo di fede è, in magia, in medicina e in
profezia, una condizione imprescindibile. La fede, come il timore, l’ira,
l’invidia, la malinconia e sentimenti simili, agisce attraverso l’anima
sui corpi e viceversa: affinché un’azione sia efficace essa deve essere
rivolta verso animi ben disposti o che si lascino penetrare. Se un’anima

36
Cfr. D. Giovannozzi, «fides», in Enciclopedia Bruniana & Campanelliana, Gior-
nate di studi 2001-2004, E. Canone e G. Ernst (a cura di), Pisa-Roma 2006, vol. I,
pp. 36-46; cfr. Id.,“Fides” e “credulitas” come termini chiave della scienza magica in
Cornelio Agrippa e Giordano Bruno, in Letture bruniane I-II del Lessico Intellettuale
Europeo 1996-1997, E. Canone (a cura di), Pisa-Roma 2002, pp. 95-118.
37
De magia math., p. 8.
38
Picatrix latinus, I, 5.
39
M. Ficini De vita libri tres, in Opera, Basilea 1576, vol. I, lib. III, cap. 20, p. 561.
40
C. Agrippa, De occulta philosophia libri tres, V. Perrone Compagni (a cura di),
Leiden-New York-Köln 1992, lib. I, cap. 66, p. 228.
41
Ibidem.
dalla philosophia occulta alla physica magica 85

risultasse particolarmente dura, opponendo un ostacolo e una chiusura


in modo da non lasciarsi avvincere dal vincolo di fede, allora non vi
sarebbe alcun modo per legarla.
Un «signum»42 di ciò è riscontrabile nell’impossibilità di operare
«virtutes»43 da parte dell’«efficacissimo Dei filio in patriam suam […]
propter incredulutatem illorum»44. Quest’episodio riportato dai tre
vangeli sinottici (Mt. 13, 53-58; Mc. 6, 1-6; Lc. 4, 16-30) è ripreso da
Bruno nel De magia mathematica45 attraverso il racconto di Matteo e di
Marco, che insistono più di Luca sull’astensione di Gesù dal compiere
miracoli tra i suoi concittadini. Come ha evidenziato Fabrizio Meroi46,
Bruno intreccia le versioni dei due evangelisti seguendo una modalità
d’incastro delle fonti frequente nei suoi testi. Intersecando il racconto
di Matteo a quello di Marco, egli interpreta le virtutes compiute da
Gesù, come possibili soltanto in una collettiva partecipazione di fede.
L’utilizzo dei due vangeli rimarca «l’impotenza di Gesù di fronte alla
‘incredulità’»47.
Nel passaggio dal De magia mathematica al De magia Bruno recu-
pera il tema della necessità della fides relativamente ai prodigi compiuti
da «eo qui per se potest omnia facere»48, il quale, però, «non poterat
curare eos qui ei non credebant»49. Se nel De magia mathematica il
riferimento al profeta è diretto, ora appare, invece, in forma indiretta.
Egli preferisce narrare l’episodio rifacendosi all’autorità di non speci-
ficati teologi che hanno interpretato il racconto biblico ammettendo
l’impotenza del figlio di Dio.

42
De magia math., p. 10
43
Matteo, 13, 53-58.
44
De magia math., p. 10.
45
Ibidem.
46
F. Meroi, Sull’ idea di «fides» in Giordano Bruno, in La magia nell’Europa mo-
derna. Tra antica sapienza e filosofia naturale, F. Meroi ed E. Scapparone (a cura di),
Atti del Convegno (Firenze 2-4 ottobre 2003), Firenze 2007, p. 449.
47
Ibidem.
48
De magia, p. 282.
49
Ibidem.
86 giulio gisondi

Il recupero nel De magia del versetto marciano «non poterat ibi


virtutem ullam facere»50, anziché del matteano «non fecit virtutes
multas»51, si pone in linea con le correnti della patristica cristiana che
avevano riconosciuto l’imprescindibilità della fides rispetto alla possi-
bilità di Gesù di compiere prodigi, tra cui, primo fra tutti, Origene.
Nel commentare questo passo, egli interpretava la testimonianza di
Matteo attraverso quella di Marco, sottolineando sia l’impossibilità
di trasporre il “non poté” in un “non volle”, sia la necessità della fede
altrui per compiere prodigi anche da parte del figlio di Dio:

Deinde videre licet illud: «Non fecit virtutes multas propter incre-
dulitatem illorum.» Per illa autem docemur virtutes in credentibus
factas fuisse, quandoquidem «omni qui habet, dabitur et abundabit;»
in incredulis autem non modo non egisse virtutes, sed quemadmo-
dum scripsit Marcus, nec potuisse agere. Animum enim advertere
ad illus: «Et non poterat ibi virtutem ullam facere;» non enim dixit,
«nolebat,» sed, «non poterat,» tanquam in virtutem agentem adveniret
adjumentum ex illius fide in quem virtus agebat; impeditur autem ab
incredulitate, quominus ageret. Nota autem quaerentibus: «Quare non
potuimus ejicere illus?»: «Propter incredulitatem vestram;»52.

Sia per Origene, sia per Bruno la fides è condizione necessaria: se


per il primo i prodigi sono possibili in un contesto di reciproca fiducia
tra l’agente e il paziente, allo stesso modo, per il secondo l’azione può
risultare efficace solo se rivolta a soggetti disposti a credere e ad ac-
cordare fiducia all’agente. Il consenso e la fede determinano l’efficacia
dell’azione prodigiosa, come di quella magica, medica e profetica53. Tut-
tavia, se per Origene la fides è un sentimento attinente esclusivamente

50
Marco, 6, 5-6.
51
Matteo, 13, 58.
52
Origenes Commentaria in Evangelium secundum Matthaeum, in Opera omnia,
Patrologia greca, opera et studio DD. Caroli et Caroli Vincentii Delarue, accurante
et denuo recognoscente J.-P. Migne, Thurnolti 2002, t. XIII, p. 883.
53
F. Meroi, Sull’ idea di «fides» in Giordano Bruno, cit., p. 461.
dalla philosophia occulta alla physica magica 87

all’ambito della religione, per Bruno questa assume un significato più


generale che investe tutti i possibili legami.
Nell’utilizzo del racconto evangelico nel De magia non vi sono, a
differenza del De magia mathematica, riferimenti ai miracula o alle
virtutes compiute da Gesù. Nella conclusione del passo, egli insiste sulla
derisione che colpisce il Nazzareno, disprezzato dai suoi concittadini sia
come medico, sia come profeta. Quest’aggiunta è assente dal De magia
mathematica e presente nel solo De magia. Attraverso il recupero del
racconto evangelico di Luca, con la nota espressione «nemo propheta
acceptus in patria sua»54, egli osserva come risulti più agevole vincolare
dove si è meno conosciuti, potendo far leva su di una predisposizione
alla fede, mentre questa sia difficilmente accordabile nella comunità
d’origine.
Nell’intreccio bruniano delle fonti bibliche è riscontrabile un
tentativo di spoliazione della natura divina soprannaturale di Gesù,
considerato come un mago guaritore che, senza il consenso e la fede
di coloro su cui opera, «non poterat vincire»55. Quest’operazione di
naturalizzazione del divino non investe il rifiuto dell’ambigua natura
del Cristo, divina e umana, finita e infinita. La ragione del ricorso alle
fonti bibliche nel De magia è, invece, legata all’esigenza di porre la fides
a fondamento di ogni forma d’azione per vincula. L’azione guaritrice di
Gesù rientra nello stesso orizzonte naturale in cui è collocata la prassi
magica: il miracolo, le guarigioni, la profezia, come anche il governare
una comunità, sono tutte prassi assorbite nella magia, poiché tutte
fondate sulla capacità del soggetto agente d’istituire vincoli, relazioni
e legami con il paziente per mezzo della fides.
Il recupero del racconto evangelico di Gesù mago guaritore è col-
locato nel De magia nel paragrafo dedicato all’analisi del vincolo della
fantasia. Magia, medicina e profezia operano allo stesso modo, aprendo,
vincolando e incatenando i sensi grazie alla potenza della fides e della
fantasia56. Bruno pone su di uno stesso piano fides e imaginatio, osser-

54
Luca, 4, 24.
55
De magia, p. 282.
56
Ivi, p. 280.
88 giulio gisondi

vando come l’immaginazione che l’agente è in grado di suscitare nel


paziente sia strettamente connessa alla capacità di vincolare attraverso
la fede. L’imaginatio è il «vinculum vinculorum»57, il legame più po-
tente ed efficace. Ma occorre combinare questo legame con il vinculum
fidei senza il quale non si dà alcuna possibilità di vincire: come Bruno
osserva citando Ippocrate «“efficacissimum medicorum esse illum cui
plurimum credunt”»58. Questa considerazione non attiene soltanto al
medico, ma a tutti coloro che vincolano attraverso l’eloquio, la presenza
e la loro fama, comune a ogni genere di magia che vincoli attraverso
l’immaginazione.
Chi vincola attraverso l’immaginazione difficilmente potrà attivare
questo potere in assenza del vincolo di fede. Dall’imprescindibilità
della fides, Bruno legge tutte le prassi fondate sull’istituzione di vincoli
come interconnesse, non separabili e assorbite nella magia naturale.
La fides è indispensabile al soggetto agente per esercitare un’attrazione
e un’affezione sia sul corpo del paziente attraverso l’anima, sia sull’a-
nima attraverso il corpo. Il vincire è duplice: da un lato, modifica la
materia penetrando la forma, dall’altro, modifica la forma penetrando
la materia. La potenza della fides è tale d’aprire e predisporre l’ani-
mo di coloro che s’intende legare come se «fenestras aperiat ad solem
concipiendum»59. Essa rende l’animo del paziente disponibile a lasciarsi
penetrare dalle «impressiones quae ligatoris ars requirit»60. Solo per
mezzo di essa il mago, il medico, il profeta, come anche il politico,
potranno vincolare attraverso «omnia quorum vires ex animo in corpus
alterando transmigrant»61.
La fides deve essere presente allo stesso modo nel soggetto agente,
nel paziente e nelle circostanze dell’agire62. Questa condizione di ope-
rabilità, sia nella dimensione della magia naturale e della medicina,
sia in quella civile, si traduce in un principio costante rintracciabile in

57
Ivi, p. 282.
58
Ibidem.
59
Ivi, p. 244.
60
Ivi, p. 282.
61
Ivi, pp. 284.
62
Ivi, p. 244.
dalla philosophia occulta alla physica magica 89

ogni specie di vincolo e in tre elementi fondamentali: «potentia activa


in agente, potentia passiva in subiecto seu dispositio […] quae est cir-
cumstantias temporis, loci et reliquorum concurrentium»63. Queste tre
condizioni necessarie all’operare magico sono ribadite nelle Theses e nel
De vinculis, laddove Bruno esamina le possibilità del vincire a partire
dai tre punti di vista prospettici dell’agente o vinciens, del paziente o
vincibile, dei tempi e dei luoghi di applicazione del vincolo.

3. Magia, fides, contractio e imaginatio. Elementi teorici del Sigillus


Sigillorum nel De magia

La necessità della fides nella prassi magica, medica e profetica, co-


stituisce un elemento presente sin dai primi scritti filosofici di Bruno.
Nella seconda parte del Sigillus egli rintraccia proprio nella fides ciò che
permette definire e distinguere la magia nelle sue diverse forme. Attra-
verso la fides è possibile distinguere una prima forma di magia, praticata
per lo più da «reprobos magos»64, la quale «per credulitatem fidei vim
vel per alias non laudabiles conctractionis species sensum mortificat
[…], ut natura melior in alicuius deterioris imaginem transformetur»65;
e una seconda che «per regulatam fidem et alias laudandas contractio-
nes species tantum abest ut sensus perturbatione quandoque utantur,
ut eumdem claudicantem fulciat, errantem corrigat, imbecillem et
obtusum roboret et acuat»66.
Dalla distinzione tra credulitas e fides, egli traccia una prima di-
stinzione tra una magia desperatorum e una sapientia magica. Questa
distinzione procede in parallelo al riconoscimento delle molteplici forme
di contractiones, o contrazioni dell’anima, e delle facoltà atte a com-
pierle – il senso, l’immaginazione e la potenza cogitativa – descritte
nella prima parte del Sigillus. Nella presentazione della quinta specie

63
Ivi, pp. 250-252.
64
Sigillus, p. 262.
65
Ibidem.
66
Ivi, p. 264.
90 giulio gisondi

di contractio, ad esempio, egli osserva come per effetto dell’«affectum


fidei»67 l’animo acquisti dominio sul corpo. E in effetti, eccellono i
medici nei quali è riposta la fiducia di molti68, inversamente a come i
maghi che non suscitino consenso «non devincient, non exolvent, non
commovebunt, non inculcabunt spiritum»69. Medicina e magia, insieme
alla profezia, appiono già nel Sigillus, prim’ancora che nel De magia,
prassi comuni fondate sugli stessi principi e strumenti.
La contractio è la più alta forma di concentrazione attraverso cui
l’anima, raccogliendosi in sé stessa e ritenendo le proprie intellezioni,
può arrivare a compiere prodigi. Essa consiste nella capacità di mo-
dificazione che l’anima esercita sul proprio corpo e sui corpi esterni,
per mezzo dei poteri derivanti dall’immaginazione e dall’intelletto.
Dal potenziamento di queste facoltà, ottenuto grazie all’isolamento,
al silenzio, alla riflessione e alla concentrazione in sé stessi, il soggetto
imparerà ad agire «in similibus per consimilia, in proportionalibus per
comproportionalia, in diversis per analogicas rationes, in contrariis tan-
dem per opposita pariter industrius»70. Questa forma di magia naturale
è concepita a partire da tecniche di attrazione praticate sia su sé stessi
che sugli altri, fondate sull’uso dei vincoli dell’immaginazione e sulla
capacità di suscitare phantasmata, immagini fantastiche.
Il soggetto agente deve, però, avere sempre presente i rischi del legare
attraverso l’immaginazione: tra tutti, il pericolo più frequente e che
determina la specie stessa di contractio è quello di non comprendere e
dominare le immagini fantastiche, bensì di esserne compresi e dominati,
non agendo, ma essendo agiti71. Si tratta di un pericolo costante non
soltanto nella pratica della contractio, ma nel processo conoscitivo: se
i nostri sensi e il nostro intelletto sono sempre illuminati dal perfetto
dominio dell’unico senso e dell’unico intelletto universale, così non è
per quanto riguarda le potenze intermedie legate all’immaginazione che

67
Sigillus, p. 232.
68
Ibidem.
69
Ivi, p. 234.
70
Sigillus, p. 252.
71
Ibidem.
dalla philosophia occulta alla physica magica 91

se, da un lato, sono da noi dominate, dall’altro, ci dominano72. Nella


diversa capacità di agire sull’immaginazione, sui suoi vincoli e per mez-
zo di essi, Bruno delinea una distinzione gnoseologica e antropologica:
la capacità di essere attivi e di agire sulle proprie o altrui immagini che
dalla sensibilità e attraverso l’immaginazione impressionano la ragione,
o l’essere passivi e agiti dall’immaginazione. È questa la distinzione tra
quanti si rendono schiavi, dominati da passioni e immagini proprie o
altrui, che incatenano l’animo e la mente, e quanti sono, invece, capaci
di dominarle, legandosi a vincoli che liberano l’uomo conducendolo al
compimento massimo delle proprie facoltà, a farsi razionale ed eroico.
Nel Sigillus, l’analisi delle facoltà conoscitive e delle diverse specie
di contractiones è sempre connessa all’ontologia della nolana filosofia,
in una prospettiva che lega la riflessione sull’essere e sul suo riflettersi
nel molteplice con le condizioni di una sua comprensione. Il processo
conoscitivo procede secondo una sostanziale unità, specchio dell’in-
divisibile unità della mens o della causa e principio primo, che pur
esplicandosi in una molteplicità di elementi fa eternamente ritorno
alla sua unità originaria. Allo stesso modo, ponendo un’identità tra il
modello ontologico e quello gnoseologico, tra essere e pensare, Bruno
definisce il processo conoscitivo come unitario, organico e omogeneo,
pur nella distinzione dei gradi e dei momenti che lo caratterizzano.
Si tratta di un rifiuto della tradizionale gerarchia e distinzione delle
facoltà conoscitive a favore dell’affermazione della loro unità. Queste
non rappresentano facoltà differenti, quanto piuttosto, come osserva
Scapparone, «funzioni dell’anima»73, in cui le loro distinzioni non sono
reali o strutturali, ma operative, poiché partecipano a un comune atto
e a uno stesso principio spirituale e intellettuale.
Quasi facendosi erede e portavoce della lezione del Socrate del Fe-
done, Bruno invita a ricercare sempre «in omni multitudine unitatem,
in omni diversitate identitatem»74. Questa ricerca dell’unità nella mol-

72
Ivi, pp. 210-212.
73
E. Scapparone, ‘Raptus’ e ‘contractio’ tra Ficino e Bruno, in Letture bruniane I-II
del Lessico Intellettuale Europeo 1996-1997, cit., p. 269.
74
Sigillus, p. 224.
92 giulio gisondi

teplicità, dell’identità nella diversità, costituisce una questione nodale


nell’intero percorso della sua filosofia: soltanto dopo aver riconosciuto
l’unità originaria da cui tutto procede e a cui fa ritorno, riflessa in ogni
aspetto del reale, sarà possibile conoscere e agire sull’apparente mol-
teplicità e diversità, stabilendo connessioni e legami tra gli individui.
Non è un caso che la necessità di una conoscenza unitaria dell’essere
sia esposta come premessa alla presentazione delle quindici specie di
contractiones descritte nell’opera. Questa pratica è, infatti, caratteriz-
zata proprio dal «raccogliersi dell’anima in sé stessa nel tentativo di
attingere […] l’unità, come se essa si riducesse ad un punto»75, quasi
a imitazione dell’Uno.
Nella presentazione delle contractiones Bruno riprende il libro XIII
della Theologia platonica di Ficino. Egli esclude, però, la distinzione
ficiniana tra gli affectus phantasiae76 – le passioni provenienti dall’attività
fantastica come il desiderio, il piacere, la paura e il dolore – e gli affectus
rationis – gli strumenti attraverso i quali la mente, raccogliendosi in sé
stessa e giungendo a stati di coscienza più elevati, è in grado di liberarsi
«a corporis vinclis»77. L’esclusione di questa distinzione è tesa a ribadire
l’unicità del processo gnoseologico sia nell’ascenso verso la conoscenza in-
tellettuale, sia nel descenso verso la sensibilità e le immagini fantastiche.
Allo stesso modo, egli riformula anche i modelli e gli exempla delle
specie di contractones. Per Ficino la contractio è la capacità dell’anima
razionale di astrarsi dalle leggi fisiche, per innalzarsi fino al ricon-
giungimento con il divino. Gli esempi addotti sono quelli dei filosofi,
Pitagora, Socrate, Zoroastro e Plotino, i quali vivendo a lungo in soli-
tudine furono capaci di liberarsi dai nodi corporei per giungere a più
alti livelli di contemplazione, dei poeti, rapiti da un «divino furore»78
e, infine, dei ‘sacerdoti’, tra i quali l’Apostolo Paolo, condotto al grado
supremo della conoscenza divina grazie all’amore di Dio. La più alta

75
E. Scapparone, Raptus’ e ‘contractio’ tra Ficino e Bruno, cit., p. 270.
76
Cfr. M. Ficini Theologia Platonica sive de immortalitate animarum, in Opera,
Basilea 1576, vol. I, lib. XIII, cap. 1, p. 284.
77
Ivi, lib. XIII, cap. 2, p. 286.
78
Ivi, lib. XIII, cap. 2, p. 287.
dalla philosophia occulta alla physica magica 93

espressione della contractio e il modello privilegiato di comunicazione


con il divino a cui un’anima può tendere è, secondo Ficino, la profezia.
Per mezzo di essa e degli affectus rationis l’anima può elevarsi a una
conoscenza più elevata rispetto all’attività fantastica, così da giungere
alla visione di un ordine superiore che oltrepassa quello naturale. Ma
ciò è possibile soltanto a un’anima in grado di separarsi e interrompere
il contatto con la realtà fisica e corporea, così da farsi vaso e strumento
della divinità, in modo da accogliere la serie delle menti superiori pu-
ramente intellettuali. Questa forma di contractio è definita da Ficino
vacatio animi, una contrazione dell’anima in sé stessa attraverso la quale
il sapiente, sospendendo il contatto con le potenze corporee e materiali,
può intraprendere il cammino di liberazione, purificazione e ascesa
verso le realtà superiori79. Qualora un soggetto umano si disponga a
farsi strumento del divino, l’anima razionale potrà compiere prodigi e
miracoli attraverso il potenziamento della ratio e della virtus phantastica.
Bruno riprende questi exempla nel Sigillus e, qualche anno più tardi
nel De monade80. Tuttavia, nonostante le assonanze concettuali e les-
sicali, profondamente diversa è la prospettiva nella quale egli inscrive
l’analisi delle quindici forme di contractiones. Egli introduce la prima
di queste riprendendo l’esempio ficiniano dei filosofi, dei poeti, dei
sacerdoti e dei profeti che si sono allontanati nel totale isolamento, per
accedere a un più alto livello di coscienza. In virtù della contractio loci,
della solitudine dell’eremo o dell’isolamento volontario dalla moltitu-
dine, Pitagora, Zoroastro, Mosè, Gesù di Nazareth, Raimondo Lullo,
Paracelso, sono diventati iniziatori di arti, scienze, virtù, buoni costumi,
maestri, guide e pastori di popolo. Vi è qui, però, una radicale distanza
rispetto alla fonte: se Ficino pone una gerarchia tra i diversi livelli di
contractio, che procede dai filosofi sino a giungere ai profeti, espressione
più alta del ricongiungimento al divino, per Bruno non sussiste alcuna
differenza tra queste figure, né una loro possibile gerarchizzazione. Egli
pone in una stessa prospettiva filosofi, poeti, medici, maghi, profeti
e legislatori, accomunati tutti dall’originaria necessità d’isolarsi dalla

79
Ivi, lib. XIII, cap. 2, p. 292.
80
De monade, p. 441.
94 giulio gisondi

molteplicità per intensificare le proprie forze e acquisire una consape-


volezza più profonda di sé, della natura e degli esseri umani. Prendendo
spunto dall’esame della contractio, egli osserva come soltanto per mezzo
della meditazione e dell’isolamento figure come Pitagora, Zoroastro,
Mosè o Gesù abbiano potuto raggiungere più alti livelli di coscienza
così d’«attingere alla fonte da cui scaturiscono i fondamenti della vita
civile e alla possibilità di istituire nuovi ordini e nuove leggi»81.
Già in queste pagine del Sigillus, dunque, sulla scorta della fonte fici-
niana, Bruno traccia quella strettissima analogia, poi sviluppata nel De
magia, tra le prassi magica, medica, profetica e politico-civile. Queste
costituiscono una sapientia unica, seppur explicata in diverse forme: una
conoscenza dell’unità da cui tutte le molteplicità e contrarietà hanno
origine e a cui fanno ritorno, un sapere dell’essere e della natura in cui
l’essere umano è assorbito e incluso. Soltanto imparando a riconoscere
l’unità nel molteplice e l’identità nella diversità, sarà possibile agire sulla
natura e, ancor più, sugli esseri umani. La prospettiva qui elaborata
è la stessa degli scritti magici. Se nel De magia, medicina, profezia e
politica sono ambiti interconnessi e assorbiti nella magia naturale, tutti
fondati e accomunati dal vincolo della fides e tesi a istituire legami tra
gli esseri umani, è in queste pagine del Sigillus che possiamo rintracciare
le origini di questa riflessione.

4. Imaginatio attiva e passiva tra il Sigillus e il De magia. Agire ed


essere agiti

Nell’esame della contractio loci Bruno pone una distinzione tra due
forme di ozio rappresentate, rispettivamente, da quanti si ritirano in
solitudine alla ricerca della verità e della virtù, e quanti si sottraggono
alla «negociosorum conversatione»82, tentando di fuggire l’«humanum
laborem et curas»83. Pochi sono i virtuosi che si sono allontanati dal-

81
E. Scapparone, Raptus e contractio tra Ficino e Bruno, cit., p. 271.
82
Sigillus, p. 228.
83
Ibidem.
dalla philosophia occulta alla physica magica 95

la vita comunitaria per cercare «bonitatem et veritatem»84, mentre la


maggior parte, spinti da una forma perversa di ozio, hanno prodotto
effetti nefasti per la pace.
Già nel Sigillus sono riscontrabili i presupposti della critica che
Bruno rivolge contro i riformati e che sarà ripresa, in particolare, nello
Spaccio85. Egli li definisce come coloro «qui […] in humanae et civilis
conversationis interitum docent homines pro malefactis non timere»86.
Alla necessità delle opere sul piano civile, essi sostituiscono delle sor-
didissime fantasie, ricacciando il mondo nella barbarie che era stata
superata grazie all’introduzione della legge. Bruno articola la critica ai
riformati nel Sigillus attraverso il recupero di problemi ontologici e gno-
seologici legati alla riflessione sulle forme di contractiones utilizzate nella
praxis profetica. La dottrina riformata della gratia sola fide fa parte delle
«depravatae contractionis species»87, inutile al consorzio umano. Ma
queste «miseranda […] contractionis species»88 non sono caratteristiche
esclusivamente della prassi religiosa tipica dei riformati89. Riprendendo
la vacatio vana di Ficino, egli definisce immonde90 tutte le forme di
contractiones praticate da quanti sono dominati da vane fantasie. Tra
questi, descrive nell’undicesima contractio gli eccessivi malinconici che,
«in grembium materiae crassioris immersi»91, si persuadono di dover
ricorrere all’invocazione di un demone, utilizzando riti e cerimonie
di «superstiziosa devozione»92. Le invocazioni posseggono una grande
efficacia, tanto da turbare la fantasia di quanti si lasciano avvincere.
Anche negli apocalittici e nei falsi profeti agisce un’immaginazione
tormentata da una «pessime olentis melancoliae»93, che si differenzia

84
Ibidem.
85
Spaccio, p. 517.
86
Ivi, p. 228.
87
Ivi, p. 230.
88
Ivi, p. 240.
89
Cfr. E. Scapparone, Raptus e contractio tra Ficino e Bruno, cit., p. 273.
90
Sigillus, p. 242.
91
Ivi. 244.
92
Ivi, p. 245.
93
Ivi, p. 244.
96 giulio gisondi

da quella dei malinconici per una «libidinis diversitate»94. Questi sono


affetti da una modalità differente ma altrettanto dannosa di piacere,
a cui accedono attraverso il turbamento delle loro fantasie, raggiungi-
bile grazie a pratiche di autoflagellazione del corpo, di alterazione del
rapporto fra corpo e anima, e di un vitto in contrasto con quanto la
loro natura richiederebbe. Attraverso queste specie di contractiones, che
sconvolgono e perturbano l’immaginazione e la ragione, Bruno spiega
fenomeni come l’estasi o la comparsa delle stimmate. Queste forme di
contractiones non sono dannose esclusivamente sul un piano individuale,
ma ancor più pericolose per gli effetti che arrecano sul piano pubblico,
comunitario e civile. La ragione del pericolo e del danno per cui questi
«stulti»95 sono da detestare sta proprio nell’effetto che essi producono
sulle menti degli «ignorantium et asinorum»96 ai quali appaiono come
«prophetae atque revelatores pietatis»97. Questo genere di contractio è
un esempio della magia fondata su di una credulitas non regolata, in
grado di produrre effetti nefasti sia sui soggetti attivi, sia sui passivi,
trasformando la natura migliore in una realtà deteriore.
Un’ultima specie di contractio «pessima»98 è la quattordicesima, pro-
dotta grazie a un vitto nocivo e opposto alla naturale costituzione del
corpo. Dall’alterazione dell’alimentazione alcuni soggetti accumulano
nel corpo un eccesso di un umore che li rende fanatici e folli, fino a
corromperne e alterarne lo spirito e la ragione. I simplices dediti a questa
contractio acquisiscono sapere non attraverso un processo conoscitivo,
ma tramite la corruzione del corpo e della ragione, nonché dell’arte
notoria, ovvero delle invocazioni di demoni. Chi pratica questa specie
di contractio, una volta depurato il corpo, risanato e liberato dagli
umori maligni, tornerà a essere «talis, qualis semper extiterat, asinus»99.
Nella disamina di queste contractiones Bruno accomuna le visioni
e le estasi mistiche di tipo religioso a quelle magiche. Le forme di

94
Ibidem.
95
Ibidem.
96
Ibidem.
97
Ibidem.
98
Ivi, p. 248.
99
Ivi, p. 250.
dalla philosophia occulta alla physica magica 97

misticismo apocalittico e profetico assumono le stesse caratteristiche


delle tecniche magiche in grado di provocare l’illusione di una comu-
nicazione con spiriti, angeli e divinità. La comunicazione con forze
superiori è esclusivamente immaginaria, frutto di un ricercato eccesso
di malinconia e di un turbamento della propria e dell’altrui immagina-
zione che giunge a corrompere la ragione. Si tratta di una critica che egli
rivolge parallelamente sia alle false tecniche di magia e alle contractiones
fondate sulla credulitas, sia alle pratiche mistiche tipiche dell’apocalittica
cristiana. I pessimi malinconici si persuadono di congiungersi a una
qualche divinità in virtù di uno spirito turbato, credendo di sollevarsi
oltre la sfera corporea sino a giungere a una comunicazione col divino.
I creduloni, i semplici, gli ignoranti e gli asini hanno così l’impressione
di essere diventati a un tratto sapienti.
Vi è qui una radicale presa di distanza dalla fonte. Se per Ficino
l’essere umano può farsi vaso e strumento della divinità ed essere agito
da una forza soprannaturale, Bruno rigetta questa possibilità e, con
essa, l’idea di una sapientia acquisita o incarnata. L’esempio ficiniano
per cui i Galilei, ispirati da Dio, furono trasformati da pescatori in
sublimi teologi100, non costituisce nella prospettiva bruniana una reale
e concreta forma di sapere. La conoscenza può essere solo il risultato
di un lungo e interminabile processo che non avviene per ispirazione
divina, ma per umana fatica. Allo stesso modo, se Ficino ritiene che gli
esseri umani possano compiere miracoli accogliendo in sé la divinità e
divenendo strumenti attraverso cui essa agisce e opera prodigi101, Bruno
rifiuta questo tipo di argomentazione. I miracoli o prodigi non rientrano
nella sfera del soprannaturale ma sono possibili in virtù di alcune specie
di contractiones. È il caso, ad esempio, della tredicesima contractio, in
cui egli descrive la levitazione di Tommaso d’Aquino che, grazie alle
forze riunite nell’animo, «in unum spiritus animalis sensitivus atque
motivus est collectus, ut corpus a terra in aerem vacuum tolleretur»102.
Secondo il Nolano questo fenomeno non appartiene al dominio del

100
M. Ficini Theologia Platonica, cit., lib. XIII, cap. 2, p. 287.
101
Ivi, lib. XIII, cap. 5, p. 305.
102
Sigillus, p. 248.
98 giulio gisondi

soprannaturale e soltanto gli ignoranti possono giudicarlo tale. Questo


è prodotto «a naturali tamen animi potentia»103. Quest’ultima contrac-
tio, positiva e virtuosa, è il risultato di una malinconia temperata104,
caratteristica di ingegni divini105 che si elevano al di sopra della materia
per la forza della loro attività cogitante106.
La contrapposizione tra queste due specie di contractiones, una posi-
tiva e virtuosa e una negativa e deteriore, stabilisce una differenza non
soltanto tra due forme di magia e di fides, ma anche tra due modelli
gnoseologici. Una corretta e regolata conoscenza è quella in cui l’essere
umano agisce e controlla le proprie immagini sensibili, agendo sui pro-
pri fantasmi così da non confondere visioni, sogni e allucinazioni con
rivelazioni e ispirazioni divine. La capacità di controllare il momento
passivo della conoscenza e le potenze intermedie, caratterizza e deter-
mina il tipo di contractio. L’immaginazione è un elemento necessario
al processo conoscitivo e, al tempo stesso, ciò che assicura alla ragione,
nelle sue forme regolate, un equilibrio e una corrispondenza tra perce-
zione e realtà. La distinzione tra le due tipologie di conoscenza segue
ed è coessenziale a quella tra le due forme di magia e di fides.
Pur se a uno stato originario, nel Sigillus sono già presenti molti
degli elementi necessari alla prassi magica descritti nel De magia. La
comunanza e le assonanze tra i due testi sono riconducibili principal-
mente alla relazione tra fides e magia, nonché alla potenza dell’imma-
ginazione, strumento attraverso cui vincolare ed essere vincolati. Nel
De magia Bruno riprende gli elementi abbozzati per la prima volta nel
Sigillus, curvati nell’orizzonte di una specifica riflessione sulla magia e
di una sua riforma. Non è un caso se nel secondo degli scritti magici
egli inserisca una trattazione dei vincoli della fantasia e della potenza
cogitativa, oltre a quelli della sensibilità, concludendo con l’attribuire
un enorme potere proprio alle facoltà intermedie.

103
Ibidem.
104
Ivi, p. 244.
105
Ibidem.
106
Ibidem.
dalla philosophia occulta alla physica magica 99

Nell’esame del «quartum vinculum quod est ex phantasiae»107, egli


afferma che compito dell’attività fantastica è quello di accogliere, tratte-
nere e dividere le immagini sensibili108. Ciò può avvenire in due modi:
o attraverso la scelta libera del soggetto che immagina, alla maniera dei
poeti, dei pittori, di coloro che compongono favole o, più generalmente
di quanti con una certa ragione combinano immagini109; oppure «alio
pacto extra arbitrium et electione»110, senza, cioè, che il soggetto ne
sia consapevole, che possa avere un controllo, né possa organizzare le
proprie immagini, vale a dire, essendone agito: il che può avvenire
«vel per causam etiam eligentem et voluntariam, vel ab extrinsecus
moventem»111. A sua volta, ciò può verificarsi o per l’azione di qualcuno
in grado di perturbare l’altro, attraverso voci e immagini che turbano
l’anima, oppure in maniera inconscia, immediata, per l’azione dell’im-
maginazione durante il sonno o la veglia. È a causa di quest’ultima
specie di vincolo che alcuni esseri umani hanno l’impressione di udire
voci, di vedere immagini che credono a loro esterne. Essi sono ingannati
non solo nel senso e nell’immaginazione, ma nella stessa ragione, non
avendo più alcun controllo sulle proprie facoltà intermedie, fino a essere
agiti dai loro stessi phantasmata. L’immaginazione, «quae est sola porta
omnium affectum internorum et est vinculum vinculorum»112, muove
sia i soggetti passivi, turbati dalla propria fantasia sino alla ragione, sia
i sapienti in grado di dominarla.
Come nel Sigillus, anche nel De magia è centrale la distinzione tra le
forme positive o virtuose di magia e di contractiones, e quelle deteriori
e perniciose. Bruno condanna, ad esempio, il tentativo di congiun-
gersi al divino, di farsi vaso e strumento di angeli o demoni attraverso
un’immaginazione turbata. Ma allo stesso tempo, per questo genere di
pratiche vale qui lo stesso rimedio già individuato nel testo londinese:

107
De magia, p., 272
108
Ibidem.
109
Ivi p. 274.
110
Ibidem.
111
Ibidem.
112
Ivi, p. 282.
100 giulio gisondi

una «rhetorica […] amica et medica quadam persuasione»113 può aiutare


a espellere gli elementi nocivi allo spirito e al corpo.
Sia nel Sigillus, sia nel De magia, dunque, fides e imaginatio costitui-
scono gli elementi attraverso cui distinguere tra forme virtuose di magia
che spingono il soggetto ad agire su di sé e gli altri, e forme deteriori
che spingono a essere agiti. Il mago, il medico, il profeta e il politico
devono, perciò, porre grande attenzione all’opera dell’immaginazione.
Questa è la porta principale che guida le azioni e le passioni umane,
fondamento del vincolo della ragione, «quod est ex cogitativa»114. At-
traverso il controllo della facoltà cogitativa, i fantasmi in grado di
vincolare l’animo degli stolti sono disprezzati e non legano una mente
disciplinata115, che si lascia avvincere, invece, dalla verità.

5. Scala naturae e sapientia triceps

Bruno recupera nel De magia un tema già presente nel De magia


mathematica, quello della scala naturae, la rappresentazione gerarchica
e scalare dell’essere e del cosmo che da Dio, alle menti angeliche, all’a-
nima razionale, procede sino al mondo animale, vegetale e minerale.
Nelle prime battute del De magia mathematica, attraverso il recupe-
ro sia di Ficino116, sia di Agrippa117, egli inserisce la magia in questa
struttura ontologica e cosmologica118. Questa costituisce l’orizzonte
fisico e metafisico nel quale si fonda la teoria e la pratica della magia
nel Rinascimento, intesa come la possibilità di canalizzare gli influs-
si superiori e immateriali sulle realtà inferiori e materiali per mezzo
dell’azione mediatrice del mago. Il mago media e lega il mondo delle
potenze superiori spirituali alle inferiori e corporali, allo stesso modo
in cui, secondo Ficino, l’anima razionale funge da elemento intermedio

113
De magia, p. 278.
114
Ivi, p. 280.
115
Ibidem.
116
Cfr. M. Ficini Theologia Platonica, cit., lib. XVIII, cap. 5, p. 405.
117
Cfr. C. Agrippa, De occulta philosophia libri tres, cit., lib. I, cap. 1, p. 85.
118
De magia math., p. 4.
dalla philosophia occulta alla physica magica 101

nella gerarchia delle ipostasi, in quanto copula mundi, vincolo tra le


realtà divine e quelle materiali. In questa rappresentazione scalare e
gerarchica l’essere umano è centro, termine medio, anello di congiun-
zione tra il piano divino e quello terreno. A ciò corrisponde un cosmo
geocentrico, chiuso e delimitato in nove cieli, in cui le realtà sovra
lunari influenzano quelle sublunari.
Il ricorso di Bruno alla scala naturae non è limitato ai soli scritti
magici, ma è presente sin dal De umbris119. Tuttavia, la gerarchia scalare
tanto del mondo fisico, quanto di quello metafisico, sembra possedere
un valore logico e figurativo, piuttosto che ontologico. Essendo l’Uno
totalmente estraneo alle possibilità umane d’intellegibilità, risulta allo
stesso modo estraneo dall’orizzonte della conoscenza umana. È questa
la ragione per la quale egli interpreta la rappresentazione ipostatica
come un processo di figurazione che non corrisponde ad alcuna reale
distinzione ontologica120. La scala, tanto dell’essere, quanto dell’uni-
verso, possiede un valore esclusivamente figurativo per l’essere umano,
ma non riflette, non dice e non può dire nulla della causa e principio
primo infinita e inconoscibile.
Quella scalare è la necessaria, parziale e limitata via alla conoscenza.
Seppur presente in tutto l’arco della sua produzione, dai primi scritti
latini sino agli ultimi scritti magici, passando per le opere volgari, il
ricorso alla scala naturae assume per Bruno una connotazione pretta-
mente gnoseologica, per essere svuotata del senso ontologico che riveste
nelle sue fonti. A differenza del De magia mathematica, nel De magia
egli riferisce l’opinione di una scala naturae ai maghi in genere121. Ciò
risponde a una duplice necessità: la prima è relativa alle possibilità co-
noscitive umane, all’incapacità di cogliere l’unità dell’essere infinito e
di rappresentarlo a sé stesso, se non attraverso una divisione per gradi
e separazioni gerarchiche; la seconda è, invece, legata alla ripresa del
patrimonio della tradizione magico ermetica e neoplatonica, in cui la

119
De umbris, pp. 52, 102, 104.
120
Cfr. T. Dagron, Unité de l’ être et dialectique. L’ idée de philosophie naturelle
chez Giordano Bruno, Paris, 1999, p. 110.
121
De magia, pp. 168-170.
102 giulio gisondi

magia è pensata all’interno della prospettiva ipostatica e scalare degli


enti e del cosmo, in cui il mago funge da termine medio, mettendo in
comunicazione i diversi piani dell’essere.
Con la redazione degli scritti magici Bruno tenta di ricondurre la
riflessione sulla magia nella prospettiva ontologica e cosmologica già
tracciata nel Sigillus, nei dialoghi italiani e nei poemi di Francoforte,
oltrepassando una rappresentazione antropocentrica, finita dell’essere
e dell’universo, per aprirsi a una nuova immagine della natura e, con
essa, dell’essere umano. Si tratta di un’operazione complessa e non del
tutto lineare, ma la cui chiarificazione consente di comprendere la ri-
forma della magia rispetto alle fonti utilizzate. La via tracciata nel De
magia si pone come una ripresa critica e strumentale della letteratura
raccolta nel De magia mathematica: un’operazione di naturalizzazione
e de-occultamento della magia, già in atto alle origini della nolana
filosofia, che appare visibile soltanto attraverso il confronto interno agli
scritti magici, da questi alle opere precedenti.
L’intera produzione bruniana è accompagnata da una considerazione
sul misero stato in cui versa l’arte magica, presente non soltanto nel
Candelaio, ma in modo particolare nello Spaccio, laddove egli condanna
le forme di mistificazione e idolatria del culto rinascimentale dell’antico
Egitto e dei suoi saperi magici122. Se letto nel solco di questo stessa pro-
spettiva, il De magia sembra porsi come un tentativo di radicale riforma
del sapere magico, nel senso del re-formare, del ricondurre all’origine
più autentica: una riforma necessaria agli occhi di Bruno, poiché il
senso di quella sapienza e il suo linguaggio sono stati smarriti. Ma la
maggiore conseguenza di questa perdita è l’allontanamento dell’essere
umano dal riconoscimento dell’infinità e unità della natura.
Nelle pagine iniziali del De magia, dopo aver passato in rassegna
nove tipologie di magia e altrettante significazioni del termine mago,
Bruno esclude dal proprio campo d’indagine lo studio di quelle forme
conosciute come prestigiatoria, notoria, teurgica, negromantica, divi-
natoria, cerimoniale. Egli rileva come i termini mago e magia abbiano
spesso assunto un’accezione indegna, indicando un «maleficus utcunque

122
Cfr. Spaccio, p. 632.
dalla philosophia occulta alla physica magica 103

stultus»123 in grado di compiere azioni benefiche o malefiche attraverso


il contatto o il patto con un demone. Quest’accezione non trova alcun
riscontro presso i sapienti o i grammatici, ma piuttosto «a quibusdam
usurpatur nomen magi bardocullis, qualis fuit ille qui fecit librum De
malleo malleficarum»124. Quella utilizzata nel De Malleo Malleficarum è
una significazione impropria del termine mago, usurpata «ab omnibus
huius generis scriptoribus, ut legere licet apud postillas, catechismos
ignorantium et somniantium praesbyterorum»125. Prima di procedere
a una definizione del termine è necessario avere ben presente la grande
varietà dei suoi significati, spesso differenti a seconda dei costumi, delle
credenze e delle culture di popoli diversi126. Ma se utilizzato in senso
assoluto, il termine mago assume, secondo Bruno, il suo significato più
nobile, vale a dire quello utilizzato dai filosofi e tra i filosofi: «magus
significat hominem sapientem cum virtute agendi»127.
A questa definizione segue nel De magia la delimitazione del campo
d’indagine in cui Bruno inserisce l’analisi della magia, distinguendo-
la in divina, physica e mathematica128. La distinzione tra i tre ambiti
teorici e pratici del sapere magico corrisponde a un motivo già accen-
nato nell’apertura del De magia mathematica129. Si tratta di una nota
tripartizione delle forme di magia, già presente in Agrippa, in natura-
lis, coelestis e cerimonialis130, corrispondenti ai tre mondi, elementalis,
coelistis e intellectualis131. La seconda di queste forme di magia è detta
matematica132, intermedia tra la dimensione naturale e quella divina o
metafisica, necessaria alla comprensione dei tempi dell’operare magico
e, dunque, neutra, in quanto sia benefica che maligna a seconda dei suoi

123
De magia, p. 166.
124
Ibidem.
125
Ibidem.
126
Ibidem.
127
Ibidem.
128
Ivi, pp. 166-168.
129
De magia math, p. 6.
130
Cfr, C. Agrippa, De occulta philosophia, cit., lib. I, cap. I, pp. 85-86.
131
Ibidem.
132
Ivi, lib. I, cap. 2, p. 86
104 giulio gisondi

utilizzi. Vi è, però, una differenza rispetto al De magia mathematica


e ad Agrippa: i tre mondi non sono ontologicamente separati o indi-
pendenti, ma congiunti, si riflettono reciprocamente l’uno nell’altro,
di modo che l’uno produce l’altro133.
Seppur la distinzione dei tre mondi e delle tre tipologie di magia
esposta da Agrippa compaia implicitamente nel De magia mathematica,
nel passaggio al De magia Bruno riformula questa ripresa. I tre mondi
discendono gli uni dagli altri e sono indissolubilmente interconnessi tra
loro, non certo da un punto di vista ontologico, ma in una prospettiva
puramente rappresentativa. In altre parole, questa distinzione non in-
dica una separazione reale ma soltanto formale o ideale, vale a dire non
assume un valore ontologico, ma esclusivamente logico e gnoseologico.
Con il riconoscimento dei tre mondi, Bruno recupera, riformulandolo,
un tema della tradizione ermetica. Si tratta, infatti, di una questione
presente nel Corpus Hermeticum, laddove si distingue tra Dio, uomo
e mondo134: in quanto Dio si comunica al mondo, o natura, la sua
conoscenza da parte dell’essere umano è possibile soltanto attraverso la
comprensione della natura intesa come unità135. La letteratura magico
ermetica non costituisce, però, l’unica fonte in proposito: come ha
osservato Leen Spruit, «nella sua teoria dei tre mondi Bruno aderisce
ad una distinzione che risale alla dottrina scolastica degli universalia:
ante rem, in re, post rem»136. E in effetti, leggiamo nelle Theses, «idea
tripliciter sumitur: ante rem, in re, post rem»137. Questa questione è,
inoltre, presente anche in opere precedenti gli scritti magici. Nel De
umbris, Bruno pone una tripartizione della realtà secondo la stessa di-
stinzione tra metafisica, fisica e logica, ponendo un’analogia tra queste

De magia, pp. 172-174.


133

Cfr. Corpus Hermeticum, edizione e commento di A.D. Nocke e A.-J. Festu-


134

gière, edizione dei testi ermetici copti e commento di I. Ramelli, testo greco, latino
e copto a fronte, Milano 2005, tr. X, rr. 1-4, pp. 257-271.
135
Ivi, tr. V, rr. 2-3, p. 167.
136
L. Spruit, Magia: socia naturae. Questioni teoriche nelle opere magiche di Gior-
dano Bruno, in «il Centauro», XVII/XVIII (1986), p. 153.
137
Theses, p. 338.
dalla philosophia occulta alla physica magica 105

tre modalità di lettura138. Anche qui, la separazione tra ante naturalia,


naturalia e rationalia non indica tre realtà ontologicamente distinte, ma
tre forme differenti e complementari di rappresentazione di una stessa e
unica realtà, infinita e indivisibile, conoscibile per gradi e separazioni.
La distinzione e l’analogia tra i mondi metafisico, fisico e matematico,
tra il De magia mathematica e il De magia, risponde all’esigenza di re-
cuperare e inserire la riflessione sulla magia all’interno della prospettiva
ontologica e gnoseologica propria della nolana filosofia.
Questo stesso problema è rintracciabile anche nel confronto e nell’u-
so bruniano di Cusano. Da quest’ultimo Bruno recupera l’dea della
possibilità di una conoscenza umana, soltanto laddove vi sia diversità,
distinzione e pluralità di termini, relazione tra elementi finiti. Come
indicato nella intentio quarta139 del De umbris, nell’ombra vi è moltitu-
dine, distinzione, proporzione e relazione tra i termini: nella dimensione
dell’explicato, dove, come osserva Secchi, «il bene e il male, il vero ed il
falso sono antitesi operanti»140, dove non vi è coincidentia oppositorum,
dove ogni ente è sé stesso e nient’altro, lì è possibile conoscere per pro-
porzione, analogia e congettura. Nell’infinito, nell’Uno, dove tutto è
indistinto, complicato, assoluta unità e semplicità, non vi è possibilità di
una conoscenza umana. La distinzione dei mondi archetypus, physicus
e rationalis e il ricorso all’immagine gerarchica della scala naturae ri-
spondono a una necessaria esigenza, quella di rappresentare una realtà
unica e infinita.
Come nel De umbris, così anche nel Sigillus Bruno approfondisce la
teoria dei tre mondi, illustrando come debba intendersi il descenso dal
mondo supremo, fonte delle idee, fino al terzo e viceversa141. Questa
distinzione tripartita se, da un lato, rappresenta una tappa necessaria
del processo gnoseologico, dall’altro, deve essere ricondotta all’unità
dell’essere. La divisione e la separazione gerarchica per mondi, gradi e

138
Cfr. De umbris, pp. 78-80.
139
Ivi, pp. 46-48.
140
P. Secchi, Elementi di teologia nel De umbris idearum di Giordano Bruno,
«Bruniana & Campanelliana», VIII, 2 (2002), p. 434.
141
Cfr. Sigillus, pp. 192-194.
106 giulio gisondi

scale della realtà costituisce un momento indispensabile ma non ultimo


della conoscenza. La distinzione è così orientata al riconoscimento
dell’«unum […] proprium subiecto unam simplicem radicem et unum
virtuale principium», dell’«una lux» che «illuminat omnia», dell’«una
vita» che «vivificat omnia», di come «essentia, potentia, actio; esse,
posse et agere; ens potens et agens est unum, ita ut omia sunt unum,
ut bene novit Parmenides unum omne et ens»142.
Dall’affermazione dell’infinità, unità e semplicità dell’essere, si può
osservare come la tripartizione del reale non assuma valore ontologico,
ma esclusivamente logico. Rispetto alle divisioni ipostatiche e scalari
dell’essere, «Bruno relativizza il concetto neoplatonico di gerarchia»143.
Se la divisione dell’essere e la scala naturae rappresentano un punto
nodale della tradizione magica ermetico-neoplatonica, egli traspone
questa ripresa in una prospettiva radicalmente diversa. Presente sin
dall’origine della sua filosofia, la tripartizione della realtà nei mondi
fisico, matematico e metafisico corrisponde nel De magia al recupero
di un problema gnoseologico, rimodulato e adattato a una specifica
riflessione sulla magia.

6. Spiritus seu anima: il presupposto formale della magia naturale

Il ricorso alla tripartizione gnoseologica dell’essere, detta anche


sapientia triceps, costituisce nel De magia uno strumento necessario a
fondare la praxis magica. Attraverso la conoscenza delle ragioni meta-
fisiche o universali, dei principi fisici o naturali, e dei tempi, il soggetto
agente potrà riconoscere l’unità dell’essere e agire sulla contrarietà del
reale tramite lacci e vincoli adeguati.
Delle tre forme di magia, la metaphysica, la physica e la mathema-
tica144, l’interesse di Bruno si concentra sulla seconda, anche detta

Ivi, p. 224.
142

L. Spruit, Magia socia naturae. Questioni teoriche nelle opere magiche di Gior-
143

dano Bruno, cit., p. 154.


144
De magia, p. 169.
dalla philosophia occulta alla physica magica 107

naturale. Egli radica questo sapere teorico e pratico sullo studio della
costitutiva antypathia e sympathia degli enti, non riconducendolo, però,
alle qualità attive o passive degli elementi, quanto piuttosto all’unico
spiritus o anima del mondo che abbraccia la totalità degli enti145. Lo
spiritus seu anima è il fondamento della magia naturale146. Esso pervade
ogni parte e ogni singolo elemento della natura: «omnia ad spiritum
seu animam in rebus existentem referuntur» e, sottolinea Bruno «haec
proprie vocatur magia naturalis»147. In quanto presente in ogni singo-
la parte di un tutto infinito, lo spiritus lega e, come osserva Cambi,
«rende possibile la partecipazione di ogni singolo elemento alla vita
del tutto»148. Nell’elenco dei vincula esposto nel De magia, l’anima del
mondo o spirito dell’universo rappresenta il vincolo che unisce ogni
cosa a tutte le altre, così che da ogni cosa si dà accesso a tutto: «vincu-
lum est anima mundi seu spiritus universi qui omnia copulat unitque
omnibus; unde ab omnibus datur aditus ad omnia»149. L’onnipervasività
dello spiritus congiunge tutti gli elementi e i corpi naturali, rendendo
possibile la loro comunicazione e l’azione del mago.
Il riconoscimento dell’unico spiritus quale presupposto di ogni
operazione magica è un tema ricorrente della tradizione ermetico-ne-
oplatonica150. Lo spiritus, forza pneumatica che permea il cosmo intero
e lo vivifica151, costituisce il fondamento dei rapporti di attrazione e

145
Ivi, p. 162.
146
Cfr. F. Tocco, Le opere inedite di Giordano Bruno, «Atti della Reale Accademia
di Scienze morali e politiche di Napoli», XXV (1892), Napoli 1891, p. 112; cfr. D.
Giovannozzi, “Spiritus mundus quidam”. Il concetto di spiritus nel pensiero di Giordano
Bruno, Roma, 2008; cfr. Ead., «spirito», in Enciclopedia Bruniana & Campanelliana,
cit., vol. I, pp. 166-178.
147
De magia, p. 162.
148
M. Cambi, Il De magia e il recupero della sapienza originaria. Scrittura e voce
nelle strategie magiche di Giordano Bruno, cit., p. 22.
149
De magia, p. 244.
150
Cfr. M. Ficini Commentarium in Convivium Platonis, testo, trad. fr. e note
P. Laurens (a cura di), Paris 2002, d. VI, cap. 15, pp. 185-190; cfr. C. Agrippa, De
occulta philosophia, cit., lib. I, cap. 1, p. 85.
151
Cfr. Corpus Hermeticum, cit., tr. VI, rr. 2-4, pp. 521-525.
108 giulio gisondi

dei legami naturali sia per Ficino152 che per Agrippa153. Se negli scritti
magici Bruno recupera la teoria dello spiritus o anima mundi dalle
fonti citate, tuttavia, questa è presente sin dal Sigillus e dal De la cau-
sa, costituendo, come segnala Papi, un «tema fondamentale di tutta
l’opera bruniana»154. Il recupero di questa teoria nella riflessione sulla
magia si configura come una sua riformulazione e un suo adattamento
al discorso ontologico già elaborato nel De la causa155. Se nel De magia
egli descrive, quasi sovrapponendoli, lo spiritus e l’anima mundi pre-
sente «tota […] in toto et tota in qualibet parte»156, ciò avviene sulla
scorta di quanto già pensato qualche anno prima a Londra, ovvero
che «quest’anima può essere tutta in tutto e in qualsivoglia parte del
tutto»157. L’esposizione della teoria dello spiritus nel De magia158 sembra
essere articolata come una traduzione di passi tratti proprio dal dialogo
II del De la causa, laddove Bruno afferma l’universalità di un’unica
anima del mondo o spirito, che dall’interno della materia pervade e
abbraccia l’infinità della natura159.

152
Cfr. M. Ficini De vita coelitus comparanda, cit., lib. III, cap. 11, p. 544.
153
Cfr. C. Agrippa, De Occulta philosophia, cit., lib. I, cap. 6, p. 96.
154
F. Papi, L’antropologia naturalistica del «De vinculis in genere» di Giordano
Bruno, «Acme. Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Statale di
Milano», XV, 3 (1962), p. 156.
155
Causa, pp. 213-226.
156
De magia, p. 182.
157
Causa, p. 167.
158
De magia, p. 182: «Sicut enim anima nostra ex toto corpore totum opus vitae
producit et universaliter, mox tamen quamvis tota est in toto et tota in qualibet parte,
non tamen ideo totum facit ex toto et totum ex qualibet parte, sed facit videre in oculo,
audire in aure, gustare in ore, quod si ubique esset oculos, undique videret, si ubique
organa essent omnium sensuum, omnino undique sentiret; ita et anima mundi in toto
mundo, ubicunque talem adepta est materiam, ibi tale producit subiectum et inde
tales edit operationes. Quamvis ergo aequaliter sit ubique, non aequaliter ubique agit,
quia non aequaliter disposita ubique illi materia administrantur». Cfr. Theses, p. 339.
159
Causa, pp. 225-226: «Dovete dunque saper brevemente che l’anima del mondo,
e la divinità, non sono tutti presenti per tutto e per ogni parte, in modo con cui
qualche cosa materiale possa esservi: perché questo è impossibile a qualsivogla corpo
e qualsivoglia spirto; ma con un modo il quale è facile ad esplicarvelo altrimente se
non con questo. Dovete avvertire, che se l’anima del mondo e forma universale se
dalla philosophia occulta alla physica magica 109

Dal confronto tra i due passi, è possibile osservare come il suo ricorso
alla teoria dell’animazione universale nel De magia non sia legato al
solo recupero delle fonti raccolte nel De magia mathematica. Al con-
trario, la ripresa della nozione di anima del mondo, formulata in una
prospettiva ontologica, manifesta la continuità insita in un progetto di
renovatio filosofica. Quest’operazione risponde, cioè, all’esigenza d’in-
nestare una specifica riflessione sulla magia nel solco di una concezione
della vita, di Dio, dell’universo, della natura, e con esse, dell’essere
umano, maturata ed elaborata sin dagli inizi della nolana filosofia.
Nel De magia è in atto una ripresa del concetto di anima del mondo,
forma dell’universo, forza generatrice o «artefice interno che forma la
materia e la figura da dentro»160, come già definita nel De la causa161.
Come nel dialogo londinese, così anche negli scritti magici, la presenza
dell’anima non è limitata all’umanità, ma si estende universalmente a
tutti gli elementi e i corpi naturali. Le forme o anime individuali sono
riflessi di quest’unità spirituale, di questa luce che irradia la sua azione
su ogni essere e in ogni direzione162. Bruno afferma tutto «il mondo
con gli suoi membri essere animato»163, non limitando la presenza
dell’anima a «le parti principali»164 o a «quelle che son vere parti del
mondo»165, ma intendendola come la causa vitale riflessa nei singoli
composti e in ogni minima particella presente in natura. Il principio
dell’animazione si estende anche nel De magia a tutti gli elementi e

dicono essere per tutto, non s’intende corporalmente e dimensionalmente, per che
tali non sono, e cossì non possono essere in parte alcuna: ma sono tutti per tutto
spiritualmente; come per esempio (anco rozzo) potreste imaginarvi una voce, la quale
è tutta in tutta una stanza et in ogni parte d quella: per che da per tutto se intenda
tutta; come queste paroli ch’io dico sono intese tutte da tutti, anco se fussero mille
presenti, e la mia voce si potesse giongere a tutto il mondo, sarebe tutta per tutto».
Cfr. De immenso, p. 283.
160
Causa, p. 211.
161
Ivi, p. 224.
162
Cfr. F. Tocco, Le opere inedite di Giordano Bruno, cit., p. 72; cfr. G. Gentile,
Giordano Bruno e il pensiero del Rinascimento, Firenze 1991, p. 219.
163
Causa, p. 215.
164
Ivi, p. 216.
165
Ibidem.
110 giulio gisondi

corpi naturali, siano essi viventi o inerti, riformulando implicitamente


le stesse argomentazioni espresse nel De la causa, ora coniugate in una
riflessione sulla magia che non può prescindere dalla prospettiva onto-
logica lì tracciata. Allo stesso modo, egli recupera qui gli argomenti e le
questioni elaborate o solo accennate nei dialoghi italiani, condensandoli
in una considerazione unitaria dello spiritus che anima l’intero universo.
Prova dell’unico spiritus o anima, pervadente l’infinità dell’universo,
è data dall’«appetitum conservandi»166, l’istinto all’autoconservazione
insito in tutti i corpi e le particelle naturali. Riprendendo nel De magia
esempi già formulati nel De l’ infinito167 e nella Cena168, egli rintraccia
la presenza dell’appetitum anche negli elementi inerti o apparentemente
inanimati, come le gocce d’acqua che cadano al suolo o le pagliuzze
gettate sul fuoco, le quali tendono a stringersi tra loro per non disgre-
garsi, proprio per effetto dell’unico principio vitale che agisce sotto
forma d’incessante desiderio di vita. Un unico spirito, un unico senso,
un’unica facoltà «anco intellettiva»169 è presente in ogni composto, in
ogni vivente sia esso mobile o inerte. In questa prospettiva, le percezioni
e le passioni che affettano ogni composto, seppur infinitamente piccolo,
producono effetti sulla totalità della natura170.
Lo spiritus o anima mundi costituisce il vincolo indissolubile che lega
e unisce tutti gli enti, stringendoli in una fitta rete di rapporti. In virtù
di questa reciproca attrazione tra ogni corpo, elemento e particella natu-
rale, il riconoscimento dell’animazione universale rappresenta una delle
possibili vie attraverso le quali risalire dalla molteplicità e contrarietà del
reale all’unità dell’essere, per poi nuovamente discendere lungo la scala
e agire in essa. L’anima del mondo radicata in tutte le cose è la causa
formale che pervade la totalità della natura: nel suo vincolo inscindibile
con il principio materiale, essa rappresenta l’Uno a cui tutto fa ritorno.
Riconoscere l’unità dell’essere a cui tutte le manifestazioni particolari

166
De magia, p. 180.
167
Infinito, p. 422.
168
Cena, pp. 80-82, pp. 112-113.
169
Ivi, p. 81.
170
De magia, p. 182.
dalla philosophia occulta alla physica magica 111

sono ricondotte equivale per il sapiente a poter operare magicamente:


è questo il fondamento teorico dell’azione magica, intesa come la ca-
pacità di suscitare e assecondare legami naturali o prodotti ad arte sul
modello della natura. L’esigenza bruniana di ridefinire lo spiritum seu
animam nel De magia corrisponde al tentativo di ripensare i principi e
i fondamenti dell’operare magico: questi non sono rintracciabili nelle
proprietà occulte celate negli elementi, quanto piuttosto nella capacità
di chi opera di comprendere l’unicità dell’anima universale, così da
entrare in comunicazione con la totalità degli enti. Il riconoscimento
dell’unico spiritus è necessario a chi voglia agire sui propri simili legando
con vincoli adeguati ed efficaci171.

7. La fisica del De magia: il problema del vacuum, dell’aether e del


motus continuus

Mossi e vivificati da un’unica anima universale, tutti gli elementi e


i corpi naturali esercitano tra loro antipatie e simpatie, si attirano come
magneti o si respingono come l’acqua e l’olio. Nel paragrafo De respectu
ad communionem seu consortium rerum del De magia, egli espone come
l’anima o forma, regga, governi e trasformi la materia, determinando le
modificazioni e i legami possibili tra la molteplicità dei corpi172. Chi sarà
in grado di riconoscere la «continuationem indissolubilem»173 che vin-
cola l’anima non solo ai corpi particolari, ma al grande corpo universale
che è la materia, comprenderà quel «non mediocre principium, tum ad
operandum, tum ad contemplandum verius circa rerum naturam»174. Il
riconoscimento di questa continuità costituisce il fondamento della sa-
pientia triceps che permette di comprendere la natura e di agire su di essa.
In questo paragrafo Bruno afferma l’indissolubilità del legame
che stringe la forma o anima mundi alla materia. Proprio in virtù di

171
Ivi, pp. 242-244.
172
De magia, p. 198.
173
Ibidem.
174
Ibidem.
112 giulio gisondi

questo legame, non vi è nell’universo alcuno spazio che non sia cor-
po: «non datur vacuum, nempe spacium sine corpore; neque etenim
corpus unum ab uno loco recedit, nisi succedente altero»175. L’anima
non può abbandonare l’«universum vero corpus»176, né quest’ultimo
può sciogliersi dal legame con essa. L’anima mundi e la materia sono
coessenziali: all’atto della decomposizione corporea anche l’anima
abbandona il composto, per formarne e animarne un altro, come la
materia universale, alla dissoluzione di una forma finita, assume nuova
forma per continuare a vivere eternamente. Questa considerazione è
resa possibile dall’osservazione dei fenomeni naturali dalla prospettiva
dell’Uno: nell’infinito, in cui ogni contrarietà è ricondotta alla sua
unità originaria, vi è assoluta identità di materia e forma. Tutto lo
spazio è materia, allo stesso modo in cui tutta la materia è forma o
anima, la quale «indissolubilem habet nexum ad universalem mate-
riam, quapropter cum ipsius natura sit ubique tota et continua, ubique
materiam corpoream consistem agnoscit»177. Il vuoto non sussiste
nel senso di uno spazio senza corpo, ma esclusivamente come uno
spazio, anch’esso materiale, in cui si muovono e si alternano i corpi:
«vacuum esse utpote spacium in quo diversa corpora sibi succedant
et moveantur»178.
Nell’affermazione della non sussistenza del vuoto, agisce implicita-
mente la decostruzione della fisica aristotelica già svolta da Bruno nei
dialoghi italiani e nei poemi francofortesi. Molteplici sono i passaggi
di queste opere in cui egli si sofferma sul problema del vuoto ricusando
la fisica di Aristotele e recuperando le filosofie e le fisiche che erano
state criticate e rigettate dallo Stagirita. Nel De l’ infinito, dopo aver
passato in rassegna le differenti tradizioni filosofiche non aristoteliche
e aver distinto mondo e universo, egli sostiene che il vacuo è uno spazio
materiale in cui si avvicendano i corpi, i mondi o pianeti179.

Ibidem.
175

Ibidem.
176

177
Ibidem.
178
Ivi, p. 200.
179
Infinito, pp. 347-348: «Noi non diciamo vacuo alcuno, come quello che sia
semplicemente nulla; ma secondo quella raggione con la quale ciò che non è corpo
dalla philosophia occulta alla physica magica 113

Nel ricorso al tema del vacuum nel De magia, Bruno riprende le


argomentazioni esposte nel De l’infinito in favore dell’affermazione dell’u-
niverso infinito e della non sussistenza del vuoto, attraverso il ricorso alla
dottrina atomista. Nel tentativo di affermare una materia unica, infinita
e indivisibile, egli ricorre all’atomismo democriteo ed epicureo, riletto
attraverso Lucrezio. Tuttavia, come osservano Barbara Amato180 e Mar-
co Matteoli181, se la materia è composta di atomi sferici e di numero
infinito, non si tratta di una semplice ripresa dell’atomismo classico,
ma di una sua profonda riformulazione. Se per i fisici greci, gli atomi
hanno parti, estensione, dimensioni e qualità particolari, così come
delle relazioni qualitativamente casuali, per Bruno gli atomi, come
tutti i minimi non possiedono estensione, dimensione182, parti183, né
qualità. Dal ripensamento dello spazio come composto di un’unica
materia incorporea fatta di atomi indivisibili, deriva il rifiuto dell’idea
del vuoto. La ragione di questa ripresa nel De magia è ancora una volta
rintracciabile nel tentativo d’innestare una specifica riflessione sulla ma-
gia in una considerazione infinita dell’essere, della vita e dell’universo.
Allo stesso tempo, il recupero del lessico fisico e atomistico impiegato
nel dialogo londinese, manifesta l’esigenza di ricollocare l’analisi della
magia in una prospettiva fisica non più legata all’ambito dell’occulto
e del sovrannaturale.

che resista sensibilmente, tutto suole esser chiamato (se ha dimensione) vacuo […].
In questo modo diciamo esser un infinito, ciò è una eterea regione immensa, nella
quale sono innumerabili et infiniti corpi come la terra, la luna et il sole; li quali da
noi son chiamati mondi composti di pieno e di vacuo: perché questo spirito, questa
aria, questo etere non solamente è circa questi corpi, ma ancora penetra dentro tutti,
e viene insito in ogni cosa».
180
Cfr. B. Amato, «atomo», «Bruniana & Campanelliana», XVIII, 2 (2012), pp.
579-580; Ead., «materia», in Enciclopedia Bruniana & Campanelliana, Giornate di
Studio 2005-2008, E. Canone e G. Ernst (a cura di), Roma 2010, vol. II, pp. 58-64.
181
Cfr. M. Matteoli, atomo, in Giordano Bruno. Parole concetti immagini, M.
Ciliberto (direzione scientifica), Pisa 2014, vol. I, pp. 1922-193; cfr. Id., materia, mi-
nimo e misura: la genesi dell’atomismo geometrico in Giordano Bruno, «Rinascimento»,
L (2000), pp. 1-25.
182
Cfr. De minimo, pp. 141-142.
183
Ivi, p. 285.
114 giulio gisondi

Dopo l’analisi del vacuum, Bruno introduce altri due problemi di ca-
rattere fisico, già oggetto dei dialoghi cosmologici: l’etere e il moto. Dalla
non sussistenza del vuoto egli fa derivare un moto continuo delle parti
di un corpo verso quelle di un altro corpo. Questo movimento avviene
in un «continuum spacium»184 in cui il vacuum è mediazione tra pieno
e pieno, quello spazio «in quo nullum corpus est sensibile»185. L’unico
corpo totalmente «continuum»186 è il cosiddetto «corpus insensibile»187,
lo «spiritus nempe aëreus seu aethereus»188 che, unito all’anima in virtù
della somiglianza per cui si allontana gradualmente dalla «substantiae
sensibilis compositorum»189, permea l’infinità dell’universo. L’espressio-
ne «spiritus aëreus seu aethereus» rimanda, ancora una volta, al lessico
fisico già impiegato in precedenza: basti solo ricordare la definizione
dell’aether che compare nel De immenso per osservare i rimandi e le
riprese tra un’opera e l’altra: «aether vero idem est quod coelum, inane,
spacium absolutum, qui insitus est corporibus, et qui omnia corpora
circumplectitur infinitus»190. Definizione questa che ricalca il lessico
e gli argomenti già esposti nel De l’ infinito, laddove, come poi nel De
immenso e nel De magia, Bruno descrive lo spazio come una eterea
regione […] immensa, nella qual si muove, vive e vegeta il tutto: questo
è l’etere che contiene e penetra ogni cosa». Questo spazio se «si trova
dentro la composizione (in quanto dico si fa parte del composto), è
comunemente nomato “aria” […]», ma se «è puro e non si fa parte di
composto, ma luogo e continente per cui quello si muove e discorre,
si noma propriamente “etere”»191.
Anche nel De magia l’etere è definito come una materia spirituale
sottilissima che assicura la coesione di ogni cosa presente in natura
e nell’universo. Nel suo essere spazio infinito che contiene i corpi,

184
De magia, p. 200.
185
Ibidem.
186
Ibidem.
187
Ibidem.
188
Ibidem.
189
Ibidem.
190
De immenso, p. 78
191
Infinito, p. 448.
dalla philosophia occulta alla physica magica 115

questa materia è spiritus. Nel suo penetrare i corpi, invece, mescolan-


dosi all’aria, al fuoco e all’acqua, questa sostanza eterea e spirituale si
addensa192. Rifacendosi esplicitamente all’opinione di Lucrezio, Bruno
osserva qui come «hoc corpus spirituale est quod omnia operatur in ipsis
sensibilibus»193, ragione per cui questa materia spirituale non differisce
dall’anima secondo l’opinione di molti filosofi194. Lo spiritus, sostanza
eterea, dà forma ai corpi infiniti, combinando disposizioni materiali
sempre differenti. Egli ribadisce nuovamente come, nelle molteplici
e varie singolarità dei composti, vi sia un’unica e permanente anima
universale. Ogni cosa è animata, seppur secondo le differenze legate
alle diverse disposizioni della materia: «omnia […] animata intelligere
oportet, nempe in omnibus unius generis animam»195. È in virtù di
queste differenze materiali che le forme finite e particolari, pur animate
e vivificate da un’unica anima mundi, si determinano come diverse e
contrarie le une dalle altre. Questo fenomeno fa sì che «alcune cose si
accordino con altre»196, mentre altre, in virtù dei lori impulsi e impeti
saranno portate a fuggire quanto è loro contrario. La ragione di queste
differenze dipende dal modo d’essere della composizione materiale di
ciascun elemento naturale.
Nonostante l’istinto all’autoconservazione sia presente in tutti i
corpi e negli elementi, essi tendono a esser strappati dal luogo della loro
conservazione e consistenza197. Così, ad esempio, l’acqua è trascinata e
avvinta dal fuoco, portata a trasformarsi prima in aria, poi in vapore,
fino ad abbandonare qualunque resistenza identificandosi totalmente
con l’elemento da cui è attratta. Allo stesso modo, secondo il processo
inverso, un elemento sottilissimo e più prossimo allo spiritus come il
fuoco è portato ad addensarsi fino alla specie dell’acqua. Diverso è,
invece, il caso degli atomi, corpi indissolubili, indivisibili, discontinui
e non tramutabili in un altro elemento: seppur assimilabili e combi-

192
Cfr. De magia, pp. 200-202.
193
Ivi, p. 200.
194
Ibidem.
195
Ivi, p. 202.
196
Ivi, p. 203.
197
Ivi, p. 202.
116 giulio gisondi

nabili tra loro, questi non possono trasformarsi negli altri elementi e
non subiscono alcuna mutazione.
L’operazione condotta da Bruno in queste pagine del De magia
costituisce il tentativo di sviluppare una riflessione fisica su questioni
tradizionalmente considerate di carattere occulto. Quest’operazione
manifesta, in altre parole, l’esigenza di rintracciare e applicare un me-
todo d’indagine e un lessico proprio alla fisica e alla filosofia naturale
nell’esplicazione di fenomeni a cui pur le stesse fonti bruniane avevano
sempre attribuito delle spiegazioni occulte. Si tratta di un passaggio
cruciale, non solo nel contesto teorico del De magia, ma anche nell’im-
postazione dei successivi scritti magici. Ciò equivale alla naturalizza-
zione di una riflessione sulla magia, gradualmente spogliata delle sue
apparenze occulte, per essere ricondotta nel solco di una fisica e di
una filosofia naturale che mai pienamente si accordano con il contesto
ontologico e cosmologico proprio alla letteratura magica. Se osservati
in quest’orizzonte teorico non appaiono casuali i rimandi presenti nel
De magia a un lessico, a questioni e problemi fisici già ampiamente
analizzati ed elaborati nei dialoghi italiani e nei poemi francofortesi.
Queste riprese si configurano, da un lato, come il tentativo di ripensare
la magia in una visione infinita dell’essere, della vita e dell’universo;
dall’altro, di osservare e tradurre in un linguaggio fisico rinnovato, lo
studio della magia e con essa della natura.

8. Motus naturalis e praeternaturalis: per una fisica dei vincula e


delle attractiones

La trasposizione della riflessione sulla magia naturale nel solco della


fisica elaborata nei dialoghi italiani è ancor più evidente nell’analisi
del moto condotta da Bruno nel De magia. Si tratta di una questione
centrale nella Cena e nel De l’ infinito, ma che ora si configura come
strumento per la spiegazione dei moti di attrazione naturali tra i cor-
pi, gli elementi e gli atomi. Il ricorso a una teoria fisica del moto è
funzionale alla comprensione e al chiarimento del problema magico
dell’attrazione e del vincire. L’approccio bruniano si pone nei termini di
dalla philosophia occulta alla physica magica 117

una traduzione del problema, dal linguaggio e dalla prospettiva magica


e occulta delle sue fonti, al linguaggio e alla prospettiva propria alla
sua filosofia naturale, o meglio, a quella che è possibile definire una
fisica del vinculum.
Nel paragrafo dedicato al De motu rerum duplici et attractione del
De magia, il Nolano afferma che il moto di tutte le cose può essere
«naturalis»198, che avviene per un principio intrinseco e conveniente alla
natura della cosa, oppure «praeternaturalis»199, che avviene o in modo
violento e non conveniente, o ordinato, vale a dire che non ripugna
alla natura della cosa 200. Soffermandosi sul moto naturale, egli sostiene
che non vi è in questo differenza tra moto e mutamento. Nella prima
forma di movimento naturalis, distingue tra un moto circolare delle
«rerum naturaliter constitutarum»201 e un moto retto di quelle cose
naturali «non naturaliter constitutarum»202. In linea retta «contrarium
fugit a contrario»203, come l’acqua fugge il fuoco sotto forma di fumo
e vapore; sempre in linea retta «simile tendit ad simile et conveniens
sibi»204, come la paglia si muove verso l’ambra o il ferro verso il magne-
te, «ut melius et satius con/quiescant vel commoveantur»205. Il moto
rettilineo è la forma di movimento corrispondente ai corpi naturali
non naturalmente costituiti: in linea retta, si allontanano da ciò che
condiziona, trasforma e muta la loro esistenza, dal loro contrario, o
si congiungono, si stringono, sono attratti e vincolati da ciò che è
loro simile, conveniente e apporta «quiete comune oppure comune
movimento»206. Pur se indotti all’autoconservazione dall’unico spiritus
o anima mundi, questi corpi non sono mossi da un agente esterno, ma

198
Ivi, p. 206.
199
Ibidem.
200
Ibidem.
201
Ibidem.
202
Ibidem.
203
Ibidem.
204
Ibidem.
205
Ibidem.
206
Ivi, p. 207.
118 giulio gisondi

si muovono associandosi al simile e rifuggendo il contrario secondo


un principio naturale di movimento intrinseco.
Bruno individua anche una terza specie di moto, detto «sphericus»207,
che avviene per l’influsso e l’efflusso delle particelle o atomi di un corpo
verso un altro. Questo moto sferico non si verifica soltanto da un centro
verso un altro, seguendo una sola linea retta, oppure attorno a un centro,
ma attraverso infinite linee e direzioni «velut ad eodem centrum»208.
Tutti i corpi emanano ed emettono parti dalla loro superficie o dal
perimetro e, allo stesso tempo, ricevono e immettono in sé particelle
provenienti da altri corpi. Questo movimento si configura come una
relazione di attrazione permanente tra tutti i corpi naturali, un processo
in cui essi crescono e si rafforzano «quando convenientiorum influxus
superat effluxum»209, e si indeboliscono, invece, «quando extraneorum
influxus et naturalium effluxus fit maior»210. Questo moto sferico di
attrazione e repulsione determina la formazione, la crescita, la corru-
zione, l’alterazione e la dissoluzione di tutti i corpi naturali, dai più
semplici ai composti.
A conclusione del paragrafo, Bruno sottolinea che il moto sferico
delle particelle non attiene esclusivamente alle «sensibiles qualitates seu
virtutes»211, ma anche alle virtù e qualità più spirituali e meno sensibili
che emanano e si trasmettono da un corpo all’altro. Esse agiscono non
solo sul corpo e sul senso, ma anche sullo spirito che pervade ogni
composto, fino a raggiungere le «profundiores animae facultas […],
incutiendo certos affectus et passiones»212. Questo processo è particolar-
mente evidente «in fascinationibus»213, nei vincula che avvengono «per
oculi iactus»214, sia in senso attivo, sia passivo. Anche queste passioni e
affetti che impressionano e vincolano l’anima, prim’ancora che il corpo,

207
Ivi, p. 208.
208
Ibidem.
209
Ibidem.
210
Ibidem.
211
Ivi, p. 210.
212
Ibidem.
213
Ibidem.
214
Ibidem.
dalla philosophia occulta alla physica magica 119

rientrano, nel De magia, in una considerazione fisica delle attrazioni,


anticipando la prospettiva che guida la riflessione del De vinculis.
Nella distinzione dei moti naturalis – circolare, rettilineo e sferico –
e praeternaturalis o extranaturale, riecheggiano implicitamente alcune
delle tesi fisiche già esposte nella Cena e nel De l’ infinito. Molteplici
sono i passaggi dei due dialoghi londinesi che ripercorrono le pagine
del De magia, in cui Bruno espone il rapporto tra il movimento dei
corpi naturali e il loro incessante impulso alla vita e all’autoconserva-
zione. Nella Cena, ragionando sul moto dei pianeti intorno al sole egli
osserva che la causa non è da ricercare in un moto «violento»215 e «fuor
de la natura del mobile»216, poiché in questo caso il motore sarebbe
«imperfetto […] et altri molti inconvenienti s’aggiongerebbeno»217. Al
contrario, tutti i corpi naturali, siano essi semplici o composti, «con
una ordinata e natural volontà, da intrinseco principio se muoveno alle
cose e per gli spacii convenienti ad essi»218. Nel tentativo di decostru-
zione della fisica e della cosmologia aristotelica, egli nota come ogni
elemento e corpo naturale «si muove al suo principio vitale, come al
sole et altri astri; la calamita se muove al ferro, la paglia all’ambra, e
finalmente ogni cosa va a trovar il simile, e fugge il contrario»219. Questo
moto è comune a ogni cosa, dagli atomi agli elementi, dai corpi sem-
plici ai composti, «tutto avviene dal sufficiente principio interiore per
il quale naturalmente viene ad esagitarse, e non da principio esteriore
come veggiamo sempre accadere a quelle cose che son mosse o contra
o extra la propria natura»220.
Quest’argomentazione costituisce una prima formulazione in termi-
ni fisici della relazione che sussiste tra il vinciens e il vincibile: il vincolo
più forte e più potente risiede in quel principio o fonte di vita maggior-
mente conveniente a ogni elemento e corpo naturale. Come i pianeti
ruotano intorno al sole, da questo attratti e fascinati in quanto loro

215
Cena, p. 80.
216
Ibidem.
217
Ibidem.
218
Ibidem.
219
Cena, p. 80.
220
Ibidem.
120 giulio gisondi

sorgente di vita, ognuno secondo un certo grado e una certa distanza,


così ogni corpo ricerca il simile e rifugge il contrario, nel tentativo di
conservare la propria forma attuale e la propria esistenza 221.
Nel De l’infinito Bruno approfondisce questi stessi argomenti esposti
nella Cena. Egli descrive l’aggregazione, la crescita, la trasformazione e
la disgregazione, come fenomeni comuni e omogenei a tutto l’univer-
so, che si producono in tutti gli elementi e i corpi, a partire da quelli
apparentemente inanimati fino alle piante, dagli animali più piccoli
ai grandi animali che sono i mondi o pianeti222.
Le particulae o atomi, di cui ogni cosa è composta sono soggette
a rapporti d’attrazione reciproci che provocano le alterazioni. Questa
dinamica di aggregazione e disgregazione attraverso il movimento
degli atomi è ciò che permette alla natura di dispiegare, nello spazio e
nel tempo, tutto ciò che essa può essere, garantendo il rinnovamento
permanente della vita secondo la vicissitudine universale.
Anche nel De l’ infinito i fenomeni di attrazione che si verificano
nell’universo sono ricondotti a un principio di movimento che è interno
ai corpi e mai esterno. La philautia, l’amore di sé, l’autoconservazio-
ne, è la ragione per la quale ogni cosa si muove e si trasforma, sia per
permanere o conservarsi quanto più a lungo possibile nella sua forma
attuale, sia per fuggire ciò che le è contrario e nocivo, sia per avvicinarsi
a quanto le è simile e benefico. Tutti i corpi naturali, dall’infinitamente
grande all’infinitamente piccolo, si muovono o verso o attorno al loro
vincolo naturale, vale a dire a quell’elemento, corpo o astro che permette

221
Ivi, pp. 81-82: «Ne gli animali quali noi conoscemo per animali, le loro parti
sono in continua alterazione e moto, et hanno un certo flusso e reflusso, dentro
accogliendo sempre qualche cosa dell’estrinseco, et mandando fuori sempre qual-
che cosa da l’intrinseco: onde s’allungano l’unghie; se nutriscono i peli, le lane et i
capelli; se rinsaldano le pelle, s’induriscono i cuoii: cossì la terra riceve l’efflusso et
influsso delle parti, per quali molti animali (a noi manifesti per tali) ne fan vedere
espressamente la lor vita».
222
Infinito, pp. 359-360: «Non stimo che sia cosa assorda et inconveniente, anzi
convenientissima e naturale, che sieno transmutazioni finite possibili ad accadere ad un
soggetto; e però de particole de la terra vagar l’eterea regione et occorrere per l’inmenso
spacio ora ad un corpo ora ad un altro. Non men veggiamo le medesime particole
cangiarsi di luogo, di disposizione e di forma, essendono ancora appresso di noi».
dalla philosophia occulta alla physica magica 121

il loro accrescimento e la loro conservazione, nell’incessante tentativo


di rifuggire il contrario e la dissoluzione. E anche qui, come nella Cena
prima e nel De magia poi, le attrazioni e le alterazioni di tutti i corpi
naturali dipendono dall’efflusso e dall’influsso degli atomi, secondo
quelle stesse tre tipologie di moto rettilineo, circolare e sferico223.
L’esigenza di Bruno in queste pagine della Cena, del De l’ infinito
e del De magia, in merito al problema dei moti e alle attrazioni tra
gli atomi, gli elementi e i corpi, è la stessa: osservare, comprendere e
spiegare i fenomeni fisici e naturali attraverso un linguaggio che non
faccia ricorso al dogma, al miracolo o all’occulto nello studio e nella
comprensione della realtà fisica. Ciò può avvenire soltanto a partire
dal riconoscimento di un universo infinito e omogeneo, composto di
un’unica materia e da una forma universale, l’anima mundi, insita nella
materia e da questa inscindibile. È questa, in altre parole, l’esigenza di
rintracciare nell’infinitamente piccolo e nell’infinitamente grande gli
stessi principi d’omogeneità e di uniformità. L’omogeneità formale e
materiale dell’universo porta, altresì, con sé, la considerazione dell’uni-
formità dei moti, delle trasmutazioni e delle attrazioni. L’unicità della
forma e della materia, causa e principio generatore della natura, non è
soltanto la ragione dell’omogeneità fisica dell’universo, ma anche dei
corpi, i quali, ognuno secondo la propria disposizione individuale, se-
guono gli stessi moti e lo stesso ritmo della vita universale, muovendosi
tutti per la loro conservazione.

223
Ivi, p. 360: «Circa il sperma, giongendosi atomi ad atomi per la virtù dell’intel-
letto generale et anima (mediante la fabrica in cui come materia concorreno), se viene
a formare e crescere il corpo : quando l’influsso de gli atomi è maggior che l’efflusso ;
e poi il medesimo corpo è in certa consistenza quando l’efflusso è equale a l’influsso
; et al fine va in declinazione, essendo l’efflusso maggior che l’influsso (non dico
l’efflusso et influsso assolutamente, ma l’efflusso del conveniente e natio, e l’influsso
del peregrino e sconveniente ; il quale non può esser vinto dal debilitato principio per
l’efflusso, il quale è pur continuo del vitale come del non vitale). Per venir dumque al
punto, dico che per cotal vicissitudine non è inconveniente, ma raggionevolissimo
dire che le parti et atomi abbiano corso e moto infinito per le infinite vicissitudini e
transmutazioni, tanto di forme quanto di luoghi».
122 giulio gisondi

La fisica del vinculum è, dunque, un principio d’uniformità rico-


noscibile nell’universo: ogni elemento e corpo, dal più semplice al più
complesso, si muove, a partire dalla struttura atomica, verso ciò che lo
accresce e lo conserva, rifuggendo ciò che lo indebolisce e lo distrugge.
Questo principio è già chiaro sin dalla Cena e dal De l’ infinito, e costi-
tuisce la prospettiva fisica in cui Bruno riprende, riformula e colloca,
nel De magia, il tema del vincire, ovvero la questione del legame e
della relazione, intese come la permanente attrazione tra gli atomi, gli
elementi e i corpi naturali.

9. Dalle qualità occulte alla physica magica

Nel paragrafo del De magia immediatamente successivo all’analisi


delle diverse forme di moto, intitolato Quomodo magnes trahat ferrum,
corallium, sanguinem etc, Bruno si sofferma sui moti di attrazione tra
alcuni particolari elementi naturali. Egli osserva, innanzitutto, come
l’attrazione sia duplice: una avviene per «consensu»224, attraverso il
moto sferico delle parti verso ciò che è a loro simile, «ut quando partes
moventur ad suum totum, locata ad suum locum, similia rapiuntur a
similibus, et convenientia a convenientibus»225; una seconda, invece,
«sine consensu»226, ossia per la forza esercitata su di un corpo da un
elemento a esso contrario e al quale non può sfuggire, «ut quando
contrarium trahitur a contrario propter victoriam illius, quod non
potest effugere»227.
Nella dimostrazione di questi fenomeni, egli recupera gli stessi esem-
pi già utilizzati nella Cena e nel De l’ infinito, ovvero le attrazioni tra il
ferro e il magnete e tra l’ambra e la paglia. Queste attrazioni avvengono
«ad effluxionem partium ab universis corporibus seu atomorum»228.

224
De magia, p. 210.
225
Ibidem.
226
Ibidem.
227
Ibidem.
228
Ivi, p. 212.
dalla philosophia occulta alla physica magica 123

Quando gli atomi di un determinato genere si approssimano ad atomi


di specie simile o affine, questi accendono un «appetitus et appulsus»229
di un corpo verso l’altro, attraendolo. È questo il caso degli atomi
del ferro attratti da quelli del magnete e di quelli della paglia attratti
dall’ambra. Questa forma d’attrazione deriva dall’efflusso degli atomi
da un corpo all’altro: se strofinati, infatti, sia il magnete che l’ambra
attraggono e vincolano con maggior forza il ferro e la paglia, poiché il
calore generato dallo strofinio provoca un maggior efflusso di atomi,
una dilatazione dei pori e, di conseguenza, una più alta potenza attrat-
tiva 230. Nell’illustrare questi esempi, Bruno osserva come la capacità
e l’efficacia attrattiva del magnete e di altri simili elementi non siano
riconducibili alla distinzione tra le qualità attive o passive di alcuni
corpi, «secundum vulgatum genus actionis vel passionis»231, quanto
all’efflusso e all’influsso degli atomi da un corpo all’altro232.
L’attività e la passività non sono qualità o caratteristiche elementari,
assolute e permanenti dei corpi, ma relative e instabili. Ogni corpo può
essere attivo in un dato momento rispetto a un altro simile o contrario,
e, al tempo stesso, passivo in un secondo momento della relazione con
lo stesso o con un altro corpo. Non a caso, osserva Bruno, una volta
attratti dal magnete e dall’ambra, sia il ferro che la paglia esercitano
la stessa forza magnetica e attrattiva dei corpi da cui sono stati attratti
e a cui si sono legati, vale a dire, divengono essi stessi attivi e non più
soltanto passivi. Fenomeno, questo, che non si verificherebbe, se dipen-
desse esclusivamente da una qualità attiva o passiva elementare233. La
relatività dell’attività e passività degli elementi e dei corpi, come della
materia e della forma, costituisce un punto nodale della riflessione di
Bruno sulla magia e della sua riforma. La causa di queste attrazioni
non è più da ricercare esclusivamente nelle qualità e proprietà attive e
passive, ma nei movimenti di efflusso e d’influsso degli atomi, sostanze

229
Ibidem.
230
Ivi, p. 214.
231
Ivi, pp. 214-216.
232
Ibidem.
233
Ivi, pp. 214-216.
124 giulio gisondi

spirituali, che dal magnete pervadono il ferro, vincolandolo: «oportet


igitur ad effluxum partium hoc referre, quae a magnete effluentes in
ferrum influxere, spiritualis substantia»234.
È da Origine, probabilmente, che egli recupera la spiegazione in
termini fisici e non occulti di queste particolari forme d’attrazione.
Nell’esame della fides come indispensabile all’azione prodigiosa di Cri-
sto, Origene affermava che «forsitam quemadmodum in corporibus
inest quibusdam ad quaedam naturalis attractio, quemadmodum lapidi
magnesio ad ferrum, et ei quod naphta appellatur ad ignem»235, facendo
rientrare questi fenomeni nella dimensione fisica all’interno della quale
sono assorbiti anche i prodigi compiuti da Gesù. Bruno recupera questo
stesso modello teorico: anche eventi di tipo apparentemente sovranna-
turale come i miracoli o le forme di attrazione occulte, rientrano tra le
attrazioni naturali e sono riconducibili a cause naturali.
La scelta d’inserire nel De magia la trattazione, già svolta nei dia-
loghi e nei poemi, del problema fisico del vuoto, dei moti, del ma-
gnetismo e di forme apparentemente occulte di attrazione, è coerente
con la necessità di proporre un de-occultamento della natura e della
magia. Si tratta di mettere da parte un linguaggio che faccia ricorso
alle qualità attive o passive degli elementi, all’eccezione, al prodigio, al
miracolo e all’occulto, sia nella spiegazione dei fenomeni naturali, sia
delle pratiche magiche. In questo processo di riforma del linguaggio
della magia naturale, le spiegazioni di quanti hanno definito i moti di
attrazione in termini occulti, come fenomeni che oltrepassano l’ordine
e la dimensione fisica non sono che «chymeras et somnia»236.
La ripresa degli argomenti esposti nella Cena, nel De l’ infinito e nel
De immenso, rappresenta, dunque, la scelta di elaborare una riflessione
sulla magia che sia intesa come una physica magica o una fisica del
vinculum, vale a dire di quel principio d’attrazione comune agli atomi,
agli elementi e a tutti i corpi, sin dalla loro struttura materico-formale.
Allo stesso tempo, è possibile leggere il De magia come l’esigenza di

234
Ivi, p. 216.
235
Origenes Commentaria in Evangelium secundum Mattheum, cit., p. 883.
236
De magia, p. 216.
dalla philosophia occulta alla physica magica 125

calare la magia naturalis non più in un cosmo chiuso, gerarchico, ge-


ocentrico e geometricamente perfetto, in cui era stata sempre pensata,
ma nell’universo infinito e acentrico in cui ogni cosa è unita all’altra
da un permanente vincolo d’amore. Questo primo e originario vincolo
universale è la natura stessa, incessante processo vitale che lega tra loro
gli atomi, gli elementi e i corpi in un unico e immenso organismo in
continua trasmutazione. Nella natura, legame universale e unità del
molteplice, è già racchiusa tutta la dottrina della magia: «iam ad mul-
tiplex spiritum vinculum referendum convertamur, ubi omnis magiae
doctrina continebitur»237. La natura è il modello da conoscere e inter-
pretare per agire istituendo attrazioni, relazioni, legami e vincoli nella
dimensione civile. Magia è la sapientia, l’arte e la tecnica attraverso
la quale agire a somiglianza della natura, non operando prodigi sugli
elementi, ma su realtà simili e proporzionate, ovvero sugli esseri umani.

10. Tra fisica e magia: la nozione di vinculum nel problema della


dissolubilità o indissolubilità dei mondi

L’analisi dei temi affrontati nel De magia consente di osservare come


Bruno sviluppi il problema delle attrazioni e del vincire attraverso due
prospettive complementari, una fisica e cosmologica, una ontologica e
teologica. Il vinculum, nel senso della relazione che lega la molteplicità
degli elementi e dei corpi naturali alla causa e principio primo, il lega-
me tra Dio e l’universo, costituisce un nodo problematico originario
della nolana filosofia. Ciò risulta particolarmente chiaro nella ripresa
bruniana del problema platonico della dissolubilità o indissolubilità
dei mondi, attraverso la quale è possibile osservare la rilevanza che la
nozione di vinculum occupa nella sua riflessione filosofico-naturalistica
prim’ancora della redazione degli scritti magici.
Come abbiamo osservato, quello del δέσμος o dei δέσμοι che legano
l’essere da un lato, gli dèi/pianeti al Demiurgo dall’altro, costituisce un
tema centrale nella tradizione platonico-parmenidea, che trova ampia

237
Ivi, p. 242.
126 giulio gisondi

diffusione nelle fonti dirette e indirette di Bruno, subendo spesso una


trasposizione in senso teologico. Recuperando proprio quest’eredità, a
partire dal Timeo platonico, Bruno definisce i pianeti dei mondi, dei
grandi animali, delle divinità, numi, angeli, ministri e ambasciato-
ri dell’infinita potenza di Dio238. Dall’infinità e dall’eternità di Dio,
causa e principio primo, egli deduce l’infinità e l’eternità dell’universo:
questo non è stato generato dal padre una sola volta nel tempo, ma lo
è ab aeterno e per l’eternità. L’universo è immagine e simulacro della
divinità, termine medio tra l’essere umano e Dio: la sua contemplazione
assume, perciò, una connotazione a tratti religiosa, poiché soltanto per
mezzo di essa si può entrare in contatto con la divinità. Dall’osserva-
zione dei mondi, delle stelle, dei soli, dei pianeti, si può accedere alla
comprensione dell’unità del molteplice. Tuttavia, se l’universo è infinito
ed eterno come il padre, non è così per i mondi i quali, in quanto corpi
generati, sono destinati come tutti i corpi naturali alla dissoluzione.
Il tema della dissolubilità del mondo o dei mondi, e con essi del
discioglimento dei vincula o δέσμοι che legano i corpi celesti al padre
generatore, pena il loro annichilimento, è centrale nell’ontologia e nella
cosmologia platonica e cristiano-neoplatonica, e ritorna a più riprese
nella riflessione ontologica e cosmologica di Bruno. Si tratta, infatti,
di una questione che attraversa tutta la sua produzione, dai dialoghi
italiani al De immenso, passando per gli Articuli adversus Peripateticos
pubblicati a Parigi nel 1586 e il Camoeracensis acrostimus pubblicato a
Wittenberg nel 1588, presente finanche nelle pagine del processo. Come
ha osservato Miguel Angel Granada, è Ficino a costituire il canale di
mediazione attraverso il quale Bruno recupera e riformula la fonte
platonica 239. Nella traduzione ficiniana del Timeo, il δεσμ ός con cui
il Demiurgo lega gli astri/dei, diviene il «vinculum ad vite custodiam
quam nexus illi»240.

238
Cfr. Sigillus, p. 264; cfr. Cena, pp. 98-99.
239
M.A. Granada, «Voi siete dissolubili ma non vi dissolverete». Il problema della
dissoluzione dei mondi in Giordano Bruno, in «Paradigmi», XVIII, 53 (2000), p. 263.
240
Platonis Timaeus, in Omnia divini Platonis Opera, translatione Marsilii Ficini,
Basilea, 1546, 41a-b, p. 710.
dalla philosophia occulta alla physica magica 127

Bruno accoglie e fa suo il lessico ficiniano nel definire il legame


originario dell’essere e del cosmo al padre generatore e ordinatore. Il
riferimento al Timeo consente di comprendere come egli recepisca la
nozione di δεσμός e σύνδεσμος, vinculum e nexus, dall’idea platonico-
parmenidea delle catene dell’essere e dei legami del cosmo, in una
prospettiva ontologica e cosmologica, prim’ancora che magica. Tutta-
via, se nella fonte ficiniana con il termine mondo s’intendeva l’intero
cosmo241, secondo il modello platonico, questo assume ora il significato
di astro o pianeta all’interno di un universo infinito.
Nella Cena, definendo le ragioni per le quali la terra si muove di
moto locale, rinnovandosi secondo il ritmo della vicissitudine, il Nolano
osserva come «questi corpi che sono dissolubili, attualmente talvolta
si dissolverebbono: come avviene a noi particolari e minori animali.
Ma ad costoro (come crede Platone nel Timeo, e crediamo ancor noi)
è stato detto dal primo principio: “voi siete dissolubili, ma non vi
dissolverete”»242. Nella Cena vi è, attraverso la mediazione di Ficino243,
la ripresa dell’affermazione dell’indissolubilità del mondo tratta dal
Timeo platonico, riformulato ora in una prospettiva infinita.
Anche nelle opere successive Bruno pone il problema della dissolubi-
lità in una considerazione finalistica e provvidenzialistica dell’universo:
non vi è in natura «cosa senza provvidenza e senza causa finale»244, la
quale non è altro che la permanenza e la continuità della vita dei mondi
e dell’universo. Per questa ragione, i mondi, in quanto prossimi alla
causa e principio primo, nonché «espressione visibile di questa divi-
nità manifesta o explicata»245, non saranno disciolti dai loro legami e
dissolti, nonostante siano dissolubili. La vicissitudine universale, con
il movimento della terra e degli altri pianeti, garantisce incessante-

241
Cfr. M. Ficini In Plotinum commentarium, in Opera, Basilea 1576, vol. II, p.
1593; cfr. Id., In Timaeum Commentarium, in ivi, p. 1444.
242
Cena, p. 119.
243
Cfr. M. Ficini Theologia Platonica, cit., lib. III, cap. 1, p. 115.
244
Cena, p. 118.
245
M.A. Granada, «Voi siete dissolubili ma non vi dissolverete». Il problema della
dissoluzione dei mondi in Giordano Bruno, cit., p. 273.
128 giulio gisondi

mente la vita e assicura la «rinovazione e rinascenza»246. I mondi non


possono permanere «secondo la medesima disposizione»247 ma, come
le «sustanze che non possono perpetuarsi secondo il medesimo volto
si vanno tutta via cangiando di faccia»248, così anch’essi si rinnovano
attraverso i loro molteplici moti. Questi moti non sono determinati
dal caso, ma dalla necessità di garantire che tutto sia tutto e si faccia
tutto, che la sostanza materiale possa tramutare infinitamente e assu-
mere, nello spazio e nel tempo, l’infinità delle forme possibili, secondo
il ritmo della vicissitudine. Mentre Dio, infinità complicata, è tutto in
tutto intensivamente e istantaneamente, l’universo explicato può dirsi
infinito solo nella successione del tempo e nello spazio, attraverso le
trasformazioni a esso interne. Bruno può così argomentare l’eternità e
l’infinità explicata dei mondi che si dispiega attraverso la trasmutazione
permanente e vicissitudinaria 249.
Il tema platonico della dissolubilità/indissolubilità dei mondi è
centrale anche nel De la causa. Dopo aver sostenuto l’impossibilità di
approdare alla conoscenza della causa prima, Bruno definisce «degnis-
simi di lode quelli che si forzano alla cognizione di questo principio
e causa […], circa questi magnifici astri e lampeggianti corpi, che son
tanti abitati mondi, e grandi animali, et eccellentissimi numi, che
sembrano e sono innumerabili mondi non molto dissimili a questo che
ne contiene»250. Tuttavia questi mondi non possiedono l’essere, «atteso
che sono composti e dissolubili (benché non per questo siano degni
d’esserno disciolti, come è stato ben detto nel Timeo)»251. Se l’essere
generati costituisce la ragione della loro dissolubilità, questa è anche la
ragione della loro diretta dipendenza e prossimità alla causa e principio
primo252. Proprio in virtù di questa dipendenza, di questo intimo e
potentissimo legame che vincola i mondi a Dio, la loro dissoluzione non

246
Ibidem.
247
Cena, p. 119.
248
Ibidem.
249
Ibidem.
250
Causa, p. 208.
251
Ibidem.
252
Cfr. M. Ficini In Timaeum commentarium, in Opera, cit., p. 1433, p. 1463.
dalla philosophia occulta alla physica magica 129

è conveniente in una prospettiva universale. Se i pianeti non saranno


dissolti, ciò è «dovuto a questo speciale vincolo con la divinità»253.
Poiché «mostrano e predicano […] la infinita eccellenza e maestà del
primo principio e causa»254, la loro dissoluzione corrisponderebbe a una
mancanza o a una diminuzione della potenza della divinità. Il perma-
nere infinitamente ed eternamente, nonostante la loro dissolubilità, è
espressione diretta dell’infinità di Dio.
Anche nel De l’ infinito Bruno riprende nuovamente il problema
della dissolubilità/indissolubilità dei mondi, sebbene rispetto agli scritti
precedenti questo sia soltanto accennato o dato come già acquisito.
L’affermazione dell’eternità dei mondi è collocata all’interno di un
contesto teorico che recupera, oltre alla fonte platonica, la prospettiva
atomistica. Se la permanenza della terra è garantita dalla presenza
dell’anima mundi, per effetto della quale ogni cosa nell’universo tende
alla propria conservazione, lo è anche grazie all’emissione e alla ricezione
di atomi da un corpo a un altro, secondo il ritmo della vicissitudine,
assicurando così la non dissoluzione dei mondi e dell’universo255.
Il movimento d’efflusso e d’influsso degli atomi da un corpo a un
altro influisce sulla loro stabilità e sulla permanenza di tutti gli elementi
e i corpi naturali, dai più piccoli fino ai pianeti. Da questo fenomeno
dipende la permanenza o la dissoluzione di ogni elemento e corpo natu-
rale. Nel terzo dialogo del De l’ infinito Bruno ritorna nuovamente sulla
stessa questione, recuperando sia la funzione dei mondi ambasciatori

253
M.A. Granada, «Voi siete dissolubili ma non vi dissolverete». Il problema della
dissoluzione dei mondi in Giordano Bruno, cit., p. 273.
254
Causa, p. 208.
255
Infinito, pp. 359-360: «Onde questa terra, se è eterna et perpetua, non è tale
per la consistenza de sue medesime parti e di medesimi suoi individui, ma per la vi-
cissitudine de altri che diffonde et altri che gli succedono in luogo di quelli; in modo
che, di medesima anima et intelligenza, il corpo sempre si va a parte a parte cangiando
e rinovando. Come appare anco ne gli animali, li quali non si continuano altrimente
se non con nutrimenti che ricevono, et escrementi che sempre mandano; onde chi ben
considera saprà che giovani non abbiamo la medesima carne che avevamo fanciulli,
e vecchi non abbiamo quella medesima che quando eravamo giovani: perché siamo
in continua transmutazione, la qual porta seco che in noi continuamente influiscano
nuovi atomi, e da noi se dipartano li già volte accolti».
130 giulio gisondi

della infinita potenza divina, sia la prospettiva finalistico-teleologica


immanente alla natura 256.
Egli distingue due ragioni a fondamento della tesi dell’eternità dei
mondi: da un lato, una capacità intrinseca ai pianeti, basata sulla rego-
lazione naturale e interna a essi dell’efflusso e dell’influsso di atomi da
altri corpi e verso questi; dall’altro, una possibilità a loro estrinseca e
dalla quale non possono sciogliersi, legata alla volontà divina. Questa di-
stinzione tra un principio intrinseco alla natura e uno divino estrinseco
si configura particolarmente problematica e, al tempo stesso, feconda.
In essa sono, infatti, racchiusi due differenti, ma complementari, modi
di considerare e rappresentare la natura e l’universo. Se l’affermazione
dell’eternità dei mondi poggia su di una visione teologico-teleologica
della natura, in cui il vincolo esercitato dalla causa e principio divi-
no fa sì che i corpi celesti permangano in eterno, allo stesso tempo,
l’introduzione della possibilità di una loro intrinseca autoregolazione,
grazie all’efflusso e all’influsso degli atomi, pone non pochi problemi
d’interpretazione. Quest’ultima ipotesi si fonda, infatti, sul ricorso
alle dottrine atomiste e, in un senso più generale, sulla considerazione
della storicità della natura e dell’universo, vale a dire sulla possibilità
per tutto ciò che è in essa di perire così come di generare qualcosa di
assolutamente nuovo. Questa possibilità si scontra, tuttavia, proprio con
quella rappresentazione di matrice platonica per la quale l’eternità dei
mondi è garantita dall’intervento e dalla presenza immanente del divino
nella natura e nell’universo. È questa, in altre parole, la manifestazione
dell’ambivalenza bruniana tra una considerazione metafisico-platonica
della natura e dell’universo, e una fisico-atomistica, le quali sembrano
convivere, convergere e fondersi l’una nell’altra.
Nel quarto dialogo dell’opera, egli riprende ancora il tema della
dissolubilità/indissolubilità dei mondi. Anche in questo caso, tra le
due cause, quella naturale intrinseca e quella divina estrinseca, non

256
Ivi, p. 398: «Onde non avendo parte che talmente effluisca dal gran corpo che
non refluisca di nuovo in quello, aviene che sia eterno, benché sia dissolubile: quan-
tumque la necessità di tale eternità certo sia dall’estrinseco mantenitore e providente,
non da l’intrinseca e propria sufficienza, se non m’inganno».
dalla philosophia occulta alla physica magica 131

ve n’è una prevalente: sia il principio intrinseco che quello estrinseco


sembrano contribuire ugualmente o paritariamente alla permanenza
e non dissoluzione dei mondi257.
Anche nei Furori, seppur la questione sia solo accennata, Bruno
sembra attribuire al legame che unisce i mondi alla causa e principio
divino la ragione della loro perpetuità: «perché l’atto della divina prov-
videnza sempre con misura et ordine medesimo, con divino calore e
lume le conserva nell’ordinario e medesimo essere»258. In quest’opera,
egli afferma l’eternità dei mondi nell’universo come un effetto dell’a-
zione del vincolo tra questi e la divinità, propendendo per la scelta della
causa estrinseca sull’intrinseca.
Ma è con la redazione del De immenso che egli giunge ad approfon-
dire la questione, elaborando una soluzione – seppur non definitiva – al
problema. Nel quinto capitolo del libro II, egli s’interroga sulla disso-
lubilità/indissolubilità dei mondi, riprendendo l’ipotesi di un efflusso
di atomi al di fuori dei mondi, ragion per cui questi grandi animali
invecchiano, si trasformano e muoiono come tutti i corpi naturali.
Nella lunga Digressio intitolata «Digressio quaedam, quod si veluti
dissolubiles, ex natura compositionis, sunt mundi, dissolvantur, par-
tibus a toto corpore diffluentibus, non inconvenit universali agitatione
atomos (seu quomodcunque appelles prima corpora) infinite vagari»259,
egli espone il problema facendo ricorso alla dottrina atomista: i mondi
e tutti i corpi celesti potrebbero permanere in eterno soltanto qualora
non si verificasse l’effluxus e l’influxus di atomi da un corpo a un altro.

257
Ivi, p. 408: «Per quanto appartiene alli primi corpi indivisibili, de quali ori-
ginalmente è composto il tutto, è da credere che per l’immenso spacio hanno certa
vicissitudine, con cui altrove influiscano, et effluiscano altronde. E questi se pur per
providenza divina secondo l’atto non costituiscano nuovi corpi e dissolvano gli antichi,
al meno han tal facultà: per che veramente gli corpi mondani sono dissolubili; ma può
essere che o da virtù intinseca o estrinseca sieno eternamente persistenti medesimi, per
aver tale e tanto influsso, quale e quanto hanno efflusso di atomi; e cossì perseverino
medesimi in numero, come noi, che nella sustanza corporale similmente giorno per
giorno, ora per ora, momento per momento, ne rinuoviamo per l’attrazione e dige-
stione che facciamo da tutte le parti del corpo. Di questo ne parleremo altre volte».
258
Furori, p. 837.
259
De immenso, pp. 272-274.
132 giulio gisondi

In tal modo è posta una sostanziale equivalenza tra tutti i corpi natu-
rali, dagli infinitamente piccoli agli infinitamente grandi. Ma se nella
prima parte del passo egli sembrerebbe accettare la possibilità della non
eternità dei corpi celesti, occorre osservare, come ha rilevato Granada,
che «sia nel titolo del capitolo che nel testo la dissoluzione dei mondi
è affermata in termini ipotetici o condizionali»260. Nella seconda par-
te, infatti, Bruno recupera la fonte platonica e il modello teleologico,
opponendolo alla prospettiva atomista. Associando le parole del Ti-
meo, «Vos quidem dissolubiles estis, nequaquam vero dissolvemini»261,
alla citazione del passo biblico «Deus stetit in sinagoga Deorum»262,
egli mette sullo stesso piano l’affermazione platonica dell’eternità dei
mondi e l’autorità del testo sacro secondo la quale «divina monumenta
mistras dei, flammas ignis appellant, stellas coeli, quibus similes sint
Sancti apud nos, volucres coeli, terram viventium, aquas super coelos
obtemperantes ordini altissimo»263. Egli riprende così, non soltanto la
considerazione della divinità come immanente all’universo, ma anche
la tesi dell’eternità dei mondi in quanto ministri e ambasciatori della
potenza divina, confermata e avvalorata dal recupero della fonte biblica
in accordo con quella platonica.
Se i mondi si dissolveranno a causa della disgregazione e della se-
parazione degli atomi di cui sono composti non sarà possibile saperlo.
Bruno riconosce sia la dissolubilità dei mondi, sia l’incapacità di cono-
scere pienamente questo fenomeno, poiché si verificherebbe in tempi
che trascendono la singola esistenza umana. Egli afferma l’impossibilità
che i mondi possano perpetuarsi grazie a un principio intrinseco: i
movimenti di effluxus e d’influxus degli atomi comportano la dissolu-
bilità di tutti i corpi naturali, compresi i mondi. Ma al tempo stesso,
in quanto opera di una potenza divina infinita e legati a essa da un
saldissimo vincolo, questi seppur dissolubili non si dissolveranno. E

260
M.A. Granada, «Voi siete dissolubili ma non vi dissolverete». Il problema della
dissoluzione dei mondi in Giordano Bruno, cit., p. 281.
261
De immenso, p. 274.
262
Ibidem.
263
Ibidem.
dalla philosophia occulta alla physica magica 133

ciò può avvenire, per l’appunto, in virtù del principio estrinseco divino
che tende a conservare eternamente i mondi assicurando la loro perma-
nenza. Tuttavia, come rileva ancora Granada, «ciò è in contraddizione
con la concezione bruniana dell’identità assoluta di volontà divina e
legge naturale»264; ma d’altra parte, nonostante la vita dei mondi sia
lunghissima, «Bruno sa che tra il tempo finito e l’eternità non c’è pro-
porzione, per cui, a fronte dell’eternità dell’universo e di Dio, la nostra
vita e quella dei mondi hanno la stessa durata, vale a dire nessuna»265.
La ricognizione sin qui svolta attraverso il recupero del problema
della dissolubilità/indissolubilità dei mondi ci consente di osservare
come la nozione di vinculum, nel senso del legame e della relazione
ontologica e cosmologica tra la divina potenza infinita e l’universo,
costituisca nella filosofia naturale di Bruno un nodo problematico
originario e antecedente la redazione degli scritti magici. Oltre che
nelle opere già esaminate, ciò emerge in misura maggiore negli Articuli
adversus Peripateticos, che raccolgono le tesi pronunciate da Bruno
contro la Physica e il De coelo di Aristotele nel corso di una disputa
pubblica svoltasi il 28 maggio 1586 al Collège de Cambrai a Parigi, poi
nuovamente riprese nel Camoeracensis acrostimus266. Commentando il
primo libro del De coelo aristotelico, egli sostiene che i mondi, sebbene
siano corruttibili in quanto generati, sono talmente prossimi al primo
efficiente da essere perciò legati a esso da «tenacissimis vinculis»267.
Quest’espressione rimanda alla traduzione ficiniana di Timeo 41a-b,
manifestando come il tema platonico-parmenideo dei δέσμοι che legano
l’essere e il cosmo fosse presente in Bruno nella prospettiva ontologica e
cosmologica. Allo stesso tempo, il ricorso a quest’espressione consente di
rilevare la presenza della nozione di δέσμος, vinculum/nexus, nel senso
che sarà proprio alla terza parte del De vinculis, vale a dire di vinculum
Cupidinis, legame d’amore tra il principio e i principiati. L’utilizzo del

264
M.A. Granada, «Voi siete dissolubili ma non vi dissolverete». Il problema della
dissoluzione dei mondi in Giordano Bruno, cit., p. 284.
265
Ibidem.
266
Cfr. Camoeracensis acrostimus, p. 176.
267
Articuli adversus Peripateticos, p. 26.
134 giulio gisondi

termine e della nozione di vinculum nell’ultimo dei trattati magici è


strettamente connesso e non separabile dalla precedente riflessione
ontologico-cosmologica sulla dissolubilità/indissolubilità dei mondi,
sulla sussistenza e sulla perenne trasformazione degli elementi naturali,
sulla philautia e sulla vicissitudine. Nell’articolo XV («Vincibilium ma-
teriae diversitatis») della seconda sezione del De vinculis, analizzando le
attrazioni che legano i composti naturali, Bruno osserva come queste
ultime siano assolutamente instabili rispetto a quei tenacissimi vincoli,
nonché principi eterni e instancabili, che legano tra loro i grandi numi
o pianeti. Questi non sono mai toccati dalla stanchezza ma, sempre
costanti e in equilibrio, sono avvinti alla prima causa e principio primo
in un’assoluta beatitudine, non venendo mai meno la loro attrazione
e il loro amore:

Si quae vero essent, in quibus principia numquam deficiunt, cuiusmo-


di fortasse sunt astra et magna mundi animalia seu numina, quibus
defatigatio <non> accidit, et in quibus effluxio et influxio substantiae
aequalis est et eadem, felicissime ipsa sibi in seipsis sunt devincta 268.

Seppur soltanto accennata, la questione della permanenza dei mon-


di, come elaborata nelle opere precedenti, è ripresa da Bruno nel De
vinculis in maniera implicita, affermando una differenza di grado tra
i legami instabili e finiti dei corpi composti e quei vincoli, invece,
permanenti o eterni che legano gli astri, i pianeti o mondi alla causa
e principio primo. E così ancora, nell’articolo XIII della terza sezione
dedicata al vinculum Cupidinis, riprendendo il discorso ontologico e
cosmologico già elaborato anni prima sia nei dialoghi, sia nelle opere
latine, egli osserva:

Amor unus, vinculum unum facit omnia unum; diversa habet in


diversis facies, ut idem aliter alia atque alia vinciat. Hinc Cupido
idem dicitur superior et inferior, novissimus et antiquissimus, caecus

268
De vinculis, p. 472.
dalla philosophia occulta alla physica magica 135

et perspicacissimus, qui facit omnia pro viribus vel seipsis consistere,


ne a se recedant, ad speciei perenninatem269.

Sembrano qui riformulate quelle stesse parole con cui nel Sigillus
egli descriveva un unico principio d’amore che lega la molteplicità degli
elementi in un solo e immenso organismo. Tuttavia, questo universale
vincolo di Cupido se lega e tiene insieme ogni cosa, allo stesso tem-
po, opera anche attraverso la disgregazione e la ricomposizione degli
elementi e dei corpi naturali, affinché la materia infinita possa soddi-
sfare l’insaziabile desiderio di abbracciare tutte le possibilità formali,
secondo il ritmo della vicissitudine. Nonostante lo spirito di autocon-
servazione insito in tutti i composti naturali, la dissoluzione di questi
e la trasformazione della materia è funzionale alla rigenerazione e alla
conservazione dell’intero universo. Per questa ragione, ogni corpo, dal
più semplice al più complesso, ivi compresi i mondi, gli astri e le stelle,
sperimentano la concentrazione e la dispersione, l’impoverimento e la
dissoluzione, secondo una condizione generale del vincolo d’amore
osservabile in tutte le differenti specie di legame:

Ad particularium vero vicissitudinem facit singula quodammodo a


seipsis recedant – ubi in amatum transferri concupiscit amans omne
–, per seipsa quoque dissolvantur, aperiantur, dehiscant – ubi totum
amans concipere concupit amatum imbibire270.

Si tratta di un passo estremamente significativo, in cui Bruno ri-


connette il problema del vincire all’ossatura ontologica delineata nei
dialoghi. Seppur il termine vinculum risulti assente da questi, la nozione
di legame e relazione non è estranea all’impostazione fisico-metafisica
fondata sul riconoscimento dell’unicità dell’essere in cui le forme par-
ticolari e finite sono explicationi di un soggetto unico. Egli vi delinea
il problema del vincolo d’amore con cui l’Uno o Dio lega a sé il mol-
teplice e garantisce la continuità della vita nell’universo, attraverso la

269
Ivi, pp. 512-514.
270
Ivi, p. 512.
136 giulio gisondi

trasformazione dell’unica materia infinita e la dissoluzione delle forme


particolari secondo il ritmo della vicissitudine.
L’assenza del termine vinculum nei dialoghi italiani non equivale
all’assenza della nozione che, come vedremo, è espressa negli anni pre-
cedenti la stesura del De vinculis attraverso una terminologia differente.
Da questa prospettiva, inoltre, è possibile osservare come il De vinculis
non rappresenti un’analisi ristretta al solo ambito magico: al contrario,
questo breve trattato si allontana e procede oltre quel materiale elaborato
negli scritti magici precedenti, ricongiungendosi al discorso originario
della nolana filosofia sulla relazione tra l’Uno e il molteplice, sul rapporto
tra il principio materiale e quello formale.
III. Il vinculum nexus nella relazione
tra unità e molteplicità

Tra gli articoli XII e XV della terza sezione del De vinculis, dedi-
cata al vinculum Cupidinis, Bruno ripercorre pressocché testualmente
alcune delle principali questioni relative alla distinzione tra potentia
Dei absoluta e potentia Dei ordinata, alla relazione tra materia e forma
e all’identità di Dio e materia, come erano state poste e discusse quasi
dieci anni prima nel De la causa e nel De l’ infinito. I termini in cui le
questioni sono presentate e le fonti citate dall’autore a sostegno delle
sue tesi sono le stesse già richiamate nei due dialoghi italiani:

Atque una potentia absoluta atque simpliciter (quicquid/sit de potentia


in particulari et compositorum et accidentaria, quae sensus et mentes
Peripatheticorum fascinavit cum asseclis quibusdam cucullatis), que-
madmodum pluribus in his quae De infinito et universo diximus et in
dialogis De principio et uno exactius, non stultum concludentes Davis
de Dinantho et Avicebron in libros Fons vitae sententiam ab Arabibus
citatam, qui aussi sunt materiam etiam Deum appellare1.

1
De vinculis, p. 520.
138 giulio gisondi

Le ragioni di questa ripresa nella terza sezione del De vinculis sono


rintracciabili nel tentativo di ripensare e innestare la specifica riflessione
sulla magia e sulle molteplici forme di vincula nel solco della prospettiva
ontologica già tracciata nei dialoghi italiani. Ma a colpire, ancor più
dei rimandi alle questioni discusse principalmente nel De la causa, è
l’esplicito richiamo alle due fonti citate, Avicebron, o Shelomon Ibn-
Gabirol2, e David de Dinant. Se, infatti, il recupero della prospettiva
ontologica del dialogo londinese nell’ultimo dei trattati magici, sembra
stabilire una strettissima correlazione tra due momenti della produzione
filosofica di Bruno apparentemente distanti tra loro, ciò è rafforzato
proprio dalla citazione dei due autori in questione.
Non sono questi nomi nuovi nel vasto panorama di fonti, dirette
e indirette, a cui egli ricorre, spesso in maniera strumentale, né tan-
tomeno dei semplici riferimenti occasionali o estemporanei. Queste
rappresentano, invece, due fonti centrali proprio nel De la causa. Una
presenza apparentemente rara se si considerano le semplici occorrenze
esplicite: il nome di David de Dinant3 compare nel dialogo londinese
in soli due casi, mentre quello di Avicebron4 è citato all’incirca quattro
volte. Tuttavia, le loro filosofie sembrano agire in profondità nell’opera
di Bruno, andando a costituire un fecondo supporto nell’elaborazione
di quel punto nodale della sua filosofia che è il tema della relazione, o
meglio, del vincolo che lega materia e forma.
Non è un caso se la citazione di entrambi cada puntuale laddove
l’autore affronta ciò che «è stimato aver più raggione di principio et
elemento che di causa»5, ovvero la materia nella sua relazione con la
forma. Già nella Proemiale epistola, nell’Argomento del terzo dialogo,
David de Dinant è evocato come colui «che non fu pazzo nel suo grado
[…] nel prendere la materia come cosa eccellentissima e divina»6. E così
avviene anche nella conclusione del quarto dialogo dell’opera, in un

2
Cfr. S. Munk, Mélanges de philosophie juive et arabe, Paris 1988.
3
Causa, p. 168, p. 275.
4
Ivi, p. 168, p. 232, p. 242, p. 260, p. 275.
5
Ivi, p. 168.
6
Ibidem.
il vinculum nexus nella relazione tra unità e molteplicità 139

contesto teorico in cui ogni forma sensibile e particolare è ricondotta


nel grembo dell’infinita materia da cui è partorita.
Allo stesso modo, anche i rimandi ad Avicebron sono legati a una
rivalutazione del concetto di materia quale principio e forza attiva, di
contro alla concezione aristotelica della stessa intesa come prope nihil.
Nel terzo dialogo del De la causa, in un contesto di critica a posizioni
rigidamente materialistiche, questi è inserito tra coloro i quali «quel che
non è corpo dicono esser nulla, per conseguenza vogliono la materia
sola essere la sustanza de le cose, et anco quella essere la natura divina,
come disse un certo arabo chiamato Avicebron, come mostra in un
libro intitolato Fonte di vita»7. Sovrapponendo le parole di David de
Dinant a quelle di Ibn Gabirol, la materia è qui descritta quale «prin-
cipio necessario, eterno e divino, come a quel moro Avicebron che la
chiama “Dio che è in tutte le cose”»8.
Le modalità con cui Bruno menziona queste due fonti, relativamente
al problema della materia, sono simili. Riprendendo l’identificazione
presente sia nel De la causa, sia nel De vinculis, di Dio e materia, egli
cita indifferentemente l’uno e l’altro autore. Allo stesso modo, nel pas-
saggio del terzo dialogo del De la causa, corrispondente all’Argomento
introduttivo in cui era chiamato in causa David, il suo nome scompare
dal corpo del testo per esser sostituito da quello di Avicebron nella
definizione della materia quale principio necessario, eterno e divino.
Ibn-Gabirol e David rappresentano negli scritti bruniani due fonti
spesso sovrapponibili l’una all’altra.
Come nel De la causa anche nel De vinculis il riferimento a essi è
strettamente legato alla trattazione del problema della relazione tra
materia e forma nella riflessione magica9. Anche qui David e Avicebron
sono evocati tra coloro i quali «non stultam concludentes […] qui aussi
materiam etiam Deum appellare». Laddove, nel De vinculis, Bruno
tenta di innestare il problema della magia per vincula nel solco della
sua filosofia naturale, riemergono non soltanto le principali questioni

7
Ivi, p. 232.
8
Ivi, p. 242.
9
Cfr. De vinculis, pp. 510-520.
140 giulio gisondi

discusse nel De la causa, ma anche le stesse fonti utilizzate a supporto


di un ripensamento della materia e del suo legame con la forma.
Quello a David e ad Avicebron è un ricorso insolito, isolato e in
controtendenza nel contesto delle filosofie del Rinascimento. Sono
questi due autori che tra il XIII e il XVI secolo circolano nel dibattito
filosofico e teologico per lo più indirettamente: attraverso le critiche
e, in molti casi, le condanne presenti in autorità scolastiche, tra cui
Alberto Magno e Tommaso, oltre ai riferimenti rintracciabili nei testi
di Cusano e di Ficino. Tuttavia, se nel caso dell’utilizzo bruniano delle
tesi del Fons vitae di Avicebron, disponiamo oggi di alcuni contributi,
tra cui gli studi di Rita Sturlese10 e di Pasquale Terracciano11, diverso
è il caso della ripresa della dottrina di David de Dinant. Oltre agli
studi di Tristan Dagron12 e a quelli meno recenti di Tocco13, risulta
ancora assente uno studio della ricezione in Bruno della filosofia di
David. Questo lavoro di ricostruzione è funzionale a osservare come
il recupero della sua fonte indiretta, insieme ad altre, sia da supporto
all’elaborazione di un’ontologia non aristotelica dell’essere, della so-
stanza, della natura e della vita.

10
Cfr. R. Sturlese, «Averroè quantumque arabo et ignorante di lingua greca»: note
sull’averroismo di Giordano Bruno, «Giornale critico della filosofia italiana», LXXI
(1992), pp. 248-275.
11
P. Terracciano, «Nemici et impazienti di poliarchia». Riflessioni sul rapporto tra
Bruno e Shelomon Ibn Gabirol, in Favole metafore e storie. Seminario su Giordano
Bruno, introduzione di M. Ciliberto, O. Catanorchi e D. Pirillo (a cura di), Pisa
2007, pp. 447-472.
12
T. Dagron, Unité de l’ être et dialectique. L’ idée de philosophie naturelle chez
Giordano Bruno, Paris, 1999, pp. 353-356; Id., David de Dinant. Sur le fragment «Hyle,
Mens, Deus» des Quaternuli, «Revue de métaphysique et de morale», XL (2003/2004),
pp. 419-436.
13
F. Tocco, Giordano Bruno. Conferenza tenuta nel circolo filologico di Firenze,
Firenze 1886.
il vinculum nexus nella relazione tra unità e molteplicità 141

1. David de Dinant: la riscoperta di una filosofia in oblio

Nel 1210 Pierre Corbeil arcivescovo di Sens, Pierre de Nemours


vescovo di Parigi e altri vescovi riuniti in concilio nella capitale del
Regno di Francia, decretarono che le tesi contenute nei Quaternuli
del filosofo e maestro di logica David de Dinant fossero bruciate e
dichiarate eretiche, oltre a interdire la lettura dei Libri Naturales di
Aristotele che proprio di questi erano stati oggetto di commento14.
Cinque anni più tardi il cardinale e cancelliere dell’Università di Parigi,
Robert de Courçon, condannò nuovamente la dottrina del filosofo di
Dinant15. Soltanto nel corso del Novecento si è fatta chiarezza sulla
figura e l’opera di quest’autore: prima nel 1925, con il lavoro di rico-
struzione dell’opera perduta attraverso la collazione di tutti i passaggi,
i riferimenti e le citazioni presenti nelle opere di Alberto, Tommaso e
Cusano, svolto dal padre domenicano Gabriel Théry; in seguito, grazie
all’identificazione di quattro ampi frammenti manoscritti dell’opera
perduta di David operata da Alexander Birkenmajer16 nel 1933, e pub-
blicati nel 1963 da Marian Kurdzialek17. Come documentato, inoltre,
da più recenti studi18, dall’inizio del XIII fino alla metà del XX secolo,

14
G. Théry, Autour du decret du 1210: I David de Dinant. Etude de son panthéisme,
«Revue des sciences philosophiques et théologiques», 1925, p. 7; cfr. P. Lucentini,
Platonismo, Ermetismo, Eresia nel Medioevo, Louvain-La-Neuve 2007, pp. 19-22, pp.
372-388, pp. 435-440, pp. 463-465; cfr. L. Bianchi, Censure et liberté intellectuelle
à l’Université de Paris (XIII ͤ -XIV ͤ siècles), Paris 1999, pp. 23-27, p. 55, pp. 92-101.
15
G. Théry, Autour du décret du 1210: I David de Dinant. Etude de son panthéisme,
cit., p. 8.
16
A. Birkenmajer, Découverte des fragments manuscrits de David de Dinant, «Revue
néoscolastique de Philosophie», XXXV (1933), pp. 220-229.
17
Davidis de Dinanto Quaternulorum Fragmenta, M. Kurdzialek (a cura di),
«Studia Mediewistyczne», III (1963), pp. 3-94.
18
E. Maccagnolo, David of Dinant and the Beginnings of Aristotelicianism in Paris,
in P. Dronke, A History of Twelfth Century Western Philosophy, Cambridge 1988,
pp. 429-442; cfr. E. Casadei, David di Dinant, traduttore di Aristotele, «Freiburger
Zeitschrift für Philosophie und Theologie», XLV (1998), pp. 381-406; cfr. Ead., Il
corpus dei testi attribuibili a David di Dinant, «Freiburger Zeitschrift für Philosophie
und Theologie», XLVIII (2001), pp. 87-124; Ead., I testi di David di Dinant. Filosofia
della natura e metafisica a confronto col pensiero antico, Spoleto 2008; cfr. T. Dagron,
142 giulio gisondi

le tesi del filosofo di Dinant circolarono essenzialmente sotto forma di


commenti, brevi riferimenti o sintesi presenti nelle opere di Alberto19,
Tommaso20, Cusano21 e Ficino22.
È per queste ragioni che appare insolito il diretto richiamo di Bruno
al filosofo di Dinant, poiché il suo nome risulta pressoché assente nel
panorama teologico e filosofico Umanistico-Rinascimentale. Al tempo
stesso, tale ripresa è spia, non soltanto di un già noto rapporto del No-
lano con i testi di Ficino, di Cusano e dell’Aquinate, ma in particolar
modo di una lettura delle opere di Alberto. Il maestro domenicano
sembra rappresentare non soltanto per Tommaso, ma per lo stesso Bru-
no, il principale canale di trasmissione della filosofia di maître David.
Il lavoro di recupero dei Quaternuli svolto nel Novecento e il con-
fronto di questi con i commenti e i riferimenti presenti nei testi di
Alberto consentono di tracciare un quadro parziale delle questioni
affrontate da David. Dal confronto sistematico dei frammenti con i
riferimenti presenti nel De homine, nella Metaphysica e nella Summa
Theologiae di Alberto, non è possibile stabilire se questi abbia avuto
un accesso diretto ai Quaternuli, ma ciò che emerge è la fedele corri-
spondenza tra i riferimenti albertiani all’opera di David e i frammenti
individuati nel XX secolo. Nel De homine23, ad esempio, commentando

David de Dinant. Sur le fragment «Hyle, Mens, Deus» des Quaternuli, cit., pp. 419-436;
cfr. A. Rodolfi, «Il velo di Atena». La critica di Alberto Magno a David di Dinant, «I
Castelli di Yale», V (2002), pp. 39-49.
19
Cfr. G. Théry, Autour du décret de 1210: David de Dinant. Études sur son pan-
théisme matérialiste, cit., pp. 13-15.
20
Ivi, p. 22.
21
Ivi, pp. 24-27.
22
Cfr. S. Gentile, In margine all’epistola “De divino furore” di Marsilio Ficino, in
«Rinascimento», n.s., XXIII (1983), pp. 33-77.
23
Alberti Magni ordinis fratrum praedicatorum De homine, ediderunt H. Anzu-
lewicz et J.R. Soder, Monasterii Westfalorum 2008 p. 66: «Sed hoc totum derisione
plenum est, quia dicit David ibidem quod formae rerum nihil sunt nisi secundum sen-
sum tantum et quod licet mundus secundum sensum habeat magnitudinem et motum,
tamen secundum ratione neque magnitudinem habet neque motum, sed est quidam
impartibile et immobile, et quod tempus et locus non sunt nisi secundum sensum, et
quod motus etiam omnis, sive localis sive alius, non sit nisi secundum sensum».
il vinculum nexus nella relazione tra unità e molteplicità 143

la tesi di una materia universale principio dei corpi, nonché dell’assoluta


fenomenicità e contingenza delle determinazioni sensibili, il maestro
domenicano ripercorre pressoché testualmente, fatta eccezione per
i giudizi di derisione, il Frammento P dei Quaternuli in cui David
esponeva la dottrina di una materia-hyle immobile e impercettibile
quale principio del moto, dei corpi e degli elementi24.
La stessa corrispondenza tra i frammenti dei Quaternuli e i riferimenti
albertiani è rintracciabile anche per quanto riguarda la teoria della forma
come principio e causa della differenza, nonché della derivazione di tutte
le anime individuali da un’unica anima universale o mens25. L’idea di una
materia unica, principio immobile del moto e dei corpi, di una forma o
mens causa delle differenze, costituisce l’assunto metafisico della dottrina
di David condannata da Alberto. Quest’apparente dualità logica dei due
principi fisico-metafisici è risolta dal filosofo di Dinant con la definizione
di Dio quale luogo dell’unione e dell’identità di materia e forma. Si tratta
della considerazione di un Dio/Uno, vincolo o coincidentia di materia e
forma, nonché del mondo come «nihil aliud quam deum sensibilem»26,
sostenuto attraverso il richiamo a Platone e ai presocratici27.

24
David de Dinant, Frammento P, in E. Casadei, I testi di David di Dinant:
Filosofia della natura e metafisica a confronto col pensiero antico, cit., pp. 297-298:
«Nam quantitas, ut ait Aristoteles, primum est adveniens yle et sit corpus, corpori
vero advenit naturalis motus, et sit elementum. Cum enim yle vi sui naturae sicut
imperceptibile et immobile, sensus tamen recipit magnitudinem et motum in ea».
25
Ivi, Frammento W, p. 326: «Yle est omnia corpora per adventum formarum,
et nois est omnes anime. Item quaecumque differunt formis differunt. Ergo si non
formis differunt non differunt ergo idem sunt et ita volunt philosophorum Plato et alii
quod mundus est deus prebens sibi visibile, et est yle corporum et mens animarum».
Cfr. ivi, Frammento P, p. 298 «[…] mens et yle unum sunt aut diversa. Cum igitur
sola passiva differant ad se invicem, videtur mentem et ylen nullo modo differe, cum
neutrum eorum sit subiectum passioni». Cfr. Albertus Magnus, De homine, cit., p.
63: «Item, omnis differentia est a forma; ergo quod nullam habet formam, nullum
habet differentiam; sed prima simplicia, quae sunt deus, nous et hyle, nullam habent
formam; ergo nullam habent differentiam».
26
David de Dinant, Frammento W, in E. Casadei, I testi di David di Dinant:
Filosofia della natura e metafisica a confronto col pensiero antico, cit., p. 263.
27
Ivi, pp. 263-266: «Itam quecumque differunt formis differunt. Ergo si non
formis differunt non differunt ergo idem sunt et ita volunt philosophorum Plato et alii
144 giulio gisondi

La metafisica di maître David sembra svilupparsi a partire da


un radicale monismo o da quello che Alberto definisce un «falsum
suppositum»28, da cui prende corpo l’errore per cui tutte le cose sono
Uno. Come riporta il Frammento P dei Quaternuli, soltanto l’unità è
sinonimo di essere, poiché «manifestum est igitur unam solam sub-
stanciam esse»29: solo ciò che è unum è vere ens, mentre «id quod agit
pluralitatem non est vere ens»30. Si tratta della relazione tra l’unicità
della sostanza e la molteplicità delle sue manifestazioni, in cui quest’ul-
tima non è verum esse, ma «ens secundum sensum et aestimationem»31.
Il processo di risalita dalla molteplicità e dalle differenze conduce a
riconoscere un «unum semplicissimum quod ulterius non resolvitur»32,
ossia l’unità in Dio di materia e forma oltre la quale non è possibile
procedere33. Necessità posta da David nel Frammento P è quella d’in-
dividuare una materia prima o yle e un’anima universale o mens origine
di tutte le forme e materia di tutti i corpi: principi, questi, indivisibili,

quod mundus iste est deus prebens sibi visibile, et yle corporum et mens animarum.
Unde Iupiter est quodcumque vides». Cfr. Albertus Magnus, De homine, cit., p. 63:
«Et inducit ibidem Platonem et Xenophanem philosophos sibi super hoc consentientes,
quia dicebant “mundum nihil aliud esse quam deum sensibilem”».
28
Ivi, p. 66.
29
David de Dinant, Frammento P, in E. Casadei, I testi di David di Dinant:
Filosofia della natura e metafisica a confronto col pensiero antico, cit., pp. 298-299.
30
Albertus Magnus, De homine, cit., p. 66.
31
Ibidem.
32
Id., Summa Theologiae, in Opera omnia, cura ac labore A. Borgnet, Parisiis
1895, vol. XXXII, pars II, tr. XII, q. 72, p. 43.
33
David de Dinant, Frammento P, in E. Casadei, I testi di David di Dinant:
Filosofia della natura e metafisica a confronto col pensiero antico, cit., pp. 298-299:
«Dico autem quod quemadmodum se habet corpus ad ylen, ita se anima ad mentem.
Si autem sint corpus et yle passiva, ita anima et mens passiva. Dico autem quod una
sola est mens, multe vero anime, et una sola yle, et multa vero corpora. Cum enim
sole passiones, hoc est accidentia sive proprietates, faciunt differentiam rerum ad se
invicem, necesse est unum solum esse id quod nulli passioni subiectum est, cuismodi
sunt mens et yle. Ea vero que passiva sunt necesse est esse multa, et quod proprietates,
que in ipsis sunt, faciunt unius cuiusque differenciam ad alterum, cuiusmodi sunt
corpora et anime. Manifestum est quod una sola est mens et una sola yle».
il vinculum nexus nella relazione tra unità e molteplicità 145

oltre i quali non è possibile risalire, in quanto una sola è la sostanza


non solo di tutti i corpi ma, con essi, anche di tutte le anime34.
Il Frammento P dei Quaternuli racchiude, come in un unico e
denso ragionamento, alcune delle maggiori questioni della filosofia
di maître David. Dall’idea dell’unità in Dio di materia e forma si
originano tutti i problemi metafisici con cui sia Alberto sia, successi-
vamente, Tommaso si confrontano in modo sistematico, nel tentativo
di decostruirne l’impianto ontologico. Si tratta 1) della dottrina della
materia prima come principio dei corpi e del carattere fenomenico delle
determinazioni sensibili; 2) della forma quale principio delle differenze
e delle anime individuali come derivanti da un’unica mens; 3) della
dottrina della conoscenza; 4) del tema del mondo come manifesta-
zione sensibile dell’unità di materia e forma, le quali sono realmente
unum et idem. Nella prospettiva di David, il mondo fenomenico non
è altro che una manifestazione sensibile dell’unità di materia e forma,
le quali pur apparendo distinte e separate sono in realtà unum et idem,
secondo l’opinione di Platone e di Socrate, di Zenone e di molti più
antichi filosofi35.

34
Ibidem: «Manifestum est igitur unam solam substanciam esse non tantum
omnium corporeum, sed etiam animarum omnium, et eam nichil esse quam ipsum
deum. Substancia vero ex qua sunt omnia corpora dicitur yle, substancia vero ex
qua sunt omnes anime dicitur racio sive mens. Manifestum est ergo deum esse ra-
cione omnium animarum et ylen omnium corporum». Nel commentare questa tesi
di David, Alberto sembra riportare e seguire il testo dei Quaternuli pressoché alla
lettera, cfr. Albertus Magnus, De homine, cit., p. 62: «Manifestum igitur est unam
solam substantiam esse non tantum omnium corporum, sed et omnium animarum,
et eam nihil aliud esse quam ipsum deum. Quia vero substantia ex qua sunt omnia
corpora dicitur yle, substantia vero ex qua omnes animae, dicitur ratio sive mens,
manifestum est deum esse rationem omnium animarum et hyle omnium corporum».
35
E. Casadei, I testi di David di Dinant: Filosofia della natura e metafisica a con-
fronto col pensiero antico, cit., Frammento P, pp. 298-299: «Ex hiis ergo colligi potest
mentem et ylen idem esse. Huic autem assentire videtur Plato, ubi dicit mundum esse
Deum sensibilem. Mens enim, de qua loquimur et quam unam dicimus esse eamque
impassibilem, nichil aliud est quam Deus. Si ergo mundus est ipse Deus preter se
ipsum perceptibile sensui, ut Plato et Zeno et Socrates et multi alii dixerunt, yle
igitur mundi est ipse Deus, forma vero adveniens yle nil aliud quam id, quod facit
Deus sensibile se ipsum».
146 giulio gisondi

La relazione tra l’Uno o Dio, unità di materia e forma, e la molteplicità


delle sue manifestazioni sensibili, insieme alla possibilità di conoscenza
di questa relazione da parte dell’essere umano, sono rappresentate da
David con l’immagine del vellum Palladis, ovvero attraverso la metafora
del rapporto tra la sostanza e i suoi accidenti. Questo tema è argomentato
attraverso il richiamo alle dottrine degli antiqui philosophi. La corrispon-
denza tra il pensiero di David e la tradizione presocratica è confermata
dalle testimonianze di Alberto, il quale fa derivare l’immagine del vellum
Palladis dalla tradizione pitagorica, passando per gli eleati Senofane, Par-
menide e Melisso, fino a giungere agli atomisti Democrito e Leucippo.
La riduzione della molteplicità a un’apparenza d’essere accidentale e con-
tingente, opposta all’unità e all’immobilità della sostanza, sembra sempre
porsi come un argomento predominante sia nei frammenti dei Quaternuli
sia nei riferimenti albertiani. Tuttavia, le apparenze d’essere rappresentano
delle manifestazioni finite e terminate di una sostanza unica e, pertanto,
a esse è riconosciuta dignità ontologica. Da queste manifestazioni si può
procedere per via negativa nel processo di resolutio o disvelamento del
principio. È questa la ragione per la quale, sia nelle testimonianze trasmesse
da Alberto, sia in alcuni dei frammenti di David, il mondo è definito «nihil
aliud esse quam deum sensibilem» e «deum universum esse»36.
Pallade è il simbolo della sostanza unica, infinita e permanente,
mentre il peplo che le nasconde il volto rappresenta le sue manifestazioni
particolari. Il velo lascia soltanto intravedere alcuni lineamenti del volto
della dea, ma non lo disvela mai completamente, in un rapporto con la
verità che è sempre di nascondimento e impermanenza. È questa la sola
forma di accesso all’essere che si apre a chi tenti di scorgerlo, essendo
immerso nella molteplicità e contrarietà delle differenze. La metafora
del disvelamento del vellum Palladis è presente in alcuni passaggi dei
Frammenti P e W e trasmessa in più d’una occasione da Alberto, in
particolare nel primo libro della Metaphysica37 e nello Scriptum II super

36
Albertus Magnus, Summa Theologiae, in Opera omnia, cit., vol. XXXIII, pars
II, tr. I, q. 4, p. 109.
37
Id., Metaphysica, in Opera omnia, cit., vol. VI, tr. IV, cap. VII, p. 72: «Cir-
ca idolum enim Palladis inscriptum fertur fuisse, quod Pallas est, quidquid est et
il vinculum nexus nella relazione tra unità e molteplicità 147

libros Sententiarum38, laddove associa la dottrina di David alle tradizioni


filosofiche presocratiche che erano state criticate e rifiutate da Aristotele.
La molteplicità lascia intravedere il volto dell’unica sostanza che l’ha
generata: «Pallas est quidquid fuit, et quidquid est, et quidquid erit»39.
Espressione questa che richiama fortemente l’immagine bruniana dell’es-
sere e della verità, immersi in un gioco permanente di memoria e oblio,
nonché quel verso salomonico più volte ripreso da Bruno in diversi luoghi
delle sue opere, secondo cui: «Quid est quod est? ipsum quod fuit. Quid
est quod fuit? ipsum quod est. Nihil sub sole novum»40.

2. La ricezione scolastica di David de Dinant: da Alberto a Tommaso

Le questioni affrontate da David e mediate dall’autorità di Alberto


rappresentano problemi e prospettive che giungono indirettamente sino
a Bruno, costituendo motivi portanti della sua riflessione ontologica.
Basti sfogliare le pagine della Proemiale epistola del De la causa per
osservare come, negli Argomenti ai cinque dialoghi, le questioni esami-

quidquid erat et quidquid erit et quidquid vides, cuius peplum nullus umquam
sapientum revelare potuit. Et haec opinio placuit Alexandro Peripatetico, et aliquid
eius, quantum scivit, David de Dinanto ascivit, sed perfecte et profunde non eam
intellexit. Hoc autem quod hic inductum est de ea, sufficit ad hoc quod sciantur ra-
tiones Xenophanis, quae eum in hunc perduxerunt errorem, quod ad totum caelum
respiciens ipsum dixit esse deum».
38
Id., Super II sententiarum, in Opera omnia, cit., vol. XXVII, lib. II, d. I, art. 5,
p. 17: «Ergo videtur, quod opifex et materia reducantur in idem, et hoc concessit ille
stulissimus, qui numquam aliquid vere et bene intellexit: et ideo dixit, quod materia
prima et Deus et νοῦς sive mens essent idem, et nihil esset principium universi nisi
aliud, cum tamen sit omnium indivinius et imperfectius. Et dixit hoc signatum in
templum Palladis, in cujus superstitione erat scriputum: “Pallas est quidquid fuit,
et quidquid est, et quidquid erit: cujus peplum nullus umquam hominum homini
revelare potuit”. Et dixit Palladem esse materia primam, et peplum ejus esse formam,
et multos revelasse peplum hoc usque ad formas Creatoris et creati, et efficientis et
formae».
39
Id., Summa Theologiae, in Opera omnia, cit., pars II, tr. I, q. 4, m. 3, p. 109.
40
Causa, p. 221; Cfr. Libri physicorum, p. 341; cfr. N. Badaloni, La struttura
del tempo in Giordano Bruno, Bruniana & Campanelliana, III, 1 (1997), pp. 11-45.
148 giulio gisondi

nate e la prospettiva dialettica che guida l’intera opera, presentino non


poche analogie con gli errori imputati da Alberto proprio a David41.
La tripartizione della riflessione ontologica sviluppata da Bruno
dal secondo al quinto dialogo del De la causa – dall’individuazione
dei due principi naturali di materia e forma, sino alla definizione della
loro sostanziale identità e consustanzialità, del loro vincolo inscindibile
– ricalca la struttura tripartita e dialettica rintracciabile nel paragrafo
Hyle, Mens, Deus del Frammento P42 dei Quaternuli e nei riferimenti
presenti in Alberto e Tommaso. In questa tripartizione della sostanza
e nella sua riduzione ad unum et idem è possibile riconoscere, come
ha osservato Dagron, «le motif central du De la causa qui, en ce sens,
peut être considéré comme une réécriture de l’œuvre perdue de David
de Dinant»43.
Commentando nella Summa Theologiae proprio questa tripartizione
dell’essere in tre principi distinti e allo stesso tempo unitari, Alberto pone
polemicamente la dottrina di David sullo stesso piano teorico dei filosofi
presocratici, chiamando in causa il nome di Senofane di Colofone44. Sulla

41
Causa, p. 167: «Decimo, se viene ad fare intendere che essendo questo spirito
persistente insieme con la materia la quale gli Babiloni e Persi chiamaro ombra, et
essendo l’uno e l’atra indissolubili, è impossibile che in punto alcuno cosa veruna vegga
la corrozione, o vegna a morte secondo la sustanza; benché secondo certi accidenti ogni
cosa si cangie di volto, e si trasmute or sotto una or sotto un’altra composizione, per
una o per un’altra disposizione, or questo or quell’altro essere lasciando e repigliando.
Undecimo, che gli Aristotelici, Platonici et altri sofisti non hanno conosciuta la su-
stanza de le cose; e si mostra chiaro che ne le cose naturali quanto chiamano sustanza
oltre la materia, tutto è purissimo accidente. E che da la cognizion de la vera forma
s’inferisce la vera notizia di quel che sia vita, e di quel che sia morte […]. Ultimo, si
mostra con certa similitudine accomodata al senso volgare, qualmente questa forma,
quest’anima può essere tutta in tutto e qualsivoglia parte del tutto».
42
E. Casadei, I testi di David de Dinant: filosofia della natura e metafisica a confronto
col pensiero antico, cit., p. 297.
43
Cfr. T. Dagron, Unité de l’ être et dialectique, cit., p. 356.
44
Albertus Magnus, Summa Theologiae, in Opera Omnia, cit., vol. XXXIII, pars
II, tr. XII, q. 72, m. 4, art. 2, p. 42: «De hac etiam opinione fuit Alexander philoso-
phus, et Xenophanes, et David de Dinanto, qui nititur multis rationibus hunc errore
probare in librum qui dicitur De Tomis, sive De Divisionibus : post quas probationes
ponit talem conclusionem sic dicens: “Manifestum est igitur unam solam substantiam
il vinculum nexus nella relazione tra unità e molteplicità 149

falsariga di Alberto, anche Tommaso fa derivare l’errore di David dagli


antiqui philosophi che hanno definito Dio essenza di tutte le cose, come
vollero Parmenide e Melisso45. Nelle opere dei due maestri domenica-
ni, laddove si fa il nome del filosofo di Dinant e viene condannato il
tentativo di riduzione della molteplicità degli enti all’unità dell’essere,
compaiono, quasi fossero su di un identico piano teorico, i nomi di
Senofane e degli allievi Parmenide e Melisso. Non a caso, David legge
le tesi degli Eleati attraverso la critica che Aristotele aveva condotto nel
primo libro della Fisica46 contro di essi, oltrepassandola. Ciò è indice
di un atteggiamento di pensiero ambiguo, per cui se Aristotele è sì il
«solus et verus veritatis ostensor»47, al tempo stesso e in non pochi casi,
rappresenta più una fonte di confronto critico che non una vera e propria
auctoritas. Un atteggiamento che per molti esiti dottrinali si pone in
un senso radicalmente antiaristotelico. E non a torto si può definire

esse, non tantum omnium corporum, sed etiam omnium animarum: et hanc nihil
aliud esse quam ipsum Deum: quia substantia de qua omnia corpora, dicitur hyle:
substantia vero de qua sunt omnes animae, dicitur ratio vel mens”. Manifestum est
igitur Deum esse substantiam omnium corporum et omnium animarum. Patet igitur,
quod Deus et hyle et mens una sola substantia sunt».
45
S. Tommaso d’Aquino, Commento alle sentenze di Pietro Lombardo, Libro II,
Distinzioni 1-20, introduzione di I. Biffi, trad. it. P.R. Coggi, con testo integrale di
Pietro Lombardo, Bologna 2001, vol. III, d. 17, q. 1, a. 1, 1 co., p. 793: «Respondeo
dicendum, quod quorumdam antiquorum philosophorum error fuit, quod Deus
esset de essentia omnium rerum: ponebant enim omnia esse unum simpliciter, et
non differre, nisi forte secundum sensum vel aestimationem, ut Parmenides dixit: et
illos etiam antiquos philosophos secuti sunt quidam moderni; ut David de Dinando.
Divisit enim res in partes tres, in corpora, animas, et substantias aeternas separa-
tas; et primum indivisibile, ex quo constituuntur corpora, dixit yle; primum autem
indivisibile, ex quo constituuntur animae, dixit noym, vel mentem; primum autem
indivisibile in substantiis aeternis dixit Deum; et haec tria esse unum et idem: ex
quo iterum consequitur esse omnia per essentiam unum […]et inde ortus est error
Parmenidis et Melissi, qui videntes ens praedicari de omnibus, locuti sunt de ente
sicut de una quadam re, ostendentes ens esse unum et non multa, ut eorum rationes
indicant in 1 Physicor recitatae».
46
Aristotele, Fisica, lib I, cap. 2, cl. 185a-186a, rr. 15-30; cfr. Id., De coelo, lib.
III, cap. 1, cl. 298b, rr. 15-25.
47
Cfr. E. Casadei, I testi di David di Dinant: Filosofia della natura e metafisica a
confronto col pensiero antico, cit., p. XVII.
150 giulio gisondi

David, come ha notato Elena Casadei, «uno studioso di Aristotele non


aristotelico»48 o, per certi versi, un aristotelico antiaristotelico49.
Confrontando i frammenti manoscritti dei Quaternuli con quanto
riportato e commentato da Alberto, la filiazione dottrinale proposta
da quest’ultimo tra le tesi di David, i vetustissimi Pythagoroci50, gli
epicurei51, Senofane52 e Parmenide53, non sembra estranea all’orizzonte
speculativo del filosofo di Dinant. L’operazione critica del maestro
domenicano è tesa a liberare l’interpretazione di Aristotele da qualsiasi
responsabilità o vicinanza filosofica a una dottrina condannata come
eretica qual è quella di David. E così sembra essere anche nel caso delle
critiche espresse da Tommaso nei confronti del filosofo di Dinant. I
contributi dell’Aquinate alla ricostruzione del pensiero di David non
apportano forti elementi di originalità, ma dipendono essenzialmente
dai passi già citati e commentati da Alberto. Seppur lontano da un
accesso diretto ai testi del filosofo di Dinant, anche il doctor Ange-
licus, come il suo maestro, non si esime dall’esprimere dure critiche,
tese a ricostruire la filiazione dottrinale tra le tesi di David e il pensiero
presocratico, anziché quello aristotelico, mostrando così la sostanziale
estraneità di quella speculazione dalla vera dottrina dello Stagirita.
Come rileva Théry, «David de Dinant par ses conclusions erronées
avait compromis Aristote»54. È questa la vera ragione delle critiche
rivolte dai due maestri domenicani alla dottrina di David. Allo stesso
tempo, quest’operazione è rintracciabile anche laddove i due maestri

48
Ivi, p. XV.
49
Cfr. ivi, p. XVII.
50
Albertus Magnus, De homine, cit., p. 65.
51
Id., Summa theologiae, in Opera omnia, cit., pars II, tr. 1, q. 4, m. 3, p. 108, p.
110; cfr. G. Théry, Autour du décret de 1210: David de Dinant. Études sur son pan-
théisme matérialiste, cit., pp. 76-78.
52
Id., De homine, cit., p. 63; Id, Metaphysica, cit., p. 55.
53
Id., Summa theologiae, in Opera omnia, cit., pars II, tr. 1, q. 4, m. 3, p. 108;
cfr. G. Théry, Autour du décret de 1210: David de Dinant. Études sur son panthéisme
matérialiste, cit., pp. 76-78, pp. 86-93.
54
G. Théry, Autour du décret de 1210: David de Dinant. Études sur son panthéisme
matérialiste, cit., p. 21.
il vinculum nexus nella relazione tra unità e molteplicità 151

domenicani riconducono il materialismo di David alle tesi dei Pitagorici


e degli Eleati criticate da Aristotele.
Agli occhi di Alberto, David de Dinant è uno «stultissimum
ridiculum»55, «ille stultissumus, qui numquam aliquid vere et bene
intellexit»56, e la sua dottrina è un «error iste pessimus error est, et contra
philosophiam, et contra Catholicam fidem»57. E così, per Tommaso,
David è «qui stultissime posuit Deum esse materiam primam»58; e an-
cora, «in hoc autem insania David de Dinando confunditur, qui ausus
est dicere Deum esse idem quod prima materia»59. La ragione di un così
duro giudizio da parte di Alberto risiede nella necessità di condanna
di chi aveva fornito un’interpretazione d’Aristotele contraria alla fede
cattolica e che rendeva particolarmente complesso un utilizzo teologico
dell’aristotelismo. Non va dimenticato che la condanna dei testi di
David non concerneva esclusivamente la sua dottrina, ma anche i Libri
Naturales di Aristotele che erano stati commentati proprio dal filosofo
di Dinant. E questa è anche la ragione di una così dura critica da parte
di Tommaso, il quale, come nota Théry, raramente si lascia sfuggire «un
qualificatif aussi désobligeant et qui nous révèlerait chez lui quelque
mouvaise humeur de philosophe»60. Per i due maestri domenicani, le
tesi del filosofo di Dinant sono connotate da un materialismo che non
si concilia né con l’ortodossia cattolica, né con la filosofia peripatetica.
Letture e interpretazioni, queste, centrate esclusivamente sul problema
della materia e della sua identità con Dio, ma che pongono in secondo
piano la tesi della necessaria coessenzialità di hyle e mens. Il pensiero di
David, come ricostruito attraverso i commenti di Alberto e di Tommaso

55
Albertus Magnus, Super II Sententiarum, in Opera omnia, cit., lib. II, d. I, a.
5, p. 18.
56
Ivi, lib. II, d. I, a. 5, p. 17.
57
Id., Summa Theologiae, in Opera omnia, cit., pars II, tr. XII, q. 72, m. 4, a. 2,
44, p. 45.
58
Sancti Thomae Aquinati Summa Theologiae, in Opera omnia iussu impensaque
Leonis XIII P.M. edita, Romae 1888-1906, I, t. IV, 1888, q. III, art. 8, p. 48.
59
Id., Summa contra gentiles, in Opera omnia, cit., t. XIII, lib. I, cap. 17, p. 47.
60
G. Théry, Autour du décret de 1210: David de Dinant. Études sur son panthéisme
matérialiste, cit., p. 85.
152 giulio gisondi

è, secondo Théry, fortemente marcato da due errori fondamentali legati


all’interpretazione di Aristotele: nell’analisi del rapporto tra sostanza e
accidenti, «son esprit unilatéral et semplificateur n’a point compris la
théorie de l’analogie»61; inoltre, egli ha privato le forme «de leur existen-
ce véritable», intendendole come «apparences d’être»62. Riprendendo i
due maestri domenicani contro l’eresia di David, la materia e le forme
esistono, secondo Théry, «non point sans doute d’une façon identique,
mais analogiquemente»63. In questa prospettiva, il filosofo di Dinant è
un dialettico, un sofista e un materialista che non ha compreso la teoria
dell’analogia e delle forme sostanziali, ma che ponendo l’essere nel cuore
della materia ha considerato le forme dei puri accidenti. Tuttavia, come
rileva ancora Dagron, «en parfait thomiste, Théry invoque finalement,
contre David, deux doctrines qui ne se trouvent pas chez Aristote: celle
de l’analogie et celle des formes substantielles»64.

3. Forme neoplatoniche della ricezione di David de Dinant: da Cu-


sano a Ficino

Attraverso le ricostruzioni dell’opera di David svolte da Alberto e


Tommaso è possibile soltanto intravedere alcune delle questioni pre-
senti nei Quaternuli e che, a partire dall’edizione del 1963 di Kurd-
zialek, è dato considerare più chiaramente. Si tratta della necessaria
coappartenenza di mens e hyle, del rapporto tra un intelletto attivo e
un intelletto passivo, nonché della relazione tra l’unicità dell’essere e
la molteplicità dei suoi accidenti. Dall’esame diretto dei frammenti è
possibile comprendere come la prospettiva materialista criticata da Al-
berto e Tommaso rappresenti un’analisi soltanto parziale e strumentale
del suo pensiero.

61
Ivi, p. 31.
62
Ibidem.
63
Ibidem.
64
T. Dagron, David de Dinant. Sur le fragment Hyle, Mens, Deus, des Quaternuli,
cit., p. 421.
il vinculum nexus nella relazione tra unità e molteplicità 153

Occorre sempre distinguere tra il David dei Quaternuli e quello


conosciuto tramite la tradizione scolastico-tomista. È quest’ultimo, il
materialista, l’eretico che non ha compreso il rapporto tra la sostanza
e i suoi accidenti, l’autore che Bruno ha modo di conoscere attraverso
la lettura mediata dai riferimenti di Tommaso e Alberto. E proprio
questa ragione chiarisce due aspetti del ricorso bruniano alla sua fonte
indiretta: il primo è legato alla genericità dei riferimenti a David, che
non approfondiscono mai il pensiero dell’autore citato; il secondo,
invece, ha a che fare con un breve passaggio del De la causa in cui,
ripercorrendo la questione della materia quale sostanza che non riceve le
forme dall’esterno, né le appetisce, ma le «manda dal suo seno»65 e che,
«se ben si contempla è uno essere divino nelle cose»66, egli si domanda
se non fosse proprio questo ciò che «volea dire David de Dinanto, male
inteso da alcuni che riportano la sua opinione»67.
Questo dubbio è probabilmente il frutto di una lettura indiretta
della dottrina di David attraverso fonti non scolastiche. Gli scritti di
Cusano, ad esempio, rappresentano un canale di accesso alternativo
e neutrale sia alle tesi di David, sia a una certa tradizione di pensiero
neoplatonica. Nell’Apologia doctae ignorantiae il cardinale di Cusa as-
socia il filosofo di Dinant a Dionigi Areopagita, Eriugena, Bertoldo di
Mosburg, inserendolo in un contesto di autori di tradizione e cultura
neoplatonica68. A differenza dell’atteggiamento espresso da Alberto e
Tommaso, quello di Cusano si pone, «senza alcuna prevenzione nei
confronti di David che annovera, con evidente manifestazione di stima,
tra quegli autori di difficile comprensione le cui opere non debbono
essere lasciate ai “viris parvi intellectus”»69. Si tratta di una conoscenza
diretta dell’opera di David70, come rileva lo stesso Théry, il quale anno-

65
Causa, p. 274.
66
Ibidem.
67
Ibidem.
68
Cfr. G. Théry, Autour du décret de 1210: David de Dinant. Études sur son pan-
théisme matérialiste, cit., p. 25.
69
E. Casadei, I testi di David de Dinant: filosofia della natura e metafisica a confronto
col pensiero antico, cit., p. 23.
70
Ibidem.
154 giulio gisondi

vera Cusano tra quei pochi eruditi che nel XV secolo potevano ancora
interessarsi all’opera del filosofo di Dinant71. Quello di Cusano è un
approccio differente rispetto a quello di Alberto e di Tommaso: nel
Tetralogus de non aliud il cardinale non sembra condizionato nel suo
giudizio dalle critiche dei due maestri domenicani nei confronti di un
pensatore considerato eretico, anzi lo include tra coloro che «minime
errarunt»72 nel definire Dio hyle, nous et physis.
L’accesso non mediato ai Quaternuli fa emergere questioni e inter-
pretazioni che erano state o poste in secondo piano, oppure omesse a
favore di una riabilitazione dell’aristotelismo in senso teologico. Dai
riferimenti presenti negli scritti del cardinale di Cusa, Bruno ha ac-
cesso a un’interpretazione della filosofia di maître David ripulita dalle
critiche e dai giudizi scolastici. Tramite Cusano egli può intravedere
e riproporre una delle maggiori questioni della dottrina del filosofo di
Dinant, vale a dire quella coincidentia o identità nell’Uno o Dio di hyle
e mens, materia e forma, potenza e atto, o meglio, posse facere e posse
fieri, potestà di fare e potestà d’esser fatto. Si tratta del riconoscimento
della necessità che per essere bisogna innanzitutto poter essere: una
potenza attiva che opera come causa efficiente e principio formale e
una potenza passiva, intesa in un duplice senso; passivamente come
sostrato, ovvero possibilità d’azione dell’agente, e attivamente come ciò
che attualizza l’agente stesso.
Bruno ricava quest’indissolubile reciprocità tra potestà di fare e potestà
d’esser fatto, proprio dal posse facere e posse fieri del De possest cusaniano73

71
Cfr. G. Théry, Autour du décret de 1210: David de Dinant. Études sur son pan-
théisme matérialiste, cit., p. 24.
72
N. Cusano, Trialogus de non aliud, in Opere filosofiche, teologiche e matema-
tiche, E. Peroli (a cura di), Milano 2017, XVII, rr. 81-82, p. 1536: «David igitur de
Dynanto et philosophi illi quos secutus is est, minime errarunt, qui quidem deum,
hylen et noyn et physin, et mundum visibilem deum visibilem nuncuparunt. David
hylen corporum principium vocat, noyn seu mentem principium animarum, physin
vero naturam principium motum et illa non vidit differre inter se ut in principio,
quocirca sic dixit».
73
Cfr. P. Secchi, «Del mar più che del ciel amante». Bruno e Cusano, Roma 2006,
p. 106.
il vinculum nexus nella relazione tra unità e molteplicità 155

e, prim’ancora, dalla lezione di maître David. Porre il principio materiale


come realmente predicabile solo se in relazione alla forma e viceversa,
equivale a stabilire i termini del rapporto tra identità e differenza, ad
affermare, cioè, una verità che si costituisce solo attraverso la reciprocità
di opposte e differenti prospettive. Sta in questo l’approccio dialettico
del Nolano: considerare la relazione che lega la materia e la forma prima
dal punto di vista dell’una, poi dell’altra, riflette come esse trapassino
l’una nell’altra, divenendo entrambe polarità dell’unità e della molte-
plicità. Ciò è possibile per Bruno in quanto sia la forma che la materia
sono, nella loro identità, espressione dell’Uno, della causa e principio
primo, sostanza unica, infinita e permanente. Come la forma è Uno e
tutto, al pari lo è la materia, e ciascuna delle due può essere espressione
del tutto solo nel reciproco e complementare rinvio all’altra74.
Un ulteriore canale di trasmissione delle tesi contenute nei Quater-
nuli è rappresentato anche da Ficino. Come ha ricostruito Sebastiano
Gentile, è attraverso le pagine del De homine e della Summa theologiae
di Alberto, che l’accademico fiorentino ha «attinto le sue nozioni su
“Davide Dinanteo”, ricavandone verosimilmente non tanto l’immagine
dell’eretico da condannare, quanto quella di un filosofo fortemente lega-
to al pensiero greco antico»75. E in effetti, seguendo lo stesso approccio
albertiano, Ficino inserisce nell’opuscolo Di Dio et anima il nome di
David all’interno della tradizione filosofica presocratica e pagana che
ha sostenuto la tesi dell’unità del tutto e dell’animazione universale,
ponendolo di fianco a Orfeo, Virgilio, Lucano e altri autori antichi76. Se

74
Cfr. Causa, p. 247.
75
S. Gentile, In margine all’epistola “De divino furore” di Marsilio Ficino, cit., p. 33.
76
M. Ficino, Di Dio et anima, in Supplementum ficinianum, P. O. Kristeller (a
cura di), Firenze 1973, vol. II, p. 138: «Sicché il mondo non è altro che uno animale
massimo, circulare, eterno, nel cui gremio gli altri animali vivono, e questa anima
del mondo chiama Iddio. Di questa sententia fu etiamdio Orfeo, poeta antiquissimo,
el quale chiamava la predetta anima Giove. Col quale s’accorda Varrone philosophao
Romano et David Dinanteo e Lucano poeta, Seneca stoico con molti altri Stoici phi-
losophai. Ancora vogliono alcuni simile essere stata opinione di Pitagora, Anaxagora,
Heraclito, Talete, et la medesima sententia canta Virgilio nella Eneida et etiamdio
nella Giorgica con grande elegantia».
156 giulio gisondi

in Alberto l’accostamento di David alla tradizione presocratica e pagana


è funzionale a una sua generale condanna, in Ficino esso è teso, almeno
inizialmente, a riformulare e a ribaltare il giudizio espresso dal maestro
domenicano senza particolari censure. Come osserva ancora Gentile,
«il Ficino degli anni 1457-1458 probabilmente non si trovava per nulla
d’accordo sulla censura, direi quasi il dileggio con cui sia Alberto, che
poi Tommaso, colpirono il pensatore eretico»77. Non a caso, il nome di
David compare una seconda volta nel Di Dio et anima, «tra coloro che
avrebbero sostenuto Dio essere sfera corporale, in contrapposizione a
Ermete, che l’avrebbe definito invece sfera intellegibile – senza alcuna
acrimonia, in un contesto peraltro schiettamente dossografico»78.
Seguendo ancora la mediazione albertiana, Ficino associa anche
nel Commentarium in Philebum Platonis il nome di David a quello
di Democrito, Anassagora e Zenone, ovvero a quei filosofi criticati
da Aristotele e dall’aristotelismo scolastico che avevano affrontato il
problema del rapporto tra l’unità della sostanza e la molteplicità delle
sue manifestazioni79. Egli accosta il nome e la dottrina di David non
soltanto alla tradizione eleatica, atomistica e platonica, ma anche ad
Avicebron, secondo un canone ricorrente anche nei testi di Alberto.
Tuttavia, mentre per il maestro domenicano il porre i presocratici cri-
ticati da Aristotele sullo stesso piano dei contemporanei, David e Avi-
cebron, equivale a un loro rigetto, poiché tutti contrari sia alla dottrina
dello Stagirita, sia alla vera dottrina cattolica, per Ficino, invece, tale
accostamento assume una significazione completamente rovesciata e

77
S. Gentile, In margine all’epistola “De divino furore” di Marsilio Ficino, cit., p. 69.
78
Ibidem.
79
M. Ficini Commentarium in Philebum Platonis, in Opera, Basilea 1576, vol. II, p.
1211: «Quod quidem corpus non est, ut Democritii dicunt, multas enim corpus habet
partes […]. Neque mens, ut Anaxagoras, mentis enim actio est ut se ipsam intelligat;
est igitur in mente quod intelligit intellectioque et quod intelligitur. Neque vita, ut
Zenon, est enim vita motus essentiae, in ea igitur duo sunt saltem et esse scilicet et
moveri. Neque essentia ipsa, ut Dinantes, nam uno quidem participant omnia, essentia
vero non omnia; fluxus enim privationesque essentiam nullam habent, unum tamen
esse non negantur. Neque ipsum esse, ut Alpharabius et Avicebron, est enim actus es-
sentiae et essentiae cum praesenti momento participatio, ut in Parmenide dicit Plato».
il vinculum nexus nella relazione tra unità e molteplicità 157

tutt’altro che negativa: «non ha toni polemici la menzione di Davide che


figura nel Commentarium in Philebum»80. La scelta ficiniana d’inserire
questi autori in una stessa prospettiva teorica equivale a riconoscere
una continuità nella loro riflessione ontologica, quasi a indicare la loro
coappartenenza a una stessa, grande ed eterogenea tradizione filosofica.
Se l’approccio di Ficino a questi autori e il loro recupero sono legati alla
lettura e all’eredità delle opere di Alberto, così non è relativamente al
giudizio sulle loro dottrine.
Diverso è, invece, il caso della Theologia platonica, laddove al termine
del libro XV, forse più per ragioni di ortodossia, Ficino cita David come
quel «barbarum quedam Dinantem […] qui dei portiones quasdam
esse nostras animas voluerunt sive deum»81, conformandosi ai giudizi
di derisione espressi da Alberto e da Tommaso. L’approccio e l’utilizzo
ficiniano della fonte albertiana, con l’iniziale positiva rivalutazione della
dottrina di David nel Commentarium in Philebum Paltonis e nell’opu-
scolo Di Dio et anima, costituisce un modello metodologico di ciò che
Bruno compie tra il De la causa e il De vinculis, recuperando proprio
attraverso i testi di Alberto, di Tommaso, di Cusano e dello stesso
Ficino, le tesi del filosofo di Dinant e quelle di Avicebron. Se, infatti,
uno degli elementi ricorrenti della critica albertiana a David consisteva
nell’accostare quella filosofia ai presocratici criticati da Aristotele, Bruno
recupera proprio quest’accostamento rovesciandolo in senso positivo.

4. Ontologia e magia tra il De la causa e il De vinculis

Come per Ficino, così anche per Bruno, David de Dinant appartiene
a quella eterogenea tradizione filosofica presocratica che ha interrogato il
problema del rapporto tra l’unicità della sostanza e la molteplicità delle
sue manifestazioni in senso non aristotelico. È a Pitagora, Senofane,
Parmenide, Melisso, Eraclito, Anassagora, anziché alla filosofia peripa-
tetica, che egli ricorre sistematicamente nell’affrontare questo problema

80
S. Gentile, In margine all’epistola “De divino furore” di Marsilio Ficino, cit., p. 69.
81
M. Ficini, Theologia Platonica, in Opera, cit., vol. I, lib. XV, cap. 19, p. 367.
158 giulio gisondi

non soltanto nel De la causa, ma in gran parte della sua produzione


sia latina sia volgare. Le argomentazioni di maître David sull’unicità
dell’essere e sull’eleatismo, criticate da Alberto e poi da Tommaso, sono
sistematicamente riprese e riabilitate da Bruno nei termini opposti,
rovesciando gli stessi aggettivi utilizzati dai due maestri domenicani.
Non è un caso se l’aggettivo a cui egli ricorre nel richiamare David,
riprendendo la tesi dell’unità in Dio di materia e forma, sia proprio
quel pazzo o stultum utilizzato in opposizione ai giudizi formulati dai
due maestri domenicani.
Con il richiamo alla dottrina condannata dei Quaternuli Bruno vuol
ridestare un lessico e una filosofia sepolta dall’autoritarismo e dall’ari-
stotelismo scolastico-tomista. Non si tratta semplicemente di riprendere
le tesi di una filosofia perduta, ma di far riemergere dalle ceneri del
rogo dei testi di maître David – un rogo sia fisico che della memoria
– lo spirito delle fonti che avevano alimentato il pensiero dell’identità
nell’Uno/Dio di materia e forma, proponendo un’alternativa al modello
teologico e filosofico egemone. Attraverso il ricorso alle tesi del filosofo
di Dinant, come a quelle di Avicebron, Bruno rintraccia un precedente
all’idea di una materia quale sostrato unico, sostanza infinita in atto, da
cui le forme particolari, singolari e differenti traggono la loro origine.
Queste ultime, ben lontano dall’essere assunte come forme sostanziali,
sono explicationi di un soggetto unico.
Le questioni affrontate nei quattro dialoghi del De la causa – fatta
eccezione per il primo che si struttura come una replica agli attacchi
ricevuti dopo la pubblicazione della Cena – riguardano l’esame delle
cause e dei principi. Dopo aver posto nel dialogo II una premessa di
tipo gnoseologico e una distinzione tra la causa prima e principio primo
e le cause e principi prossimi, l’analisi volge sul concetto di forma, «la
quale ha più raggion di causa che di principio»82. Passando in rassegna
una molteplicità di tradizioni e lessici filosofici differenti, Bruno indi-
vidua nell’anima del mondo quella causa «la quale si distingue»83 da

82
Causa, p. 168.
83
Ivi, p. 166.
il vinculum nexus nella relazione tra unità e molteplicità 159

un punto di vista puramente logico «in efficiente, formale e finale»84,


ma che di fatto è da considerarsi come assolutamente unitaria. Nell’in-
telletto universale «prima e principal facultà dell’anima del mondo»85,
egli riconosce la causa e principio formale86. Seguendo la metafora
biologico-vitalistica87, l’anima del mondo è l’«artefice interno»88, causa e
principio che agisce dal centro o dal seno della materia, comunicandosi
a tutto ciò che essa vivifica.
Dopo aver esaminato la questione a partire dal punto di vista del-
la forma, quasi a sembrare questa l’unica causa, la prospettiva slitta
gradualmente, laddove nel dialogo III il nodo problematico diviene
il rapporto, il nexus o l’identità di materia e forma, potenza e atto. In
questa sezione dell’opera il Nolano capovolge la questione, passando
dalla considerazione della forma a quella della materia. Egli svolge
qui una serie di considerazioni sottese ad accogliere l’istanza moni-
sta racchiusa nella nozione di materia ma evitando, al tempo stesso,
d’assolutizzare una visione materialistica della realtà fisica. È questo
il problema al centro della discussione tra i due personaggi principali
del De la causa, Dicsono e Teofilo: il primo riconoscibile nell’inglese
Alexander Dicson autore del De umbra rationis, trattato di mnemo-
tecnica pubblicato a Londa nel 1584; il secondo invece portavoce della
nolana filosofia nel dialogo.
L’intuizione materialistica espressa da Dicsono, per cui la materia è
un tutto, coglie a detta di Teofilo soltanto un lato della verità, ma pecca
nell’assolutizzarla, nel concepire tutta la realtà esclusivamente come
materia. Il primo comprende correttamente che le forme particolari
vadano ricondotte nel cuore del sostrato materiale: rispetto a queste
è corretto riconoscere nella materia il «sol principio substanziale»89, e
intenderle come explicatione d’accidenti che «dal seno di quella esceno,

84
Ibidem.
85
Ivi, p. 210.
86
Cfr. ivi, p. 211.
87
Cfr. Ibidem.
88
Ibidem.
89
Causa, p. 241.
160 giulio gisondi

et in quello si accogliono»90. Tuttavia, l’errore consiste non nell’avere


inteso che la divinità sia immanente alla materia, ma nel non aver ri-
conosciuto che lo è anche della forma e come questa sia assolutamente
necessaria e complementare all’altra91.
Questa suddivisione tra due principi distinti e complementari, l’a-
nima del mondo di cui le anime individuali non sono che riflessi, e la
materia di tutte le sostanze corporee e incorporee, recupera il modello
del rapporto identità-differenza e la stessa coincidenza di hyle e mens
attribuita da Alberto e da Tommaso a David de Dinant92. Il fine ultimo
del processo dialettico elaborato da Bruno nel De la causa non è, però, di
risalire dalla molteplicità degli elementi e delle differenze per arrestarsi
all’unità, ma quello di dispiegare l’essere dialettico della sostanza. È
questo il compito del percorso speculativo rintracciabile nuovamente
nel De vinculis, tappa finale del processo che dal molteplice conduce
all’unità e dall’unità ritorna nel dominio del molteplice, della differenza
e della contrarietà. In questo senso, se il De la causa costituisce, come
Bruno la definisce, una «isagogia»93 o una propedeutica nell’ascenso dal
molteplice all’Uno, il De vinculis traccia il percorso inverso, vale a dire
la discesa e il rifrangersi dell’unità, del legame originario di materia e
forma o del vincolo d’amore universale, nella molteplicità e contrarietà,
in un orizzonte in cui la dimensione antropologica, civile, politica e
storica è assorbita in quella naturale. Nel De la causa è già tracciato,
seppur in chiaroscuro, il rapporto tra ontologia e magia, intesa quest’ul-
tima in un senso che è insieme naturale e civile:

90
Ibidem.
91
Ivi, pp. 242-243: «Niente assolutamente opera in se medesimo, e sempre è qual-
che distinzion tra quello che è agente e quello che è fatto, o circa il quale è l’aczione et
operazione: là onde è bene nel corpo della natura distinguere la materia da l’anima;
et in questa distinguere quella raggione delle specie. Onde diciamo in questo corpo
tre cose: prima l’intelletto universale indito nelle cose; secondo, l’anima vivificatrice
del tutto; terzo il suggetto».
92
Cfr. Albertus Magnus, Summa Theologiae, in Opera Omnia, cit., vol. XXXIII,
pars II, tr. XII, q. 72, m. 4, art. 2, p. 42.
93
Causa, p. 174.
il vinculum nexus nella relazione tra unità e molteplicità 161

In conclusione chi vuol sapere massimi secreti di natura, riguardi


e contemple circa gli minimi e massimi de gli contrari et oppositi.
Profonda magia è saper trar il contrario, dopo aver trovato il punto de
l’unione. A questo tendeva il povero Aristotele ponendo la privazione (a
cui è congionta certa disposizione) come progenitrice, parente e madre
della forma: ma non vi poté aggiungere, non ha possuto arrivarvi;
perché fermando il piè nel geno de l’opposizione, rimase inceppato di
maniera, che non descendendo alla specie de la contrarietà, non giunse
né fissò gli occhi al scopo: dal quale errò a tutta passata, dicendo i
contrarii non posser attualmente convenire in soggetto medesimo94.

Vale la pena sottolinearlo: «chi vuol sapere massimi secreti di natu-


ra, riguardi e contemple circa gli minimi e massimi de gli contrari et
oppositi. Profonda magia è saper trar il contrario, dopo aver trovato il
punto de l’unione». Non è un caso che Bruno ponga quest’affermazione
a conclusione del De la casusa, al termine del lungo e faticoso processo
conoscitivo che porta a riconoscere come ogni cosa sia riflesso, segno,
simulacro e vestigio dell’unica infinita potentia absoluta, indivisibile
e infigurata, come tutto ritorni a essa. Come a dire a quel filosofo,
sapiente, mago o principe cui egli si rivolge: il lavoro non è ancora
compiuto. Non è sufficiente astrarsi dal mondo civile per ritrovare
l’unità, ma occorre far ritorno nella contrarietà del vivente con le sue
differenze e contraddizioni, per agire su di esse. È questo l’orizzonte
di operatività descritto nel De vinculis.
La convinzione di una conoscenza che è realmente tale solo se
orientata all’agire, in cui non vi è scissione tra theoria e praxis, perché
l’una non si pone senza l’altra, accompagna tutta la riflessione bruniana,
a tal punto che a un conoscere in cui «non si riporta qualche frutto di
prattica, sarebbe stimata vana ogni operazione»95. Nell’affermazione
conclusiva del De la causa è in gioco uno dei problemi principali della
sua filosofia. Non è sufficiente al filosofo risalire dalla dimensione della
contrarietà e della differenza, dalla finitezza degli elementi all’infinità

94
Ivi, p. 295.
95
Ivi, p. 168.
162 giulio gisondi

dell’Uno. Occorre «saper trarre il contrario dopo aver trovato il punto


de l’unione», riconoscere cioè la relazione che sussiste tra identità e
differenza, in modo da poter operare nella contrarietà per riportare
queste ultime alla loro unità. Sta in ciò il compito, come lo definisce
Papi, di quel «mago “politico” di tipo machiavellico»96 a cui Bruno
pensa nel rintracciare il legame, il vinculum o il laccio che funge da
principio d’unità universale. L’ontologia del De la causa costituisce
l’ossatura teoretica della sua filosofia, il fondamento necessario a ogni
indagine fisica e metafisica, come a ogni agire pratico, politico e civile.

5. Unità e legame tra il Sigillus e il De la causa: «unam simplicem


radicem»

Il riconoscimento del «punto de l’unione», del vincolo attraverso


cui ricondurre la molteplicità delle manifestazioni dell’essere all’unità,
incarna un’istanza filosofica espressa da Bruno già nel Sigillus prim’an-
cora del De la causa. Qui egli manifesta l’esigenza di riconoscere un
sostrato unico, la radice e il principio vitale a cui ogni cosa è legata:
«unum ergo proprium subiectum unam simplicem radicem et unum
virtuale principium recognoscit»97. Come sul piano ontologico dell’es-
sere, così su quello gnoseologico della conoscenza, «una lux illuminat
omnia, una vita vivificat omnia»98, per gradi differenti a seconda degli
elementi, dei corpi e delle loro complessioni e capacità. Bruno pensa
al sapiente come chi è in grado di cogliere l’unità della vita, dell’essere
e della conoscenza99.

96
F. Papi, Antropologia e civiltà nel pensiero di Giordano Bruno, Firenze 1968,
p. 293.
97
Sigillus, p. 224.
98
Ibidem.
99
Ibidem: «Atque altius conscendentibus non solum conspicua erit una omnium
vita, unum in omnibus lumen, una bonitas et quod omnes sensus sunt unus sensus,
omnes notitae sunt una notitia, sed et quod omnia tandem, utpote notitia, sensus,
lumen, vita, sunt una essentia, una virtus et una operatio».
il vinculum nexus nella relazione tra unità e molteplicità 163

Ogni sensibilità, ogni intelletto, ogni idea e azione riflettono e si


riflettono nell’unità. Dal punto di vista dell’Uno decade ogni distinzione
tra essenza, potenza e atto, tra essere, potere e agire, tra ente, paziente
e agente: «esssen/tia, potentia, actio; esse, posse et agere; ens, potens
et agens est unum, ita ut omnia sint unum»100. Questi modi dell’essere
sono una sola e identica cosa, «ut bene novit Parmenides unum omne et
ens»101. Il principiare e l’essere principiato, il fare e l’esser fatto, l’illumi-
nare e l’essere illuminato non sono ente, ma manifestazioni dell’ente102.
La necessità di assorbire tutte le forma della realtà materiale e ideale
nell’unità, e da qui trarle nuovamente fuori dall’Uno, non come alterità
dell’essere, ma in quanto sue molteplici explicationi, rappresenta l’esi-
genza monista insita nella nolana filosofia, nonché il punto di arrivo
del percorso del De la causa. Il desiderio di cogliere, nella molteplicità
degli accidenti e delle manifestazioni particolari, l’identità e l’unicità
dell’essere, costituisce una via necessaria per chiunque voglia procedere
non soltanto nel cammino della conoscenza, ma in ogni agire pratico.
Chi non compia questo percorso dai molti all’Uno, dai molteplici sensi
e gradi della conoscenza all’unico senso e a una conoscenza unica «nihil
intelligit, nihil facit […] nihil cognoscit et nihil operatur»103. Soltanto
coloro che abbiano compreso i gradi dell’unità a cui ogni cosa parte-
cipa, conformandosi a essa, sapranno conoscere e agire efficacemente
su ogni forma della realtà.
Questa prospettiva delineata nel Sigillus è la stessa rielaborata nel
dialogo V del De la causa, vale a dire quella profonda magia intesa come
capacità di estrarre e agire sui contrari, dopo aver riconosciuto come
questi siano legati gli uni agli altri e procedano da un’essenziale e pro-
fonda unità. In altre parole, per Bruno non è sufficiente, né totalmente
possibile, ricondurre il finito nell’alveo dell’infinito. Se, da un lato, egli
traccia un’immagine della realtà fisica e metafisica per cui tutto è Uno,

100
Ibidem.
101
Ibidem.
102
Ibidem: «Principiare autem principiatum esse, facere fieri, illuminare illumi-
nari, superius et inferius non ens sunt, sed entis, non sunt id quod unum, sed ea quae
unius vel ex uno vel de uno».
103
Ivi, pp. 224-226.
164 giulio gisondi

dall’altro, non lascia mai cadere il paradigma della differenza: senza


contrarietà e differenza, la stessa conquista dell’unità non ha valore, né
è realmente pensabile, se non come un astratto e indeterminato asserto
teorico. Solo facendo convivere dialetticamente identità e differenza,
infinità della causa e principio primo con la particolarità e contrarietà
delle forme finite, egli può esprimere l’immagine di una natura infinita
in atto. Quest’ultimo grado del percorso conoscitivo che dal molteplice
conduce all’unità e da questa ritorna nella differenza, poggia sul rico-
noscimento dell’«eccellenza della materia, la quale così coincide con la
forma, come la potenza coincide con l’atto»104.
Egli pone qui le fondamenta teoriche all’affermazione dell’identità di
materia e forma. La forma, causa e principio di distinzione e figurazione
degli enti, potestà di fare, non è svincolabile dalla potestà d’esser fatto,
dalla materia, sostrato infinito in cui, e non su cui, la forma agisce. La
forma non è predicabile senza la materia, come l’atto non lo è senza la
potenza, la quale non è principio di passività, ma forza plastica e infinita
che si dispone alla generazione di forme sempre differenti.
Materia e forma costituiscono due principi naturali, se non già la
stessa unigenita natura, posti in relazione l’uno all’altro e mai realmente
slegati o considerabili l’uno senza l’altro, se non da un punto di vista
logico105. Come la forma è Uno e tutto, al pari lo è la materia, e ciascuna
delle due è espressione del tutto solo nel complementare rinvio all’altra.
Materia e forma sono constanti e consustanziali, non essendovi una
precedenza dell’una sull’altra.
È nel riconoscimento di questa interdipendenza ontologica di mate-
ria e forma, di potenza e atto o potestà di fare e potestà d’esser fatto che si
colloca nel De vinculis il richiamo del De la causa, di David de Dinant
e di Avicebron. Recuperando nel trattato l’affermazione dell’identità
di materia e forma, Bruno le definisce, con un’espressione propria a

Causa, p. 169.
104

Ibidem: «Sesto, si conchiude un principio formale constante, come è conosciuto


105

un constante principio materiale; e che con la diversità de disposizioni che sono nella
materia, il principio formale si trasporta alla moltiforme figurazione de diverse specie
et individui […]. Settimo, come sia necessario che la raggione distingue la materia
da la forma, la potenza da l’atto».
il vinculum nexus nella relazione tra unità e molteplicità 165

David, unum et idem, una cosa e la stessa cosa, sottolineando il vincolo


che le lega e la loro consustanzialità:

Et divinum ergo quoddam est materia, sicut et divinum quoddam


existimatur esse forma, quae aut nihil est, aut materiae quiddam est.
Extra et sine materia nihil, sicut posse facere et posse fieri tandem,
unum et idem sunt, et individuo uno consistunt fundamento, quia
simul datur et tollitur potens facere omnia cum potente fieri omnia106.

L’analisi nel De vinculis dei vincula civilia, dell’agire pratico e della


dimensione politica s’inserisce in questa prospettiva filosofico natu-
ralistica, vale a dire nell’ontologia del De la causa, nella rivalutazione
della materia, principio divino al pari della forma, nella strutturazione
dialettica del rapporto tra unità e molteplicità.

6. L’antiqua vera filosofia nel ciclo della vicissitudine

Discutendo nella Cena l’ipotesi eliocentrica di Copernico, Bruno


definisce l’astronomo polacco come chi «dovea precedere l’uscita di
questo sole de l’antiqua vera filosofia, per tanti secoli sepolta nelle tene-
brose caverne de la cieca, maligna, proterva et invida ignoranza»107. Se
l’eliocentrismo rappresenta l’aurora dell’antiqua vera filosofia, «perfezzio-
ne della scienza speculativa e cognizione di cose naturali», attribuita a
«molti più antichi filosofi»108, per tanti secoli sepolta dall’aristotelismo,
«non tanto forse per imbecillità de intelletto, quanto per forza d’in-
vidia et ambizione»109, la nolana filosofia ne è la sua piena riscoperta e
affermazione.
L’antiqua vera filosofia è quella che ha individuato nella relazione
tra l’Uno e il molteplice una sostanza unica, immutabile e permanente,

106
De vinculis, pp. 518-520.
107
Cena, p 25.
108
Causa, p. 242.
109
Ivi, p. 281.
166 giulio gisondi

di cui le forme particolari sono volti e segni, che ha riconosciuto come


il movimento non attenga alla natura ma alle cose della natura, non
corrompa, l’unità della sostanza o dell’essere, ma solo le sue manife-
stazioni. Le verità espresse dai Pitagorici, dagli Eleati e dagli Atomisti
sono «amputate radici che germogliano, son cose antique che rivegnono,
son veritadi occolte che si scruopono», dopo secoli di tenebra, grazie al
«nuovo lume che dopo lunga notte spunta all’orizzonte et emisfero della
nostra cognizione, et a poco a poco s’avvicina al meridiano della nostra
intelligenza»110. Questo nuovo lume che riallaccia le fila del legame con
la verità degli antiqui philosophi, è il riconoscimento che «vero, uno et
ente son la medesima cosa»111, «che il tutto secondo la sustanza è uno:
come forse intese Parmenide, ignobilmente trattato da Aristotele»112.
Recuperando quest’antica verità, Bruno vuol interrompere il discorso
filosofico e teologico scolastico egemone, presentando la nolana filosofia
come l’uscita da un’epoca di oblio.
Se ciò può richiamare il mito di un’antica verità, di una prisca
theologia, di una rivelazione originaria tramandatasi in forma di sa-
pere religioso, magico e filosofico attraverso popoli, culture, lingue e
tradizioni differenti, centrale in una fonte come Ficino, l’operazione
compiuta da Bruno si colloca in un orizzonte radicalmente diverso ed
esclusivamente naturalistico in cui «il substitue […] au thème des prisci
teologi celui des prisci physici»113. La sapientia dei prisci theologi è una
rivelazione originaria, tramandatasi nel tempo attraverso molteplici
tradizioni teologiche e filosofiche, passando per una loro conciliazione
con la religione cristiana. La verità che il Nolano descrive, invece, non
è mai rivelazione, ma alternanza di memoria e oblio, occultamento e
disvelamento, secondo il ritmo naturale della vicissitudine, come il velo
di Pallade che lascia intravedere e insieme nasconde il volto della divina
verità. La scoperta del vero non corrisponde mai, come osserva Luigi

110
Infinito, p. 423.
111
Causa, p. 281.
112
Ivi, p. 252.
113
T. Dagron, Unité de l’ être et dialectique, cit., p. 163.
il vinculum nexus nella relazione tra unità e molteplicità 167

Ruggiu, all’imporsi «una volta per tutte della ragione sulle tenebre»114,
ma è fatica e conquista incessante a cui, «chi vuol sapere massimi secreti
di natura»115 deve rivolgersi in ogni ciclo naturale e storico. Ogni forma
di sapere, ogni dottrina, ogni verità e conquista umana, sia sul piano
della conoscenza, sia su quello pratico, non è acquisita una volta e per
tutte nel corso della storia. Ma, immersa nel ritmo naturale in cui ogni
forma di vita si alterna a un’altra e non permane mai in eterno, così
anche la storia umana procede secondo cicli di memoria e di oblio, in
cui a una forma di sapere se ne sovrappone un’altra che la scalza e ne
prende il posto. La relazione tra verità e oblio è la stessa che intercorre
tra l’essere e il suo explicarsi, tra l’alternarsi del giorno e della notte,
come recita la dedica del Candelaio alla Signora Morgana:

il tempo tutto toglie e tutto dà: ogni cosa si muta, nulla s’annichila;
è un solo che non può mutarsi, un solo è eterno, e può preservare
eternamente uno, simile e medesimo». Con questa filosofia l’animo
mi s’aggrandisse e me si magnifica l’intelletto. Però, qualunque sii
il punto di questa sera ch’aspetto, si la mutazione è vera, io che son
ne la notte, aspetto il giorno, e quei che son nel giorno, aspettano la
notte: tutto quel ch’è, o è cqua o llà, o vicino o lungi, o adesso o poi,
o presto o tardi116.

Come l’essere, così anche la verità, con il suo nascondersi e disve-


larsi, non è corrotta dalla mutazione poiché essa è il principio stesso
della mutazione. Il ritmo del nascondimento e del disvelamento della
verità è lo stesso che sussiste nella relazione tra l’Uno e i suoi molteplici
volti. Come le forme hanno origine dall’Uno e a questo fanno ritorno,
così anche le filosofie, le dottrine, le religioni, le culture, le civiltà e gli
stati, rientrano nella dimensione naturale e vicissitudinaria. Lo stesso
riconoscimento della verità, nel passaggio che dall’Uno conduce al

114
L. Ruggiu, La ripresa dell’antico in Giordano Bruno, in Giordano Bruno. Destino
e verità, D. Goldoni e L. Ruggiu (a cura di), Venezia 2002, p. 189.
115
Causa, p. 295.
116
Candelaio, p. 22.
168 giulio gisondi

molteplice e viceversa, è assorbito nella relazione tra oblio e memoria.


La riscoperta dell’antico non è, però, l’idea che la verità possa risiedere
esclusivamente in un perduto passato, ma che essa sia immersa, come
ogni produzione naturale, in un ritmo di manifestazione e nascondi-
mento, di memoria e oblio, di generazione e rigenerazione, e che occorra
in ogni momento custodirla e farla risplendere117.
L’orizzonte storico, civile e politico è completamente assorbito in
quello naturale. Alla filosofia naturale non è perciò estranea la rifles-
sione antropologica, connaturata e non svincolabile da quella ontolo-
gica e cosmologica. L’idea di vicissitudine, insieme al riconoscimento
dell’unità e dell’immutabilità dell’essere, consente di leggere le vicende
cosmiche, siano esse fisiche o storiche, come soggette allo stesso ritmo
ciclico di generazione e rigenerazione, di memoria e oblio. La «ruota del
tempo»118, con il suo movimento eterno, ingloba tanto l’ordine naturale
quanto quello storico, sociale, politico e religioso119. La vicissitudine

117
Cfr. Cena, pp. 33-34: «non è cosa nova, che non possa esser vecchia; e non è
cosa vecchia, che non sii stata nova […] come è la vicissitudine de l’altre cose, così
non meno de le opinioni et effetti diversi: però tanto è aver riguardo alle filosofie
per le loro antiquità, quanto voler decidere se fu prima il giorno o la notte. Quello
dumque al che doviamo fissar l’occhio de la considerazione, è si noi siamo nel gior-
no, e la luce de la verità è sopra il nostro orizzonte, overo in quello de gli adversari
nostri antipodi; si siamo noi in tenebre, o ver essi; et in conclusione si noi che damo
principio a rinovar l’antica filosofia, siamo ne la mattina per dar fine a la notte, o pur
ne la sera per donar fine al giorno: e questo certamente non è difficile a determinarsi,
anco giudicando a la grossa da frutti de l’una e altra specie di contemplazione». Cfr.
Infinito, p. 376: «s’aprirà la porta de l’intelligenza de gli principii veri di cose naturali,
et a gran passi potremo discorrere per il cammino della verità; la quale ascosa sotto
il velame di tante sordide e bestiale immaginazioni, sino al presente è stata occolta,
per l’ingiuria del tempo e vicissitudine de le cose, dopo che al giorno de gli antichi
sapienti successe la caliginosa notte di temerari sofisti».
118
Furori, p. 765.
119
Cena, p. 120: «cossì tutte le cose nel suo geno hanno tutte vicissitudine di
dominio e servitù, felicità et infelicità, de quel stato che si chiama vita e quello che si
chiama morte, di luce e tenebre, di bene e male. E non è cosa alla quale naturalmen-
te convenga esser eterna eccetto che alla sustanza che è la materia; a cui non meno
conviene essere in continua mutazione. Della sustanza soprasustanziale non parlo al
presente, ma ritorno a raggionar particularmente di questo grande individuo ch’è la
il vinculum nexus nella relazione tra unità e molteplicità 169

esprime il costante mutamento ritmico degli opposti e dei contrari,


che struttura, allo stesso modi, i processi naturali e quelli storici. Nella
molteplicità nulla è estraneo a questa continua trasmutazione, nemmeno
la materia la quale eternamente cangia le proprie forme. Includere le
vicende umane nel ciclo della vicissitudine equivale a ricollocare l’essere
umano tra tutti gli altri esseri naturali, negandogli ogni centralità, non
più fine ultimo della creazione, ma prodotto della natura al pari degli
altri, senza alcun privilegio o primato ontologico.

7. Essere e natura nella critica di Aristotele agli antiqui philosophi

La critica condotta da Aristotele nei capitoli II e III della Fisica


alla dottrina dell’essere di Parmenide procede dall’assunto che gli enti
naturali, o tutti o alcuni, sono in movimento, identificando la natura
come κίνησις e la fisica come studio del moto. Dall’indagine sulla physis
è escluso l’essere, sia esso uno o immobile. Quest’impostazione ricorre,
secondo Bruno, a un’argomentazione metafisica in ambito fisico, capo-
volgendo e separando le due prospettive, creando una frattura tra essere
e natura ed escludendo che il primo sia uno e molteplice. Aristotele
colloca l’essere parmenideo nel piano della molteplicità, annullando
la portata metafisica della tesi eleatica. In questo modo scompare ogni
distinzione tra la sostanza e i suoi accidenti, risultando impossibile
sostenere l’unicità dell’essere eterno e immutabile, poiché questo è to-
talmente assorbito nella molteplicità.
Nel libro I della Fisica, lo Stagirita sottolinea che «esaminare, intan-
to, se l’essere sia uno e immobile, non fa parte delle ricerche fisiche»120.

nostra perpetua nutrice e madre, di cui dimandaste per qual caggione fusse il moto
locale; e dico che la causa del moto locale, tanto del tutto intero, quanto di ciascuna
delle parti, è il fine della vicissitudine: non solo per che tutto si ritrove in tutti luoghi,
ma ancora perché con tal mezzo tutto abbia tutte disposizioni e forme; per ciò che
degnissimamente il moto locale è stato stimato principio d’ogni altra mutazione e
forma, e che tolto questo non può esser alcun altro».
120
Aristotele, Fisica, in Opere, trad. it., O. Longo e A. Russo, vol. III, Bari 1983,
lib. I, cap. 2, cl. 184b-185a, rr. 25-5 p. 4.
170 giulio gisondi

Queste considerazioni devono essere oggetto di un’altra scienza comune


a tutte le cose. Se la tesi degli eleati sull’immobilità dell’essere non ap-
partiene al dominio della fisica, tuttavia, non è del tutto estranea a una
scienza della natura. Le loro dottrine attengono non al piano delle realtà
in movimento, che sono oggetto della fisica, ma alle realtà immobili,
la cui considerazione spetta a una scienza anteriore, la metafisica121.
Oltre al problema metodologico legato alla definizione dell’ambito
della metafisica e di quello della fisica, Aristotele rivolge a Parmenide
e a Melisso una seconda e più profonda obiezione. Egli rifiuta la tesi
monista degli eleati, separando l’essere della cosa a cui l’essere è attri-
buito122. L’essere non è soggetto ma attributo che si predica di soggetti
individuali. Come il colore bianco non esiste come soggetto, ma come
attributo che si predica di tutte le cose bianche, così l’essere è un at-
tributo del soggetto e non qualcosa predicabile di per sé123. L’errore di
Parmenide consisterebbe nel tentativo di scindere l’attributo, l’essere,
dal soggetto a cui questo è attribuito. Anche laddove l’analisi aristote-
lica prende in esame l’essere non come attributo del soggetto, ma «in
quanto tale», questa si scontra con l’impossibilità di porre un essere che
sia distinto e separato da un soggetto di cui si predica l’esistenza124. Se

121
Cfr. De Coelo, in ivi, lib. III, cap. 1, cl. 298b-299a, rr. 5-25, p. 322.
122
Aristotele, Fisica, cit., lib. I, cap. 3, cl.185b-186a, rr. 5-10, p. 7: «Ragionando
in tal modo, risulta impossibile che l’essere sia uno, e non è difficile demolire le loro
argomentazioni. Entrambi, invero, sia Parmenide sia Melisso, fanno sillogismi eristici
[si fondano, infatti, su premesse false e il loro procedimento è illogico».
123
Ivi, lib. I, cap. 3, cl. 186a-b, rr. 20-35, p. 8: «Anche contro Parmenide si pro-
cede con gli stessi criteri, benché ve ne siano di più appropriati. E la confutazione si
fa sia perché egli erra nelle premesse, sia perché è incoerente nelle conclusioni: erra
nelle premesse, perché stabilisce di parlare dell’uno in senso assoluto, mentre poi ne
parla in molti sensi; è incoerente nelle conclusioni, perché, se pur si prendessero in
esame solo le cose bianche, pur significando ‘bianco’ un solo essere, non di meno
le cose bianche sarebbero molte e non una: ché né per continuità né per definizione
il bianco sarà uno, perché diversa è l’essenza del bianco da quella dell’oggetto che
l’accoglie, e non si potrà separare nulla tranne il bianco. Non si potrà, invero, operar
separazione, sebbene, in quanto all’essere, ci sia differenza tra il bianco e l’oggetto
cui esso inerisce. Ma ciò Parmenide non lo vedeva ancora».
124
Ivi, lib. I, cap. 3, cl. 186a-b, rr. 35-5, pp. 8-9: «È indispensabile, altresì, per gli
Eleati porre non solo che l’uno indica l’essere in relazione al quale esso sia predicato,
il vinculum nexus nella relazione tra unità e molteplicità 171

«l’essere in quanto tale» fosse sganciato da un soggetto, esso sarebbe


predicato di qualcosa che non è. Per uscire da quest’empasse occorre,
secondo Aristotele, rinunciare all’esigenza parmenidea dell’unità, com-
prendendo come l’essere possieda molteplici significazioni.

8. Fisica, metafisica e filosofia naturale. Essere e natura

La soluzione elaborata da Bruno al problema dell’unicità dell’esse-


re è radicalmente differente da quella aristotelica. La separazione tra
l’ambito e il linguaggio della fisica da quelli della metafisica risulta
inconciliabile sia nella prospettiva del De la causa, e negli altri dialoghi
italiani, sia nelle opere di commento ad Aristotele, negli Articuli ad-
versus Peripateticos, nel Camoeracensis Acrotismus, nei Libri physicorum
Aristotelis explanati e nella Summa terminorum metaphysicorum. Nel
definire in queste opere il procedere della fisica e quello della metafisica,
egli non distingue due campi d’indagine separati, ma due linguaggi
contraddistinti da differenti modi d’apprensione di un unico e mede-
simo oggetto, la natura125. Bruno intende restituire legittimità alla tesi
monista degli eleati, considerando la metafisica non più scienza delle
realtà sovrannaturali, ma indagine della natura considerata in quanto
causa delle cose naturali, principio del movimento che non è soggetto
a esso. Secondo una distinzione espressa nei Libri physicorum aristotelis
explanati, la conoscenza fisica è un’apprensione in obliquo della natura,
mentre quella metafisica è una forma di conoscenza che avviene in
recto126. Questa distinzione non riconosce alcuna separazione tra i due

ma anche porre l’essere in sé e l’uno in sé: infatti l’accidentale si predica in relazione


ad un sostrato: di guisa che ciò cui l’essere capita per accidente, non è (esso, infatti,
è altro dall’ente). Esso sarà, allora, qualcosa che non è affatto. Quindi, l’essere in
quanto tale non sarà inerente ad altro, giacché esso non apparterrà affatto all’essenza
di questa tal cosa, a meno che non si ammetta che l’essere stia a significare molte cose
e che, quindi ciascuna cosa in particolare è pure un certo essere. Ma si è supposto che
l’ente stia ad indicare una sola cosa».
125
Cfr. T. Dagron, Unité de l’ être et dialectique, cit., p. 161.
126
Libri physicorum, pp. 274-275.
172 giulio gisondi

ambiti d’indagine, ma soltanto una considerazione dello stesso oggetto


da prospettive differenti. Dai generi alle specie, dai corpi semplici ai
composti di natura soggetti al movimento e, quindi, alla generazione
e corruzione, fino alla natura intesa come principio della vicissitudine:
è questo il passaggio che si compie dalla considerazione fisica a quella
metafisica. La natura è movimento e principio del moto, molteplicità
e unità.
L’analisi fisica della natura attiene alla considerazione non della causa
e principio primo, dell’Uno immobile e infinito, dell’essere, ma dei suoi
accidenti, degli aggregati e composti particolari e finiti. Tra quest’in-
dagine e quella metafisica che ha, invece, come oggetto la coincidentia
di atto e potenza, di materia e forma, l’essere, vi è distinzione formale,
non reale. Si tratta, cioè, di due momenti apparentemente separati, ma
che costituiscono, invece, due modalità d’apprensione complementari
e necessarie l’una all’altra nella conoscenza della natura. Questa con-
siderazione è tesa a scardinare l’idea della scienza dell’essere come di
un sapere che procede da una rivelazione sovrannaturale, distinto da
quello fisico acquisito, invece, per lume naturale attraverso la ragione.
Quest’operazione sembrerebbe contraddire la premessa metodologica
che apre le prime pagine del dialogo II del De la causa, laddove Bruno
espone il campo proprio all’indagine fisica e quello che attiene alla
rivelazione o teologia127. Egli rigetta la ricerca della causa e principio
primo dal campo d’indagine del sapere naturale, limitandosi alle sole
cause fisiche. Seguendo il testo, si comprende che l’esclusione delle
cause sovrannaturali è fondata sulla distinzione tra un lume naturale,
una conoscenza umana, razionale e speculativa, contrapposta a «quelle
cose che son sopra la sfera della nostra intelligenza»128. Ma a ben vede-
re, quello che egli definisce è qui una filosofia naturale distinta dalla

Causa, p. 206: «Dico però che non si richiede dal filosofo naturale, che ammeni
127

tutte le cause e principii: ma le fisiche sole, e di queste le principali e proprie. Benché


dumque, perché dependeno dal primo principio e causa, si dicano aver quella causa
e quel principio, tutta volta non è sì necessaria relazione, che da la cognizione de
l’uno s’inferisca la cognizione de l’altro: e però non si richiede che vengano ordinati
in una medesima disciplin».
128
Ivi, p. 208.
il vinculum nexus nella relazione tra unità e molteplicità 173

teologia fondata sulla rivelazione, contrapposta a una metafisica intesa


come scienza di realtà immateriali separate dal campo fisico. A essere
messa in discussione non è semplicemente la separazione tra fisica e
metafisica, come svolta da Aristotele, ma la stessa definizione di filosofia
prima come scienza di un oggetto astratto e conoscibile soltanto per
mezzo di un intelletto purificato e libero dalla dimensione materiale e
corporea. Una tale filosofia prima denota, nella prospettiva bruniana,
una scienza delle realtà astratte assimilabile non alla metafisica, bensì
alla logica. È quanto emerge da un rapido scambio di battute tra i due
personaggi dell’Asino cillenico, appendice conclusiva della Cabala del
cavallo Pegaseo:

[Micco]: […] delle cose soprannaturali non si possono avere raggioni,


eccetto in quanto riluceno nelle cose naturali; percioché non accade
ad altro intelletto che al purgato e superiore di considerarle in sé.
[Asino]: Non si trova appo voi metafisica?
[Micco]: Non: e quello che gli altri vantano per metafisica non è altro
che parte di logica129.

L’idea di un essere astratto dalle realtà naturali non può costituire


l’oggetto di una scienza separata dalla dimensione fisica. Alla radice
del rifiuto di questa considerazione della fisica e della metafisica vi
è la riabilitazione della tesi parmenidea. Attraverso la ripresa di un
monismo dinamico e dialettico, Bruno può ripensare l’essere come
assorbito nella natura e, dunque, nella dimensione fisica, ma al tempo
stesso non soggetto al movimento. Pur definendo la natura movimento
e vita, Aristotele non ha compreso come questa sia immutabile, infinita
e permanente. La tesi aristotelica di un essere che si dice o si predica
in molti modi esclude la possibilità di riconoscere come questo sia
necessariamente uno.
Se non può esserci possibilità di conoscenza dell’unica sostanza,
di un essere astratto e separato dalla natura, ciò significa che questo
essere non può costituire l’oggetto di una scienza autonoma. La fisica

129
Cabala, p. 745.
174 giulio gisondi

e la metafisica non sono, pertanto, due forme di sapere indipendenti


l’una dall’altra: come osserva Dagron, «ces deux savoirs ont une meme
objet, la nature, et constituent une seule et meme science: la “philoso-
phie naturelle”»130. Quest’approccio scardina la gerarchizzazione sco-
lastica dei saperi, con la distinzione tra fisica e filosofia prima, e tende
a riallacciare la relazione, interrottasi con Aristotele e l’aristotelismo
scolastico, tra l’essere e le sue manifestazioni, tra l’Uno e la molteplicità.
Se nei dialoghi italiani non vi è separazione tra l’indagine fisica e
quella metafisica, essendo quest’ultima completamente assorbita nel-
la prima, una distinzione tra i due modi d’apprensione della natura
emerge soltanto a partire dalle opere di commento ad Aristotele. La
differenza tra una conoscenza della natura in obliquo e una in recto,
rintracciabile nei Libri physicorum è strettamente legata al commen-
to e all’opera di decostruzione dell’impianto della fisica peripatetica.
Questi testi sono raccolte di lezioni sulla Fisica, sul De generatione et
corruptione e sul De coelo, composti in latino e destinati a una diffusione
maggiormente accademica rispetto ai dialoghi. L’uso di un lessico e di
categorie aristoteliche è qui funzionale proprio a decostruire dall’in-
terno quell’impostazione fisica e metafisica, nel tentativo di riabilitare
la tesi monista eleatica.
Nel rifiuto bruniano della separazione aristotelica e scolastica tra
fisica e metafisica è rintracciabile un tema di origine averroista, mediato
dal naturalismo aristotelico padovano in opposizione alla formulazione
tomista del problema. Prim’ancora che nel modo d’intendere la relazione
tra fisica e metafisica, questo rifiuto agisce sul piano gnoseologico. Se
per Tommaso, ad esempio, la filosofia prima è separata dall’indagine
sulla natura e tratta di un ens communis indipendente dalla dimensione
materiale, la soluzione proposta da Averroè e ripresa da Pietro Pom-
ponazzi, è differente: essi tendono a dimostrare l’esistenza dell’essere
proprio attraverso l’indagine fisica. Per l’Aquinate, invece, le premesse,
il metodo e i principi della filosofia prima sono indipendenti da ciò che
è soggetto al movimento. La metafisica procede secondo modalità co-
noscitive distinte che non rientrano nel piano della dimostrazione fisica.

130
T. Dagron, Unité de l’ être et dialectique, cit., pp. 145-146.
il vinculum nexus nella relazione tra unità e molteplicità 175

Pomponazzi rifiuta l’idea tomista di una gerarchizzazione delle


discipline, in cui la metafisica occuperebbe il vertice e i cui principi
sarebbero indipendenti dall’ambito fisico. La ragione di questo rifiu-
to sta nell’impossibilità di un’apprensione intellettuale separata dalla
sensibilità e dalla corporeità. È la lettura del De anima di Aristotele
a legittimare questa linea interpretativa. Ogni forma di conoscenza
si fonda sulla percezione dei phantasmata e, pertanto, non è possibile
apprendere gli oggetti della metafisica se non in maniera imperfetta per
segni e tracce. L’apprensione sensibile e immaginativa costituisce la base
necessaria su cui poggiare ogni forma di scienza. L’intelletto umano che
opera formando immagini a partire dalla percezione sensibile non può
essere sganciato dalla dimensione materiale e corporea. La conoscenza
intellettuale umana è discorsiva e razionale poiché sottoposta allo spazio
e al tempo, a un procedere per composizione di elementi differenti e
contrari: la conoscenza metafisica di realtà separate dalla dimensione
spaziale e temporale richiamata da Tommaso non è, perciò, accessibile
all’intelletto umano131.
Nel suo rifiuto della metafisica come filosofia prima, separata e
indipendente dalla fisica, Bruno recupera la prospettiva gnoseologica
averroista e pomponazziana. E non è un caso, se si considera che,
durante gli anni precedenti l’entrata in convento, egli ebbe accesso a
un’interpretazione non scolastica di Aristotele, sia grazie all’insegna-
mento dell’aristotelico-averroista Giovan Vincenzo Colle da Sarno,
studioso di logica e dialettica, allievo di Gerolamo Balduino, lettore
presso lo Studio Pubblico di Napoli tra il 1560 e il 1565; sia attraverso la
lettura delle opere di Aristotele nell’edizione Giunta, traduzione latina
dell’intero corpus dello Stagirita nelle versioni medievali e umanistiche,
accompagnata dai commenti di Averroè anche nelle versioni inedite
ebraico-latine, curata dagli aristotelici naturalisti Jacopo Mantino,
Bernardino Tomitano, Marco Antonio Zimara, più volte ristampata a
Venezia tra il 1550 e il 1574, e ancora oggi conservata nel fondo della

131
Cfr. P. Pomponazzi, Tractatus de immortalitate animae, in Tutti i trattati pe-
ripatetici, testo latino a fronte, F.P. Raimondi e J.M. García Verde (a cura di), trad.
it. F.P. Raimondi, Milano 2013, pp. 932-1030.
176 giulio gisondi

Libraria di San Domenico Maggiore della Biblioteca Universitaria di


Napoli. Attraverso questi canali il giovane Bruno poté accedere a una
prima conoscenza di Aristotele, avvalendosi dei commenti di Averroè132,
più vicini a un’interpretazione naturalistica rispetto all’interpretazione
tomista. Quando entrò in convento egli non era, dunque, sprovvisto
di una preparazione filosofica, ma possedeva già sia i rudimenti della
tradizione neoplatonica, sia del naturalismo aristotelico averroista.
Se nel De la causa Bruno limita la sua indagine alle sole cause fisiche,
questa distinzione è tesa solo apparentemente a isolare la prospettiva
metafisica dalla filosofia naturale. In realtà, radicalizzando la posizione
averroista e pomponazziana, egli riconduce la metafisica nell’ambito
della filosofia naturale, ovvero alla considerazione della natura intesa
come causa e principio immobile del movimento. Se dalla prospettiva
fisica che muove dalla «cognizione di tutte cose dependenti non pos-
siamo inferire altra notizia del primo principio e causa che per modo
meno efficace di vestigio»133, ciò apre a una via metafisica di cui l’oggetto
è sempre la natura, non più considerata come movimento ma causa
e principio primo, immobile e permanente. Questo non è un rifiuto
della metafisica, quanto piuttosto il riconoscimento che il suo oggetto
non è qualcosa di distinto e separato dalla natura. La considerazione
della physis come principio del movimento fonda la possibilità di una
filosofia naturale che includa la metafisica distinguendola dalla teologia.

9. Prima e oltre Aristotele

L’obbiettivo della critica bruniana non è esclusivamente Aristotele,


quanto piuttosto l’aristotelismo scolastico e il suo utilizzo teologico.
L’errore dello Stagirita, reiterato e accentuato da questa tradizione,
consiste nell’aver frantumato la visione unitaria dell’essere e della natura

132
Cfr. E. Canone, Giordano Bruno lettore di Averroè, in Il dorso e il grembo
dell’eterno. Percorsi della filosofia di Giordano Bruno, Supplementi di «Bruniana &
Campanelliana», Studi 4, Pisa-Roma 2003, pp. 79-120.
133
Causa, p. 206.
il vinculum nexus nella relazione tra unità e molteplicità 177

dell’antiqua e vera filosofia. L’elemento di rottura che essa introduce


nella realtà è il principio logico e astratto della separazione: a partire
da questo la ragione umana si allontana dall’immagine di una natura
intesa come unità, vincolo universale che lega tra loro i molteplici volti
dell’Uno. Aristotele è colui «il quale mai si stanca di dividere con la
raggione quello che è indiviso secondo la natura e verità»134, ribaltando
il rapporto tra logica e realtà e affermando una ragione separatrice che si
contrappone alla stessa natura. Questa ragione aristotelica urta alla base
il motivo ispiratore della nolana filosofia: il tendere all’Uno è riconoscere
come in natura la molteplicità delle forme sia soggetta a una connexio
rerum, una connessione che lega con un vincolo d’amore universale
ogni explicatione della causa e principio primo principio complicato.
Il risultato del processo di categorizzazione aristotelica della natura
conduce, invece, all’oblio del legame attraverso cui ritrovare l’unità da
cui hanno origine la contrarietà e la molteplicità.
Pur utilizzando un lessico e concetti della tradizione aristote-
lica, Bruno tende a riformularli, riportando a unità ciò che ai suoi
occhi Aristotele ha diviso: materia e forma, potenza e atto, Dio e
natura. Le categorie e i termini che egli manipola possono essere
distinti logicamente soltanto ponendosi nell’orizzonte del finito, del
molteplice, della differenza e della contrarietà, non dell’Uno infini-
to e permanente, punto d’osservazione necessario nella conoscenza
dell’essere e della natura. Egli recupera la dottrina eleatica alla luce
di un Parmenide purgato dalle critiche aristoteliche e scolastiche,
considerando l’essere non più in senso logico, ma nel suo concreto e
naturale autoprodursi nei suoi molteplici volti. All’ontologia di un
essere che si dice in molti modi, quale quello che Aristotele oppone
all’eleatismo, Bruno recupera, invece, proprio l’idea di unità di un
essere come espressione della totalità e dal quale ogni cosa ha origine.
Nella sua unità, l’essere è ciò che tutto racchiude, infinta complicatio,
mentre nel suo dispiegarsi, nel suo generare da sé stesso la molteplicità
degli enti finiti e particolari, è continua explicatio.

134
Ivi, p. 222.
178 giulio gisondi

In questa rilettura dell’essere come relazione, fisica e insieme meta-


fisica, di unità e molteplicità, il principio di determinazione aristote-
lico perde la sua centralità. Se per lo Stagirita l’essere è caratterizzato
dal principio di non contraddizione, per Bruno, invece, la validità di
quest’assunto logico è riconosciuta esclusivamente nell’ambito del fi-
nito, dove sussiste differenza e distinzione tra i termini, non nell’Uno,
laddove potenza e atto, materia e forma sono una e medesima cosa.
Soltanto limitando l’indagine sulla natura al piano degli accidenti la
dimensione molteplice e finita appare come l’ultima determinazione
del reale. Occorre scavalcare il limite della contrarietà percepibile dai
sensi, per rintracciare con la ragione come tutto sia riconducibile a
un’unità occultata dalle apparenze. Permanere nel molteplice, nel finito,
equivale a essere estranei alla verità e alla comprensione della natura.
È questo, agli occhi di Bruno, il limite della filosofia aristotelica: l’aver
assolutizzato i volti finiti dell’essere, facendo di questi la prospettiva
privilegiata e unica nello studio della natura.
Alla base di quest’assolutizzazione del finito vi è, come già osservava
Rodolfo Mondolfo, l’idea predominante presso i Greci dell’indeter-
minabilità e della ciclicità del tempo135. La rappresentazione ciclica
dell’infinito temporale rende impossibile individuare, sia logicamen-
te sia geometricamente, un principio iniziale e uno finale. In quan-
to caratterizzata dal ritorno eterno su sé stessa, la circonferenza non
congiunge semplicemente il punto iniziale con quello finale, ma è la
negazione stessa di essi: ogni punto può essere indistintamente fine e
inizio. L’immagine ciclica del tempo eterno porta con sé un’accezio-
ne negativa dell’infinito: nella sua identità col tempo, «numero del
movimento»136, l’infinito è ciò che è eternamente divisibile, ma di cui,
allo stesso tempo, non si dà mai un’estensione attuale infinita. Per
Aristotele è, dunque, possibile dividere eternamente il tempo in quanto
non generato, ἀγένητον137. Al contempo, l’infinito è per lui «ciò che

R. Mondolfo, L’ infinito nel pensiero dell’età classica, Firenze 1956, p. 60.


135

Aristotele, Fisica, cit., lib. IV, cap. 11, cl. 219a-b, rr. 35-5, p. 103; lib. VIII,
136

cap. 1, cl. 251b, rr. 10-15, pp. 195-196.


137
Ivi, lib. VIII, cap. 1, cl. 251b, rr. 15-20, p. 196.
il vinculum nexus nella relazione tra unità e molteplicità 179

non è mai possibile percorrere»138, ἄπειρον, che non ha limite né luogo.


L’infinito è imperfetto poiché sfugge a qualsiasi possibilità di conoscen-
za, a qualsiasi definizione. Al contrario, la totalità è perfetta, in quanto
possiede un termine è intera: «ciò […] al di fuori di cui non c’è nulla,
è perfetto ed intero, ciò di cui non manca nulla»139.
La filosofia aristotelica rifiuta proprio l’dea d’infinità spaziale, ma-
teriale e temporale sostenuta da Bruno. Il passaggio dall’immagine di
un cosmo come totalità chiusa e geometricamente perfetta, a quella
di un universo infinito, segna una profonda rottura fisica, metafisica
e teologica. L’ontologia e la cosmologia esposte nel De la causa, nel De
l’ infinito e nel De immenso, pongono un principium plenitudinis140 che
induce la materia a generare eternamente, dal suo interno, i composti.
Questo principio di pienezza implica un’idea del tempo e del movi-
mento come di un processo che non si ripete mai in maniera identica,
ma che apre alla possibilità di pensare il movimento come perenne
rivoluzione o vicissitudine: un processo inarrestabile e senza scopo,
che non ritorna mai su sé stesso, ma in cui il movimento produce
incessantemente forme finite sempre differenti.
Questa rappresentazione dell’universo è inammissibile nella pro-
spettiva aristotelico-scolastica: non è possibile pensare il cosmo se non
come una sfera finita, gerarchica e immutabile, all’interno della quale si
verifica un movimento identico, in un tempo eterno, in cui sussistono
forme sostanziali eterne. In questo cosmo è ancora assente un’idea
cardine della filosofia bruniana, quella cioè della storicità della natura,
vale a dire la possibilità per l’universo e per ciò che ne è parte di perire
ed estinguersi, così come di generare forme completamente nuove. Nel
tentativo di ridestare un lessico e un pensiero sommerso, decostruendo
e riformulando le categorie aristotelico-scolastiche, Bruno afferma
l’infinità dell’essere e della natura come una verità nuova e, al tempo

138
Ivi, lib. III, cap. 5, cl. 204a, rr. 10-15, p. 61.
139
Ivi, lib. III, cap. 6, cl. 207a, rr. 5-10, p. 68.
140
Cfr. F. Papi, Antropologia e civiltà nel pensiero di Giordano Bruno, cit. pp. 21,
31-34, 169, 172.
180 giulio gisondi

stesso, antichissima, delineando la prospettiva filosofica e scientifica


nella quale opereranno le moderne fisiche seicentesche.

10. Eraclito e Parmenide nella nolana filosofia

Il ricorso di Bruno a Parmenide e a Eraclito costituisce un riferimen-


to centrale nell’elaborazione del problema ontologico e nella riscoperta
dell’antiqua e vera filosofia. Nella lettura bruniana, le loro dottrine non
sono inconciliabili, poiché se tutto è uno, allora, essere e divenire non
possono essere in contrapposizione. La tesi eraclitea dell’unità del tutto
comprende sia la mutabilità di tutte le cose, sia la permanenza della
sostanza unica. Questa tesi, che può apparire contradditoria, è invece
il riconoscimento della legge che riconduce a unità ogni contrarietà:

[…] ne l’ente summo, nel quale è indifferente l’atto dalla potenza, il


quale può essere tutto assolutamente, et è tutto quello che può essere;
è complicatamente uno, inmenso, infinito, che comprende tutto lo
essere: et è esplicatamente in questi corpi sensibili, et in la distinta
potenza et atto che veggiamo in essi. Però che volete che quello che
è generato e genera (o sia equivoco o univoco agente come dicono
quei che volgarmente filosofano) e quello di che si fa la generazione,
sempre sono di medesima sustanza. Per il che non vi sonarà mal ne
l’orecchio la sentenza di Eraclito, che dissero tutte le cose essere uno,
il quale per la mutabilità ha in sé tutte le cose; e perché tutte le forme
sono in esso, conseguentemente tutte le diffinizioni gli convengono:
e per tanto le contraddittorie enunciazioni son vere. E quello che fa
la moltitudine ne le cose, non è lo ente, non è la cosa; ma quel che
appare, che si rappresenta al senso et è nella superficie della cosa141.

L’affermazione che il tutto è uno non contraddice il perenne di-


venire a cui sono soggette le forme particolari e finite. Dal punto di
vista dell’Uno da cui ogni cosa ha origine e a cui fa ritorno, tutte «le

141
Causa, p. 285.
il vinculum nexus nella relazione tra unità e molteplicità 181

contraddittorie enunciazioni son vere». Il principio di non contraddi-


zione non vige nell’unità dell’essere infinito, ma soltanto nell’orizzonte
finito della molteplicità, della contrarietà e della differenza. Bruno
può, così, far convivere insieme, sovrapponendole come parte di una
stessa verità, la tesi dell’unità e immutabilità dell’essere, con quella del
perenne divenire o dell’eterna vicissitudine.
Ciò vuol dire, sul piano gnoseologico, che si ha conoscenza della
natura soltanto rintracciando la relazione che sussiste in ogni cosa e in
ogni punto dell’universo con tutti gli altri, ritrovando il vincolo che
lega ogni corpo ed elemento naturale in un unico organismo. Sin dal
De umbris, il processo conoscitivo segue lo stesso percorso della na-
tura: questa muove «a confusa pluralitate ad distinctam unitatem»142,
attraverso il legame che unisce ogni cosa alla causa e principio primo.
Procedere nella conoscenza dal molteplice all’Uno non vuol dire formare
degli universali logici astratti che estraggono dalle infime specie distinte
le specie medie e confuse e da queste le più confuse specie supreme.
Conoscere significa, invece, ricondurre a un’unità armoniosa una mol-
teplicità informata, indistinta e confusa. Tra i modi della conoscenza e
la relazione dell’Uno con il molteplice, tra l’essere e le forme del pensare,
sussiste una radicale, profonda e insuperabile identità.
Allo stesso modo, Bruno non interpreta l’essere di Parmenide come
ciò che, assolutamente semplice e astratto al modo di Aristotele, è pri-
vo di ogni differenza, ma tutte le include e le assorbe al suo interno.
Egli ripensa le differenze, i contrari e la molteplicità, recuperando la
distinzione parmenidea tra l’essere e le sue apparenze, o per dirlo nel
linguaggio della nolana filosofia, tra luce e ombra. Le ombre sono par-
venze, manifestazioni e volti particolari dell’essere, dell’unica sostanza
o della causa e principio primo nell’universo explicato:

Dite che quel tutto che si vede di differenza ne gli corpi quanto alle
formazioni, complessioni, figure, colori et altre proprietadi e commu-
nitadi, non è altro che un diverso volto di medesma sustanza; volto
labile, mobile, corrottibile, di uno immobile, perseverante et eterno

142
De umbris, p. 100.
182 giulio gisondi

essere; in cui son tutte forme, figure e membri: ma indistinti e come


agglomerati, non altrimente che nel seme, nel quale non è distinto il
braccio da la mano, il busto dal capo, il nervo dal osso: la qual distin-
zione e sglomeramento, non viene a produrre altra e nuova sustanza;
ma viene a ponere in atto e compimento certe qualitadi, differenze,
accidenti et ordini circa quella sustanza143.

Bruno recupera, anche sul piano gnoseologico, i termini parmeni-


dei del rapporto tra senso, immaginazione e intelletto: tra percezione
sensibile, immaginazione e conoscenza intellettiva non vi è separazione
né contrapposizione, ma esse sono complementari e indicano diversi
livelli di conoscenza che s’implicano reciprocamente. Già nel Sigillus
egli osservava che la distinzione tra le facoltà conoscitive è soltanto ap-
parente, poiché come vi è unità in natura così è anche nella conoscenza.
L’universale connexio che lega tra loro i corpi e gli elementi naturali,
permettendo l’intellegibilità della natura, si riflette nelle facoltà e nel
processo conoscitivo144. La continuità tra senso, immaginazione e intel-
letto non corrisponde, però, a un’indistinzione delle facoltà conoscitive,
quanto, piuttosto, alla necessità di non porre una loro separazione reale
che contradirebbe il principio dell’unità. È quanto egli osserva nel
De l’ infinito, differenziando le facoltà per il loro ruolo e per l’oggetto
specifico. L’infinito, ad esempio, «non può essere oggetto del senso»145.
È, invece all’intelletto che spetta «giudicare e rendere raggione de le
cose absenti e divise per distanza di tempo et intervallo di luoghi»146.
Soltanto l’intelletto può ascendere e trascendere la molteplicità delle
manifestazioni sensibili, cogliere l’unità della sostanza unica e infinita.
La critica aristotelica al parmenidismo interpreta la molteplicità
come niente, assenza di essere: l’immutabilità dell’essere esclude il
divenire, il movimento, rendendo inammissibile la convivenza di una
sostanza permanente, incorruttibile e, al tempo stesso, il mutamento

143
Causa, p. 283.
144
Sigillus, pp. 217-219.
145
Infinito, p. 325.
146
Ibidem.
il vinculum nexus nella relazione tra unità e molteplicità 183

dei suoi accidenti. L’interpretazione bruniana tende, invece, a ridefi-


nire l’essere parmenideo come unità infinita, immobile, permanente e
immutabile, all’interno della quale il divenire non affetta la sostanza,
ma soltanto i suoi accidenti. In altre parole, la nascita e la morte, la ge-
nerazione e la dissoluzione non toccano l’essere ma il livello fenomenico
delle sue manifestazioni sensibili. Dal riconoscimento dell’immutabi-
lità dell’essere e della sostanza da cui ogni cosa prende vita, la paura
della morte svanisce, in quanto semplice corruzione degli accidenti.
È questo il ritmo della vicissitudine universale, dell’eterno mutare,
che non corrompe la sostanza infinita e permanente, ma i suoi volti.
Questo processo dialettico tra l’Uno e le sue manifestazioni risponde
all’esigenza bruniana di conciliare l’eterno divenire di ogni cosa con
l’immutabilità del tutto, ridestando e conciliando tra loro la verità di
Eraclito e quella di Parmenide.
Bruno applica implicitamente questa stessa interpretazione e con-
ciliazione delle dottrine eleatica ed eraclitea a ogni livello della realtà,
anche nella considerazione fisica dell’infinitamente piccolo. L’incessante
movimento degli atomi, la variazione della loro disposizione e della forma
non incidono sulla loro sostanza, permanendo immutabili e perenni. Il
loro movimento produce forme e composti materiali sempre differenti, ne
determina l’aggregazione, l’accrescimento, la corruzione e la dissoluzione,
ma non produce alcun effetto sul loro essere, permanendo indivisibili e
indissolubili. Allo stesso modo, anche sul piano cosmologico dell’infi-
nitamente grande, egli ricorre agli antiqui filosofi e a una considerazione
dell’universo che scaturisce proprio dal riconoscimento dell’inesauribilità
e dell’infinità, potenziale e attuale, spaziale e temporale, dell’essere. Nella
Cena, richiamando i nomi di Parmenide ed Eraclito, insieme a quelli
di Pitagora, Democrito ed Epicuro, egli fa di questi un solido supporto
all’idea dell’infinità dell’universo e della pluralità dei mondi:

Or questa distinzion di corpi ne la etera reggione l’ha conosciuta


Eraclito, Democrito, Epicuro, Pitagora, Parmenide, Melisso, come
ne fan manifesto que’ stracci che n’abbiamo: onde si vede, che co-
nobbero un spacio inifinito, capacità infinita di mondi innumerabili
simili a questo, i quali cossì compiscono i lor circoli come la terra il
184 giulio gisondi

suo, e però anticamente si chiamavano ethera, ciò è corridori corrieri,


ambasciadori, nuncii della magnificenza de l’unico Altissimo, che con
musicale armonia contemprano l’ordine della costituzion della natura,
vivo specchio dell’infinita deità147.

Ancora più che il richiamo a un principio di autorità non scolasti-


che e non aristoteliche, è nell’eraclitea e parmenidea considerazione
della vita, della natura e dell’essere che risiede la ragione profonda
della riscoperta delle filosofie presocratiche, contro e oltre Aristotele e
l’aristotelismo scolastico.

11. «Deus et hyle et mens una sola substantia sunt»

Ne l’uno infinito, immobile, che è la sustanza, se vi trova la moltitudi-


ne, il numero, che per essere modo e moltiformità de lo ente, la quale
viene a denominar cosa per cosa, non fa per questo che lo ente sia più
che uno: ma moltimodo e moltiforme figurato. Però profondamente
considerando con gli filosofi naturali, lasciando i logici ne le lor fanta-
sie, troviamo che tutto che fa differenza e numero, è puro accidente, è
pura figura, è pura complessione: ogni produzione di qualsivoglia sorte
che la sia è una alterazione; rimanendo la sustanza sempre medesima,
perché non è che una, uno ente divino, immortale148.

In questo passo del V e ultimo dialogo del De la causa Bruno porta


a compimento il processo dialettico che dalla molteplicità e contrarietà
degli accidenti, dai multiformi volti dell’essere, giunge a riconoscere
l’unità della sostanza, infinita, immobile e permanente. Questa veri-
tà è esposta, ancora una volta, come la riscoperta dell’antiqua e vera
filosofia intesa da Pitagora, il quale «non teme la morte ma aspetta la
mutazione»149, a «tutti filosofi chiamati volgarmente fisici, che niente

147
Cena, p. 112.
148
Causa, p. 281.
149
Ibidem.
il vinculum nexus nella relazione tra unità e molteplicità 185

dicono generarsi secondo sustanza né corrompersi»150, e presente finan-


che negli scritti biblici, con «Salomone, che dice non esser cosa nova
sotto il sole: ma quel che è, fu già prima»151. Sia nei dialoghi italiani,
sia nelle opere latine, egli espone la relazione tra la sostanza infinita e i
suoi accidenti attraverso il richiamo ai presocratici e agli eleati, ovvero
all’idea che «il tutto et ogni parte di quello viene ad esser uno secondo
la sustanza. Onde non essere inconvenientemente detto da Parmenide,
uno, infinito, immobile (sia che si vuole della sua intenzione, la quale
è incerta, riferita da non assai fidel relatore) […]»152.
Il richiamo di Bruno all’eleatismo costituisce un tratto costante
della sua produzione. Questo, insieme al recupero della tesi sull’im-
mutabilità della sostanza infinita e permanente, si pone su di un piano
comune al recupero della dottrina di David de Dinant e di Avicebron.
La riscoperta delle filosofie che avevano subito la critica di Aristotele
e che erano state associate da Alberto e da Tommaso alle dottrine
di David e di Avicebron, assume la funzione di ridestare la filosofia
presocratica dopo l’aristotelismo scolastico. Il richiamo al filosofo di
Dinant e ai presocratici esprime la volontà di recuperare l’idea di un
sostrato unico della realtà fisica e metafisica, principio tanto delle realtà
materiali quanto di quelle intellegibili, fondamento indivisibile d’unità
e sostanza comune di tutti gli enti.
Si è visto come la distinzione sostenuta da David de Dinant – di-
stinctio che rimane tale solo sul piano logico, non su quello ontologico
– tra una materia di cui sono composti i corpi, un’anima universale e
una sostanza eterna o Dio, corrisponda alla stessa suddivisione con cui
Bruno struttura il problema della relazione tra materia e forma nel De
la causa. Queste sono causa e principio unitari, inscindibili in natura e
considerabili separatamente solo in una figurazione logica, non nell’in-
tima e concreta vitalità della natura. Attraverso David, Bruno ripensa
l’inconsistenza sul piano fisico di ogni definizione logica che scinde
le forme particolari dal loro legame con la materia, assolutizzandole.

150
Ibidem.
151
Ibidem.
152
Ivi, p. 283; cfr. Camoeracensis Acrostimus, p. 97.
186 giulio gisondi

Il ricorso a queste fonti risponde all’esigenza di ricondurre ogni sepa-


razione ontologica tra il principio e i principiati, all’unità dell’essere
in cui non vi è distinzione tra materia e forma, tra forma materiale e
materia formale.
È il principio ispiratore della filosofia di maitre David, come di
Avicebron e degli antiqui philosophi ad agire al fondo dell’ontologia
della nolana filosofia. Se la necessità di Bruno del ricorso alla sua fon-
te indiretta risiede nel tentativo di ripensare un’alternativa filosofica
all’impianto metafisico e teologico aristotelico-scolastico, essa andava
elaborata attraverso la decostruzione del concetto di sostanza che da
quella tradizione traeva origine. L’affermazione dell’identità in Dio
di mens e hyle, materia e forma, proposta dal filosofo di Dinant è un
elemento necessario e funzionale per Bruno, nel De la causa e nel De
vinculis, a tracciare una via filosofica in cui la molteplicità delle diffe-
renze e dei contrari possa essere assorbita, ma non esaurita, nell’unità
della sostanza infinita e permanente. Il riconoscimento della relazione
tra l’essere e le sue manifestazioni costituisce, dunque, il presupposto
indispensabile a ogni forma di sapere naturale e, insieme, politico.
IV. «Potentia et actus utriusque nexus».
Unità e vincolo di materia e forma

1. Cosa mostra un certo arabo chiamato Avicebron

Nel XIX secolo lo studioso tedesco Salomon Munk identificò l’Avi-


cebron degli autori cristiani, con il poeta e filosofo ebreo della Spagna
dell’XI secolo noto come Shelomon Ibn Gabirol1. Al lavoro di Munk
si deve il riconoscimento dell’autore del Fons vitae, per secoli conosciu-
to come quel «certo arabo chiamato Avicebron»2. L’opera fu tradotta
dall’arabo in latino nel XII secolo da Giovanni Ispano e Domenico
Gundislao con il titolo Fons vitae, ma soltanto nel XIII secolo le dot-
trine gabiroliane divennero argomento di confronto e di discussione
spesso polemica tra i domenicani Alberto e Tommaso e i francescani
Bonaventura da Bagnoregio e Duns Scoto. Se questi ultimi condivido-
no l’attribuzione avicebroniana della materialità a tutte le sostanze sia
sensibili sia spirituali, i due maestri domenicani, invece, considerano
proprio questo punto particolarmente problematico.

1
S. Munk, Mélanges de philosophie juive et arabe, Paris 1988.
2
Causa, p. 252.
188 giulio gisondi

Nella Physica3 e nel De causis et processu universitatis a prima cau-


sa4, dove Alberto dedica tre paragrafi ad Avicebron, egli si sofferma
approfonditamente sulla confutazione della dottrina ilemorfica uni-
versale, ponendo una distinzione tra la materia intesa come potenza e
la materia intesa come soggetto delle differenze. Al tempo stesso, egli
individua e definisce due tipi di forme, quelle trascendenti, anteriori
alla distinzione tra sostanze corporee e incorporee, e quelle accidentali
che determinano i composti. L’elemento maggiormente problematico
nella prospettiva di Alberto è il passaggio compiuto da Avicebron nella
considerazione della materia dal piano logico a quello ontologico: per il
maestro domenicano la materia può essere definita un’unità sostanziale
dal punto di vista logico, intesa come soggetto comune delle sostanze,
ma non soggetto in grado di determinare delle differenze reali. Soltanto
la forma sostanziale può definire e contraddistinguere una sostanza.
Tommaso riprende e sviluppa gli argomenti del maestro. Nel Tracta-
tus de substantiis separatis, seu de Angelis5, egli critica Avicebron per non
aver separato la predicazione logica dei generi e delle differenze dalla
composizione reale di ciò che compare in natura. Come ha osservato
Pasquale Terracciano, «a giudizio di Tommaso, Avicebron fraintende
genere logico e materia fisica: estende cioè la riduzione ad unità della
materia corporale e di quella spirituale che può essere effettuata sul
piano logico ad una reale unità nelle sostanze»6. L’errore consisterebbe,
dunque, nel non aver distinto l’indagine naturale dalla predicazione
logica, ma nell’aver elaborato una filosofia in cui natura e logica coin-
cidono. Errore questo che i due maestri domenicani rimproveravano
già a David de Dinant e che Bruno rivaluta, nell’elaborare una filosofia

3
Albertus Magnus Physica, in Opera Omnia, cura ac labore Augusti Borgnet,
Parisiis 1890, vol. III, lib. I, tr. III, pp. 68-72.
4
Id., De causis et processu universitatis libri II, in Opera omnia, cit., Parisiis 1891,
vol. X, lib. I, tr. I, pp. 372-374; tr. III, p. 405; tr. IV, pp. 413-418, p. 430.
5
S. Thomae Aquinatis De substatiis separatis, in Opuscula philosophica, ed. P.
Raymundi e M. Spiazzi (a cura di), Roma 1954, cap. VI, p. 28.
6
P. Terracciano, «Nemici et impazienti di poliarchia». Riflessioni sul rapporto tra
Bruno e Shelomon Ibn Gabirol, in Favole metafore e storie. Seminario su Giordano Bruno,
introduzione di M. Ciliberto, O. Catanorchi e D. Pirillo (a cura di), Pisa 2007, p. 452.
unità e vincolo di materia e forma 189

che sia in grado di cogliere la natura nel suo concreto prodursi, laddove
la predicazione logica per generi e differenze funge più da elemento di
separazione e ostacolo nella conoscenza. Il richiamo di Bruno al Fons
vitae costituisce un motivo che, come nel caso di David de Dinant,
ricorre ogni qual volta egli esamina il rapporto tra materia e forma. Il
Nolano legge Avicebron attraverso le critiche scolastiche, rovesciandole
costantemente e recuperando il tentativo di ricollocare il linguaggio
logico in ciò che è «indiviso secondo natura e verità»7. Come nel caso
di David, allo stesso modo, sia Alberto sia Tommaso associano la po-
sizione di Avicebron a quella degli antiqui philosophi che concepivano
la materia sostanza di tutte le cose, ritenendo che tutto fosse corpo.
Ma per i due maestri domenicani la sua dottrina è ancor più erronea,
poiché concepisce questa materia prima come sostanza non corporea
e, dunque, subiectum tanto delle sostanze corporee quanto di quelle
ideali. Le critiche scolastiche al Fons vitae sono presenti e rovesciate nel
De la causa sin dalla Proemiale Epistola, laddove Bruno annuncia non
soltanto una questione fisica e metafisica, ma ancor più una premes-
sa metodologica, ovvero come «con diverse vie di filosofare possano
prendersi diverse raggioni di materia, benché veramente sia una prima
et absoluta»8.
La possibilità di considerare la materia secondo vie di filosofare
differenti costituisce una metodologia costante dell’approccio di Bruno,
legata alla consapevolezza della legittimità di una pluralità di lessici
filosofici e teologici, del rifiuto di stabilire il primato o l’esclusività di
un unico linguaggio sugli altri. Quest’approccio metodologico è un
riflesso dell’ontologia e della gnoseologia della nolana filosofia. Nel
dialogo II del De la causa, riprendendo quanto già sviluppato nel De
umbris, il Nolano sostiene che la conoscenza della causa e del principio
primo è preclusa all’uomo «anco in vestigio», ma che è possibile soltanto
sedere all’ombra della luce9. Come osservava Nicola Badaloni, queste

7
Causa, p. 222.
8
Ivi, p. 168.
9
Cfr. De umbris, p. 42.
190 giulio gisondi

parole definiscono il «discorso sul metodo»10 bruniano, vale a dire il


riconoscimento che la condizione umana «non è tale da poter dimorare
nello stesso campo della verità», poiché «se la verità è luce, l’uomo non
può far altro che risiedere nell’ombra»11. Se l’essere umano è escluso
dall’accesso alla luce, alla verità assoluta, potendo risiedere esclusiva-
mente nel campo umbratile dell’opinione, del verisimile, di una verità
soggetta al tempo e allo spazio, ciò vuol dire che non può esserci un
lessico, un metodo e una filosofia esclusivi e validi eternamente. In virtù
di questa ragione, Bruno legittima la convivenza e la validità di una
pluralità di lessici, metodi e vie del filosofare, nel tentativo di cogliere
una verità che non è mai possesso ma incessante fatica, espressione
dell’infinita dinamicità delle metamorfosi del reale. All’immagine di
una natura intesa come monismo dialettico ed eterna vicissitudine, egli
fa corrispondere una pluralità di linguaggi atti a esplicarla. È in questa
consapevolezza che risiede il recupero e la legittimazione del lessico e
della filosofia di Avicebron.

2. Necessità di due generi di sostanza, l’uno che è forma, l’altro che


è materia

Bruno chiama in causa Avicebron, per la prima volta, nel dialogo


III del De la causa, laddove stabilisce l’interdipendenza ontologica tra
la causa formale e il principio materiale: come «Democrito […] e gli
Epicurei, i quali quel che non è corpo dicono esser nulla, per conse-
guenza vogliono la materia sola esser la sustanza de le cose, et anco
quella essere la natura divina»12, così anche «un certo arabo chiamato
Avicebron»13 sostenne la stessa tesi materialistica, «come mostra in un

N. Badaloni, Il De umbris idearum come discorso del metodo, «Paradigmi», LIII


10

(2000), pp. 161-195.


11
P. Secchi, Elementi di teologia nel De umbris idearum di Giordano Bruno, «Bru-
niana & Campanelliana», VIII, 2 (2002), p. 432.
12
Causa, p. 235.
13
Ibidem.
unità e vincolo di materia e forma 191

libro intitolato Fonte di vita»14. Se i principi dell’atomismo democriteo-


epicureo e della dottrina avicebroniana, insieme con quelli dei Cirenaici,
dei Cinici e degli Stoici, per i quali «le forme non essere altro che certe
accidentali disposizioni de la materia»15, apparivano a Bruno, almeno
inizialmente, «fondamenti più corrispondenti alla natura che quei di
Aristotele»16, egli osserva come «dopo aver più maturamente conside-
rato, avendo risguardo a più cose, troviamo che è necessario conoscere
nella natura doi geni di sustanza»17, la materia e la forma, l’atto e la
potenza, un soggetto attivo e uno passivo: «perché è necessario che
sia un atto sustanzialissimo, nel quale è la potenza attiva di tutto; et
ancora una potenza et un soggetto, nel quale non sia minor potenza
passiva di tutto: in quello è potestà di fare, in questo è potestà di esser
fatto»18. Quest’affermazione sembrerebbe smentire il recupero della sua
fonte. Tuttavia da una lettura diretta del Fons vitae emerge, come nota
Terracciano, «un Avicebron meno monolitico e si riscontra la stessa
‘ambiguità’ bruniana sulla possibilità che la materia si figuri da sola, o
che lo faccia con l’intervento della forma»19. Basterebbe segnalare già
la sola necessità dichiarata dal filosofo ebreo di una materia universale
e di una forma universale, per comprendere come l’Ibn Gabirol storico
sia molto più vicino alle posizioni espresse dal Nolano, di quanto egli
stesso non sia consapevole. Ciò evidenzia quanto il suo Avicebron sia
debitore della mediazione, delle critiche e del giudizio di materialismo
formulati da Alberto e Tommaso.
Alla richiesta di Dicsono, su cui sembra pesare una suggestione aver-
roista20, vale a dire se sia possibile intendere la materia come formata o fi-
gurata da sé stessa, considerando tutto «l’universo corpo esser materia»21,
Bruno replica attraverso le parole di Teofilo ponendo, in primo luogo,

14
Ibidem.
15
Ivi, p. 233.
16
Ibidem.
17
Ibidem.
18
Ibidem.
19
P. Terracciano, «Nemici et impazienti di poliarchia», cit., p. 454, nota 12.
20
Cfr. Causa, p. 1060, nota 30.
21
Ivi p. 233.
192 giulio gisondi

un principio metodologico per il quale «nessuno vi può impedire che


vi serviate del nome di materia, secondo il vostro modo, come ad molte
sette ha medesmamente raggione di molte significazioni»22: principio,
questo, valido non solo nel caso della materia, ma per ogni definizione
logica di ciò che appartiene alla natura e che la definizione logica può
contenere ed esprimere solo limitatamente e relativamente. In secondo
luogo, egli traccia una distinzione fondamentale tra una considerazione
meccanicistica o materialistica della natura, quale può essere quella di
un medico «che sta sulla prattica»23, di un chimico o di un meccanico
che «divide l’universo corpo in mercurio, sale e solfro»24, e quella di
un filosofo, il cui fine ultimo «non è de venir solo a quella distinzion
de principii, che fisicamente si fa per la separazione […], ma anco a
quella distinzione de principii, alla quale non arriva efficiente alcuno
materiale, perché l’anima inseparabile dal solfro, dal mercurio e dal
sale, è principio formale»25. La critica bruniana al meccanicismo e il
distacco dal materialismo non costituiscono, però, una presa di distanza
dal tema della materia 26. Il suo scopo è piuttosto quello d’indagare la
natura da filosofo, non da medico o da meccanico, i quali individuano
nella materia l’unico principio sostanziale, ma riconoscendo la neces-
saria consustanzialità del principio materiale e della causa formale. La
sola materia, come concepita dalla tradizione democriteo-epicurea e
da Avicebron, non può costituire una chiave interpretativa sufficiente
per cogliere l’intima vitalità della natura.
Nel tentativo di definire cosa sia la materia presa singolarmente,
Teofilo traccia una distinzione tra una materia naturale e una artificiale:
se la seconda è come il legno che «da sé non ha nessuna forma artificiale,
ma tutte può avere per operazione del legnaiolo»27, la prima, invece,
«da per sé et in sua natura, non ha forma alcuna ma tutte le può avere

22
Ibidem.
23
Ibidem.
24
Ibidem.
25
Ivi, p. 234.
26
Cfr. ivi, p. 1061, nota 41.
27
Ivi, p. 235.
unità e vincolo di materia e forma 193

per operazione dell’agente attivo principio di natura»28. Il principio


materiale non è corporeo, ma forza o possibilità plastica che ha in sé la
capacità di trasmutazione. A differenza dell’arte che «non può operare
se non sulla superficie delle cose formate»29, la natura «opra dal centro
(per dir cossì) del suo soggetto o materia; che è al tutto informe»30.
L’analogia artigianale risulta inadeguata a esprimere il processo di auto-
figurazione della materia, comprensibile, invece, attraverso l’immagine
della produzione spontanea per la quale «quello che era seme si fa erba,
e da quello che era erba si fa spica, da che era spica si fa pane, da pane
chilo, da chilo sangue, da questo seme, da questo embrione, da questo
uomo, da questo cadavero, da questo terra, da questa pietra o altra cosa,
e cossì oltre per venire a tutte forme naturali»31.
L’immagine dell’autoproduzione della vita coglie ed esprime pie-
namente, e più efficacemente della metafora artigianale, i processi
spontanei di trasmutazione degli elementi e il ciclo della vicissitudine
universale: «bisogna […] che sia una medesima cosa che da sé non è
pietra, non terra, non cadavero, non uomo, non embrione, non sangue
o altro: ma che dopo che era sangue, si fa embrione ricevendo l’esse-
re embrione; dopo che era embrione, riceva l’essere uomo, facendosi
omo»32. Nel ricorso alla vicissitudine, al permanere di una sostanza
unica, pur nella mutazione delle sue forme particolari, Bruno chia-
risce l’idea di una materia non corporea che opera come principio di
permanenza e, al tempo stesso, di trasmutazione. La perdita d’essere
equivale alla perdita della sola forma accidentale, esteriore e fisica, ma
la forma universale o anima del mondo e la materia agiscono come
causa e principio consustanziali, di modo che «nessuna cosa si annihila
e perde l’essere, eccetto che la forma accidentale esteriore e materiale:
però tanto la materia quanto la forma sustanziale di che si voglia cosa
naturale, che è l’anima, sono indissolubili et adnihilabili»33.

28
Ibidem.
29
Ibidem.
30
Ibidem.
31
Ivi, p. 236.
32
Ibidem.
33
Ivi, p. 239.
194 giulio gisondi

3. «In che modo al fine qualche logica intenzione viene ad esser posta
principio di cose naturali»

Dopo aver chiarito cosa sia la materia presa singolarmente, Bruno


traccia una rielaborazione del concetto di forma sostanziale, negando
l’attribuzione di sostanzialità a «tutte le forme sustanziali de Peripatetici
et altri simili, che consisteno […] in certa complessione et ordine di
accidenti: e tutto quello che sapranno nominar fuor de la lor materia
prima, non è altro che accidente, complessione, abito di qualità, prin-
cipio di definizione, quiddità»34. Il problema da cui il Nolano prende
le mosse è legato alla moltiplicazione del numero delle sostanze operata
da «alcuni cucullati suttili metafisici»35, vale a dire gli scotisti, i quali
hanno trattato gli accidenti come forme sostanziali, considerando le
forme particolari al pari della sostanza:

Là onde […] volendo più tosto iscusare che accusare la insufficenza del
suo nume Aristotele, hanno trovata la umanità, la bovinità, lo olività,
per forme sustanziali specifiche: questa umanità, come socreità, questa
bovinità, questa cavallinità, essere la sustanza numerale; il che tutto
han fatto per donarne una forma sustanziale, la quale merite nome di
sustanza, come la materia ha nome et essere di susbstanza. Ma però
non han profittato già mai nulla; perché se gli dimandate per ordine:
«In che consiste l’essere sustanziale di Socrate?», risponderanno: «nella
socreità»; se oltre dimandate: «Che intendete per socreità?», risponde-
ranno: «La propria forma sustanziale e la propria materia di Socrate»36.

L’operazione scotista corrisponde alla sostanzializzazione di un prin-


cipio d’individuazione, la quidditas di un elemento finito. Per Bruno,
invece, la molteplicità delle denominazioni e definizioni logiche, tanto
della forma quanto della materia, non denota differenze reali, ma solo
possibili rappresentazioni di una sostanza unica e indivisibile. Le forme

34
Ibidem.
35
Ibidem.
36
Ibidem.
unità e vincolo di materia e forma 195

finite e accidentali non sono forme sostanziali. Ogni composto finito


è un accidente, generazione o explicatione dell’indissolubile legame
di materia e forma. Le particolarità e le singolarità umane, vegetali o
animali sono ombre e riflessi della sostanza unica, destinate a essere
partorite da questa e a questa ritornare. Le forme sostanziali aristote-
liche sono, perciò, pure definizioni logiche che non corrispondono a
una comprensione fisica della natura. La forma particolare, principio
di definizione, non designa alcuna sostanza ma esclusivamente un
accidente.
Bruno distingue tra quello che è indivisibile, incorruttibile, perma-
nente, e le forme particolari, divisibili e finite, disposizioni accidentali
della materia e apparenti diversità della sostanza. Tuttavia, ciò non
equivale all’abbandono dell’idea di forma sostanziale, ma al suo rifiuto
in senso logico aristotelico. La sostanzialità non appartiene alle for-
me particolari e finite, ma alla forma universale o anima del mondo,
logicamente ma non naturalmente distinta dalla materia prima37. La
critica bruniana è rivolta a quell’aristotelismo che ha scisso la predica-
zione logica della realtà dalla natura, che ha capovolto il rapporto tra
queste, di modo che «al fine qualche logica intenzione viene ad esser
posta principio di cose naturali»38. La caratterizzazione della sostanza
come soggetto di tutte le determinazioni logiche attribuite a un ente
particolare e finito non appartiene all’ambito fisico. La quidditas può
sì essere assunta come sostanza in senso logico, ma esclusivamente in
quanto sostrato dei predicati che la definiscono: come Bruno osser-
va, essa può assurgere a «forma sustanziale sì, ma non naturale, ma
logica»39, poiché dal punto di vista fisico essa denota esclusivamente
delle disposizioni accidentali della materia, una particolare e singola-
rissima complessione fisica.
L’applicazione della forma sostanziale aristotelica e scotista conduce,
dunque, a un rovesciamento tra il piano logico e quello fisico, per cui
quest’ultimo viene a essere determinato dal primo e non viceversa. Tut-

37
Ivi, pp. 239-240.
38
Ivi, p. 240.
39
Ibidem.
196 giulio gisondi

tavia, se Aristotele si è limitato a separare questi due piani, gli scotisti


si sono spinti a conferire alla quidditas un vero e proprio statuto onto-
logico, affidandole il titolo di forma sostanziale e rovesciando il piano
dell’essere e quello della predicazione logica. Bruno rintraccia l’errore
aristotelico e scotista nell’incapacità di risalire ai principi costanti,
eterni e permanenti della natura, la materia prima e l’anima del mon-
do: questo consiste nel definire e donare a un ente particolare, astratto
e logico uno statuto d’universalità fisica e metafisica. Egli riconduce
l’ecceità a un soggetto puramente logico o grammaticale di una realtà
accidentale. La forma particolare può essere compresa come sostanziale
soltanto in un modo improprio. La quidditas è logica, non ontologica:
essa non costituisce un principio reale ma il semplice supporto dei
differenti attributi di un individuo determinato e particolare. Persino
Aristotele dovette ammettere che «l’ultime differenze sono innominabili
et ignote»40, non trovando un corrispettivo fisico del concetto logico
di forma sostanziale.
In queste pagine Bruno richiama nuovamente Avicebron attraverso
le parole di Dicsono: riprendendo la critica della dottrina aristotelica
delle forme sostanziali e associandola alla tesi degli antiqui philosophi,
questi si chiede se non sia legittimo considerare la materia sola «principio
necessario eterno e divino, come a quel moro Avicebron che la chiama
“Dio che è in tutte le cose”»41. A questa considerazione della materia
Teofilo replica osservando come non sia necessariamente erronea ma
soltanto troppo affrettata la tesi di Ibn Gabirol, il quale tenne la forma
«a vile in comparazione della materia»42, non avendo compreso «quello
che conosciamo noi»43: l’interdipendenza ontologica tra il principio
materiale e la causa formale o anima del mondo, vera forma sostanziale.
Tuttavia, Teofilo non rifiuta completamente la richiesta di Dicsono,
ovvero «se per la grande unione, che ha questa anima del mondo e forma
universale con la materia», possa essere legittimo «quell’altro modo e

40
Ibidem.
41
Ivi, p. 242.
42
Ibidem.
43
Ibidem.
unità e vincolo di materia e forma 197

maniera di filosofare, di quei che non separano l’atto della raggion della
materia, e la intendono cosa divina: e non pura et informe talmente,
che lei medesma non si forma e vesta»44. Questa tesi, che è poi quella di
Avicebron e di «molti più antichi filosofi»45, non è erronea, ma soltanto
una delle possibili vie nella conoscenza della natura, «perché è cosa da
ambizioso, e cervello presuntuoso, vano et invidioso, voler persuadere
ad altri, che non sia che una sola via di investigare»46. Come sono leciti
diversi tipi di medicina a seconda del male da curare, così è legittimo
ricorrere a differenti modi di filosofare nella cognizione della natura:
tra queste «quella è la meglior che più comoda et altamente effettua
la perfezzion de l’intelletto umano, et è più corrispondente alla verità
della natura»47.
L’esigenza di riconoscere legittimità a una pluralità di lessici e ap-
procci filosofici è qui funzionale ad accreditare sia la tesi di Avicebron
sia quella degli antiqui philosophi. Bruno può così sostenere come an-
che le filosofie che non si sono spinte oltre la definizione di materia e
forma, non siano da rigettare, ma costituiscano validi strumenti nella
conoscenza della natura.

4. La materia come potenza e la materia come soggetto. Il ricorso a


Cusano

Nonostante la sua legittimità, la tesi di Avicebon lascia ancora in-


tatto il problema della distinzione tra la materia e la forma, su cosa
possa fondarsi e come queste possano essere considerate nella loro unità.
La questione è centrale nell’architettura del discorso ontologico De la
causa e della nolana filosofia.
La differenza tra materia e forma poggia aristotelicamente sulla
distinzione tra la potenza e l’atto, l’efficiente e il ricevente, l’agente e il

44
Ibidem.
45
Ivi, p. 243.
46
Ibidem.
47
Ivi, p. 244.
198 giulio gisondi

paziente, opposti e, in apparenza, irriducibili. Com’è possibile, allora,


ritrovare quella «grande unione che ha quest’anima del mondo e forma
universale con la materia»48? Bruno sottopone il concetto di materia
a una fondamentale distinzione: essa può essere considerata in due
modi, «prima come una potenza, secondo come un soggetto»49. La
materia in quanto potenza non è il semplice ricettacolo delle forme,
ma soggetto attivo nel portare a compimento l’atto. La potenza passiva
non è sinonimo d’«imbecillità»50, di una debolezza o passività assoluta,
ma è immagine dell’infinità informata della materia:

[…] la potenza comunemente si distingue in attiva per la quale il


soggetto di quella può operare, et in passiva per la quale o può essere,
o può ricevere, o può avere, o può essere soggetto di qualche efficiente
in qualche maniera. De la potenza non raggionando al presente, dico
che la potenza che significa in modo passivo (benché non sempre sia
passivo) si può considerare [o relativamente] o vero assolutamente; e
cossì non è cosa di cui si può dir l’essere, della quale non si dica il posser
essere. E questa sì fattamente risponde alla potenza attiva, che l’una
non è senza l’altra in modo alcuno: onde se sempre è stata la potestà
di fare, di produrre, di creare, sempre è stata la potenza di esser fatto,
produto e creato; perché l’una potenza implica l’altra: voglio dir con
esser posta, lei pone necessariamente l’altra. La qual potenza, perché
non dice imbecillità in quello di cui si dice, ma più tosto confirma la
virtù et efficacia, anzi al fine si trova che è tutt’uno et a fatto la me-
desma cosa con la potenza attiva, non è filosofo né teologo che dubiti
di attribuirla al primo principio sopra naturale51.

Il lessico e le categorie utilizzate in questo passo del dialogo III del


De la causa sono ripresi pressoché testualmente dal De possest e dal De
docta ignorantia di Cusano. Bruno segue e ricalca fedelmente l’opera

48
Ivi, p. 242.
49
Ivi, p. 246.
50
Ivi, 247.
51
Ibidem.
unità e vincolo di materia e forma 199

cusaniana e l’idea che atto, potenza e il loro nexus, costituiscano un


legame trinitario indissolubile e originario52. La tesi secondo la quale
la potenza passiva «è tutt’uno et a fatto la medesma cosa con la potenza
attiva» e non vi è «filosofo né teologo che dubiti di attribuirla al pri-
mo principio sopra naturale», esprime sia una sintesi del trinitarismo
cusaniano, sia la sua trasposizione filosofico naturalistica. Partendo
dalla distinzione e dall’implicazione reciproca di potenza e atto, Bruno
ne afferma la loro consustanzialità, identità e unità, rappresentazione
di quel principio sovrannaturale che non è più il Dio trinitario della
teologia espresso da Cusano con il termine posse-est, ma l’unità divina
e naturale della nolana filosofia.
Il ricorso bruniano a un primo principio sopra naturale nel deli-
neare la relazione tra materia e forma può lasciare incerti. Ma ciò non
deve stupire, se si considera che tutta l’argomentazione è una riformu-
lazione del lessico e delle categorie teologiche elaborate da Cusano,
finalizzate all’affermazione della coincidenza di potenza e atto, non
nell’immagine del Dio cristiano, ma nel cuore della natura. Il discorso
non si allontana semplicemente dal dominio della filosofia naturale
per attingere a quello teologico. Con il ricorso alla prova teologica
e a un principio sovrannaturale, Bruno intende, come rileva Secchi,
«‘naturalizzare’ il linguaggio teologico, proponendo al contempo il
risultato di tale slittamento come la “vera o nova teologia”»53. Non
è questa un’incursione momentanea nel campo teologico, né una
semplice tendenza «a riferire alla natura molte delle caratteristiche

52
Cfr. N. Cusano, Trialogus de possest, in Opere filosofiche, teologiche e matematiche,
E. Peroli (a cura di), Milano 2017, rr. 6-7, p. 1356: «Nec potest iam dicta possibilitas
prior esse actualitate quemadmodum dicimus aliquam potentiam praecedere actum.
Non quomodo prodisset in actum nisi per actualitatem? Posse enim fieri si se ipsum
ad actum produceret, esset actu antequam actu esset. Possibilitas ergo absoluta, de
qua loquimur, per quam ea quae actu sunt actu esse possunt, non praecedit actuali-
tatem neque etiam sequitur. Quomodo enim actualitas esse posset possibilitate non
existente? Coeterna ergo sunt absoluta potentia et actus utriusque nexus. Nec plura
sunt aeterna, sed sic sunt aeterna quod ipsa aeternitatis».
53
P. Secchi, «Del mar più che del ciel amante». Bruno e Cusano, Roma 2006, p. 103.
200 giulio gisondi

attribuite al Dio cristiano»54. Si tratta, invece, di un’operazione di


spoliazione e liberazione dell’elemento teologico da quelle categorie,
recuperandole e restituendole al loro originario dominio filosofico
naturale. L’operazione che Bruno compie attraverso la riformulazione
della fonte cusaniana e la trasposizione del trinitarismo e dell’idea di
coincidentia e unità del molteplice, sottesa alla nozione di legame, è
l’inveramento della formulazione platonico-parmenidea del δεσμ ός-
σύνδεσμ ος, del vinculum-nexus, come legame dell’essere. Restituire
legittimità al lessico e alle categorie della filosofia naturale, liberando
questi termini e questi concetti dall’appropriazione e dall’uso che la
teologia ne aveva fatto, per ricondurli alla loro più antica e autentica
origine filosofica, inverando i motivi latenti di quelle filosofie: è questo
il percorso compiuto in queste pagine del De la causa.

5. «Il primo et ottimo principio» come identità di potenza e atto

La ripresa del concetto cusaniano di coincidentia oppositorum è per


Bruno funzionale a definire come la coincidenza in natura dell’atto
e della potenza non sia inverosimile, ma attestata dall’autorità di più
antichi teologi e filosofi. Non è illegittimo, trasponendo le categorie
teologiche nel campo della filosofia naturale, sostenere che in natura
«l’atto e la potenza son la medesima cosa»55:

Per che la possibilità assoluta per la quale le cose che sono in atto, pos-
sono essere, non è prima che la attualità, né tampoco poi che quella:
oltre il posser essere è con lo essere in atto, e non precede quello; per che
se quel che può essere facesse se stesso, sarebbe prima che fusse fatto.
Or contempla il primo et ottimo principio, il quale è tutto quel che
può essere; e lui medesimo non sarebe tutto, se non potesse essere tutto:
in lui dumque l’atto e la potenza son la medesima cosa. Non è cossì
nelle altre cose, le quali quantumque sono quello che possono essere,

54
Ibidem.
55
Causa, p. 247.
unità e vincolo di materia e forma 201

potrebono però non esser forse; e certamente altro, o altrimente che


quel che sono: perché nessuna altra cosa è tutto quel che può essere56.

Attraverso il ricorso alla coincidentia oppositorum cusaniana, il No-


lano supera le aporie lasciate aperte dalla tesi avicebroniana. Dopo aver
precisato il rapporto che intercorre tra la potenza e l’atto, egli distingue
il modo della coincidentia sul piano della loro unità e identità, in cui
questa è assoluta, e sul piano della molteplicità, in cui è relativa. Se
nella complicatione della causa e principio primo atto e potenza sono
una medesima cosa, così non è per nell’ambito dell’explicato, delle
manifestazioni finite della sostanza:

Non è cossì nelle altre cose, le quali quantumque sono quello che
possono essere, potrebono però non esser forse; e certamente altro o
altrimente che quel che sono: perché nessuna altra cosa è tutto quel
che può essere. Lo uomo è quel che può essere, ma non è tutto quel
che può essere. La pietra non è tutto quello che può essere, per che non
è calci, non è vase, non è polve, non è erba. Quello che è tutto quel
che può essere è uno, il quale nell’esser suo comprende ogni essere.
Lui è tutto quel che è, e può essere qualsivogli’altra cosa che è e può
essere. Ogni altra cosa non cossì: però la potenza non è equale all’atto,
perché non è atto assoluto ma limitato; oltre che la potenza sempre è
limitata ad uno atto, perché mai ha più che uno essere specificato e
particolare; e se pur guarda ad ogni forma et atto, questo è per mezzo di
certe disposizioni, e con certa successione di uno essere dopo l’altro57.

La differenza qui posta è tra l’infinità assoluta dell’Uno e quella


dell’universo. Seguendo passo dopo passo l’argomentazione cusaniana,
Bruno la traspone e la riformula in una prospettiva non più creazionista,
ma generativa. Mentre per Cusano la coincidenza di potenza e atto,
come rileva Dagron, «ne prend son sens que dans un schéma création-

56
Ibidem.
57
Ibidem.
202 giulio gisondi

niste, qui rapporte les réalités finies au premier principe surnaturel»58,


per il Nolano, invece, essa assume validità non più dal punto di vista
teologico, ma filosofico naturale. La teologia cusaniana fonda la coinci-
denza di potenza e atto sull’impossibilità di un salto nell’orizzonte del
creato: solo nell’articolazione interna a Dio, nella sua natura trinitaria,
vi è coincidenza assoluta, identità e uguaglianza: «Omnia autem quae
post ipsum sunt cum distinctione potentiae et actus, ita ut solus deus
id sit quod esse potest, nequamquam autem quaecumque creatura, cum
potentia et actus non sint idem nisi in principio»59.
Per comprendere l’evoluzione della riflessione ontologica interna al
De la causa occorre ripercorrere la torsione a cui Bruno sottopone il De
possest di Cusano. Il termine possest esprime al suo interno una struttura
non binaria ma trinitaria60, la cui coincicdentia incarna il tentativo di
fondare, attraverso le categorie di posse, esse e nexus, potenza, atto e del
loro legame, la dottrina della consustanzialità delle tre persone divine.
Il possest rappresenta la congiunzione del Padre e del Figlio per mezzo
del nexus, o Spirito Santo, del nodo che unisce i due estremi della
Trinità. Ciò è possibile poiché il Figlio è unigenito, tra lui e il Padre
non vi è un rapporto di creazione ma di generazione. Nella creazione,
invece, non vi è identità né uguaglianza tra il creatore e la creatura,
ma un’incolmabile distanza.
Si tratta della distinzione tra l’azione ad intra con la quale Dio
genera il Verbo e l’azione ad extra con la quale crea il mondo: il rap-
porto di uguaglianza è possibile esclusivamente tra Dio e il Verbo,
poiché solo tra loro vi è assoluta Aequalitas61, mentre non può esservi
coincidenza tra la creatura e il creatore, tra la misura e il misurato.
Questa formulazione trinitaria conduce a una spaccatura tra il cre-
atore e la creatura, tra l’infinità assoluta di Dio e la finitezza degli
enti creati. La concezione cosmologica che ne deriva mostra, da un

58
T. Dagron, Unité de l’ être et dialectique. L’ idée de philosophie naturelle chez
Giordano Bruno, Vrin, Paris, 1999, p. 330.
59
N. Cusano, Trialogus de possest, in Opere, cit., rr. 7-8, p. 1356.
60
Cfr. P. Secchi, «Del mar più che del ciel amante», cit., pp. 112-113.
61
Cfr. N. Cusano, De docta ignorantia, in Opere, cit., lib. I, cap. 8, rr. 22-23, p. 30.
unità e vincolo di materia e forma 203

lato, come l’indeterminabilità e l’assenza di precisione siano «inscritte


nel codice genetico della contractio»62, dall’altro, che l’universo creato
possa essere considerato esclusivamente privative infinitum, indefinito,
allontanamento dei principiati dal principio. Stabilendo una priorità
dell’esigenza teologica su quella ontologica, per Cusano la creatura è
imperfetta, privazione, ciò di cui non è possibile predicare né la pre-
cisione né l’uguaglianza.
Bruno abbandona il percorso cusaniano sul terreno della teologia,
per trasporlo sul piano della filosofia naturale, rimproverando al cardi-
nale di essere rimasto «imbibito»63 nella contraddizione trinitaria. Egli
cala la coincidentia oppositorum, il nexus, il legame, l’unità e l’identità
dell’atto e della potenza, nel cuore della natura, riformulando e na-
turalizzando, con Cusano e oltre Cusano, la tesi del De possest. Nella
prospettiva della nolana filosofia, non possono convivere in uno stesso
soggetto, qual è il Cristo, una natura divina infinita e una umana finita.
Tra la sfera del finito e quella dell’infinito non vi è proporzione, ma uno
scarto incolmabile. Se ciò appare teologicamente inammissibile nella
descrizione del divino, così non è sul piano della riflessione naturalistica.
Nella sua trasposizione e rilegittimazione filosofica, la Trinità, intesa
come il vincolo tra l’infinità della causa e principio primo e l’unigenita
natura, assume una sua legittimità teoretica e ontologica. L’applicazione
della coincidentia oppositorum in naturalibus e non più in divinis porta
con sé la rivalutazione del creato, o meglio del generato. Prodotto
della generazione divina non è più il Cristo, il Figlio e il Verbo della
teologia cristiano-cattolica, ma la natura, consustanzialmente legata
all’Uno o Dio.
Bruno recupera dal De possest di Cusano l’intuizione che per essere
bisogna innanzitutto poter essere. Una potenza attiva che opera come
causa efficiente e formale, e una potenza passiva, intesa in un duplice
senso: passivamente come sostrato, possibilità d’azione dell’agente, e
attivamente come ciò che attua l’agente stesso. È il riconoscimento di
questa relazione necessaria e indissolubile, questo legame tra potestà

62
P. Secchi, «Del mar più che del ciel amante», cit., p. 175.
63
Infinito, p. 382.
204 giulio gisondi

di fare e potestà d’esser fatto che egli ricava dalla distinzione tra posse
facere e posse fieri del De possest. Ma egli può seguire la via tracciata da
Cusano soltanto sul terreno filosofico, non teologico, recuperando la
soluzione filosofica, vale a dire l’interdipendenza ontologica, il nexus
di potenza e atto.
La considerazione della natura come unigenita comporta un con-
tinuo e inarrestabile processo di generazione, non esterno, ma interno
alla natura stessa: un principium plenitudinis per il quale l’Uno compli-
cato partorisce o explica eternamente, da materia infinita, forme finite
sempre differenti:

Ogni potenza dumque et atto che nel principio è come complicato,


unito et uno, nelle altre cose è esplicato, disperso moltiplicato. Lo
universo che è il grande simulacro, la grande imagine e l’unigenita
natura, è ancor esso tutto quel che può esser per le medesime specie
e membri principali e continenza di tutta la materia; alla quale non
si aggionge e dalla quale non si manca, di tutta et unica forma: ma
non già è tutto quel che può essere per le medesime differenze, modi,
proprietà et individui; però non è altro che un’ombra del primo atto
e prima potenza, e per tanto in esso la potenza e l’atto non è asso-
lutamente la medesima cosa, per che nessuna parte sua è tutto quel
che può essere. Oltre che in quel modo specifico che abbiamo detto,
l’universo è tutto quel che può essere, secondo un modo esplicato,
disperso, distinto: il principio suo è unitamente et indifferentemente;
perché tutto è tutto il medesmo semplicissimamente, senza differenza
e distinzione64.

Mentre l’Uno o Dio è in atto tutto ciò che può essere, in modo con-
tratto, complicato, gli enti individui, gli accidenti, in quanto explicati,
sono ciò che sono ma non sono in atto tutto ciò che possono essere. È
qui implicita l’identità dell’Uno con la materia, considerata nella sua
unità col principio formale. Materia e forma, nella loro unità e compli-
catione, sono la causa e principio primo infinita, la coincidentia assoluta

64
Causa, p. 248.
unità e vincolo di materia e forma 205

di potenza e atto, mentre nella loro explicatione, nel loro dispiegarsi


assumono una forma finita e una coincidenza relativa.

6. Filosofia naturale e vera teologia: «diversi modi di diffinire della


divinità»

La riformulazione che Bruno attua del lessico e delle categorie teo-


logiche cusaniane affonda le radici nella necessità di ripensare e affer-
mare una rinnovata immagine di Dio e della natura. La trasposizione
naturalistica della coincidentia oppositorum e dell’identità trinitaria di
potenza, atto e del loro nexus, non è, nella sua prospettiva, contraria
alla religione, ma pur non avendo «quel medesimo senso e modo di
diffinire della divinità»65 che hanno i teologi, «non è però contrario né
alieno da quello, ma più chiaro forse e più esplicato»66. Questa distin-
zione tra due modalità di definire la divinità, uno proprio alla teologia,
l’altro alla filosofia, apre al riconoscimento di essa nell’immanenza
della causa e principio primo e, al tempo stesso, dell’inconoscibilità
di «tanto altissima luce e sì profondissimo abisso»67. La divinità non
è ontologicamente differente dall’universo, prodotto della sua genera-
zione, ma consustanziale a esso e infinitamente presente sotto forma
di principio vitale eternamente generante, garante dei mondi e della
loro permanenza. Questa conoscenza, sapienza e comprensione della
divinità, ontologicamente immanente alla natura e gnoseologicamente
trascendente, non è, però, patrimonio della teologia, ma della filosofia
naturale, «conforme alla vera teologia e degna d’esser faurita dalle vere
religioni»68:

E quanto appartiene al nostro proposito è impossibile […] che si trove


teologo che mi possa imputar impietà, per quel che dico et intendo

65
Ivi, p. 252.
66
Ibidem.
67
Ivi, p. 251.
68
Cena, p. 13.
206 giulio gisondi

della coincidenza della potenza et atto, prendendo assolutamente l’uno


e l’altro termino. Onde vorrei inferire che […] in questo simulacro di
quell’atto e di quella potenza, per essere in atto specifico tutto quel
tanto che è in specifica potenza, pertanto che l’universo secondo tal
modo è tutto quel che può essere […], viene ad avere una potenza la
quale non è absoluta dall’atto; una anima non absoluta dal animato,
non dico il composto, ma il semplice: onde cossì del universo sia un
primo principio che medesmo se intenda, non più distintamente ma-
teriale e formale; che possa inferirsi dalla similitudine del predetto,
potenza absoluta et atto69.

In questo passo del De la causa Bruno accenna a una questione già


presente nella Cena, e sviluppata in modo sistematico nel De l’ infinito e
nel De immenso: quella che Granada ha riconosciuto come la decostru-
zione della distinzione teologica tra potentia Dei ordinata e potentia Dei
absoluta70. La potenza infinita di Dio considerata in sé stessa è absoluta.
Tuttavia, Dio può scegliere liberamente di agire non in modo absoluto,
ma secondo potentia ordinata, ponendo un limite alla sua stessa azione.
La potentia absoluta può essere anche definita extraordinaria, capacità
di agire al di là dell’ordine naturale: la creazione e il miracolo, sono,
in questo senso, atti divini extraordinari. Dio è libero di creare come
di non creare. Con ciò è garantita l’infinità della sua potenza e, allo
stesso tempo, l’affermazione di un cosmo finito, sia per scelta divina,
sia per l’incapacità della materia passiva di accogliere l’infinito in atto.
Bruno rifiuta questa distinzione, denunciandone tutta la sua con-
traddittorietà sino a considerarla blasfema: «blasphemia vero est facere
Deum alium a Deo»71. Seppur sottotraccia, il suo rifiuto agisce già in
queste righe del De la causa, costituendo anche nelle opere successive
un elemento teorico necessario alla trasposizione della coincidenza di

69
Causa, p. 252.
70
Cfr. M. A. Granada, Il rifiuto della distinzione tra «potentia absoluta» e «potentia
ordinata» di Dio e l’affermazione dell’universo infinito in Giordano Bruno, in «Rivista
di storia della filosofia», a. XCIV, n. s., 3 (1994), p. 502.
71
Cfr. De immenso, p. 320.
unità e vincolo di materia e forma 207

atto e potenza dalla Trinità teologica all’unità della natura, nonché


nella definizione di un’idea di Dio radicalmente differente da quella
cristiana. Nel De l’ infinito, ad esempio, definendo l’infinità di Dio e
quella dell’universo e in che modo atto e potenza coincidano nell’uno
e nell’altro, egli recupera le categorie cusaniane di complicatio ed ex-
plicatio riformulate nel De la causa, esplicitando, altresì, il rifiuto della
distinzione tra potentia Dei absoluta e potentia Dei ordinata72.
Da questo rifiuto egli può pensare, non più nella formulazione
teologico trinitaria ma nell’unità complicata di materia e forma, la
coincidenza assoluta di potenza, atto e del loro nexus, e la coincidenza
relativa nella loro explicatione. Inoltre, mentre in questa distinzione
teologica della potenza vi è separazione tra libertà e necessità in Dio,
egli propone un’immagine della divinità in cui non sussiste più alcuna
separazione degli attributi, ma in cui la libera volontà divina coincide
con la necessità, vale a dire con la vicissitudine universale. Dio non può
non generare eternamente e manifestare infinitamente la sua potenza.
Ammettere una potentia ordinata vorrebbe dire limitarne la sua potenza.
È questo un Dio svuotato di ogni carattere antropomorfo, inteso come
principio vitale e generatore infinito, continuamente partoriente nuova
vita sotto infinite forme sempre differenti.
La decostruzione e il rifiuto della distinzione tra potentia Dei absoluta
e potentia Dei ordinata porta all’immagine di una divinità dai tratti
non più umani ma naturali, una vicissitudine necessaria ed eterna.
Un Dio, questo, che non guarda più all’essere umano nei termini del

72
Infinito, pp. 334-335: «Come vuoi tu che Dio, e quanto alla potenza, e quanto
a l’operazione, e quanto a l’effetto, (che in lui son medesima cosa), sia determinato, e
come termino della convessitudine di una sfera: più tosto che (come dir si può) termino
interminato di cosa interminata? Termino dico senza termine: per esser differente la
infinità dell’uno da l’infinità dell’altro; perché lui è tutto l’infinito complicatamente
e totalmente: ma l’universo è tutto in tutto (se pur in modo alcuno si può dir totalità
dove non è parte né fine) explicatamente, e totalmente; per il che l’uno ha raggion di
termine, l’altro ha raggion di terminato, non per differenza di finito et infinito, ma
perché l’uno è infinito e l’altro è finiente secondo la raggione del totale e totalmente
essere in tutto quello che, benché sia tutto infinito, non è però totalmente infinito:
perché questo ripugna alla infinità dimensionale».
208 giulio gisondi

peccato e della salvezza, ma come a un ente naturale al pari di tutti


gli altri. Allo stesso tempo, la definizione di Dio come di un principio
vitale e generatore infinito, vincolo indissolubile di materia e forma,
porta con sé l’affermazione dell’infinità dell’universo e della pluralità
dei mondi, tesi cosmologica centrale del De l’ infinito, che Bruno riba-
disce persino di fronte agli inquisitori veneti, proprio in virtù di questa
ridefinizione del divino73. Con l’affermazione dell’infinità dell’univer-
so e dell’innumerabilità dei mondi, egli scardina da una prospettiva
filosofico-teologica, prim’ancora che fisica, la gerarchia del cosmo cri-
stiano e aristotelico-tolemaico. Dal punto di vista dell’infinito svanisce
la possibilità d’intravedere nell’universo una costruzione ordinata, una
struttura gerarchica, in cui lo sguardo umano è l’unico ammissibile.
L’essere umano non è più l’unico osservatore, ordinatore e costruttore
del cosmo, il suo centro, ma egli annega nell’immensità e nella perdita
di senso che l’infinito porta con sé.
Ciò comporta non soltanto lo scardinamento della cosmologia
aristotelico-tolemaica, ma ancor più il superamento dell’escatologia
cristiana. La Terra non è più l’unico luogo in cui possano manife-
starsi il bene e il male, la nascita e la morte, la presenza di Dio come
redenzione per mezzo dell’incarnazione del Verbo. La scoperta e l’af-
fermazione dell’infinito fanno sì che tutto l’universo sia assolutamente
omogeneo, che ogni mondo o pianeta sia composto degli stessi atomi
ed elementi, che ognuno di essi sia scandito dal ritmo della vicissitu-
dine. Nell’universo infinito non esiste centro assoluto, non vi sono
corpi perfetti o imperfetti, ma tutto è soggetto a eterna mutazione e
continuo movimento. Lo spazio è troppo vasto perché si possa affer-
mare un solo e unico centro, che sia la Terra o il Sole, così come un
solo e unico Verbo. Onnicentricità dell’universo, pluralità dei mondi,
molteplicità e relatività dei punti di osservazione, distruzione di ogni
forma d’escatologia: sono queste le conseguenze a cui Bruno giunge
con la decostruzione dell’immagine del Dio della teologia cristiana e il
rifiuto della distinzione tra potentia Dei absoluta e potentia Dei ordinata,
della Trinità e dell’Incarnazione.

73
Cfr. Processo, pp. 167-168.
unità e vincolo di materia e forma 209

7. «Potentia et actus utrusque nexus». Vinculum e nexus di materia


e forma

Ricavato dal lessico teologico tomista e cusaniano, il termine nexus


è impiegato, insieme a connexio74, sin dal De umbris, a indicare l’ordine
del reale, la concatenazione tra le realtà superiori e le inferiori, le mate-
riali e le spirituali, il tramite che rende possibile la comunicazione tra
diversi livelli dell’essere e il legame necessario di «materiam formatam
formamque materialem»75, attraverso cui la natura può operare. Senza
questo legame non si darebbe alcuna operazione da parte della natura:
«Hic est nexus ille, quo abacto, nullum prorsus opus est, quod natura
valeat effingere»76.
Che il nexus tra potenza e atto, materia e forma, abbia in Bruno
una provenienza teologica e sia trasposto dal legame trinitario in di-
vinibus nella filosofia naturale ce lo testimonia un passo della Summa
terminorum metaphysicorum. Tra gli articoli XV e XVII, dedicati alla
distinzione tra Relatio, Actio e Passio, egli riformula e fonde insieme,
naturalizzandole, sia la definizione tomista della Trinità come «amor
[…] vinculum vel nexus»77 tra Padre e Figlio, sia la formulazione cusa-
niana della stessa come coincidenza e coeternità di «potentia et actus
utriusque nexus»78:

Actio illius, ut consequitur essentiam atque potentiam est infinita


et subiectum requirit infinitum, quam quidem esse necesse est, ut
omnes tum theologi, tum principes philosophantes intelligunt; sed
illius actum quidam collocant in ipsa divinitate, ut infinitum patrem
infinitum generare filium asserant, nempe infinitam mentem infinitum
intellectum, et ex hac relatione patris et filii cognoscentis et cogniti,

74
Cfr. De umbris, p. 50, pp. 52-54, pp. 56-60.
75
Ivi, p. 142.
76
Ibidem.
77
S. Tommaso d’Aquino, Commento alle sentenze di Pietro Lombardo, Libro I,
Distinzioni 1-21, introduzione di I. Biffi, trad. it. P.R. Coggi, con testo integrale di
Pietro Lombardo, Bologna 1999, vol. I, d. 10, q. 1, a. 3, p. 598.
78
N. Cusano, Trialogus de possest, in Opere, cit., rr. 6-7, p. 1356.
210 giulio gisondi

vicissitudinalique quadam seu vicissim commeante relatione, com-


plicentia illa cognoscentis et cogniti propter compertam infinitam
pulchritudinem, quam pater in filio, filius in patre unicam contem-
platur, sequatur infinitus ille amor utriusque nexus, ita ut non sint
tria numina substantialiter distincta, sed unus Deus se ipso se ipsum
cognoscens et amans79.

Se il lessico e le categorie di Padre, Figlio e del loro nexus, sono quelle


della teologia, non lo è più la trinità qui definita. Il Nolano comprende
le tre persone divine nei termini dell’unità della causa e principio primo
come potenza, atto e amore o legame, mens, hyle, Deus corrispondenti
a mente, intelletto e amore, le quali possiedono un rapporto diretto
con il mondo sensibile e una specifica funzione: tutte le cose «hanno
prima l’essere per raggione della mente, doppoi l’ordinato essere et
distinto per raggione dell’intelletto, terzo la concordia et simitria per
raggione dell’amore»80.
Nella Lampas, scritto temporalmente vicino alle lezioni raccolte nella
Summa e contemporaneo alla redazione del De vinculis, egli deifisce la
trinità in questo stesso senso, assegnando al Padre la mente o pienezza,
al Figlio l’intelletto primo e la luce, allo spirito dell’universo l’amore:
«mens super omnia sedet, intellectus omnia videt et distribuit, amor
omnia fabricat et disponit»81. Questi termini non indicano tre sostanze
o persone distinte, ma definiscono la connessione tra la dimensione
naturale divina infinta o complicata e quella sensibile finita explicata.
Il Padre e il Figlio, la mente infinita e l’intelletto primo esprimono la
relazione, il vincolo d’amore tra Dio e l’universo generato82. In questa
trasposizione e naturalizzazione della trinità, della relazione tra Dio
Padre e l’universo Figlio unigenito, il nexus assume una funzione ne-
cessaria in quanto amore che lega l’uno all’altro: «Ipse est nexus rerum

Summa, pp. 79-80.


79

Processo, p. 168.
80

81
Lampas, p. 1045.
82
Cfr. E. Fantechi, La posizione sulla Trinità e la riflessione metafisica di Bruno,
in Favole, metafore, storie, cit., p. 396, p. 406.
unità e vincolo di materia e forma 211

omnium, unde daemon magnus et geminus Cupido appellatur»83. Se


l’intelletto primo, l’universo, dona alle cose la loro forma specifica e
particolare, il nexus, essendo amore, dona loro «connexionem, unionem
et ordinem»84, facendo dei «contraria unum, diversa unitum, omnia
universum»85. Lo spirito o amore è un «ignis ardens, quia Cupidini
attribuitur nexus seu laqueus quo connectat»86.
La fusione e la trasposizione filosofica del lessico teologico trinitario
sono già espresse nel De la causa attraverso la naturalizzazione della
coincidenza cusaniana di atto, potenza e del loro nexus. Se per Cusano,
il nexus o amor pone la co-eternità e l’unione delle persone divine, per
Bruno questo è, invece, il principio che garantisce la «partecipazione»87
e la «colligazione»88 tra tutte le cose, permettendo di leggere la natura in
termini unitari come legata da un «principio di subsistenza»89. Il nexus
è il ligamen, il vinculum che garantisce l’unione e la consustanzialità
di materia e forma. Tuttavia, se nel De la causa, egli cela il richiamo al
nexus e alla terminologia teologica trinitaria, non può celare il riferi-
mento al lessico della coincidentia della materia nella forma e viceversa.
Il nexus non è soltanto il primo e originario legame naturale tra
materia e forma, ma ciò che permette, altresì, il movimento e la muta-
zione intese come perenne desiderio di perfezionamento, amor. Questo
principio erotico-spirituale è la legge iscritta nella natura che tiene uniti
gli opposti, il motore che genera infinitamente vita, immanente alla
natura nella sua unità e a ogni singolo composto. Nexus e amor non
sono i termini di una legge sovrana che domina l’universo dall’esterno,
ma esprimono «l’onnipervasività dell’amore come legge di natura»90.
Pertanto, l’amore non è limitato alle tre persone divine, non è soltanto in
tre luoghi, non è il Dio uni-trino di Cusano, ma forza immanente all’u-

83
Lampas, p. 1060.
84
Ibidem.
85
Ibidem.
86
Ibidem.
87
Causa p. 261.
88
Ibidem.
89
Ibidem.
90
P. Secchi, «Del mar più che del ciel amante», cit., p. 143.
212 giulio gisondi

niverso o l’universo stesso. Non esistono in natura vuoti d’amore, poiché


ogni composto è amore. Il Dio uni-trino è così trasposto nell’Uno-Dio
tutto, infinito nella sua complicatione. Ogni corpo explicato porta con
sé i semi di questa unità, stabilendo l’omogeneità materiale e formale
di tutto l’universo. L’Uno è seme e germe di ogni possibile esistenza. In
esso ogni accidente perde la propria individualità e finitezza per essere
assorbito nella complicatione dell’infinita unità. La differenza tra l’Uno
e l’universo, tra l’infinito e gli accidenti che lo popolano, risiede nella
ricerca da parte di questi ultimi non di «altro essere, ma altro modo
di essere»91. L’universo è un’infinità explicata in cui l’atto e la potenza
non coincidono come nella loro complcatione. Al tempo stesso, però,
essendo generato e non creato, esso possiede una capacità infinita di
metamorfosi, per cui ogni composto o aggregato, mai si annichila
ma eternamente ritorna alla sua causa e principio primo per assumere
nuova forma. È questa la distinzione tra l’infinità dell’Uno e quella
dell’universo, affermata nella conclusione del dialogo III del De la causa:

Uno è quello che è tutto e può esser tutto assolutamente. Nelle cose
naturali non veggiamo cosa alcuna, che sia altro che quel che è in
atto, secondo il quale è quel che può essere per aver una specie di
attualità: tuttavia né in questo unico esser specifico giammai è tutto
quel che può essere qualsivoglia particulare. Ecco il sole: non è tutto
quel che può essere il sole, non è per tutto dove può essere il sole, per
che quando è a oriente a la terra, non gli è a occidente, né meridiano,
né di altro aspetto. Or se vogliamo mostrar il modo con il quale
Dio è sole, diremo (perché è tutto quel che può essere) che è insieme
oriente, occidente, meridiano, merinozziale, e di qualsivoglia di tutti
i punti de la convessitudine della terra: onde se questo sole (o per
sua revoluzione, o per qualla de la terra) vogliamo intendere che si
muova e muta loco, perché non è attualmente in un punto secondo
potenza di essere in tutti gli altri, e però have attitudine ad esservi: se

91
Ivi, p. 280.
unità e vincolo di materia e forma 213

dumque è tutto quel che può essere, e possiede tutto quello che è atto
a possedere, sarà insieme per tutti et in tutto […]92.

A fondamento di questa considerazione Bruno applica la distinzione,


ancora una volta cusaniana, tra complicato ed explicato, la quale permet-
te di pensare a una materialità del divino non corporea, ma absoluta
potentia. Pur permanendo uno scarto tra il principio e i principiati, tra
finito e infinito, il ricorso alla complicatio lascia intravedere come all’atto
divino debba necessariamente corrispondere una materia-potenzialità
assoluta. È la trasposizione del nexus teologico trinitario tra il Padre e
il Figlio nel legame naturale tra materia e forma a fondare la possibilità
di pensare, oltre platonismo e aristotelismo, una materia incorporea
comune tanto al mondo sensibile quanto a quello intellegibile93.

8. La materia come soggetto

Nell’apertura del dialogo IV del De la causa, Bruno passa in ras-


segna gli appellativi con cui nella tradizione filosofica, sia platonica,
sia aristotelica, è stata definita la materia. Per bocca di Polihimnio,
espressione, della pedanteria accademica, egli traccia un paragone tra
la materia e la donna: «la donna non è altro che materia. Se non sapete
che cosa è donna, per non saper che cosa è materia, studiate alquanto
gli Peripatetici che con insegnarvi cosa è materia, te insegnano cosa
è donna»94.
Questo motivo compare già nel Candelaio, dove il pedante Manfurio
ossserva come la donna non sia altro che «una muliercula, quod est per
ethimologiam mollis Hercules, opposita iuxta se posita: sexso molle,
fragile ed incostante, al contrario di Ercole»95. Ma se nella commedia,
l’accostamento della donna alla materia è accennato in senso esclu-

92
Causa, pp. 249-250.
93
Cfr. ivi, p. 251.
94
Ivi, 259.
95
Candelaio, p. 45
214 giulio gisondi

sivamente passivo e negativo, nel dialogo londinese, egli lo riprende


rovesciandolo in senso attivo e positivo. Dalla considerazione femminea
e peccatrice della materia egli giunge a ripensare un’immagine della
stessa come materna, divina e generatrice infinita di vita, ribaltando
le affermazioni di Polihimnio. Al pedante che individua nella materia
la «caggion d’ogni male, passione, difetto, ruina, corrozione»96, poi-
ché se questa si «contentasse della forma presente, nulla alterazione o
passione arebbe sopra di noi, non moriremmo, saremmo incorruttibili
et eterni»97, Gervasio, suo polemico interlocutore, replica ricorrendo
all’insaziabile desiderio della materia d’assumere un’infinità di forme
sempre differenti, garantendo il ritmo universale della vicissitudine e
della vita98.
Nella premessa del De vinculis Bruno riprende il tema del desiderio
insito nella materia di trasmutare in forme sempre differenti. Il processo
di metamorfosi della materia da una forma all’altra, secondo il ciclo
della vicissitudine, costituisce il riconoscimento del naturale ritmo della
vita. Questo è il fondamento ontologico in cui è pensabile la magia
per vincoli: «eandem licet subiectam materiam in varias formas atque
figuras transmigrantem, ut continue ad vinciendum aliis atque aliis et
nodorum utendum sit speciebus»99. L’instancabilità della materia, nel
suo vincolo con la forma o anima mundi, nel partorire nuove forme di
vita, pone il principio non creazionistico della generazione spontanea.
Nella prospettiva dell’infinito non vi è nascita né morte, ma un movi-
mento generativo in cui la causa e principio primo explica forme infinite
da materia infinita, riempiendo di vita la totalità dell’universo. Questo

96
Causa, p. 259.
97
Ibidem.
98
Ivi, 260: «E se la si fosse contentata di quella forma che avea cinquanta anni
addietro, che direste? Sareste tu Polihimnio? Se si fusse fermata sotto quella di quaranta
anni passati, sareste sì adultero, (dico) sì adulto, sì perfetto e sì dotto? Come dumque
ti piace che le altre forme abbiano ceduto a questa, cossì è in volontà de la natura che
ordina l’universo, che tutte le forme cedano a tutte. Lascio che è maggior dignità di
questa nostra sustanza, di farsi ogni cosa ricevendo tutte le forme, che ritenendone una
sola, et essere parziale. Cossì al suo possibile ha la similitudine di chi è tutto in tutto».
99
De vinculis, p. 415.
unità e vincolo di materia e forma 215

«desiderio di identificazione corporea»100, fa sì che l’anima mundi formi


infiniti corpi e la materia di cui essi sono composti muti senza mai
dissolversi. Si tratta di un principio di generazione e conservazione
della materia, la quale cambia la propria forma per continuare a vivere:
è questa la legge, posta in termini animistici e fisiologici, non quanti-
tativi, che sta alla base del movimento e del mutamento dei corpi, così
come dei pianeti all’interno dell’universo. La perfezione della materia
sta nel suo appetire infinitamente forme nuove, per poi rigettarle101.
Anche gli esseri umani, al pari di tutti i composti, nascono sponta-
neamente e, allo stesso modo, scompaiono. La vicissitudine non tocca,
però, solo l’ambito fisico e biologico ma coinvolge tutto l’esistente,
abbracciando anche la dimensione storica e civile, con i suoi istituti
e le sue produzioni, inglobandola nell’alternanza a cui sono soggette
tutte le forme naturali. Da quest’unicità del ritmo universale della
vita Bruno osserva come anche la considerazione dell’umanità non sia
aliena da un tale esame, ma rientri in questo ciclo e soltanto a partire
da questo riconoscimento sia possibile stabilire vincoli nella dimensione
civile: «nihil tandem esse videtur quod a civili speculatione sub forma
huiusce consyderationis (quatenus vel vinciunt vel vinciuntur vel vin-
cula quaedam sunt vel horum circumstantiae) possit esse alienum»102.
Chi desidera agire sugli esseri umani, istituendo vincoli tra loro,
necessita di una conoscenza della natura e dei suoi tempi, delle muta-
zioni e dei movimenti, della materia e della forma, di come queste si
trasfigurino pur restando sempre legate. Per operare nella dimensione
civile occorre riconoscere il primo vincolo d’amore che è la natura e
agire secondo i tempi, i modi e gli strumenti che questa suggerisce. La
riflessione sui vincula, sul vinculum e sulle possibilità del vincire non
è separabile dal riconoscimento ontologico espresso nel De la causa
dell’unicità dell’essere e della sostanza, dell’indissolubile vincolo d’a-
more tra materia e forma.

100
F. Papi, Antropologia e civiltà nel pensiero di Giordano Bruno, Firenze 1968,
p. 12.
101
Causa, pp. 275.
102
De vinculis, p. 417.
216 giulio gisondi

9. La filosofia naturale nella considerazione dialettica della materia


e della forma

Nell’esame del De la causa può lasciare interdetti la preminenza


accordata da Bruno ora alla materia, ora alla forma. Se nel dialogo
II, egli definisce la forma l’«artefice interno, perché forma la materia,
e la figura da dentro»103, nel dialogo IV è la materia che «non viene
ad ricevere le dimensioni come di fuora, ma a mandarle a cacciarle
come dal seno»104, secondo un progressivo slittamento per cui dalla
considerazione della causa formale il punto di osservazione si sposta
gradualmente verso il principio materiale, inteso come soggetto e non
più pura passività. Allo stesso tempo, se nel dialogo II la causa delle
differenze è dovuta a una diversa composizione materiale, nel IV è
la forma a costituire la causa delle molteplicità e delle particolarità.
In altre parole, si tratta di comprendere se sia la forma ad agire sulla
materia originando le differenze e le molteplicità, o se lo sia la materia.
Questa duplice considerazione della materia e della forma è possibile
a partire dalla comprensione del punto del l’unione, dell’unità del mol-
teplice. Il riconoscimento del vincolo di materia e forma permette di
comprendere come ogni composto sia riconducibile all’unica e infinta
materia, sostrato di tutte le sostanze corporee e incorporee, allo stesso
modo in cui le forme o anime individuali sono riflessi dell’unica e
infinita anima del mondo. Materia e forma agiscono allo stesso modo
poiché sono la stessa cosa: all’atto della decomposizione corporea anche
l’anima è slegata dai composti, tornando alla sua universalità, come la
materia, alla dissoluzione di una forma finita, assume nuova forma. Tra
l’anima del mondo e la materia vi è identità ontologica, sia nella loro
explicatione sia nella loro complicatione. Considerate dalla prospettiva
dell’Uno materia e forma sono unum et idem105.
Da questo riconoscimento, Bruno può considerare la natura ora dal
punto di vista della causa formale, ora da quello del principio materiale,

103
Causa, p. 211.
104
Ivi, p. 267.
105
Cfr. De vinculis, p. 518.
unità e vincolo di materia e forma 217

ora dell’Uno. Questo non è il segno di una contraddizione, ma di un


modo di procedere graduale e dialettico che consente d’indagare la
natura da prospettive differenti, analizzandola sia ontologicamente, nel
suo concreto prodursi e trasformarsi, sia gnoseologicamente, definendo
le possibilità umane di conoscenza dell’unità nella molteplicità106.
Nell’analisi della materia come soggetto, forza attiva e generatrice,
Bruno recupera nuovamente il riferimento al Fons vitae di Avicebron.
Ma se nel dialogo III del De la causa questo richiamo è espressione di
posizioni materialistiche, ora, invece, si assiste a una riformulazione
della tesi monista per cui tutto è Uno e una ridefinizione della materia
come soggetto universale tanto delle realtà sensibili quanto delle intel-
legibili, anteriore a ogni differenza e distinzione. Se sia gli aristotelici
che i platonici, «divideno la sustanza per le differenze di corporale et
incorporale»107, occorre, invece, osservare come «queste differenze si
reducono alla potenza di medesimo geno»108, distinguendo le forme
secondo due specie: alcune «trascendenti, cioè superiori al geno»109
e altre «di certo geno distinte da altro geno»110: «quelle che son de la
prima maniera, non distengueno la materia e non fanno altra et altra
potenza di quella, ma come termini universalissimi che comprendono
tanto le corporali, quanto le incorporali sustanze, significano quel-
la universalissima, comunissima et una de l’una e l’altre»111. Come
è possibile ridurre la materia sensibile e quella intellegibile all’unità
di un solo e identico genere, così occorre pensare i generi dell’essere
come riconducibili a una sostanza «universalissima» e «comunissima»,
anteriore a qualsiasi distinzione logica tra sostanza e accidente. La
causa formale non individualizza la materia, ma è, insieme a essa, una
ragione generale e universale. Le differenze non rappresentano qualcosa
di ontologicamente diverso dalla sostanza unica, moltiplicazioni reali
dell’Uno, ma sono volti, tracce e segni dell’essere, estensioni dell’unica,

106
Cfr. P. Terracciano, «Nemici et impazienti di Poliarchia», cit., p. 470.
107
Causa, p. 260.
108
Ibidem.
109
Ibidem.
110
Ibidem.
111
Ibidem.
218 giulio gisondi

identica e grande voce «la quale è tutta in tutta una stanza et in ogni
parte di quella, per che da per tutto se intende tutta»112.
Bruno riconduce ogni separazione ontologica tra il principio e i prin-
cipiati, ogni gerarchizzazione, partecipazione ed emanazione all’unità
dell’essere, in cui non sussiste alcuna distinzione tra materia e forma,
tra forma materiale e materia formale. Queste ultime sono categorie
concettuali necessarie all’intelletto umano, il quale procedendo ra-
zionalmente e discorsivamente non può conoscere nulla dell’unica
sostanza, se non per vestigia e simulacri. La difficoltà umana risiede
nell’incapacità di rappresentazione di una sostanza che oltrepassa la
struttura e l’ordine del pensiero, delle possibilità figurative del sapere.
Le forme particolari non sono qualcosa di ontologicamente differente
dalla sostanza unica, ma solo molteplici volti di quella, di un essere
che trascende l’ordine razionale umano. È su questo terreno che egli
recupera la tesi avicebroniana di una materia unica a cui, solo in un
secondo momento, «si aggionge la differenza e forma distintiva»113:

«che cosa ne impedisce» disse Avicebron, «che sì come prima che


riconosciamo la materia de le forme accidentali, che è il composto,
riconosciamo la materia della forma sostanziale, che è parte di quello;
cossì prima che conosciamo la materia che è contratta ad esser sotto le
forme corporali, vegnamo a conoscere una potenza la quale sia distin-
guibile per la forma di natura corporea e de incorporea, dissolubile e
non dissolubile?». Ancora, se tutto quel che è (cominciando da l’ente
summo e supremo) have un certo ordine, e fa una dependenza, una
scala, nella quale si monta da le cose semplicissime et assolutissime per
mezzi proporzionali e copulativi, e partecipativi de la natura de l’uno
e l’altro estremo, e secondo la raggione proprio neutri; non è ordine
dove non è certa partecipazione, non è partecipazione dove non si trova
certa colligazione, non è colligazione senza qualche partecipazione:
è dumque necessario che de tutte cose che sono sussistenti, sia uno
principio di subsistenza. Giongi a questo che la ragione medesima non

112
Ivi, p. 226.
113
Ivi, p. 261.
unità e vincolo di materia e forma 219

può fare che avanti qualsivoglia cosa distinguibile non presuppona


una cosa indistinta (parlo di quelle cose che sono, perché “ente” e
“non ente” non intendo aver distinzione reale, ma vocale e nominale
solamente)114.

Il ricorso ad Avicebron è funzionale a chiarire il problema del rap-


porto tra la materia e le forme non soltanto fisiche, ma anche ideali.
Sulla scorta del Fons vitae, Bruno legittima la tesi monista: ogni or-
dine, ogni dipendenza, ogni gerarchia, partecipazione e connessione
necessita di una stessa sostanza che sia anteriore alle distinzioni logiche
e formali. Le differenze particolari, le forme o i composti accidentali
non designano ipostasi o emanazioni reali e separate della sostanza, ma
vanno comprese in relazione a quella ragione universale che è l’Uno. La
molteplicità delle definizioni e denominazioni designa una divisione
logica non ontologica della sostanza. Tutte le differenze sono ricon-
ducibili a un unico «principio di subsistenza»115, pur restando distinte
sul piano della conoscenza. Ma se ciò avviene all’interno di una rap-
presentazione gerarchica e scalare, tuttavia questa è tale sono in senso
logico e gnoseologico, legata alle modalità umane di figurazione del
reale: «Montando noi alla perfetta cognizione, andiamo complicando
la moltitudine: come descendendosi alla produzzione de le cose, si va
esplicando l’unità. Il descenso è da uno ente ad infiniti individui e
specie innumerabili: lo ascenso è da questi a quello»116.
L’ascenso dalla moltitudine all’Uno e il descenso dall’Uno ai molti
costituiscono una rappresentazione logica necessaria nel processo di
conoscenza e autofigurazione del mondo, pur non designando e non
definendo alcuna distinzione reale di una sostanza unica, infinita e
permanente. Se nel dialogo II la forma era considerata una «specie
perfetta»117, ora è, invece, la materia di Avicebron ad assumere il ruolo
di ragione universale. Attraverso il ricorso a Ibn Gabirol, come a David

114
Ivi, pp. 260-261.
115
Ivi, p. 261.
116
Causa, pp. 287-288.
117
Ivi, p. 167, p. 223.
220 giulio gisondi

de Dinant, Bruno ricolloca su di un diverso piano il problema della


relazione tra materia e forma, riportandole a un solo e unico genere,
a un legame o a un’unità universale anteriore a qualsiasi distinzione
logica, fisica e metafisica tra sostanza e accidente.
Nel riprendere e nel riformulare nel De la causa le sue fonti, egli
ripercorre le pagine della Physica118 in cui Alberto Magno tracciava
una distinzione tra due specie di forme, la prima anteriore al genere,
la seconda superiore. Il Nolano segue questa distinzione albertiana,
ma rigettando la dottrina delle forme sostanziali e la gerarchia stabi-
lita dal maestro domenicano tra la realtà fisica e quella astratta: se per
quest’ultimo la definizione logica assume una priorità sulla dimensione
fisica, Bruno capovolge questa prospettiva.
Il recupero di Avicebron è ugualmente teso a decostruire il rifiuto
stabilito da Tommaso d’Aquino della tesi monista secondo la quale le
differenze e le contrarietà sono riconducibili al senso e all’immagina-
zione. Nello Scriptum II super libros Sententiarum119, l’Aquinate associa
la dottrina avicebroniana al vecchio errore degli Eleati e a David de
Dinant. Nell’apertura del dialogo IV del De la causa, richiamandosi ad
Avicebron e a David, Bruno oltrepassa proprio la via tomista, ponendo
una teoria delle forme particolari in cui l’unità sostanziale dell’essere
non implica l’accidentalità dei particolari. La sua considerazione della
materia come trascendentale, anteriore ai composti e alla distinzione tra
sostanza e accidenti, fa sì che le forme particolari possano essere consi-
derate accidentali solo dal punto di vista logico, non fisico. Egli rifiuta
e supera, così, la sovrapposizione, albertiana e tomista, del piano della
realtà astratta su quella fisica, restituendo priorità alla natura sulla logica:
«siccome ogni sensibile presuppone il soggetto della sensibilità, cossì ogni
intellegibile il soggetto della intelligibilità: bisogna dumque che sia una
cosa che risponde alla raggione comune de l’uno e de l’altro soggetto»120.

118
Albertus Magnus Physica, in Opera Omnia, cura ac labore Augusti Borgnet,
Parisiis 1890, vol. III, tr. III, cap. 9, p. 63-66.
119
S. Tommaso d’Aquino, Commento alle sentenze di Pietro Lombardo, Libro II,
cit., vol. III, d. 17, q. 1, a. 1, p. 793.
120
Causa, p. 261.
unità e vincolo di materia e forma 221

Non vi è, dunque, reale distinzione tra sostanze corporee e incor-


poree, sensibili e intellegibili, tra sostanza e accidenti, ma tutti sono
composti della stessa materia di cui è composto l’intero universo, pla-
smati dalla stessa anima del mondo e forma universale. Questa tesi non
contraddice né la teologia né le sacre scritture, ma è conforme, secondo
Bruno, anche alle Scritture: «e li teologi, benché alcuni di quelli siano
nodriti nella aristotelica dottrina, non mi denno esser molesti in questo,
se accettano esser più debitori alla lor scrittura, che alla filosofia e natu-
ral ragione»121. Attingendo al testo biblico e in particolare all’Apocalisse
di Giovanni122 come a un patrimonio di concetti e problemi filosofici
prim’ancora che teologici, egli vi rintraccia dei riferimenti che possano
avvalorare la tesi di una materia comune alle realtà sensibili e a quelle
intellegibili, l’idea dell’assoluta omogeneità tra la materia spirituale o
intellettuale e quella corporea o sensibile.
Bruno ribadisce questa stessa tesi anche attraverso il richiamo a
Plotino, per il quale «se nel mondo intellegibile è moltitudine e pluralità
di specie, è necessario che vi sia qualche cosa comune»123, sostenendo,
così, la sussistenza di un’unica materia anche nel campo delle real-
tà intellettuali e ideali. Tuttavia, se negli oggetti intellegibili quella
materia «era in concetto uniforme; e prima che in concetto formato,
era in quello informe»124, non è così per quanto riguarda gli oggetti
sensibili, nei quali non vi è coincidenza assoluta di potenza e atto,
di materia e forma, ma relativa. Nell’intellegibile la materia contiene
complicatamente l’infinità informata di tutte le possibili forme, «ha una
volta, sempre et insieme tutto quel che può avere, et è tutto quel che
può essere»125; mentre explicandosi nel sensibile assume particolarità e

121
Ivi, p. 262.
122
Cfr. Ibidem: «“Non mi adorare” disse un de loro angeli al patrarca Iacob,
“perché son tuo fratello”; or se costui che parla (come essi intendono) è una sostanza
intellettuale, et affirma col suo dire che quell’uomo e lui convegnano nella realtà
d’un soggetto stante qualsivoglia differenza formale, resta che gli filosofi abbiano un
oraculo di questi teologi per testimonio». Cfr. Apocalisse, 19, 10.
123
Causa, p. 262.
124
Ivi, p. 263.
125
Ivi. p. 265.
222 giulio gisondi

finitezza «in più volte, in tempi diversi e certe successioni»126. Essa non
è tutto nello stesso tempo e nello stesso spazio, ma si fa tutto secondo
l’alternarsi del processo di generazione e rigenerazione, di aggregazione
e disgregazione, secondo il ritmo della vicissitudine. Ancora una volta
è il binomio cusaniano complicato-explicato a chiarire il rapporto che
lega materia e forma nella loro complicatione, dove non vi è né spazialità
né temporalità, e nella dimensione dell’explicato finito e molteplice, in
cui ogni forma particolare è soggetta al tempo e allo spazio.
La differenza tra l’intellegibile e il sensibile dipende «dalla contraz-
zione a l’essere corporea e non essere corporea»127 della materia, dal suo
definirsi assumendo una forma finita e particolare, pur essendo, nel suo
permanere, sostanza universale. Nell’essere complicatamente legata alla
forma universale, la materia è «attualmente tutto quel che può essere,
ha tutte le misure, ha tutte le specie di figure e di dimensioni»128, e al
tempo stesso, non ne assume alcuna, «perché quello che è tante cose
diverse, bisogna che non sia cosa alcuna di quelle particolari»129. Seppur
logicamente distinta in sensibile e intellegibile, corporea e incorporea,
la materia è una, infinita e permanente. La sola differenza riscontrabile
è legata al suo stato: se complicata, informe, intellegibile e incorporea,
ingloba l’infinità delle forme particolari, mentre se explicata, sensibile
e corporea, assume una forma finita finché non la rigetta per partorirne
un’altra130.
Bruno ribalta e oltrepassa, in queste pagine, la prospettiva inizial-
mente tracciata nel dialogo II del De la causa, lasciando intravedere
come la materia operi da soggetto al pari della forma. Alla domanda
di Dicsono se la materia sia atto, se questa nelle cose incorporee coin-

126
Ibidem.
127
Ivi, p. 265.
128
Ibidem.
129
Ibidem.
130
Ivi, p. 268: «cossì dumque mai è informe quella materia, come né anco questa,
benché differentemente quella e questa: quella ne l’istante de l’eternità, questa ne
gl’istanti del tempo; quella insieme, questa successivamente; quella esplicatamente,
questa complicatamente; quella con molti, questa come uno; quella per ciascuno e
cosa per cosa, questa come tutto et ogni cosa».
unità e vincolo di materia e forma 223

cida con l’atto, Teofilo risponde notando che essa non differisce in
«niente nell’absoluta potenza et atto absoluto»131, ma nella sua «sim-
plicità, indivisibilità et unità»132 è «assolutamente tutto»133 insieme
e al pari della forma, «che se avesse certe proprietà, certa differenza,
non sarebbe absoluto, non sarebbe tutto»134. La materia «absoluta da le
dimensioni»135, include nel suo grembo l’infinità delle possibili forme.
Essa non è esclusivamente il sostrato su cui agisce la forma, ma madre
partoriente le forme particolari, i composti e gli aggregati che abitano
l’universo. Richiamandosi ad Averroè e a Plotino, Bruno propone questa
tesi come la ripresa di un motivo ricorrente nella storia del pensiero
filosofico, anche aristotelico:

[…] è consueto modo di parlare di Peripatetici ancora, che dicono tutti


l’atto dimensionale e tutte forme uscire e venir fuori dalla potenza
de la materia. Questo intende in parte Averroè, il quale quantumque
arabo et ignorante di lingua greca, nella dottrina peripatetica però
intese più che qualsivoglia greco ch’abbiamo letto: et arebbe più inteso,
se non fusse stato così additto al suo nume Aristotele. Dice lui che la
materia ne l’essenzia sua comprende le dimensioni interminate: volendo
accennare che quelle pervengono a terminarsi, ora con questa figura e
dimensioni, ora con quella e quell’altra, quelle e quell’altre, secondo
il cangiare di forme naturali. Per il qual manda come da sé, e non le
riceve come di fuora. Questo in parte intese ancor Plotino prencipe
nella setta di Platone. Costui facendo differenzia tra la materia di cose
superiori e inferiori, dice che quella è insieme tutto; et essendo che
possiede tutto, non ha in che mutarsi: ma questa con certa vicissitu-
dine per le parti, si fa tutto; et a tempi e tempi, si fa cosa e cosa, però
sempre sotto diversità, alterazione e moto136.

131
Ivi, p. 266.
132
Ibidem.
133
Ibidem.
134
Ibidem.
135
Ivi, 267.
136
Ivi, pp. 267-268.
224 giulio gisondi

Il superamento della considerazione della materia come «propre


nihil […] potenza pura, nuda, senza virtù, senza atto e perfezzione»137
è qui, per Bruno, una verità in accordo non soltanto con il suo modo
di filosofare, ma anche con le tradizioni sin qui evocate. L’idea di una
materia che è informe «come la pregnante è senza la sua prole, la quale
la manda e la riscuote da sé»138, «che non riceve cosa alcuna»139, che
non appetisce le forme, ma «che le manda dal suo seno»140, perché tutte
«le ha in sé»141, rappresenta l’accordo e l’inveramento di quelle dottrine
e vie filosofiche che, dai presocratici a Platone, da Plotino fino all’ari-
stotelismo averroista e a David de Dinant, avevano affermato l’unità
dell’essere e della sostanza. Nel recupero di queste filosofie, superando
il modello filosofico e teologico imposto dall’aristotelismo scolastico e
tomista, Bruno riformula l’idea del legame di materia e forma, dell’u-
nità della natura e del suo primato rispetto alla categorizzazione logica
del molteplice.
Ascendere non al «summo et ottimo principio, escluso dalla nostra
conoscenza»142, ma all’«atto di tutto e potenza di tutto»143, al ricono-
scimento dell’unità: questo è «il scopo e termine di tutte le filosofie e
contemplazioni naturali»144, lasciando da parte la via teologica e fideisti-
ca che «ascende sopra la natura, la quale a chi non crede, è impossibile
e nulla»145. Questa considerazione della materia, del suo vincolo con
la forma e dell’unità della natura, costituisce la prospettiva ontologica
imprescindibile dalla quale egli osserva, descrive e definisce, nel De
vinculis, le dinamiche e gli strumenti naturali di attrazione e quelli
artificiali attraverso i quali vincire.

137
Ivi, p. 268.
138
Ibidem.
139
Ivi, p. 274
140
Ibidem.
141
Ibidem.
142
Ivi, p. 269.
143
Ibidem.
144
Ibidem.
145
Ibidem.
V. Il vinculum amoris
tra filosofia naturale e filosofia politica

1. Il De vinculis nel contesto degli scritti magici

Se negli scritti magici sono riscontrabili una naturalizzazione e


un de-occultamento della magia, è soltanto con il De vinculis che ciò
si compie pienamente. Questo scritto si configura come una lettura
della prassi magica che, pur originandosi nel solco dell’analisi filoso-
fico naturalistica dei testi precedenti, si curva verso una riflessione
antropologica e politico-civile. Questo breve e incompiuto trattato è
suddiviso in tre sezioni: la prima dedicata all’analisi dei meccanismi
adottati dal vinciens, colui che vincola; la seconda in cui sono esami-
nate le condizioni del vincibile, colui su cui si esercita un vincolo; la
terza, dedicata al principio su cui è fondata la possibilità di vincire, il
vinculum Cupidinis o vinculum amoris.
Nella prima parte, Bruno descrive il vinciens come un «animarum
venator»1, un mago, cacciatore di anime, che lega attraverso molteplici
nodi, come la vista, l’udito, la mente e l’immaginazione. Qualora questi

1
De vinculis, p. 450.
226 giulio gisondi

fosse capace «per omnes illum intrare portas»2, allora vincolerebbe con
la massima potenza ed efficacia. Il vinciens è, come lo definisce Papi, un
«prudente ed esperto manipolatore di contenuti spirituali»3, in grado
di attrarre i suoi simili grazie a un’universale e unitaria conoscenza
della natura, ma che al tempo stesso sa riconoscere come le strutture
generali vadano ricondotte ai singoli, specifici e determinati casi. Mago
è colui che trasforma e manipola ciò che è naturale, senza la necessità
di ricorrere a cerimonie, rituali o invocazioni di potenze superiori, ma
attraverso pratiche e strumenti esclusivamente umani. Un mago che
vincola in virtù di una «rerum […] universalem rationem»4, per mezzo
di una conoscenza dei temperamenti e della specificità degli individui
su cui agisce, dei tempi, delle circostanze, dei luoghi e degli strumenti
con cui legare.
Questa forma di magia non è differente da quella naturale che opera
attraverso la conoscenza dei principi generali e della struttura degli
elementi, per riconoscere come i corpi si attirino e si respingano, così
da poter agire su di essi per modificarli e stabilire rapporti di dipen-
denza. La differenza tra la magia naturale e la tecnica elaborata nel De
vinculis è, piuttosto, riscontrabile nel suo dominio di applicazione: se
la prima possiede uno statuto più generale e ha come oggetto specifico
la natura in ogni sua parte, la seconda costituisce una sua applicazione
particolare nell’ambito umano. A differenza della magia naturale in
cui interviene un rapporto tra essere umano, mago e natura, come nel
caso della medicina, il tipo di relazione analizzata nel De vinculis è
quello tra l’essere umano e il suo simile. Mentre chi pratica la magia
naturale esercita un rapporto di manipolazione sui composti natu-
rali, il vinciens esercita, invece, un rapporto di supremazia sull’essere
umano, attraverso una profonda conoscenza delle passioni, agendo e
modificando inclinazioni e comportamenti. Questa forma di magia

Ibidem.
2

F. Papi, L’antropologia naturalistica del «De vinculis in genere» di Giordano Bruno,


3

«Acme. Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Statale di Milano»,


XV, 3 (1962), p. 156.
4
De vinculis, p. 414.
il vinculum amoris tra filosofia naturale e filosofia politica 227

può essere definita naturale-antropologica, «dove con naturale si mette


in luce la tecnica operativa che non è né divina né matematica […] e
dove con antropologico vogliamo sottolineare il tipo di risultato o di
conseguenza che la sua azione comporta»5.
Seppur il tema del vinculum sia già presente negli scritti magici
precedenti, soltanto nel De vinculis ne emerge tutta la complessità, sia
sul piano della filosofia naturale sia rispetto alla riflessione civile, senza
che questi due livelli d’analisi siano mai disgiunti l’uno dall’altro. In
effetti, già Tocco6 rilevava come nel De magia, laddove Bruno prende in
considerazione le strutture fondamentali dei vincoli, derivanti dai sensi,
dall’immaginazione e dalla facoltà cogitativa, egli faccia riferimento alla
necessità di una teoria generale che investa quest’ordine di problemi e
che tratti «de vinculis in genere»7. Dichiarando l’impossibilità di esa-
minare i vincoli nel contesto del De magia, egli manifesta la necessità
di una riflessione analitica, separata e programmatica del vinculum.
La possibilità di vincire è, come enunciato nell’ultima delle Theses,
da ricercare nel principio che determina le alterazioni e le attrazioni
tra gli elementi e i corpi naturali, vale a dire nella dicotomia amore/
odio, o meglio, nell’amore, data la possibilità di ricondurre il secondo
al primo8. Questo tema assume una funzione centrale e necessaria,
tanto che al vinculum Cupidinis è dedicata la terza parte del De vinculis.
Come Bruno segnala nell’apertura di questa sezione, richiamando il
precedente De magia, il riconoscimento della natura quale vinculum
amoris e principio a cui tutte le particolarità e contrarietà sono ricon-
dotte fonda la possibilità di una magia per vincoli. Se tale questione
faceva da sfondo al De magia e alle Theses, costituendo il fondamento
teorico fisico e metafisico che permette di pensare la magia, soltanto
nel De vinculis essa può essere declinata in modo sistematico in una

5
Ibidem.
6
Cfr. F. Tocco, Le opere inedite di Giordano Bruno, «Atti della Reale Accademia
di Scienze morali e politiche di Napoli», XXV (1892), Napoli 1891, pp. 259-260.
7
G. De magia, p. 284.
8
Cfr. Theses, p. 398: «Omnes affectus et vincula voluntatis reducuntur ad duo,
ipsaque referunt, nempe ad irascibilem et concupiscibilem, seu odium et amorem;
odium tandem ad amorem reducitur; itaque vinculum unum voluntatis est amor».
228 giulio gisondi

riflessione di carattere antropologico, che si riconnette con quanto


elaborato nelle opere precedenti.
Focalizzando l’analisi del vinculum e del vincire nell’ambito civile,
l’approfondimento della magia diviene uno studio delle dinamiche di
attrazione, alterazione, assoggettamento e dominio dell’essere umano,
dei meccanismi attraverso cui penetrare, fascinare e manipolare. Si
tratta di una riflessione sulle dinamiche di potere e di condizionamento
elaborata nel solco della filosofia naturale, ma che, al tempo stesso,
tocca questioni presenti soltanto di sfuggita sia nelle fonti di Bruno,
sia nei suoi scritti precedenti. Se quest’analisi non è scindibile dal con-
testo della magia naturale, tuttavia essa apre a questioni e problemi
di carattere psicologico e antropologico, facendo del trattato un testo
non facilmente classificabile né definibile. Il De vinculis è senz’altro il
completamento degli scritti magici, ma, allo stesso tempo, anche il loro
superamento. Pensare a questo come a uno scritto di magia non esau-
risce e non chiarisce né la prospettiva elaborata, né il suo oggetto. Non
è un caso che il termine magia non venga mai impiegato nel trattato,
se non nella citazione del precedente De magia naturali.
Il De vinculis è uno scritto magico nella misura in cui riprende e
ricostruisce, nella dimensione più propria all’essere umano, una teo-
ria, una prassi e un metodo tipici della magia naturale. Le categorie
e il linguaggio attraverso i quali leggere e interpretare la dimensione
antropologica sono già radicate nella filosofia naturale. Dall’osserva-
zione della natura e di tutti gli elementi e i corpi che la compongono,
è possibile giungere alla comprensione del vinculum amoris che lega
tutto il vivente in un unico e infinito organismo. L’essere umano è
immerso nella natura e parte integrante di essa, senza alcun primato
ontologico, ma al pari di tutti gli enti. Pertanto, la riflessione sui vin-
cula umani è sempre preceduta dall’analisi dei legami osservabili nei
fenomeni di attrazione naturali9. Lo studio delle dinamiche di potere e
di assoggettamento umane non può prescindere dall’indagine naturale.
Il riconoscimento del vinculum Cupidinis, in virtù del quale il vinciens
può operare tra gli esseri umani e agire su di essi, funge da exemplum.

9
Cfr. De vinculis, pp. 414-416.
il vinculum amoris tra filosofia naturale e filosofia politica 229

Questa relazione tra il vinculum amoris, universale e naturale, e quello


civile, particolare e temporale, chiarisce come la nozione di vincolo
permetta di stabilire una connessione tra filosofia naturale e politica.
In altre parole, questa nozione funge da categoria concettuale valida sia
nell’analisi dei fenomeni di attrazione vigenti tra gli elementi e i corpi
naturali, sia nell’esame delle dinamiche di potere e dominio umane
osservabili nella sfera pubblica e privata.
Nel confronto con i precedenti scritti magici, l’oggetto in esame e
la prospettiva d’indagine proprie al De vinculis si spostano dalla na-
tura all’essere umano, pur permanendo sempre, da un punto di vista
metodologico, nell’ambito della filosofia naturale. Nonostante resti un
lavoro incompiuto, tra gli scritti magici il De vinculis è quello in cui
la prospettiva adottata sembra saldarsi maggiormente alla produzione
prettamente filosofica di Bruno. Non si tratta, cioè, di un corpo estra-
neo al resto della nolana filosofia, ma del risultato di un processo di
riformulazione della magia che, dal De magia mathematica, attraverso
il De magia e le Theses, giunge a riconnettere la riflessione naturalistica
e politico-civile del De vinculis nel cuore dell’ontologia bruniana. In
effetti, dal confronto sistematico tra gli scritti magici emerge una co-
stante riscrittura del materiale raccolto, tesa a naturalizzare gli elementi
occulti e sovrannaturali che caratterizzavano la letteratura magica. È
un’operazione di de-occultamento della teoria e delle pratiche magiche,
gradualmente innestate, insieme alle fonti utilizzate, nell’orizzonte della
filosofia naturale elaborata dal Nolano nelle precedenti opere latine
e volgari. Dal De magia mathematica al De magia, dalle Theses al De
vinculis, la dimensione occulta e sovrannaturale scompare gradualmente
per lasciare spazio allo studio e all’analisi psicologico-antropologica
delle dinamiche di relazione, manipolazione e domino riscontrabili
tra gli uomini.
230 giulio gisondi

2. Dalla filosofia naturale alla riflessione antropologica e politica

Bruno apre la terza sezione del De vinculis esponendo il principio


per cui tutte le forme di attrazione, i legami, le relazioni e i vincoli si
riferiscono e sono possibili in virtù del vincolo d’amore da cui queste
dipendono e in cui consistono: « Diximus in his quae de naturali magia
quemadmodum vincula omnia tum ad amoris vinculum referantur,
tum ad amoris vinculo pendeant, tum in amoris vinculo consistant»10.
L’amore è il fondamento di tutti gli affetti: chi non ama sarà meno vul-
nerabile o del tutto indifferente alle trenta specie di attrazione in grado
di legare l’anima e il corpo. L’amore è la passione e la forza dominante
su ogni altro sentimento, non riconducibile ad altro principio.
La priorità attribuita al vinculum Cupidinis non possiede un semplice
valore strumentale, ma corrisponde alla rappresentazione ontologica e
cosmologica elaborata nelle opere precedenti. La necessità dell’amore
in ogni ambito del reale costituisce una tesi espressa non soltanto nel
De magia e nelle Theses, ma ancor prima dal Sigillus alla Cena, dal De
la causa ai Furori. Nella conclusione del passo egli sottolinea come
la considerazione del vinculum Cupidinis «vita a civili institutio non
idcirco longius recedere existimanda, quia amplior est mirifice quam
ad civile institutum»11. Marcando la non estraneità della considerazio-
ne del vincolo d’amore dall’analisi del mondo civile, Bruno rielabora
quanto già implicitamente espresso in quelle opere: la continuità e la
non separazione tra la dimensione naturalistica e quella antropologica,
ovvero il riconoscimento dell’appartenenza dell’ambito politico, reli-
gioso, della storia dei popoli e delle nazioni al ritmo della vicissitudine
universale. L’aggregazione, l’accrescimento, la trasformazione e la dis-
soluzione non sono fenomeni propri ai soli elementi e corpi naturali,
semplici o composti, ma anche a quelli sociali, con le loro culture,
leggi, religioni, ordinamenti, lingue e istituti: in quanto immersi nel
ciclo della vita naturale, anche questi sono temporanei e dissolubili,

10
Ivi, p. 492.
11
Ibidem.
il vinculum amoris tra filosofia naturale e filosofia politica 231

osservabili e interpretabili attraverso le stesse categorie con le quali


analizzare il mondo fisico.
Questa considerazione del mondo civile come immerso in quello
naturale poggia su due elementi teorici. Il primo è rintracciabile nella
rappresentazione propria a Nicolò Machiavelli della ciclicità della na-
tura e della storia, riformulazione dell’idea polibiana dell’ἀνακύκλωσις.
L’ordine naturale assorbe quello storico, l’eternità del cosmo si riper-
cuote non solo sul mondo animale ma anche sulla vita dei regni e delle
repubbliche comprendendo esistenze e vicende umane12.
Nei capitoli XVII e XVIII del libro I dei Discorsi, Machiavelli ricorre
a un lessico e a categorie fisiche e mediche nell’analisi del problema
politico della corruzione del popolo e dello Stato e la possibilità di
curarli. Egli si esprime attraverso l’utilizzo delle nozioni di caso, ne-
cessità, materia, corruzione, cura e guarigione13. Come ogni elemento,
organismo e corpo naturale nasce, cresce, si corrompe e muore, alla
stessa sorte sono sottoposti tutti i corpi sociali, i popoli, gli organismi
politici e gli Stati. Come i primi, così anche questi ultimi possono am-
malarsi e guarire, attraverso farmaci quali le buone leggi, le religioni, la
virtù dei governanti e dei cittadini, i buoni costumi, le opere. Questa
considerazione del mondo civile non è materialistica o meccanicistica.
Machiavelli esclude una simile possibilità di lettura della dimensione
storica e antropologica. L’alternarsi delle differenti forme di governo, la
nascita, la crescita e la morte degli stati, non seguono dinamiche pre-
determinate. Seppur la storia rientri nel ritmo naturale di generazione
e corruzione, all’interno di quest’eterno movimento permangono, a
garanzia della libertà umana, la causalità e la contingenza. Se nel libro
I dei Discorsi egli rileva la ciclicità con la quale i governi, le repubbliche
e gli Stati si susseguono nella storia, al tempo stesso, osserva anche
come sorsero «queste variazioni de’ governi a caso intra gli uomini»14.

12
Cfr. N. Machiavelli, Istorie Fiorentine, in Opere, C. Vivanti (a cura di), Torino
2005, vol. III, lib. V, cap. 1, p. 519; cfr. Id., Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio,
in Opere, cit., 1999, vol. I, lib. I, cap. 2, p. 205.
13
Id., Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, cit., lib. I, capp. 16-17, pp. 240-245.
14
Ivi, p. 204.
232 giulio gisondi

Bruno recupera proprio questa concezione machiavelliana della storia


civile come inclusa nel ritmo della vita naturale.
Il secondo elemento teorico che gli consente di leggere la dimensione
antropologica attraverso il lessico e le categorie del mondo naturale, è
relativo alla nozione di vinculum amoris. Nella prospettiva fisica, me-
tafisica e civile sia degli scritti magici, sia dei dialoghi italiani, l’amore
costituisce non soltanto un sentimento fra tanti altri attraverso cui
stabilire legami sul piano politico, fascinando, attraendo e avvincendo
uno o più soggetti su cui si vuol operare o produrre un effetto emotivo
e psicologico. L’amore è piuttosto la ragione strutturale dell’universo,
il legame originario tra la materia e la forma, il principio per cui tutti
gli elementi e i corpi naturali si attraggono, si legano fra loro e vivono
secondo il ritmo della vicissitudine universale. L’istituzione di partico-
lari relazioni d’amore nella molteplicità e contrarietà del mondo finito
equivale per Bruno a operare nella dimensione civile secondo il modello
costituito dalla natura, principio d’amore e d’unità.
Nella prospettiva machiavelliana l’amore è uno dei possibili sen-
timenti attraverso cui legare in politica: «un vinculo di obbligo, il
quale, per essere li uomini tristi, da ogni occasione di propria utilità è
rotto»15, preferendo a esso il timore, in quanto chi teme «è tenuto da
una paura di pena che non ti abbandona mai»16. Per Bruno, invece, il
vincolo d’amore particolare e temporaneo rispecchia quello universale,
ragione naturale, fisica e metafisica insita in ogni cosa. Istituire vincoli
d’amore corrisponde ad agire nel mondo civile sulla base di un para-
digma naturale. È questa la ragione per la quale egli privilegia l’amore
e non il timore o la paura come sentimento da applicare in politica.
L’amore è il collante tra la dimensione antropologica e quella natu-
rale, il legame che consente di radicare la prospettiva umana e civile
nella riflessione naturalistica. Un buon principe è colui che, serven-
dosi del vincolo d’amore, istituisce un legame tanto più saldo quanto
maggiore è l’affetto che lo lega ai suoi sudditi, poiché «qualsivoglia
sorte d’amore quanto ha maggior imperio e più certo dominio, tanto

15
Id., Il Principe, in Opere, cit., vol. I, 1997, cap. XVII, pp. 165-167.
16
Ibidem.
il vinculum amoris tra filosofia naturale e filosofia politica 233

fa sentir più stretti i lacci, più fermo il giogo, e più ardenti le fiamme.
Al contrario, de gli ordinarii prencipi e tiranni, che usano strettezza
e forza, dove veggono aver minore imperio»17. Amore è la più potente
delle armi di cui un principe possa servirsi, non soltanto in quanto lega
con più efficacia, ma perché costituisce la ragione intima e strutturale
di tutto il vivente.
Il riconoscimento dell’amore come ragione universale non equivale,
tuttavia, al semplice rispecchiamento dell’ordine naturale in quello
antropologico. Nella coincidentia oppositorum non vi è separazione
né contrarietà: tutto è indistinto e racchiuso nell’unità della causa e
principio primo. In esso non sussiste alcuna possibilità di operazione
né di conoscenza da parte dell’essere umano. Laddove vi è, invece,
molteplicità, contrarietà, distinzione e, dunque, causalità e contingenza,
vi è libertà e possibilità di azione. Una volta compresa questa struttura
unitaria del reale, occorre far ritorno nel molteplice e agire in esso,
riproducendo l’unità naturale in quella civile, attraverso l’istituzione
di vincoli come le leggi, le religioni, e garantire in essa la libertà, la
concordia e le differenze individuali. Bisogna, in altre parole, ripensare
positivamente il finito come l’unico spazio possibile all’agire umano
sulla contrarietà del vivente.
La considerazione unitaria e non separabile della dimensione natu-
rale e di quella civile costituisce, nell’analisi del De vinculis, una delle
maggiori difficoltà. Bruno espone l’esame dei vincoli civili celandoli
nella conclusione dell’esame dei legami naturali. Non è un caso se le
ultime righe dei principali articoli del trattato siano dedicate e si aprano
a una riflessione politica e civile. Questo modo di analizzare i vincoli
naturali e civili è espressione della prospettiva antropologico-naturali-
stica, per la quale le dinamiche umane di attrazione non possono essere
isolate e scisse dal mondo fisico di cui l’umanità è parte. Il vinculum
incarna non soltanto la relazione tra la materia e la forma, ma il legame
tra la filosofia naturale e la politica, ciò che consente di rintracciare le
categorie del politico come già radicate nell’indagine sulla natura. La
riflessione sull’amore, strumento di fascinazione psicologica sul piano

17
Furori, p. 850.
234 giulio gisondi

dell’agire politico, rappresenta un naturale prosieguo e una diretta con-


seguenza di quella ontologica sul naturale e universale vinculum amoris.

3. Il vinculum Cupidinis tra i Furori e il De vinculis: poesia, verità


e caccia filosofica

Nel Sigillus, nella Cena e nel De la causa, la relazione d’amore carat-


terizza il processo d’animazione universale. In virtù dell’amore l’anima
del mondo agisce sugli elementi e i corpi naturali, spingendoli alla
conservazione, a fuggire il contrario e a ricercare il simile. L’amore è una
forza di conservazione ed espansione, di generazione e rigenerazione,
individuale e universale. Essa affetta sia il singolo sia l’intero universo,
riconducendo la vita di un individuo, di un elemento e di un corpo
particolare, al ritmo della vita universale. Come rileva Papi, l’amore
è un atto che contemporaneamente costituisce «un’affermazione di sé
come singolo e assolutamente relativo, ma nella tensione del rapporto
stesso, assolutamente essenziale, è un ritorno del singolo al ritmo del
tutto»18: amore di sé, struttura intima a ogni essere vivente e, insieme,
amore universale che assorbe ogni cosa nell’eterna vicissitudine: «ratio
prima, qua unumquodque vincibile est, partim est ex eo quod in eo
esse, quod est sibi praesens, appetit servari, partim quod secundum
ipsum et in ipso maxime perfici. Hoc est philautia in genere»19.
La ragione per cui ogni cosa può essere vincolata risiede nella phi-
lautia, nell’amore di sé, nel desiderio di conservarsi per sempre nella
condizione presente. Questo desiderio si scontra, però, con l’azione
della natura come amore universale, la quale attraverso la vicissitudine
fa sì che ogni cosa si trasformi incessantemente, perdendo la propria
forma particolare per soddisfare il desiderio perenne della materia e
della vita universale di abbracciare la totalità delle forme possibili20.

Cfr. F. Papi, L’antropologia naturalistica, cit., pp. 158-159.


18

De vinculis, pp. 468-470.


19

20
Ivi, pp. 512-514: «Itaque est vinculum, quo res volunt esse ubi sunt et non
amittere quae habet. Interea quoque volunt esse ubique et habere quae absunt: unde
il vinculum amoris tra filosofia naturale e filosofia politica 235

Bruno recupera la prospettiva già tracciata nel De la causa e nei Furori,


ponendo un parallelismo tra l’eros che spinge il furioso all’incessante
ricerca della verità e l’amore in virtù del quale la materia assume con-
tinuamente nuove forme per poi rigettarle.
La constatazione nel De vinculis che l’appetito e l’intelletto non
si appagano nel raggiungimento di un bene particolare e finito, ma
aspirano al buono, al bene e al vero universali, richiama proprio i versi
dei Furori in cui il Nolano afferma che la vera felicità consiste «per
il bevere non per l’aver bevuto il nettare, per il gustare non per aver
gustato l’ambrosia, con aver continuo affetto al cibo et alla bevanda, e
non con esser satolli e senza desio de quelli»21. Si tratta di un motivo di
matrice aristotelico-averroista più volte richiamato nel dialogo, secondo
il quale la somma felicità umana consiste nella perfezione per le scienze
speculative22, nella contemplazione che avvicina al vero, al bene e al
bello universali. La felicità risiede non nel possesso definitivo di un
oggetto intellegibile, ma in una ricerca infinita e infaticabile, nell’amore
e nel desiderio insaziabile per la verità.
Se il tema del rapporto tra amore e desiderio nel processo conosci-
tivo appartiene all’aristotelismo averroista, questo sembra giungere a
Bruno anche attraverso altre fonti, tra cui i Dialoghi d’amore di Giuda
Abarbanel, o Leone Ebreo, pubblicati a Roma nel 1535. Rimodulando
la lettura del neoplatonismo ficiniano attraverso la tradizione filosofica
arabo-giudaica, averroista e maimonidea, il medico e filosofo ebreo
s’interrogava sul rapporto tra amore e desiderio, sulla dottrina della
beatitudine umana e sul ricongiungimento dell’essere umano al primo

ex complacentia quadam circa possessa, desiderio et appetitu circa distantia et pos-


sessibilia, et amore circa omnia, quia particulari et finito bono atque vero non exple-
tur particularis appetitus et intellectus, qui ad universorum bonum et universum
verum respiciunt obiecta. Hinc est ut ab eodem vinculo finita potentia in quadam
definita materia simul et stringi et dispergi, de[s]trahai atque dissipari se experiatur.
Hanc conditionem vinculi secundum genus in vinculis secundum specierum singulas
observato».
21
Furori, p. 933.
22
Ivi, p. 814.
236 giulio gisondi

intelletto23, secondo una prospettiva che sarà ripresa e rimodulata da


Bruno nei Furori. La felicità umana consiste, secondo Leone Ebreo,
nell’amore e nel desiderio insaziabile per la sapienza, nel ricongiungi-
mento con l’intelletto divino, non nel possesso della verità, ma nell’atto
del conoscere: «la felicità non consiste in abito di cognizione, ma nell’at-
to di quello: ché il sapiente quando dorme non è felice, ma quando
fruisce e gode de l’intelligenza è felice. Adunque, se così è, in uno solo
atto d’intendere di necessità consiste la beatitudine»24. La beatitudi-
ne e il ricongiungimento con l’intelletto divino non avvengono per
possesso, poiché l’oggetto della conoscenza, in quanto infinito, sfugge
alle possibilità conoscitive umane. Secondo un modello fortemente
radicato anche nei Furori, Leone Ebreo sostiene che «per essere infinito
[Dio] e in tutta perfezione, non si può conoscere da la mente umana;
la quale è, in ogni cosa, finita e terminata»25: scopo della mente umana
è di «conoscere secondo la possibilità del conoscitore, ma non secondo
l’immensa eccellenzia del conosciuto»26. La beatitudine, la felicità «non
consiste in quello atto conoscitivo di Dio il quale conduce l’amore, né
consiste ne l’amore che a tal cognizione succede; ma sol consiste ne
l’atto copulativo de l’anima e unita cognizione divina, che è la somma
perfezione del nostro intelletto creato»27.
La teorizzazione della relazione tra amore, desiderio e conoscenza
elaborata da Leone Ebreo nei suoi Dialoghi non è estranea alla pro-
spettiva tracciata da Bruno nei Furori, laddove osserva come «non
possiamo desiderar né ottener maggior perfezzione che quella in cui

23
L. Ebreo, Dialoghi d’amore, S. Caramella (a cura di), Bari 1929, pp. 24-25:
«l’insaziabile e ardente amore de la sapienza e virtù de le cose oneste è quello che fa
divino il nostro intelletto umano, e [che] il nostro fragil corpo, vaso di corruzione,
converte in strumento d’angelica spiritualità. […] E da quel mezzo si verifica che,
quanto più ecessivamente si desidera ama e segue, tanto più veramente è virtù. Perché
già tal desiderio non è più delettazione né utilità; ma depende da la moderazione di
quelle, ch’è virtù intellettiva e veramente è cosa onesta».
24
Ivi, p. 39.
25
Ivi, pp. 32-33.
26
Ibidem.
27
Ivi, p. 46.
il vinculum amoris tra filosofia naturale e filosofia politica 237

siamo quando il nostro intelletto mediante qualche nobil specie intel-


ligibile s’unisce o alle sustanze separate, come dicono costoro [i peri-
patetici], o a la divina mente, come è modo di dir de Platonici»28. La
ricerca della verità universale, quest’unione dell’intelletto umano con
la mente divina, è un processo senza sosta, poiché l’oggetto della co-
noscenza è infinito e ineffabile. Alla domanda di Cicada, uno dei due
interlocutori del dialogo, «che perfezzione o satisfazzione può trovar
l’uomo in quella cognizione la quale non è perfetta?»29, Tansillo, poeta
nolano e portavoce della filosofia bruniana nell’opera, replica: «Non
sarà mai perfetta per quanto l’altissimo oggetto possa essere capito, ma
per quanto l’intelletto nostro possa capire: basta che in questo et altro
stato gli sia presente la divina bellezza per quanto s’estende l’orizzonte
de la sua vista»30. La beatitudine e il ricongiungimento con il divino
equivalgono a un’incessante e sofferta ricerca, poiché questa non può
mai essere completamente appagata. L’oggetto di questa ricerca, l’unità
della natura e il vincolo d’amore, rappresenta un elemento in continua
trasmutazione mai pienamente percepibile e afferrabile dall’intelletto
umano31. La via che consente di scorgere quest’unità naturale è la ri-
cerca intesa come incessante trasmutazione dell’amante nell’amato,
nell’oggetto della sua conoscenza e del suo desiderio, un infaticabile
processo di ex-sistenza, di uscita dalla propria forma in un processo di
autotrasformazione del sé.

28
Furori, p. 814.
29
Ibidem.
30
Furori, pp. 814-815. Cfr. L. Ebreo, Dialoghi d’amore, cit., p. 33: «l’occhio
comprende le cose secondo la sua forza oculare, sua grandezza e sua natura; ma non
secondo la condizione de le cose viste in se medesime. E di questa sorte comprende il
nostro piccolo intelletto l’infinito di Dio: secondo la capacità e forza intellegibile uma-
na, ma non secondo il pelago senza fondo de la divina essenzia e immensa sapienza».
31
Ivi, p. 824: «Atteso che non è cosa naturale né conveniente che l’infinito sia
compreso, né esso può donarsi finito: percioché non sarebbe infinito; ma è conve-
niente e naturale che l’infinito per essere infinito sia infinitamente perseguitato (in
quel modo di persecuzione il quale non ha raggion di moto fisico, ma di certo moto
metafisico […])».
238 giulio gisondi

L’oggetto della ricerca del furioso, osserva Bassi, «sfugge a ogni ten-
tativo di apprensione definitiva»32, si sottrae a ogni definizione logica,
almeno sin quando il furioso non lo scorga e si tramuti in esso. Come
Atteone, che solo per un istante sorprende Diana nuda e, trasformato
nell’oggetto della sua caccia, diviene preda de «gli cani, pensieri de cose
divine»33, così il furioso coglie l’infinita verità soltanto facendosi preda
della sua stessa ricerca. Come Atteone, così il furioso «vede l’Anfitrite,
il fonte de tutti numeri, de tutte specie, de tutte raggioni, che è la mo-
nade, vera essenza de l’essere de tutti; e se non la vede in sua essenza,
in absoluta luce, la vede nella sua genitura che gli è simile, che è la
sua imagine: perché dalla monade che è la divinitade, procede questa
monade che è la natura, l’universo, il mondo»34.
Il ricorso di Bruno al mito e alla poesia manifesta l’impossibilità
di esprimere una verità che ciclicamente si cela e si disvela attraver-
so un linguaggio che sia esclusivamente logico e razionale. Soltanto
ricorrendo alle immagini suscitate dal linguaggio mitico e poetico,
che vincolano la potenza cogitativa, è possibile tradurre in parole una
realtà impermamente che sfugge a ogni assoluta definizione. L’unico
strumento attraverso cui cogliere ed esprimere un’immagine fugace e
istantanea dell’infinità e unità della natura, di una verità continuamen-
te celata sotto forme diverse, è la poesia filosofica o filosofia poetica.
Nell’Explicatio triginta sigillorum, pubblicata a Parigi, 1583, Bruno
identifica l’attività filosofica con quella poetica e pittorica: «philosophi
sunt quodammodo pictores atque poetae, poetae pictores et philosophi,
pictores philosophi et poetae, mutuoque veri poetae, veri pictores et
veri philosophi se diligunt et admirantur»35.
La filosofia è incapace «d’esplicar gl’intricati sentimenti»36, di affer-
rare l’infinita dinamicità delle metamorfosi del reale, se non tramutan-
dosi in linguaggio poetico e pittorico. L’identificazione della filosofia

32
S. Bassi, L’arte di Giordano Bruno. Memoria, Furore, magia, Firenze 2004, p. 80.
33
Furori, pp. 921.
34
Ivi, p. 922.
35
Explicatio, p. 133.
36
Cena, p. 28.
il vinculum amoris tra filosofia naturale e filosofia politica 239

con la poesia e la pittura rappresenta un salto oltre le regole imposte


dalla Poetica di Aristotele quale fondamento dell’arte. Questa rottura
non è dettata esclusivamente da ragioni stilistiche e formali. La critica
di Bruno a questi canoni estetici mina l’aristotelismo alle sue fonda-
menta ontologiche: a essere rigettati sono l’immagine di una natura
immutabilmente identica a sé stessa e l’idea della negatività dell’infinito
come indefinito. Nella prospettiva aristotelica, la mimesis, necessaria
regola stilistica, costituisce una forma di rispecchiamento dell’essere
nel linguaggio dell’arte. La poesia riflette le stesse caratteristiche della
natura che esprime, secondo un principio d’imitazione e di riprodu-
zione. Questa forma di linguaggio assume i caratteri della descrizione
e della definizione. Al contrario, alla nuova immagine bruniana della
natura come infinita, perenne metamorfosi e vicissitudine, corrisponde
una pluralità di lingue e stili poetici atti a sprofondare e a esplicare
l’eterna generazione e mutazione.
La critica presente nella prima parte dei Furori alle regole impo-
ste dal modello, allora dominante, della poesia petrarchesca è tesa a
suscitare non una semplice polemica stilistica, ma un ripensamento
della pluralità e varietà delle forme linguistiche attraverso cui espri-
mere filosoficamente e poeticamente l’infinità della natura e una realtà
molteplice. Bruno rovescia il rapporto tra mimesis e poiesis, tra le regole
della poesia e la poesia come creazione assoluta, come ciò che crea
la regola. Soltanto attraverso questa seconda forma di poesia l’essere
umano genera nuovi mondi linguistici e significanti, coglie e accede a
una dimensione d’infinità:

[Cicada] Sì che come Omero nel suo geno non fu poeta che pendesse
da regole, ma è causa delle regole che servono a coloro che son più atti
ad imitare che ad inventare; e son state raccolte da colui che non era
poeta di sorte alcuna, ma che seppe raccogliere le regole di quell’una
sorte, cioè dell’omerica poesia in serviggio di qualch’uno che volesse
doventar non un altro poeta, ma un come Omero: non di propria
musa, ma scimia de la musa altrui.
[Tansillo] Conchiudi bene, che la poesia non nasce da le regole, se non
per leggerissimo accidente; ma le regole derivano da le poesie: e però
240 giulio gisondi

tanti son geni e specie de vere regole, quanti son geni e specie de veri
poeti […] dico che sono e possono essere tante sorte de poeti, quante
possono essere e sono maniere de sentimenti et invenzioni umane37.

Come osservava Sturlese, «l’arte è creatrice di vita e di piccoli


mondi che racchiudono un infinito»38, proprio come la natura incarna
una generazione senza fine. La satira contro i perfetti conoscitori delle
regole, più atti a imitar che a far della poesia, si inscrive in una ricon-
siderazione della natura, della vita e, al tempo stesso, del linguaggio
e della funzione della filosofia. Nell’infinita varietà degli stili, delle
lingue e delle immagini poetiche si aprono al filosofo inesauribili
fonti di associazione e rammemorazione fantastica. La metafora, ad
esempio, principale strumento di sovrapposizione poetica, non è un
semplice trasferimento dalla specie al genere o viceversa, ma conti-
nua creazione di nuove immagini della mente, di senso, significanti
e significazioni, incessante opera di associazione e dissociazione. In
questo senso, la natura e l’universo sono direttamente associati alla
capacità di essere compresi metaforicamente: ogni cosa presente in
natura e nell’universo, in quanto può configurarsi come strumento
metaforico, rimanda incessantemente a qualcos’altro. Nell’attimo in
cui un particolare diviene parte di un’associazione metaforica esso
dischiude nuove possibilità di senso, mondi inesauribili di significazio-
ne, trascendendo sé stesso, spogliandosi della sua natura d’accidente,
per essere incluso in una dimensione universale e infinita che varca
quella finita e particolare.
Se con il De umbris Bruno aveva sviluppato e definito i caratteri
generali e le tecniche della sua ars memoriae, è con i Furori che questi
strumenti rammemorativi si rivelano necessari al discorso filosofico e
poetico sull’infinito. La mnemotecnica non è uno strumento atto a
conservare nozioni, ma a produrre continuamente nuove immagini,
termini e concetti. Attraverso la logica, la lingua poetica e l’arte della

Furori, pp. 783-784.


37

R. Sturlese, Arte della natura e arte della memoria in Giordano Bruno, in «Ri-
38

nascimento», XL (2000), p. 127.


il vinculum amoris tra filosofia naturale e filosofia politica 241

memoria, l’essere umano scopre la possibilità di svincolarsi dalle re-


gole del mondo fisico, dall’eterno ciclo della vicissitudine. È per via di
quest’inesauribile forma di conoscenza che il furioso sperimenta come
il suo accedere a una dimensione di verità sia una forma d’unione e
partecipazione all’infinità della natura.
Nel De vinculis Bruno ripensa il vinculum amoris recuperando
il tema dell’eros come elaborato nei Furori. Seppur questi non siano
un’opera magica, il lessico impiegato richiama le dottrine legate al
patrimonio della letteratura rinascimentale magica ed erotica. Sia nella
prima, sia nella seconda parte del dialogo, l’oggetto della ricerca del
furioso è paragonato a un’esca o a un giogo dal quale egli è incapace di
sottrarsi: «debbo tentare di suttrarmi io o altro dal dolce amaro giogo
che n’ha messo al collo la divina providenza?»39. Il cuore del furioso è
«come in esca ben disposta»40, attratto e legato da un fuoco d’amore.
La visione dell’unità della natura assume la forma di una saetta, un
laccio, un fuoco dal quale se altri fuggono il furioso è, invece, attratto41.
L’eroico furore è questo laccio infuocato, un nodo d’amore doloroso,
un vincolo che lega il cuore e la mente del furioso alla visione della
divina bellezza, alla ricerca e alla conoscenza della verità. Seppur do-
loroso, poiché rende schiavo chi ne è legato, questo laccio è un bene
nella prospettiva dell’eternità, desiderio del divino, legame tra l’essere
umano e la verità. Gli amori eroici mirano non al soddisfacimento di

39
Furori, p. 757.
40
Ivi, p. 841.
41
Ivi, p. 808: «Dove dimostra l’amor suo non esser come de la farfalla, del cervio
e del liocorno, che fuggirebono s’avesser giudizio del fuoco, della saetta e de gli lacci,
e che non han senso d’altro che del piacere: ma vien guidato da un sensatissimo e pur
troppo oculato furore, che gli fa amare più quel fuoco che altro refrigerio, più quella
piaga che altra sanità, più que’ legami che altra libertade. Perché questo male non è
absolutamente male: ma per certo rispetto al bene secondo l’opinione, e falso […].
Perché questo male absolutamente ne l’occhio de l’eternitade è compreso o per bene,
o per guida che ne conduce a quello; atteso che questo fuoco è l’ardente desio de le
cose divine, questa saetta è l’impression del raggio de la beltade della superna luce,
questi lacci son le specie del vero che uniscono la nostra mente alla prima verità: e le
specie del bene che ne fanno uniti e gionti al primo e sommo bene».
242 giulio gisondi

un piacere fisico, ma al congiungimento con la divinità, all’accesso al


bene, al bello e al vero universali42.
La verità e la divina bellezza sono, come osserva Bassi, i due prin-
cipali «centri di attrazione che creano legami magici, attraverso l’a-
descamento messo in moto dall’amore e dal desiderio»43. La ricerca
dell’unità e della bellezza della natura costituisce la via che estranea e
isola il furioso dalla molteplicità. Bruno descrive il tentativo di ricon-
giungimento al divino attraverso il vincolo d’amore come una morte
dell’anima, «che da Cabalisti è chiamata “morte di bacio” figurata nella
Cantica di Salomone dove l’amica dice: che mi bacie col bacio de sua
bocca»44. Secondo un tema largamente presente in Ficino45, in Leone
Ebreo46, in Giovanni Pico della Mirandola47. L’apprensione dell’unità
naturale e divina da parte del furioso si compie attraverso l’esperienza
della contrarietà, lo scontrarsi con essa e l’oltrepassarla: tappe di un
cammino necessario, nel quale il vizio per un particolare aspetto della
realtà diviene virtù eroica, nell’attimo in cui il furioso supera la con-
trarietà e scorge l’unità che lega gli opposti. Questo processo trasforma
il soggetto, lo rende «morto vivente o vivo morente; là onde dice: “in
viva morte morta vita vivo”»48.

42
Ivi, p. 917: «Or l’esca de la mente bisogna dire che sia quella che sempre è
bramata, cercata, abbracciata, e volentieri più ch’ogni altra cosa gustata, per cui
s’empie, s’appaga, ha prò e dovien megliore: cioè la verità alla quale in ogni tempo,
et in ogni etade et in qualsivoglia stato che si truove l’uomo, sempre aspira, e per cui
suol spreggiar qualsivoglia fatica, tentar ogni studio, non far caso del corpo, et aver
in odio questa vita».
43
S. Bassi, L’arte di Giordano Bruno, cit., p. 82.
44
Furori, p. 823.
45
Cfr. M. Ficini Commentarium in Convivium Platonis, testo, trad. fr. e note P.
Laurens (a cura di), Paris 2002, d. II, cap. 8, p. 43.
46
Cfr. L. Ebreo, Dialoghi d’amore, cit., p. 178.
47
Cfr. G. Pico della Mirandola, Commento sopra a una canzona de amore composta
da Girolamo Benivieni, in Opere, E. Garin (a cura di), Torino 2004, vol. I, pp. 557-558.
48
Furori, p. 800: «Non è morto, perché vive ne l’oggetto; non è vivo, perché è
morto in se stesso: privo di morte, perché parturisce pensieri in quello; privo di vita,
perché non vegeta o sente in se medesimo. Appresso è bassissimo per la considerazione
de l’alto intelligibile e la compresa imbecillità de la potenza; è altissimo per l’aspira-
il vinculum amoris tra filosofia naturale e filosofia politica 243

Bruno traccia qui un parallelismo tra la morte mistica e il raptus


divino del Cantico dei cantici, tra la ricerca della verità da parte del
furioso e quella dei profeti. Tuttavia, tra il furore mistico e quello
filosofico vi è una radicale differenza:

Poneno, e sono più specie de furori, li quali tutti si riducono a doi


geni: secondo che altri non mostrano che cecità, stupidità et impeto
irrazionale, che tende al ferino insensato; altri consisteno in certa
divina abstrazione per dovegnono alcuni megliori in fatto che uo-
mini ordinari. E questi sono de due specie perché: altri per esserno
fatti stanza de dèi o spiriti divini, dicono et operano cose mirabile
senza che di quelle essi o altri intendano la raggione; e tali per l’or-
dinario sono promossi a questo da l’esser stati prima indisciplinati
et ignoranti, nelli quali come vòti di proprio spirito e senso, come
in una stanza purgata, s’intrude il senso e spirito divino; il qual
meno può aver luogo e mostrarsi in quei che son colmi de propria
raggione e senso, perché tal volta vuole ch’il mondo sappia certo che
se quei non parlano per proprio studio et esperienza come è mani-
festo, séguite che parlino et oprino per intelligenza superiore: e con
questi la moltitudine degli uomini in tali degnamente ha maggior
admirazione e fede49.

La distinzione tra le due specie di furori, uno mistico-profetico,


l’altro filosofico, recupera quella tra le due forme di magia e di contrac-
tiones descritte nel Sigillus, una che opera attraverso una regulatas fides
e una seconda che agisce per mezzo della credulitas. Come nel Sigillus
così anche qui Bruno distingue tra il furore di quanti si fanno vaso e
strumento di una divinità o di un demone, essendo vuoti, ignoranti
e privi di ragione; e quanti, invece, incarnano una lodevole specie
di furore intellettuale, nei quali nessuno spirito o demone potrebbe

zione dell’eroico desio che trapassa di gan lunga gli suoi termini, et è altissimo per
l’appetito intellettuale che non ha modo e fine di gionger numero a numero […]».
49
Ivi, p. 805.
244 giulio gisondi

introdursi, essendo questi già ricolmi della loro ragione, liberi e non
schiavi della propria o altrui immaginazione50.
Questa distinzione non è esclusivamente gnoseologica, ma assume
una connotazione morale ed etico-civile. I Furori rappresentano la
proposta di una riforma interiore, una trasformazione dell’essere umano
da vaso, strumento e soggetto della vicissitudine degli eventi e delle
metamorfosi, ad artefice della propria esistenza e del proprio destino. Se
«la luce divina è sempre presente; s’offre sempre, sempre chiama e batte
le porte de nostri sensi et altre potenze cognoscitive et apprensive»51,
ciò significa che questa è sempre percepibile da ogni individuo e che
ognuno può mettersi sulle sue tracce e parteciparne. Il rifiuto di questa
luce non è che un pigro soggiornare in una dimensione d’asinità, di
ferina e bestiale schiavitù. Il compito di ogni individuo è, invece, quello
di potenziare e accrescere le facoltà che lo rendono libero e capace di
autodeterminarsi.
La distinzione tra queste due forme di furore è il riconoscimento
della differenza antropologica, già tracciata nel Sigillus, tra quanti si
rendono schiavi di fantasie e pensieri che legano il soggetto a una co-
stante e passiva ignoranza; e quanti agiscono attivamente, in virtù del
proprio intelletto o lume naturale, tentando di conoscere, apprendere
ed elevarsi dal loro stato ordinario. Se i primi sono umiliati, aggiogati
e vincolati a uno stato di bestiale asinità, i secondi rappresentano il
compimento delle virtù umane, fonte di progresso per l’intera specie. I
primi sono vincolati e agiti dalla loro stessa immaginazione e attraverso
questa istituiscono legami che incatenano a uno stato di dipendenza
e schiavitù intellettuale. I secondi sono, invece, in grado di dominare
e agire sulla propria e altrui immaginazione, istituendo vincoli che
fortificano e uniscono la repubblica degli uomini:

50
Ibidem: «per essere avezzi o abili alla contemplazione, e per aver innato uno spi-
rito lucido e intellettuale, da uno interno stimolo e fervor naturale suscitato da l’amor
della divinitate, della giustizia, della veritade, della gloria, dal fuoco del desio e soffio
dell’intenzione acuiscono gli sensi, e nel solfro della cogitativa facultade accendono
il lume razionale con cui veggono più ordinariamente: e questi non vegnono al fine
a parlar et oprar come vasi et instrumenti, ma come principali artefici et efficienti».
51
Ivi, p. 762.
il vinculum amoris tra filosofia naturale e filosofia politica 245

Gli primi hanno più dignità, potestà et efficacia in sé: perché hanno
la divinità. Gli secondi son essi più degni, più potenti et efficaci, e
son divini. Gli primi son degni come l’asino che porta li sacramenti:
gli secondi come una cosa sacra. Nelli primi si considera e vede in
effetto la divinità e quella s’admira, adora et obedisce. Ne gli secondi
si considera e vede l’eccellenza della propria umanitade52.

La ricerca del furioso non è estasi mistica, ma conoscenza che non


ha termine né possesso di una verità permanente, che conduce a farsi
divino attraverso la fatica, il lavoro, lo studio e non per il rapimento
di un dio o di un demone. L’eroico furore non è un invasamento53, ma
inappagabile desiderio di conoscenza, di affinamento e perfezionamento
delle capacità e delle possibilità umane di apprensione. L’eroico furore
non è, dunque, frutto di una nobiltà di nascita o un’illuminazione
improvvisa e provvisoria, ma un interminabile processo di avvicina-
mento e immedesimazione con la verità, il bene e il bello universali54.
Al di là della ripresa del tema dell’eros e del lessico impiegato, nel
De vinculis muta, rispetto ai Furori, lo scopo dell’opera. Il problema
dell’ultimo degli scritti magici non è più il legame d’amore con la ve-
rità, ma l’individuazione delle dinamiche di attrazione, di costruzione,
accrescimento e salvaguardia del potere esercitato dall’essere umano sui
suoi simili. Tuttavia, anche in questo caso, come nell’ultimo dei dialoghi
italiani, la possibilità di attrarre e di legare è ricondotta al vinculum
amoris da cui scaturisce ogni specie di relazione. L’originarietà dell’a-

52
Ivi, p. 806.
53
Cfr. C. Agrippa, De occulta philosophia libri tres, V. Perrone Compagni (a cura
di), Leiden-New York-Köln 1992, lib. I, cap. 50, pp. 212-216, lib. III, cap. 45-50,
pp. 545-556.
54
Furori, pp. 806-807: «Questi furori de quali noi raggionamo, e che veggiamo
messi in execuzione in queste sentenze, non sono oblio, ma una memoria; non son
negligenze di se stesso, ma amori e brame del bello e del buono con cui si procure
farsi perfetto con transformarsi et assomigliarsi in quello. Non è un raptamento sotto
le leggi d’un fato indegno, con gli lacci de ferine affezzioni: ma un impeto razionale
che siegue l’apprension intellettuale del buono e del bello che conosce; a cui vorrebbe
conformandosi parimente piacere».
246 giulio gisondi

more, struttura intima della natura e presupposto dell’ars vinciendi, si


riflette nelle concordanze testuali e concettuali tra i due scritti, come
ad esempio i primi otto versi del sonetto che apre il dialogo II della
prima parte dei Furori, riproposto nell’articolo IX («Ut idem eodem
contrariis alligat») della terza sezione del De vinculis:

Io che porto d’amor l’alto vessillo,


gelate ho speme, e gli desir cocenti:
a un tempo tremo, agghiaccio, ardo e sfavillo,
son muto, e colmo il ciel de strida ardenti;
dal cor scintill’, e da gli occhi acqua stillo;
e vivo e muoio, e fo ris’e lamenti:
son vive l’acqui, e l’incendio non more,
ch’a gli occhi ho Teti, et Vulcan al core55.

Altr’amo, odio me stesso:


ma s’io m’impiumo, altri si cangia in sasso;
poggi altr’al ciel, s’io mi ripogno al basso;
sempr’altri fugge, s’io non cesso;
s’io chiamo non risponde:
e quant’io cerco più, più mi s’asconde56.

Chi è preda del vincolo d’amore vive sensazioni opposte, una con-
trarietà che spinge a voler gridare e tacere, a provare gioia e tristezza,
pur essendo legato da uno stesso e unico sentimento d’amore. E la
causa risiede nella constatazione che non vi è «delettazione alcuna senza
qualch’amaro; anzi […] se non fusse l’amaro nelle cose, non sarebe
alcuna delettazione»57. La ripresa nel De vinculis dei primi otto versi
di questo sonetto è funzionale a chiarire come gli effetti provenienti
da una stessa specie di sentimento e legame possano essere tra loro
contrari e opposti.

55
Cfr. De vinculis, pp. 426-429.
56
Furori, p. 795.
57
Ivi, p. 795.
il vinculum amoris tra filosofia naturale e filosofia politica 247

Il vinculum Cupidinis è il paradigma attraverso cui comprendere


l’ambivalenza, la contrarietà, la discordanza e opposizione degli effetti
di una stessa specie di sentimento e di vincolo. In virtù della natura
dell’amore, ogni amante prova piacere e, insieme, perenne e inappagato
desiderio: «l’amore eroico è un tormento, perché non gode del presente
come il brutale amore; ma e del futuro e de l’absente; e del contrario
sente l’ambizione, emulazione, suspetto e timore»58. La ripresa di questo
tema nel De vinculis consente di osservare come la riflessione sull’eros e
sul vinculum amoris nell’ultimo dei trattati magici s’inserisca in modo
organico nella prospettiva metafisica e gnoseologica dei Furori. I rimandi
tra uno scritto e l’altro non sono soltanto testuali ma anche strutturali.
Come Atteone non può fissare Diana nuda, ovvero la luce della verità,
ma scorgerne il suo riflesso, immerso nella penombra della selva, così il
vinciens può legare soltanto attraverso «subtilia […] vincula»59, per mezzo
di legami ineffabili e impercettibili alla sensibilità del vinciente.
Quella di Atteone e quella del vinciens sono due specie di caccia
simili: la prima, è un’interminabile ricerca della verità e del divino nella
natura; la seconda, un adescamento di anime sul piano civile. Per rag-
giungere il suo scopo, il vinciens deve dissimulare la volontà di attrarre,
agire attraverso legami sottilissimi e anticipare la mutazione, sapendo
che a un dato stato emotivo ne corrisponde generalmente un altro ben
preciso60, non ignorando le particolari composizioni che rendono ogni
soggetto diverso da un altro. Gli strumenti con cui vincolare sono gli
stessi di cui è preda il furioso: l’appetitus e la cognitio61.

58
Ivi, p. 796.
59
De vinculis, pp. 446.
60
Ivi, p. 448.
61
Ivi, p. 450: «Vinciens non unit sibi animam nisi raptam, non rapit nisi vinctam;
non vincit nisi illi se copulaverit, non copulatur nisi eam pervenit; non pervenit nisi
per motum, non movetur nisi per appulsum; non appellit nisi postquam inclinaverit
vel declinaverit ad illam, non inclinat nisi desideravit et appetierit; non appetit nisi
cognoverit, non cognovit nisi oculis et auribus, vel interni sensus obtutibus, obiectum
specie vel simulachro praesens adfuerit. Pervenire igitur facit vincula per cognitionem
in genere, necit vincula per affectum in genere. Cognitionem dico in genere, quia
nescitur interdum quo sensu rapiatur; affectum dico in genere, quia nec iste facile
interdum definitur».
248 giulio gisondi

Desiderio e conoscenza sono le cause del moto psichico e fisico di


attrazione, i due strumenti necessari tanto al vinciens quanto al vincibile.
Come Bruno osserva nell’articolo XXVIII della prima sezione del De
vinculis dedicato alle astuzie del vinciens, se nella relazione d’amore
e di conoscenza il primo è portato a immedesimarsi nel soggetto da
vincolare, allo stesso modo, il secondo non sarà mai vincolato se non
è mosso da appetitus e cognitio. Se desiderio e conoscenza sono spenti
o solo parzialmente presenti, risulterà difficile avvincere62. Queste due
condizioni necessarie ad attrarre sono le stesse che Bruno individua nei
Furori come indispensabili alla ricerca della verità. Il vincolo d’amore
per la verità trasforma il furioso nell’oggetto della sua ricerca, facendo
della relazione tra l’amante e l’amato un movimento che porta il primo
a identificarsi nel secondo. Il vincolo è un principio di trasformazione
reciproca dei due termini della relazione.
La dipendenza del De vinculis dai Furori è nuovamente riscontrabile
dall’analisi dell’articolo XX («Fulcra schalae vinculorum») della terza
sezione del trattato magico, in cui Bruno recupera, secondo un mo-
dello platonico e ficiniano63, questioni già affrontate nel dialogo: dalla
rappresentazione scalare della natura, attraverso la quale accedere al
riconoscimento dell’unico e universale vincolo d’amore, alla metamor-
fosi dell’amante nell’amato; dalla morte dell’amante che, morto a sé
stesso, vive della vita di colui che ama, alla comprensione della catena
degli affetti e dei turbamenti che muovono l’essere umano, migrando
senza sosta da una specie di vincolo all’altra64. Il furioso e il vinciens
cercano entrambi di ricondurre a unità una realtà molteplice rifratta
in infinite particolarità. Quest’operazione non è mai definitiva, ma
continua, instabile e sempre incompiuta. Come il furioso è in cerca
di un oggetto mai pienamente conoscibile, così la preda del vinciens è

Ivi, p. 448: «Sicut in specie non vincit Venus neque arcem expugnat facile,
62

inania sunt vasa, turbatus spiritus, urens anxia: sed produnt arcem intumescentia
vasa, tranquillus animus, mens quieta, corpus otiosum, quorum custodum et vigilum
vicibus observatis, repente audendum, irruendum, viribus omnibus agendum, non
cessandum. Haud aliter in aliis vinciendi actibus observandum».
63
Cfr. M. Ficini In convivium, cit., d. V, cap. 2, pp. 86-92.
64
De vinculis, pp. 526-528.
il vinculum amoris tra filosofia naturale e filosofia politica 249

sempre sfuggente, proprio «quam Thetis ad Pelei concubitus evitan-


dos respicere»65. Entrambi sperimentano la contrarietà, nell’incessante
tentativo di osservare sia la mutazione della materia in forme sempre
differenti, sia dell’essere umano da una specie di vincolo all’altro.
Se nei Furori Bruno esprime la necessità d’individuare uno spa-
zio di libertà all’azione umana, pur nell’ontologia e nella cosmologia
tracciata nelle opere precedenti, è a questa che egli risponde con il
De vinculis, riaffermando la duplice prospettiva sul vinculum amoris,
principio naturale e fondamento dell’agire politico. L’ultimo scritto
magico rappresenta il processo di descenso dall’Uno al molteplice, dalla
coincidenza delle differenze, dei contrari e degli opposti, attraverso il
ritrovamento del punto de l’unione, all’azione su di essi e all’istituzione
di vincoli civili.

4. Dalla critica del bello platonico alla relatività del sentimento d’amore

Nell’articolo XVII («Vincientis sedes») della sezione De vinciente,


dedicata ai mezzi attraverso i quali vincolare, riprendendo inizialmente
un canone platonico, Bruno osserva come tra i più efficaci strumenti
attraverso cui vincolare vi sia il bello, traduzione sensibile dell’amore66.
La considerazione per cui l’anima a contatto con un oggetto bello è
legata a esso in ogni circostanza, senza alcuna possibilità che ciò non
avvenga, si ricongiunge alla teoria platonica dell’ἀνάμνησις o recorda-
tio67, secondo la quale essa conosce l’idea della bellezza prima di essere
incatenata al corpo. Questa considerazione del bello si accompagna a
quella dell’amore come sentimento che sorge dal contatto dell’anima
con un oggetto che richiama l’idea astratta della bellezza e la modifica.

65
Ivi, p. 446.
66
Ivi, p. 436: «Putant nonnulli, parum distinguentes, ut Platonici, illud quod
vincit esse rei speciem, quae a re/ad animam proficiscintur, a re subiecta tamen non
recedit, sicut ignis qui comunicans suam speciem non attenuantur, sicut imago quae
in subiecto primo, inde in speculo, in intermedio et in oculis»; cfr. pp. 428-432.
67
Cfr. Platone, Fedro, 247c-e; cfr. Id, Fedone, 72b-77b; cfr. Id, Menone, 81c-86c.
250 giulio gisondi

Bruno svolge qui una critica tesa a capovolgere i termini della questio-
ne. La relazione d’amore non rispecchia il compimento sensibile dell’idea
del bello, ma matura come un legame dell’esperienza. Se il bello, il buono
e il vero assoluti, la causa e principio primo, vincolano più di ogni altra
cosa68, tuttavia, come recita l’articolo XII («Non est unus qui omne vinciat
particularis») della sezione De vinciente, «nullum particulare sit absolute
pulchrum, bonum, verum etc., non solum supra genus, sed neque in
genere neque in specie aliqua»69. Se nessun oggetto sensibile e particolare
può esser definito bello, buono e vero in assoluto, ciò vuol dire che «nihil
est quod simpliciter vincire per eosdem gradus possit»70, ovvero nulla può
vincolare in ogni circostanza, in ogni tempo e in ogni luogo.
Nonostante quest’impossibilità, ogni cosa desidera, essere bella in as-
soluto, almeno secondo la condizione particolare che attiene alla propria
specie, così come ogni essere umano aspira alla propria conservazione e
all’affermazione di sé stesso sotto ogni aspetto71. L’idea del bello non è
esprimibile in un particolare oggetto o corpo sensibile, poiché differisce
in ogni specie. Una bellezza ideale potrebbe essere rintracciata soltan-
to nella totalità e nell’eternità72. Se la bellezza assoluta, rappresentata
dall’universale vinculum Cupidis, vincola sopra ogni cosa, al contrario, la
bellezza esperibile nel mondo sensibile non solo non può essere definita
tale in senso assoluto, ma non può neppure vincolare assolutamente, sia
che consista in una certa qual simmetria73, sia in qualcosa d’incorporeo
che si riflette o s’incarna in un corpo particolare74.

Ivi, pp. 428-430: «Id quod absolute pulchrum et bonum et magnum et verum
68

absolute vincit affectum, intellectum et omne. Item nihil perdit, omnia continet,
omnia desiderat, desideratur et persequitur a pluribus, quod diverso vinculorum
genere viget».
69
De vinculis, p. 430.
70
Ibidem.
71
Ibidem: «Omnia enim appetunt esse absolute et ex omni parte pulchra, iuxta
propriae speciei atque generis conditionem saltem».
72
Ibidem.
73
Ivi, p. 432.
74
Ibidem.
il vinculum amoris tra filosofia naturale e filosofia politica 251

Questa riflessione è già espressa nei Furori75: Bruno vi ripropone


la definizione ficiniana76 del bello come riflesso in un corpo sensibile
della bellezza spirituale, la quale rende armonioso e trasforma il corpo
stesso. Ma se egli sembra seguire la sua fonte, ne capovolge in realtà i
termini della questione, anticipando ciò che trova piena elaborazione
nel De vinculis 77. «La beltà […] del corpo ha forza d’accendere»78, di
risvegliare l’anima, «ma non già di legare e far che l’amante non possa
fuggire»79, a meno che «la grazia che si richiede nel spirto non soccorre,
come la onestà, la gratitudine, la cortesia, l’accortezza»80. La bellezza
corporea con la sua inconsistenza e precarietà non è il vincolo che lega
sopra ogni cosa, né il riflesso di un’idea metafisica del bello benché,
come Bruno stesso osserva, «dissi bello quel fuoco che m’accese, perché
ancor non fu nobil laccio che m’annodava»81.
Recuperando i Furori, nel De vinculis egli fa scaturire il bello non
da una definizione intellettuale, ma dalla concretezza delle relazioni e
dei rapporti vitali, nei quali volta per volta questo si determina e può
essere definito. Allo stesso modo, l’amore non proviene da un «fulgor»82,
un «radius et actus»83, che colpisce il soggetto in maniera unilaterale,
risvegliando nell’anima l’idea assopita del bello. L’amore è, invece,
generato proprio dalla condizione particolare del soggetto in rapporto
a un oggetto84, ovvero, come sottolinea Papi, «nasce sempre da una

75
Furori, p. 809.
76
Cfr. M. Ficini In convivium, cit., d. V, cap. 3, pp. 92-97.
77
Cfr. De vinculis, p. 498.
78
Furori, p. 809.
79
Ibidem.
80
Ibidem.
81
Ibidem.
82
Ivi, p. 497.
83
Ibidem.
84
De vinculis, pp. 436-438: «Indefinita ergo et incircumscriptibilis omnino est
ratio pulchritudinis et a simili ratio iocundi atque boni. Proinde non tota vinculi ratio
in re subiecta perspicienda est, sed etiam, secundum alteram non minus praecipuam
partem, in eo quod vincitur nihilo enim mutata cibi qualitate atque substantia, nunc
post refectionem reiicitur, qui paulo ante avide sumebatur. Cupidinis vincula, quae
ante coitum intensa erat, modico seminis iactu sunt remissa, et ignes temperati,
252 giulio gisondi

relazionalità»85. L’amore si costituisce nella concretezza dell’esperienza


della relazione tra un vinciens e un vincibile, nel tentativo che il primo
attua per rendere concreto ed esperibile il legame.
In questa relazione, il vincibile assume una necessaria funzione di
elemento stimolante. Il vincolo che s’istaura tra il soggetto del vin-
colare e l’oggetto del vincolo non può mai essere compreso secondo
regole astratte e staticamente definite, ma si configura di volta in volta
differente e mutevole, a seconda dei sentimenti appetitivi che risulta-
no predominanti. Ogni vincolo, ogni relazione tra amante e amato,
tra vinciens e vincibile assume caratteristiche singolari e irripetibili,
in quanto esperienza non astratta, ma concreta, che si determina in
un’azione, in un movimento. È nel moto, nella mutazione da uno stato
all’altro che si realizza il legame d’amore, delineandosi come relazione
assolutamente particolare.
Ciò testimonia della relatività di ogni esperienza e relazione d’amore,
della molteplicità e pluralità delle manifestazioni del vinculum amoris,
pur nell’universalità del sentimento che pervade tutta la natura. Proprio
la relatività di ogni particolare e singolare attrazione, caratterizzata
dallo stato in cui si trova il soggetto, da quello dell’oggetto e, infine,
dalle condizioni in cui si determina il legame, manifesta l’assoluta
vitalità dell’amore. Allo stesso tempo e dal punto di vista opposto, la
relatività di ogni vincolo che si attua tra due soggetti contrari, finiti e
differenti porta con sé la relativizzazione del bello. La bellezza non è
un’idea definibile secondo termini e canoni astratti, ma un sentimento
o una passione, un segno tangibile dell’universalità del vinculum amoris
che unisce tutti gli esseri umani, pur nell’insopprimibile irripetibilità
e precarietà di ogni relazione singolare e particolare.
Ogni individuo, come ogni corpo ed elemento naturale è spinto
all’attrazione, ad associarsi, a vincolare e a lasciarsi vincolare, a fuggire il
contrario e a ricercare il simile per philautia, l’amore naturale, universale
e singolare, che lega ogni cosa. Ma al tempo stesso, ogni legame, relazio-

obiecto pulchro nihilominus eodem permanente. Non tota igitur vinculi ratio ad
illud est referenda».
85
F. Papi, L’antropologia naturalistica, cit., p. 162.
il vinculum amoris tra filosofia naturale e filosofia politica 253

ne e vincolo particolari costituiscono un momento unico e irripetibile


che si perde nella continua mutazione. È questa la ragione per la quale
ognuno è attratto da un oggetto differente che, pur identico, può non
attrarre più l’attimo dopo. Se un oggetto identico avvince Socrate e
Platone, questo non vincolerà alla stessa maniera l’uno e l’altro, così
come ciò che turba e lega le masse non vincola i pochi86.
Essere vincolati dal vinculum amoris costituisce «la ragione fon-
damentale dell’esistere»87. Come Bruno osserva nell’autografo del De
vinculis, soltanto la fame, il tempo e la morte possono deviare e osta-
colare l’amore, forza originaria insita in tutta la natura e attraverso
cui si esprime il processo di generazione e rigenerazione universale:
«Crates Tebanus dixit: remedium amoris fames, si haec non sufficit
tempus, si hoc non sufficit laquens»88. L’amore, come definito nell’ar-
ticolo XXIV («Vincibilium definitio») della sezione De vincibilibus, è
determinato, poiché soltanto caso per caso è possibile individuare la
ragione specifica che lo muove o che suscita una particolare relazione,
la quale non è mai frutto della fortuna. Allo stesso tempo, l’amore è
«“occultum” et “determinatum”, illud, quod “indefinitum” appellavit,
quia non apertum»89.
La concezione platonica del bello e dell’amore non coglie la pluralità
delle condizioni in cui questi si manifestano. Il platonismo si limita
a definire una struttura ideale delle relazioni, ignorando l’esperienza
concreta del fenomeno. Nel commento al Simposio, Ficino90, descrive
il bello nei termini di una certa proporzione e armonia che, attraverso
i sensi, colpisce l’anima legandola in un vincolo d’amore. Questa defi-
nizione non riconoscere la pluralità, la particolarità e la concretezza dei
legami d’amore: questi non rispondono a un modello o a uno schema
ideale, bensì all’irriducibile irregolarità e varietà che caratterizza ogni

86
Ivi, p. 433: «Diversa igitur individua a diversis vinciuntur obiectis; etsi quippe
idem sit quod vinciat. Socratem atque Platonem, aliter tamen hunc vinciet atque illum;
alia multitudinem, alia paucos movent, alia mares et viriles, alia feminas et muliebres».
87
F. Papi, L’antropologia naturalistica, cit., p. 163.
88
De vinculis, p. 549.
89
Ivi, p. 482.
90
Cfr. M. Ficini In convivium, cit., d. V, cap. 3, pp. 92-97.
254 giulio gisondi

relazione, alle condizioni di esistenza in cui si determinano. Bruno


colloca, invece, l’esperienza amorosa nella concretezza, particolarità
e pluralità del suo manifestarsi, destrutturando il modello platonico
e aprendo a una nuova comprensione del fenomeno. Egli rimodula
una concezione del bello derivante da un modello ideale in un senso
vitalistico che relativizza l’ideale stesso di bellezza, collocandola nella
concretezza dell’esperienza e dell’esistenza. Allo stesso tempo, la con-
siderazione dell’amore come forza, sentimento e vincolo universale,
ragione fisico-metafisica che pervade e trascende la dimensione del
molteplice, rappresenta il fondamento stesso della relatività del suo
manifestarsi nelle relazioni particolari.

5. Appetitus e cognitio: le ragioni universali del vincire

Come Bruno osserva nell’articolo XXV («Vincibilium sensus») della


seconda sezione del De vinculis, non è la ragione a incidere sulla ca-
pacità di vincolare in maniera efficace, quanto piuttosto la fortuna.
Nell’esperienza del vincolo d’amore, dell’odio e degli altri sentimenti,
la ragione non costituisce una conoscenza primaria, ma è preceduta
da forme di sapere più immediate, spontanee e inconsce91. L’esperienza
del sentimento d’amore è una cognitio practica. Essa risiede nel rico-
noscimento, da parte del vinciens, dell’utilità dell’oggetto vincibile,
ovvero della necessità della relazione nel processo di conservazione ed
espansione vitale, di partecipazione alla totalità della natura. Tuttavia,
questa non è una consapevole operazione gnoseologica, ma un conoscere

91
De vinculis, p. 482: «Achei non ad ratione, seu cognitionis speciem, sed ad
fortunam referebant, quod aliquid amore vel odio vel aliis affectibus vinciretur, unde
in eadem ara amorem atque fortunam colebant. Cui iudicio adstipulantur Platonici
quidam, ideo dicentes animalia muta non semper amore vinciri, quia ratione carent
et prudentia. Sed isti nimis crasse sentiunt de natura cognitionibus et intellectus, qui
cum spiritu universi implet omnia, et ex omnibus pro suppositi ratione enitescit. Nobis
vero tum amor tum omnis affectus valde practica est cognitio, quin etiam discursus,
ratiocinatio et argumentatio – qua potissimum homines vinciuntur – neuquaquam
inter primarias cognitionis species numerantur».
il vinculum amoris tra filosofia naturale e filosofia politica 255

immediato che avviene tramite l’oggetto della relazione. L’analisi della


cognitio practica non è estranea a chi voglia vincolare nell’ambito civile.
L’articolo XXV si conclude, non a caso, con l’avvertimento rivolto a
quanti facciano dell’ars vinciendi uno strumento di potere, suggerendo
come non sia la ragione a permettere di vincolare efficacemente, ma una
conoscenza appropriata alla specie e al genere su cui si agisce: «credat
ergo vincire volens rationem neque plures neque precipuas ad ligandum
partes obtinere, bene autem cognitio secundus genus»92.
La considerazione sulla cognitio practica consente, inoltre, a Bruno
di rifiutare e ridefinire il concetto platonico di ratio. Questa non è
caratteristica dell’anima umana, ma dell’anima del mondo che vivifica
ogni elemento e corpo naturali agendo come ragione del movimento. A
partire da questa ridefinizione, egli stabilisce una relazione tra l’anima
del mondo e l’amore, sentimento universale che si particolarizza e si
concretizza in un soggetto sotto forma di cognitio e appetitus, conoscenza
e desiderio appropriati al genere, presupposti indispensabili senza i quali
non è possibile vincire efficacemente, né in ambito civile, né magico93.
Chi non conosce e non desidera, chi non nutre alcun appetito non
potrà essere vincolato né vincolare.
Come la materia spinta dall’amore universale desidera e appetisce
infinitamente nuove forme, perché tutto ciò che può essere lo vorrebbe
in atto, così gli elementi e i corpi naturali, composti di quella stessa
materia e mossi dalla stessa anima o forma universale, tendono verso
tutte le cose e desiderano legarsi a ogni cosa e farsi ogni cosa per colmare
la loro mancanza d’essere finiti. In questa dinamica, l’amore costituisce
la realizzazione sensibile ed esperibile del sentimento attraverso il quale
l’anima del mondo spinge gli elementi e i corpi naturali al movimento,
garantendo la vicissitudine e la trasformazione permanente di ogni
cosa in ogni altra, l’attualizzarsi dell’infinita potenza della materia nel

92
Ibidem.
Ivi, p. 483: «Duas vincibilitatis sunt causa, et eadem sunt de essentia vincibilis,
93

quatenus vincibile est : cognitio secundum genus, et appetitus secundum genus.


Da quod nullo modo appetat, dabis quod nullo modo spiritualiter vinciatur. Adde
quod sine cognitione et affectu neque est quod aliquis vinciat civiliter neqe magice».
256 giulio gisondi

tempo e nello spazio. L’amore è, dunque, espressione dell’anima del


mondo che muove ogni cosa alla mutazione.
Il vnciens e il vincibile, l’agente e il paziente, legati dal vincolo d’a-
more, sono portati a conoscere e a desiderare, a mutare e a trasformarsi,
secondo il ritmo della vicissitudine. Nella relazione d’amore, amante e
amato s’inseriscono nella processualità dell’essere, nel giogo di una ragione
fisico-metafisica permanente e indifferente a ogni particolarità o accidente
che passa, nel divenire, attraverso l’amore come principio trascendente
la molteplicità. L’amore è la ragione sensibile che spinge ogni cosa all’ex-
sistere, all’uscir fuori da sé per essere assorbita nell’infinità della vita.
Bruno distingue due specie d’amore: un Cupido «superior et infe-
rior, novissimus et antiquissimus, caecus et perspicacissimus qui facit
omnia pro viribus vel in se ipsis consistere ne a se recedant ad specei
perennitatem»94, ossia un vinculum amoris universale che lega la natu-
ra tutta e i vincula particolari. Ogni relazione d’amore determinata,
spaziale e temporanea è parte della più generale vicenda naturale. Sulla
base di questo rapporto tra superiore e inferiore, finito e infinito, unità e
molteplicità, egli passa dall’analisi dell’amore come determinazione re-
lativa e singolare, alla considerazione di esso quale principio universale,
inscindibile dalla sua filosofia naturale. Tutto l’universo è organizzato
in modo che «continuo quodam quasi fluxu ab omnibus progressio fieri
possit ad omnia»95, ovvero che il vinculum amoris universale leghi in
maniera coordinata tutte le cose come in un continuo fluire, garantendo
l’unità, la concatenazione dell’essere e la vicissitudine.
Come egli mostra nell’articolo XIII («Vinculi principalis effectus»)
della terza sezione, la sua riflessione sul vinculum amoris si radica e, al
tempo stesso, si riflette nella sua ontologia: «Amor unum, vinculum
unum facit omnia unum, diversas habet in diversis facies, ut idem aliter
alia atque alia vinciat»96. Il vinculum amoris è la forza in virtù della

Cfr. ivi, p. 512.


94

Ivi, p. 508.
95

96
Ivi, p. 510; cfr. Ivi, pp. 510-514: «Ad particularium vero vicissitudinem facit,
ut singula quodammodo a se ipsis recedant, ubi in amatum transferri concupiscit
amans omne; per se ipsa quoque dissolvantur, aperiantur, dehiscant, ubi totum amans
concipere concupit amatum et imbibire. Itaque est vinculum, quo res volunt esse ubi
il vinculum amoris tra filosofia naturale e filosofia politica 257

quale ogni cosa conosce e desidera conservarsi nella sua forma attuale
e, al tempo stesso, tende a uscir da questa per partecipare all’infinità
della vita universale. Bruno intreccia la prospettiva dell’Uno, infinito
e permanente a quella del singolo composto temporale e terminato.
Nel passaggio dall’articolo XIII al XIV («Vinculi qualitas») della
terza sezione del De vinculis, egli descrive il vincolo come neutro, «neque
pulchrum est neque bonum»97. Il vincolo è ciò «quo pulchrum atque
bonum persequuntur omnia atque singula»98, il mezzo attraverso cui
tutte le cose, ognuna secondo la propria modalità, partecipano alla vita
universale e ricercano il bello e il buono per sé, la loro conservazione ed
espansione. Di conseguenza, ogni cosa che desidera per sé il bello e il
buono, non è in sé né bella né buona, ma manchevole di entrambe. In
questa considerazione rientra anche la riflessione ontologica. La materia,
se desidera, appetisce e tende al bello e al buono, dimostrando di essere
manchevole e imperfetta, non è, però, turpe o cattiva, come vogliono
i peripatetici. Se la materia fosse il male essa non potrebbe volgersi al
bene, perché ciò equivarrebbe volere il suo contrario99.

sunt et non amittere quae habent. Interea quoque volunt esse ubique et habere quae
absunt: unde ex complacentia quadam circa possessa, desiderio et appetitu circa
distantia et possessibilia, et amore circa omnia, quia particulari et finito bono atque
vero non expletur particularis appetitus et intellectus, qui ad universum bonum et
universum verum respiciunt obiecta. Hinc est ut ab eodem vinculo finita potentia
et in quadam definita materia simul et stringi et dispergi, de[s]trahi atque dissipari
se experiatur. Hanc conditionem vinculi secudum genus in vinculis secundum spe-
cierum singulas observato».
97
Ivi, p. 514.
98
Ibidem.
99
Ivi, pp. 514-516: «Inde male concludit in proposito materiae Peripathetocorum
aliquis materiam turpe[m] esse atque malum, quia appetendo bonum et pulchrum
eodem carere se constatur. Circumspectius dixit Aristoteles «sicut turpe», «sicut ma-
lum», non autem simpliciter huiusmodi. In rei autem veritate neque turpe, neque pul-
chrum, neque malum est neque bonum, quod ad bonitatem, malitiam, turpitudinem
et pulchritudinem tendit et aeque fertur ut materia. Si materia esset malum, contra
eius naturam esset appetere bonum, itidem natura turpe. Item, si esset secundum
similitudinem, / similiter se haberet atque contrarium, quod alterum contrarium non
appetit, sed excludit et abhorret».
258 giulio gisondi

Nel passaggio dalla «divina vis […] in rebus omnibus; amor, pater,
fons et Amphitrites […] vinculorum»100, alla materia partoriente le
forme dal suo interno, Bruno recupera la considerazione, già affermata
nel De la causa101, della materia generante le forme dal suo interno,
ponendo un rapporto inscindibile tra l’amore inteso come principio
divino intimo della natura e la vicissitudine universale. Il vinculum
amoris spinge la materia a partorire infinitamente dal suo interno le
forme, nel desiderio eterno di colmare una mancanza costitutiva. E
proprio quest’eterno desiderio di attualizzare la sua stessa infinità la
rende perfettissima. Ogni cosa che desidera la pienezza e la perfezio-
ne partecipa dell’infinità e della perfezione della causa e principio
primo102.
Il desiderio di pienezza e perfezione della materia pone l’identità
ontologica di essa con la totalità degli elementi e dei corpi naturali,
con il loro perenne ex-sistere. Come la materia, così ogni cosa, incluso
l’essere umano, è mossa dal desiderio di perfezionamento e di pienezza
che avviene attraverso le relazioni che istituisce, legando e legandosi
ai suoi simili per espandere la propria presenza nel ciclo della vita
universale. L’unità dell’anima del mondo e della materia universale fa
sì che ogni cosa viva, ami, si trasformi e si degeneri secondo le stesse
dinamiche di attrazione e repulsione e lo stesso ritmo vitale. L’appetitus
e la cognitio sono pertanto due condizioni dell’amore presenti in ogni
cosa, dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande.
Dal riconoscimento di quest’analogia ontologica, Bruno ricava un
suggerimento sul piano morale ed etico-civile, osservando come nel
vinculum amoris si celi la struttura e il fondamento del reale, sia in senso
naturale che politico. Nella conclusione dell’articolo XIV, formulando
un’avvertenza per chi opera tra e sugli esseri umani, egli rileva:

Ivi, p. 510.
100

Cfr. Causa, pp. 266-268.


101

102
Ivi, p. 516: «Profundis vero philosophantes intelligunt quod nos alibi decla-
ravimus, ut materia ipsa inchoationem habet omnium formarum in sinu suo – ita ut
ex eo omnia promat et emittat –, non puram illam externo. Extra quippe materiae
gremium nulla forma est, sed in eo tum omnes latent, et ex eo tum omnes educuntur».
il vinculum amoris tra filosofia naturale e filosofia politica 259

Civiliter ergo et secundum omnes rationes de vinculo consideranti


perspicuum esse debet ut in omni materia seu materiae parte, in omni
individuo seu particulari, tum omnia sublateant et subcontineantur
semina, tum consequenter omnium vinculorum applicationes solerti
quodam artificio compleri posse. Et docuimus in uno de trenta sigillis
ut generalis ista transformatio fiat et applicatio103.

È questa un’avvertenza particolarmente significativa, posta a conclu-


sione di un’analisi ontologica che testimonia, ancora una volta, come la
riflessione politica e civile sia elaborata a partire dalla filosofia espressa
sin dal Sigillus. Tra la rappresentazione metafisica, fisica, politica e an-
tropologica, sussiste un’unità non scindibile. La correlazione tra la con-
siderazione della materia e quella di tutti gli elementi e i corpi naturali
come attratti da un vicolo d’amore universale consente lo slittamento
verso l’ambito civile. Se la materia è pervasa da una tensione d’amore
che la spinge a partorire e ad assumere incessantemente nuove forme,
in cerca della pienezza e della perfezione, questa tensione è presente in
tutti i composti materiali e, dunque, in ogni essere umano.
Nel successivo articolo XV («Vinculi generalitas seu universo»), Bruno
descrive l’amore come neutrale, intermedio tra bene e male, intimo sia
alla materia che desidera continuamente nuove forme, sia agli elemen-
ti e ai corpi naturali, i quali desiderano ciò che è bello e buono per
loro. Il vinculum amoris è comune sia al principio attivo che a quello
passivo, sia all’agente che al paziente. Tutte le cose attive e passive de-
siderano legarsi al loro simile, concorde e conveniente, essere condotte
a pienezza e perfezione, secondo una ragione insita nella natura che è
ordine, congiunzione, unione e perfezione104. L’amore è un processo
di perfezionamento che investe tanto la materia quanto i suoi acci-
denti, manifestandosi attraverso l’appetitus e la cognitio, condizioni
che caratterizzano tutto l’universo. L’amore non è imperfezione, ma
tensione al superamento della condizione finita, segno di perfezione,
poiché quando una cosa finita desidera per amore la perfezione, essa

103
Ibidem.
104
Ibidem.
260 giulio gisondi

partecipa dell’assoluto e, quanto più grande è il suo appetito, tanto più


è spinta verso la divinità105.
Il vinculum amoris costituisce il legame più potente, l’espressione
della struttura ontologica che si manifesta come sentimento origina-
rio e irriducibile in ogni cosa, spingendola a uscire da sé per unirsi
all’altro da sé, eternamente insoddisfatta della condizione finita e
imperfetta. Lo scopo di quest’eterna tensione d’amore è la genera-
zione e la rigenerazione della natura e della vita nell’universo. Ogni
elemento, ogni corpo, seppur infinitamente piccolo, racchiude in sé,
come un seme, la totalità.
L’immagine del seme esprime efficacemente la relazione tra l’u-
niversale e il particolare, tra l’Uno e il molteplice, che si attua nella
generazione naturale. Eterno desiderio della materia di formare nuova
vita, la generazione è, nella molteplicità e contrarietà del finito, un
«reiterare l’essere»106. Con il suo eterno e inappagabile desiderio della
forma, della pienezza e della perfezione, la materia racchiude in sé
l’infinità del vivente, reso omogeneo non solo nella sua componente
organica, ma anche nell’incessante tensione a uscir fuori di sé per ri-
congiungersi a un’origine mai pienamente accessibile. Come il furioso
non si appaga nell’aver conosciuto, ma in un conoscere senza fine, così,
perfettissimo, pur nella sua finitezza e imperfezione, è chi desidera farsi
tutte le cose, come la materia che non si volge a una sola forma, ma
tutte le partorisce e le assume:

Ivi, p. 518: «Non propterea igitur amor imperfectionem significat, ubi in


105

materia et in Chaos ante rerum perfectionem contemplatur: totum quippe quod in


Chaos et bruta illa quam excogitaverunt materia dicitur esse amor, totum dicitur
simul esse perfectio. Quantum vero dicitur non esse, imperfectio et deordinatio,
intelligitur non esse amor. Stat ergo ut amor ubique perfectum, et vinculum hoc
ubique perfectionem contestetur. Ubi quippe imperfectum amat perfici., hoc quod
amat perfici, habet quidem per imperfectionem, sed non ab imperfectione, sed certe
a perfectionis partecipatione quadam et lumine divinitatis et eminentioris cuiusdam
naturae obiecto, tanto magis vivaciter, quanto vehementius appetit. Altius quippe
summi amore boni flagrat quod perfectius est quam quod imperfectum»
106
F. Papi, L’antropologia naturalistica, cit., p. 167.
il vinculum amoris tra filosofia naturale e filosofia politica 261

Perfectissumum ergo est illud quod fieri vult omnia, et quod non
ad particularem formam fertur et particularem perfectionem, sed
ad universam formam et ad universam perfectionem. Eiusmodi est
materia per universum, extra quam nulla est forma, in cuius potentia,
appetitu et sipositiones omnes sunt formae, et quae in partibus suis
vicissitudine quadam omnes recipit formas, quarum simul vel duas
recipere non posset. Et divinum ergo quoddam est materia, sicut et
divinum quoddam existimatur esse forma, quae aut nihil est, aut
materiae quiddam est107.

Bruno recupera qui la prospettiva del quarto dialogo del De la causa,


laddove definisce la realtà ontologica a partire dal punto di vista della
materia. Egli riconduce l’amore nel seno della materia, garantendone
la dinamicità e l’animazione. Non è un caso che proprio in questo ar-
ticolo XV richiami esplicitamente sia il De la causa e il De l’ infinito, sia
i nomi di David de Dinant e di Avicebron. La molteplicità è assorbita
nella causa e principio primo, nell’unità dell’essere. Tutte le particolari
specie di vincoli, legami e relazioni sono ricondotte al primo e originario
vinculum amoris naturale e universale, «il vincolo fondamentale, quello
della materia con la forma»108.

6. Gerarchia dei vincula e degli amori superiori e inferiori

Dalla prospettiva dell’Uno infinito ogni esperienza particolare, tem-


poralmente e spazialmente determinata, svanisce, poiché puro acciden-
te assorbito nell’unità dell’essere. Soltanto ribaltando la prospettiva è
possibile osservare come la molteplicità e la contrarietà siano l’unico
spazio di libertà per l’agire umano. Occorre ripensare positivamente la
dimensione finita, sottraendola al giogo della necessità.
La scala naturae a cui Bruno fa riferimento sia nei dialoghi, sia
negli scritti magici e nel De vinculis, è la rappresentazione del percorso

107
De vinculis, p. 518.
108
F. Papi, L’antropologia naturalistica, cit., p. 167.
262 giulio gisondi

che l’intelletto umano compie per ascendere dal molteplice all’unità


dell’essere e discendere nuovamente per agire sulla contrarietà. Sia
l’esperienza del vinculum amoris universale, sia dei vincula particolari
si colloca à metà di questo percorso gnoseologico. Poiché compresi nel
più generale vincolo tra la materia e la forma, i vincoli particolari sono
tutti relativi. Ma se ognuno di questi rientra nel ritmo vicissitudinario
di generazione e rigenerazione, vi sono, tuttavia, vincoli che, nonostante
il loro essere temporanei, si caratterizzano in modo differente. Qualora
l’amore conduca un soggetto a desiderare oggetti non instabili e finiti,
ma permanenti e infiniti, questi vincula si sottraggono alla necessità.
La loro esperienza e conoscenza non avviene sul piano sensibile ma
su quello intellettuale, portando il soggetto a determinarsi al di fuori
dell’eterna vicissitudine. Dal riconoscimento di questa differenza tra i
vincula relativi e instabili e quelli che, invece, oltrepassano la dimen-
sione fisica e finita, Bruno traccia nel De vinculis una distinzione tra
tre tipologie di legami, nonché tra tre specie di esseri umani avvinti
da oggetti diversi:

Contemplativi a sensibilium specierum aspectu divinis vinciuntur,


voluptuosi per visum ad tangendi concupiscientiam descendunt, ethi-
ci in conversandi oblectationem trahuntur. Primi heroici habentur,
secudni naturales, tertii rationales. Primi altiores, secundi inferiores,
tertii medii. Primi dicuntur aethere digni, secundi vita, tertii sensu.
Primi ascendunt ad Deum, secundi haerent corporibus, tertii ab altero
extremorum recedunt, alteri appropinquant109.

Nella pluralità delle relazioni che caratterizzano l’esistenza umana,


mentre i voluttuosi sono spinti da un appetito terreno verso oggetti di
natura finita, soltanto gli eroici o i razionali sono in grado d’istituire
vincula non relativi, temporali e instabili. Questi ultimi sono mossi
dall’amore a stabilire un legame di natura intellettuale con il vero, il
bello e il bene universali, vale a dire con la ragione universale di tut-
ti i vincoli particolari. Questa distinzione di carattere antropologico

109
De vinculis, pp. 464-466.
il vinculum amoris tra filosofia naturale e filosofia politica 263

costituisce la prospettiva teorico-pratica nella quale Bruno ripensa il


vincire nella dimensione civile.
Nell’articolo IV («Vincibilium comparatio») della seconda sezione
del trattato, egli osserva che «homines plus vinciantur quam bestiae,
et homines bestiales atque stupidi ad heroica vincula minime sint apti,
quam hi qui clariorem animam sunt adepti»110. Con l’accezione di «he-
roica vincula», egli intende le relazioni a cui sono spinti quanti hanno
raggiunto chiarezza e profondità conoscitiva, stabilendo vincoli con un
oggetto di natura intellettuale. Gli eroici sono gli esseri umani più adatti
alla contemplazione e attratti da una maggior forza d’immaginazione,
caratterizzati da una complessione di natura particolarmente malin-
conica. Nell’articolo XVII («Vincibilium temperamente») della seconda
sezione del trattato, descrivendo le differenze tra i temperamenti umani
e le specie di vincula da cui ognuno di questi è attratto, egli delinea
una fisiologia umana, in relazione al vincolo specifico relativo a ciascun
temperamento111. A differenza dei temperamenti collerici, sanguigni o
flemmatici, attratti da elementi corporei instabili, i malinconici sono in
grado, grazie alla loro immaginazione, d’istituire un vincolo d’amore
con un oggetto intellettuale che oltrepassa la necessità fisica.
Quest’amore e vincolo intellettuale è il furore eroico, il punto mas-
simo della conoscenza umana della vicissitudine, il riconoscimento
dell’unità dell’essere o del punto de l’unione. A differenza dei legami
accidentali e particolari, questo vincolo si sottrae alla relatività e all’in-
stabilità della condizione umana: in quanto permanente e immutabile
esso trae origine da una tensione verso la totalità, in relazione alla
totalità112. Vi è, dunque, una chiara distinzione tra due tipologie di
vincoli e di amore, una particolare, relativa e volgare, una seconda
universale, intellettuale.

110
Ivi, p. 458.
111
Ivi, pp. 474-476.
112
Cfr. Furori, p. 852: «la differenza de l’amor sensuale che non ha certezza né
discrezion de oggetti, da l’amor intellettivo il qual ha mira ad un certo e solo, a cui si
volta, da cui è illuminato nel concetto, onde è acceso ne l’affetto, s’infiamma, s’illustra
ed è mantenuto nell’unità, identità e stato».
264 giulio gisondi

Se nei Furori l’oggetto specifico è costituito esclusivamente dal


vincolo d’amore intellettuale, non da quello sensuale, nel De vinculis
quest’ultimo è posto in relazione al primo. Queste due tipologie d’a-
more e di legami sono sì distinguibili, ma traggono origine dalla stessa
radice, vale a dire dall’onnipervasività del vinculum amoris universale
quale causa e principio primo infinito. Se l’amore sensibile è il mezzo
attraverso cui l’anima del mondo, nella relatività dei vincoli particolari,
vivifica e dà forma a ogni elemento nell’eterno divenire, l’amore eroico è,
invece, il vincolo che unisce in modo permanente l’individuo all’oggetto
intellettuale del suo amore. Soltanto in virtù dell’amore eroico l’essere
umano è guidato alla liberazione dalla molteplicità e dalla contrarietà,
dall’instabilità dei legami particolari, per ascendere a un più alto livello
del desiderio verso il riconoscimento dell’unità dell’essere.
Colpito e divenuto preda del vincolo intellettuale per la verità, il
furioso accede e vive in una condizione nuova, differente da quella
di tutti gli altri elementi e corpi naturali, quella eroica o divina113. Il
cammino del furioso è caratterizzato dal ritrovarsi incatenato a un’e-
sperienza d’amore intellettuale in cui non vi è, né mai può esservi,
alcun appagamento sensibile: esperienza inizialmente gnoseologica ma
che, condotta al suo estremo, diviene la ragione di un rinnovamento
esistenziale del soggetto. Non si tratta di un’ascesi mistica o di una
possessione divina, ma di un’ascesa intellettuale verso l’Uno, verso il
vinculum amoris che trasforma l’esistenza umana e il cui riconoscimento
dona a questa nuova forma e coscienza.
L’amore intellettuale, l’appetitus e la cognitio, muovono sia il vinciens
sia il furioso verso un incessante perfezionamento oltre la natura, nel
tentativo di comprenderla. Se ogni vincolo spinge il soggetto a uscir
fuori di sé per immedesimarsi nell’oggetto del proprio desiderio, così
anche nel caso dell’amore intellettuale si è preda della metamorfosi. Ma

113
Ivi, p. 806: «Doviene un Dio dal contatto intellettuale di quel nume oggetto:
e d’altro non ha pensieri che de cose divine, e mostrasi insensibile ed impassibile
in quelle cose che comunemente massime sentono, e da le quali più vegnon altri
tormentati; niente teme, e per amor de la divinitade spreggia gli altri piaceri, e non
fa pensiero alcuno de vita».
il vinculum amoris tra filosofia naturale e filosofia politica 265

questa metamorfosi è di un genere differente da quella prodotta dalle


altre specie di legame: essa è una modificazione qualitativa del soggetto,
il quale attraverso il desiderio infinito di conoscere e agire è spinto a
comprendere e a sottrarsi per un istante al moto incessante dell’universo
e ad accedere a una dimensione di quiete. La metamorfosi di Atteone
da cacciatore a preda non è causata dal divenire di ogni elemento e
corpo naturale, ma costituisce il fine di un percorso di liberazione, di
una mutata condizione esistenziale accessibile soltanto a pochi. Come
osservava Garin, «contemplare è affermare l’indifferenza fondamentale
dell’essere e, nell’ascenso all’unità, conquistare la pace, abbandonare
doglia o timore, piacere o speranza»114.
Il vincolo d’amore intellettuale muove al riconoscimento dell’Uno,
donando nuova forma e nuovo senso all’esistenza del soggetto che ne è
legato. In virtù di esso l’essere umano si riconosce in hilaritate tristis e
in tristitia hilaris, conoscendo e dominando con la propria coscienza il
processo naturale per cui l’animo passa incessantemente da un opposto
all’altro. È questo il vincolo a cui solo gli eroici, refrattari e distanti
alle fascinazioni del mondo sensibile, possono giungere. Questo è lo
strumento più efficace per sciogliere ogni altra specie di vincolo e per
padroneggiarla, per liberarsi dai fantasmi che rendono schiavi di ogni
conscia e inconscia passione, per diventare soggetti agenti e non più
agiti.

7. Dall’ indeterminatezza del desiderio alla determinazione antro-


pologica

Dal riconoscimento delle due specie d’amore, sensuale e intellet-


tuale, Bruno traccia, sin dai Furori, una distinzione antropologica, poi
nuovamente riproposta nel De vinculis e svuotata di ogni valore ontolo-
gico115, tra quanti sono attratti da oggetti sensibili e particolari, e quanti,

114
E. Garin, L'umanesimo italiano. Filosofia e vita civile nel Rinascimento, Bari
1952, p. 263.
115
Cfr. De vinculis, p. 464.
266 giulio gisondi

invece, sono vincolati da oggetti intellettuali e permanenti. Questa


distinzione è tesa a definire non la superiorità dei temperamenti eroici
e contemplativi, quanto piuttosto la pluralità dei caratteri umani116.
Non vi sono uomini eroici o bestiali per nascita o per elezione:
ogni individuo è indistintamente illuminato dall’unica luce della causa
e principio primo che «influisce sopra tutti gl’individui dell’umana
specie, e dicesi intelletto agente et attuante»117. Un unico intelletto
illumina ogni cosa e ogni soggetto vi partecipa secondo disposizioni e
capacità differenti118. Non vi è un’unica via, una modalità esclusiva di
partecipazione all’intelletto universale ma molteplici, come molteplici
sono i modi di apprensione della verità. Al fondo di questa pluralità on-
tologica e gnoseologica vi è la considerazione del carattere unitario e, al
tempo stesso, molteplice della verità, che pur configurandosi come unica
si esplica e può essere colta per gradi, vie, ragioni e lessici differenti. Ciò
rappresenta il rifiuto di una ragione e di una filosofia che sia unica ed
esclusiva nella conoscenza e nella partecipazione all’intelletto universale.
Questa pluralità di vie d’accesso alla verità è determinata dalle differenti
disposizioni dei soggetti, i quali, ognuno secondo le proprie possibilità,
tentano di penetrare l’intelletto universale e permanente. E proprio la
modalità di partecipazione a questa mens universale provoca la varietà
che caratterizza e distingue gli esseri umani in bruti, razionali ed eroici119.
Il vincolo generato dal desiderio di conoscenza e di partecipazione
all’intelletto universale suscita nel soggetto una metamorfosi verso
uno stato di coscienza superiore, verso il furore eroico che caratterizza

116
Furori, p. 912: «Bisogna che siene arteggiani, meccanici, agricoltori, servidori,
pedoni, ignobili, vili, poveri, pedanti ed altri simili: poiché altrimenti non potrebomo
essere filosofi, contemplativi, cultori degli animi, padroni, capitani, nobili, illustri,
ricchi ed altri che siano eroici simili agli dei».
117
Ivi, p. 851.
118
Ivi, pp. 851-852: «Questo intelletto unico specifico umano che ha influenza
in tutti li individui, è come la luna, la quale non prende altra specie che quella unica,
la qual sempre se rinova per la conversion che fa al sole che è la prima et universale
intelligenza: ma l’intelletto umano individuale e numeroso viene come gli occhi a
voltarsi ad innumerabili e diversissimi oggetti, onde secondo infiniti gradi che son
tutte le forme naturali viene informato».
119
Cfr. M. Ficini In convivium, cit., d. VI, cap. 8, p. 151.
il vinculum amoris tra filosofia naturale e filosofia politica 267

i pochi esseri umani che hanno affinato ed elevato le loro capacità e


possibilità conoscitive. Soltanto quanti sono in grado d’indirizzare il
loro intelletto particolare e instabile alla contemplazione dell’intelletto
universale e permanente, stabilendo un vincolo intellettuale e non pu-
ramente sensibile, essi possono accedere a gradi più alti di coscienza e
di esistenza120. Il ricongiungimento all’intelletto universale attraverso
il vincolo d’amore non è il frutto di un’elezione o di una nobiltà di
nascita, ma di una dignità di conquista, un percorso esistenziale e gno-
seologico faticoso e senza fine. Se l’essere umano contiene in sé tutte
le potenzialità, soltanto attraverso il lavoro e la fatica può ascendere al
gradino più alto della «ruota delle metamorfosi»121, verso la condizione
eroica o, per la via inversa, discendere verso quella bestiale122. Sta alla
volontà e al desiderio del singolo scegliere a cosa legarsi e in quale punto
della ruota situarsi, se verso l’alto o il basso. Eroico è, allora, chi grazie
al proprio desiderio di conoscere si solleva dal gradino più basso delle
metamorfosi sino a farsi eroico123.
L’indeterminatezza del desiderio delinea sia la varietà dei tempera-
menti, sia le differenze tra i soggetti. La distinzione tra esseri umani
eroici, razionali o contemplativi e bestiali, è ancora una volta rintrac-
ciabile tra quanti si rendono schiavi della propria e altrui immagina-
zione, dei vincoli della fantasia che offuscano la ragione, e coloro che
potenziando le proprie capacità conoscitive giungono a legarsi al vincolo

120
Furori, p. 852: «Là onde accade che sia furioso, vago et incerto questo intelletto
particulare; come quello universale è quieto, stabile e certo, cossì secondo l’appetito
come secondo l’apprensione. O pur quindi (come da per te stesso puoi facilmente desci-
ferare) vien significata la natura dell’apprensione et appetito vario, vago, incostante et
incerto del senso, e del concetto et appetito definito, fermo e stabile de l’intelligenza».
121
Ivi, p. 818.
122
Ibidem: «Or questa conversione e vicissitudine è figurata nella ruota delle
metamorfosi, dove siede l’uomo nella parte eminente, giace una bestia al fondo, un
mezzo uomo e una mezza bestia descende dalla sinistra, et un mezzo bestia e mezzo
uomo ascende da la destra».
123
Ibidem: «Il furioso eroico inalzandosi per la conceputa specie della divina
beltà e bontade, con l’ali de l’intelletto e voluntade intellettiva s’inalza alla divinitade
lasciando la forma de suggetto più basso. E però disse: “Da suggetto più vil dovegno
un Dio, Mi cangio in Dio da cosa inferiore”».
268 giulio gisondi

d’amore per la verità, liberandosi dai lacci del senso per congiungersi
all’intelletto universale.
Quest’autodeterminazione dei caratteri e delle facoltà di ogni indi-
viduo spinge, sul piano civile, al diversificarsi dei destini umani e alla
strutturazione gerarchica sociale. Le contrarietà e le differenze sono
necessarie alla costruzione di una comunità ben organizzata. Bruno
pensa alla repubblica degli uomini come garanzia e salvaguardia delle
specificità dei soggetti. Come negli organismi naturali vi sono parti
superiori e parti inferiori che contribuiscono in egual misura alla so-
pravvivenza e all’accrescimento di un corpo unico, allo stesso modo,
le diversità di complessione, di stato, di occupazione e di ruolo di ogni
individuo all’interno di un corpo sociale, sono necessarie al manteni-
mento della concordia e del benessere della comunità:

Però a che doviamo forzarci di corrompere il stato della natura il quale


ha distinto l’universo in cose maggiori e minori, superiori ed inferiori,
illustri ed oscure, degne ed indegne, non solo fuor di noi, ma ed ancora
dentro di noi, nella nostra sustanza medesima, sin a quella parte di
sustanza che s’afferma inmateriale; come delle intelligenze altre son
suggette, altre preminenti, altre serveno ed ubediscono, altre coman-
dano e governano? Però io crederei che questo non deve esser messo
per essempio, a fin che, li sudditi volendo essere superiori, e gl’ignobili
uguali a gli nobili, non vegna a pervertirsi e confondersi l’ordine delle
cose, che al fine succeda certa neutralità e bestiale equalità, quale si
ritrova in certe deserte ed inculte republiche124.

La perversione dell’ordine delle cose è il rovesciamento della gerarchia


per cui gli esseri umani ferini e asinini sono spinti a prendere il posto dei
razionali ed eroici, affermando una bestiale egualità in cui le specificità
dei soggetti sono annullate. Questa uguaglianza costituisce una forma di
tirannia finalizzata a sopprimere il conflitto e a garantire una pace solo
apparente, che conduce ogni individuo verso una schiavitù permanente,
verso l’annullamento delle sue facoltà, del suo autodeterminarsi e diffe-

124
Furori, p. 912.
il vinculum amoris tra filosofia naturale e filosofia politica 269

renziarsi. Il conflitto costituisce, invece, nella prospettiva bruniana, un


elemento insopprimibile e fecondo nella costruzione di una comunità.
La pace non è un’indistinta omogeneità, un annullamento delle diffe-
renze costitutive di ogni individuo, ma l’equilibrio, il compromesso tra
molteplici e contrari desideri, vincoli, caratteri e temperamenti umani.

8. De vinciente in genere: coloro che vincolano

Nel De magia Bruno associa la figura del mago alla constatazione


che ai soggetti più sapienti e potenti nella gerarchia umana spetti il
governo dei più ignoranti125. Si tratta della stessa distinzione antropo-
logica che percorre le pagine dei Furori e del De vinculis, tra quanti
occupano la parte superiore della ruota delle metamorfosi e quanti si
collocano nella parte inferiore. La varietà antropologica, la molteplicità
e la contrarietà degli esseri umani, la differente complessione materia-
le e formale, l’indeterminatezza del desiderio, fanno sì che un’unica
tipologia di vincolo non possa legare tutti gli individui. Il vinciens
deve riconoscere la diversità dei soggetti su cui vuol agire e adattare su
ognuno di essi una specie appropriata di legame.
Le prime due sezioni del De vinculis, dedicate alla considerazio-
ne delle tecniche attraverso cui vincolare e delle realtà suscettibili di
vincolo, sono una raccolta di osservazioni e indicazioni di carattere
generale rivolte a quanti vogliano attrarre, avendo sempre presente
il fondamento naturale dei sentimenti umani. Se nella terza e ulti-
ma sezione del trattato Bruno considera il vinculum amoris come la
radice e il fondamento ontologico, nelle parti iniziali la sua riflessio-
ne è, invece, fortemente radicata al piano antropologico. Tuttavia,
quest’analisi rivolta alla dimensione pratica non è separata da quella
naturale. Il piano teorico della contemplazione filosofica non è mai
scisso da quello della praxis. Questi due livelli del reale sono tra loro
coessenziali: tra il riconoscimento dell’unità dell’essere e la coscienza
operativa, relativa al particolare e contingente momento naturale, vi

125
Cfr. De magia, p. 228.
270 giulio gisondi

è una profonda continuità. In virtù di tale continuità, il vinciens deve


possedere una ragione tanto universale quanto specifica di tutte le cose,
poiché se ogni caso particolare rientra in una dinamica naturale e in
una struttura generale, nel suo essere quel caso determinato e non un
altro, esso presenta sue proprie caratteristiche distintive e irripetibili.
Per queste ragioni, chi opera attraverso l’ars vinciendi deve conoscere
proprietà e caratteristiche di tutto ciò che esiste o, più limitatamente,
dei soggetti sui quali agisce126.
Il continuo oscillare tra l’unità dell’essere e la molteplicità delle sue
manifestazioni ha come principale conseguenza il riconoscimento della
relatività e instabilità dei vincoli particolari. Non vi è un unico oggetto
che leghi in modo assoluto un composto vario e contrario come l’essere
umano. Chi è attratto da un fanciullo non lo è da un giovane, allo
stesso modo in cui chi è affascinato da una giovane ragazza non lo sarà
più nel momento in cui questa sarà donna127. Come non vi è nulla di
assolutamente bello che vincoli in quanto piacevole permanentemen-
te, così non vi è nulla di assolutamente buono o utile che attragga in
modo incondizionato. Se per alcuni animali le cose buone si trovano
sulla terra, per altri queste sono nelle acque, o sui monti, o ancora in
pianura128. Ogni realtà naturale è costituita di qualità contrarie e dif-
ferenti, le quali fanno sì che un soggetto particolare non possa essere
vincolato stabilmente da una sola specie di vincolo129. Questa relatività
è da rintracciare proprio nella concretezza e varietà dei vincoli.
Ogni essere umano è avvinto da più specie di vincoli, a seconda dei
tempi, delle circostanze e della condizione. È più semplice, ad esempio,
legare chi aspira a un cambiamento del proprio stato, anziché chi è
appagato della propria condizione. La varietà dei vincoli comporta la

126
De vinculis, p. 428: «vincire ergo novit, qui universi rationem habet, vel saltem
rei particularis vinciendae naturam, dispositionem, inclinationem, habitum, usum,
finem».
127
Cfr. ivi, p. 424.
128
Ivi, p. 428.
129
Ivi, pp. 424-426: «non ergo ad unum principium referendum est et simplex,
quod aliquid compositum et in sua natura varium, atque etiam ex contrariis consi-
stens, vinciatur».
il vinculum amoris tra filosofia naturale e filosofia politica 271

possibilità di vincire sia consciamente sia inconsciamente attraverso


molteplici strumenti e con finalità differenti. Tuttavia, soltanto chi
si dimostri più abile e fortunato «secundum species atque modos»130,
ossia conoscendo le caratteristiche specifiche dell’oggetto vincibile,
«ille vinciet plures dominabitur et per plures de omnibus in sua specie
triumphabit»131. La relatività del vincolo non dipende soltanto dalla
natura composta e incostante del vincibile, ma ancor più dal fatto che
anche un elemento costante, semplice e delle stesse quantità e qualità,
vincolerà diversamente in tempi, occasioni e circostanze differenti132.
Tra le varie tipologie di vincoli esaminate, Bruno ne individua una
che nasce dall’indirizzare la disposizione umorale del prossimo. Gli
adulatori descritti nell’articolo XX («Vincientis conditio»), agiscono sul
soggetto da avvincere esaltandone le virtù e oscurandone i vizi, celando
la loro tecnica e il loro scopo. Poiché l’essere amato e onorato rallegra
ogni individuo, gli adulatori legano quanti non scorgono l’operazione
che si cela dietro i loro modi. Nella conclusione di quest’articolo e del
XXI («Ut vinciens vincitur»), egli introduce un elemento che caratterizza
la maggior parte delle specie di vincoli ottenute non naturalmente,
ma suscitate ad arte nel paziente su cui si opera: la gloria e il potere
che si prova nel legare a sé qualcuno, tanto più forte quanto migliore
e più elevato è l’oggetto avvinto, sentimento ambivalente e ambiguo.
La sensazione di gloria che il vinciens prova nel vincolare può ribalta-
re la sua posizione, creando una ragione di legame con l’oggetto già
vincolato e trasformando il vinciens in oggetto e preda del suo stesso
vincolo133. Questa dinamica è comune a tutte le specie di attrazione.
Ogni legame è una traduzione dell’amore in ambiti e contesti differenti.
A chi voglia vincolare sarà necessaria l’esperienza e la conoscenza del
sentimento d’amore particolare e universale, del modo in cui essa si

130
Ivi, p. 432.
131
Ibidem.
132
Ivi, pp. 432-434: «ut diversa sunt tempora, diversae occasiones et diversi
subeunt affectus, neque una eademque mensura, ita neque est aliquid unum atque
simplex et eiusdem quantitais et qualitatis, quod omnibus placere aeque possit, aeque
omnes explere».
133
Ivi, p. 440.
272 giulio gisondi

realizza tra due soggetti. Il sentimento e la relazione d’amore costituisce


un paradigma dell’ars vinciendi. E come in ogni relazione d’amore, così
anche nell’istituzione di un vincolo, elemento necessario e imprescin-
dibile nell’azione del vinciens è il fascino. Questo deve sorgere da una
condizione soggettiva, da una tensione del soggetto verso l’oggetto da
avvincere che scaturisce soltanto in due condizioni corrispondenti alle
due specie di vinciens descritte nell’articolo XXII («Vinciens distinctio»):
una per cui si aspira a diventare degni, belli e buoni; una seconda per
cui si desidera impadronirsi del buono, del bello e del degno134. Se la
prima proviene da un senso di mancanza, la seconda deriva da ciò che
stimiamo sopra ogni altra cosa.
Definire secondo caratteri fissi la rete dei molteplici e differenti
legami è uno sforzo vano: «occulta etiam maxima ex parte etiam sapien-
tibus vinculorum est ratio»135. Il ricorso all’analogia, alla somiglianza,
all’omogeneità di genere, nella comprensione delle dinamiche d’attra-
zione, possiede un valore relativo. La pluralità, l’instabilità e la causalità
dei vincoli materiali e immaginari che attraggono l’essere umano non
consente di stabilire una loro spiegazione assoluta.
L’impossibilità di una definizione costante delle relazioni umane
pone uno scarto tra la considerazione fisica dell’universo e quella civile.
Se da un punto di vista fisico i fenomeni di attrazione si verificano se-
condo dinamiche ripetibili e classificabili, le relazioni umane sfuggono,
invece, a una descrizione che possieda il carattere di necessità delle
prime. L’essere umano è sì interno alla physis, ma le sue caratteristiche
superano in parte l’ambito naturale e si aprono a uno spazio contingente
di libertà. L’ars vinciendi non è scienza esatta, ma tecnica fondata sia su
di un sapere universale, sia su di un vissuto e una conoscenza concreta
e particolare dell’essere umano.
Il vincire dipende dalla capacità dell’ingegno di affinare e attuare
una tecnica che possa indirizzare ciò che mostra già una determinata
propensione. Questa tecnica consiste nel far tendere gli individui verso
quello a cui naturalmente inclinano, come lo scoraggiare un soggetto

134
Ivi, p. 442.
135
De vinculis, p. 442.
il vinculum amoris tra filosofia naturale e filosofia politica 273

non aggressivo dall’occuparsi di cose militari, o chi è empio di dedicarsi


al culto degli dèi, o ancora all’egoista di rinunciare ai suoi vantaggi136.
Le armi del vinciens sono molteplici, sia naturali, sia artificiali. Se ogni
vincolo ha origine da condizioni naturali, tuttavia, soltanto per mezzo
di una conoscenza appropriata al genere, della tecnica e dell’artificio,
è possibile indirizzare le propensioni già esistenti nel soggetto e tra-
sformarlo. Occorre poi non trascurare mai il caso o la fortuna e le
circostanze in cui si agisce che incidono sulla riuscita o meno del laccio.
Il sapere, l’ars o la tecnica del vincolo fa sì che un essere umano, pur
nella spontaneità del suo vivere e autodeterminarsi, rientri in un sistema
di fini eteronomo. Affinché ciò avvenga è necessario che vi sia un varco,
un traditore all’interno del soggetto da vincolare, un espediente che
funga da esca137. Il vinciens deve conoscere e dirigere le inclinazioni
dei pazienti su cui opera, aver presente i tempi e le circostanze nelle
quali lanciare una determinata specie di legame. Nessun oggetto parti-
colare vincola in modo assoluto e incondizionato, ma per ognuno vi è
sempre un tempo, un luogo e una circostanza specifica. Come Venere
non lega quando il desiderio è assente, «ubi inania sunt vasa, turbatus
spiritus, urens anxia»138, così per ogni tipologia di vincolo occorre
conoscere, osservare e agire nei tempi e nelle circostanze opportune
e su soggetti ben disposti. Queste caratteristiche sono comuni a tutte
le specie di vincula e non occorre adottare una tecnica differente per
operare altri tipi di legame, ma tenere conto degli stessi principi.
Seppur l’ars vinciendi non sia riconducibile a principi validi assolu-
tamente in ogni tempo e su ogni soggetto, tuttavia, è possibile intuire
e prevedere le trasformazioni degli stati dell’animo umano. Come una
certa forma in un determinato momento assume una nuova forma non
lontana da quella precedente, pur nell’infinità delle trasformazioni della
materia, così, a ogni stato d’animo ne segue un successivo ben deter-

136
Ivi, p. 445.
137
Ivi, p. 448: «Non ligat vincibile vinciens, sicut neque munitissimam arcem
expugnat dux facile, nisi domestico aliquo proditore, vel alio quocumque pacto con-
sentiente, vel succumbente, vel utcunque tractabili ministro, fiat aditus».
138
Ibidem.
274 giulio gisondi

minato: all’indignazione segue l’ira, a questa la tristezza e così via. Chi


voglia vincolare non è completamente disorientato nella molteplicità
dei sentimenti su cui intervenire. Anche quest’alternanza di affetti e
passioni umane rientra nella vicissitudine che domina il ritmo della
vita universale139.
Il vinciens deve, dunque, osservare, conoscere e prevedere questo
naturale ritmo vicissitudinario degli stati dell’animo umano. Egli potrà
così intervenire al momento opportuno, cogliere l’occasione favorevole
e avvincere con la massima rapidità140. Gran parte dell’abilità di chi
vincola risiede nell’intuire la mutazione naturale degli stati nel cono-
scere e prevenire la forma che si cela e si prepara nell’eterna metamor-
fosi: «rescpicere […] mutationis ordinem et potentiam subsequentis
formae praecedente»141. Con questo sapere, arte e tecnica, il vinciens
potrà intuire da quale stato d’animo il paziente sarà colpito, in modo
da predisporre i lacci più adatti a legarlo.

9. Reciprocità del vincolo: il modello della relazione tra materia e forma

Affinché un vincolo risulti efficace il vinciens deve agire non in


modo disinteressato, ma stimolando il desiderio del vincibile. Bruno
definisce «schala»142 la reciprocità e la proporzionalità143 della relazione
tra agente e paziente, la cui condizione necessaria è la conoscenza, nel
secondo, dell’essere oggetto di desiderio da parte del primo:

Vinciens non unit sibi animam nisi raptam, non rapit nisi victam; non
vincit nisi illi se copulaverit, non copulatur nisi ad eam pervenit; non
pervenit nisi per motum, non movetur nisi per appulsum; non appellit

Cfr. ivi, pp. 446-448.


139

Ivi, p. 448: «ideo provide et praematuro consilio vinciendi tempus praecogno-


140

scendum est, velocissime praesens praesenti utendum, ut vincire potens quamprimum


vinciat et stringat».
141
Ivi, pp. 446-448.
142
Ivi, p. 450.
143
Cfr. M. Ficini In convivium, cit., d. II, cap. 8, pp. 42-48.
il vinculum amoris tra filosofia naturale e filosofia politica 275

nisi postquam inclinaverit vel declinaverit ad illam, non inclinat nisi


desideravit et appetierit; non appetit nisi cognoverit, non cognovit
nisi oculis et auribus, vel interni sensus obtutibus, obiectum specie
vel simulachro praesens adfuerit144.

Il vinciens è attratto e vincolato dall’oggetto del suo stesso vincire.


La reciprocità ridefinisce questa relazione che, seppur è sempre definita
nei termini di un’azione di un soggetto attivo verso uno passivo, rico-
nosce come il vinciens debba essere attratto dal vincibile per vincolarlo.
La relazione non è semplicemente l’azione di un soggetto agente su di
un paziente, ma di un agente che, al tempo stesso, è anche passivo e
un di un soggetto paziente attivo. Si tratta cioè di una relazione che
ripercorre e si adatta al modello ontologico con cui Bruno definisce
nel De la causa il vincolo di materia e forma non più nei termini di
potenza e atto, ma di potestà di fare e potestà d’esser fatto, riconoscendo
come anche il ricevere e l’assumere una forma sia un’azione propria a
un soggetto attivo come la materia e non puramente passivo. Come
la materia e la forma nella loro unione sono un possest, un vincolo che
congiunge l’atto e la potenza, non essendovi più differenza tra il fare e
il ricevere, così lo sono il vinciens e il vincibile nella relazione che si dà
attraverso il vincolo. Bruno ripensa e modella la relazione antropologica
sulla struttura ontologica del De la causa.
In questa considerazione della relazione e della reciprocità emer-
ge il problema della costituzione dell’identità del soggetto. Identità e
soggettività non costituiscono un possesso originario, un’acquisizione
di nascita, ma si esprimono e si realizzano nella e attraverso la rela-
zione, tramite i vincula che uniscono e pongono a confronto l’essere
umano con l’alterità, con il suo simile e contrario. Questo processo
avviene nello spazio familiare, comunitario e politico della differenza
e della contrarietà. La soggettività e l’identità prendono forma non
nel re-legarsi del singolo in una chiusura e in un rifiuto dell’alterità,
ma nel re-ligare, nel reciproco vincolare ed essere vincolati: a seconda
dei vincoli a cui si lega e da cui è avvinto, l’essere umano si costituisce

144
De vinculis, p. 450.
276 giulio gisondi

come soggetto attivo o passivo, dando forma alla propria identità. Il


processo d’identificazione e di formazione della soggettività avviene
nella relazione e nel confronto con l’alterità e con la collettività, allo
stesso modo in cui l’autocoscienza umana può originarsi come una
riflessione del soggetto nell’altro da sé.
Se questo processo avviene nella relazione, ciò vuol dire che la di-
mensione individuale e soggettiva non può essere separata né da quella
comunitaria, politica e civile, né da quella naturale: in quanto vincu-
lum amoris la natura è forza erotica che spinge ogni cosa all’attrazione
reciproca per mezzo della philautia, tensione permanente all’afferma-
zione del soggetto nella relazione con il suo simile e contrario. Tanto
la dimensione individuale quanto quella collettiva si riconnettono e
sono assorbite in quella naturale. Seppur per impressioni, dal De vin-
culis emergono le tracce di questa considerazione del problema della
soggettività e dell’identità.

10. De vincibilibus in genere: coloro che sono vincolabili

Il vinciens può legare il vincibile attraverso i vincoli della sensibilità,


dell’immaginazione e della ragione. Chi vincola deve essere in grado
di entrare attraverso ognuna di queste porte, con le armi più adatte a
ciascun paziente. Se riuscirà a penetrare tutte e tre queste porte, allora
egli vincolerà con la massima efficacia. Questo processo avviene in
quattro fasi: «primum invectione, secundo copulatione, tertio ligatione,
quarto fiet attractio»145.
Nel vincire occorre aver presente come ogni vincibile sia mosso
da legami differenti. Alcuni esseri umani sono attratti da ragioni
naturali, altri dal ragionamento e da nodi intellettuali, altri ancora
dall’abitudine. Da questa varietà deriva la molteplicità delle tecniche
di attrazione. Un individuo in diverse fasi della sua esistenza non
sarà legato dallo stesso vincolo. Quello che si desidera da giovani
non lega quando si è vecchi, come ciò che si vorrebbe per sé nella

145
Ivi, p. 452.
il vinculum amoris tra filosofia naturale e filosofia politica 277

prosperità non coincide con quello di cui ci si accontenterebbe nella


sventura. Il soggetto vincibile è sempre variabile e mutevole, anche in
relazione a sé stesso. Bruno insiste particolarmente sull’incostanza dei
vincoli. Ogni essere umano varia con il variare dell’età e del tempo
in rapporto a una specie di vincolo che un tempo lo legava e ora non
più. Allo stesso modo, muta il carattere con il mutare dei tempi e
delle circostanze e, dunque, anche l’inclinazione a essere attratti da
determinati vincoli146.
Nessun individuo può essere vincolato in modo permanente, a
meno che il vinciens non agisca conoscendo la natura del vincibile
e dei continui stimoli a cui è sottoposto, adattando i suoi lacci al
variare dei tempi e del soggetto. Se gli esseri umani sono legati da un
numero e da una varietà maggiore di vincoli rispetto agli animali,
non bisogna, però, mai dimenticare una regola generale: limitare con
opportune strategie i desideri e i canali di attrazione del vincibile, in
modo da suscitare un rapporto di sudditanza nei confronti di un solo
e unico oggetto vincolante. Ogni soggetto può essere vincolato da un
solo oggetto a seconda della distanza che lo separa da altri stimoli che
occupano la sua mente. È, allora, necessario che il vinciens agisca in
modo da concentrare l’attenzione del vincibile su di un oggetto o un
sentimento che sia dominante su tutti gli altri, in modo da distoglierlo
da ogni altra attività e renderlo sordo a ogni altro stimolo147. Questa
dinamica non è estranea all’ambito civile. Suscitando, nel vincibile,
attenzione e desiderio verso un oggetto o un sentimento determinato e
allontanandolo dai possibili altri, un retore può, ad esempio, sciogliere

146
Ivi, p. 462: «Pro aetatis atque temporis varietate varie unum idemque fit
vincibile, et varia sunt ad unum idemque vinculum non uno modo dispisita, neque
ex eodem pariter composita redduntur. Hinc adverte ut qui iunior extiterit et facilis,
vir est constantior et prudentior, senex suspiciosior magis et morosus, decrepitus
contemnit et fastidit».
147
Ivi, pp. 462-464: «Quoniam magis uni obiecto vincitur animus, quo magis ab
aliis abstrahitur et relaxtur, ideo vincibile ad unum definire volenti operare precium
est, ut eum in negotiis aliisque que rebus torpentem, vel magis ab earum sollicitudine
abductum reddat».
278 giulio gisondi

dal vincolo d’amore e legare all’odio, al disprezzo, all’indignazione o


ad altre passioni148.
Nell’articolo XI («Vincibilis motus») di questa seconda sezione, anti-
cipando le argomentazioni ontologiche esposte nella terza parte, Bruno
accenna alle ragioni fisiche e metafisiche grazie alle quali comprendere i
fenomeni di attrazione. L’anima e lo spiritus, sostanze semplici, costanti
ed eterne, nell’unirsi ai corpi e ai loro moti si determinano e si indivi-
dualizzano, abbracciando la vicissitudine e la metamorfosi. A causa di
questa particolarizzazione e perdita di semplicità l’anima e lo spiritus,
unite al corpo, avvertono il desiderio di ritornare alla loro condizione
originaria. Da questa mancanza deriva l’appetitus, da questo un appulsus
che le spinge al movimento, verso l’appagamento e la liberazione, il
recupero della loro pienezza. Questa perduta pienezza è ciò che essi
ricercano attraverso l’esperienza corporea e il congiungimento a vincoli
di specie diverse149.
L’eterno migrare dell’anima e dello spiritus, individualizzati nei
singoli corpi, è la ragione della non eternità dei vincoli nelle cose com-
poste e variabili, della costante instabilità, del continuo mutare. Da ciò
deriva, come ha osservato Valerio Marchetti, che «nessun legame tra
desiderante e desiderato è eterno»150. Le esistenze particolari si alternano
secondo vicissitudini di prigionia e libertà, di vincoli e liberazioni, di
passaggi attraverso specie diverse di legami: «inde nullum vinculum est
aeternum, sed vicissitudines sunt carceris et libertatis, vinculi et solutio-
nis a vinculo, vel potius demigratio ab una ad aliam vinculi speciem»151.

Ivi, p. 464: «hinc rhetor per risum, per invidiam et alios affectus solvit ab
148

amore, vincit odio vel contemptui vel indignationi».


149
De vinculis, p. 466: «In rebus compositis et variabilis, et omnino in omnibus
quae novitatem naturae et dispositionis subeunt, cuiusmodi est anima et spiritus, qui
vices varias per corpora et corporum motiones assumunt, quamvis utraque substantia
in sua simplicitate constantissima sit et aeterna, ex privatione habet appetitum, ex
appetitu appulsum, ex appulsu motum, ex motu solutionem».
150
V. Marchetti, De vinculis. Prova di “traduzione”, in Il piacere del testo. Saggi e
studi per Albano Biondi, A. Propsperi, M. Donattini, G.P. Brizzi (a cura di), Roma
2001, p. 257.
151
De vinculis, p. 466.
il vinculum amoris tra filosofia naturale e filosofia politica 279

Ogni vicenda umana si caratterizza come un processo vicissitudinario


che va dall’imprigionamento alla liberazione dai vincoli: una servitù
volontaria e spesso inconscia, alla quale l’essere umano si lega senza
alcuna costrizione, in una migrazione incessante da un vincolo all’altro.
Questa mutazione e migrazione tra forme di legami differenti pre-
cede, accompagna e segue la generazione e rigenerazione di ogni cosa.
Come la natura vincola attraverso il moto e la varietà, così l’essere
umano, la cui arte imita ed emula la natura, moltiplica i vincoli, li
diversifica, li organizza e li dispone in una progressione o continuità152.
La stabilità è una condizione estranea alla natura degli elementi e dei
corpi. La logica della mancanza e del desiderio, a cui ogni individuo è
sottoposto e a cui non può sottrarsi, spinge a oltrepassare anche i limiti
dell’interdetto, di ciò che non è alla portata dell’essere umano, l’infinito.
Il desiderio di liberarsi dai vincoli è una necessità insita in natura, allo
stesso modo in cui, un istante prima, si era spinti a incatenarsi a essi153.
Nell’articolo XII («Vincibilis indefinitio»), Bruno rapporta la costi-
tuzione del corpo del vincibile ai legami attraverso cui agire su di esso:
maggiore è il numero degli elementi che lo compongono, tanto più
sarà libero da vincoli fissi e determinati. Ciò deriva dalla molteplicità
degli stimoli a cui questi è soggetto, dalla varietà degli oggetti dai cui
è attratto, dall’indeterminatezza del suo desiderio non riducibile «ad
unum tempus tum individuum tum sexum»154. Questa caratteristica
distingue l’anima di un essere umano eroico o razionale da quella di
un bruto che, povero d’intelligenza e sentimenti, è legato da vincoli
fissi e determinati.

152
Ibidem: «Idque ut naturale est, et aeternam rerum conditionem antecedit,
concomitatur atque consequitur, ita natura varietate et motu vincit, et ars naturae
aemulatrix vincula multiplicat, variat, diversificat, ordinat et successiva quadam
serie componit».
153
Ibidem: «Status quoque usque adeo a rebus abhorret, ut interdum etiam in
vetitum nitamur magis, et eius desiderio amplius afficiamur. A vinculis enim solvi ita
naturale est appetere, sicut et paulo ante ipsis alligari ultronea et spontanea quadam
inclinationem potuimus».
154
Ivi, p. 468.
280 giulio gisondi

Ogni soggetto suscettibile di vincolo è mosso dalla philautia, l’amore


di sé. Questo sentimento o istinto agisce in ogni cosa come una resisten-
za, un desiderio di conservarsi nello stato presente e, al tempo stesso,
come volontà di perfezionamento e accrescimento di sé. Nell’articolo
XIII («Vincibilitatis fundamentum») della seconda sezione, Bruno la
definisce come uno dei fondamenti della vincolabilità: chi fosse in grado
di estinguere la philautia nel vincibile, potrebbe vincolarlo e liberarlo
in ogni modo155. Se, invece, quest’amore di sé permane nel soggetto,
egli si lascerà avvincere dai vincoli che gli sono più naturali. Il vinciens
deve allora saper estinguere, suscitare, eccitare e controllare la philautia
del vincibile su cui agisce, così da ridurne il potere di autocontrollo e
indirizzarne il desiderio, allontanandolo dall’inclinazione naturale per
modificarlo e manipolarlo attraverso la tecnica e l’artificio, per i propri
scopi156. L’amore di sé si esplica in tutte le tipologie di legame come una
resistenza all’attrazione da parte del vincibile sul vinciens.
Il processo di trasformazione e manipolazione del desiderio altrui si
fonda sulla conoscenza della forma del paziente, dei suoi equilibri, delle
sue tensioni corporee ed emotive. Questa non è soltanto una conoscenza
generale della natura e dei suoi composti, ma particolare e specifica,
un’esperienza teorica e pratica che tiene conto dell’inclinazione naturale
del soggetto, della sua disposizione e condizione, dell’utilità e del fine
specifico della realtà da vincolare157. È, dunque, una conoscenza fondata
su di un intuito o istinto operativo, sull’esperienza concreta del vivente
e dell’essere umano: è, come la definisce Papi, «una capacità “politica”
di intendere l’opportunità e di saperla volgere a profitto per poter legare
a sé l’oggetto»158. La capacità politica operativa non è mai slegata dalla
conoscenza filosofica, ma coessenziale a essa. La conoscenza filosofica
è rappresentazione generale e unitaria della molteplicità naturale, stru-
mento altrettanto necessario all’azione politica quanto la conoscenza

155
Ivi, pp. 468-470: «si quis philautiam posset in subiecto extinguere, maximopere
potens ad quomodolibet vinciendum et exolvendum reddetur. Philautia item accensa,
facilius naturalium sibi vinculorum generibus astringuntur omnia».
156
Cfr. ivi, pp. 468-470.
157
Cfr. ivi, p. 428.
158
F. Papi, L’antropologia naturalistica, cit., p. 175.
il vinculum amoris tra filosofia naturale e filosofia politica 281

e l’esperienza del particolare e singolare. Il vinciens è espressione di


questa sintesi tra conoscenza filosofica e capacità politica, tra azione e
contemplazione.
L’ars vinciendi deve sempre considerare l’amicizia e l’inimicizia degli
esseri viventi, le loro somiglianze e diversità, la simpatia e l’antipatia
e le circostanze in cui queste si esprimono. Questa considerazione è
necessaria al vinciens per acquisire sia una conoscenza generale dei
soggetti su cui opera, sia uno schema della varietà delle situazioni.
Ogni realtà suscettibile di vincolo è un composto materiale e formale,
semplice o misto159. Dal tipo di composizione deriva che alcune realtà
sono vincolate in maniera pura, altre in maniera impura, così come
esistono vincoli puri e impuri, piaceri e dolori puri e impuri. L’amore
descritto da Epicuro rappresenta, ad esempio, secondo Bruno, il modello
di un piacere impuro, poiché si accompagna al dolore provocato dal
desiderio da parte dell’amante del corpo dell’amato160. Se esistessero
delle realtà costanti nel loro desiderio, eternamente avvinte dagli stes-
si vincoli, come avviene per i pianeti e gli astri, allora il loro piacere
sarebbe costante e puro161.
Al di là dei mondi, instancabili e legati da tenacissimi vincoli, tut-
te le altre realtà sono vincolate attraverso nodi instabili e incostanti.
Quest’instabilità, caratteristica dei composti, non è un elemento estra-
neo alla riflessione civile. L’analisi della consistenza, durata, instabilità,
purezza e impurezza dei vincoli, è strettamente connaturata all’esercizio
del potere politico. Chi desideri civiliter vincire non può trascurare l’in-
stabilità dei vincula, la varietà dei caratteri e dei temperamenti umani,
le differenze e le particolarità di ogni individuo, eroico, razionale o
bestiale, e che determinano l’efficacia del vincolo che s’intende stabilire:
«Qui ergo civiliter vincire concupiat, diversitatem compositionum seu
complexionum rimetur oportet, et aliter de heroicis, aliter de ordinariis,
aliter de magis brutis ingeniis consulat, definiat atque statuat»162.

159
Cfr. De vinculis, p. 470.
160
Ivi, p. 470.
161
Ivi, pp. 470-472.
162
Ivi, p. 472.
282 giulio gisondi

Ciascun momento della vita umana è soggetto a vincoli di specie


diversa. I bambini, ad esempio, sono meno sottoposti ai vincoli degli
affetti naturali: il loro corpo è talmente impegnato nel processo di
crescita, che tutte le energie sono finalizzate a questo scopo. A partire
dall’adolescenza gli uomini e le donne cominciano a essere potenzial-
mente soggetti ai vincoli degli affetti. E la ragione di ciò risiede nel
cambiamento corporeo, nella crescita sessuale e nello sviluppo del seme:
la forza del liquido seminale costituisce una potenza interna che pone
l’individuo in uno stato di permanente eccitazione e stimolazione, ren-
dendolo maggiormente soggetto ai vincoli esterni. Una volta giunti al
pieno della maturità sessuale gli esseri umani possiedono una potenza
di seme tale da renderli predisposti a essere vincolati163.
Bruno riconduce la possibilità di essere soggetti ai vincoli sia allo
sviluppo corporeo, al seme e alla potenza fecondatrice, sia alla scoperta
dell’eros, fondamento di tutte le specie di attrazioni. Nei giovani e negli
adolescenti si manifesta una carica erotica più potente e licenziosa ri-
spetto agli adulti e agli anziani, sia perché la scoperta di questo nuovo
piacere li rende più ardentes, sia per la struttura più stretta dei condotti
seminali che provoca un piacere e un rilassamento maggiore. Tuttavia,
la maggiore presenza del seme e della potenza erotica nei giovani e ne-
gli adolescenti non costituisce soltanto uno dei fondamenti dell’essere
vincolabili, ma dello stesso vincolare attivamente, seppur spesso in
maniera inconsapevole data la non coscienza di quest’arte. Negli an-
ziani è, invece, minore la possibilità di essere vincolati, poiché minore
è la loro capacità erotica e la loro energia. Se essi sono meno disponi-
bili ai vincoli, l’esperienza e la conoscenza del mondo delle passioni
costituiscono un utile bagaglio per vincire. Tra l’incostanza e la fatica
degli anziani e la potenza e la capacità erotica dei giovani, vi sono gli
esseri umani di mezza età, i quali si lasciano vincolare adeguatamente,
stabilmente e strettamente164. Anche in questo caso, la passione e la
relazione amorosa costituisce il paradigma attraverso cui comprende-
re i fenomeni di attrazione e fascinazione: «proportionaliter se habet

163
Cfr. ivi, pp. 472-474.
164
Ivi, p. 476.
il vinculum amoris tra filosofia naturale e filosofia politica 283

omnino in aliis affectibus, qui cum Venere analogiam, oppositionem


et consequentiam quandam agnoscunt»165.
Vi sono poi vincoli che derivano dalla reciproca piacevolezza, come
i motti di spirito, le battute, l’ironia: soggetti che non vincolerebbero
a causa del loro cattivo aspetto riescono a legare quanti sono vulnera-
bili a queste specie di nodi. E ancora, la fantasia sessuale è una sorta
d’incantesimo, come la fama e l’apparenza di un uomo coraggioso,
forte, eloquente e accorto vincolano più della realtà, allo stesso modo
in cui una donna brutta può attirare attraverso la fama della sua virtù
o della piacevolezza166.
In ogni specie di vincolo sono presenti i semi necessari a tutte le
altre: chi è vulnerabile a un certo tipo di legame può essere attratto
da quello opposto, poiché anche chi vincola è sottoposto a mutazione.
Data l’instabilità delle relazioni, per legare efficacemente e in maniera
duratura un soggetto, ogni vincolo deve essere alimentato costantemen-
te. Chi avvince attraverso la fama del proprio sapere sarà disprezzato
o diverrà indifferente se quella stima verrà a mancare o si trasformerà.
Quanti sono affascinati dalla bellezza della gioventù, col passare del
tempo sono sciolti da quelle catene se questi vincoli non sono fortificati
da quelli dell’ingegno. Allo stesso modo, chi è vincolato da una certa
opinione se ne sentirà infastidito fino a disprezzarla una volta che questa
sia stata superata167.
Le radici della vincolabilità risiedono nella conoscenza e nel deside-
rio168. Conoscenza e desiderio sono indispensabili tanto al vincibile per
essere avvinto, quanto al vinciens per legare efficacemente. Nell’articolo
XXVII («Vincibilis substantia») della seconda sezione, Bruno osserva
come senza questi due elementi non vi sia alcuna possibilità di legare.
E questo presupposto è necessario in ogni forma d’agire pratico, in
special modo civile e magico:

165
Ivi, p. 474.
166
Ivi, p. 478.
167
Ivi, p. 450.
168
Ivi, p. 452, p. 484.
284 giulio gisondi

Duae vincibilitatis sunt causae, et eadem sunt de essentia vincibilis,


quatenus vincibile est: cognitio secundum genus, et appetitus secun-
dum genus. Da quod nullo modo appetat, dabis quod nullo modo
spiritualiter vinciatur. Adde quod sine cognitione et affectu neque est
quod aliquis vinciat civiliter neque magice169.

Il vincolo perfetto è quello che lega un soggetto in ogni sua facoltà e in


tutte le sue parti; e per questo occorre conoscerne qualità, temperamento
e attitudine, colpirlo e dominarne ogni sua facoltà sensibile, fantastica e
cogitativa, così da costruire un legame perfetto170. Tuttavia, come Bruno
rileva nell’articolo XXIX («Vincibilium reciprocatio»)171, non è possibile
vincire se il vinciens non subisce reciprocamente il legame. I lacci non
annodano e non penetrano il paziente se il soggetto attivo non è a sua
volta legato: non vi è, cioè, attrazione senza concatenazione. Dal punto
di vista della reciprocità della relazione vi è una differenza tra chi vincola
un soggetto aperto a molteplici forme di legame e chi agisce su di uno
legato esclusivamente al volto del proprio seduttore. Se nel primo caso il
vinciens si lega reciprocamente al vincibile attraverso legami accidentali,
nel secondo egli è indotto dalla potenza della relazione a corrispondere
al sentimento che egli stesso ha generato. Chi vincola possiede, però, un
vantaggio rispetto al proprio paziente: in quanto artefice del vincolo, egli
non lo subisce con la stessa intensità. Dato che il vinciens può esercitare un
dominio sul vincibile senza mai sottoporsi al legame con la stessa intensità,
se non per sua volontà, vi è sempre uno squilibrio a vantaggio del primo,
ragione per la quale egli domina l’altro nonostante la reciprocità del vincolo.

11. Il vincolo dell’ immaginazione

Il vincolo non si manifesta esclusivamente nella sua materialità, ma


anche in modo immaginario e ideologico. Non vincola solo il bene ma

169
Ivi, p. 484.
170
Ivi, p. 486.
171
Ibidem.
il vinculum amoris tra filosofia naturale e filosofia politica 285

l’«opinio boni»172, non il bello, ma l’opinione che qualcosa sia bello, non la
verità, ma l’opinione che qualcosa sia vero. La fantasia e l’opinione vinco-
lano molti più soggetti rispetto alla ragione e alla verità, poiché colpiscono
con maggiore efficacia e più potente intensità i cuori prim’ancora che le
menti173. Nell’articolo XXX («Vincibilis veritas»), ultimo della sezione De
vincibilibus, Bruno osserva come l’attrazione, la soggezione e il dominio
dell’altro si realizzino più efficacemente attraverso vincoli apparenti. Per
legare un soggetto non occorrono lacci che abbiano un fondamento nella
verità, ma sono sufficienti vincoli generati dall’apparenza e dall’opinione:
«potest enim imaginatio sine veritate vere vincire, et per imaginationem
vincibile vere obligare»174. L’immaginazione possiede la capacità di legare
senza che il contenuto dell’immagine sia vero. Attraverso questa facoltà, il
vinciens può suscitare nel vincibile dei vincula apparentia, che possiedono
il potere di piegarne la volontà. La costruzione del vincolo non necessita
della verità perché possa essere efficace, poiché l’opinione e l’apparenza
vincolano più intensamente della verità.
Vincolare la mente e il cuore di uno o più soggetti attraverso fan-
tasmi prodotti dall’immaginazione, slegati dal rapporto con la verità,
rappresenta l’apice del dominio, della manipolazione e assoggettamento
dell’essere umano. La diffusione di un’opinione e di una fantasia, non
necessariamente corrispondenti alla loro concreta e fattuale esistenza,
può configurarsi come una perturbante e drammatica realtà per chi
ne subisce il vincolo, più di quanto non accada con la verità. È il caso
dell’inferno, esempio analizzato da Bruno in quest’ articolo: seppur
non esista come luogo in cui espiare terribili pene dopo la morte, un
soggetto può viverlo come una condanna nella sua esistenza terrena per
mezzo della propria e dell’altrui immaginazione. E ciò lo rende reale
e concreto alla coscienza di quanti sono schiavi di quest’immagine:
«etsi enim nullus sit infernus, opinio et imaginatio inferni sine veritatis
fundamento vere et verum facit infernum»175.

172
Ibidem.
173
Ibidem.
174
Ivi, p. 488.
175
Ibidem.
286 giulio gisondi

Questo fenomeno è la trasformazione di un’opinione e di un’imma-


gine dal suo essere semplice fantasma al suo divenire realtà condivisa
dalla comunità dei credenti. La species phantastica possiede una sua
realtà che è data dalla potenza con la quale il phantasma modifica i
comportamenti di quanti ne sono vincolati. L’immaginario è reale
nella misura in cui provoca una reazione in coloro che condividono
una determinata immagine, opinione o rappresentazione176.
Questa constatazione non sembra molto distante né dall’analisi
politica né da quanto già osservava Machiavelli nel capitolo XVIII
del Principe, a proposito delle qualità che il sovrano deve mostrare di
possedere. Per accrescere e governare il consenso dei propri sudditi non
occorre possedere effettivamente qualità come la pietà, la fedeltà, l’uma-
nità, l’integrità o la religiosità, ma suscitare l’impressione di esserlo. La
ragione di quest’osservazione risiede per Machiavelli, come per Bruno,
nel riconoscimento del potere maggiore dell’opinione e dell’apparenza
sulla moltitudine, anziché della verità che avvince i pochi177.

12. Dal vinculum amoris al vinculum civilis

L’incompiutezza, la struttura e la forma del De vinculis non con-


sentono di elaborare una valutazione sistematica del trattato. Tuttavia,
dall’analisi delle questioni, l’unitarietà e la sistematicità non appaiono
un’esigenza reale di Bruno. L’estrema contingenza e instabilità connatu-
rata all’ars vinciendi caratterizza non solo la prospettiva antropologico-
naturalistica dello scritto, ma si configura come un elemento di cui il
vinciens non può non tener conto: egli deve possedere una capacità di

176
Ibidem: «habet enim sua<m> species phantastica veritatem, unde sequitur
quod et vere agat, et vere atque potentissime per eam vincibile obstringatur, et cum
aeternitate opinionis et fidei et aeternus sit inferni cruciatus».
177
N. Machiavelli, Il Principe, in Opere, cit., vol. I, cap. XVIII, pp. 165-166: «E
li uomini in universali iudicano più alli occhi che alle mani; perché tocca a vedere
a ognuno, a sentire a pochi. Ognuno vede quello che tu pari, pochi sentono quello
che tu se’; e quelli pochi non ardiscono opporsi alla opinione di molti, che abbino la
maestà dello stato che li difenda
il vinculum amoris tra filosofia naturale e filosofia politica 287

osservazione e adattamento al contingente, poiché questa è la dimen-


sione propria all’agire per vincula. L’analisi delle molteplici specie di
vincoli, della variabilità delle condizioni in cui possono essere istituiti,
la loro instabilità, conduce allo studio della capacità e della sensibilità
operativa istintiva e immediata che il vinciens deve possedere.
La descrizione generale delle possibilità di attrarre e vincolare non
è mai slegata dalle ragioni metafisiche che sottendono alla struttura di
ogni composto e che manifestano le cause per cui questo tende a ricerca-
re continuamente un nuovo equilibrio, secondo il tipo di complessione
che lo caratterizza. La comprensione generale della natura consente di
riconoscere l’unità sostanziale dell’essere e la molteplicità dei volti con
cui si manifesta nel mondo sensibile. Per vincolare occorre che il vinciens
compia quella che Papi definisce una «sintesi operativa»178, vale a dire
«un atto di accortezza pratica che nasce da una conoscenza universale
e nel contempo determinata, unite entrambe all’accortezza nel saper
inspirare – in quell’equilibrio – il potenziamento del sentimento più
idoneo a facilitare il vincolo»179. Questa sintesi tra sapere universale
e particolare, teorico e pratico, diviene pienamente visibile nella ter-
za sezione del De vinculis, dove non mancano importanti riferimenti
all’ambito politico e civile. Con una formula frequente, Bruno osserva
nell’articolo III («Vinculi indefinitio») di questa sezione, che in alcune
circostanze non è difficile vincolare, quanto piuttosto identificare la
specie di vincolo: questa considerazione vale sia per l’ambito naturale,
sia per quello civile: «ita suo modo in civilibus vinculis considerabis»180.
Nei successivi articoli IV («Vinculi compositio») e V («Vinculorum
numerus»), il riferimento all’ambito civile si pone in diretta continuità
con quello naturale. Nel primo di questi, soffermandosi sulla distin-
zione tra il vinculum Cupidinis inferiore che avvince l’essere umano
alle entità composte e quello superiore, Bruno osserva che nel mondo
civile occorre distinguere il bello, il bene e il vero universali, da quelli
particolari e individuali legati alla convenienza, consuetudine e oc-

178
F. Papi, L’antropologia naturalistica, cit., p. 177.
179
Ivi, pp. 177-178.
180
De vinculis, p. 498.
288 giulio gisondi

casione, ovvero tra l’interesse comune e il collettivo, tra l’universale


e il particolare. Il vinciens non deve gettare vincoli a caso, ma agire
nella polis avendo sempre presente questa distinzione181. E ancora,
nella prima parte dell’articolo V, il riconoscimento del principio per
cui «sic variis varia, quinetiam contrariis non solum contraria, sed
etiam diversa vinciuntur»182, è funzionale alla successiva e immediata
constatazione sul piano civile delle differenze tra i popoli. Da questo
principio deriva, ad esempio, che italiani e tedeschi esprimano gusti
differenti in materia di oratoria, di costumi, di comportamenti e non
manifestino la stessa attenzione per l’abbigliamento e l’aspetto fisico.
Questa differenza si ritrova anche all’interno di uno stesso popolo,
come un italiano che, allontanandosi dalla consuetudine, si com-
porti come un tedesco e, viceversa, un tedesco che agisca come un
italiano183. Qui risiede la maggiore difficoltà per chi vincoli civiliter,
poiché questi deve essere particolarmente accorto, prudente e abile,
soprattutto se indirizza il vincolo su di un individuo specifico e non
sulla moltitudine: come un cacciatore colpirà più uccelli sparando
nel mucchio anziché mirando a una sola preda, così è più semplice
avvincere i molti, anziché un singolo.
Nell’articolo VIII («Vinculorum modus»), il riferimento all’ambito
civile è nuovamente ripreso a proposito dei modi degli oratori e dei cor-
tigiani, i quali vincolano efficacemente se sono in grado di dissimulare
i propri artifici: il troppo lezioso, raffinato e ostentato nei modi e nel
parlare è indice di pedanteria o eccessiva ricercatezza sino a diventare
oggetto di disprezzo. Si tratta di un precetto pratico che si riconnette
a quel principio generale, indicato già nell’articolo XXVII della prima
sezione del trattato, per cui ogni fascinazione deve essere celata e non
percepibile al vincibile. Questo principio, specifica Bruno, vale soprat-
tutto per l’ambito civile, laddove il vinciens non deve mai ostentare la
propria arte, ma dissimularla facendola apparire naturale, come l’oratore
lega maggiormente se il suo discorso appare semplice e naturale. L’arte

181
Ivi, pp. 498-500.
182
Ivi, p. 500.
183
Ivi, pp. 500-502.
il vinculum amoris tra filosofia naturale e filosofia politica 289

non è scissa dalla natura, come l’artificio dalla semplicità: «ars a natura
non absolvitur, cultus a simplicitate non recedit»184.
Negli articoli X («Vinculorum distributio») e XI («Vinculorum gra-
dus»), il Nolano distingue tra atti perfetti a cui sono vincolate realtà
perfette, atti nobili a cui si legano realtà nobili, atti imperfetti e difettosi
ai quali sono vincolate realtà imperfette e difettose. Attraverso questa
distinzione, egli riafferma il principio della reciprocità o proporzio-
nalità del vincolo, presupposto necessario anche dei vincula civilia:
«in civilibus vinculis proportionale omnino facile est iudicium»185. La
reciprocità è una condizione necessaria e insopprimibile del vincire:
non si può vincolare se non vi è un movimento del vinciens verso il
vincibile. Questa reciprocità strutturale e costitutiva alla natura di ogni
cosa muove il desiderio e fa tendere ogni soggetto verso l’altro. Nella
rete delle relazioni tra tutti gli elementi e i corpi naturali vi sono cose
che si congiungono ad altre senza nessuna mediazione, come avviene
per gli individui di una stessa specie, legati da vincoli semplici e in-
trinseci; altre cose che, essendo subordinate reciprocamente, devono
attraversare tutte le mediazioni e le trasformazioni affinché possano
stabilirsi dei vincoli. Allo stesso modo, la varietà e le differenze dei
composti e delle specie comporta la varietà dei tempi, dei luoghi e dei
mezzi attraverso cui vincire. Questa considerazione è comune a ogni
tipologia e a ogni realtà suscettibile di vincolo, innanzitutto a quella
civile, politica e religiosa186.
Dall’analisi del De vinculis emerge un motivo dominante in gran
parte della produzione bruniana e relativo alla considerazione dei diversi
stati in cui si trovano gli esseri umani gli uni rispetto agli altri. Dalla
prospettiva umana e finita in cui ogni cosa è terminata e posta in rela-
zione all’altra, la scala naturae non è più ontologica, ma antropologica.
L’indeterminatezza del desiderio, il lavoro, la fatica intellettuale e mate-
riale, la varietà di oggetti, sentimenti, passioni e soggetti a cui ci si lega,
costituiscono i fattori che determinano la posizione di ognuno nella

184
Ivi, p. 506.
185
Ivi, p. 508.
186
Ivi, p. 510.
290 giulio gisondi

gerarchia civile. La molteplicità, la contrarietà e la differenza rendono


possibile il vincire. Questo sorge proprio dalla varietà dei sentimenti,
dei desideri, delle passioni e delle tensioni che muovono l’essere uma-
no, dalla capacità di agire su questi interpretandoli opportunamente.
Se il vinculum amoris è la ragione metafisica a cui tutte le cose sono
legate e destinate, il vincolo eroico o intellettuale e quello razionale
o civile, costituiscono la tensione che conduce alle forme più elevate
dell’umanità. Queste due specie di vincoli uniscono mano e intelletto,
pensiero e azione, alla ragione universale, al riconoscimento dell’unità
dell’essere e delle sue molteplici manifestazioni.
VI. Lex e religio.
Dal vinculum amoris al vinculum civile

1. Ontologia e politica nello Spaccio

Il passaggio dalla considerazione naturalistica del vinculum a quella


politica è in atto, prima del De vinculis, già nello Spaccio. Bruno vi
analizza il problema del legame civile nella crisi dell’Europa del se-
condo Cinquecento, scissa dalle guerre politiche e religiose tra cattolici
e riformati. Articolata in tre dialoghi di argomento morale, l’opera è
il racconto di una grande allegoria celeste e terrena in cui Giove, di
concerto con le altre divinità, colloca nel firmamento le virtù necessarie
alla concordia dell’umanità, scacciando i vizi che hanno condotto al
sovvertimento e alla rovina del mondo.
Egli recupera qui l’immagine del cosmo geocentrico dell’astrologia
per formulare una rappresentazione mitologica e allegorica funzionale
alla sua proposta di riforma morale ed etico-civile. Dal riconoscimento
dell’infinità dell’universo e della pluralità dei mondi da un punto di
vista cosmologico, scaturisce un’apparente assenza di senso sul piano
etico, religioso e politico, legata al caos e alla perdita di centralità
che l’infinito porta con sé. Lo Spaccio è un tentativo di rivalutare la
292 giulio gisondi

dimensione finita e le sue possibilità di senso sul piano civile, laddove


la scoperta dell’infinito e l’assenza del centro hanno spazzato via ogni
assoluto ordine antropocentrico: come rileva Dagron, «le paris de Bruno
consiste à penser positivement le fini dans l’infini contre toute figure
de la vanité»1. Dopo la distruzione dell’ordine fisico, metafisico e
morale del cosmo cristiano e aristotelico-tolemaico, il problema di-
viene ora quello di riannodare le fila dei legami tra l’uomo, la natura
e Dio. L’intento dell’opera è cioè quello di proporre una riforma del
sapere naturale e civile, che sia in grado di rimettere l’essere umano
in comunicazione con la natura e Dio. Soltanto riconoscendo l’unità
dell’apparente contrarietà e molteplicità, sarà possibile agire sulla base
del modello naturale, provvedendo a ristabilire attraverso vincoli appro-
priati la «communione degli uomini»2 e «la civile conversazione»3.
Tuttavia, l’immagine di un passaggio dalla dimensione naturale a
quella civile chiarisce solo parzialmente la dinamica di questo rapporto.
Dalla considerazione della continuità tra riflessione naturale e politica è
possibile comprendere i frequenti rimandi, anche nello Spaccio, all’on-
tologia del De la causa. Non è un caso, ad esempio, se introducendo gli
argomenti dei tre dialoghi dell’opera nell’Epistola esplicatoria, Bruno
faccia riferimento all’infinità, unità e indissolubilità della sostanza,
alla molteplicità degli accidenti che da essa scaturiscono, nonché alla
vicissitudine a cui ogni cosa è sottoposta, persino Giove che, pur essendo
il padre degli dèi, è anch’egli soggetto alla mutazione:

Abbiamo dumque un Giove non preso per troppo legittimo e buon


vicario, o luogotenente del primo principio e causa universale: ma
ben tolto qual cosa variabile, suggetta al fato della mutazione. Però
conoscendo egli che in tutto uno infinito ente e sustanza sono le nature
particolari infinite et innumerabili (de quali egli è un individuo) che

1
T. Dagron, Giordano Bruno et la théorie des liens, «Les études philosophique»,
4 (1994), p. 469. Cfr. F. Raimondi, La repubblica dell'assoluta giustizia. La politica di
Giordano Bruno in Inghilterra, Pisa 2003, pp. 171-353.
2
Spaccio, p. 539.
3
Ibidem.
lex e religio. dal vinculum amoris al vinculum civile 293

come in sustanza, essenza e natura sono uno: cossì per raggion del
numero che subintrano, incorreno innumerabili vicissitudini e specie
di moto e mutazione. Ciascuna dumque di esse, e particularmente
Giove, si trova ad esser tale individuo, sotto tal composizione, con tali
accidenti e circostanze, posto in numero per differenze che nascono da
le contrarietadi, le quali tutte si riducono ad una originale e prima, che
è primo principio de tutte l’altre, che sono efficienti prossimi d’ogni
cangiamento e vicissitudine: per cui come da quel che prima non era
Giove, appresso fu Giove, al fine sarà altro da Giove4.

Anche la divinità Giove è un composto di materia e forma sottoposto


alla mutazione, che ha compreso come ogni cosa sia una manifestazione
finita dell’unica e inesauribile sostanza infinita. Dalla concretezza del
particolare, Bruno espone il principio della contrarietà, della muta-
zione e vicissitudine a cui ogni cosa è soggetta, sino a risalire all’unità.
Percorrendo questo stesso modello argomentativo e associando ancora
Giove a quel particolare individuo che ha compreso l’intima struttura
del vivente, egli prosegue:

Conosce che dell’eterna sustanza corporea (la quale non è denihila-


bile né adnihilabile, ma rarefabile, inspessabile, forabile, ordinabile,
figurabile) la composizione si dissolve, si cangia la complessione, si
muta la forma, si alterna l’essere, si varia la forma: rimanendo sempre
quel che sono in sustanza gli elementi; e quell’istesso che fu sempre
perseverando l’uno principio materiale, che è vera sustanza de le cose,
eterna, ingenerabile, incorrottibile. Conosce bene che dell’eterna su-
stanza incorporea niente si cangia, si forma o si difforma; ma sempre
rimane pur quella, che non può essere5.

Vale la pena seguire questo excursus in cui il Nolano richiama le


questioni ontologiche affrontate dal Sigillus alla Cena, dal De la causa
al De l’ infinito e ripercorse nel De vinculis, per osservare come in queste

4
Ivi, p. 465.
5
Ivi, pp. 465-466.
294 giulio gisondi

pagine iniziali dello Spaccio si assista a un graduale slittamento dalla


considerazione dell’infinità della causa e principio primo, del vincolo
di materia e forma in cui tutte le differenze e contrarietà coincidono,
alla dimensione finita, temporale e mutevole in cui è incluso l’uomo
Giove: seppur sottoposto al ciclo della metamorfosi e alla trasforma-
zione in altro da sé, questi non è più un puro e semplice accidente,
ma un ente in grado di elevarsi al di sopra della sua accidentalità, per
accedere a quella libertà preclusa a Dio stesso, divenendo artefice del
proprio destino.
Se di passaggio possiamo parlare, bisogna intenderlo non nel senso
di un salto dalla filosofia naturale, in cui fisica e metafisica coincido-
no, all’antropologia e alla politica, come se queste ultime seguissero
dinamiche sganciate dalla prima. Occorre ripensare la relazione tra
natura e cultura nei termini di una profonda e radicale continuità.
Nel processo vicissitudinario di generazione e rigenerazione è possibile
rintracciare i principi, le leggi e i vincoli necessari alla «republica del
mondo»6, così d’agire nel mondo civile per costruire quella «patria
tranquillitade, commoditate e pace»7 tra gli esseri umani. L’ordine degli
eventi mondani segue gli stessi principi naturali: l’eterna mutazione e
la vicissitudine universale, in virtù delle quali sussistono la contrarietà
e il cambiamento, sono necessari non solo al benessere del singolo ma
dell’umanità:

Talché se ne li corpi, materia et ente non fusse la mutazione, varietade


e vicissitudine, nulla sarrebe conveniente, nulla di buono, niente di
dilettevole […]. Ogni delettazione non veggiamo consistere in altro
che in certo transito, camino e moto. Atteso che fastidioso e triste è il
stato de la fame; dispiacevole e grave è il stato della sazietà: ma quello
che ne deletta è il moto da l’uno a l’altro. Il stato del venereo ardore
ne tormenta, il stato dell’isfogata libidine ne contrista: ma quel che
ne appaga è il transito da l’uno stato a l’altro. In nullo esser presente
si trova piacere, se il passato non n’è venuto in fastidio. La fatica non

6
Ivi, p. 653.
7
Ivi, p. 587.
lex e religio. dal vinculum amoris al vinculum civile 295

piace se non in principio dopo il riposo: e se non in principio, dopo


la fatica, nel riposo non è delettazione8.

Come la mancanza e il bisogno di pienezza muove la materia, spin-


gendola ad assumere tutte le possibili forme in un incessante processo
di perfezionamento, così la mutazione e la vicissitudine muovono ogni
essere umano a esperire la contrarietà, sollecitandolo verso lo stesso biso-
gno di pienezza e perfezione. Secondo uno schema che sarà poi ripreso
negli articoli XIII e XV della terza sezione del De vinculis9, le dinamiche
di unione e disgiunzione di materia e forma costituiscono le strutture
vitali e relazionali proprie a ogni singolo elemento e corpo naturale, a
ogni essere umano. Ciò pone un’insopprimibile corrispondenza tra il
piano delle cause e dei principi ontologici, e il piano mondano, civile
e umano, poiché ogni cosa è costituita di un’unica materia e forma
universali. La riflessione etica, politica e religiosa è così già inclusa nel
solco della filosofia naturale della nolana filosofia.

2. Unità, pace e contrarietade

Nello Spaccio Bruno ripensa positivamente la molteplicità e la con-


trarietà del finito. Scopo dell’opera è quello di analizzare le possibilità
di pensiero e azione dell’essere umano, i limiti, i vizi, le virtù e i principi
in grado di elevarlo dalla condizione bestiale verso quella razionale ed
eroica, sino a ritrovare gli strumenti che ne facciano emergere la sua
specifica forma di libertà, pur nella vicissitudine e nella mutazione. Se
queste rappresentano una legge eterna e inarrestabile a cui ogni cosa
è sottoposta, il Nolano vuol ritrovare ciò che permette di oltrepassare
o indirizzare la necessità, non esclusivamente rispetto all’esistenza del
singolo, ma al progresso comunitario a cui ogni individuo, pur nella
finitezza della sua esistenza, può contribuire per via di contemplazione
e di azione.

8
Ivi, p. 481.
9
Cfr. De vinculis, pp. 510-520.
296 giulio gisondi

L’esperienza del singolo è sempre inserita all’interno della dinamica


di conservazione e trasformazione, nella contrarietà che lo spinge a
legarsi all’altro in cerca di un miglioramento. Soltanto sfruttando le
possibilità aperte dalla mutazione e dalla vicissitudine, l’individuo può
elevarsi dal suo essere pura manifestazione accidentale, per riscoprire
la sua propria forma di libertà e infinità, non come la causa e principio
primo, ma in modo relativo, pensando e agendo nella collettività e nel
tempo al di sopra delle leggi naturali che lo trascinano alla dissoluzio-
ne: spingersi oltre l’essere mortale nonostante la mortalità, per lasciare
una traccia che oltrepassi la finitezza della sua esistenza individuale.
La considerazione positiva della molteplicità, della contrarietà, della
vicissitudine e della mutazione risponde all’esigenza di rintracciare e
garantire uno spazio di libertà al pensiero e all’azione dell’essere umano:
«tanto che la mutazione da uno estremo a l’altro per gli suoi participii,
il moto da un contrario a l’altro per gli suoi mezzi viene a sodisfare: et
in fine veggiamo tanta familiarità di un contrario con l’altro, che uno
più conviene con l’altro, che il simile con il simile»10.
Come dal punto di vista gnoseologico vi è conoscenza soltanto
laddove vi è differenza e distinzione, non nell’unità della coincidentia
oppositorum, allo stesso modo, l’essere umano può agire soltanto dove
vi è molteplicità e contrarietà, dove ogni cosa è distinta dal suo con-
trario, non nell’orizzonte dell’infinito, dell’assolutamente uniforme e
omogeneo11. Se la contrarietà e la mutazione conducono ogni elemento
e corpo naturale alla dissoluzione, esse costituiscono l’unico spazio di
conoscenza e operatività umana. È questa, in altre parole, una consi-
derazione della condizione finita intesa non più come esilio e prigione
a cui l’essere umano è destinato, ma apertura e possibilità di costru-
zione e manipolazione del mondo. Come Bruno osserva nel prosieguo
del dialogo I, la contrarietade, frutto della mutazione, costituisce un

Ivi, p. 482.
10

Ibidem: «Il principio, il mezzo et il fine; il nascimento, l’aumento e la perfezzione


11

di quanto veggiamo, è da contrarii, per contrarii, ne’contrarii: e dove è la contrarietà,


è la azzione e reazzione, è il moto, è la diversità, è la moltitudine, è l’ordine, son gli
gradi, è la successione, è la vicissitudine».
lex e religio. dal vinculum amoris al vinculum civile 297

presupposto necessario per l’istituzione della giustizia, della concordia


e di una comunità ben ordinata:

Cossì mi par vedere, che per la giustizia non ha l’atto se non dove è
l’errore, la concordia non s’effettua se non dove è la contrarietade; il
sferico non posa nel sferico perché si toccano in punto, ma il concavo
si quieta nel convesso; e moralmente il superbo non può convenire
col superbo, il povero col povero, l’avaro con l’avaro: ma si compiace
l’uno nell’umile, l’altro nel ricco, questo col splendido. Però se fisica,
matematica e moralmente si considera: vedesi che non ha trovato
poco quel filosofo che è dovenuto alla raggione della coincidenza de
contrarii; e non è imbecille prattico quel mago che la sa cercare dove
ella consiste. Tutto dumque che avete profferito è verissimo12.

L’esplicito riferimento al modo di considerare della fisica, della ma-


tematica e della morale, a Cusano, con il rimando alla magia come
arte che sa cercare la coincidenza dei contrari, corrisponde all’esigenza
di mantenere aperte le due prospettive di rappresentazione dell’essere,
della natura e della realtà: quella relativa al riconoscimento dell’infinità
complicata della causa e principio primo, dell’Uno, e quella relativa alla
finitezza, instabilità, contrarietà e temporalità dell’explicato. Il rapido
accenno alla coincidentia oppositorum, a una profonda magia capace di
ritrovare il punto de l’unione, suggerisce come il piano della riflessione
etico-politica non sia mai separabile da quella naturale.
Nella costruzione della repubblica degli uomini, la contrarietade
assume una funzione necessaria. Comprendere e agire in virtù di essa
significa operare nella polis salvaguardando le differenze tra gli indivi-
dui, preservandole in quanto ricchezza e accrescimento della libertà,
dell’unione e della concordia di una comunità, anziché limite o minac-
cia. Ciò equivale a pensare, favorire e costruire una pace intesa non nel
senso di una «Parzialitade indegna»13, di un’omogeneità e uniformità
in cui le differenze sono annullate. Una tale forma di pace non è che

12
Ibidem.
13
Ivi, p. 475.
298 giulio gisondi

appiattimento di una realtà multiforme a un’unica forma totalizzante,


a scapito delle innumerevoli altre: una tirannia che rende i membri
di una comunità sterilmente uguali, sopprimendo le specificità e le
differenze, in nome di una volontà particolare dominante.
Per Bruno la pace è una condizione precaria e instabile, frutto
dell’equilibrio tra forze opposte soggette alla mutazione. L’elemento
conflittuale interno al corpo civile trae origine proprio dalla contrarietà
e dalle differenze. Il conflitto non è necessariamente il segno di un
malessere, ma la tensione che spinge i membri di una stessa comunità
e i suoi governanti alla continua ricerca di un equilibrio che possa
adattarsi alle sue trasformazioni e alle forze che in essa agiscono, ga-
rantendone e custodendone la diversità. Soltanto la radicalizzazione di
un contrario sull’altro può generare la lite, la contesa e la guerra. Un
principe deve governare sapendo continuamente vincolare tra loro forze
e soggetti contrari e opposti, così da operare su di essi mantenendo
salda la concordia.
Questo modo d’agire nella polis attraverso legami, vinciendo elementi
contrari e differenti in una struttura coordinata e pacifica, risponde
al principio dell’operare sul modello dell’ordine naturale delle cose:
come rileva Bassi, «sovvertire l’ordine naturale significa […] pertur-
bare l’opera stessa di Dio»14. Nella natura molteplice e in permanente
rivoluzione, la pace si origina dalla familiarità e dalla vicinanza che un
contrario ha con l’altro, sulla base di una relazione tra questi che deve
essere sempre ricercata, osservata, costruita e istituita attraverso legami
differenti, nonostante il rischio costante che un elemento prevalga e
domini il suo contrario. La pace non è la cristallizzazione di un’unica
forma del reale, ma di una relazione instabile, mutevole e multiforme,
che contiene la complessità di una realtà in continua trasformazione.
Scopo di chi governa è, allora, quello di favorire e garantire la contra-
rietà e la diversità interne al corpo civile, non di sopprimerle in nome

S. Bassi, Immagini della pace nei dialoghi italiani, in Favole, metafore e storie,
14

Seminario su Giordano Bruno, introduzione di M. Ciliberto, O. Catanorchi e D.


Pirillo (a cura di), Pisa 2007, p. 474.
lex e religio. dal vinculum amoris al vinculum civile 299

di una pace in cui prevalga un desiderio soggettivo limitato da passioni


e ambizioni particolari.

3. Immagini della Verità, della Sofia e della Legge tra la Cena e lo


Spaccio

La pace e la concordia civile rappresentano due questioni che Bruno


affronta sin dalla Cena, seppur con alcune differenze rispetto allo Spac-
cio. Nel primo dei dialoghi italiani, egli lega la pace al mantenimento
dell’ordine naturale, sottolineando come il campo «delle dimostrationi
e speculazioni circa le cose naturali»15 sia distinto da quello della morale
e della legge16. Questa distinzione tra verità e legge è funzionale nella
Cena a rivendicare la possibilità d’indagare la natura senza intaccare
la dimensione religiosa, ma liberandone l’osservazione e lo studio dal
testo biblico. In questo contesto i campi della verità, della pace e della
legge possono sì intrecciarsi, ma rimanendo distinti l’uno dall’altro.
Nello Spaccio la salvaguardia della pace dipende, invece, proprio
dal riconoscimento della verità e dal mantenimento della legge. Alla
Verità, collocata da Giove nella «sedia più eminente»17 del firmamento,
deve succedere la Sofia, «sua indissociabile compagna»18 e legata alla
Legge19. Quest’ultima è unita alla Verità per mezzo della Sofia e deve

15
Cena, p. 91.
16
Ibidem: «Or quanto a questo credetemi che se gli dèi si fussero degnati d’inse-
gnarci la teorica delle cose della natura, come ne han fatto favore di proporci la prattica
di cose morali, io più tosto mi accostarei alla fede de le loro revelazioni, che muovermi
punto della certezza de mie raggioni e proprii sentimenti. Ma […] nelli divini libri in
servizio del nostro intelletto non si trattano le demonstrazioni e speculazioni circa le
cose naturali, come se fusse filosofia: ma in grazia de la nostra mente et affetto, per
le leggi si ordina la prattica circa le azzioni morali.»
17
Spaccio, p. 514.
18
Ivi, 515.
19
Ivi, p. 516: «perché non è vera né buona legge quella che non ha per madre la
Sofia, e per padre l’intelletto razionale; e però là questa figlia non deve star lungi da
la sua madre: et a fin che da basso contempleno gli uomini come le cose denno essere
ordinate appresso loro, si provveda qua in questa maniera cossì».
300 giulio gisondi

rispecchiarla nei suoi ordinamenti. Nella prima parte del dialogo II,
Bruno ritorna più volte sulla descrizione delle virtù e del rapporto che
intercorre tra loro, radicando la trattazione di problemi etico-politici
nella sua prospettiva ontologica:

Dumque la verità è avanti tutte le cose, è con tutte le cose, è dopo tutte
le cose; è sopra tutto, con tutto, dopo tutto: ha raggione di principio,
mezzo e fine. Essa è avanti le cose per modo di causa e principio,
mentre per essa le cose hanno dependenza; è nelle cose et è sustanza
di quelle istessa, mentre per essa hanno la sussistenza; è dopo tutte le
cose, mentre per lei senza falsità si comprendeno. È ideale, naturale e
nozionale; è metafisica, fisica e logica. Sopra tutte le cose dumque è la
verità: e ciò che è sopra tutte le cose, benché sia conceputo secondo altra
raggione, et altrimente nominato, quello pure in sustanza bisogna che
sia l’istessa verità. Per questa causa dumque raggionevolmente Giove
ha voluto che nella più eminente parte del cielo sia vista la veritade.
Ma certo questa che sensibilmente vedi e che puoi con l’altezza del
tuo intelletto capire, non è la somma e prima: ma certa figura, certa
imagine e certo splendor di quella 20.

La Verità è il riconoscimento che l’essere infinito, semplice e per-


manente, si comunica in molteplici, contrari e differenti volti nell’u-
niverso sensibile. Essa è l’apice a cui l’intelletto umano deve tendere,
pur potendo coglierne solo l’immagine sensibile.
Alla Verità si affianca la provvidenza, che «ha doi nomi: provvidenza
e prudenza; e si chiama “provvidenza” in quanto influisce e si trova
nelli principii superiori; e si chiama “prudenza” in quanto è effettuata
in noi»21. Nell’unità essa è compagna della Verità, identificata nella
libertà e nella necessità. Nel suo farsi terrena, invece, assume i caratteri
della Prudenza, che consiste «in certo discorso temporale»22, vale a dire
in una logica adattata alla dimensione sensibile, a metà strada tra una

20
Ivi, p. 534.
21
Ivi, p. 535.
22
Ibidem.
conoscenza dell’universale e del particolare che «ha per damigella la
dialettica, e per guida la sapienza acquisita, nomata volgarmente me-
tafisica, la quale considera gli universali de tutte le cose che cascano
in cognizione umana»23. La prudenza è cautela e custodia della verità
sensibile, scudo donato ai mortali per proteggersi dalle avversità in cui la
ragione umana può incorrere, fortificandola e donandole la possibilità
di adattarsi al mutamento senza essere sconvolta dagli accadimenti: «per
cui a gli bene affetti niente accade come subitano et improviso, di nulla
dubitano, ma tutto si guardano: ricordandosi il passato, ordinando il
presente e prevedendo il futuro»24.
Anche la Sofia possiede una forma superiore, celeste e ultramondana,
identificata con la Provvidenza e la Verità, e una mondana, consecutiva
e inferiore che «non è verità istessa, ma è verace e partecipe della verità;
non è il sole, ma la luna, la terra et astro che per altro luce»25. A diffe-
renza della Sofia celeste, indivisibile, infigurabile e non comprensibile
da un intelletto finito, quella terrena non è tale per essenza, ma per
partecipazione alla sua omologa. Come l’occhio che riceve la luce da
un lume esterno non vede di per sé, ma in virtù di altro da sé, così la
sapienza mondana «non è l’uno, non è l’ente, il vero; ma de l’uno, de
l’ente, del vero; a l’uno, a l’ente, al vero; per l’uno, per l’ente, per il vero;
nell’uno, nell’ente, nel vero; da l’uno, da l’ente, dal vero»26. Proprio in
virtù della sua partecipazione alle realtà superiori, la Sofia terrena è vin-
colo che permette la comunicazione tra il piano metafisico dell’essere,
dell’Uno, della verità, e quello finito, fisico, instabile e mutevole della
contrarietà. Se la sapienza e verità unica e semplicissima non è visibile
alla ragione umana, alla Sofia terrena è possibile, invece, avvicinarsi
e partecipare attraverso molteplici e differenti porte, a cui «per vari
gradi e scale diverse […] tutti aspirano, tentano, studiano e si forzano
salendo pervenire»27.

23
Ibidem.
24
Ivi, p. 536.
25
Ibidem.
26
Ibidem.
27
Ivi, p. 537.
302 giulio gisondi

«Alla Sofia succede la legge sua figlia»28, che opera grazie ad essa. La
Legge è il principio in virtù del quale «gli prencipi regnano, e li regni e
republiche si mantegnono»29. Completando il passaggio dal piano della
verità celeste, a quello finito e mutevole della contrarietà, Bruno pensa
la legge come strumento di concordia adattabile ai differenti contesti e
corpi civili. Con i «suoi otto ministri […] taglione, carcere, percosse,
esilio, ignominia, servitù, povertade e morte»30, la Legge è il vincolo
civile più appropriato al mantenimento dell’ordine e della concordia di
uno Stato. Anch’essa come la Verità e la Sofia possiede un volto celeste,
affinché i governanti, i principi e i sovrani le si sottopongano al pari
di tutti i membri di una comunità. Se ogni individuo è sottoposto ai
vincoli della legge, «gli più potenti»31 son da lei «più potentemente
compresi e vinti»32: in modo che «gli potenti sieno sustenuti da gl’im-
potenti, gli deboli non sieno oppressi da gli più forti, sieno deposti i
tiranni, ordinati e confirmati gli giusti governatori e regi, sieno faurite
le republiche»33; una legge che sappia premiare la virtù intesa come il
bene che il singolo apporta all’intera comunità e, viceversa, che puni-
sca non il peccato particolare compiuto dal singolo verso sé stesso, ma
quello arrecato a danno della pace e del bene pubblico.
La Legge è la virtù a cui Giove «ha donata […] la potenza di
legare»34. Ma affinché essa possa effettivamente legare, non deve né
incoraggiare o promuovere le iniquità e le ingiustizie, né proporre e or-
dinare qualcosa d’impossibile a compiersi: ciò risulterebbe dannoso per
il bene pubblico, poiché una siffatta legge dissolverebbe i suoi vincoli,
generando oppressione e discordia. Bruno pensa il principio per cui
una legge deve poter essere compiuta, in opposizione alla prospettiva
riformata, sia luterana sia calvinista. Per i riformati la legge mosaica è
stata concessa agli esseri umani affinché prendessero coscienza del loro

28
Ivi, p. 538.
29
Ibidem.
30
Ibidem.
31
Ibidem.
32
Ibidem.
33
Ibidem.
34
Ibidem.
lex e religio. dal vinculum amoris al vinculum civile 303

limite, della loro condizione di miseria e abbandono senza una salda


fede in Dio. Il riconoscimento umano dell’impossibilità di adempiere
alla legge e alla volontà divina corrisponde all’accettazione di una fede
assoluta e incondizionata.
Nel De libertate christiana, Lutero descrive i comandamenti biblici
come ciò che pone l’essere umano di fronte all’incapacità di compiere la
volontà divina35. Questa stessa prospettiva è presente, seppur lievemente
mutata, nel settimo capitolo del libro II dell’Institutio di Calvino36,
dove egli descrive la legge mosaica come ciò che rende l’essere umano
consapevole della propria miseria e lo spinge ad affidarsi a Cristo per
trovare la forza di adempiere ai Comandamenti. Entrambe queste for-
mulazioni del ruolo della legge sembrano trovare il loro fondamento
teologico nella teorizzazione elaborata da Melantone nei Loci communes
rerum theologicarum37. Bruno rifiuta questa concezione della legge,
non soltanto perché si tratta di una legge impossibile a compiersi, ma
perché ingiusta:

Giove ha comandato, imposto et ordinato al giudizio: che veda se


gli è vero che costoro iudicano gli popoli al dispreggio et al meno a
poca cura di legislatori e leggi, con donargli ad intendere che quelli
proponeno cose impossibili e che comandano come per burla, cioè
per far conoscere a gli uomini che gli dèi sanno comandare quello che
loro non possono mettere in esecuzione38.

Una legge e, con essa, una religione che mirino a promuovere non
il progresso di ogni individuo per la comunità, ma l’abbandono a un
oggetto esterno di venerazione e la conseguente rinuncia di sé, delle

35
M. Lutero, Tractatus de libertate christiana, in Werke, J.K.F. Knaake (a cura
di), Weimar 1897, vol. VII, pp. 52-53.
36
Ihoannis Calvini Institutio christianae religionis, in Opera quae supersunt omnia,
ediderunt J.-W. Baum, E. Cunitz, E. Wilhelm, E. Reuss, Berlin 1864, vol. II, lib.
II, cap. 7, pp. 252-266.
37
P. Melanchton Loci communes rerum theologicarum seu hypotyposes theologicae,
testo latino-tedesco, H.G. Pöhlmann (a cura di), Gütersloh 1997, pp. 110-118.
38
Spaccio, pp. 544-545.
304 giulio gisondi

umane capacità di pensiero e azione, rappresentano ordinamenti non


corrispondenti alla naturale e universale philautia. Al contrario, massi-
mo è il potere della legge di legare se essa aspira a una giustizia regolata
dalla possibilità, poiché «quantumque molte cose sono possibili che non
son giuste, niente però è giusto che non sia possibile»39. La positività e
l’efficacia della legge sono misurate sulla base della «commodità»40 che
essa apporta, del modo in cui vincola ogni membro di una comunità
verso il miglioramento individuale e collettivo, indirizzando gli animi
e riformando gli ingegni, poiché soltanto così «si producono frutti utili
e necessari alla conversazione umana»41.
Alla Legge si affianca il Giudizio, simboleggiato dalla corona e dalla
spada, dal potere di governo e dall’esercizio della legge: «questa con
cui premie quelli che oprano bene astenendosi dal male; quella con cui
castighe color che son pronti a gli delitti, e son disutili et infruttifere
piante»42. Il Giudizio è coessenziale alla Legge, posto a sua cura, poi-
ché «questo deve eseguire, e quella dettare; in quella ha da consistere
tutta la teoria, in questo tutta la pratica»43. Suo compito è di suscitare
«l’appetito de la gloria ne gli petti umani, per che questo è quel solo et
efficacissimo sprone che suole incitar gli uomini e riscaldarli a quelli
gesti eroici che aumentano, mantengono e fortificano le repubbliche»44.
L’esercizio della Legge attraverso il Giudizio non è mai separato dalla
madre Sofia, ma intimamente legato a questa. La Legge costituisce una
forma di sapienza rivolta alla pratica del legame o, come recita il De
vinculis, una «Manus ergo vinciens metaphorico nomine appellatur,
quae multiplici ad vinciendum preparatione deflectur et inclinat»45.
Se la verità e la legge appartengono, nella Cena, a due ambiti distinti,
nello Spaccio esse non sono separabili l’una dall’altra. Nel primo dei
dialoghi italiani, la legge possiede un linguaggio rivolto alla moltepli-

39
Ibidem.
40
Ibidem.
41
Ivi, p. 540.
42
Ibidem.
43
Ivi, p. 520.
44
Ivi, pp. 540-541.
45
Cfr. De vinculis, p. 418.
lex e religio. dal vinculum amoris al vinculum civile 305

cità degli individui che non si adatta al lessico della conoscenza della
verità. Se un legislatore «usasse termini che le capisse lui solo et altri
pochissimi, e venesse a far considerazione e caso de materie indifferenti
dal fine a cui sono ordinate le leggi, certo parrebbe che lui non drizza
la sua dottrina al generale et alla moltitudine per la quale sono ordi-
nate quelle»46. Le leggi sono rivolte ai popoli e devono, perciò, essere
espresse da un linguaggio comune e semplice, differente da quello della
verità, per essere comprese dai molti che non sono in grado di agire
virtuosamente per la comunità se non sottoposti al vincolo della legge.
Bruno recupera questa distinzione anche nel De l’ infinito, laddove
ragionando della potentia absoluta e ordinata di Dio, osserva come
alcune verità di natura, non ammesse dai teologi, sarebbero incom-
prensibili o male interpretate dalla maggior parte degli esseri umani,
provocando effetti nefasti sul piano civile47. Le verità di natura non
sono in contrasto con la religione e le leggi, ma risulterebbero assurde a
quanti vivono sotto il giogo dell’altrui immaginazione. Legge, religione
e verità non possiedono lo stesso scopo e non sono rivolte agli stessi
soggetti, ma si comunicano attraverso linguaggi e modi differenti. Nel
De l’ infinito, come nella Cena, l’intento di Bruno è quello di garantire
i meriti e le virtù che rischierebbero di essere disprezzati dalla moltitu-
dine. Il riconoscimento della coincidenza in Dio di libertà e necessità,
se comunicato ai «rozzi popoli et ignoranti»48, si risolverebbe sul piano
civile in una dissoluzione del libero arbitrio e di un’idea di salvezza
legata ai «meriti di giusticia»49. Nella distinzione tra il linguaggio e lo
scopo della filosofia, e quello della religione e della legge, egli ricono-
sce, tuttavia, come non si sia trovato «giamai filosofo, dotto et uomo
da bene»50 che, dalla considerazione dell’identità in Dio di libertà e
necessità, ne abbia dedotto «la necessità delli effetti umani»51» e del
libero arbitrio. Anticipando la critica dello Spaccio contro le religioni

46
Cena, p. 92.
47
Cfr. Infinito, p. 337.
48
Ibidem.
49
Ibidem.
50
Ibidem.
51
Ibidem.
306 giulio gisondi

riformate e la dottrina della gratia sola fide, egli osserva che dall’identità
di necessità e libertà in Dio non è possibile inferire l’assenza del libero
arbitrio. Seppur sottoposto alla vicissitudine, nella contingenza della
sua esistenza l’essere umano è sempre libero di elevarsi dal gradino
più basso della scala verso quello più alto, dove splende la luce e il sole
della verità52. Se l’essere umano al pari di tutti gli elementi e corpi na-
turali non è che accidente, manifestazione finita, mutevole e temporale
dell’essere, egli può trasformare positivamente questa sua condizione.
Ma ciò può avvenire soltanto operando nella repubblica del mondo,
attraverso buone leggi e religioni, seguendo la philautia iscritta nella
natura, scoprendo la propria di libertà.
Nello Spaccio le leggi e le religioni costituiscono due strumenti
attraverso i quali indirizzare, favorire, promuovere e premiare la virtù
civile, le azioni compiute da un singolo per il bene pubblico. Ma a tal
fine è necessario che in tutti i membri di una comunità, nei governanti
e nei principi, vi sia una grande forza di volontà. Non è un caso se
nella seconda parte del dialogo III, Bruno ponga proprio la Fortezza
al fianco della Verità, della Legge e del Giudizio. Questa è necessaria
per governare con giudizio e prudenza secondo legge e verità53.
Alla distinzione della Cena tra l’ambito della verità e quello della
legge e della religione, fa da contraltare nello Spaccio la dipendenza
che le unisce. Questa relazione corrisponde a una diversa modalità di
rappresentazione del rapporto tra le facoltà umane: come l’intelletto e
la volontà non sono opposti e differenti ma coessenziali l’uno all’altra
nel raggiungimento di un unico scopo, così, Verità e Legge sono legate
in ragione di una stessa finalità. Se la Legge è figlia della Sofia, ciò non
significa soltanto che non è separata dalla madre, ma che, affinché sia
anche una buona legge, deve poggiare sulla conoscenza della Verità,
sull’uso dell’intelletto e di una volontà forte. Per questa ragione Giove

52
Ivi, p. 357-358: «come me tra gli altri Platone et Aristotele, con ponere la
necessità et immutabilità in Dio, non poneno meno la libertà morale e facultà della
nostra elezzione: perché sanno bene e possono capire come siano compossibili quella
necessità e questa libertà».
53
Cfr. Spaccio, p. 574.
lex e religio. dal vinculum amoris al vinculum civile 307

l’ha posta nel firmamento, in modo che «da basso contempleno gli
uomini come le cose denno essere ordinate appreso di loro»54. La com-
prensione e l’istituzione della legge costituisce un momento necessario
non solo sul piano della concordia, ma anche nel processo di conoscenza
della natura e della verità.
Se ontologicamente l’essere umano è identico a ogni altro essere
naturale, egli ha però avuto in dono dagli dèi le mani e l’intelletto, vale
a dire la capacità di conoscere e ripensare la natura per manipolarla
attraverso l’azione, sino a che questa non diventi il suo proprio mon-
do55. I saperi, le leggi e le religioni, gli istituti e gli ordinamenti, tutte
le produzioni umane devono essere indirizzate al progresso della specie.
Se l’essere umano non può porsi al di fuori della vicissitudine, egli può
intervenire su di essa attraverso l’uso dell’intelletto e della mano, della
contemplazione e dell’azione. Con il miglioramento della propria con-
dizione individuale e collettiva, esplicando sul piano civile il naturale
vincolo d’amore inscritto in ogni cosa, approssimandosi alla luce della
verità, l’essere umano rende omaggio a sé stesso, alla natura e a Dio.
La ragione della mutata relazione tra verità e legge dalla Cena allo
Spaccio è, dunque, rintracciabile nello slittamento della prospettiva con
cui Bruno passa dalla considerazione dell’unità e infinità della natura
a quella della molteplicità e contrarietà del mondo civile. Rispetto alla
Cena sono qui mutati non soltanto il punto di osservazione e il fine
della ricerca, ma anche l’oggetto: seppur nello Spaccio egli tratti sempre
della natura, questa è indagata non più nella sua unità, ma volgendosi
alla molteplicità delle sue produzioni, all’essere umano e allo spazio
etico-politico.

4. La religio come vinculum civile

Come la legge, così anche la religione è uno strumento con cui vin-
cire sul piano civile a supporto dell’esercizio di governo nella contrarie-

54
Ivi, p. 516.
55
Cfr. ivi, p. 601.
308 giulio gisondi

tade della polis. Nella prima parte del dialogo II, Saulino, interlocutore
della Sofia, discutendo delle buone e delle cattive leggi e riferendosi alla
dottrina riformata della gratia sola fidei, chiede in che modo vadano
considerate quelle religioni che stimano «per minimo e vile […] l’azzione
et atto di buone operazioni»56. Lo scopo della religione risiede nel suo
carattere e nella sua funzione pratica. Gli obblighi, i vincoli, i sacra-
menti e i divieti religiosi costituiscono strumenti normativi funzionali
all’ordine e alla vita di una comunità, di una repubblica, una monarchia
e uno Stato. Il complesso di credenze, sentimenti, cerimonie e riti che
legano uno e più individui a ciò che si ritiene sacro, può configurarsi
in un duplice senso: da un lato, come un efficacissimo strumento di
potere, di attrazione e manipolazione del soggetto sul piano politico;
dall’altro, come mezzo di salvaguardia della pace. La considerazione e
l’analisi della religione assumono un carattere politico, laddove, svuotata
del suo contenuto mistico, è giudicata sulla base dei frutti che apporta
sul piano della concordia e del progresso civile.
Se la legge possiede la potenza di legare fra loro gli esseri umani, la
religione è ugualmente necessaria a questo scopo. Come osserva Nuc-
cio Ordine, la sua funzione è già inscritta nella radice etimologica, la
quale non corrisponde al re-legare gli individui in comunità settarie,
nell’isolamento, nella chiusura e nella difesa dalla minaccia costituita
dal diverso e dall’infedele. Bruno pensa, invece, la religione come un
re-ligare che, attraverso i comandamenti, i vincoli di fede e dell’im-
maginazione, muove ogni individuo a compiere azioni virtuose per
l’intera comunità e ad abbandonare le cerimonie che non apportano
alcun frutto alle repubbliche57. Il vincolo che la religione istituisce non
è verticale, verso Dio, ma orizzontale tra gli esseri umani.
Egli recupera l’idea e l’esigenza umanistica di una religio civilis,
definizione che seppur assente dai testi bruniani, ben chiarisce il ruolo
che la religione riveste nello spazio politico. Essa incarna la necessità
di un sentimento di fede verso lo stato, di un amor di patria che pre-

Ivi, p. 540.
56

Cfr. N. Ordine, Contro il Vangelo Armato. Giordano Bruno, Ronsard e la reli-


57

gione, Milano 2007, p. 54.


lex e religio. dal vinculum amoris al vinculum civile 309

cede ogni separazione confessionale e che, al tempo stesso, diviene


strumento di legge e di governo, manifestazione dell’ethos pubblico,
delle immagini, dei costumi e dei riti che gli appartenenti a una stessa
comunità condividono. Come recita la prima parte del dialogo II dello
Spaccio, gli dèi hanno creato la legge e la religione non per accrescere
la loro gloria attraverso vane cerimonie, ma per comunicarla agli esseri
uomini, affinché essi migliorassero la loro condizione, gratificando sé
stessi, la natura e la divinità: perché gli dèi «non minacciano castigo e
promettono premio per male o bene che risulta in essi: ma per quello
che viene ad essere commesso nelli popoli e civile conversazioni, alle
quali hanno soccorso con le loro divine non bastandogli le umane
leggi e statuti»58.
Scopo della religione non è, dunque, quello di glorificare gli dèi
per mezzo di parole, pensieri, preghiere, sterili invocazioni o inutili
sacrifici, ma attraverso quelle azioni che apportano effetti benefici alla
collettività. L’ira e il piacere degli dèi non è suscitato da ciò che gli es-
seri umani fanno in favore o contro di loro, ma per le azioni che ogni
individuo compie nei confronti dei suoi simili. La religione è un istituto
umano, i cui benefici non sono rivolti verso l’alto ma agli individui che
la praticano, per nessun’«altro buon fine et utilitade che de gli uomini
medesimi»59. Il fine della religione, come anche della legge consiste
nella salvaguardia e nella conservazione dei popoli e degli stati. Agire
in modo da garantire e favorire la pace per mezzo della legge e della
religione, senza sopprimere le differenze dei singoli, ma operando per
il bene pubblico, mantenendo saldo l’equilibrio dei contrari: è questo
per Bruno il modo più autentico di onorare e rendere gloria a Dio e
alla natura, poiché è in ciò che si cela la possibilità per l’essere umano
di rendersi infinito.
In questa considerazione della religione civile, il peccato e la virtù, il
castigo e il premio, il merito e il demerito non corrispondono al negativo
o al positivo che il singolo compie verso sé stesso, quanto piuttosto al
danno o al bene apportato all’intera comunità:

58
Spaccio, p. 541.
59
Ivi, p. 542.
310 giulio gisondi

Li dèi massime vogliono essere amati e temuti, per fine di faurire il


consorzio umano et avertire massimamente que’ vizii che apporta-
no noia a quello: e però li peccati interiori solamente denno esser
giudicati peccati, per quel che metteno o metter possono in effetto
esteriore; e le giustizie interiori mai sono giustizie senza la prattica
esterna, come le piante in vano sono piante senza frutti o in presenza
o in aspettazione. E vuole che de gli errori in comparazione massimi
sieno quelli che sono in pregiudicio della republica; minori quelli
che sono in pregiudicio d’un altro particolare interessato; minimo sia
quello ch’accade tra doi d’accordo; nullo è quello che non procede a
mal essempio o male effetto, e che da gl’impeti accidentali accadeno
nella complessione dell’individuo. E questi son que’ medesimi errori
per gli quali gli eminenti Dei si sentono massime, minore, minima, e
nullamente offesi; e per di questi l’opre contrarie si stimano massime,
minore, minima, et alcunamente serviti60.

Il timore e l’amore che gli dèi attendono dagli esseri umani muove
questi ad agire al servizio della comunità. Le divinità s’interessano e
giudicano i peccati solo se producono effetti esteriori, misurabili sulla
base del danno arrecato all’intera comunità, così come le azioni giuste
e virtuose, se non rivolte al bene pubblico, sono piante prive di frutti
tenute nella minima considerazione. La prospettiva dalla quale valutare
le azioni umane è sempre quella dei frutti pubblici e collettivi. Ai fini
della concordia e della salvaguardia dei regni e delle repubbliche è ne-
cessario saper riconoscere le azioni, i costumi, le abitudini, i caratteri,
le leggi e le religioni che apportano un bene alla collettività e quanto,
invece, o non influisce o risulta nocivo. Bruno osserva come siano da
approvare la penitenza, il credere e lo stimare, ma che non possano
essere mai poste sullo stesso piano dell’innocenza, del fare e dell’operare,
così come il «confessare e dire al rispetto del correggere et astinere»61.
Ogni azione e attitudine umana, ogni istituto e ordinamento civile è
valutato dal punto di vista dell’interesse e del bene pubblico:

60
Ibidem.
61
Ivi, p. 543.
lex e religio. dal vinculum amoris al vinculum civile 311

Non distingua gli costumi e religioni tanto per la distinzione di


toghe e differenze di vesti, quanto per buoni e megliori abiti di vir-
tudi e discipline […]. Non dica maggior errore il superbo appetito
di gloria, onde resulta sovente bene alla republica, che la sordida
cupidiggia di danari. Non faccia tanto trionfo d’uno per che abbia
sanato un vile e disutil zoppo, che poco o nulla vale più sano che
infermo, quanto d’un altro ch’ha liberata la patria e riformato un
animo perturbato. Non stime tanto o più gesto eroico l’aver in
qualche modo e qualche maniera possuto estinguer il fuoco d’una
fornace ardente senz’acqua, che l’aver estinte le sedizioni d’un popolo
acceso senza sangue 62.

Bruno contrappone i soggetti che vivono attivamente all’interno del


corpo civile, apportando benefici collettivi con le loro azioni, a quanti,
invece, permangono in uno stato di passività, inattività o di sterile
astinenza. Allo stesso modo, gli ordinamenti, le leggi e le religioni sono
giudicati sulla base della tensione con cui spingono ogni essere umano
a farsi membro attivo della comunità, razionale ed eroico, anziché
promuovere una condizione bestiale. Sia le differenze tra le religioni e
le leggi, sia le distinzioni antropologiche dipendono dall’osservazione
di ciò che muove ogni soggetto a pensare e ad agire attivamente sulla
propria e altrui immaginazione, e su quanto, invece, lo rende schiavo
incapace di liberarsi da lacci che opprimono, aggiogano l’intelletto e
la volontà:

Non permette che si addrizzeno statue a poltroni nemici del stato


de le republiche e che in pregiudicio di costumi e vita umana ne
porgono paroli e sogni, ma a color che fanno tempii a Dei, aumen-
tano il culto et zelo di tale legge e religione per quale vegna accesa
la magnanimità et ardore di quella gloria che séguita dal servizio
della sua patria et utilità del geno umano: onde appaiono instituite
universitadi per le discipline di costumi, lettere et armi. E guarde di
promettere amore, onore e premio di vita eterna et immortalitade

62
Ibidem.
312 giulio gisondi

a quei che approvano gli pedanti e parabolani: ma a quelli che per


adoprarsi nella perfezzione del proprio et altrui intelletto, nel servi-
zio della communitade, nell’osservanza espressa circa gli atti della
magnanimità, giustizia e misericordia, piaceno a gli Dei63.

5. Religio civilis e machiavellismo

Nello Spaccio Bruno recupera il modello di religio civilis rappre-


sentato dalla religione dei Romani, a cui già Machiavelli dedicava il
libro II dei Discorsi. Il segretario fiorentino rilevava come la religione
costituisse per il popolo romano un elemento indispensabile al man-
tenimento della legge e dell’ordine politico, efficace strumento volto
alla salvaguardia della repubblica:

Pensando dunque donde possa nascere che in quegli tempi antichi


i popoli fossero più amatori della libertà che in questi, credo nasca
da quella medesima cagione che fa ora gli uomini manco forti: la
quale credo sia la diversità della educazione nostra dall’antica. Poiché
avendoci la nostra religione mostro la verità e la vera via, ci fa stimare
meno l’onore del mondo […]. La religione antica, oltre a di questo,
non beatificava se non uomini pieni di mondana gloria; come erano
capitani di eserciti e principi di repubbliche. La nostra religione ha
glorificato più gli uomini e contemplativi che gli attivi. Ha dipoi posto
il bene nella umiltà, abniegazione, e nel dispregio delle cose umane:
quell’altra lo poneva nella grandezza dello animo, nella fortezza del
corpo ed in tutte le altre cose atte a fare gli uomini fortissimi64

A questa religio, che beatificava e premiava quanti rendevano grande


la repubblica e la patria, fa da contraltare la predisposizione naturale della
religione cristiana e il tipo di educazione che da essa deriva, la quale non

Spaccio, p. 544.
63

N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, in Opere, C. Vivanti


64

(a cura di), Torino 1999, vol. II, lib. II, cap. 2, p. 282.
lex e religio. dal vinculum amoris al vinculum civile 313

è atta a formare cittadini e uomini di Stato che possano far grandi le re-
pubbliche, ma buoni servi e umili fedeli del Signore. La religione cristiana
appare dannosa al bene della repubblica, poiché spinge al disinteresse
per la vita politica e, allo stesso tempo, non premia le azioni eroiche volte
al bene comune e alla virtù, ma l’essere umili e il disprezzare le vicende
terrene. Da ciò deriva un indebolimento e un invilimento degli uomini,
i quali non sono più in grado di contrastare adeguatamente i tiranni che
infestano e sopprimono le repubbliche65. La causa della crisi civile che
Machiavelli denuncia non è da rintracciare nella religione cristiana in
quanto tale, ma in una sua errata interpretazione, poiché se volta all’azione
e non all’ozio, essa si rivelerebbe utilissima ed efficacissima nell’esaltare
la difesa della patria e nel promuovere la virtù pubblica66.
Bruno recupera la prospettiva in cui Machiavelli ripensa l’uso civile
della religione. Il rimarcare e l’elogiare l’azione e l’attività di ogni mem-
bro di una repubblica come virtù pubblica, di contro all’umiltà con
cui un’errata interpretazione del cristianesimo ha assopito gli individui,
inducendoli a subire le tirannie e il sovvertimento delle repubbliche,
sono questioni centrali anche dello Spaccio. È questa la ragione per
cui, nella prima parte del dialogo II, Giove elogia il popolo romano,
considerandolo un modello da seguire:

perché con gli suoi magnifici gesti più che l’altre nazioni si seppero
conformare et assomigliare ad essi, perdonando a’ summessi, debel-
lando gli superbi, rimettendo l’ingiurie, non obliando gli benefici,

65
Ibidem: «questo modo di vivere adunque pare che abbi renduto il mondo debole,
e datolo in preda agli uomini scelerati; i quali sicuramente lo possono maneggiare,
veggendo come l’università degli uomini per andare in Paradiso pensa più a sopportare
le sue battiture che a vendicarle».
66
Ibidem: «E benché paia che si sia effeminato il mondo e disarmato il Cielo,
nasce più sanza dubbio dalla viltà degli uomini, che hanno interpretato la nostra
religione secondo l’ozio e non secondo la virtù. Perché se considerassono come la
ci permette la esaltazione e la difesa della patria, vedrebbono come la vuole che noi
l’amiamo ed onoriamo, e prepariamoci a essere tali che noi la possiamo difendere.
Fanno adunque queste educazioni e sì false interpretazioni, che nel mondo non si
vede tante repubbliche quante si vedeva anticamente; né per consequente si vede ne’
popoli tanto amore alla libertà quanto allora».
314 giulio gisondi

soccorrendo a’ bisognosi, defendendo gli afflitti, revelando gli oppressi,


affrenando gli violenti; promovendo gli meritevoli, abbassando gli
delinquenti: mettendo questi in terrore et ultimo esterminio con gli
flagelli e secure, e quelli in onore e gloria con statue e colossi. Onde
consequentemente apparve quel popolo più affrenato e ritenuto da vizii
d’incivilitade e barbaria, e più esquisito e pronto a generose imprese.
Ch’altro che si sia veduto giamai. E mentre tale fu tale lor legge e
religione, tali furono gli lor costumi e gesti, tale è stato lor onore e
lor felicitade67.

L’elogio della religio dei Romani, pur configurandosi profonda-


mente autonomo, non può non rimandare al Principe e ai Discorsi
di Machiavelli68. Nella Londra elisabettiana le opere del segretario
fiorentino rappresentano un riferimento centrale, costante e indi-
spensabile alla teoria e alla pratica politica, specie per personaggi
frequentati da Bruno69. Non è un caso che lo Spaccio sia stampato
a Londra dal tipografo John Charlewood, nello stesso anno in cui
John Wolf pubblica nella capitale inglese i Discorsi e il Principe 70. La
diffusione delle opere del segretario fiorentino in Inghilterra non è
limitata a queste sole due opere: tra il 1587 e il 1588 Wolf diede alle
stampe le Istorie Fiorentine, l’Arte de la guerra e l’Asino d’oro. Seppur
non sia mai stata accertata l’identità del prefatore dell’edizione in-
glese dei Discorsi, tra i collaboratori del tipografo che parteciparono
attivamente alla pubblicazione compaiono non pochi esuli italiani, i

67
Spaccio, p. 544.
68
Cfr. N. Ordine, Contro il vangelo armato, cit., pp. 57-62; cfr. M. Viroli, Machia-
velli’s God, Princeton-Oxford 2010, pp. 241-244; cfr. M. Ciliberto, Nicolò Machiavelli.
Ragione e pazzia, Roma 2019, pp. 275-298.
69
Cfr. S. Ricci, Bruno e Machiavelli nelle crisi delle guerre di religione, in Machiavelli
e la cultura politica del Meridione d’Italia, Atti del Convegno (Napoli 27-28 novembre
1997), G. Borrelli (a cura di), Napoli 2001, p. 28.
70
Cfr. D. Pirillo, Magia e machiavellismo. Giordano Bruno tra ‘praxis’ magica e
vita civile, La magia nell’Europa moderna. Tra antica sapienza e filosofia naturale, F.
Meroi ed E. Scapparone (a cura di), Atti del Convegno (Firenze 2-4 ottobre 2003),
Firenze 2007, p. 518; cfr. S. Bassi, Editoria e filosofia. Giordano Bruno e i tipografi
londinesi, «Rinascimento» XXXVII (1997), pp. 437-458.
lex e religio. dal vinculum amoris al vinculum civile 315

quali furono il maggior canale di diffusione della cultura umanistica


italiana presso le corti europee: tra questi, Petruccio Ubaldini di Fi-
renze, storico e miniatore, Iacopo Castelvetro di Modena, umanista
e letterato, Alberico Gentili, giurista e professore di diritto civile a
Oxford. Quest’ultimo fu un importante punto di riferimento per
Bruno durante i suoi spostamenti prima in Inghilterra tra 1583 e il
1585, poi in Germania tra il 1586 e il 158871, favorendolo sia a Ox-
ford, nell’ottenimento di un insegnamento soppresso dopo tre lezioni
per un’accusa di plagio, sia a Wittenberg presso l’Ateneo di quella
città72. Entrambi, Gentili e Bruno, insieme a Castelvetro, trovaro-
no accoglienza nel circolo politico e intellettuale facente capo a Sir
Philip Sidney, poeta, personaggio di spicco della corte elisabettiana
e dedicatario proprio dello Spaccio.
Proprio a Gentili, Diego Pirillo ha attribuito un’ipotetica paternità
della prefazione ai Discorsi73 in cui, se da un lato emerge il tentativo
di spogliare la figura di Machiavelli dalla leggenda di ateo adulatore
dei tiranni, dall’altro si delinea una lettura della filosofia e della storia
come necessarie al diritto, sempre più libero dalla teologia nella deter-
minazione dei principi dell’ordine politico. Il passaggio è quello da un
sistema di diritto di tipo ecclesiastico-teologico a uno giuridico-statale,
in cui la religione diviene strumento della legge e non viceversa. Que-
ste posizioni sono molto vicine a quanto Gentili argomentava nel suo
De legationibus 74, pubblicato a Londra nel 1585, in cui indicava nei
Discorsi di Machiavelli un modello di perfetta compenetrazione tra
il sapere storico e quello filosofico, nonché nel Principe una denuncia

71
Cfr. D. Panizza, Alberico Gentili, giurista ideologo dell’Inghilterra elisabettiana,
Padova 1981; cfr. Id., Machiavelli e Gentili, in «Il pensiero politico», II (1969), pp.
476-483; cfr. F. Mignini, Temi teologico-politici nell’ incontra tra Alberico Gentili e
Giordano Bruno, La mente di Giordano Bruno, F. Meroi (a cura di), introduzione di
M. Ciliberto, Firenze 2004, pp. 103-123.
72
Cfr. Processo, pp. 162, 290.
73
Cfr. D. Pirillo, Magia e machiavellismo, cit., pp. 520-523.
74
Cfr. A. Gentili, De legationibus libri tres, ristampa anastatica dell’edizione del
1584, introduzione di E. Nys, Buffalo-New York 1995.
316 giulio gisondi

della tirannide contro i popoli. Anche il De iure belli75, pubblicato nel


1598, porta inscritto un principio machiavelliano: il diritto di condurre
guerra deve essere slegato dal ricorso a ragioni teologiche, ma posto
nell’alveo delle prerogative e dei poteri del sovrano e delle repubbliche.
Come il diritto diplomatico, così anche quello di guerra è una disciplina
autonoma, regolata da principi di ragione e non di fede. Attraverso la
mediazione di Gentili, di Sidney e del machiavellismo diffuso negli
ambienti politici e culturali della corte londinese, Bruno poté affacciarsi
al problema dell’uso politico e normativo della religione, mutando la
prospettiva inizialmente delineata nella Cena.
Ma non solo Londra fu decisiva per l’elaborazione della sua rifles-
sione politica e religiosa. Già durante il primo soggiorno parigino tra
il 1581 e il 1583, egli strinse amicizie con studiosi, uomini di lettere e
profondi conoscitori delle opere di Machiavelli, tra cui Iacopo Corbi-
nelli, esule fiorentino e importante figura della corte di Enrico III di
Valois. Membro dell’Académie du Palais, lecteur royal, studioso e po-
stillatore dei Discorsi del segretario fiorentino, questi ebbe un rapporto
privilegiato con il sovrano, suo lettore e precettore. Come testimonia
una pagina della Storia delle guerre civili in Francia di Enrico Caterino
Davila, relativa all’anno 1579, «il Re […] si riduceva ogni giorno dopo
pranzo con Braccio del Bene e con Giacomo Corbinelli, fiorentini,
uomini di molte lettere greche e latine, da’ quali si faceva leggere Po-
libio, Cornelio Tacito e molto più spesso i Discorsi e il Principe del
Machiavelli»76. Corbinelli fu uno dei maggiori canali di diffusione di
una lettura non ideologica di Machiavelli alla corte di Francia e all’in-
terno dell’Accadémie du Palais. Egli legge e commenta i Discorsi, testo
di cui si serviva quotidianamente nel riflettere sulle vicende politiche che
viveva in prima persona al fianco del sovrano. Ne è un esempio la copia
dell’edizione giuntina, oggi conservata presso la Biblioteca Nazionale

75
Id., De iure belli libri tres, riproduzione anastatica dell’edizione Oxford-Londra,
1933, traduzione dell’edizione del 1612 di J.C. Rolf, introduzione di C. Phillipson,
Buffalo-New York 1995.
76
E. C. Davila, Storia delle guerre civili di Francia, M. D’Addio e L. Gambino
(a cura di), Roma 1990, t. I, p. 149.
lex e religio. dal vinculum amoris al vinculum civile 317

di Parigi, che Corbinelli dovette portare con sé nell’esilio da Firenze


e che contiene le sue annotazioni77. L’opera del segretario fiorentino
assume la funzione di un breviario laico, un manuale di teoria e prassi
politica da consultare quotidianamente non come ricettacolo di precetti
pratici, quanto piuttosto, fonte di un modo di considerare le categorie
del politico radicato nella lezione dell’umanesimo civile e nella lettura
storico-filologica dei classici. Un tratto, questo, che affonda le proprie
radici nell’idea che il mantenimento e la salvaguardia della repubblica
vengano prima della difesa della religione.
Proprio grazie alla mediazione di Corbinelli, Bruno entrò in contatto
con Enrico III, ricevendo da questi la nomina a lettore straordinario
del Collège de Cambrai78, dopo avergli dedicato nel 1582 il De um-
bis. Egli trovò in Corbinelli non soltanto un sostegno in una Parigi
ancora sconosciuta, ma un amico sincero, fino a diventarne «piacevol
compagnetto ed epicuro per la vita»79. Ma le sue frequentazioni pari-
gine non si limitarono alla corte reale. In quegli stessi anni egli ebbe
rapporti con i membri del partito dei politiques, dei quali condivideva
la tesi che il bene dello Stato dovesse essere anteposto alle differenze
religiose. La necessità machiavelliana di anteporre la ragione di Stato al
problema confessionale, nonché l’idea che la religione dovesse essere un
instrumentum regni sottoposto al potere politico e legislativo, è presente
anche nei Mémoires di Michel de Castelnau, ambasciatore francese a
Londra che accolse Bruno durante la permanenza inglese e a cui sono
dedicati i primi tre dialoghi italiani.
Negli anni delle guerre di religione, politici, giuristi e filosofi vedono
nell’opera di Machiavelli un valido strumento teorico attraverso cui
ripensare il rapporto fra Stato e Chiesa, fra potere temporale e potere
religioso. Quella del segretario fiorentino incarna una filosofia politica
capace d’ispirare l’azione dei sovrani e delle repubbliche, mettendo fine

77
Cfr. Discorsi di Niccolò Machiavelli sopra la prima Deca di Tito Livio, per
Bernardo Giunta, nell’anno 1531 (Bibliothèque Nationale de France, RES-E*-247).
78
Cfr. Processo, pp. 161-162.
79
Da una lettera di Corbinelli a Giovan Vincenzo Pinelli del 6 giugno 1586, in
A.F Yates, Giordano Bruno e la cultura del Rinascimento, Roma-Bari 1988, p. 124.
318 giulio gisondi

alle guerre e fondando una nuova e moderna forma di Stato, in cui la


religione non sia più motivo di guerra, ma di legame civile. La fortuna
o la sfortuna delle opere del segretario fiorentino segue l’instabile e tra-
vagliato contesto politico delle guerre di religione: se Machiavelli fu la
fonte e l’ispirazione interna agli ambienti politici e culturali frequentati
da Bruno tra Parigi e Londra, questi rappresentò anche l’immagine di
un pensiero politico anticristiano.
L’inserimento di Machiavelli nell’indice universale del 1559 voluto
da Paolo IV e nell’Indice tridentino, pubblicato a conclusione del Con-
cilio nel 156480, in cui compariva tra gli autori di cui si condannavano
non solo gli scritti ma anche il nome, segnò l’inizio della clandestinità.
I libri di Machiavelli sopravvissuti ai roghi continuarono a circolare e
a essere venduti sottobanco, custoditi e letti di nascosto, citati sempre
più raramente e in forma indiretta. Dalla penna di quanti lo avevano
citato senza timori prima della messa all’indice il suo nome scomparve.
La censura delle autorità ecclesiastiche non si limitò all’esclusivo eserci-
zio dell’oblio del nome e delle opere, ma ancor più verso la diffusione
del pensiero. Una violenta offensiva condotta sia da parte cattolica, sia
riformata colpì il machiavellismo inteso come un generale indirizzo di
pensiero sempre più ramificato.
Al propagarsi nell’Europa cristiana di questo germe, strumento
di analisi e azione politica nella definizione della sovranità e dell’in-
dipendenza degli stati dalla religione, fa da contraltare la polemica
antimachiavellica, elemento di propaganda utilizzato a conservazione
del potere d’influenza esercitato dalle chiese sugli Stati. In Italia, Sviz-
zera, Francia e Inghilterra, Machiavelli assume sia da parte cattolica,
sia riformata, il volto di un autore da condannare come eretico, un
empio e un ateo, portavoce di una politica spregiudicata e tirannica.
In Francia egli incarnava, come ha osservato Giuliano Procacci, «una
sorta di segnacolo in vessillo, una personificazione dei vizi più diversi,
un simbolo, un nome. Gli ugonotti accusavano di ‘machiavellismo’ i

Cfr. Index des livres interdits, VIII: Index de Rome 1557, 1559, 1564. Les premiers
80

index romans et l’ index du Concile de Trente, J.M. de Bujanda, R. d’Avignon, E. Stanek


(a cura di), Genève 1990, pp. 717-801, 54-56.
lex e religio. dal vinculum amoris al vinculum civile 319

gesuiti, i ligeurs e i ‘papisti’, questi a loro volta ritorcevano l’accusa sui


calvinisti, salvo ad associarsi entrambi nel denunciare il ‘machiavelli-
smo’ e l’‘ateismo’ del politiques»81.
Allo stesso modo nella Ginevra attraversata da Bruno nel 1579, l’anti
machiavellismo è un sentimento forte e condiviso nella maggior parte
degli ambienti politici e religiosi della città, specie dopo la pubblica-
zione nel 1576 del Discour contre Machiavel 82 dell’ugonotto Innocent
Gentillet, manifesto dell’anti machiavellismo e fortunata operazione
editoriale, più volte ristampato in francese, in latino, in inglese, in
olandese, in tedesco, e di cui si contano circa ventiquattro edizioni tra
il 1576 e il 165583. Ginevra rappresentò in quegli anni la «cittadella
della resistenza e della controffensiva»84 ai tentativi di diffusione in
Svizzera delle opere di Machiavelli da parte dagli esuli italiani. L’op-
posizione delle autorità ginevrine e la propaganda del Gentillet furono
particolarmente dure, ma non a tal punto da impedire a un esule e
teologo italiano, Niccolò Balbani, ministro della Chiesa Italiana tra il
1561 e il 1587, di rifiutare il binomio machiavellismo ateismo in cui
Gentillet includeva l’intera nazione italiana. Proprio di Balbani, nella
sua breve e travagliata permanenza nella città di Calvino, Bruno ebbe
modo di ascoltare e apprezzare in più occasioni le prediche e le lezioni
sulle Epistolae di San Paolo e sui Vangeli85.
Come ha sottolineato Saverio Ricci, le strade percorse dal Nolano
in Europa tra il 1579 e il 1586 e quelle della diffusione di Machiavelli
s’incrociano continuamente e sempre in merito al problema dell’uso
politico della religione e del rapporto fra Stato e Chiesa86. Il contesto

81
G. Procacci, Machiavelli nella cultura europea dell’età moderna, Roma-Bari
1995, p. 138.
82
Cfr. I. Gentillet, Discours contre Machiavel. A new edition of the original text
with selected variant readings, A. D’Andrea e P.D. Stewart (a cura di), Firenze 1974.
83
Cfr. P.D. Stewart, Innocent Gentillet e la sua polemica antimachiavellica, Firenze
1969, pp. 37-38.
84
G. Procacci, Machiavelli e la cultura europea dell’età moderna, cit., p. 132.
85
Cfr. Documenti, pp. 213, 283, 289, 631, 700.
86
S. Ricci, Bruno e Machiavelli nelle crisi delle guerre di religione, cit., p. 24; cfr.
Id., Giordano Bruno nell'Europa del Cinquecento, Roma 2000, 271-364.
320 giulio gisondi

politico e culturale, gli ambienti e i personaggi frequentati da Bruno


nella sua peregrinatio, sono fondamentali per comprendere da dove si
origini la ripresa e la riformulazione nello Spaccio del tema tipicamente
machiavelliano della religione quale necessario vincolo civile. Il recupe-
ro della religio dei Romani, ai quali è riconosciuto il merito di aver legato
e sottoposto la fede, i culti e le cerimonie, all’amor di patria, alla vita
politica e giuridica della repubblica, s’inserisce in questa prospettiva.

6. Re-ligare e re-legare: la falsa religio dei riformati

La distinzione che Bruno pone tra una buona e una cattiva religio
non è lontana dalla critica machiavelliana alle errate interpretazioni del
cristianesimo. Come il segretario fiorentino, così anch’egli distingue
una religione che favorisce l’impegno civile e intellettuale, e una secon-
da che vincola l’essere umano in uno stato di passività e umiliazione
delle proprie capacità. Se il modello di buona religio è rappresentato da
quella dei Romani, la cattiva e oziosa religione è identificata nel ciclo
della rivelazione giudaico-cristiana e, in particolare, nell’interpreta-
zione del messaggio biblico che da Paolo giunge sino alla predicazione
di Lutero e Calvino, seguaci di una forma di credulitas che sovverte
l’ordine naturale.
Nella Cabala, il messaggio dell’apostolo di Tarso costituisce la ma-
trice nefasta da cui ha avuto origine la perniciosa dottrina riformata
che spinge ad abbondonare le buone opere e, dunque, il piano civile.
Come ha osservato Meroi87, Bruno prende a prestito la struttura e il
modello delle prediche di Seripando, riproponendo in forma ironica,
l’invito che nel cardinale agostiniano era tutt’altro che ironico a farsi
umili. Questo è, ai suoi occhi, l’invito a farsi asini, stolti, ignoranti,
a rinunciare alla curiositas che anima l’essere umano e che lo spinge
alla ricerca, al desiderio di conoscenza, un invito alla rinuncia di ogni

Cfr. F. Meroi, Cabala parva. La filosofia di Giordano Bruno fra tradizione


87

cristiana e pensiero moderno, Roma 2006, pp. 75-119.


lex e religio. dal vinculum amoris al vinculum civile 321

aspirazione intellettuale e pratica. È questo, in altre parole, un invito


a farsi bestie da soma.
Nel commento all’Epistola ai Romani di Paolo, Calvino intrepreta
il religare in un senso intimo e individuale, come una relazione sogget-
tiva tra l’essere umano e Dio che si realizza per mezzo del messaggio
di Cristo88. Le opere e i frutti apportati dal singolo alla comunità
non garantiscono la salvezza. L’autentica vita cristiana si realizza nella
fedele accettazione dell’inconoscibile giustizia divina, nella giustifica-
zione e nella predestinazione: questi principi sottopongono il credente
a un destino a lui ignoto, incapace d’agire sul piano civile per liberarsi
dalle catene della propria condizione. Anche nell’Institutio Calvino
osserva che se la conoscenza di Dio è naturalmente radicata nell’essere
umano sin dal grembo materno, tuttavia, il male fa sì che questa si
affievolisca progressivamente89. L’unica possibilità per ricongiungersi a
Dio è contenuta nelle Scritture, nel riconoscimento della miseria della
condizione umana e in una fede totale90. Se ogni essere umano può
ritrovare Dio solo riconoscendo la propria natura corrotta, rendendosi
umile e disprezzando le glorie terrene, la conquista della fede non trae
mai origine da uno sforzo umano ma dall’elezione divina. Non vi è
libertà umana se non in Dio e per sua grazia, allo stesso modo in cui
le azioni compiute da quanti non sono nella grazia divina sono con-
dannate91. Ogni individuo può essere libero, avere fede e avvicinarsi a
Dio «ex sola Dei voluntate […], non ullo suo merito»92.
Queste considerazioni non divergono da quanto osservava già Lu-
tero nel De libertate christiana, affermando l’esclusività della grazia e
della fede per la conquista della salvezza e l’inutilità delle opere e del

Cfr. Iohannis Calvini Commentarium in Pauli Epistolam ad Romanos, in Opera


88

quae supersunt omnia, ediderunt G. Baum, E. Cunitz, E. Reuss, Berlin 1892, vol.
XLIX, cap. 10, p. 195.
89
Cfr. Id., Institutio christiane religionis, in Opera, cit., lib. I, cap. 4, p. 38.
90
Cfr. ivi, lib. II, cap. 2, pp. 193-194.
91
Ivi, lib. II, cap. 3, pp. 209-210.
92
Ivi, lib. II, cap. 3, pp. 223-224.
322 giulio gisondi

merito93. Le opere non apportano un beneficio nell’accesso alla grazia


di Dio: se questa non può essere meritata, poiché solo l’imperscrutabile
volontà divina determina quanti si salveranno e quanti saranno dan-
nati, ciò vuol dire che le azioni umane non possiedono valore ai fini
della salvezza. Soltanto la fede può giustificare l’essere umano: «Atque
haec est Christiana illa libertas, fides nostra, quae fecit, non ut ociosi
simus aut male vivamus, sed ne cuiquam opus sit lege aut operibus ad
iustitiam et salutem»94. La fede è, dunque, l’unico strumento su cui
fondare la religione, non le opere: non vi è azione o virtù che apporti
merito e premio al cospetto di Dio, ma solo una vita vissuta nella
fede della volontà e della giustizia divina. All’esteriorità cattolica delle
opere, Lutero contrappone l’interiorità della fede nella relazione tra il
singolo e Dio. L’essere pii e fedeli si traduce così nell’accettazione e nella
giustificazione degli eventi come manifestazione della volontà divina.
Come Lutero osserva nel De servo arbitrio, la volontà umana non può
che essere sottoposta a una potenza superiore e va nella direzione im-
postale da Dio o da Satana: «si insederit Deus, vult et vadit, quo Deus
si insederit Satan, vult et vadit, quo vult Satan, nec est in eius arbitrio,
ad utrum sessorem currere aut eum quaerere, sed ipsi sessores certant
ob ipsum obtinendum et possidendum»95.
Su questa stessa traccia interpretativa Lutero rifiuta anche la re-
lazione tra legge e giustizia. Le opere compiute in nome della legge
umana non possiedono valore ai fini della salvezza, poiché la giustizia
di Dio è antecedente e la trascende. Se la volontà umana non è libera
né capace di uscire autonomamente dal peccato e volgersi al bene, allo
stesso modo, anche la ragione non è in grado di comprendere l’opera
di Dio senza un suo intervento.

M. Lutero, Tractatus de libertate christiana, in Werke, cit., p. 61: «Ita Chri-


93

stianus, non per fidem suam consecratus bona facit opera, sed non per haec magis
sacer aut Christianus efficitur, hoc enim solius fidei est, immo nisi ante crederet
et Christianus esset, nihil prorsus valerent omnia sua opera, essentque vene impia
damnabilia peccata».
94
Ivi, p. 53.
95
Id., De servo arbitrio, in Werke, cit., 1908, vol. XVIII, p. 635.
lex e religio. dal vinculum amoris al vinculum civile 323

Nel De libero arbitrio Erasmo aveva affermato la necessità civile del


riconoscimento della libera volontà umana, delle opere, del merito e del
peccato. In quest’opera, rivolta a Lutero, l’umanista olandese osserva
come la religione debba essere uno strumento teso a correggere il male
e a migliorare le condizioni di vita individuali e collettive96. Questa
stessa considerazione costituisce il fondamento teorico sul quale poggia
la riflessione politica e religiosa dello Spaccio di Bruno. Seguendo la
traccia erasmiana e machiavelliana, egli mette in luce i pericoli e gli
effetti della dottrina luterana e calvinista del servo arbitrio, della gratia
e iustitia sola fide. Queste dottrine comportano una svalutazione delle
leggi e degli ordinamenti civili, uno svuotamento della ragione uma-
na che limita l’uscita da una condizione bestiale, secondo una critica
presente anche nelle testimonianze dirette come i diari di Cotin e i
costituti del processo veneto97.
Nella terza parte del dialogo I, Giove decreta che la sedia della
corona Boreale rimanga vuota in cielo, in attesa di un qualche «eroico
precipe» che «con la mazza et il fuoco riporterà la tanto bramata quiete
alla misera et infelice Europa: fiaccando gli tanti capi di questo peggio
che Lerneo mostro, che con moltiforme eresia sparge il fatal veleno»98.
Il Lerneo mostro che sparge veleno in un’Europa insanguinata dalle
guerre di religione è proprio la Riforma nelle sue molteplici forme,
la quale promulgando la dottrina della gratia sola fide umilia l’essere
umano e la possibilità di ridestarsi. Così Momo, consigliere di Giove,
propone al padre degli dèi la strada da seguire per porre fine alla crisi
politica, religiosa e culturale:

Basterà che done fine a quella poltronesca setta di pedanti, che senza
ben fare secondo la legge divina e naturale, si stimano e vogliono essere
stimati religiosi e grati a’ Dei, e dicono che il far bene è bene, il far

96
Erasmo da Rotterdam, Contributo alla discussione sul libero arbitrio, in Scritti
religiosi e morali, C. Asso e A. Prosperi (a cura di), Milano 2010, p. 374.
97
L. Auvray, Giordano Bruno d’après le témoignage d’un contemporaine (Guillaume
Cotin) 1585-1586, «Mémoires de la Société de l‘Histoire de Paris et de l‘Isle-de-
France», XXVII (1900), p. 11; cfr. Processo, pp. 177-179.
98
Spaccio, pp. 516-517.
324 giulio gisondi

male è male: ma non per ben che si faccia, o mal che non si faccia, si
viene ad essere degno e grato a’ dèi; ma per sperare e credere secondo
il catechismo loro99.

I riformati non sono soltanto espressione di una «poltronesca setta


di pedanti», ma sovvertitori di un ordine naturale che si rispecchia
nelle leggi umane, «ladroni et occupatori di beni ereditarii»100 che
hanno usurpato quanto era stato costruito da altri, «tempii, capelle,
xeni, ospitali, collegi et universitadi»101, ergendosi a censori proprio
dei saperi e delle scienze necessarie al progresso degli esseri umani e
delle repubbliche. Alle affermazioni di Momo si aggiungono quelle
di Mercurio, secondo il quale anche lo stesso cielo abitato dagli dèi e
dalle virtù rischia di essere infettato dalle perniciose dottrine diffuse
sulla terra. Per il messaggero degli dèi la negazione delle opere quale
riconoscimento pubblico della virtù e castigo del male arrecato alla
comunità costituisce la madre di tutte le forfanterie: se le divinità pro-
ponessero un patto simile agli umani, arrecherebbero alla convivenza
civile un danno peggiore della stessa morte.
Bruno pone qui un principio di tolleranza, di libertà e pluralità di
fede: ogni individuo è libero di credere nella propria religione, nei co-
stumi e nelle leggi della comunità a cui appartiene, ma ciò non cambia
il ritmo naturale e il destino a cui ogni cosa è sottoposta. I riformati
sono liberi di ritenere che le opere non siano necessarie, «perché tanto
il destino di quelli, quanto il destino loro che credono il contrario è
prefisso, e non si cangia perché il lor credere o non credere si cangie, e
sia d’una et un’altra maniera»102. In virtù di questa universale indiffe-
renza naturale e della tolleranza, del rispetto delle religioni, delle leggi
e dei costumi altrui, i riformati non possono «essere molesti a color che
non gli credono»103. Anzi, proprio in quanto essi cercano di estirpare

99
Ivi, p. 517.
100
Ibidem.
101
Ibidem.
102
Ivi, p. 518.
103
Ibidem.
lex e religio. dal vinculum amoris al vinculum civile 325

la differenza e la contrarietade, devono essere perseguitati, «perché


son peggiori che li bruchi e le locuste sterili, e quelle arpie le quali non
opravano nulla di buono»104. La negazione delle opere rappresenta la
dissoluzione dei vincoli civili necessari al convitto umano, alla concordia
e al progresso. La promessa di un castigo o di un premio eterno dopo
la morte possiede una funzione regolatrice e stimolatrice delle capacità
umane sul piano etico e politico105.
Nella prima parte del dialogo II dello Spaccio, Bruno riprende pro-
prio l’elogio della religione dei Romani contrapponendolo alla dottrina
della gratia sola fide, comune tanto al luteranesimo quanto al calvini-
smo. A differenza del primo dialogo dell’opera, dove egli poneva il
problema in un senso teorico e teologico, nel secondo egli muove la
sua analisi a partire dagli effetti nefasti che la Riforma ha prodotto sul
piano civile. Alla richiesta di Saulino su come vadano giudicati «questi
gramatici che in tempi nostri grassano per l’Europa»106, riferendosi
all’interpretazione letterale della Bibbia sostenuta da Lutero, la Sofia
risponde:

Giove ha comandato, imposto et ordinato al giudizio: che veda se


gli è vero che costoro iudicano gli popoli al dispreggio et al meno a
poca cura di legislatori e leggi, con donargli ad intendere che quelli
proponeno cose impossibili e che comandano come per burla, cioè
per far conoscere a gli uomini che gli dèi sanno comandare quello che
loro non possono mettere in esecuzione. Veda se mentre dicono che
vogliono riformare le difformate leggi e religioni, vegnono per certo

104
Ibidem.
105
Ibidem: «Tutti quei ch’hanno giudicio naturale» disse Apolline, «giudicano
le leggi buone perché hanno per scopo la prattica; e quelle in comparazione son me-
gliori, che donano meglior occasione a meglior prattica: perché de tutte leggi altre
son state donate da noi, altre finte da gli uomini massime per il comodo de l’umana
vita; e per ciò che alcuni non veggono il frutto de lor meriti in quella vita, però gli
vien promesso e posto avanti gli occhi de l’altra vita il bene e male, premio e castigo,
secondo le lor opre».
106
Ivi, p. 544.
326 giulio gisondi

a guastar tutto quel tanto che ci è di buono, e confirmar et inalzar a


gli astri tutto quello che vi può essere o fingere di perverso e vano107.

Il criterio di giudizio di una religione, come di una legge, è sempre


legato ai frutti che apporta sul piano civile. I riformati non hanno fatto
che «togliere le conversazioni, dissipar le concordie, dissolver l’unioni,
far ribellar gli figli da padri, gli servi da padroni, gli sudditi da supe-
riori, mettere in scisma tra popoli e popoli, gente e gente, compagni e
compagni, fratelli e fratelli; e ponere in disquarto le famiglie, cittadi,
republiche»108. Essi hanno interrotto il principio su cui si fondava l’ef-
ficacia della legge, quello della possibilità di una sua esecuzione e, allo
stesso tempo, del riconoscimento della virtù pubblica, del merito e del
premio, allontanando l’essere umano dal rapporto e dalla comunica-
zione con un Dio imperscrutabile o addirittura assente.
Volendo riformare leggi e religioni, i riformati hanno introdotto il
germe della violenza e della discordia in nome della pace. La religione
riformata è nociva poiché apporta pessimi frutti sul piano civile, anzi,
non ne produce affatto, in quanto predica la dottrina della grazia e della
salvezza per via di fede, disprezzando l’utilità delle opere e inducendo
a una vita oziosa, bestiale e asinina. I riformati hanno sovvertito i
necessari vincoli civili con cui legare le comunità, venendo meno al
compito della religione, quello di re-ligare gli esseri umani tra loro,
spargendo il seme della discordia, della separazione e della guerra tra
i popoli, all’interno delle repubbliche, dei regni e delle famiglie. Essi
hanno utilizzato la fede come strumento attraverso cui re-legare le
proprie comunità, chiudendole alla diversità e alla contrarietà, impo-
nendo un’assoluta omogeneità sul piano civile: come osserva Dagron,
«le mépris des valeurs mondaines de la théologie réformée de la grâce
conduit à la dissolution de toutes formes sociales, c’est-à-dire à celle,
en général de la loi à laquelle “Jupiter a donné la puissance de lier”»109.
Apparentemente mossi dallo scopo di riformare la legge e la religione,

107
Spaccio, pp. 544-545.
108
Ivi, p. 545.
109
T. Dagron, Giordano Bruno et la théorie des liens, cit., p. 468.
lex e religio. dal vinculum amoris al vinculum civile 327

essi ne hanno dissolto la funzione e, agendo «peggio di tutti altri che


pasce la terra»110, «stroppiano gli sani et uccideno gli vivi, non tanto con
il fuoco e con il ferro, quanto con la perniciosa lingua»111, proponendo
una forma di pace a cui «vogliono et ambiscono che tutto il mondo
concorde e consenta alla lor maligna e presuntuosissima ignoranza, et
approve la lor malvaggia coscienza; mentre essi non vogliono concordare
né consentire a legge, giustizia e dottrina alcuna»112. In altre parole, i
riformati agiscono come il veleno della discordia in un’Europa che ha
perso la propria forma, per ritrovarsi in una fase d’instabilità in cui
dominano non più gli ordinamenti civili, ma i rapporti di forza e la
guerra civile.
Bruno valuta la Riforma senza porre alcuna distinzione tra le sue
molteplici forme, ma le condanna tutte come espressione di una stessa
dottrina. L’unica distinzione è relativa alla «discordia e dissonanza»113
interne alle molteplici anime della Riforma, «perciò che tra diece mila
di simil pedanti non si trova uno che non abbia un suo catechismo
formato, se non publicato: al meno per publicare quello che non approva
nessuna altra instituzione che la propria, trovando in tutte l’altre che
dannare, riprovare e dubitare»114. Nonostante le apparenti differenze,
queste confessioni non divergono nei loro dogmi, la dottrina della
iustitia e della gratia sola fide, la predestinazione, la concezione di Dio,
della natura umana e del peccato e, infine, come per i cattolici, della
Trinità e dell’Incarnazione.
Se nelle opere bruniane traspare, sul piano della filosofia naturale,
una decostruzione dei dogmi tanto del cattolicesimo quanto, in senso
più generale, del cristianesimo, ciò rappresenta soltanto una parte della
sua riflessione filosofica e teologica. Al di là della discussione di carattere
dogmatico, vi è un secondo livello di analisi che mira a considerare
gli effetti e i frutti che una determinata forma di religione apporta sul

110
Spaccio, p. 545.
111
Ibidem.
112
Ibidem.
113
Ibidem.
114
Ibidem.
328 giulio gisondi

piano civile. Come ha osservato Sara Miglietti, l’obbiettivo dello Spaccio


è molto chiaro: «rinnovare la società contemporanea attraverso una
rieducazione a quegli ideali civili che il ciclo cristiano ha fortemente
contribuito ad offuscare. […]. Si tratta […] di porre un’alternativa radi-
cale a ciò che la religione, e soprattutto quella riformata offre all’umanità
cinquecentesca»115. A differenza del cattolicesimo, la critica di Bruno
alla Riforma è di carattere teologico-politico: seppur questa critica sia,
infatti, rivolta ai fondamenti dogmatici del cristianesimo, tuttavia il
cattolicesimo rappresenta un efficace strumento di coesione civile, di
solidarietà e carità sul piano sociale. Se gli esseri umani eroici e razionali
sono in grado di autodeterminarsi e riconoscere una legge morale che
non sia in conflitto né con la natura né con l’ethos pubblico, ciò non può
dirsi della moltitudine. La religione cattolica è un’arma potentissima a
cui gli esseri umani sono sottoposti e per la quale, attraverso il vincolo
dell’immaginazione esercitato dalla paura del castigo eterno o della
speranza del premio, essi vivono rispettando anche gli ordinamenti e
le leggi civili. Lo Spaccio mira all’aspetto esteriore e normativo di una
religione, alla sua forza di porsi come vinculum civile. La forma cattolica
del cristianesimo è l’unica, secondo Bruno, che nel contesto politico e
religioso dell’Europa del secondo Cinquecento possa apportare frutti
sul piano della vita civile, ma solo se sottratta all’autorità del Papa di
Roma e sottoposta al potere sovrano, politico e giuridico, se utilizzata
come legame orizzontale e comunitario posto al servizio degli Stati.

7. Dalla critica dei riformati a quella dei conquistadores. Sintomi


della crisi europea dalla Cena allo Spaccio

Nello Spaccio Bruno definisce i riformati colpevoli di aver diffu-


so avarizia, insolenza, ipocrisia e ignoranza, di essere «rubbator[i] et
usurpator[i] de l’altrui»116, peggio di quelle arpie «le quali non opravano

S. Miglietti, Bruno e la riforma protestante. Un confronto tra lo Spaccio e testi di


115

Calvino, Lutero e Melantone, in Favole, metafore e storie, cit., pp. 172-173.


116
Spaccio, p. 548.
lex e religio. dal vinculum amoris al vinculum civile 329

nulla di buono: ma solamente que’ beni che non posseano vorare,


strapazzare et insporcavano con gli piedi, e faceano impedimento a
quei che s’esercitavano»117. Questo linguaggio si sovrappone a quello
con cui, nella prima parte del dialogo III, egli descrive i conquistadores
del Nuovo Mondo come coloro che hanno «varcati gli mari, per violar
quelle leggi della natura, confondendo que’ popoli che la benigna madre
distinse, e per propagare i vizii d’una generazione in un’altra»118. La
conquista delle Americhe da parte degli europei costituisce il sovver-
timento delle leggi della natura, la quale aveva separato ciò che l’uo-
mo ha unito pervertendo i popoli invasi e usurpando la loro libertà,
esportando e propagando non la virtù ma i vizi. Egli recupera questo
tema dalle pagine della Cena. Il linguaggio utilizzato nello Spaccio per
descrivere i riformati richiama quello con cui nel primo dei dialoghi
italiani rappresenta i conquistadores:

Gli Tifi han ritrovato il modo di perturbar la pace altrui, violar i patrii
geni de le reggioni, di confondere quel che la provida natura distinse,
per il commerzio radoppiar i difetti e gionger vizii a vizii de l’una
e de l’altra generazione, con violenza propagar nove follie e piantar
l’inaudite pazzie ovo sono, conchiudendosi al fin più saggio quel che
è più forte; mostrar novi studi, instrumenti, et arte de tirannizar e
sassinar l’un l’altro: per mercé de quai gesti, tempo verrà ch’avendono
quelli a sue male spese imparato, per forza de la vicissitudine de le cose,
sapranno e potranno renderci simili e peggior frutti de sì perniciose
invenzioni119.

Il lessico impiegato nella critica ai riformati ricalca e si sovrappone


a quello adoperato nella condanna della violenza dei conquistadores:
sia la Riforma sia la conquista delle Americhe sono due sintomi della
stessa crisi, non soltanto religiosa, ma morale, etica politica, giuridica,
culturale e scientifica, che ha spezzato i legami costitutivi della civiltà e

117
Ivi, p. 518.
118
Ivi, pp. 597-598.
119
Cena, pp. 26-27.
330 giulio gisondi

dei popoli. La scoperta del Nuovo Mondo e l’impresa con cui Colombo
ha abbattuto frontiere naturali e intellettuali, mettendo in discussione
il cosmo aristotelico-tolemaico e l’antropocentrismo, rappresentano
paradossalmente una conquista barbara e sacrilega. Come i riformati,
così anche i conquistadores hanno agito perturbando la pace dei popoli,
usurpando ricchezze altrui, introducendo armi e strumenti di tirannia,
violentando la natura, l’ordine e la legge d’amore che essa incarna, pre-
sentandosi nelle vesti di salvatori, convertitori e civilizzatori. Se questi
sono descritti alla pari dei riformati è perché non rappresentano feno-
meni differenti, ma parte della stessa crisi che ha interrotto la relazione
tra l’essere umano, la natura e Dio. Riformati e conquistadores sono
falsi profeti intenti a distruggere forme di legami sociali e di civiltà, a
esportare violenza celata dietro un’apparente e falsa idea di modernità e
progresso. Essi hanno spezzato il vincolo originario che legava i popoli
indigeni alla natura, per introdurre «le lien colonial»120, la legge del più
forte: non un vincolo su cui fondare e costruire pacifiche repubbliche,
ma una scia di assassinii, mali, vizi e strumenti di morte che un giorno
ricadranno sugli stessi colonizzatori europei.
All’affermazione della discordia, della violenza e dell’ipocrisia, della
schiavitù arrecata da questi Tifi che hanno invaso popoli pacifici per-
vertendo la natura, Bruno contrappone nella Cena la sua filosofia121.
Come l’uscita dal buio della caverna platonica o le guarigioni del Cristo,
l’apertura della nolana filosofia verso l’infinito conduce alla liberazione
dall’ignoranza, dalle chimere e dal carcere con cui la rappresentazione
cosmologica, teologica e antropologica, cristiana e aristotelica, incatena-
va l’essere umano in un mondo chiuso, immutabile, geometricamente
perfetto di cui egli era l’unico e il solo centro. La liberazione dell’essere
umano dal carcere in cui egli stesso si è ridotto consiste nel riscoprire
un’immagine nuova e antichissima della natura, la quale è stata chiusa,
limitata e degradata alla finitezza e a un’eterna mancanza.
L’infinito non trascende la natura, ma è immanente a ogni singolo
elemento e corpo, come a ogni esistenza umana, agendo sotto forma

120
T. Dagron, Giordano Bruno et la théorie des liens, cit., p. 469.
121
Cena, p. 28.
lex e religio. dal vinculum amoris al vinculum civile 331

di tensione continua verso la conquista della divinità presente in ogni


cosa. La natura divina non è mancanza o miseria: il riconoscimento
dell’infinità della natura e dell’universo comporta una riforma morale,
religiosa, etica e politica, del vincolo più autentico tra l’essere umano e
la natura, nonché all’interno della stessa comunità umana. I dialoghi
italiani di Bruno, dalla Cena ai Furori, costituiscono un progetto di
ripensamento della natura e dell’umano, una riflessione sulla crisi e
sulle possibili vie d’uscita.
A differenza dei conquistadores che hanno violato i confini che la
natura aveva posto, la scoperta dell’infinito rappresenta la rottura di
frontiere e confini artificiali: se scopo di Bruno è quello di liberare
l’umanità dalle sue barriere, attraverso un percorso filosofico, ciò non
vuol dire proiettarla in un’infinità in cui non sussiste alcun riferimento,
alcun appiglio o legame per l’esistenza umana. Al contrario, ciò significa
ritessere e riannodare i vincoli che sono stati spezzati tra l’umanità e la
natura. Alla pluralità dei mondi nell’universo corrisponde una molte-
plicità di forme sociali e civili differenti che occorre saper ripensare e
fondare per ricostituire la repubblica degli uomini oramai disgregata.
Il riconoscimento della divinità presente in ogni cosa e l’azione tesa a
costruire nuove forme di legami tra gli esseri umani è profondamente
distante dalla diffusione dei vizi, dei veleni tirannici e mortali che la
conquista e delle Americhe ha portato. La scoperta dell’infinito e la
prassi civile che da questa scaturisce spingono a pensare e a operare per
ritrovare un senso comunitario, che non sia fondato sulla legge del più
forte, su di un puro meccanicismo o sull’assoluta trascendenza di Dio
e della grazia, bensì sulla conoscenza della natura, sul modello d’unità
del molteplice e contrario che questa incarna ed esprime.
L’alterità non rappresenta una trascendenza, qualcosa di radicalmen-
te diverso rispetto a ciò che appartiene al proprio mondo, ma è, invece,
immanente all’universale comunità umana, a una molteplicità nell’uni-
tà. Come non vi è eterogeneità nell’universo, allo stesso modo, non ve
n’è tra le molteplici e differenti forme sociali e civili: la presenza della
divinità in ogni individuo, come in ogni composto naturale, nonché
l’unicità della materia e dell’anima mundi che compongono e formano
tutta la natura, permettono di pensare l’unità di tutto il genere umano
332 giulio gisondi

oltre le differenze e le contrarietà che sussistono tra i diversi popoli.


Proprio l’anima del mondo se, da un lato, rappresenta la causa per cui
il singolo individuo aspira e tende alla pienezza e alla realizzazione di
sé, dall’altro, funge da elemento di coesione universale per cui ognuno
è posto in relazione alla totalità della natura e del vivente.
La scoperta dell’infinito, in cui ciascun punto e nessuno è centro,
equivale al rifiuto della prospettiva espansionistica ed eurocentrica dei
conquistadores del Nuovo Mondo. All’anima mundi che agisce come
legame si contrappone il desiderio dell’oro che spinge alla conquista
di nuove terre e alla violenza verso popoli pacifici: questo è uno dei
maggiori elementi di disgregazione universale in grado di dissolvere i
vincoli civili e le forme sociali costitutive e necessarie all’umanità inte-
ra. Seppur il tema della scoperta, della conquista, dell’avvelenamento
e sovvertimento della pace degli indigeni d’America da parte degli
europei non sia un problema centrale né nella Cena, né nello Spaccio,
esso manifesta, però, un sintomo significativo della crisi europea. In
entrambi i dialoghi, tale crisi è contrapposta alla nolana filosofia intesa
come un programma di riforma civile in un’Europa in cui il vincu-
lum non sia pensato nei termini di una conversione forzata e violenta
dell’altro, tesa a produrre esseri umani schiavi di un potere tirannico,
bensì un legame che apporti frutti alle comunità.
Il tema dell’infinito cosmologico della Cena non è separato da quello
del vincolo civile dello Spaccio e del De vinculis. I vizi rintracciabili sia
negli atteggiamenti dei riformati, sia nelle azioni dei conquistadores,
come l’oziosità, l’ipocrisia, l’ignoranza e l’usurpazione, la credulità, il
tradimento, la malizia, la menzogna la tirannia, sono richiamati sin
dall’Epistola dedicatoria dello Spaccio122. Quello a cui tende tutta la
riflessione dell’opera è il ripensamento e il ritorno ai valori costitutivi
dell’umanità e delle diverse forme di civiltà nell’età eroica, vale a dire
nell’epoca in cui le società erano fondate sulla fatica, sul rispetto della
legge naturale e sul prevalere di un’esteriorità positiva dei costumi, dei
riti e delle abitudini: non pura apparenza dietro cui celare vizi e men-
zogne, ma un supporto necessario al rispetto della legge e al progresso.

122
Spaccio, p. 461.
lex e religio. dal vinculum amoris al vinculum civile 333

Proprio i valori e i costumi fondativi e benefici per ogni comunità


umana sono stati rovesciati: la grandezza equivale al possedere, la verità
alla malizia, la legge alla forza, la giustizia alla tirannia e così ogni azione
compiuta nell’interesse pubblico e collettivo è considerata vana. Que-
sta crisi è talmente profonda d’aver sovvertito l’ordine del linguaggio
umano: i termini hanno perduto il loro significato originario per essere
traditi, allontanandosi dalla realtà di cui si facevano parola. Proprio in
opposizione a questa tendenza, occorre riportare le parole al loro senso
e significato più autentico, evitando una vana e sterile complessità,
per affermare un linguaggio semplice capace di explicare la natura. Il
sovvertimento del linguaggio è un altro sintomo della malattia che ha
contagiato l’Europa del Cinquecento, ribaltando il rapporto tra vizi
e virtù123. Come è stato stravolto il rapporto tra giustizia e opere, tra
legge e religione, tra verità e menzogna, tra sostanza e accidente, così
è stato spezzato il legame tra linguaggio e natura, tra parola e realtà,
tra significante e significato. È la crisi stessa della filosofia, intesa come
libera e autonoma ricerca, ad aver fatto sì che i pedanti e i gramma-
tici potessero sovvertire la relazione tra logica e realtà. La riflessione
dello Spaccio è volta a far comprendere «che non conviene l’essere […]
schiavi de certe e determinate voci e parole: ma per grazia de dèi ne
è lecito e siamo in libertà di far quelle servire a noi prendendole et
accomodandole a nostro comodo e piacere»124. Questa filosofia è tesa
a valorizzare le capacità e le possibilità umane, intellettuali e pratiche,
a uscir fuori dalla caverna e dalla schiavitù in cui l’essere umano si
è autorecluso, rinunciando a farsi razionale ed eroico, rovesciando il
rapporto tra ozio e fatica.
Nella seconda parte del dialogo II dello Spaccio Bruno introduce
la personificazione della Ricchezza. Questa è una forza capace di
portare a compimento le virtù fondamentali125. Ma la pretesa della
Ricchezza di porsi al pari di una divinità, capace di dare perfezione
a ciò che tocca, è ambivalente. Se essa conduce all’atto virtù divine

123
Ivi, pp. 461-462.
124
Ivi, p. 462.
125
Ivi, p. 549.
334 giulio gisondi

come la Legge, la Verità, il Giudizio o la Sofia, allo stesso tempo, è


«quella per cui zoppica il Giudicio, la Legge sta in silenzio, la Sofia
è calpestata, la Prudenza è incarcerata e la Verità è depressa»126. Per
questa ragione Giove e Momo decidono di cacciarla dal firmamento
che orienta le azioni umane. La Ricchezza non è né vera, né falsa,
indifferente a ciò che tocca, capace di trasformare sia in meglio, sia
in peggio quello che le si lega127. Il ruolo e l’azione della Ricchezza si
contrappongono a quello dell’anima mundi. Se quest’ultima agisce
come vincolo formale tra tutte le componenti del mondo fisico, al
contrario la Ricchezza produce legami materiali e accidentali. Ben
lontana dall’operare sul piano qualitativo, essa non mette fine ai fa-
stidi e alle miserie, ma cela e trasforma l’infelicità sotto altre forme.
In quanto forza cieca e accidentale, è incapace di produrre frutti ed
effetti benefici sul piano della convivenza civile. La Ricchezza non è
una virtù essenziale, ma uno strumento accidentale, pura quantità
informe, incapace di legare e di produrre effetti civili duraturi. Per
queste ragioni è scacciata dal cielo e destinata a errare sulla terra, non
da sola, ma eternamente associata al suo opposto, la Povertà. Ricchez-
za e Povertà sono inseparabilmente legate: la prima non allontana e
non libera dalla seconda se non in modo apparente e temporaneo.
Bruno immagina e definisce così il rapporto tra queste due forze come
una circolazione indefinita e continua di elementi mai qualitativi, ma
esclusivamente quantitativi e materiali: a ogni ricchezza e guadagno
corrispondono perdita e povertà.
La vera ricchezza si situa nel rimando a una condizione d’equilibrio
spirituale e intellettuale qualitativo e non quantitativo. La ricchez-
za materiale non è mai assoluta, ma, compagna inseparabile della
povertà, essa non è in grado di condurre l’essere umano e favorirlo
nell’ascesa verso uno stato eroico, verso il pieno compimento delle
sue capacità intellettuali e pratiche. Di riflesso, la vera povertà non
equivale al possedere poco: «perché non colui che ha poco, ma quello

126
Ibidem.
127
Ivi, p. 550.
lex e religio. dal vinculum amoris al vinculum civile 335

che molto desidera è veramente povero»128. Il desiderio del possesso


materiale di quanto c’è di esterno all’essere umano rimanda a una
ricchezza situata nella dimensione delle apparenze, non dell’essere,
nella precarietà e instabilità del finito, non nella sostanza unica e
permanente. Questa forma di ricchezza non agisce da stimolo alla
realizzazione del singolo per il bene pubblico, ma costituisce una
profonda Avarizia. Proprio l’Avarizia rappresenta il cattivo frutto
generato dal legame eterno tra l’incessante ricerca della ricchezza e la
fuga dalla povertà: «è ella figlia e compagna della Povertà nemicissima
de la sua madre, e che quanto può la fugge; inamorata et invaghita
de la Ricchezza alla quale quantumque sia giunta, sempre sente il
rigor de la madre che la tormenta»129.
L’Avarizia è il prodotto dell’unione dell’eterna alternanza tra Ric-
chezza e Povertà, per cui se la prima fugge la seconda, l’una non può,
sussistere senza l’altra. L’Avarizia spinge ogni individuo che aspira
al possesso di ricchezze materiali a non sentirsi realmente ricco e
appagato, ma inseguito dalla paura costante della povertà. Al con-
trario del Simposio platonico in cui l’unione di Poros e Poenia genera
Amore, Bruno ripensa il legame tra Ricchezza e Povertà come un
principio di dissoluzione dei vincoli civili indispensabili al progresso
e alla realizzazione umana. Se l’essere umano è accecato e spinto
alla ricerca di una ricchezza materiale a lui esterna, non sarà mai in
grado di riconoscere nelle sue forze e capacità l’autentica via verso la
piena realizzazione di sé, della vera ricchezza a lui connaturata, del
suo scopo. L’alternanza tra Ricchezza e Povertà che genera Avarizia
si manifesta nell’essere umano come rigetto e odio di sé, in nome
di un desiderio e di un amore verso ciò che è a lui esterno: «perché
l’avarizia non è dove sono ricchezze, se non vi è anco la Povertà»130.
Questa rappresentazione del rapporto tra Ricchezza, Povertà e Ava-
rizia rientra nella critica dei riformati e dei conquistadores. Nel desiderio
di ricchezze esterne, della conquista e del guadagno, si cela sia l’opera

128
Ivi, p. 558.
129
Ivi, p. 560.
130
Ibidem.
336 giulio gisondi

dei conquistatori che hanno pervertito la pace e la legge naturale per


avarizia, usurpando beni e ricchezze di altri popoli, anziché elevarsi e
progredire grazie alle proprie virtù; sia la teologia riformata che predica
l’abbandono delle opere e della realizzazione dell’individuo sul piano
civile, in nome della trascendenza di Dio e della vanità del mondo: se il
rigetto delle capacità umane e l’amore per una divinità imperscrutabile
corrispondono sul piano spirituale a una salvezza intesa come dono
che proviene dall’esterno e non per merito, allo stesso modo, sul piano
materiale ciò equivale al desiderio illimitato di possesso e di conquista
di una ricchezza esterna e instabile. Il modello dell’avarizia quale fon-
damento sia della prassi dei conquistadores, sia dei riformati, scaturisce
da una considerazione della ricchezza come posta al di fuori del sog-
getto e della natura. Intrecciando ancora una volta riflessione politica
e naturale, per Bruno riformati e conquistadores hanno considerato la
natura come essenziale privazione e mancanza, non riconoscendo il
suo essere infinità immanente a ogni sua generazione.
All’avarizia, all’odio e al rigetto delle capacità umane, si contrappo-
ne la philautia, amore di sé, conservazione del proprio stato presente e
continuo perfezionamento. Come Bruno la definisce nel De vinculis,
la philauthia è il riconoscimento da parte del singolo di essere parte
di un unico e infinito organismo, amore di sé e dell’altro da sé. Ogni
essere umano è legato all’altro dalla comune appartenenza all’unico
corpo spirituale e materiale che è la natura, alla legge d’amore im-
manente che questa incarna.
All’infinità del mondo fisico e materiale corrisponde quella di ogni
singolo individuo che, seppur contratta in una forma particolare, con-
serva la tensione a farsi divino e infinito come la sua causa e principio
primo. Se, dunque, il modello dell’avarizia, dell’odio e del rigetto di
sé dissolve il vincolo costitutivo che lega l’essere umano all’altro da
sé e alla natura, al contrario la philautia, amore di sé, si esprime e si
realizza nell’istituzione di un vincolo che rende il singolo partecipe
dell’unità dell’essere. La philautia, principio universale connaturato
e pervadente tutto l’orizzonte naturale, si contrappone in maniera
radicale all’affermazione portante della dottrina riformata, secondo la
quale la vera salvezza umana risiede nell’«odium sui, (id est penitentia
lex e religio. dal vinculum amoris al vinculum civile 337

vera intus)»131, principio affermato da Lutero nella quarta delle tesi


contro le indulgenze.
L’odio di sé, la mortificazione volontaria, la rinuncia alle proprie
capacità, alla curiosità intellettuale, all’affermazione della libertà in-
dividuale, nel tentativo di possedere una ricchezza esterna spirituale e
materiale irraggiungibile, corrispondono alla rottura del naturale vin-
culum amoris che agisce in ogni cosa sotto forma di philautia. È questa
una delle principali ragioni per la quale quella riformata rappresenta,
nella prospettiva bruniana, una forma depravata di religiosità, poiché
accentua ed estremizza il motivo della rinuncia a sé, della passività,
dell’abbandono, dell’odium sui, radicato nel cristianesimo. La natura,
divinità immanente, è, invece, causa e principio d’amore e d’unità,
immobile, permanente, omogenea, infinita, inscritta in ogni cosa. La
philauthia, intesa come legge d’amore sottesa a ogni elemento, si mani-
festa nel primo e originario vincolo, quello tra la materia e la forma di
cui tutte le cose sono composte e formate. Ogni forma d’agire politico
e religioso deve riprodurre e proiettare questo legame d’amore naturale
sul piano della convivenza umana. Una prassi civile, quale quella dei
riformati e dei conquistadores, che disattende questa legge d’amore,
cercando eternamente fuori di sé una ricchezza materiale e spirituale,
non fa che spezzare il legame originario che univa l’essere umano all’al-
tro da sé, alla natura e a Dio, imponendo un modello di convivenza
insostenibile, in cui dominano la paura, la forza, la violenza e l’avarizia.

8. Ozio e Fatica. Dalla critica dell’età dell’oro all’elogio del lavoro

Nella prima parte del dialogo III dello Spaccio, l’Ozio interviene
nel concilio divino per mostrare i suoi meriti e per reclamare un posto
nel cielo delle virtù, esaltando il tempo di una mitica età dell’oro132.
L’esaltazione dell’Ozio comporta parallelamente il disprezzo delle

M. Lutero, Disputatio pro declaratione virtutis indulgentiarum, in Werke, cit.,


131

1883, vol. I, p. 233.


132
Spaccio, p. 596.
338 giulio gisondi

apparenti virtù che possiedono la «potestà di evertere le leggi de la


natura»133, come la Sollecitudine e la Fatica, che hanno perturbato la
pace e condotto i popoli a un’età di lotta, di sudori e sacrifici: l’onore
e la gloria, il desiderio, la curiosità e l’ambizione hanno sovvertito un
ordine naturale eterno, fondato sull’immobilità e l’immutabilità del
mondo, sulla stasi e l’inoperosità umana. Nella ricerca di un posto
nel firmamento, l’Ozio non esita a rivendicare gli elementi costitutivi
dell’età dell’oro, la tranquillità, il benessere, la pace e l’inutilità del
lavoro, contrapposti e alla Fatica e all’Industria, fonti delle differenze,
contrarietà, aspirazioni e desideri che perturbano l’equilibrio aureo.
Seppur gli esseri umani rimpiangano l’età dell’oro, tuttavia essi si
prodigano e si affaticano nel seguire la Fatica che ha diviso il genere
umano: Industria e Studio hanno separato la terra, generato guerre,
seminato corruzione tra gli esseri umani alterando irreversibilmente il
loro rapporto con la natura. La critica che l’Ozio rivolge alla Fatica è
il riconoscimento paradossale dell’operosità come causa dei mali, delle
ingiustizie, delle sofferenze e delle divisioni: la Fatica è la ragione per
cui gli esseri umani «a suo malgrado crapulano, quelli altri si muo-
iono di fame»134; essa è colei «ch’ha varcato i mari, per violare quelle
leggi della natura, confondendo que’ popoli che la benigna madre
distinse»135. Anche la conquista delle Americhe contro i pacifici popoli
che le abitavano è opera della Fatica e della Sollecitudine: queste «per
certo inganno e consuetudine»136 sono state «nomate e credute»137 virtù,
«benché gli effetti e frutti sieno condannati da ogni senso et ogni na-
tural raggione»138. La Fatica è la causa per la quale sono sorte le «leggi
usurpative e proprietarie del mio e tuo»139 – introducendo la proprietà
privata laddove tutto apparteneva a tutti – «del più giusto, che fu più
forte possessore; e di quel più degno, che è stato più sollecito e più

133
Ibidem.
134
Ibidem.
135
Ibidem.
136
Ibidem.
137
Ibidem.
138
Ivi, pp. 597-598.
139
Ivi, p. 598.
lex e religio. dal vinculum amoris al vinculum civile 339

industrioso occupatore di que’ doni e membri de la terra, che la natura


e per conseguenza Dio indifferentemente donano a tutti»140. Fatica è
usurpazione, separazione e divisione di quanto Dio ha donato alla
totalità degli esseri umani, ma che illegittimamente è stato depredato
dai più forti, dai più solleciti e industriosi.
Lavoro, studio, industria, curiosità non hanno apportato alcun
beneficio all’umanità, ma sono stati elementi dannosi e perturbativi
di un ordine divino. L’età dell’oro corrisponde, non a caso, al paradi-
so terrestre della tradizione cristiana: Adamo ed Eva rappresentano
un’umanità che vive in armonia con la natura, ignorando cosa siano
il sudore e il sacrificio, il conflitto e la morte. Il lavoro, abbandono
della condizione di quiete per una vita di dolore e di sofferenza, è la
punizione inflitta a essi da Dio per aver osato mangiare il frutto della
conoscenza e aver intrapreso il cammino della civiltà. La cacciata dal
paradiso terrestre segna così il destino dell’umanità non più nella quiete
e nella beatitudine aurea, ma in quest’«ombra di piacere che in questo
nostro essere possiamo prenderci, avendo posta legge al coito, al cibo,
al dormire, onde non solamente meno delettar ne possiamo, ma per il
più sovente dolere e tormentarci»141.
Dietro le parole dell’Ozio si cela, in realtà, una pericolosa rappresen-
tazione dell’umanità e del mondo. L’intreccio tra il mito dell’età dell’oro
e la critica del lavoro e della fatica come punizioni divine contribuisce
a offuscare le vere ragioni della crisi. Lo Spaccio si pone come un ten-
tativo di smascherare e portare alla luce gli inganni e le false virtù con
cui gli esseri umani hanno disciolto i vincoli che li legavano tra loro e
alla natura. Tutta l’orazione dell’Ozio è una grande impostura in cui
si nasconde un’errata concezione della virtù e del valore: l’immobilità,
la stasi e l’inoperosità rappresentano il rigetto delle capacità umane
che hanno reso possibile la nascita della civiltà. Attraverso il lavoro,
la fatica, lo studio, le arti e l’industria, l’essere umano è in grado di
elevare e trasformare sé stesso e la propria condizione finita, istituendo
legami benefici volti alla pace e al progresso della comunità umana.

140
Ibidem.
141
Ivi, 599.
340 giulio gisondi

All’Ozio che cerca invano di esaltare sé stesso e vituperare la Fatica


come corruttrice della virtù, della quiete e tranquillità dell’età aurea,
Giove replica osservando come in quella condizione gli esseri umani
siano simili agli animali: se questi non conoscevano il vizio, allo stesso
modo, ignoravano la virtù. L’assenza del male e del vizio non corrispon-
de implicitamente alla presenza e alla pratica del bene e della virtù. La
nascita della civiltà impone l’uscita dalla condizione beata e bestiale
senza tempo, in cui gli esseri umani vivono in una statica uguaglianza,
per accedere a uno stato in cui la fatica e il lavoro generano la differenza
e la contrarietà basate sul riconoscimento del merito e della virtù. Il mito
dell’età aurea che scaturisce da elementi letterari e teologici produce
effetti dannosi: il sogno e il rimando nostalgico a un’epoca fantastica
di quiete e prosperità, non apporta alcun beneficio né spinta verso il
progresso del singolo individuo e della collettività dallo stato bestiale
a quello razionale ed eroico142.
La Fatica non è una punizione divina, ma l’unica virtù sulla quale
gli esseri umani possono fondare la realizzazione di sé. Le difficoltà e
le necessità, assenti nella mitica età dell’oro, alle quali sono sottoposte
la fatica e la resistenza umana, costituiscono la fonte del progresso dei
saperi, delle arti, delle tecniche e degli ingegni su cui sono state costruite
le civiltà. Non nell’eterna immobilità e inoperosità esaltata dall’Ozio,
ma nel lavoro l’essere umano riconosce l’espressione più alta e specifica
del suo esistere: nell’azione, nelle opere, nell’attività faticosa e continua,
nei meriti e nei benefici che da queste derivano, scaturisce per ogni in-
dividuo la vera gioia. La critica dell’Ozio corrisponde simmetricamente
all’elogio della Fatica. Proprio i valori civili legati all’operosità umana
e condannati sia dall’Ozio che dalla teologia riformata, sono necessari

142
Ivi, pp. 601-602: «Ne l’età dumque de l’oro per l’Ocio gli uomini non erano
più virtuosi che sin al presente le bestie son virtuose, e forse erano più stupidi che
molte di queste. – Or essendo tra questi per l’emulazione d’atti divini, et adattazione
di spirituosi affetti, nate le difficultade, risorte le necessitadi, sono acuiti gl’ingegni,
inventate le industrie, scoperte le arti; e sempre di giorno in giorno per mezzo de
l’egestade, dalla profundità de l’intelletto umano si eccitano nove maravigliose in-
venzioni. Onde sempre più e più per le sollecite et urgenti occupazioni allontanandosi
dall’esser bestiale, più altamente s’approssimano a l’esser divino».
lex e religio. dal vinculum amoris al vinculum civile 341

alla fondazione e al progresso della repubblica degli uomini. È grazie


alla Sollecitudine «la quale ha et è avuta compagna da la Fatica»143 che
«Perseo fu Perseo, et Ercole fu Ercole, et ogni forte e faticoso è faticoso
e forte»144.
Sollecitudine e Fatica devono accompagnare e dominare la con-
templazione e l’azione umana, poiché soltanto esse sono in grado di
sostenere e favorire la realizzazione delle opere che glorificano l’uma-
nità, la natura e Dio. L’essere umano potrà superare ogni difficoltà e
compiere ogni impresa che sopravviva alla morte attraverso «la gloria
de l’opre»145, solo se la Fatica non avverta il peso del suo esser fatica:
«perché cossì la fatica non deve esser fatica a sé, come a se medesimo
nessun grave è grave»146. Questa non sarà, invece, «degna fatica»147, se
non saprà vincere sé stessa, poiché «la somma perfezzione è non sentir
fatica e dolore, quando si comporta fatica e dolore»148. Fatica rappresenta
la tensione a cui ogni azione e contemplazione umana devono aspirare
nel tentativo incessante di montare al «polo sublime della Verità»149.
Affinché ciò sia possibile Giove esorta la Fatica a non dividersi, ma a
mantenere sempre uniti tra loro gli atti della mente e quelli del corpo:
«perché se ti smembrerai, parte occupandoti a l’opre de la mente e parte
a l’oprazioni del corpo, verrai ad esser defettuosa a l’una e l’altra parte;
e se più ti addonarai a l’uno, meno prevalerai ne l’altro verso: se tutta
inclinarai a cose materiali, nulla vegni ad essere in cose intellettuali,
e per l’incontro»150. La non divisibilità della Fatica è il riconoscimen-
to della non separabilità della riflessione intellettuale dall’azione, del
vincolo che lega mente e corpo, mani e intelletto.
Soltanto dopo aver ristabilito il posto di ogni virtù nel cielo divi-
no, Bruno riconosce il valore positivo dell’Ozio. Se in equilibrio con

143
Ivi, p. 583.
144
Ibidem.
145
Ivi, p. 589.
146
Ivi, p. 585.
147
Ibidem.
148
Ibidem.
149
Ibidem.
150
Ivi, p. 596.
342 giulio gisondi

il suo contrario, questo darà una possibilità per riflettere e pensare,


contribuendo a far riposare la Fatica e permetterle di servire meglio
alla «republica e defension de la patria»151. Soltanto nell’equilibrio dei
contrari e opposti vi è concordia tra vizi e virtù ed è possibile riconoscere
e definire cosa sia l’uno e cosa l’altro152.

9. Mano e intelletto. Unicità dell’uomo e manipolazione della natura

L’elogio della Fatica corrisponde a una riconsiderazione dell’im-


magine dell’asino, sino a quel momento utilizzata come simbolo del
dogmatismo, della pedanteria, dell’arroganza, dell’avarizia e dell’ozio.
Come ha rilevato Ordine153, l’asinità è il simbolo ambiguo della con-
dizione umana: dai riferimenti alla mitologia greca, ebraica ed egizia,
presenti in particolare nella Cabala, l’asino può essere considerato tanto
bestiale quanto divino. Oltre all’asinità negativa vi è un’asinità positiva,
contraddistinta dalla fatica, l’umiltà e la tolleranza. È la stessa condi-
zione umana a configurarsi come asinina, poiché umbratile, finita,
mutevole, imperfetta, di chi non può conoscere il vero ma soltanto il
verisimile. Tuttavia, proprio attraverso la fatica che contraddistingue
l’immagine dell’asino e che sorregge ogni individuo, l’essere umano
può elevarsi dalla condizione bestiale a quella razionale ed eroica. Il
processo di civilizzazione è un lungo e faticoso cammino che si espri-
me e si realizza nell’umanità attraverso l’azione e la contemplazione,
grazie all’utilizzo di due necessari strumenti: la mano e l’intelletto.
Nell’elogio della fatica come virtù che deve accompagnare e sostenere
ogni riflessione e azione, si radica il riconoscimento dell’essere umano
non solo come pensante, ma manipolatore della natura:

Ivi, p. 588.
151

Ivi, p. 603.
152

153
Cfr. N. Ordine, La Cabala dell’asino: asinità e conoscenza in Giordano Bruno,
Milano 2017, pp. 39-54.
lex e religio. dal vinculum amoris al vinculum civile 343

gli dèi avevano donato a l’uomo l’intelletto e le mani, e l’avevano


fatto simile a loro donandogli la facultà sopra gli altri animali; la qual
consiste non solo in non poter operar secondo la natura et ordinario,
ma et oltre, fuor le leggi di quella: acciò (formando o possendo formar
altre nature, altri corsi, altri ordini con l’ingegno, con quella libertade,
senza la quale non arebbe detta similitudine) venesse ad serbarsi dio
de la terra154.

Il compito di ogni essere umano sta nel farsi «dio della terra», nel
ripensare e manipolare la natura Ma ciò può avvenire agendo nel ri-
spetto della natura e delle sue leggi e, al tempo stesso, al di fuori di
essa, ossia trasformandola e donandole un ordine che possa garantire la
sopravvivenza e il miglioramento degli esseri umani, l’evoluzione della
civiltà. Tuttavia, il processo di civilizzazione non può avvenire nella
separazione dell’azione dell’intelletto da quella delle mani, attraverso
una scissione tra theoria e praxis. Soltanto dal legame che unisce l’agire
al pensare può scaturire un reale progresso: «e per questo ha determinato
la providenza che vegna [l’uomo] occupato ne l’azzione per le mani, e
contemplazione per l’intelletto; de maniera che non contemple senza
azzione, e non opre senza contemplazione»155. L’azione civile può ap-
portare frutti se retta dal pensiero, così come l’attività contemplativa
risulta benefica se rivolta al compimento di opere per la comunità.
Come oziosa e vana è quella riflessione che si perde nella pura e sterile
contemplazione astratta, così «le azzioni senza premeditazione e con-
siderazione non son buone»156.
L’unità di mano e intelletto è ciò che Bruno definisce ingegno, sintesi
di pensiero e azione. Questo è il legame tra pensiero logico e fantastico,
vale a dire di una forma di contemplazione razionale che trae origine
dalle immagini corporee che la sensibilità produce nel contatto con
la natura. La capacità ingegnosa non corrisponde all’isolamento del
soggetto in un vano razionalismo che allontana dal reale, né all’essere

154
Ivi, p. 601.
155
Ibidem.
156
Ivi, p. 610.
344 giulio gisondi

agiti dall’immaginazione. L’ingegno è, invece, sintesi tra l’intelletto e


l’immaginazione: capacità sintetica e poietica, creazione significante. La
sua attività non comprende la sola produzione d’immagini, simboli o
analogie astratte, ma s’identifica con il costante bisogno umano di sta-
bilire associazioni, connessioni, giunture, vincoli tra ciò che il soggetto
percepisce attraverso i sensi e ciò che dà senso alla sua esistenza. L’attività
ingegnosa costituisce l’umanizzazione della natura, la trasformazione
dell’ambiente abitato nel proprio mondo, conoscibile, sperimentabile
e manipolabile. L’essere umano può donar nuove leggi alla natura, un
nuovo ordine, umanizzandola e manipolandola.
L’explicatione dell’ingegno pone le basi per la significazione del
mondo, per il sorgere di una ragione dispiegata e tecnica. La natura
umana è caratterizzata non dalla presenza dell’intelletto, comune a
tutta la natura, ma dall’ingegno, elemento di distinzione tra l’essere
umano e l’animale, capacità sintetica in grado di dare all’infinità delle
sensazioni e delle immagini percepite una forma universale. Compito
proprio dell’ingegno umano è il comprendere, significare e umanizzare
il mondo e l’universo. Il perdersi in considerazioni puramente razionali
o, viceversa, nelle sole immagini corporee, perdendo la necessaria fun-
zione dell’ingegno e il suo contatto con la realtà, comporta il rischio
di caduta in una profonda età di barbarie.
Se nello Spaccio la nascita dell’ingegno sembra rappresentare un
dono concesso agli uomini dagli dèi, esso scaturisce, invece, da ra-
gioni fisico-fisiologiche, vale a dire dalla particolare complessione per
cui l’intelletto, comune a tutte le cose, è congiunto allo strumento
esclusivamente umano della mano, determinando un essere unico e
singolarissimo nella natura. Nella Cabala, Bruno descrive la sintesi di
mano e intelletto e la costituzione dell’ingegno come originatesi da
cause esclusivamente organiche:

Quella dell’uomo [l’anima] è medesima in essenza specifica e generica


con quella de le mosche, ostreche marine e piante, e di qualsivoglia
cosa che si triove animata o abbia anima: come non è corpo che non
abbia o più o meno vivace e perfettamente communicazion di spirito
in se stesso. Or cotal spirito secondo il fato o provvidenza, ordine o
lex e religio. dal vinculum amoris al vinculum civile 345

fortuna, viene a giongersi or ad una specie di corpo, or ad un’altra: e


secondo la raggione della diversità di complessioni e membri, viene ad
avere diversi gradi e perfezzioni d’ingegno et operazioni157.

Se l’anima è comune a tutti gli esseri naturali senza alcuna distin-


zione, presente e immanente a tutta la terra come corpo vivente, ciò
significa che le differenze e le specificità sono da ricondurre alla parti-
colare complessione materiale e corporea in cui quest’anima universale
viene a congiungersi di volta in volta. È questa la ragione dell’esistenza
di molteplici e differenti specie, come delle particolarità interne a una
stessa specie. L’unicità dell’essere umano non è fondata su di un primato
ontologico, ma in virtù della particolare complessione corporea che lo
differenzia e lo rende unico rispetto agli altri esseri naturali, capace di
farsi dio della terra attraverso l’uso e il potenziamento dell’ingegno, la
mano e l’intelletto, il pensiero e l’azione: «là onde quel spirito o anima
che era nell’aragna e vi avea quell’industria e quelli artigli e membra
in tal numero, quantità e forma; medesimo gionto alla prolificazione
umana, acquista altra intelligenza, altri strumenti, attitudine et atti»158.
La struttura del corpo costituisce la ragione delle differenti possibi-
lità di conoscenza e d’azione sulla natura. Se l’anima di un cane non è
diversa da quella di un essere umano, tuttavia in quanto quadrupede
e non bipede, il primo non potrà agire nel mondo e trasformarlo at-
traverso l’uso delle mani come il secondo. Allo stesso modo, Bruno
prosegue nella Cabala osservando come l’ingegno dell’essere umano
sarebbe completamente diverso e lo porterebbe ad agire altrimenti se
venisse a trovarsi in un’altra complessione corporea qual è quella di un
serpente159. La forma del corpo e gli organi determinano gli strumenti e
le attitudini di ogni essere naturale160. La forma e complessione umana è
la ragione per la quale ogni individuo può operare non solo nell’ambito

Cabala, p. 717.
157

Ibidem.
158

159
Ivi, p. 718.
160
Cfr. E. Canone, Il concetto di «ingenium» in Bruno, in «Bruniana & Campa-
nelliana», IV, 2 (1998), p. 25.
346 giulio gisondi

delle leggi della natura e dell’ordinario, ma al di fuori di quella. L’unione


di mano e intelletto è il principio per cui l’umanità può andar al di là
della natura, dando vita a ciò che non è naturalmente spontaneo ma
che si configura come un prodotto particolare della sua azione intel-
lettuale e trasformatrice del mondo. Il Nolano riconosce nell’uso della
mano l’unicità dell’essere umano. Soltanto dalla riflessione intellettuale
e dalla manipolazione del mondo possono nascere «la conversazion
de gli uomini», «istituirsi e durar le fameglie et unioni di costoro»
presupposto della civiltà, «le instituzioni de dottrine, le invenzioni de
discipline, le congregazioni de cittadini, le strutture de gli edifici, et
altre cose assai che significano la grandezza et eccellenza umana»161.
Anche la sessualità umana è differente dal resto della natura, proprio
in virtù della civilizzazione che deriva dal lavoro. L’elogio della mano
rappresenta l’invito alla conoscenza, all’azione e alla trasformazione
del mondo, contro l’elogio dell’ascolto passivo, dell’obbedienza, della
servitù volontaria a cui induce il cristianesimo. La mano e il suo eser-
cizio attraverso il lavoro si contrappone all’udito, strumento passivo a
cui spingono le cattive religioni. L’unione della mano e dell’intelletto
costituisce il passaggio dalla necessità e dal determinismo naturale alla
libertà umana, in cui ogni individuo con la sua capacità di significare,
inventare, costruire e donare senso al proprio mondo può spezzare e
indirizzare la necessità.
Se per Bruno l’ingegno rende l’essere umano unico, tuttavia, il pieno
compimento di questa facoltà non è orientato in senso escatologico.
L’idea di un processo di umanizzazione e civilizzazione della natura
attraverso l’ingegno risulta estraneo a qualunque visione escatologica e
teleologica: come osserva Eugenio Canone, «svicolare l’idea di sviluppo
della civiltà da una visione teologica, che postula una caduta originaria
e un riscatto futuro, non significa per Bruno aderire a una concezione
ottimistica di progresso, teleologicamente intesa»162. Come il mondo
fisico, così anche quello storico è dominato dalla vicissitudine per la
quale tutto ciò che si manifesta nell’universo è sottoposto «a spinte co-

161
Cabala, pp. 718-719.
162
Cfr. E. Canone, Il concetto di «ingenium» in Bruno, cit., p. 21.
lex e religio. dal vinculum amoris al vinculum civile 347

struttive così come a forze disgregatrici che ne condizionano il corso»163.


L’essere umano può tanto innalzarsi verso la parte alta della scala, verso
la dimensione razionale ed eroica, quanto discendere allo stato bestiale,
sprofondando nell’ozio, nella schiavitù intellettuale e morale. L’ingegno
indica un’indole presente in ogni essere umano, ma che si realizza ed
è spinta al suo compimento solo attraverso un’attitudine che faccia
dell’individuo non un soggetto agito ma agente.

10. Rivoluzione sempiterna e metempsicosi delle anime

Se non vi è alcuna escatologia o teleologia dell’esistenza umana, tut-


tavia, le anime particolari, riflessi e frammenti dell’unica anima mundi,
alla dissoluzione del corpo non fanno ritorno all’Uno, ma permangono
nel ciclo della vicissitudine, assumendo nuova forma corporea. Questa
sarà vile e bassa per le anime bestiali, nobile e alta per le anime eroiche
e razionali. Affermando un primato del principio spirituale su quello
materiale, Bruno ricorre nello Spaccio, nella Cabala e nei Furori, alla
dottrina della metempsicosi, rintracciando un principio in virtù del
quale ogni essere umano possa essere punito o premiato per le azioni
e i benefici apportati alla comunità:
L’anima, coscienza, motore e mens, agisce nell’essere umano con
una funzione direttiva, assumendo una priorità rispetto alla sua parte
corporea. Solo grazie alla sua guida può avvenire il potenziamento
e il perfezionamento di tutte le facoltà e capacità umane, elevando
il soggetto al di fuori del suo essere puro accidente. L’anima rende
l’essere umano realmente tale, innalzandolo dalla condizione bestiale
e ferina verso quella eroica e razionale. «Se è vero – come ha osservato
Ciliberto – che, in radice, sostanza spirituale e sostanza corporea
coincidono, perché la materia è essa stessa vita, tra l’una e l’altra è
tuttavia individuabile […] uno scarto, una differenza di grado»164.
Al termine dell’esistenza corporea ogni anima è giudicata dall’«alta

163
Ibidem.
164
M. Ciliberto, Giordano Bruno. Il teatro della vita, Milano 2007, p. 278.
348 giulio gisondi

giustizia che sopra siede alle cose tutte»165 ai suoi meriti e costretta a
vagare eternamente e senza memoria per ogni corpo o stanza, se in
una vita precedente non si sia elevata dalla propria condizione. Le
anime di quanti sono ascesi al di là del limite corporeo e tempora-
le, apportando progresso alla comunità umana, saranno premiate
con un corpo nobile e serberanno memoria delle loro vite passate.
Ciascuna anima particolare vive in molteplici corpi, ascendendo o
discendendo la ruota infinita delle metamorfosi secondo il giudizio
della fatal giustizia o vicissitudine: «per il fato della mutazione, eterno
verrà incorrendo altre et altre peggiori e megliori specie di vita e di
fortuna: secondo che s’è maneggiato megliore o peggiormente nella
prossima precedente condizione e sorte»166.
In ogni individuo, nelle sue espressioni, nei gesti, nelle movenze,
negli atteggiamenti, si celano le tracce di cosa è stato nella vita pre-
cedente o che sarà nella prossima. Il ricorso alla dottrina pitagorica
e platonica della metempsicosi è funzionale a determinare vizi e virtù
di ogni essere umano, premi e punizioni sancite dalla mutazione che
guida il destino delle anime nel suo ciclo eterno. La ragione del ricorso
a questa teoria è rintracciabile nel tentativo di salvaguardare il libero
arbitrio e il riconoscimento del lavoro come principi costitutivi della
dimensione civile.
La priorità della causa formale sul principio materiale rappresenta
uno slittamento del punto di osservazione sulla natura e sull’essere
umano, non più focalizzato sulla considerazione della materia o sul
vincolo di questa con la forma, quanto piuttosto sull’opportunità di
considerare come la priorità assegnata all’anima faccia emergere la
libertà e l’autonomia umana nell’orizzonte della necessità naturale,
esaltandone le possibilità di pensiero e di azione. Dal riconoscimento
dell’anima come coscienza e guida del soggetto, Bruno argomenta la
possibilità che l’essere umano sia premiato o punito sulla base delle sue
azioni, del bene o del male che egli ha arrecato alla repubblica umana. Il

165
Spaccio, p. 468.
166
Ibidem.
lex e religio. dal vinculum amoris al vinculum civile 349

ricorso alla «rivoluzione»167 o «vicissitudine sempiterna»168 che le anime


compiono, serbando o meno memoria delle vite precedenti, corrisponde
all’affermazione di una ragione o di un principio naturale che giudica
se esse abbiano portato a compimento ed elevato al massimo grado
le facoltà e le capacità umane o se, invece, si siano legate agli aspetti
più bassi e bestiali della vita corporea. La dottrina della metempsicosi
permette, cioè, di rintracciare un ordine, un equilibrio e una legge
naturale in grado di premiare coloro che hanno glorificato la natura
e Dio, innalzando sé stessi e la collettività attraverso il loro l’ingegno.

11. Dal vincolo della legge al vinculum amoris. Natura, magia e


politica

Nella seconda parte del dialogo III dello Spaccio Bruno recupera
nuovamente il rapporto tra magia e filosofia. Anticipando la prospet-
tiva del De vinculis, la magia non è qui esclusivamente socia ed emula
della natura, ma sapere e arte rivolta all’azione sui contrari nello spazio
della vita politica. La magia è inseparabile dal riconoscimento della
coincidentia oppositorum e agisce sulla molteplicità e sulla dispersione
dei contrari, cercando di ricomporre l’unità del vivente, legando aspetti
del reale che appaiono distanti e in conflitto tra loro. La crisi descritta
nello Spaccio è originata proprio dall’oblio del sapere e dell’arte magi-
ca, che ha causato il sovvertimento della legge e dell’ordine naturale
fondato sulla philautia e sul vinculum amoris. Gli esseri umani si sono
allontanati dalla conoscenza della natura, modello esemplare a cui
ispirarsi nell’azione politica e religiosa, facendo prevalere un agire fon-
dato sull’odium sui, sull’avarizia e sull’ozio, vizi che hanno perturbato
e spezzato ogni benefico vincolo.
A questa rappresentazione della natura, Bruno contrappone non solo
quella dei Romani, ma anche dei Greci e degli Egizi, i quali considera-
vano animali e piante «vivi effetti di natura, la qual natura non è altro

167
Furori, p. 770.
168
Ibidem.
350 giulio gisondi

che dio ne le cose»169, avendo questi compreso come «natura est deus in
rebus»170. Ogni elemento accoglie in sé l’essere absoluto che si comunica
a tutta la natura e a ogni cosa secondo diversa capacità e misura:

onde Iddio tutto (benché non totalmente, ma in altre più o meno


eccellentemente) è in tutte le cose»171. Così, in quanto la divinità è
presente e si comunica a tutta la natura, attraverso la conoscenza di
essa, «per la vita rilucente nelle cose naturali»172, è possibile «montare
a quella vita che soprasiede»173 il mondo fisico.

Per mezzo di questa conoscenza della natura e del suo legame con
il divino, delle dottrine e dei riti magici, quegli antichi popoli fonda-
rono durature civiltà, in cui la legge, la religione, l’azione politica e
le scienze costituivano strumenti attraverso cui apportare progresso
all’intera comunità:

Vedo come que’ sapienti con questi mezzi erano potenti a farsi fa-
miliari, affabili e domestici gli dèi che per voci che mandavano da
le statue gli donavano consegli, dottrine, divinazioni et instituzioni
sopraumane: onde con magici e divini riti per la medesima scala di
natura salevano a l’alto della divinità per la quale la divinità descende
sino alle cose minime per la comunicazione di se stessa174.

Quella degli antichi non è soltanto una forma di conoscenza della


natura, ma una rappresentazione di questa e del divino in cui l’essere
umano è immerso. La prassi di quei popoli si orientava nella realizzazione
dell’universale vinculum amoris sul piano dell’azione politica, religiosa
e giuridica, nella costruzione di una pace che garantisse la contrarietà
e le differenze interne alla comunità. Questo vincolo è stato sciolto, al-

169
Ivi, p. 631
170
Ibidem.
171
Ibidem.
172
Ibidem.
173
Ibidem.
174
Ivi, p. 632.
lex e religio. dal vinculum amoris al vinculum civile 351

lontanando l’essere umano dal contatto con la verità e con il divino, dal
riconoscimento dell’infinità della natura e della vita e, allo stesso tempo,
sovvertendo l’ordine, la legge e la concordia naturale per cui ogni con-
trario era ricondotto all’unità originaria. La rottura del vinculum amoris
costituisce la ragione per la quale ogni tentativo di riprodurre la magia
cerimoniale degli Egizi, risulta vana e sterile idolatria, imitazione di un
linguaggio e di una relazione con la natura e il divino oramai dissolta:

Ma quel che mi pare da deplorare, è che veggio alcuni insensati e stolti


idolatri li quali, non più che l’ombra s’avvicina alla nobiltà del corpo,
imitano l’eccellenza del culto de l’Egitto; e che cercano la divinità,
di cui non hanno raggione alcuna, ne gli escrementi di cose morte e
inanimate: che con tutto ciò si beffano non solamente di quei divini
et oculati cultori, ma anco di noi come di color che siamo riputati
bestie; e quel che è peggio, con questo trionfano vedendo gli lor pazzi
riti in tanta riputazione, e quelli de gli altri a fatto svaniti e cassi175.

L’imitazione di culti, cerimonie e riti con cui gli Egizi rappresenta-


vano la divinità e comunicavano con essa, costituisce un tentativo di
vincolare gli esseri umani attraverso una falsa credulitas. Per mezzo di
vane pratiche questi maghi idolatri sono tenuti nella massima reputa-
zione, mentre si è completamente perduto il senso originario di quella
magia. La magia degli Egizi possiede un senso e una significazione che
non sono separabili dal contesto in cui è stata pensata e prodotta, nella
rappresentazione del cosmo e del divino da cui traeva origine e in cui
assumeva valore per quel popolo, in quella cultura e in quella religione
della natura. Riprodurne i riti e le cerimonie è un’operazione che non
dice e non può dire nulla della natura e del divino, ma che può soltan-
to alimentare una forma d’inganno. I riti e le cerimonie possiedono,
all’interno della comunità in cui sono praticate, un altissimo potere
vincolante che, tuttavia, si dissolve nel momento in cui queste stesse
pratiche sono trasposte e ripetute in diversi contesti:

175
Ibidem.
352 giulio gisondi

Quelli dumque per impetrar certi beneficii e doni da gli dèi, con rag-
gione di profonda magia passavano per mezzo di certe cose naturali,
nelle quali in cotal modo era latitante la divinitade, e per le quali essa
potea e volea a tali effetti comunicarsi. Là onde que’ cerimoni non
erano vane fantasie, ma vive voci che toccavano le proprie orecchie
de gli Dei; li quali, come da lor vogliamo essere intesi non per voci
d’idioma che lor sappiamo fengere, ma per voci di naturali effetti,
talmente per atti di cerimoni circa quelle volsero studiare di essere
intesi da noi: altrimente cossì fussemo stati sordi a gli voti, come un
Tartaro al sermone greco che giamai udio. Conoscevano que’ savii
Dio essere nelle cose, e la divinità, latente nella natura, oprandosi e
scintillando diversamente in diversi suggetti, e per diverse forme fisiche
con certi ordini venir a far partecipi di sé, dico de l’essere, della vita
et intelletto176.

Il riferimento all’antica sapienza egizia è funzionale a rimarcare l’o-


blio della natura e del divino, spazzata via «perché il fato ha ordinata la
vicissitudine delle tenebre e della luce»177. Questo rimando, come quello
ai Romani e ai Greci, non equivale a un tentativo di trasporre quelle
tradizioni filosofiche, religiose, politiche e magiche nel contesto a lui
contemporaneo. Questi riferimenti sono, invece, critici e strumentali,
tesi a far emergere ancor più la crisi e la dissoluzione dei legami civili e
naturali, nel confronto con culture e civiltà che hanno saputo vincolare
gli esseri umani tra loro, alla natura e a Dio. Anche la riformulazione a
cui Bruno sottopone in queste pagine il Lamento di Ermete178 del Corpus
Hermeticum non è un tentativo di porsi nella scia di quanti hanno af-
fermato l’esistenza di una prisca theologia. Inserendo nella sua personale
traduzione importanti varianti e introducendo precisi riferimenti al
tema della giustizia, Bruno trasforma, come ha osservava Tirinnanzi,
«l’antica profezia in un documento della crisi che ha travolto l’Europa
nel momento in cui Lutero e i suoi seguaci, […], hanno reciso il nesso

176
Ivi, pp. 632-633.
177
Ibidem.
178
Ivi, pp. 637-638.
lex e religio. dal vinculum amoris al vinculum civile 353

tra giustizia divina e naturale»179. L’utilizzo della tradizione ermetica


assume un valore strumentale e funzionale a far emergere la portata
della crisi e dell’oblio sia della conoscenza della natura e delle sue
verità, sia del mondo civile e delle leggi che lo governano. Nell’eterno
passaggio vicissitudinario dalla luce alle tenebre, la riscoperta dell’in-
finità e divinità della natura rappresenta il tentativo di disvelare e far
risplendere l’antica verità in un’epoca oscura, di riformare la giustizia
umana, divina e naturale fondata sul riconoscimento dell’universale
vinculum amoris, perturbato e sovvertito dall’ozio, l’avarizia e l’odio.
In opposizione alla religio dei riformati, egli riprende il modello
della religio civilis greca, romana ed egizia. Queste civiltà avevano rico-
nosciuto come la divinità non fosse trascendente alla natura, ma insita
e immanente in ogni cosa. Essi non adoravano Dio come una forza
o un’immagine esterna alla natura, ma riconoscevano la sua presenza
negli esseri umani, negli animali e nelle piante in cui si manifestava
con più vigore la virtù: questi erano adorati, rispettati e tutelati come
esseri in cui la divinità si era comunicata più che in altri elementi:

Gli nomi (anco presso gli Greci) sono apposticci alla divinità […].
Non adoravano Giove come lui fosse la divinità, ma adoravano la
divinità come fusse in Giove: perché vedendo un uomo in cui era
eccellente la maestà, la giustizia, la magnaimità, intendevano in lui
esser dio magnanimo, giusto e benigno; et ordinavano e mettevano
in consuetudine che tal dio, o pur la divinità, in quanto che in tal
maniera si comunicava, fusse nomata Giove; come sotto il nome di
Mercurio Egizzio sapientissimo, fusse nominata la divina sapienza, in-
terpretazione e manifestazione. Di maniera che di questo e quell’uomo
non viene celebrato altro che il nome e representazion della divinità,
che con la natività di quelli era venuta a comunicarsi a gli uomini, e
con la morte loro s’intendeva aver compìto il corso de l’opra sua, o
ritornata dal cielo180.

179
Ivi, p. 1278, in nota 336.
180
Ivi, pp. 633-634.
354 giulio gisondi

Molteplici sono i nomi con cui è definita e sotto cui si cela la divinità
presente in natura. In ogni tempo, luogo e civiltà, il divino assume for-
me diverse che, di volta in volta, sono adorate dagli uomini, non perché
siano esse stesse divine, ma come ciò in cui la virtù è maggiormente
presente. La trasmigrazione della divinità da una forma all’altra segue
il ritmo della metempsicosi: questa è funzionale a mostrare come la
stessa divinità si comunichi incessantemente assumendo forme sempre
diverse, ora umane, ora animali. L’attribuzione bruniana della divinità
sotto forma di virtù rappresenta il tentativo di rintracciare una religio
che riconosca e premi quanti con la loro opera hanno apportato frutti
all’umanità, rendendo grazie alla natura e a Dio.
Questa considerazione della divinità come comunicata secondo
misura e capacità differenti in ogni cosa corrisponde all’affermazione
della natura e del vinculum amoris come di un’idea politica, ovvero
dell’immagine ideale della polis quale continua dialettica ed equilibrio
tra la molteplicità dei contrari e opposti e l’unità dell’organismo civile.
Il problema della pace si radica all’interno di questa riflessione sulla
necessità tanto del riconoscimento della verità, quanto di una legge che
sia buona religio, manifestazione pratica del vinculum amoris che, sul
piano dell’essere, lega la contrarietà in un unico organismo. La presenza
di Dio in ogni elemento naturale fa sì che ogni cosa sia legata all’altra
dalla comune appartenenza a una relazione eterna. Allo stesso tempo,
ciò permette di pensare concretamente la religio in una dimensione
in cui la divinità non trascende e abbandona il mondo civile, ma è
immanente a essa, vincolo orizzontale che stringe in un solo corpo
tutte le sue membra.
È questo il passaggio osservabile nello Spaccio e che Bruno porta a
compimento con il De vinculis, quello cioè da una considerazione della
comunità politica come istituita sul vincolo della legge e della religione,
al riconoscimento del vinculum amoris quale loro fondamento. In altre
parole, lex e religio sono manifestazioni e realizzazioni concrete sul
piano civile del legame d’amore immanente alla natura. Una legge e
una religione che apportino frutti al progresso della comunità devono
porsi come traduzione politica di quell’unità a cui la natura riconduce
la molteplicità e la contrarietà delle sue manifestazioni.
lex e religio. dal vinculum amoris al vinculum civile 355

Vedi dumque come una semplice divinità che si trova in tutte le cose,
una feconda natura madre conservatrice de l’universo, secondo che
diversamente si comunica, riluce in diversi soggetti, e prende nomi
diversi; vedi come a quell’una diversamente bisogna ascendere per la
partecipazione de diversi doni: altrimente in vano si tenta comprendere
l’acqua con le reti, e pescar i pesci con la pala181.

Il riconoscimento della divinità e infinità della natura corrisponde


alla riscoperta dell’antiqua vera filosofia, offuscata e nascosta dalle
tenebre con cui la vicissitudine ha ricoperto il mondo. Questa ri-
scoperta non è il ritorno dell’identico: le condizioni in cui la verità
si disvela sono profondamente mutate e se gli Egizi utilizzavano
la magia cerimoniale per comunicare con la divinità attraverso la
natura e legare gli esseri umani, quella stessa forma di magia non
può più produrre alcun effetto benefico sul piano civile. Ogni rap-
presentazione della natura e del divino, nonché la forma di magia
corrispondente, non è trasferibile in epoche e civiltà in cui quell’im-
magine del mondo non possiede il senso e il significato originari.
Bruno afferma nuovamente l’insensata idolatria dei falsi maghi che
hanno deriso il «magico e divino culto degli Egizii»182 , imitandolo
vanamente e beffandosi di quegli stolti che vi prestano ascolto. La
magia cerimoniale attraverso la quale gli Egizi «contemplavano la
divinità […] e sapeano per mezzo delle specie che sono nel grembo
della natura ricevere que’ benefici che desideravano da quella»183 è
oramai perduta e, con essa, è smarrita la capacità di riconoscere la
divinità immanente alla natura, di comunicare con essa. Ma se questa
conoscenza e sapienza magica appaiono lontane e dimenticate, la
nolana filosofia rappresenta la riscoperta sotto nuova luce della ne-
cessità di ristabilire tra gli esseri umani l’universale vinculum amoris
immanente alla natura.

181
Spaccio, p. 634.
182
Ivi, p. 635.
183
Ibidem.
356 giulio gisondi

Se l’imitazione della magia divinatoria e cerimoniale degli Egizi è


espressione di un falso sapere, tuttavia essa non è l’unica magia possi-
bile. Il progetto di redazione degli scritti magici sino al De vinculis è
finalizzato a teorizzare e a definire una magia intesa come ars vinciendi
che non sia scissa dalla nolana filosofia dei dialoghi. La magia è arte del
vincolo, capacità di stabilire connessioni e legami sul piano politico e
civile attraverso la religione, la legge, la virtù, il merito, il castigo, la
fede, l’immaginazione, il discorso, il senso. Il vinciens che agisce sugli
esseri umani deve essere in grado di condurre all’unità la molteplicità
dei soggetti contrari e differenti che animano il corpo sociale senza
dissolvere la contrarietà. È questa l’immagine di un sapiente che, avendo
riconosciuta la legge d’amore insita nella natura, opera sul modello di
essa in una realtà complessa e in continua trasformazione, garantendo
l’equilibrio dei contrari e dell’unità civile, attraverso l’istituzione di
vincoli che possano legare efficacemente soggetti differenti e opposti.
Soltanto a quel principe, sapiente e mago che sarà in grado di de-
bellare le false virtù e i veleni della discordia, legando efficacemente
coloro su cui governa per riaffermare l’unità, la pace e l’equilibrio dei
contrari, verrà assegnata «la sedia della corona Boreale fatta di safiro,
arricchita di tanti lucidi diamanti»184, rimasta affissa in cielo in attesa
di «qualche eroico principe che non ne sia indegno»185. Il tema della
corona celeste ritorna più volte nello Spaccio. Questa non è una corona
finita e temporale, ma «ideale e comunicabile in infinito»186, dalla quale
«possono essere suscitate infinite corone, come da una lampada accesa
senza sua diminuzione, e senza scemarsi punto di virtude et efficacia,
se ne accendono infinite altre»187. La corona boreale rappresenta la
capacità e la virtù del buon governo, sintesi della corona particolare e
della spada, ovvero del potere e del suo esercizio per mezzo della legge:
«il giudicio universale, per cui nel mondo ogniuno vegna premiato e

184
Spaccio, p. 516.
185
Ibidem.
186
Ivi, p. 519.
187
Ivi, pp. 519-520.
lex e religio. dal vinculum amoris al vinculum civile 357

castigato secondo la misura de gli meriti e delitti»188. Se il Giudizio si


realizza attraverso la Legge, questa a sua volta si esercita per il Giudizio.
Questi sono gli strumenti di cui può disporre un principe per legare e
favorire il consorzio umano. In questa prospettiva la magia dello Spaccio
costituisce uno strumento funzionale al principe per la costruzione della
pace e l’unità del corpo sociale, per l’istituzione del vincolo della legge.
È questo il naturalismo politico nel quale Bruno elabora la sua
particolare forma di magia per vincula, in una rappresentazione della
dimensione fisica e civile che sembra preparare e, al tempo stesso, op-
porsi all’idea di modernità che di lì a poco s’imporrà. La sua filosofia
naturale non è una rappresentazione primitiva o arcaica della natura e,
insieme, della storia umana, quanto piuttosto la convinzione profonda
dell’irriducibilità del mondo naturale e storico al suo dato puramente
materiale e quantitativamente misurabile. Magia è la capacità di os-
servare la realtà e il vivente senza scinderlo nel suo dato quantitativo e
qualitativo, ma sapendo cogliere come anima e materia siano intima-
mente ed essenzialmente unum et idem, legame d’amore infinito, unità
nella molteplicità. È qui che si comprende, allora, come e perché la
riflessione naturalistica sulla forma sostanziale o sulle attrazioni natu-
rali sia co-essenziale e indissociabile da quella politica e religiosa sulla
rottura dei necessari vincula civilia, sulla crisi e sulle contraddizioni di
un nuovo mondo. È questo il riconoscimento che a una nuova filosofia
della natura debba corrispondere una nuova antropologia, una visione
dell’universo infinito in cui l’essere umano non è più centro né scopo,
ma parte di un vinculum amoris universale, infinito e permanente.

12. Dal vinculum amoris al vinculum civile. Politica, immagina-


zione e sovranità

Nella terza e ultima parte del III e ultimo dialogo dello Spaccio,
Bruno affronta esplicitamente una questione che, fino a quel momento,
aveva sempre accompagnato sottotraccia la sua riflessione naturale e

188
Ivi, p. 520.
358 giulio gisondi

politica, quella dell’incarnazione di Cristo. Come osserva Gilberto


Sacerdoti, «se l’intera opera ha di mira la religione cristiana, la terza
parte del dialogo non è solo quella in cui la dissoluzione è più radicale,
ma anche quella in cui il velo di cautela che la ricopre è più succinto»189.
E non è un caso che la critica al cristianesimo sia posta proprio dopo
e in opposizione all’elogio della religione e della sapienza degli Egizi, a
modello di una corretta comunicazione tra l’essere umano, la natura e
Dio. Il cristianesimo ha rovesciato i valori necessari alla civiltà fondata
sulla «natura, e non sul suo violentamento»190, «ha sovvertito l’ordine
naturale dei valori»191, sostituendo la credulitas alla ragione, attraverso
la predicazione dell’Incarnazione di Cristo. La conciliazione in Cristo
di finito e infinito, umano e divino, è l’espressione di questo sovverti-
mento, della rottura del vincolo d’amore tra l’essere umano, la natura
e Dio. Con questa falsa immagine il cristianesimo ha illuso il volgo,
provocando divisioni e guerre, più di quanto abbia fatto il paganesimo.
La conseguenza di questo sovvertimento è, come ha mostrato Ciliber-
to, che «i nessi fra Dio e mondo, uomo e natura si sono totalmente
spezzati»192. L’uscita da questa crisi sta nel «ricostruire il linguaggio
umano, divino e naturale […]. Al fondo la renovatio mundi coincide
con il ristabilimento della comunicazione tra Dio, uomo, natura»193.
Non si tratta d’imitare sterilmente la sapienza, la magia, il linguag-
gio, i culti e i riti perduti degli antichi Egizi, dei Greci o dei Romani:
ciò costituirebbe una vana forma d’idolatria e d’inganno. Occorre,
invece, rinnovare i nessi e i vincoli, adatti alle circostanze, ai luoghi,
agli strumenti e ai soggetti del proprio tempo, che possano legare ef-
ficacemente gli esseri umani e le comunità, ristabilendo una forma di
concordia civile. In questa considerazione sta, in nuce, il presupposto
metodologico dell’ars vinciendi espresso nel De vinculis, quello cioè

189
G. Sacerdoti, Sacrificio e sovranità. Teologia e politica nell’Europa di Shakespeare
e Bruno, Torino 2002, p. 145.
190
Ibidem.
191
Ivi, p. 143.
192
M. Ciliberto, Nascita dello Spaccio: Bruno e Lutero, in G. Bruno, Spaccio de la
bestia trionfante, Milano 1985, p. 35.
193
Ibidem.
lex e religio. dal vinculum amoris al vinculum civile 359

della necessità di rinnovamento continuo dei legami civili, della loro


instabilità e temporalità, e, dunque, della necessità di una conoscenza
universale e particolare dei tempi, dei luoghi, degli strumenti e dei
soggetti su cui si opera.
Ma prima di poter agire occorre ristabilire l’ordine naturale delle
cose, svelando le imposture e gli inganni con cui il cristianesimo
ha sovvertito il mondo. Ricorrendo alle immagini mitologiche e
cosmologiche di Orione, dell’Eridano e della Lepre e associandole
a Cristo, Bruno mette in scena un’allegoria tesa a far emergere le
contraddizioni e i paradossi a cui il cattolicesimo e la riforma hanno
condotto il mondo:

Appresso dimandò Nettuno “che farrete, o dèi, del mio favorito, del
mio bel mignone, di quell’Orione dico, che fa per spavento […] orinare
il cielo?” “Qua” rispose Momo, “lasciate proponere a me, o dèi […].
Questo, perché sa far meraviglie, e […] può camminar sopra l’onde
del mare senza infossarsi, senza bagnarsi gli piedi; e con questo con-
seguentemente potrà far molte altre belle gentilezze mandiamolo tra
gli uomini; e facciamo che gli done ad intendere tutto quello che ne
pare e piace, facendogli credere che il bianco è nero, che l’intelletto
umano, dove li par meglio vedere, è una cecità; e ciò secondo la rag-
gione eccellente, buono et ottimo: è vile, scelerato et estremamente
malo; che la natura è una puttana bagassa, che la legge naturale è una
ribalderia; che la natura e divinità non possono concorrere in uno
medesimo buono fine, e che la giustizia de l’una non è subordinata
alla giustizia de l’altra, ma son cose contrarie come le tenebre e la luce
[…]. Persuaderà con questo che la filosofia, ogni contemplazione, et
ogni magia che possa fargli simili a noi, non sono altro che pazzie;
che ogni atto eroico non è altro che vigliaccaria: e che la ignoranza è
la più bella scienza del mondo, perché s’acquista senza fatica, e non
rende l’animo affetto di melancolia194.

194
Ivi, pp. 650-651.
360 giulio gisondi

Gli insegnamenti del Cristo-Orione seguono qui, in modo letterale,


il De servo arbitrio di Lutero195, in una contrapposizione tra la vana
sapienza mondana dei filosofi e la vera sapienza soprannaturale cristia-
na, tra conoscenza della natura e conoscenza di Dio. In opposizione
a questi insegnamenti, Giove decreta che Orione «vada via a basso»,
comandando «che perda tutta la virtù di far bagattelle, imposture,
destrezze et altre meraviglie che non servono a nulla», affinché non
«venga a distruggere quel tanto di eccellenza e dignità che si trova nella
repubblica del mondo»196. La cacciata del Cristo-Orione corrisponde
al rifiuto dell’Incarnazione e alla rottura di questo perverso vincolo
dell’immaginazione che la religione cristiana, nelle sue diverse forme,
esercita. Mantenere saldo questo vincolo significa concedere il potere
di esercitare un dominio sugli esseri umani, di metterne in pericolo
la convivenza e l’esistenza degli Stati, dei regni e delle repubbliche. Se
è pazzo «un re il quale a un suo capitano e generoso duca dona tanta
potestà et autorità, per quanta quello se gli possa far superiore»197, tanto
più sarebbe «insensato e degno di correttore e tutore, se ponesse o la-
sciasse nella medesima autorità un uomo abietto, vile et ignorante, per
cui vegna ad essere invillito, strapazzato e messo sotto sopra il mondo:
essendo per costui posta la ignoranza in conseutudine di scienza, la
nobiltà in dispreggio e la villania in riputazione»198. Estrema pazzia è
per un sovrano concedere ad altri autorità e potestà superiori a sé, ancor
più se si tratti di qualcuno in grado di agire e sovvertire le coscienze
dei molti: «“potestà”, “autorità”, “superiorità: il linguaggio»199, osserva
Sacerdoti, «è quello tecnico della sovranità – che significa propriamente
superioritas. Così, se il discorso non manca d’interesse per il regno del
cielo, l’interesse raddoppia ove lo si applichi ai regni della terra»200.

M. Ciliberto, Nascita dello Spaccio: Bruno e Lutero, cit., p. 37.


195

Spaccio, p. 653.
196

197
Ibidem.
198
Ibidem.
199
G. Sacerdoti, Sacrificio e sovranità. Teologia e politica nell’Europa di Shakespeare
e Bruno, p. 149
200
Ibidem.
lex e religio. dal vinculum amoris al vinculum civile 361

Orione non è soltanto l’immagine di Cristo che parla per bocca di


Lutero, ma del potere della religione di vincolare tramite l’immagina-
zione, di turbare e sovvertire le coscienze dei molti facendo credere e
diventare reale ciò che non è: una vera e propria forma di magia per
vincula ex phantasia. Bruno riconosce la necessità politica di sotto-
porre la capacità della religione di legare attraverso l’immaginazione
all’autorità e al potere temporale del sovrano, secondo il modello della
chiesa d’Inghilterra attuato da Elisabetta I, ovvero l’esclusione del Papa
e l’assunzione del potere supremo sulla Chiesa. Se la religione rientra
tra le «cose necessarie alla repubblica del mondo»201, ciò è legato al suo
carattere pratico, alla sua capacità politica di legare attraverso immagini
e favole la moltitudine degli esseri umani, di produrre effetti funzio-
nali alla vita terrena, ancor più che alla salvezza eterna, al suo essere
un atto di governo e uno strumento civile. Seppur si tratti di favole e
bagattelle, le immagini prodotte dalla religione cristiana costituiscono
efficaci strumenti atti a legare e vincolare una comunità. A quelle forze
religiose che minacciano «la patria pace et autoritade» Bruno non esita
a legittimare per bocca di Minerva il ricorso alla «Industria, l’Eserci-
zio bellico et Arte militare», affinché «si annulleno gli culti, religioni,
sacrifici e leggi inumane, porcine, salvatiche e bestiali»202.
Nella considerazione civile della religione e del suo rapporto con
l’immaginazione, con l’autorità e il potere sovrano, Bruno introduce
una seconda immagine, anch’essa come Orione presa a prestito dalla
mitologia, quella del fiume Eridano con la quale allude all’ubiquità di
Cristo che, come il fiume, risiede in cielo e in terra, nonché al miracolo,
mistero e sacrificio eucaristico:

Venemo, disse Giove, al fiume Eridano; il quale non so come trattarlo;


e che è in terra e che è in cielo, mentre le altre cose, de le quali siamo
in proposito, facendosi in cielo, lasciâro la terra. Ma questo e che è
qua, e che è là; e che è dentro, e che è fuori; e che è alto, e che è basso;
e che ha del celeste, e che ha del terrestre; e che è là, ne l’Italia, e che

201
Spaccio, p. 653.
202
Ibidem
362 giulio gisondi

è qua, nella region australe; or non mi par cosa a cui bisogna donare,
ma a cui convegna che sia tolto qualche luogo203.

Con il ricorso alla rappresentazione atomistica della natura nel De


l’ infinito, il Nolano aveva decostruito non soltanto la dottrina fisica
ilemorfica aristotelica della quantità continua, ma anche la possibilità
d’affermare razionalmente il miracolo o mistero e sacrificio eucaristico
com’era stato decretato dal Concilio di Trento nella Sessio XIII del 22
ottobre 1551, e che proprio da quella dottrina aristotelica traeva fon-
damento204. Il principio eucaristico, secondo il quale il corpo di Cristo
è contenuto in atto in tutte la parti del pane e del vino, distingue la
forma sostanziale, principio di determinazione, dalla materia, principio
passivo e determinabile. Attraverso il ricorso a questa distinzione aristo-
telica era possibile sostenere, per via di ragione e non solo di fede, che
il corpo di Cristo fosse contenuto effettivamente in tutte le parti della
materia del pane e del vino come loro forma sostanziale al momento
della celebrazione eucaristica.
Questa spiegazione, che chiama in causa una forma sostanziale
esteriore alla materia, che la determina, la divide e la trasforma, risulta
inconciliabile con la rappresentazione atomistica bruniana della realtà
fisica, così come con la sua esigenza di comprendere la natura attra-
verso un principio d’omogeneità e di uniformità della materia e della
forma universali. Nella prospettiva atomista, l’affermazione per via di
ragione del mistero e sacrificio eucaristico è fisicamente inammissibile.

Ivi, p. 654.
203

H. Denzinger, Enchiridion symbolorumr, definitionum et declarationum de


204

rebus fidei et morum, Wurzburg, 1854, pp. 190-191: «Per consecrationem panis et vini
conversionem fieri totius substantiae panis in substantiam corporis Christi Domini
nostri, et totius substantiae vini in substantiam sanguinis ejus. quae conversio con-
venienter et proprie a sancta catholica Ecclesia transsubstantiatio est appellata». Cfr.
Sancti Thomae Aquinati Summa Theologiae, in Opera omnia iussu impensaque Leonis
XIII P.M. edita, Romae 1888-1906, III, 1906, t. XII, q. 75, art. 4, p. 168: «Nam tota
substantia panis convertitur in totam substantiam corporis Christi, et tota substantia
vini in totam substantiam sanguinis Christi. Unde haec conversio non est formalis,
sed substantialis. Nec continetur inter species motus naturalis, sed proprio nomine
potest dici transubstantiatio».
lex e religio. dal vinculum amoris al vinculum civile 363

Dall’infinitamente piccolo e dalla teoria del movimento è possibile de-


costruire non soltanto la cosmologia e la fisica aristoteliche e affermare
l’infinità dell’universo, ma anche scardinare un dogma fondamentale
della teologia cattolica come quello della transustanziazione. Quella di
Bruno è una considerazione fisica, matematico-geometrica e metafisica
della natura che ricorre alle nozioni di atomo, di punto e di monade. Si
tratta di un tentativo di pensare e comprendere la realtà non più come
il continuum aristotelico infinitamente divisibile in potenza, quanto
piuttosto in termini d’indivisibili infiniti e infinitamente piccoli.
Nello Spaccio egli definisce il mistero dell’eucarestia una bagat-
tella: l’onnipresenza del Figlio che siede in cielo alla destra del Padre
e simultaneamente s’incarna durante e attraverso la celebrazione del
sacrificio eucaristico, è il più potente dei vincoli dell’immaginazione
con cui la religione cristiana lega le coscienze dei credenti. E in effetti,
se il mistero eucaristico è una bagattella, resta, tuttavia, una sacrosanta
bagattella, in quanto rito, simbolo e vincolo potentissimo, capace di
legare in senso sociale e politico, prim’ancora che religioso. L’Eridano
resterà, dunque, in cielo, come in ogni luogo, ma solo in immagine,
non nella sua sostanza, a indicare il nutrimento spirituale ma non reale
del corpo e del sangue di Cristo:

«Anzi», disse Momo, «o Padre, mi par cosa degna (poi che ha questa
proprietade l’Eridano fiume di posser medesimo essere suppositale
e personalmente in più parti) che lo facciamo essere ovumque sarà
imaginato, nominato, chiamato e riverito: il che tutto si può far con
pochissima spesa, senza interesse alcuno, e forse non senza buon gua-
dagno. Ma sia di tal sorte, che chi mangerà de suoi pesci imaginati,
nominati, chiamati e riveriti, sia come (verbigrazia) non mangiasse;
chi similmente beverà de le sue acqui, sia pur come colui che non ha
da bere; chi parimente l’arà dentro del cervello, sia pur come colui che
l’ha vacante e vodo […]; «Bene» disse Giove, «qua non pregiudizio
alcuno, atteso che per costui non avverrà che gli altri rimangano senza
cibo, senza da bere, senza che gli reste qualche cosa in cervello, e senza
compagni: per essere quel loro mangiare, bere, averlo in cervello, e
tenere compagnia, in immaginazione, in nome, in voto, in riverenza
364 giulio gisondi

[…]. Sia dunque l’Eridano in cielo, ma non altrimente che per credito
et imaginazione: là onde non impedisca che in quel medesimo luogo
veramente vi possa essere qualch’altra cosa 205.

Per Bruno la presenza del corpo e del sangue di Cristo nel pane e
nel vino è puramente immaginaria e simbolica, senza alcun significato
di reale manducatio e potatio della divinità. A differenza di Orione,
l’Eridano potrà restare in cielo, ma solo in immagine, svuotato di ogni
contenuto e presenza reale, proprio come il Cristo continuerà a essere
presente nel mistero e sacrificio eucaristico come immagine, segno e
simbolo. Come già osservava Alfonso Ingegno206, Bruno recepisce in
queste pagine la critica che Calvino aveva svolto, nel capitolo XVII
del libro IV dell’Institutio207, alla dottrina della transustanziazione
cattolica e della consustanziazione luterana, tacciando di stupidità
quest’interpretazione del culto eucaristico. Per il riformatore ginevrino
la consacrazione con la quale i sacerdoti e i pastori trasformano il pane
e il vino nel corpo e nel sangue di Cristo è una «magica incantatio»208.
Come un tempo i maghi Egizi, essi affascinano e vincolano la comu-
nità dei fedeli. Il pane e il vino, nutrimento della carne, sono i segni
del corpo e del sangue di Cristo, nutrimento spirituale dell’anima. La
condivisione del pane e del vino durante la celebrazione eucaristica
sono i segni attraverso cui non si reitera ogni volta il sacrificio, ma in
cui si compie la memoria di esso. Attraverso quest’atto della memoria,
questo sacrificio simbolico, non è più il Cristo a discendere tra i par-
tecipanti al rito, ma sono essi a innalzarsi a lui per mezzo del vincolo
dello Spirito Santo. Il rito eucaristico pensato e attuato da Calvino è
un legame mistico e spirituale, ma che assume una profonda valenza
civile. La comunione è un atto di partecipazione e fedeltà non solo
a Dio, ma di appartenenza a una stessa communitas, dalla quale gli

Ivi, pp. 654-655


205

Cfr. A. Ingegno, Regia pazzia. Bruno lettore di Calvino, Urbino 1987.


206

207
Ihoannis Calvini Institutio christianae religionis, in Opera, cit., lib. IV, cap.
17, pp. 1013-1015.
208
Ivi, lib. IV, cap. 17, p. 1013.
lex e religio. dal vinculum amoris al vinculum civile 365

esclusi sono ex-communicati, fuori dall’unità della comunità. La pre-


senza simbolica del corpo e del sangue di Cristo nel pane e nel vino
rappresentano quel vincolo dell’immaginazione in grado di legare la
comunità in un unico corpo civile.
Nelle pagine dello Spaccio, Bruno recupera la controversia relati-
va alle differenti concezioni dell’Eucarestia, facendo suoi non pochi
elementi della critica calvinista al cattolicesimo e al luteranesimo. Il
rito della Santa Cena, legame comunitario e sacrificio simbolico della
divinità, è un elemento civilmente e politicamente necessario, se com-
piuto non più dalla mano di un pontefice ma da quella di un sovrano209:
immagine, questa, della sottomissione del potere spirituale ecclesiastico
all’autorità e alla potestà temporale del sovrano. Se la celebrazione del
rito eucaristico e il sacrificio simbolico di Cristo sono una favola e
un inganno, questi costituiscono un atto utile, efficace e necessario a
religare la comunità in un solo corpo civile sotto l’autorità e il potere
politico del sovrano.
Se l’Eridano rimarrà in cielo non altrimenti che in immaginazione,
così sarà anche per la Lepre, simbolo tradizionale del Redentore, qui
ripresa da Bruno. Questa sarà cacciata e catturata solo quando avrà
perso ogni sembianza materiale, esistendo solo in immagine. Per chi la
insegue senza mai afferrarla, per chi la mangia senza mai saziarsi, essa
smetterà di possedere una realtà materiale, per diventare nient’altro che
un vincolo dell’immaginazione: «tutto il mondo ne potrà mangiare e
bevere senza che la sia mangiata e bevuta, senza che dente la tocche,
mano che la palpe, occhio che la vegga, e forse ancora luogo che la
capisca»210. Come l’Eridano, così anche la Lepre è un vincolo dell’im-
maginazione, un significante vuoto il cui scopo è la concordia e l’unità
civile. È questa una religio rivolta non a chi ha riconosciuto la legge
inscritta nella natura, ma alla moltitudine di quanti son soggetti alla
credulitas e vulnerabili agli strumenti che la ragione e l’immaginazione
politica e filosofica sono in grado di suscitare e di celare. La religione

Cfr. M.A. Granada, Calvino y Bruno: misa católica y sacrificio de Cristo, in El


209

umbral de la modernidad, Barcellona 2000, pp. 275-281.


210
Spaccio, pp. 655-656.
366 giulio gisondi

è, come la definisce Sacerdoti, «la maschera e lo strumento con cui la


ragione e la filosofia possono stabilire un altrimenti impossibile con-
tatto con la moltitudine, e la moltitudine, a sua volta, potrà credere
in ciò che filosofia e ragione conoscono e stabiliscono senza bisogno
di alcuna fede»211.
Se con il ricorso alla Lepre, Bruno allude al vincolo dell’immagi-
nazione in cui consiste la religione, così anche la venazione o caccia e
il sacrificio assumono i tratti di un’immagine simbolica e metaforica:
quella dell’esercizio dell’autorità e del potere sovrano che si compie nella
prerogativa di esercitare il sacrificio simbolico della divinità. Rivol-
gendosi a Giove, il quale secondo una scelta d’immagini non casuale,
è colui che ha tanto potere da «fare di terra cielo, di pietre pane e di
pane qualch’altra cosa», Momo chiede «che l’arte di cacciatori, idest
la Venazione, come è una maestrale insania, una regia pazzia ed uno
imperial furore, vegna ad essere una virtú, una religione, una santità;
e che grande sia onore a uno per esser carnefice, ammazzando, scorti-
cando, squartando e sbudellando una bestia salvaggia»212. In un gioco
allegorico e associativo d’immagini che pone in una stessa considerazio-
ne vile e abietta «l’esser beccaio», «l’esser boia» e «l’esser cacciatore»213,
di uomini e di animali domestici, Giove decreta, invece, che «l’esser
boia di bestie selvatiche sia onore, riputazione e gloria»214. Se ammaz-
zar bestie domestiche ed esseri umani è cosa abietta e vile, cacciare e
compiere il sacrificio, come fa il boia nell’amministrare la giustizia
pubblica, diviene una virtù, un rituale religioso. Come i sacerdoti di
Diana, dopo aver cacciato un cervo, s’inginocchiano a terra e, armati
di spada, gli tagliano la testa, gli cavano il cuore, e procedono poi, in
punta di coltello in un cerimoniale che compiono rigorosamente soli,
«che non admette compagno a quest’affare, ma lascia gli altri con certa
riverenza e finta meraviglia star in circa a remirare», così deve agire
anche chi vuol esser pienamente sovrano.

211
G. Sacerdoti, Sacrificio e sovranità, cit., p. 192.
212
Spaccio, p. 656.
213
Ivi, p. 657.
214
Ibidem.
lex e religio. dal vinculum amoris al vinculum civile 367

L’immagine del sacrificio simbolico della divinità, per quanto


puro vincolo della fantasia, è metaforicamente l’espressione più alta
dell’esercizio della sovranità. Se fino a quel momento la prerogativa di
compiere questo sacrificio era sempre stata di «quel sommo sacerdote a
cui solo era lecito di portare il Semammeforasso, e ponere il piè entro
in Santasantoro»215, vale a dire il pontefice, questo potere è ora nelle
mani di una Diana terrena che ha saputo conquistarlo e diventare così
pienamente sovrana. La Venazione, la caccia del Cristo sotto forma di
cervo, da regia pazzia e imperial furore, viene ora a configurarsi nelle
parole di Bruno come una virtù, una religione, una santità: una caccia
che diviene atto eroico, non quando è praticata da un sommo pontefice,
bensì quando sia un principe a perseguitare e a cacciare quel cervo.

«Cossì dumque» conchiuse Giove «io voglio che la venazione sia una
virtù […] Sia dico virtù tanto eroica, che quando un prencipe perse-
guita una dama, una lepre, un cervio o altra fiera, faccia conto che le
legioni nemiche gli corrano avanti; quando arà preso qualche cosa, sia
a punto in quel pensiero come avesse alle mani cattivo quel principe o
tiranno di cui più teme: onde non senza raggione vegna a far que’ bei
cerimoni, rendere quelle calde grazie al cielo, e porgere al cielo quelle
belle e sacrosante bagattelle»216.

Queste ultime pagine dello Spaccio racchiudono e riflettono prospet-


tive e temi costanti e costitutivi della filosofia di Bruno. Intrecciando
filosofia naturale e politica, ontologia e antropologia e anticipando
la riflessione del De vinculis, egli ripensa, nel contesto delle guerre di
religione e della crisi europea, i possibili usi della religione come vin-
colo dell’immaginazione, strumento di governo e di concordia civile,
anziché arma di guerra. Dal rifiuto dell’ambigua natura di Cristo, finita
e infinita, sul piano delle verità, al suo utilizzo come significante vuoto
capace di vincolare a fini politici, se sottoposto alla potestà e all’autorità
del sovrano e non più del papa di Roma o dei tanti papi riformati. Que-

215
Ivi, p. 658.
216
Ivi, pp. 658-659.
368 giulio gisondi

sta caccia, questo sacrificio della divinità, quest’atto eroico necessario


che il sovrano deve arrogarsi e compiere per la salvaguardia e il bene
dello stato non è il mistero eucaristico in quanto tale, ma il vincolo
dell’immaginazione che esso esercita sulla moltitudine, sulle coscienze
dei credenti, dei sudditi e dei cittadini. È questo, in altre parole, il ri-
conoscimento che la sovranità risiede nella capacità, insieme naturale
e politica, di legare e governare attraverso l’immaginazione che si è in
grado di suscitare e consolidare nel cuore e nella mente del vincibile.
Conclusioni

A conclusione di questo percorso a ritroso nella nolana filosofia,


possiamo evidenziarne brevemente alcune tappe, soffermandoci sui
risultati emersi. Sulla base della ricostruzione svolta e dell’analisi sia
delle opere bruniane, sia degli studi critici, possiamo affermare che la
nozione bruniana di vinculum/nexus, ‘legame’ e ‘relazione’ si configu-
ra come categoria di passaggio dalla riflessione naturalistica a quella
politico-antropologica, già prima della redazione degli scritti magici.
1) Il vincolo prende origine, nella vicenda intellettuale e biografica
del Nolano, nel rifiuto del dogma trinitario e della considerazione
della terza persona quale vinculum o nexus tra il Padre e il Figlio.
In questo rifiuto svolge un ruolo essenziale la non conciliabilità di
finito e infinito in Cristo, nonché il carattere ontologicamente diffe-
rente dell’universo rispetto al creatore. In questo senso, il problema
si configura inizialmente nel De la causa come relazione originaria
tra l’infinità di Dio e l’infinità dell’universo, Unigenita natura. Una
prima elaborazione del problema del legame è, dunque, da collocarsi
nel rifiuto e nella trasposizione del discorso sulla Trinità dal piano
teologico a quello naturale.
370 giulio gisondi

Ciò non corrisponde semplicemente ad un trasferimento delle cate-


gorie teologiche e trinitarie sul piano della filosofia naturale, ma è anzi
la rilegittimazione di un’idea ontologica e naturalistica, quale quella di
legame, δεσμ ός/σύνδεσμ ος, vinculum/nexus, restituita al suo dominio
originario, alla filosofia dell’essere platonica e prim’ancora parmenidea.
La riflessione bruniana sul vincolo come elemento immanente alla
natura, se non natura stessa, costituisce, in tal senso, l’inveramento
dei motivi latenti della tradizione filosofica platonico-parmenidea,
celati, da un lato, dalla concezione aristotelica dell’essere, dall’altro,
dall’appropriazione e dalla trasposizione operata dalla teologia cristiana
di quelle categorie e di quel linguaggio.
2) L’operazione di naturalizzazione e de-occultamento della magia
condotta da Bruno dal De magia naturali sino al De vinculis, è fina-
lizzata a ricollocare la sua personale e originalissima riflessione sulla
magia nel cuore dell’ontologia e della cosmologia infinita elaborate
anni prima nel Sigillus sigillorum e nei dialoghi italiani. Il tentativo di
costituzione di una physica magica, di una considerazione naturalistica
delle attrazioni e dei vincoli naturali tra i corpi, gli elementi e gli atomi,
muove propriamente in questa direzione.
Il De magia e le Theses sono finalizzati ad elaborare un’analisi na-
turalistica dei legami e dei fenomeni di attrazione che si verificano
spontaneamente in natura, non in ragione di virtù occulte presenti
negli elementi, ma del movimento di efflusso e d’influsso degli ato-
mi di ciascun elemento e corpo. Allo stesso modo, anche i prodigi, i
miracoli e le azioni magiche sono ripensati dal Nolano come possibili
non grazie all’intervento di una potenza superiore sovrannaturale, ma
in una dimensione radicalmente naturale, come espressione della fides,
di un’immaginazione e di un intelletto potentissimi.
3) La relazione tra Dio e l’universo è resa possibile dall’imma-
nenza della causa e principio primo, dalla sua presenza in ogni corpo
naturale, vale a dire dal vincolo originario tra la materia e la forma.
Questi due principi naturali sono separabili soltanto da un punto
di vista logico, non ontologico, costituendo in realtà un’unità in-
dissolubile. La materia infinita e l’anima del mondo compongono e
formano ogni elemento dell’universo e, di conseguenza, ogni cosa
conclusioni 371

vive seguendo il ritmo eterno di generazione e rigenerazione scandito


dalla vicissitudine universale.
Quest’antica e sommersa verità rappresenta l’eredità di quegli antiqui
philosophi che hanno affermato l’identità in Dio di materia e forma, di
potestà di fare e potestà di esser fatto. Il ricorso di Bruno nel De la causa
a David de Dinant, ad Avicebron, alle dottrine degli eleati Parmenide,
Melisso e Senofane, a Pitagora, Eraclito, Anassagora e Democrito, rap-
presenta la riscoperta dell’unità dell’essere, pur nella molteplicità delle
sue manifestazioni particolari. Allo stesso modo, il richiamo esplicito
nella terza sezione del De vinculis a questi autori, al De la causa e al De
l’ infinito, corrisponde proprio al tentativo di ricollocare la riflessione sui
vincula nel solco dell’ontologia e della cosmologia della nolana filosofia.
4) La critica ad Aristotele e alle diverse tradizioni peripatetiche,
alla nozione di forma sostanziale affermata dagli scotisti, è funzionale
a chiarire come tali filosofie non abbiano fatto altro che separare ciò
che secondo la natura è unico e indiviso: la separazione tra la materia
e la forma è necessaria non in quanto distinzione ontologica, ma esclu-
sivamente logico-formale. L’errore che l’aristotelismo scolastico compie
è quello di sovrapporre la realtà logica alla natura. Lo stesso richiamo a
Cusano e alla dottrina della coincidentia oppositorum nel III dialogo del
De la causa è teso ad affermare l’identità e la consustanzialità di materia
e forma, non nella trascendenza del Dio cristiano, ma nell’immanenza
dell’Unigenita natura, per ricondurre all’unità il molteplice.
5) Dalla prospettiva metafisica e filosofico-naturalistica siamo giunti
ad osservare in che modo si delinei il passaggio bruniano alla consi-
derazione della dimensione politica e antropologica. Per mezzo del
primo e originario vinculum amoris, che lega materia e forma e di cui
è composto tutto l’universo, ogni cosa si ritrova immersa in una fitta
rete di relazioni e attrazioni reciproche, legandosi e slegandosi al proprio
simile secondo il ritmo della vicissitudine. Il desiderio e l’appetito, la
philautia o amore di sé sono in questa rappresentazione dell’universo le
ragioni metafisiche che spingono ogni cosa a ricercare ciò che le attrae
e apporta loro beneficio. In questa catena di vincoli e di legami ogni
essere umano può farsi bestiale o eroico a seconda dei vincoli con cui
si lega, degli oggetti, delle passioni e del suo desiderio.
372 giulio gisondi

L’indeterminatezza del desiderio è la ragione per cui alcuni ascen-


dono al grado più alto della gerarchia umana, mentre altri si rendono
asinini e bestiali lasciandosi vincolare da immagini e fantasmi altrui,
ritrovandosi nel grado più basso della scala. Allo stesso tempo, proprio
grazie a quest’indeterminatezza costitutiva della natura umana, ogni
individuo può ascendere dal proprio stato, dalla necessità dominante
in natura, per scoprirsi libero di autodeterminarsi e di trasformare la
propria condizione. In questa considerazione dei vincula, mago è colui
che avendo appreso una teoria generale quanto particolare dell’universo
e dei suoi composti, avendo riconosciuto l’universale vinculum amoris,
vale a dire il modo in cui l’unità dell’essere si esplica nella dimensione
finita della contrarietà e della differenza, può agire sui propri simili
attraverso nodi adeguati.
6) La possibilità e la contingenza che dominano il piano della con-
trarietà e della differenza costituiscono la condizione propria di ogni
essere umano. Non il piano dell’infinito, della coincidentia oppositorum
in cui ogni cosa è indistinta e assorbita nell’altra, ma il piano del finito
è il luogo in cui l’uomo, grazie alla propria particolare composizione
formale e materiale, grazie all’uso dell’ingegno, sintesi di mano e in-
telletto, può elevarsi al di sopra della natura per farsi veramente dio de
la terra. Ma questo progressivo elevarsi da una condizione bestiale e
ferina verso la costituzione della civiltà e delle repubbliche non avviene
rovesciando o allontanandosi dall’equilibrio e dall’ordine naturale.
Scopo dell’essere umano nella costruzione della polis è quello di emulare
l’equilibrio e l’unione dei contrari operato dalla natura, all’interno della
dimensione finita in cui dominano la contrarietà e la differenza. Ciò è
possibile attraverso l’istituzione di vincoli civili che possano garantire
la pace tra gli individui, preservando e non eliminando le differenze e
le specificità di ognuno. La verità, la legge e la religione rappresentano
in questo senso, come Bruno scrive nello Spaccio, i legami e i vincoli
posti al servizio della communitade. Attraverso questi strumenti una
comunità può premiare quanti apportano benefici pubblici e punire
coloro che arrecano danno alla convivenza pacifica e al genere umano.
L’arte politica è in questo senso capacità di unire, legare e tenere
insieme i contrari, in un equilibrio sempre precario ed instabile e mai
conclusioni 373

permanente. Tra natura e cultura, tra il mondo fisico e quello civile


non vi è alcuna scissione, ma quest’ultimo è già immerso ed incluso
nel primo. La conoscenza del mondo naturale corrisponde così all’ac-
quisizione di un sapere pratico attraverso cui agire nel mondo civile.
Si tratta in altre parole di riconoscere e riprodurre quell’originario e
universale vinculum amoris nell’istituzione e nel governo delle comunità.
Il riconoscimento del punto de l’unione, della relazione ontologica tra
l’Uno e il molteplice, tra l’infinità dell’essere e le sue manifestazioni
finite, come definita nel De la causa, rappresenta un momento neces-
sario e imprescindibile per agire nella sfera politica dei rapporti umani
istituendo legami e vincoli temporali.
Nella prospettiva di ricerca sin qui delineata emerge come la ri-
flessione di Bruno sul vincolo incarni la possibilità di pensare natura
e cultura, la physis e la polis senza scissioni o separazioni, ma l’una
come originata a partire dall’altra, in un rinvio continuo tra riflessione
filosofico-naturalistica e politico-antropologica.
Indice dei nomi*

Abbondanza, A., 70 Ario, 58, 61, 69-70, 72, 75-76,


Adamo, 41, 339 Aristotele, 6, 63, 65, 67, 112, 133,
Agostino d’Ippona (santo), 41, 48-49, 141, 143, 147, 149-152, 156-157,
52, 57, 61, 64, 66, 69, 74-76 161, 166, 169-171, 173-178, 181,
Agrippa Von Nettesheim Heinrich 184-185, 191, 194, 196, 223, 239,
Cornelius, 10, 33-35, 37, 39, 84, 257, 306, 371
100, 103-104, 107-108, 245, Astius, F., 40
Aland, K., 48 Atteone, 238, 247, 265
Alberto Magno, 6, 33, 140-151, 160, Auvray, L., 62, 323
185, 187-189, 191, 220 Avarizia, 335
Alessandro d’Afrodisia, 147 Averroè, 140, 174-176, 223
Amato, B., 113 Avicebron (Ibn-Gabirol), 7, 11, 24,
Anassagora, 156-157, 371 137-140, 156-158, 164, 185-192,
Anzulewicz, H., 142 196-197, 217-220, 261, 371

* A causa della frequenza con cui compare nel testo, il nome di Giordano Bruno
non è stato indicizzato.
376 indice dei nomi

Badaloni, N., 22, 147, 189, 190 Cassin, B., 42-43


Balbani Niccolò, 319 Castelvetro Iacopo, 315
Balduino Gerolamo, 175 Catanorchi, O., 71, 140, 188, 298
Barberi Squarotti, G., 13 Cestaro, A., 63
Charlewood John, 314
Bartolomeo, 78 Cicada, 237, 239
Bassi, S., 13, 23, 34-36, 82, 238, 242, Ciliberto, M., 13-14, 23, 39, 64-65,
298, 314 68, 71, 113, 140, 188, 298, 314-
Baum, J.-W., 56, 303, 321 315, 347, 358, 360
Benivieni Girolamo, 242 Coggi, P.R., 51, 70, 149, 209
Beretta, P., 48 Colombi, G. 63
Berns, T., 59 Colombo Cristoforo, 330
Bertoldo di Moosburg, 153 Copernico Niccolò, 165
Bianchi, L., 141 Corbeil Pierre, 141
Biffi, I., 51, 70, 149, 209 Corbinelli Iacopo, 316-317
Bigarelli, A., 48 Corsano, A., 22
Biondi, A., 278 Cotin Guillaume, 62, 323
Birkenmajer, A., 141 Courcelle, P., 40-41
Bonaventura da Bagnoreggio, 187 Coxon, A.H., 43
Borgnet, A., 144, 188, 220 Cunitz, E., 56, 303, 321
Borrelli, G., 314 Cupido, 23, 134-135, 211, 256
Braccio Del Bene, 316 Cusano Nicolò, 6-7, 10, 50, 53-55,
Brizzi, G.P., 278 57, 59, 68, 105, 140-142, 152-154,
Bujanda de, J.M., 318 157, 197-199, 201-204, 209, 211,
297, 371
Calepino Ambrogio, 40
Calvino Giovanni, 10, 55-56, 66, D’Addio, M., 316
303, 319-321, 328, 364-365 D’Andrea, A., 319
Cambi, M., 81, 107 D’Avignon, R., 318
Canone, E., 14, 23, 61, 65, 70, 84, Dagron, T., 101, 140-141, 148, 152,
113, 176, 345-346 166, 171, 174, 201-202, 292, 326,
Carafa Antonio, 65 330
Caramella, S., 236 David de Dinant, 6, 11, 24, 138-158,
Carannante, S., 59 160, 164-165, 185-186, 188-189,
Carella, C., 62, 64, 66 219-220, 224, 261, 371
Caroli, D.D., 86 Davila Enrico Caterino, 316
Casadei, E., 141, 143-145, 148-149, Del Prete, A., 59-61
153 Delarue, C.V., 86
indice dei nomi 377

Dell’Omodarme, F., 13 128, 140, 142, 152, 155-157, 166,


Democrito, 146, 156, 183, 190, 371 242, 248, 251, 253, 266, 274
Dente, A., 63 Fiorentino, F., 14
Denzinger, H., 362 Firpo, L., 15
Diana, 82-83, 238, 247, 366-367 Fortezza, 306
Dicson Alexander, 159
Dicsono, 159, 191, 196, 222 Galilei Galileo, 97
Diels, H., 41-42 Gambino, L., 316
Dionigi Aeropagita (pseudo), 51-52, García Verde, J.M, 175
57, 66, 68, 153 Garin, E., 22, 242, 265
Domenico Gundislao, 187 Gaudemet, J., 47
Donato, 66 Gentile, G., 109
Donattini, M., 278 Gentile, S., 142, 155, 156-157
Dronke, P., 141 Gentili Alberico, 315-316
Duns Scoto, 187 Gentillet Innocent, 319
Gesù di Nazareth (Cristo), 11, 54,
Egidio da Viterbo, 63, 76 56, 58-59, 66, 73, 85-88, 93-94,
Egidio Romano, 64, 66 124, 203, 303, 321, 330, 358-365,
Elisabetta I Tudor, 361 367, 369
Ellero, M.P., 13 Giovan Vincenzo Colle da Sarno, 175
Enrico III di Valois, 316-317 Giovanni Ispano, 187
Epicuro, 183, 281, 317 Giovanni Scoto Eriugena, 50, 57,
Eraclito, 6, 157, 180, 183, 371 68, 153
Erasmo da Rotterdam, 10, 66, 68- Giovanni Tritemio, 33
69, 323 Giovannozzi, D., 84, 107
Ercole, 213, 341 Giove, 155, 291-294, 299-300, 302-
Eridano, 361 303, 306, 313, 323, 325, 334,
Ermete Trismegisto, 156, 352 340-341, 353, 360-361, 363,
Ernst, G., 23, 65, 84, 113 366-367
Estienne Henri, 40 Girard, P.F., 46
Eva, 339 Girolamo (santo), 48
Giudizio, 303-304, 306, 325, 334,
Fantechi, E., 210 357
Fatica, 8, 337-342 Giunta Bernardo, 317
Festugière, A.-J., 104 Giustiniano, 47
Ficino Marsilio, 6, 10, 33, 37-39, 41, Goldoni, D., 167
84, 91-95, 97, 100, 107-108, 126- Gorlani, N., 50
Gramsci, A., 17
378 indice dei nomi

Granada, M.A., 60, 126-127, 129, Mantino Jacopo, 175


132-133, 206, 365 Marchetti, V., 278
Graziano Francesco, 67 Marco (Evangelista), 85-86
Gurvitch, G., 47 Marranzini, A., 63, 71
Gutierrez, D., 64-65 Matteo (Evangelista), 85-86
Matteoli, M., 14, 113
Heubeck, A., 42 Melantone Filippo, 66, 303, 328
Huvelin, P., 47 Melisso, 146, 149, 157, 170, 183, 371
Mercurio, 324, 353
Imbriani, V., 14 Meroi, F., 85-86, 314-315, 320
Industria, 338, 361 Michel de Castelnau, 317
Ingegno, A., 38, 364 Miele, M., 68, 71
Miglietti, S., 328
Jedin, H., 63 Migne, J.-P., 41, 86
Juan de Valdés, 63 Mignini, F., 315
Momo, 323-324, 334, 359, 363, 366
Kranz, W., 41-42 Mondolfo, R., 178
Kristeller, P.O., 155 Monti, C., 14
Kurdzialek, M., 141, 152 Munk, S., 138, 187

Legge, 8, 299, 302, 304-306, 333- Nestle, E., 48


334, 357 Nock, A.D, 104
Leone Ebreo (Giuda Abarbanel), 10, Nys, E., 315
235-236, 242
Leone XIII (papa), 70, 151, 362 Omero, 42-43, 239
Lepre, 359, 365-366 Ordine, N., 308, 314, 342
Leucippo, 146 Orfeo, 155
Lévy-Bruhl, H., 46-47 Origene, 86, 124
Lomonaco, F., 3, 12 Orione, 359, 360-361, 364
Luca (Evangelista), 85, 87 Osborne, C., 52
Lucano, 155 Ozio, 8, 337-341
Lucentini, P., 141
Lutero Martin, 66, 303, 320-323, Pagnoni-Sturlese, R., 14, 38, 140,
325, 328, 337, 352, 358, 360-361 240
Pallade, 146-147, 166
Maccagnolo, E., 141 Panizza, D., 315
Machiavelli Niccolò, 231, 286, 312- Paolo di Tarso (santo, apostolo), 10,
319 48-49, 52, 62, 92, 319-321
indice dei nomi 379

Paolo IV (papa), 318 Provvidenza, 301


Papi, F., 22-23, 108, 162, 179, 215, Prudenza, 300, 334
226, 234, 251-253, 260-261, 280,
287 Quaglioni, D., 15
Parmenide, 6, 41-43, 146, 149, 156-
157, 166, 169-170, 177, 180-181, Ragazzoni, D., 71-72, 75
183, 185, 371 Raimondi, F., 292
Pelagio, 66 Raimondi, F.P., 175
Peleo, 249 Ramelli, I., 104
Peroli. E., 53, 154, 199 Raymundi, P., 188
Perrone Compagni, V., 23, 34, 84, Reuss, E., 56, 303, 321
245 Riccati, C.M., 50
Perseo, 341 Ricchezza, 333-335
Petruccio Ubaldini, 315 Ricci, S., 314, 319
Phillipson, C., 316 Robert de Courçon, 141
Pico della Mirandola Giovanni, 10, Rodolfi, A., 142
242 Rolf, J.C., 316
Pierre de Nemours, 141 Rombs, R. J., 49
Pierre de Ronsard, 308 Rossi, P., 22
Pietro (santo, apostolo), 62 Rowland, I., 65-66
Pietro Lombardo, 51, 67, 70, 149, Ruggiu, L., 167
209, 220 Russo, I., 39
Pinelli Giovan Vincenzo, 317
Pirillo, D., 71, 140, 188, 298, 314-315 Sabellio, 58, 61, 69-70, 72
Pirillo, N., 23 Sacerdoti, G., 358, 360, 366
Pitagora, 74, 92-94, 155, 157, 183- Salomone, 72-74, 185, 242
184, 371 Saulino, 308, 325
Platone, 40-41, 44-45, 127, 143-145, Scapparone, E., 13, 23, 85, 91-92,
223-224, 249, 253 94-95, 314
Plotino, 92, 221, 223-224 Scaramuré, 77-78
Pöhlmann, H.G., 303 Secchi, P., 50, 59, 105, 154, 190, 199,
Polibio, 319 202-203, 211
Polihimnio, 213, 214 Seneca, 155
Pomponazzi Pietro, 174-175 Senofane, 146-149, 150, 157, 371
Povertà, 334-335 Seripando Girolamo, 63-65, 69-70-
Privitera. G. A., 42 76, 320
Procacci, G., 318-319 Sidney Philip, 315-316
Prosperi, A., 323
380 indice dei nomi

Socrate, 40-41, 45, 91-92, 145, 194, Ugo di San Vittore, 52


253 Ulisse, 42-43
Soder, J.R., 142
Sofia, 8, 299, 301-302, 304, 306, Valla Lorenzo, 10, 68-69
308, 325, 334 Varrone, 155
Sollecitudine, 338, 341 Vasoli, C., 22
Spampanato, V., 15 Venazione, 366-367
Spiazzi, M., 188 Venere, 273, 283
Spruit, L., 104, 106 Verità, 8, 299-302, 306, 334, 341
Stanek, E., 318 Virgilio, 72-73, 155
Stewart, P.D., 319 Vitale, A.M., 63
Vitelli, G., 14
Tacito, 316 Vivanti, C., 231, 312
Tallarigo, C.M., 14
Tansillo, 237, 239 Wilhelm, E., 56, 303
Teofilo da Vairano, 10, 62-68, 75-76 Wolf John, 314
Teofilo, 159, 191-192, 196, 223
Terracciano, P., 140, 188, 191, 217 Yates, A. F., 21-22, 317
Terré, F., 47 Zenone, 145, 156
Teti, 246, 249 Zimara Marco Antonio, 175
Théry, G., 141-142, 150-154 Zoroastro, 92-94
Tirinnanzi, N., 13-14, 23, 58, 352
Tocco, F., 14, 22, 34-35, 107, 109,
140, 227
Tomitano Bernardino, 175
Tommaso d’Aquino (santo), 6, 10, 51-
52, 57, 59, 61, 64-70, 75-76, 97,
140-142, 145, 147-154, 156-158,
160, 174-175, 185, 187-189, 191,
209, 220, 362
Finito di stampare
nel mese di luglio 2020
presso Universal Book s.r.l.
Rende (CS)

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