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ETEROTOPIE

N. 239

Collana diretta da Salvo Vaccaro e Pierre Dalla Vigna

COMITATO SCIENTIFICO

Pierandrea Amato (Università degli Studi di Messina)


Pierre Dalla Vigna (Università degli Studi “Insubria” Varese)
Giuseppe Di Giacomo (Università di Roma La Sapienza)
Maurizio Guerri (Università degli Studi di Milano)
Salvo Vaccaro (Università degli Studi di Palermo)
José Luis Villacañas Berlanga (Universidad Complutense de Madrid)
Valentina Tirloni (Université Nice Sophia Antipolis)
Jean-Jacques Wunemburger (Université Jean-Moulin Lyon 3)
IL TRANSINDIVIDUALE
Soggetti, relazioni, mutazioni
a cura di
Etienne Balibar
Vittorio Morfino

MIMESIS
Eterotopie
Il volume è stato pubblicato con il contributo del Dipartimento di Scienze Umane
per la Formazione ʻRiccardo Massaʼ dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca.

© 2014 – MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine)


Collana: Eterotopie, n. 239
Isbn: 9788857520476
www.mimesisedizioni.it
Via Risorgimento, 33 – 20099 Sesto San Giovanni (MI)
Telefono +39 02 24861657 / 24416383
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INDICE

Etienne Balibar, Vittorio Morfino


INTRODUZIONE 9
1. Esiste una tradizione del transindividuale? 9
2. Individuazione e transindividualità in Simondon 10
3. Il transindividuale nella storia del pensiero:
Averroé, Spinoza, Marx 15
4. Dalla biologia alle scienze umane 32

Muriel Combes
LA RELAZIONE TRANSINDIVIDUALE 49
1. L’individuazione psichica e collettiva:
una o più individuazioni? 49
2. Affettività ed emotività, la vita più che individuale 55
3. Il paradosso del transindividuale 58
4. Un dominio di passaggio (il transindividuale soggettivo) 64
5. Il collettivo come processo 68
6. L’essere-psichico del collettivo
(il transindividuale oggettivo) 71

Augusto Illuminati
L’INTELLETTO MATERIALE UNICO 79

Mariana de Gainza
IL LIMITE E LA PARTE: I CONFINI DELL’INTERIORITÀ
NELLA FILOSOFIA SPINOZIANA 89
1. L’alternativa Hegel-Deleuze 89
2. Il limite (o della determinazione positiva
delle cose finite) 93
3. Le parti o della modulazione infinita della natura 99
4. La natura conflittuale dell’esistenza
(o della complessità della determinazione) 102
Warren Montag
‘COMBINAZIONI TUMULTUOSE’.
TRANSINDIVIDUALITÀ IN ADAM SMITH E SPINOZA 107

Frédéric Lordon
L’IMPERIO DELLE ISTITUZIONI 121
1. Istituzioni, norme, sovranità: sotto il principio
della ‘potenza della moltitudine’ 123
2. Potenza e auto-affezione della moltitudine 125
3. Catture e auto-affezioni mediate 130
4. La vita passionale nei rapporti istituzionali 135
5. Rapporti sociali e interazioni istituzionali 136
6. L’istituzione prodotta ad ogni istante 138
7. Contemporaneità e diacronia: memoria e isteresi
degli affetti 139
8. I meccanismi affettivi della sedizione o le dinamiche
passionali della crisi istituzionale 141

Etienne Balibar
DALL’ANTROPOLOGIA FILOSOFICA ALL’ONTOLOGIA SOCIALE E RITORNO:
CHE FARE CON LA SESTA TESI DI MARX SU FEUERBACH? 147
1. La proposizione negativa: «l’essenza umana
non è un’astrazione inerente a ogni singolo individuo» 153
2. La proposizione positiva: «Nella sua realtà
è l’insieme delle relazioni sociali» 158
3. La biforcazione: ‘ontologie’ e ‘antropologie’ rivali 168

Vittorio Morfino
L’ENJEU MARX FREUD. IL TRANSINDIVIDUALE
TRA GOLDMANN E ALTHUSSER 179
1. Lo strutturalismo genetico e il transindividuale 179
2. L’ontologia del transindividuale 183
3. La critica di Goldmann ad Althusser 187
4. L’analisi di Althusser della sesta tesi 190
5. Uno o due transindividuali? 192
6. Una critica della ‘genesi’ 194
7. Il tempo, i tempi 197
8. Il soggetto, i soggetti 199
9. Marx, Freud e Darwin 204
Jason Read
LA PRODUZIONE DELLA SOGGETTIVITÀ.
DAL TRANSINDIVIDUALE AL COMUNE 207
1. Dal Gattungswesen al transindividuale 209
2. Dal transindividuale al comune 215

Andrea Cavazzini
CELLULE, ORGANISMI, COMUNITÀ.
IL TRANSINDIVIDUALE NELLE SCIENZE
DELLA VITA CONTEMPORANEE 231
1. L’individuazione nelle scienze biologiche 231
2. La disgiunzione tra il vivente e il senso 248

Felice Cimatti
«L’INDIVIDUO È L’ESSERE SOCIALE».
MARX E VYGOTSKIJ SUL TRANSINDIVIDUALE 253
1. «La coscienza è un rapporto sociale» 253
2. Vygotskij e la relazione individuo-società 259
3. Dal transindividuale all’individuo 264
4. Il ‘pensiero verbale’ 266
5. Individuazione e transindividuale 269

Patrice Maniglier
AMBIENTI DI CULTURA. UN’IPOTESI SULLA COGNIZIONE UMANA 273
1. L’ipotesi cognitiva: parlare è calcolare 276
2. Parlare è percepire 279
3. Linguaggi impercettibili? 287
4. Fisica della cultura e filosofia della mente 291

Guillaume Sibertin-Blanc
CONCATENAZIONE COLLETTIVE D’ENUNCIAZIONE, MODI DI PRODUZIONE
ENUNCIATIVI E SOGGETTIVAZIONE: DELEUZE E GUATTARI
CON ALTHUSSER 305

Francisco Naishtat
AZIONE, EVENTO E STORIA. ONTOLOGIE DELL’ACCADUTO 325
1. Introduzione 325
2. Il ritorno dell’azione 327
3. Dall’ontologia dell’azione all’ontologia dell’evento 329
3.1. Ontologia dell’azione, linguaggio e storia 331
3.2. Collettività, azione ed evento 338
4. Ontologia dell’evento 343

Bruno Karsenti
IL TOTEMISMO RIVISITATO 347
1. La cosa churinga 349
2. Il simbolismo dell’emblema 352
3. Un’‘aura di impersonalità’ 356
4. L’intichiuma 359
5. Comunione e oblazione 365
6. Totemismo o sacrificio 367
7. Mimetismo 371

GLI AUTORI 377


9

ETIENNE BALIBAR, VITTORIO MORFINO


INTRODUZIONE

1. Esiste una tradizione del transindividuale?

Se volessimo cercare nella storia del pensiero novecentesco una sorta di


tradizione della transindividualità, resteremmo probabilmente delusi. Non
solamente la frequenza del termine è estremamente rara, ma anche nei po-
chi casi in cui è stato usato non è possibile identificare, da un autore all’al-
tro, uno statuto teorico chiaramente definito, né una univocità e continuità
d’uso. Per non fare che dei brevi esempi, in Kojève il termine appare in
alcune pagine della sua celebre Introduction à la lecture de Hegel1, nell’a-
nalisi della ‘coscienza infelice’, per indicare il divenire sociale dell’azione
dell’uomo, l’universalità dell’individuo sociale contrapposto all’individuo
isolato; in Lacan appare di passaggio in «Funzione e campo della parola
e del linguaggio» riferito all’ordine simbolico2; infine, con una frequenza
molto maggiore, negli ultimi scritti di Lucien Goldmann, al servizio di una
sociologia marxista della letteratura che identifica il vero soggetto della
creazione letteraria3 non nell’individuo singolo, ma nel soggetto transindi-
viduale appunto, inteso nel senso di soggetto collettivo, di classe sociale.
Ma, per noi più significativo, l’uso che ne ha fatto Gilbert Simondon in
una tesi di dottorato sostenuta negli anni Cinquanta, la cui ultima parte ha
visto la luce postuma nel 1989 con il titolo di L’individuation psychique et
collective. Come ha scritto Etienne Balibar,

[si tratta di] un ambizioso tentativo di definire una struttura delle scienze
umane attraverso la critica [delle] dottrine metafisiche dell’individualità, che
conducono al classico dualismo di interno ed esterno, di conoscenza a priori

1 A. Kojève, A, Introduction à la philosophie de Hegel, Gallimard, Paris 1947, pp.


69-72, tr.it. a cura di G.F. Frigo, Adelphi, Milano 1996, pp. 87-92.
2 J. Lacan, Ecrits, Seuil, Paris 1966, pp.257-258, tr. it. di G. Contri, Einaudi, Torino
1974, pp. 251-252.
3 Cfr. L. Goldmann, «Pensée dialectique et sujet transindividuel», in Id., Théorie de
la création litteraire, Denoël / Gonthier, Paris 1971, pp. 121-154.
10 Il transindividuale

e a posteriori, di ‘psicologismo’ e di ‘sociologismo’. [Queste] hanno sempre


subordinato la comprensione dell’individuazione (ontogenesi) alla definizione
dell’individuo inteso come forma (idealmente) immutabile, [mentre] la fisica
e la biologia moderne (comprese alcune discipline come lo studio dello svi-
luppo delle strutture cristalline e la biologia dei processi cognitivi, nei quali
l’adattamento al cambiamento ambientale richiede l’emergere di nuove strut-
ture) forniscono strumenti decisivi per progettare un nuovo concetto genera-
le di ontogenesi, mostrando che le forme permanenti (che riducono l’energia
potenziale al minimo) sono meno importanti nei processi naturali rispetto agli
equilibri metastabili (che richiedono un aumento del potenziale di energia che
deve essere preservato generalmente nella polarità tra individuo e ambiente)4.

‘Transindividuale’ in Simondon è precisamente il nome del darsi ad un


tempo dell’individuazione psichica e di quella collettiva. Né preesistenza
dell’individuo rispetto alla società, né preesistenza della società rispetto
all’individuo. È da questo significato del termine ‘transindividuale’ che sia-
mo partiti ed è a partire da esso che si è tentato, da una parte, di costruire
una sorta di genealogia filosofica del transindividuale da Averroè a Spinoza
sino a Marx e ai suoi interpreti novecenteschi (i testi di Illuminati, Gainza,
Montag, Balibar, Morfino, Read), la cui impossibile linearità apre su un
gran numero di questioni che non possono essere evitate e su cui tuttavia
si può solo cominciare a formulare qui una risposta, e dall’altra di mostra-
re come ‘il transindividuale’, inteso non come categoria prescrittiva, ma
come tema o, meglio, come sintomo di un problema, emerga tanto nelle
scienze della vita (Cavazzini) quanto nelle cosiddette scienze umane, dalla
psicologia evolutiva (Cimatti) all’antropologia (Karsenti) e alla sociologia
(Lordon), dalla linguistica (Sibertin Blanc) alla filosofia della mente (Ma-
niglier), fino alla teoria della storia (Naishtat), sintomo ogni volta dell’im-
possibilità sia di isolare una singola disciplina, di ritagliare il tutto sociale
separando astrattamente alcuni elementi, sia di porre alla sua base degli
atomi, a qualsiasi livello siano essi pensati.

2. Individuazione e transindividualità in Simondon

Ritorniamo tuttavia brevemente a Simondon per ricostruire il contesto


d’uso del termine ‘transindividuale’. Per riassumere in estrema sintesi il

4 E. Balibar, Spinoza: from Individuality to Transindividuality, «Mededelingen


vanwege het Spinozahuis», 71, Eburon, Delft 1997, tr. it. a cura di L. Di Martino
- L. Pinzolo in Id., Spinoza. Il transindividuale, Edizioni Ghibli, Milano 2002, pp.
112-113.
E. Balibar, V. Morfino - Introduzione 11

percorso teorico attraverso cui Simondon giunge a definirne la specificità,


lo si può ridurre all’enunciazione di due tesi filosofiche di estrema impor-
tanza attraverso cui si propone di tracciare una netta linea di demarcazione
rispetto alla tradizione metafisica Occidentale: la tesi del primato del pro-
cesso di individuazione sull’individuo e quella del primato della relazione
sui termini della relazione.
Nell’Individuazione psichica e collettiva Simondon si propone di fissare
l’attenzione sui processi di individuazione contro una tradizione che ha
concesso un privilegio ontologico all’individuo già costituito. Sia la tradi-
zione sostanzialista che quella ilomorfica (sia pure in contrapposizione tra
di loro) infatti ipotizzano, secondo Simondon,

l’esistenza di un principio di individuazione anteriore all’individuazione stessa,


in grado di spiegarla, provocarla, dirigerla. Si parte dall’individuo bell’e fatto
[constitué et donné], sforzandosi di risalire alle condizioni della sua esistenza5.

La stessa nozione di principio non è altro che una duplicazione concet-


tuale dell’individualità dell’individuo, un presupposto che serve a render
ragione dei caratteri definitivi dell’individuo. Si tratta invece, secondo Si-
mondon, di conoscere l’individuo attraverso l’individuazione anziché l’in-
dividuazione a partire dall’individuo, in altre parole di rovesciare radical-
mente la prospettiva da cui si è osservato l’individuo affermando con forza
il primato dell’individuazione:

L’individuo figurerebbe, allora, come una realtà relativa, come una fase
dell’essere che presuppone una realtà preindividuale. Anche dopo l’indivi-
duazione, l’individuo non esiste in totale isolamento, perché l’individuazione
non esaurisce i potenziali della realtà preindividuale e, per altro verso, perché
l’individuazione non produce soltanto l’individuo, ma la coppia individuo-
ambiente. L’individuo è quindi relativo in un duplice senso: perché non è tutto
l’essere, e perché deriva da uno stato dell’essere in cui non esisteva né come
individuo, né come principio di individuazione6.

Se dunque l’individuo viene pensato non come un dato di cui rende ra-
gione il suo doppio concettuale, il principio, bensì come il risultato di un
processo, appare in primo piano la duplice relazione che esso intrattiene
con il preindividuale e con l’ambiente. Un tale rovesciamento di prospetti-

5 G. Simondon, L’individuation psychique et collective à la lumière des notions de


Forme, Potentiel et Métastabilité, Edition Aubier, Paris 20072, p. 9, tr. it. a cura di
P. Virno, Deriveapprodi, Roma 2001, p. 25.
6 Ivi, p. 12, tr. it. cit., p. 27.
12 Il transindividuale

va è possibile secondo Simondon grazie al concetto di equilibrio metasta-


bile, che egli ricava dal campo della chimica e della biologia. Ora, la meta-
fisica da Aristotele a Leibniz ha pensato la piena reversibilità dei concetti di
essere e uno, e fondato su questa reversibilità i principi di identità e di non
contraddizione, sulla base di un concetto di ordine secondo cui la sostanza
permane e gli accidenti mutano. Simondon, proprio grazie ad un concetto
di ordine differente, l’ordine metastabile, rompe con questo presupposto
scardinando l’unità dell’essere dell’individuo col porlo in una duplice rela-
zione, con il preindividuale e con l’ambiente, che rende del tutto inefficace
l’utilizzo del principio di non contraddizione al suo riguardo:

Per pensare l’individuazione, occorre considerare l’essere non già come


sostanza o materia o forma, ma come sistema teso, sovrasaturo, al di sopra
dell’unità, che non consiste solo in se stesso né può essere pensato adegua-
tamente in base al principio del terzo escluso; l’esser concreto, o essere com-
pleto, ossia l’essere preindividuale, è un essere che è più che unità. L’unità,
caratteristica dell’essere individuato, e l’identità, che autorizza l’impiego del
principio del terzo escluso, non si applicano all’essere preindividuale, il che
spiega perché non si possa ricomporre ex post il mondo con le monadi […].
L’unità e l’identità si applicano soltanto a una delle fasi dell’essere, posteriore
all’operazione di individuazione, esse non si applicano all’ontogenesi nel senso
pieno del termine, cioè al divenire dell’essere in quanto essere che, individuan-
dosi, si sdoppia e si sfasa7.

Simondon presenta l’individuazione fisica e l’individuazione nell’am-


bito del vivente come casi di risoluzione di un sistema metastabile. Tut-
tavia, mentre in ambito fisico l’individuazione avviene «in modo istan-
taneo, quantico, brusco e definitivo, lasciando dietro di sé il dualismo
ambiente/individuo», «il vivente serba in sé una permanente attività di
individuazione»8:

L’individuo vivente – scrive – è un sistema d’individuazione, un sistema che


individua, un sistema che si individua9.

Proprio questo carattere dell’individuazione nell’ambito del vivente


consente a Simondon di pensare il livello psichico e quello collettivo in
termini di individuazioni successive rispetto a quella vitale. Tuttavia l’in-

7 G. Simondon, L’individuation psychique et collective, cit., pp. 13-14, tr. it. cit., p.
28.
8 Ivi, p. 16, tr. it. cit., p. 30.
9 Ivi, p. 17, tr. it. cit., p. 31.
E. Balibar, V. Morfino - Introduzione 13

dividuazione psichica e quella collettiva non sono pensate come successive


l’una all’altra, secondo un modello diacronico di sviluppo, ma in termini
sincronici, come un medesimo processo che dà luogo ad un interno e ad un
esterno. Il concetto di transindividuale è introdotto per dar conto precisa-
mente di questa duplice individuazione, psichica e collettiva, che avviene
ad un tempo. Dunque, il soggetto, l’interno, non precede la relazione, ma
ne è costituito:

Le due individuazioni, la psichica e la collettiva, stanno in un rapporto di


reciprocità e consentono di definire la categoria del transindividuale: quest’ul-
tima intende dar conto dell’unità sistematica dell’individuazione (psichica) e
dell’individuazione esterna (collettiva). Il mondo psico-sociale del transindi-
viduale non è il sociale grezzo, né l’interindividuale; presuppone una realtà
preindividuale, connessa agli individui e capace di determinare una nuova pro-
blematica dotata di una sua propria metastabilità10.

Il transindividuale è dunque il nome della trama complessa di relazioni


che costituisce ad un tempo l’individuazione psichica e quella collettiva.
E qui emerge tutta l’importanza della seconda tesi attraverso cui si è
tentato di delineare la posizione filosofica di Simondon, l’affermazione del
primato della relazione sugli elementi, della costitutività della relazione
rispetto agli elementi, tesi sostenuta anni prima da Whitehead ed in quegli
stessi anni da Paci in opere come Tempo e relazione e Esistenzialismo e
relazionismo, senza peraltro che sia rilevabile una qualche influenza.
La relazione non è mai in Simondon tra due termini preesistenti, ma
costituzione dei termini messi in gioco dalla relazione. In questo senso si
tratta, secondo Simondon, di delineare un nuovo metodo che sia all’altezza
dei concetti di individuazione e di transindividuale:

Il metodo consiste nel non tentare di delineare l’essenza di una realtà per
mezzo di una relazione concettuale tra due termini estremi preesistenti, ma
nell’attribuire a ogni autentica relazione il rango di essere. La relazione è una
modalità dell’essere; essa è simultanea rispetto ai termini di cui garantisce l’esi-
stenza. Una relazione va intesa come relazione nell’essere, relazione dell’esse-
re, modo di essere; non già come mero rapporto tra due termini che, disponen-
do di una preliminare esistenza separata, sono conoscibili adeguatamente per
mezzo di concetti. I termini sono concepiti come sostanze perché la relazione
è rapporto tra termini; e l’essere è suddiviso in termini perché lo si concepisce
già subito come sostanza, prima di ogni disanima dell’individuazione. Là dove
la sostanza cessi di costituire il modello dell’essere, è possibile concepire la

10 Ivi, pp. 19-20, tr. it. cit., p. 32.


14 Il transindividuale

relazione come non-identità dell’essere rispetto a se stesso, inclusione nell’es-


sere di una realtà in certa misura non identica a esso, sicché può essere colto
come più che unità e più che identità. Questo metodo poggia su un postulato
ontologico: all’essere colto prima di ogni individuazione non si applicano il
principio del terzo escluso e il principio d’identità: questi principi si applica-
no solo all’essere già individuato, definiscono un essere impoverito, diviso in
ambiente e individuo; non si applicano dunque alla totalità dell’essere, cioè
all’insieme formato in seguito dall’individuo e dall’ambiente, ma solo alla par-
te dell’essere preindividuale che è diventata individuo. Non è possibile servirsi
della logica classica per pensare l’individuazione, giacché tale logica impone
di pensare l’operazione di individuazione con concetti, e rapporti tra concetti,
che si addicono solo ai risultati, considerati in modo parziale, dell’operazione
di individuazione 11

Questa nuova logica non più fondata sulla sostanza, ma sulla relazione,
permette di pensare il rapporto individuo-società non in termini di primato
di un elemento o dell’altro. Il transindividuale non è altro che la catego-
ria ontologica imposta da questa logica relazionale, è il nome del sistema
metastabile che dà luogo alle individuazioni psichica e collettiva, trama di
relazioni che attraversa e costituisce gli individui e la società, interdicendo
metodologicamente la sostanzializzazione degli uni o dell’altra:

La società – scrive Simondon – non è il prodotto della reciproca presenza di


molti individui, ma non è neppure una realtà sostanziale da sovrapporre agli es-
seri individuali, quasi fosse indipendente da essi. La società è l’operazione, e la
condizione operativa, con cui si determina un modo di presenza più complesso
di quanto sia la presenza dell’essere individuale isolato12.

Precisamente questa concezione della società come operazione che


determina un modo di presenza più complesso permette a Simondon di
sfuggire ad una sostanzializzazione della società. La società non è pensata
sul modello della sostanza etica hegeliana, modello relazionale certo, ma
centrato su una contemporaneità essenziale che fa dell’individuo una pars
totalis. Simondon, attraverso la categoria di transindividuale, propone di
pensare la società non come il sostrato di inerenza di un fascio di relazioni
di cui sarebbe il centro logico o la qualità temporale (lo Zeitgeist), ma come
un sistema di relazioni esso stesso senza centro. In altre parole, la stessa
relazione individuo-società non si dà mai come una relazione semplice, ma
come un sistema di relazioni estremamente complesso e stratificato:

11 Ivi, pp. 23-24, tr. it. cit., pp. 35-36.


12 Ivi, p. 177, tr. it. cit., p. 144.
E. Balibar, V. Morfino - Introduzione 15

[…] è difficile – scrive Simondon – pertanto ritenere che il sociale e l’indi-


viduale si confrontino direttamente in una relazione individuo / società. Questo
confronto è un’evenienza teorica estrema, cui si avvicinano certe situazioni
patologiche; il sociale si sostanzializza in società per il delinquente o l’alienato,
forse per il bambino; ma l’autentico sociale non è sostanziale, perché esso non
è il termine della relazione: è sistema di relazioni, sistema che implica una re-
lazione e l’alimenta. L’individuo entra in rapporto al sociale soltanto attraverso
il sociale13.

Simondon conclude «che non vi è qualcosa di psicologico e qualcosa di


sociologico, ma solo l’umano che in rare situazioni limite, può sdoppiarsi
in psicologico e sociologico»14.
Queste in estrema sintesi le coordinate concettuali dell’uso simon-
doniano del termine ‘transindividuale’, di cui il lettore potrà trovare un
approfondimento nel testo di Muriel Combes che apre la nostra raccolta:
siamo molto felici di aver ottenuto il permesso di pubblicare questo te-
sto, capitolo centrale del suo libro dedicato a Simondon15, di gran lunga
la migliore presentazione del pensiero di questo autore disponibile oggi a
livello mondiale. Tuttavia, nella prospettiva di questo progetto, il concetto
simondoniano di transindividuale non costituisce un’origine ‘semplice’ e
‘pura’, ma piuttosto la delineazione di un quadro generale tutto da definire
nei dettagli, sia dal punto di vista della storia del pensiero che dal punto
di vista delle singole discipline che il tema del transindividuale attraversa:
biologia, psicologia evolutiva, psicoanalisi, antropologia, sociologia, lin-
guistica, filosofia della mente etc.

3. Il transindividuale nella storia del pensiero: Averroé, Spinoza, Marx

Dal punto di vista della storia del pensiero ritrovare il problema del
transindividuale nell’epoca dell’immagine del mondo, nell’epoca in cui si
costituisce con Cartesio (ma assai più con Locke, nonostante la vulgata
heideggeriana) e con Leibniz la metafisica del soggetto e dello spazio di
interiorità a partire da cui sarà costruito il modello della intersoggettività
(per esempio Husserl nel costruire l’intersoggettività trascendentale pro-
pone una prima fase cartesiana ed una seconda monadologica-leibniziana),

13 Ivi, p. 179, tr. it. cit., p. 146.


14 Ibidem.
15 M. Combes, Simondon, individu et collectivité. Pour un philosophie du transindi-
viduel, PUF, Paris 1999.
16 Il transindividuale

significa riconoscere nel cuore stesso della modernità delle alternative


radicali, ed in particolare quella costituita da Spinoza. In Spinoza infatti
l’Io e la coscienza sono immaginari: il concetto di coscienza spinoziano
funziona in termini precisamente opposti a quello lockiano che Heidegger
attribuisce a Descartes, secondo cui «l’ego del cogitare trova […] la sua
essenza nella simultaneità autoassicurantesi dell’esser-rappresentato, nella
con-scientia»16. In Spinoza la coscienza, lungi dall’essere il luogo in cui
un self è presente a se stesso, è il nome, almeno in prima istanza, di una
conoscenza inadeguata. Proprio questa inadeguatezza fa della coscienza
il luogo d’origine di un’illusione necessaria, l’illusione finalistica, la cui
genesi è mostrata nell’appendice alla prima parte dell’Etica:

[…] gli uomini nascono ignari delle cause delle cose, mentre tutti deside-
rano la ricerca del proprio utile, del che sono conscii [sunt conscii]. Da questa
condizione segue in primo luogo che gli uomini si ritengono liberi, perché sono
consci [sunt conscii] delle proprie volizioni e del proprio desiderio, mentre
delle cause, dalle quali sono indotti a desiderare e a volere, neppure si sognano,
perché ne sono ignari. In secondo luogo, segue che gli uomini fanno tutto in
vista di un fine, e cioè in vista dell’utile che desiderano; per cui avviene che
aspirano sempre a conoscere soltanto le cause finali17.

La coscienza immediata può così immaginarsi come luogo della tra-


sparenza e della libertà, centro di un universo preparato da Dio per l’utile
umano, solo in quanto è strutturale esclusione della conoscenza delle cause
sia della natura sia delle azioni umane: conscius sui et ignarus causarum
rerum, ripete più volte Spinoza18.
Se dunque si volesse proiettare il modello dell’intersoggettività sulla
problematica spinoziana, lo si potrebbe fare a patto di spostarlo dal piano
ontologico al piano dell’immaginario. La transindividualità non è sempli-
cemente il nome spinoziano dell’intersoggettività, ma è qualcosa di radi-
calmente differente: la transindividualità precede e costituisce il tessuto

16 M. Heidegger, Die Zeit des Weltbildes, in Id., Gesamtausgabe, Band 5 (Holzwe-


ge), Klostermann, Frankfurt 1977, p. 110, tr. it. a cura di P. Chiodi, La Nuova
Italia, Firenze 1984, p. 96, nota.
17 B. Spinoza, Ethica I, app., in Id., Opera, Bd. 2, hrsg. von C. Gebhardt, Winters,
Heidelberg 1925, p. 78, tr. it. di E. Giancotti, Editori Riuniti, Roma 1988, p. 117.
18 Da cui l’unica possibile via d’uscita verso un’altra forma di coscienza, come
conoscenza adeguata della relazione tra il corpo e la natura (indicata nella parte
quinta dell’Etica), può darsi nella conoscenza delle cose attraverso ‘nozioni
comuni’ (cfr. E. Balibar, «A note on ‘Consciousness/Conscience’ in the Ethics»,
in Studia Spinozana, 8, 1994, pp. 37-53, tr. it. in Id., Spinoza. Il transindividuale,
cit., pp. 149-167).
E. Balibar, V. Morfino - Introduzione 17

immaginario al cui interno prende senso il concetto di intersoggettività. Se


infatti prendiamo sul serio il concetto spinoziano di modo, scopriremo che
il modo è precisamente ciò che è sempre in alio, che può sussistere solo
in un tessuto di relazioni che lo attraversa e lo costituisce19. L’individuo,
che si immagina come ego e come coscientia, è sempre-già attraversato
dall’alter, ma non in quanto alter-ego, anch’esso evidentemente tanto im-
maginario quanto l’ego, ma in quanto trama complessa di corpi, di pas-
sioni, di pratiche, di idee, di parole, trama complessa di temporalità non
riducibile alla contemporaneità essenziale della comunità husserliana né
al giorno spirituale della presenza che costituisce il destino del processo
storico hegeliano.
Lo stesso Marx nel paragrafo sul feticismo del Capitale fa del soggetto il
risultato e non il presupposto della società intesa come «l’insieme delle at-
tività di produzione, di scambio e di consumo»20. In altre parole il feticismo
non riguarda solo la costituzione delle merci e del denaro come un’ogget-
tività di fronte a dei soggetti presupposti, pensabili secondo il modello tra-
dizionale della coscienza, bensì la costituzione, nel campo transindividuale
delle relazioni sociali, «di soggetti che sono parti dell’oggettività stessa»:

Questi soggetti, non costituenti ma costituiti, sono molto semplicemente


i ‘soggetti economici’, o, più esattamente, sono tutti gli individui che, nella
società borghese, sono prima soggetti economici (venditori e compratori, dun-
que proprietari, non foss’altro che della propria forza-lavoro, cioè proprietari
e venditori di se stessi in quanto forza-lavoro […]). Il rovesciamento operato
da Marx è dunque completo: la sua costituzione del mondo non è opera di un
soggetto, ma è una genesi della soggettività (una forma di soggettività storica
determinata) come parte e (contropartita) del mondo sociale dell’oggettività21.

19 Questa tesi fondamentale spiega come la ripresa apparente di una definizione


Scolastica del rapporto tra sostanza e modo, secondo cui il modo esiste sempre
in un altro essere, la sostanza, abbia in realtà un significato assai più profondo:
il fatto che la sostanza consiste nell’interazione dei modi. In questo senso Pierre
Macherey può giungere ad affermare che «a parlare in termini propri non esistono
che relazioni» (Hegel ou Spinoza, Maspero, Paris 1979, p. 218).
20 E. Balibar, La filosofia di Marx, tr. it. di A. Catone, Manifestolibri, Roma 1994, p.
72. Cfr. anche E. Balibar, «Le contrat social des marchandise: Marx et le sujet de
l’échange», in Id., Citoyen sujet et autres essais d’anthropologie philosophique,
PUF, Paris 2011, pp. 315-342.
21 E. Balibar, La filosofia di Marx, cit., p. 73.
18 Il transindividuale

Di questa modernità alternativa, Augusto Illuminati ci propone una ge-


nealogia che non è forse l’unica possibile22. Nel suo saggio dedicato all’in-
telletto materiale nella tradizione aristotelica, ricostruisce la storia che ha
condotto Averroè a formulare la teoria dell’unicità, impersonalità, eternità
e immaterialità dell’intelletto potenziale e ne mostra sinteticamente le co-
ordinate teoriche. La novità introdotta da Averroé non consiste tanto nel
pensare come unico e impersonale il principio razionale attivante, cosa
che, come egli sottolinea, «è pacific[a] in tutta la tradizione antica», quanto
nel pensare lo stesso soggetto ricettivo delle forme intellegibili come non
individuale. In altre parole il pensiero è solo accidentalmente individuale,
la sua natura è in realtà comune:

Il monopsichismo privilegia l’aspetto intenzionale dell’oggettività dei


contenuti della conoscenza (garantiti rispetto al senso dall’esistenza di ogget-
ti esterni, rispetto all’intelletto dalle immagini sensibili) nei confronti della
struttura soggettiva della conoscenza, secondo un approccio affine alla cultu-
ra greca e musulmana più attenta all’unità della ragione, ma piuttosto ostico
all’individualismo cristiano, per cui l’oggettività è autorevolmente garantita
da un Dio-persona amoroso e provvidenziale (che non può ingannare, come
spiegherà Cartesio)23.

Come ha scritto lo stesso Illuminati in una introduzione ad una bella


antologia di scritti di Averroè,

la novità sta nel rilievo transindividuale conferito all’intelletto materiale, il solo


specifico dell’uomo, dato che le sfere celesti o gli angeli sono totalmente in atto
[...] e gli animali hanno anima sensitiva ma non intelletto. La mossa strategica
consiste invero nel sottrarre l’intelletto materiale alla corruttibilità e nell’og-
gettivare scienza e immortalità in un corpo collettivo sovraindividuale ma non
trascendente24.

Siamo, secondo Illuminati, sulla soglia della definizione dell’intelletto


unico come comunità linguistica. Tuttavia questo intelletto comune è del
tutto indipendente dalle pratiche sociali e dalla modificazioni della natura,
esso ha un’indole istantanea, non cumulativa, del tutto estranea a tecnica
e lavoro.

22 Per il tentativo di tracciare una differente genealogia che abbozza una tradizione
Lucrezio, Machiavelli, Spinoza cfr. V. Morfino, «Lucrezio e la corrente sotterranea
del materialismo», in F. Del Lucchese, V. Morfino, G. Mormino (a cura di),
Lucrezio e la modernità. I secoli XV-XVII, Bibliopolis, Napoli 2011, pp. 35-60.
23 Infra, p. 84.
24 Averroè e l’intelletto pubblico, Manifestolibri, Roma 1996, p. 58.
E. Balibar, V. Morfino - Introduzione 19

Sullo sfondo della sua ricostruzione Illuminati lascia intravedere una


storia sotterranea dell’intelletto materiale unico che si contrappone alla
tradizione neoplatonica e cristiana della coscienza individuale, che fa
dell’individuo un soggetto giuridico responsabile delle proprie azioni,
«secolarizzazione del peccatore in materia segnata dalla legge». Averroè
è dunque per Illuminati l’autore della prima formulazione del tema della
transindividualità, all’origine di una tradizione differente rispetto a quella
che ha portato «al pensiero unico liberale, nella sua duplice declinazione
di soggetto prometeico e vittimario». Toccherà a Spinoza l’arduo compito
di riformulare questa tradizione dell’intelletto spersonalizzato averroistico,
liquidando però ogni elemento estraneo alla materia. In Spinoza infatti

scompare ogni comando diretto o superiorità gerarchica della mente sul corpo,
come nel rapporto platonico pilota-nave o in quello aristotelico forma-materia
organata o nell’assunto di una sostanza originaria e autoevidente in quanto
creata da Dio25.

Proprio agli albori dell’epoca moderna, epoca dominata dalla figura te-
orica del soggetto, Spinoza afferma che il pensiero non è l’attributo essen-
ziale di una sostanza individuale (il cogito), ma un reticolo di passioni e
idee che attraversa e costituisce gli individui come grumi temporanei. La
modernità filosofica è semplicemente rifiutata: la mente non è soggetto,
l’idea non è rappresentazione, la coscienza, lungi dall’essere la luce inte-
riore della verità, è il terreno opaco in cui si radica il pregiudizio finalisti-
co. Leibniz aveva fiutato in una nota agli Opera posthuma tracce di aver-
roismo, intuizione che Illuminati rilancia, proponendo una vera e propria
lettura avveroista di Spinoza e individuando il luogo teorico dell’intelletto
comune: il modo infinito mediato dell’attributo pensiero, cui Spinoza non
dà un nome a differenza del modo infinito mediato dell’estensione, la pri-
ma facies totius universi. L’intelletto comune è la facies totarum mentium
che tuttavia non rimane, come in Averroé, separato dalla materia, ma è ben-
sì incarnato in un corpo comune, non chiuso e identitario come il popolo
hobbesiano, ma plurale e attraversato dal conflitto: la multitudo.
Mariana Gainza insiste espressamente sul concetto di transindividuale
in relazione al pensiero spinoziano attraverso la definizione della specifi-
cità del concetto di modo e della tracciabilità del confine tra interiorità ed
esteriorità in una tale problematica. Sono presi in esame a questo scopo due
luoghi salienti della produzione teorica spinoziana: la lettera 12 sull’infi-

25 A. Illuminati, Del comune. Cronache del General Intellect, Manifestolibri, Roma


2003, p. 69.
20 Il transindividuale

nito e la lettera 32 sul tutto e la parte. Nell’analisi dell’esempio spinoziano


dei due cerchi non concentrici della lettera 12 viene messo in luce come il
concetto di limite messo in gioco non sia statico, non sia il limite stabilito
«da una circoscrizione fissa di uno spazio», ma sia piuttosto costituito dalla
«variazione senza fine di una infinità di passaggi o transizioni». In altre
parole, l’esempio geometrico esibisce il modo in cui l’esistenza di una cosa
limitata coincide con la sua essenza:

La materia, nell’esempio, continua indefinitamente il proprio movimento,


attraversando gli infiniti stadi che la fanno essere ciò che è, in una esistenza
infinitamente variabile che tuttavia si trova compresa entro certe soglie dell’e-
stensione che definiscono la sua natura (un massimo e un minimo) associate
a loro volta a ciò che questo spazio materiale è in virtù della determinazione
esterna dei suoi limiti26.

Nell’analisi della lettera 32 viene messo in luce come la natura relazio-


nale dell’esistenza modale faccia dei concetti di tutto e parte dei meri enti
di ragione. Ogni modo è infatti tutto rispetto alle sue parti e parte di un
tutto più ampio senza che un limite ultimo si possa trovare né alla scompo-
sizione nei corpora simplicissima né alla composizione nella natura intesa
come individuo totale: tanto gli uni quanto l’altra sono termini-limite o, per
usare la terminologia spinoziana, auxilia imaginationis, a cui in realtà non
corrisponde alcuna realtà ontologica. In altre parole, per Spinoza, non esi-
stono infiniti livelli di esistenza di individui tra i corpi semplici e la natura
intesa come individuo complessivo, ma esistono infiniti livelli di esisten-
za di individualità di complessità crescente tout court, e ciò che Spinoza
chiama natura è precisamente l’esistenza stessa di questi infiniti livelli di
complessità che non può essere ridotta né nell’infinitamente piccolo né
nell’infinitamente grande.
L’individuo in termini spinoziani non è dunque pensabile come una mo-
nade chiusa ma come un composto di individui che a sua volta entra nella
composizione di individui di livello superiore: qualunque livello si scelga
di considerare, si troverà sempre l’individuo come momento doppiamen-
te provvisorio fra due livelli di individualità, si troverà cioè, per usare la
terminologia di Simondon, che l’individuo è in realtà secondo rispetto al
processo di individuazione che lo costituisce come tale. Un breve confron-
to con Leibniz riguardo al tema delle relazioni può essere qui chiarifica-
tore: la teoria dell’armonia prestabilita impone che ogni determinazione
estrinseca sia in realtà fondata in una determinazione intrinseca, ossia che

26 Infra, p. 98.
E. Balibar, V. Morfino - Introduzione 21

ogni relazione esteriore sia fondata in una proprietà della monade, sia uno
stato interno della monade (ed ogni stato è infinitamente complesso perché
deve esprimere tutto l’interindividuale a livello intraindividuale), mentre in
Spinoza ogni determinazione intrinseca è in realtà fondata su un complesso
gioco di determinazioni estrinseche (senza peraltro che le determinazioni
estrinseche possano contenere in anticipo la determinazione intrinseca),
ossia ogni proprietà di un individuo è prodotta dal complesso gioco di rela-
zioni che ha costituito la sua individualità.
Data questa lettura del limite e della parte è possibile infine prendere
le distanze da una interpretazione essenzialistica del conatus spinoziano.
Questo non è un’interiorità data una volta per tutte, un interno reso traspa-
rente se non dalla coscienza di sé, quantomeno da una essenza intima, una
delle tante metamorfosi – cioè – del soggetto moderno, ma un intreccio di
relazioni di cui interno ed esterno non sono che l’effetto permanentemente
variabile:

L’essenza permanentemente variabile di ogni uomo è costituita, dunque, da


questi sforzi, impeti, appetiti, volizioni, in generale «a tal punto opposti gli uni
agli altri», che diviene impossibile associarla con una limpida e calma identi-
tà continuamente affermata. L’essenza dell’uomo è il desiderio e questo fa di
ogni essenza umana singolare qualcosa di definito necessariamente dalla sua
apertura agli altri uomini e al resto delle cose che costituiscono il mondo. E
per questo un filosofo come Leibniz non smise di ribadire – di fronte a coloro
che lo accusavano di spinozismo –, che in alcun modo è possibile confondere le
monadi (senza porte né finestre) con gli individui così come sono concepiti da
Spinoza, individui che non conservano dentro di loro il principio della propria
azione e che dipendono necessariamente da altri individui con i quali sono in
relazioni che sono, per ciascuno di essi, costitutive27.

Ad una precisa demarcazione tra la problematica spinoziana del transindi-


viduale ed il modello individualistico proposto da Adam Smith è dedicato il
saggio di Warren Montag. Mossa preliminare ad una precisa demarcazione del
modello spinoziano è quella di smascherare il pregiudizio secondo cui Smith
fonderebbe la socievolezza umana sul sentimento di ‘simpatia’. In realtà,

l’apertura della Theory of Moral Sentiments, Parte I, Capitolo 1, è costituita da


un doppio movimento che conserva l’idea di ‘simpatia’, o forse semplicemente
la parola, solo nella misura in cui la svuota di ogni contenuto o significato che
eccederebbe il confine che delimita l’individuo28.

27 Infra, p. 105.
28 Infra, p. 108.
22 Il transindividuale

L’operazione messa in atto da Smith consiste nel tradurre la simpatia,


fenomeno di trasmissione e comunicazione di affetti da un individuo ad
un altro, quindi fenomeno intrinsecamente transindividuale, in termini in-
traindividuali: in questo senso la simpatia non solo non dipende dagli altri,
ma, a rigor di termini, non ne richiede nemmeno l’esistenza. Partendo dal
presupposto che gli altri ci sono del tutto inaccessibili, Smith pensa la sim-
patia come proiezione immaginativa della nostra interiorità su quella altrui,
proiezione che non implica in alcun modo un contatto reale con l’interiorità
dell’altro:

Le passioni che «in alcune occasioni possono sembrare trasfuse da un uomo


a un altro istantaneamente, e prima di qualsiasi conoscenza di ciò che le ha
suscitate nella persona principalmente interessata», non possono, in realtà, mai
passare dall’uno all’altro e nemmeno oltrepassare il limite della persona stessa.

Proprio a partire dalla precisa determinazione del modello smithiano


della simpatia come fondamento della socialità Montag si mette in condi-
zione di impedire la sua proiezione a ritroso sulla affectuum imitatio spino-
ziana, leggendo cioè la proposizione 27 della terza parte dell’Etica secondo
il modello di individui originariamente dissociati che rimangono dissociati
anche nella loro imitazione degli affetti degli altri. In questo senso, come
scrive Montag in un saggio dedicato al concetto spinoziano di multitudo,

l’imitazione degli affetti non sarebbe altro che un atto di proiezione che richie-
de solo che io immagini che l’altro senta piacere o dolore affinché io imiti ciò
che immagino sia il sentimento altrui. Questa è precisamente la definizione
di simpatia data da Adam Smith nella prima parte della Teoria dei sentimenti
morali, al capitolo I. Per Smith non vi è attraversamento del confine che separa
me dagli altri; io non posso mai sapere cosa prova un altro uomo o se prova
qualcosa. La simpatia rimane interna a ciò che Smith chiama lo ‘spettatore’:
costui immagina ciò che egli stesso proverebbe o ha provato in circostanze
simili all’altro. La simpatia per Smith non richiede, a rigore, nemmeno l’esi-
stenza dell’altro. È possibile per me provare pietà per il morto, dato che non
vi è comunicazione o trasferimento di sentimento o affetto attraverso l’infinita
distanza che mi separa dagli altri, ma solamente una proiezione di me stesso29.

L’imitatio affectuum invece non è la proiezione immaginativa del sé


sull’altro, precisamente perché l’immaginazione spinoziana non è un atto

29 W. Montag, «Chi ha paura della moltitudine?», in Quaderni materialisti, 2, 2003,


p. 76.
E. Balibar, V. Morfino - Introduzione 23

della volontà, né qualcosa di circoscrivibile entro i confini della persona.


Come scrive Montag nello stesso saggio,

l’immaginazione, che in certo modo media tra l’interno e l’esterno, tra sé e


l’altro, agendo come canale tra il mio corpo considerato come una cosa singo-
lare e altri corpi altrettanto singolari, dà adito ad una imitazione immediata che
non è tanto una duplicazione dell’affetto di una persona nell’altra, quanto […]
una perpetuazione o persistenza di affetto senza la mediazione della persona.
L’affetto non risulta pertanto contenuto in me o negli altri, ma tra noi30.

Proprio la teoria spinoziana dell’imitazione degli affetti è il punto di


partenza del saggio di Frédéric Lordon, che propone un’analisi del funzio-
namento delle istituzioni attraverso una euristica della crisi da una prospet-
tiva regolazionista: si tratta in altre parole di «cogliere in modo parados-
sale i meccanismi dell’ordine attraverso i momenti privilegiati della sua
decomposizione». In questa prospettiva il Trattato politico è utilizzato non
solo come un’opera esclusivamente politica, ma come la matrice a partire
da cui è possibile formulare una teoria generale delle istituzioni. Intesa
in questo senso ampio la potenza della moltitudine diviene il principio di
esplicazione delle istituzioni tanto nei loro periodi di funzionamento nor-
male quanto nei periodi di crisi. Lordon precisa che il ricorso alla teoria
della imitatio affectuum non deve essere pensata in termini di genesi storica
reale, ma piuttosto come un esperimento capace di isolare nel laboratorio
mentale dello scienziato sociale i meccanismi elementari delle istituzioni
storicamente esistenti. L’imitatio spiega il costituirsi di un affetto comune
che ha la caratteristica di produrre comunità: «il corpo sociale – scrive –
produce comunità quando si autoaffetta di un affetto comune»31. Si tratta,
in altre parole, della produzione immanente di un effetto di trascendenza,
situazione in cui le potenze degli individui si compongono in una potenza
che si eleva al di sopra di loro e ricade su di essi in forma di affetto comu-
ne. Quando questa potenza, che proviene dagli uomini, si concentra su un
intermediario, prima di ricadere su di essi, si genera il potere: «il potere è
la cattura, attraverso un intermediario, uomo o istituzione, della potenza
della moltitudine»32. Da ciò si trae la tesi fondamentale che nasce dall’ap-
plicazione del modello spinozista alle scienze sociali: l’istituzione funzio-
na perché essa si è trovata ad essere investita dell’affetto comune della
moltitudine e per conseguenza l’imperio dell’istituzione, cioè il comando

30 Ivi, p. 77.
31 Infra, p. 130
32 Infra, p. 132.
24 Il transindividuale

ed il controllo esercitato dall’istituzione, deriva dalla moltitudine stessa.


L’istituzione dunque permane sovrana proprio in virtù dell’affetto comune
dell’obsequium, «letteralmente parlando, l’inclinazione a seguire […] le
direttive di condotta della norma»33. Questo affetto non è solo all’origine
dell’istituzione, ma di fatto produce l’istituzione ad ogni istante:

Potremmo essere quasi tentati di dire che l’istituzione non ha alcun momen-
to di inerzia, nel senso particolare in cui il suo destino si gioca sempre in una
contemporaneità assoluta. Se in effetti ad un istante dato l’affetto istituzionale
cade al di sotto della soglia critica, allora costitutivamente, ne segue che il bi-
lancio affettivo netto determini ora gli individui a muoversi al di fuori di questi
rapporti specifici34.

Il ricorso al modello teologico della creazione continuata e alla finzione


scenica della contemporaneità assoluta, permette a Lordon, dentro il labo-
ratorio mentale dello scienziato sociale, di immergere la realtà dell’istitu-
zione nella contingenza dei rapporti di forza: il cadere dell’affetto istitu-
zionale al di sotto della soglia critica è ciò che viene icasticamente definito
‘sindrome Potëmkin’, con riferimento alla scena dell’ammutinamento dei
marinai russi nel celebre film di Ejzenštejn. Quando l’indignatio ha la me-
glio sull’obsequium l’istituzione entra in crisi per l’incapacità di convo-
gliare la potenza della moltitudine secondo i canoni precedenti:

l’unione dei sudditi nell’indignazione segna la formazione di un affetto co-


mune concorrente all’affetto comune istituzionale – la nascita di un affetto co-
mune sedizioso. Si forma dunque una concentrazione di potenza istituzionale
in cui, per dirla in modo diverso, una parte della potenza della moltitudine che
sosteneva l’istituzione si ritira per ritorcersi contro di lei35.

Etienne Balibar ritorna nel suo saggio ad una interpretazione della VI


tesi su Feuerbach di Marx, con una analisi ravvicinata di terminologia e
stile, della complessità del suo tessuto di rinvii alla tradizione, ma anche
della sua discontinuità rispetto ad essa.
Come è noto la tesi marxiana recita:

33 Infra, p. 138.
34 Infra, p. 139.
35 Infra, p. 144.
E. Balibar, V. Morfino - Introduzione 25

[…] l’essenza umana non è qualcosa di astratto che sia immanente all’indi-
viduo singolo. Nella sua realtà essa è l’insieme dei rapporti sociali36.

Balibar lascia emergere da un’analisi dei termini fondamentali delle due


proposizioni (Wesen, Abstraktum, inwohnen, Wirklichkeit, ensemble, ge-
sellschaftliches Verhältnis) la straordinaria portata teorica della tesi mar-
xiana (e l’enjeu delle piccole ma sintomatiche correzioni introdotte da
Engels), il suo debito fondamentale rispetto ad Hegel nell’uso della cop-
pia oppositiva astrazione-realtà, ed allo stesso tempo la presa di distanza
contenuta nell’uso di un Fremdwort, la parola francese ensemble. Se infatti
nella coppia oppositiva astrazione-realtà è possibile cogliere la ripetizione
di una mossa hegeliana, quella con cui nella Fenomenologia dello spirito
il Geist viene innalzato a realtà effettuale di ogni figura individuale e di
conseguenza viene affermata l’astrattezza di ogni considerazione dell’in-
dividuo isolato al di fuori di una dinamica intersoggettiva, istituzionale,
storica, nell’uso della parola francese ensemble vi è una netta presa di di-
stanza da Hegel:

ensemble – scrive Balibar – ha senso se lo vediamo come un’alternativa


a nozioni speculative, che sono centrali nella dialettica hegeliana (ma anche
nel discorso ‘sociologico’ emergente, con la sua ossessione di ‘organicità’),
come das Ganze, die Ganzheit (o Totalität), o die gesamten (gesellschaftlichen
Verhältnisse) cioè il tutto, la totalità (organica delle relazioni sociali). Ciò che
Marx sta qui evitando con cura è una categoria che indichi completezza, pro-
prio nel momento in cui sembra seguire esattamente il movimento hegeliano
che privilegia la ‘concreta universalità’ contro l’‘astrazione’ (dato che il con-
creto e il completo in Hegel sono sinonimi). Dunque si sta allontanando da
Hegel nel momento in cui gli si avvicina di più. Per mettere la cosa in modo
più provocatorio, è come se Marx stesse capovolgendo la scelta hegeliana per il
«buon (o reale) infinito» (che significa un infinito che è integrato nella forma di
una totalità) in favore del «cattivo infinito» (un infinito che è solo ‘indefinito’,
identico con una mera addizione o successione di termini, che rimane aperto)37.

L’uso del termine ensemble ha dunque in prima istanza un effetto nega-


tivo di de-totalizzazione; tuttavia contiene in sé anche delle connotazioni
positive: in primo luogo, l’orizzontalità delle relazioni, ossia il divieto di
individuare una relazione come più essenziale di altre; in secondo luogo,

36 [Marx über Feuerbach], in Marx / Engels Gesamtausgabe, erste Abteilung, Band


5, hrsg. von V. Adoratskij, Verlag Detlev Auvermann, Glashütten im Taunus 1970,
p. 534.
37 Infra, p. 165.
26 Il transindividuale

l’indefinitezza o serialità, cioè il pensare le relazioni come una rete aperta,


senza chiusura né storica né concettuale; infine, in terzo luogo, la moltepli-
cità e l’eterogeneità, ossia la tesi secondo cui le relazioni che costituiscono
l’umano sarebbero un multiversum. Dunque, conclude Balibar:

Scrivere che «nella sua realtà (Wirklichkeit) l’essere/essenza umana (Wesen)


non è un’astrazione che abita l’individuo singolo/singolare/isolato, ma l’en-
semble (aperto, indeterminato) delle relazioni sociali» è un atto performativo
che simultaneamente trasforma il significato di tutti i termini chiave che usa.
Nella misura in cui il termine ‘essenza’ viene applicato in un modo ‘materiali-
sta’ al problema antropologico, acquista anche un paradossale significato (anti)
ontologico per mezzo di cui i suoi effetti riconosciuti sono capovolti: invece
di ‘unificare’ e ‘totalizzare’ una molteplicità di attributi, apre ora una indefinita
gamma di metamorfosi (o trasformazioni) nella misura in cui gli individui sono
essenzialmente ‘modi’ (come direbbe Spinoza) delle relazioni sociali che essi
producono attivamente, o attraverso cui interagiscono collettivamente con altri
e con le ‘condizioni’ naturali. Questa critica rivela che può esservi una singola
alternativa alle apparentemente antitetiche nozioni di individualità e sogget-
tività ereditate dalla metafisica Occidentale – una alternativa che, per quanto
provvisoria, evita di creare una nuova figura dell’‘essere supremo’38.

Le potenzialità della VI tesi vengono ridotte dalla concezione materia-


listica della storia, nella misura in cui il lavoro viene individuato da Marx
come la relazione fondamentale costitutiva dell’umano (riduzione che
ovviamente non deve essere pensata nei termini di tradimento, ma come
prosecuzione, in una congiuntura data, di quella rivoluzione teorica), «al
fine di non ‘aprire’ l’‘ensemble’ delle relazioni sociali nella direzione di
una illimitata variazione di modi eterogenei di socializzazione (dunque an-
che modi di soggettivazione), ma di reinstaurare una quasi-trascendentale
equivalenza del ‘sociale’ (e del ‘pratico’) con l’attributo specificamente
(essenzialmente) umano del ‘lavoro’ (e opera)»39.
Morfino prende invece in esame il tema del transindividuale in Marx
attraverso due letture antitetiche della sua filosofia. Da una parte la lettura
di Lucien Goldmann, che ha fatto un esplicito uso del termine ‘transindivi-
duale’ in funzione anti-individualistica, dall’altra l’interpretazione di Louis
Althusser nella cui produzione teorica il tema non è presente apertis verbis,
ma può essere facilmente rintracciato da una parte nella tesi del primato
della relazione sugli elementi e dall’altro nel rifiuto dei modelli di causalità
meccanica ed espressiva a vantaggio di un modello di causalità strutturale.

38 Infra, p. 167.
39 Infra, p. 177.
E. Balibar, V. Morfino - Introduzione 27

È significativo a questo riguardo che tanto nell’una quanto nell’altra inter-


pretazione la questione del transindividuale in Marx richieda una precisa
definizione della relazione teorica con la posizione di Freud.
Goldmann individua nella VI tesi su Feuerbach il fulcro della defini-
zione marxiana di soggetto transindividuale, proponendo a partire da essa
uno strutturalismo genetico che per ogni ricerca nel campo delle scienze
umane trova il proprio principio di esplicazione non nella tradizione del
soggetto individuale, che da Descartes e Locke giunge sino a Sartre, ma
in un soggetto collettivo, che si incarnerà, nelle opere successive di Marx,
nella classe sociale. ‘Transindividualità’ e ‘intrasoggettività’ sono i concet-
ti attraverso cui Goldmann definisce questa sociologia dialettica di contro
alla tradizione dell’‘intersoggettività’,

concetti strettamente legati che permettono di pensare la struttura reale della


coscienza non come un’entità supra-individuale, ma come ciò che esiste negli
individui presi come parte di un tutto. La coscienza è dunque un fenomeno
transindividuale, coscienza di soggetti collettivi, gruppi umani, gruppi sociali
specifici […]. Questi gruppi sociali, [queste] classi sociali, sviluppano delle
categorie comuni che costituiscono la strutturazione mentale della coscienza
transindividuale del gruppo40.

Goldmann ritiene che la caratteristica fondamentale della strutturazione


delle categorie mentali di un gruppo sociale sia la tendenza ad una signi-
ficazione coerente, coerenza che tuttavia non è mai completamente realiz-
zata se non nel capolavoro letterario che riuscirebbe a fornirla su un pia-
no immaginario, rivelandosi così non come la coscienza reale del gruppo
sociale, ma piuttosto come la sua coscienza possibile. La psicoanalisi di
contro farebbe riferimento come principio esplicativo al soggetto indivi-
duale e, più in specifico, a ciò che Freud chiama libido. Tuttavia, anche a
livello dei concetti fondamentali della psicoanalisi, non è possibile mettere
del tutto tra parentesi il soggetto transindividuale poiché, pur ammettendo
il carattere puramente individuale dell’Es, il Super-io risulta essere l’effet-
to di un complesso intreccio di strutturazioni storico-sociali. Ciò conduce
Goldmann ad affermare che è possibile produrre una conoscenza scientifi-
ca del soggetto individuale solo su un piano pulsionale, sul piano dell’Es,
perché il piano dell’Io e del Super Io appartengono invece alla conoscenza
scientifica del soggetto transindividuale.
Prendendo in esame alcuni testi inediti di Althusser degli anni Sessanta
è possibile far emergere una differente concezione del ‘transindividuale’.

40 Infra, p. 186.
28 Il transindividuale

Accusato da Goldmann di propugnare uno strutturalismo statico in cui


genesi, tempo e soggetto sarebbero annichiliti, è possibile rintracciare in
Althusser non tanto il semplice annullamento di questi concetti, quanto
una critica del legame d’essenza che Goldmann stabilisce tra di essi, cri-
tica in cui consisterebbe la specificità del transindividuale althusseriano,
articolabile secondo tre luoghi teorici fondamentali: in primo luogo, la cri-
tica del concetto di genesi in quanto concetto ideologico che impedisce
di pensare l’emergenza del nuovo proiettando sull’origine l’individuo (la
struttura) che troviamo alla fine del processo; in secondo luogo, la criti-
ca del concetto di tempo storico hegeliano fondato sulla contemporaneità
essenziale dell’epoca da cui emerge una teoria della temporalità sociale
strutturalmente plurale e non-contemporanea; infine una teoria dei discorsi
che mette in luce la complessa articolazione del discorso dell’ideologico
e del discorso dell’inconscio, articolazione secondo cui l’interpellazione
come soggetti degli individui umani produce in loro un effetto specifico,
l’effetto inconscio che permette agli individui di assumere la funzione di
soggetti ideologici:

Althusser insiste sul fatto che non si deve pensare in termini di genesi, di
filiazione dell’inconscio dall’ideologico, ma in termini di articolazione diffe-
renziale. Si tratta: 1) di constatare l’esistenza di un effetto inconscio che costi-
tuisce una struttura autonoma, 2) di pensare l’articolazione di questa struttura
sulla struttura ideologica, evitando sia sociologismo che psicologismo, i quali
ricercano appunto la ‘genesi’41.

Ben lungi dal contrapporre la sfera del soggetto individuale a quella


del soggetto collettivo Althusser costruisce nelle Tre note sulla teoria dei
discorsi una teoria del transindividuale pensato precisamente come trama
di relazioni costitutive tanto del soggetto individuale quanto di quello col-
lettivo, o meglio dell’effetto di soggettività che risulta dall’articolazioni dei
differenti livelli del discorso.
Prendendo avvio sempre da Marx, ma esplorando un altro percorso della
sua tradizione interpretativa, quello che conduce dall’operaismo italiano
alle riflessioni di Virno sul transindividuale, Jason Read propone di fissare
l’attenzione sulla questione della ‘produzione della soggettività’, scansan-
do preliminarmente il pregiudizio secondo cui parlare di soggettivazio-
ne significherebbe affermare che «tutto è effetto di potere e che l’agire e
l’azione non possono esistere»42. In realtà,

41 Infra, p. 201.
42 Infra, p. 207.
E. Balibar, V. Morfino - Introduzione 29

solo esaminando il modo in cui la soggettivazione è prodotta possiamo com-


prendere come essa potrebbe essere prodotta altrimenti, trasformando se stessi,
invertendo una condizione passiva in un processo attivo. La connessione tra
produzione e politica che sostiene il progetto marxista resta sempre valida,
ma la produzione necessita di essere compresa nel senso più ampio, non solo
in quanto lavoro, in quanto fatica spesa nella fabbrica, ma come miriade di
modi in cui le azioni, le abitudini e il linguaggio producono effetti, compresi
gli effetti sulla soggettività, sui modi di percepire, comprendere e rapportarsi
al mondo43.

Read propone di pensare la produzione di soggettività in primo luogo


lungo i due assi che essa taglia trasversalmente, l’asse base/sovrastruttura e
quello struttura/soggetto. In questo senso è proposta una lettura dell’opera
marxiana attraverso «l’intersezione di un modo di produzione e di un modo
di assoggettamento»44, lettura che «trova un supporto testuale nei moltepli-
ci luoghi in cui Marx fa riferimento alla preistoria del capitalismo, al crollo
del feudalesimo e ai modi precedenti di produzione»45, dato che «non è
sufficiente per il capitalismo costituirsi economicamente, sfruttare i flussi
di ricchezza e di lavoro, ma deve costituirsi anche soggettivamente, svi-
luppare i desideri e gli habitus necessari per la sua auto-perpetuazione»46.
Dunque la produzione di soggettività è allo stesso tempo produzione di
cose e costituzione di idee e desideri, non mero assoggettamento alla strut-
tura economica, ma produzione di effetti che possono porsi anche in un
rapporto antagonistico rispetto alle sue istanze:

Il soggetto è in un certo senso un effetto della struttura, ma non è mai solo


un effetto della struttura. Questo può essere correlato alla logica dell’antago-
nismo nel Capitale di Marx, dalla discussione del processo lavorativo fino alla
lotta sull’orario giornaliero di lavoro: ad ogni passo i soggetti che il capitale
produce, tramite addestramento, educazione e habitus, producono un surplus
di soggettività, di desideri e bisogni, in lotta contro il sito stesso della loro
costituzione47.

Read mostra come in questa prospettiva siano intrinsecamente intrec-


ciati due problemi apparentemente distinti, quello di un’ontologia sociale
e quello politico, «uniti dalla difficoltà di immaginare forme differenti di

43 Infra, p. 208.
44 Ibidem.
45 Ibidem.
46 Ibidem.
47 Infra, p. 209.
30 Il transindividuale

collettività, un compito che richiede la creazione di nuovi modi di pensiero


e la distruzione di un’ontologia individualistica»48:

Muovere dalla produzione di soggettività significa che il soggetto, l’indivi-


duo, dev’esser visto come prodotto, come un effetto, e che quindi esso non può
avere il privilegio della datità, della base irriducibile dell’ontologia, dell’epi-
stemologia e della politica. Inoltre, tener fermo ad entrambi i sensi del genitivo,
cioè alla simultanea non-identità del modo in cui la soggettività è produttiva e
prodotta, significa che il soggetto può essere visto non solo come un semplice
effetto della società. Così, le due vie alla comprensione della relazione tra l’in-
dividuo e la società, iniziare dagli individui come un dato e comprendendo la
società come null’altro che la somma totale degli individui, o invece iniziare
dalla società e vedere gli individui come semplici effetti di una struttura più
ampia, sono esclusi dall’inizio. […] Così, il problema politico e il problema
ontologico si rivelano, se non identici, almeno assai simili; in ciascun caso si
tratta di pensare al di là dell’opposizione tra individuo e società, di spostarsi
al di là di questi punti di partenza per cogliere il nesso produttivo da cui gli
individui come le collettività emergono49.

Il pensiero di Marx tenta di rompere tanto con l’opzione olistica quanto


con quella individualistica: «nucleo della critica dell’economia politica di
Marx – secondo Read – dai primi testi sull’alienazione fino al Capitale, è
l’idea che il capitale non sfrutta solo gli individui, ma le stesse condizioni
collettive della soggettività, a cui Marx si riferisce con il termine essenza
generica (Gattungswesen)»50. Questa essenza generica era considerata da
Marx come fondamentalmente costituita dal lavoro. Ora, il lavoro, inteso
come produzione materiale, ha una natura transindividuale:

Il lavoro è inevitabilmente collettivo, in parte perché ingloba le basi bio-


logiche della soggettività; esso è correlato alla nostra condizione comune di
necessità biologica. Il lavoro non è solo una costante antropologica che defi-
nisce la relazione metabolica dell’uomo con la natura: esso comporta abilità,
strumenti e conoscenze, tutti prodotti dalla storia e dalle relazioni sociali. Il
lavoro è l’inevitabile relazione dell’umanità con la natura, e la costituzione di
una seconda natura inorganica. Il lavoro è costituito da, e costituisce, habitus,
pratiche e schemi operativi che attraversano gli individui, creando una relazio-
ne sociale ed un patrimonio condiviso di conoscenze. Il lavoro non è solo una
condizione passivamente condivisa, quella del bisogno, ma ci pone attivamente
in una relazione di reciprocità: lavorare è sempre lavorare in relazione ad altri.
Le affermazioni più chiare di Marx a proposito dello sfruttamento capitalistico

48 Ibidem.
49 Ibidem.
50 Infra, p. 210.
E. Balibar, V. Morfino - Introduzione 31

delle condizioni collettive della soggettività si trovano nel capitolo del Capitale
dedicato alla cooperazione. Come Marx osserva, quando un gran numero di
persone sono riunite in un luogo come un’officina, la somma totale della loro
attività produttiva eccede quella dei lavori singoli dello stesso numero di indi-
vidui, ma isolati. […] Lo sfruttamento non riguarda l’individuo, l’alienazione
di ciò che è unico e proprio all’individuo, ma piuttosto ciò che è im-proprio
all’individuo, e che esiste solo in relazione51.

Tuttavia, benché Marx collochi al centro del Capitale lo sfruttamento


delle condizioni collettive del lavoro, secondo Read non analizza queste
teoricamente. In questo senso è di grande importanza il prolungamento
della teoria marxiana presente nella teoria del transindividuale proposta
da Virno usando Simondon, in cui è posto l’accento sul fatto che sensa-
zione, linguaggio e relazioni produttive52 non sono proprietà del singolo
individuo, ma devono essere pensati come elementi preindividuali, come
precondizioni della soggettività, che tuttavia non si esauriscono mai una
volta per tutte nei soggetti, ma costituiscono una trama transindividuale
metastabile (cioè un sistema di relazioni in continua trasformazione). Data
questa articolazione di preindividuale e transindividuale proposta da Virno,
Read definisce la sussunzione reale come «uno sfruttamento accresciuto
del transindividuale e una mercificazione del preindividuale»53:

La sussunzione reale della soggettività al capitale è articolata da due diffe-


renti produzioni di soggettività, ciascuna definita da settori economici diffe-
renti: in termini di produzione, c’è un movimento di allontanamento dal lavoro
come impresa solitaria, dal lavoro dell’artigiano il cui sforzo individuale or-
ganizza il processo di lavoro, e di avvicinamento ad un lavoro che impegna la
conoscenza e il desiderio dell’umanità in generale, mentre, simultaneamente,
dal lato del consumo, si assiste ad una riduzione del mondo intero a ciò che
può essere posseduto, goduto nel comfort della vita privata – una privatizza-
zione massiccia del desiderio. […] Questa divisione tra produzione e consumo
definisce in una certa misura il paradosso dell’esistenza sociale sotto il regime
capitalistico contemporaneo: mai gli esseri umani sono stati più sociali nella
loro esistenza, né più individualizzati, privatizzati, nel modo di comprendere
attivamente la loro esistenza. Da un lato, la più semplice delle azioni dal cuci-
nare un pasto allo scrivere un saggio impegna il lavoro di individui distribuiti
su tutto il globo terrestre, materializzato in merci, habitus e macchine; mentre,

51 Infra, p. 211.
52 Cfr. P. Virno, «Postfazione» a G. Simondon, L’individuazione psichica e colletti-
va, cit., pp. 231-241.
53 Infra, p. 216.
32 Il transindividuale

dall’altro lato, c’è una tendenza a trasformare ogni cosa, ogni relazione sociale,
in qualcosa che può essere scambiato come merce54.

Dato questo quadro di analisi della contemporaneità, Read propone una


politica della produzione della soggettività, capace di far emergere il co-
mune:

La politica tocca direttamente le condizioni preindividuali e transindividuali


della soggettività, essa riguarda la distribuzione, presentazione e articolazione
di queste. Tali condizioni costituiscono ciò che chiameremo il comune [the
commons]. […] Il compito politico presente deve essere in qualche modo le-
gato all’attualizzazione o alla manifestazione del comune. Il problema è come
fare del comune, cioè delle condizioni transindividuali e preindividuali del-
la soggettività, qualcosa d’altro che non lo sfondo incoativo dell’esperienza,
qualcosa che possiamo afferrare attivamente, in modo che i soggetti possano
trasformare le proprie condizioni invece di esserne semplicemente costituiti.
Per plagiare Hegel, è necessario pensare il transindividuale come soggetto piut-
tosto che come sostanza. Si tratta di portare lo sfondo, la pluralità che sostiene
il linguaggio, la sensazione e la conoscenza in primo piano: trasformando una
condizione passiva in una produzione attuale55.

Questa teoria del divenir soggetto della sostanza passa per la lettura ope-
raistica del celebre Frammento sulle macchine marxiano al cui centro sta
il concetto di general intellect. Che sia possibile una tale politicizzazione
del transindividuale in termini di comune, è la scommessa teorica proposta
da Read.

4. Dalla biologia alle scienze umane

Una seconda sezione del libro è dedicata alla questione del ‘transindivi-
duale’ nelle scienze biologiche e umane. In particolare in queste ultime il
tema emerge come un sintomo dell’insufficienza e delle aporie prodotte dal
modello dell’intersoggettività in esse dominante. Il primo saggio, quello di
Andrea Cavazzini, riprende la questione dell’individuazione e del transin-
dividuale nella biologia contemporanea con un approccio che allo stesso
tempo ci fornisce la profondità del campo storico e una presa di posizione
nel dibattito contemporaneo. Cavazzini mostra come il concetto di transin-
dividuale, che emerge nelle scienze biologiche a partire dalla problema-

54 Infra, p. 218.
55 Ibidem.
E. Balibar, V. Morfino - Introduzione 33

tizzazione dell’individuazione, dipenda da un’ineliminabile problematicità


del concetto di individuo:

Quali sono infatti gli individui con cui ha a che fare la biologia? I suoi
elementi primi, i suoi ‘atomi’ costituenti? Come è noto, ne sono stati proposti
diversi – per citarne solo tre: specie, organismi, geni –, nessuno dei quali si è
poi rivelato così ‘elementare’; anzi, tutte le entità proposte per occupare questo
ruolo si sono scoperte poi caratterizzate da una coerenza interna quantome-
no problematica, risultato di combinazioni aleatorie, processi di formazione
dall’andamento contingente – o più semplicemente ci si è accorti che né la
struttura né la funzione delle entità in questione erano compiutamente indivi-
duabili e determinabili senza ricorrere ad un contesto più ampio, a relazioni e
processi più globali56.

A partire dal Darwin dell’Origine delle specie l’individuo come co-


stituente ultimo della realtà dotato di un’essenza specifica si rivela esse-
re una mera variazione selezionata da una complessa rete di relazioni, o
«un prodotto [di cui] si imprende a disseppellire il dispositivo nascosto
di produzione»57. Il sistema delle forme, sia esso pensato in chiave ari-
stotelica o linneana, prevede un concetto di ordine che Darwin scioglie
nel temporaneo bilanciarsi delle forze, in una trama di rapporti complessi,
non riconducibili ad una legge di natura trascendente o immanente sotto
la cui tutela l’individuo agisce e si riproduce senza variazioni. Si tratta di
una trama complessa di bilanciamenti di cui l’individuo è parte e che può
venir meno con il variare di uno qualsiasi dei fattori che entrano a costituire
questa struttura complessa:

[…] nel corso del tempo – scrive Darwin – le forze finiscono col bilanciarsi
così perfettamente che il volto della natura si mantiene inalterato per lunghi
periodi, benché sia indubitabile che la causa più insignificante potrebbe assi-
curare la vittoria di un essere organizzato su di un altro. La nostra ignoranza,
però, è così profonda, e così grande è la nostra presunzione che ci meraviglia-
mo quando sentiamo parlare della estinzione di una specie e, non ravvisandone
le cause, pensiamo a cataclismi distruttori del mondo e inventiamo leggi sulla
durata delle forme viventi58.

56 Infra, p. 231.
57 Infra, p. 232.
58 Ch. Darwin, The origin of species by means of natural selection, in The Works
of Charles Darwin, vol. 16, William Pickering, London 1988, p. 59, tr. it. di L.
Fratini, Bollati Boringhieri, Torino 1967, p. 141.
34 Il transindividuale

L’ordine naturale, nella sua necessità (il suo perpetrarsi) e nella sua con-
tingenza (i cataclismi distruttori delle specie), non è che un’immaginaria
semplificazione di una complessità che ci sfugge, ulteriore metamorfosi
della volontà di Dio come asylum ignorantiae.
Ma, se la specie o il tipo non possono essere considerati come costituenti
ultimi della realtà, nemmeno l’organismo, le cellule o i geni possono essere
individuati come atomi originari. L’organismo infatti si rivela essere un
processo di unificazione, esso

[…] si individua tramite [un] lavoro di unificazione operato dall’ambiente in-


terno, [ma] la sua individuazione è anche – e simultaneamente – dipendente
dal modo in cui tale ambiente reagisce alle fluttuazioni dell’ambiente esterno59.

Più che una totalità autoregolantesi, l’organismo è dunque «un lavorio


indefinito di traduzioni e aggiustamenti tra componenti, processi, azioni,
stimoli, all’interno dell’organismo e tra esso e il suo esterno»60, ragion per
cui «il risultato non può mai essere un vero rispecchiamento della coerenza
del mondo nell’unità dell’organismo»61.
Per quanto riguarda la cellula, Cavazzini mostra come il tentativo di
pensarla in termini di individuo ultimo e non come processo di individua-
zione faccia problema tanto nel modello ultradarwiniano di Kupiec e Soni-
go, quanto in quello semiologico di Ameisen:

se infatti la nozione di segnale rimanda ad un codice convenzionale stabilito


tra parlanti preesistenti alla loro interazione comunicativa, secondo un modello
classico di comunicazione intersoggettiva (e non transindividuale), la nozione
di risorsa, e ancor più quella di competizione, rinviano ad un modello smithia-
no in cui di nuovo gli elementi entrano in contatto solo successivamente alla
loro costituzione62.

Infine, il gene lungi dal potere essere considerato un atomo di vivente


che contiene ab origine i codici di sviluppo dell’individuo, si rivela stretta-
mente dipendente dalle relazioni tra la sequenza di DNA e il suo contesto:

Ciò significa che da nessuna parte possiamo trovare un programma com-


pleto che specifichi la totalità delle proprie condizioni d’esecuzione prima ed

59 Infra, p. 236.
60 Infra, p. 238.
61 Ibidem.
62 Infra, p. 241.
E. Balibar, V. Morfino - Introduzione 35

indipendentemente dal contesto fattuale di tali condizioni – non vi sono indivi-


dui che precedono il processo individuante63.

Proprio in contrapposizione ad un determinismo genetico che pretende-


rebbe di dedurre l’individuo dal suo corredo genetico Lewontin ha scritto:

Esiste, e già da molto tempo, un’ampia serie di prove a dimostrazione del


fatto che l’ontogenesi di un organismo è la conseguenza di un’interazione uni-
ca tra i geni di cui è portatore, la sequenza unica di ambienti esterni con cui
entra in contatto nella sua vita e le interazioni molecolari casuali all’interno
delle singole cellule64.

Il processo di individuazione non può dunque essere pensato né come


una lex seriei lineare né sul modello del carattere intellegibile (per cui
l’ambiente favorirebbe o meno il manifestarsi di determinate caratteristi-
che), ma precisamente come un intreccio di relazioni complesso di am-
bienti interni ed esterni, senza che alcuna essenza o forma possa in alcun
modo guidare il divenire da un punto privilegiato (sia esso immanente o
trascendente).
L’impossibilità di trovare in ognuno dei livelli considerati un elemento
costitutivo che precede la relazione mette in luce la complementarietà dei
concetti di individuazione e di transindividuale. Nessun elemento atomico
di vita è pensabile prima della relazione, sono posti cioè fuori gioco tutti
quei tentativi di definire solo sul piano biologico la specificità umana:

l’ominazione dipende da rapporti conflittuali e aleatori in cui il ruolo strut-


turale dell’impensato, del rimosso, del fantasmatico rendono impossibile che
l’Uomo diventi la cartina di tornasole, il perno di una totalizzazione in cui tutti
i prodotti del grande processo dell’individuazione sarebbero disposti armonio-
samente ed il processo giungerebbe a pensare se stesso. Dopotutto, ad ogni
livello di analisi abbiamo incontrato la tendenza a trovare un dispositivo per
cui la vita potesse riflettersi in se stessa, totalizzare il proprio divenire come il
Concetto hegeliano ritrova la propria unità autodifferenziantesi nell’esteriori-
tà provvisoria delle proprie differenziazioni: una tale funzione è stata via via
attribuita all’armonia della Catena degli Esseri, alla struggle for life degli or-
ganismi, all’omeostasi, ai geni, allo spirito umano. In tutti questi dispositivi si
cerca di trovare un punto di inversione da cui la natura vivente possa reinterio-
rizzare e autoriferire il movimento e la legge con cui essa produce le proprie
determinazioni – e trovare quindi una pienezza della Vita da cui essa potrebbe

63 Infra, p. 246.
64 R.C. Lewontin, Gene, organismo e ambiente. I rapporti causa-effetto in biologia,
tr. it. di B. Tortorella, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 14.
36 Il transindividuale

a sua volta ridivenire Norma e Fondamento dell’esistenza umana. Ma questo


punto di autoriflessione, in cui la Natura diverrebbe Concetto, non si trova da
nessuna parte – il movimento dell’individuazione si muove secondo un rit-
mo certo regolato e intelligibile, ma in cui l’esteriorizzazione, che muove dal
transindividuale verso la pluralità degli ‘individuati’, non fa mai ritorno dalla
contingenza e dalla dispersione in una serie inorganica di condizioni fattuali65.

Il tema dell’ominazione sul piano ontogenetico è affrontato dal saggio


di Felice Cimatti: in un percorso che da Marx conduce a Vygotskij, il
transindividuale è pensato qui nella prospettiva di una psicologia evo-
lutiva fondata su un materialismo delle relazioni. L’evoluzione psichica
dell’individuo non solo non è pensabile al di fuori del contesto sociale,
ma ha luogo come un vero e proprio ‘trapianto dell’esterno nell’interno’,
secondo una formula di Vygotskij. Sulla linea Marx-Vygotskij troviamo
dunque un materialismo delle relazioni che si oppone tanto al cognitivi-
smo quanto al comportamentismo:

È infatti l’individualismo cognitivo il marchio di fabbrica del cognitivismo,


e paradossalmente anche del suo antagonista, il comportamentismo (per il co-
gnitivismo la mente è piena, per il comportamentista la mente è vuota: sono le
due alternative possibili se si presume che la mente sia un’entità individuale):
la mente umana è originariamente una entità autonoma e indipendente66.

Non si tratta però semplicemente di sottolineare l’importanza delle re-


lazioni, quanto piuttosto di mettere il concetto di relazione al centro dello
studio della mente umana, come ha fatto Vygotskij per il quale si «tratta di
partire dalla relazione fra l’individuo e la società, e ricostruire il percorso
ontogenetico attraverso il quale si forma l’individuo, cioè il suo processo
di individuazione». La specificità della posizione di Vygotskij consiste nel
considerare ogni funzione psichica superiore come un rapporto sociale.
Ogni funzione, prima di divenire interna e psichica, è stata infatti esterna
e sociale:

Così, invece di immaginare una inaccessibile vita interiore e originaria,


[Vygotskij] considera le attività mentali interne come l’uso per sé di prassi
un tempo pubbliche. Lo schema generale del processo di individuazione, per
Vygotskij, è quindi del tutto diverso sia da quello delle scienze cognitive che
da quello del suo antagonista, il comportamentismo. Per quest’ultimo la mente
umana è originariamente vuota, e viene riempita dagli stimoli esterni. Qui c’è

65 Infra, p. 251.
66 Infra, p. 257.
E. Balibar, V. Morfino - Introduzione 37

solo l’esterno, e l’interno non è che un sottoprodotto dell’esterno. La principale


conseguenza teorica di questo approccio è che per il comportamentismo l’esi-
stenza della mente individuale è del tutto inspiegabile (se non nel senso impo-
verito e vuoto di riflesso interno di uno stimolo esterno). Al contrario, per le
scienze cognitive, la mente è piena di contenuti e abilità innate, che poi vengono
in parte trasmessi all’esterno, ad esempio mediante la comunicazione linguisti-
ca. Qui il problema, teoricamente insolubile (perché è una conseguenza neces-
saria del pregiudizio individualistico di questo approccio), è invece l’esistenza
delle altre menti: della mia sono certo, ma di quella altrui no, perché non posso
entrare nella loro mente. Vygotskij rifiuta entrambe queste alternative: all’inizio
c’è la relazione sociale, il rapporto fra esseri umani, ed in particolare c’è un pic-
colo della specie Homo sapiens che comincia il suo percorso di individuazione.
All’inizio sono gli adulti, cioè appunto delle relazioni sociali incarnate, che si
prendono cura di lui, lo accudiscono, gli parlano, gli insegnano – dapprima in
modo implicito poi anche in modo esplicito – come agire, come muovere il cor-
po, come provare emozioni. Poi, lentamente, il piccolo della specie umana co-
mincia ad usare su di e per sé quello che gli altri, prima, avevano fatto con lui67.

Come dice Vygotskij, ogni funzione nel corso dello sviluppo del bambi-
no fa la sua apparizione due volte, su due piani diversi: la prima volta sul
piano sociale come categoria interpsichica, poi sul piano psicologico come
categoria intrapsichica. Dal transindividuale emerge dunque l’individuo:
vraschvanie è il neologismo che Vygotskij forgia per definire questo movi-
mento, termine che è stato tradotto con ‘interiorizzazione’ o ‘internalizza-
zione’ ma che indica in realtà una sorta di ‘crescita’ o di ‘trasformazione’
di qualcosa che dall’esterno diventa interno, e sottolinea al tempo stesso il
carattere di sviluppo dinamico di questo processo. Per esempio, nel tenta-
tivo del bambino di prendere un oggetto, è la madre che vede l’intenzione
dell’indicare, interiorizzando nel bambino stesso il gesto dell’indicare. Ma
il prototipo di tutte le interiorizzazioni è quella in cui «la lingua del pro-
prio ambiente sociale diventa il principale sostegno cognitivo del pensiero
individuale».
L’originalità di Vygotskij rispetto al panorama della discussione dei
rapporti tra pensiero e linguaggio consiste nel pensare questi secondo due
distinte linee evolutive che si incontrano in quell’intreccio che Vygotskij
chiama ‘pensiero verbale’:

Il ‘pensiero verbale’, infatti, più che un modo di comunicare è un modo


nuovo di organizzare l’esperienza, interna ed esterna […]. [È] allo stesso tempo
un modo di stabilire relazioni linguistiche con i propri simili ma anche se non
soprattutto un modo di organizzare il proprio pensiero. La tappa intermedia

67 Infra, p. 263.
38 Il transindividuale

dello sviluppo di questa particolare forma di azione linguistica è il cosiddetto


‘linguaggio egocentrico’, che il bambino usa parlando ad alta voce in assenza
di interlocutori: qui il parlare non ha uno scopo comunicativo, appunto perché
non si parla a nessuno, bensì è la prima forma di auto-organizzazione del pro-
prio comportamento da parte del bambino. Fino a quel momento erano stati
gli adulti a guidare le sue azioni, ora che gli adulti non ci sono il bambino
comincia ad usare le forme linguistiche che ha ascoltato da loro per imparare
a controllarsi anche da solo […]. L’esito finale di questo processo di sviluppo
è il ‘linguaggio interno’, cioè appunto il ‘pensiero verbale’, il pensiero che fa
tutt’uno con le parole di una lingua e che non richiede più di essere espressa-
mente articolato: qui «il pensiero non si esprime nella parola, ma si realizza
nella parola»68.

La questione del rapporto di pensiero e linguaggio è ripresa dal saggio


di Patrice Maniglier. Egli sostiene in via preliminare la tesi secondo cui il
linguaggio concerne la filosofia della mente per ragioni che non riguardano
né la sua dimensione semantica, né la sua dimensione sintattica:

I veri misteri filosofici a cui il linguaggio ci confronta non risiedono tan-


to […] [nella] proprietà […] di rinviare a qualcos’altro [...]. Ma non risiedono
nemmeno nel fatto che esso si presenta come un fenomeno di tipo calcolatorio,
sottomesso a regole formali, indipendenti da ogni contenuto […]. I veri misteri
del linguaggio risiedono in una dimensione il cui carattere problematico è meno
immediatamente evidente, e cioè la sua dimensione fonologica, cioè ai problemi
specifici posti dalla percezione del linguaggio. Vorrei in effetti cercar di difen-
dere questa tesi paradossale: che il linguaggio sia tanto più spirituale laddove
appare più materiale, cioè nella percezione stessa dei segni linguistici69.

Ciò che Maniglier formula è una teoria della transindividualità della


percezione nei termini di una ‘percezione prodotta in comune’ o come una
‘percezione emergente dalla percezione reciproca’:

In luogo di una concezione del linguaggio come calcolo mentale su rap-


presentazioni che permettono di spostarsi pendolarmente tra stimoli sonori e
rappresentazioni concettuali, sembra che si sia giunti ad una concezione del
linguaggio come attività di percezione. Conoscere una lingua non significa po-
ter ridurre una performance verbale ad un insieme di possibili teoremi di un
sistema formale, ma significa esser in grado di percepire una forma complessa,
esser sensibili ad una variazione globale dell’ambiente [environnement]. Dati
che siano degli stimoli, la questione non è di sapere se l’appartenenza di tale
performance ad una data lingua è vera o falsa, ma di sapere se essi consistano

68 Infra, p. 267.
69 Infra, p. 274.
E. Balibar, V. Morfino - Introduzione 39

in una forma oppure no. Parlare la stessa lingua vuol dire: potersi accordare su
tali percezioni, potere, insomma, condividerle. Il linguaggio è una condivisione
della sensibilità. Parlare non significa generare una performance a partire da un
sistema formale o verificare l’appartenenza di una performance all’insieme dei
possibili teoremi di una teoria; significa tentare d’istruire in un dato contesto
una variante costruibile, una salienza percettiva, o, in qualità di recettore, po-
terla riconoscere70.

A partire da questa tesi filosofica generale sul linguaggio è formulata


un’ipotesi riguardo alla natura della mente in cui il transindividuale si mo-
stra come equivalenza generalizzata delle categorie di ‘lingua’, ‘pensiero’
e ‘società’: in questo senso la mente non sarebbe altro che «l’insieme dei
processi e dei funzionamenti che sostengono l’emergenza di quanto chia-
miamo fenomeni culturali»71. Pensare non significa dunque rappresentare,
ma valutare. Pensare significa «costituire dei mondi»:

Sembra dunque che, alla fine, vi sia una profonda relazione tra la nostra ca-
pacità di fare ciò che si chiama ‘pensare’ ed il fatto che noi siamo delle creature
che genereranno quasi nostro malgrado degli universi transindividuali. È per-
ché siamo sociali che possiamo pensare. Ma, ancora una volta, non nel senso
per cui, seguendo la scia di una certa interpretazione di Wittgenstein, bisogna
vedere nella garanzia trascendente dei segni (il Grande Altro di Lacan o la co-
scienza collettiva di Durkheim […]) la condizione di possibilità del pensiero.
Al contrario, se la cognizione culturale è sociale, ciò dipende da una modalità
dell’identità che non si riduce né all’invarianza sostanziale che le diverse forme
di empirismo hanno sempre cercato (come se dal contenuto dovessero sorgere
le forme e le categorizzazioni), né a ciò che le diverse forme di idealismo hanno
sempre immaginato, cioè delle categorie astratte che sarebbero proiettate sul
sensibile: si tratta di un’identità che risulta da un meccanismo di strutturazione
della realtà sensibile e che utilizza un livello della realtà (ad esempio le imma-
gini) per strutturarne un altro (ad esempio il suono) inducendo delle regolarità
che si fondano unicamente sulle convalide reciproche rinviatesi reciprocamen-
te dagli agenti, laddove questi ultimi costituiscono insieme il medio [milieu]
comune entro cui essi stessi vivono e che non cessano di trasformare a propria
insaputa72.

Per questa ragione un ‘sistema culturale’ non esiste nella testa di questo
o di quell’individuo, ma tra gli individui: «pensare significa essere capaci
di creare siffatti mondi, istruire una sensibilità comune che determinerà un
certo numero di eventi impercettibili ad ogni altra, e di consegnarsi così a

70 Infra, p. 283.
71 Infra, p. 274.
72 Infra, pp. 301-302.
40 Il transindividuale

questi strani universi all’interno dei quali noi diventiamo dei soggetti e le
cose acquistano un senso»73.
La questione del rapporto tra linguaggio e potere, ai margini del testo
di Maniglier, è centrale invece nell’articolo di Sibertin Blanc. Questi de-
finisce il linguaggio «come una produzione sociale essa stessa articolata
all’insieme complesso dei processi di produzione e riproduzione di una
formazione sociale data», cui sono immanenti «rapporti di potere, di do-
minio e di assoggettamento, ed in ultima istanza dei rapporti di classe». In
questo senso l’introduzione da parte di Benveniste del concetto di ‘appara-
to fomale di enunciazione’ permette di pensare

l’immanenza del sociale al linguaggio pensando il sociale come un insieme di


rapporti (e di rapporti di forze) transindividuali, e non come uno spazio d’in-
tersoggettività contrattuale o comunicativa in cui il termine sociale «significa
semplicemente ‘pluri-individuale’ e non suggerisce nulla dell’interazione socia-
le nei suoi aspetti più estesi» (Labov). In un certo senso, l’idea di un apparato
di enunciazione che determinerebbe, non già il testo dell’enunciato, né il codice
che permette idealmente di formarlo, ma «l’atto stesso del produrre un enuncia-
to», e il programma che ne consegue di individuare le funzioni formali messe
all’opera in una siffatta produzione effettiva, sembrano in grado di aprire un’al-
tra via liberata dalla rappresentazione idealista di interazioni tra locutori ideali74.

Tuttavia la proposta teorica di Benveniste resta invischiata nell’ambigui-


tà di pensare il processo di produzione enunciativo come immediatamente
schiacciato su un ‘atto individuale’, «cioè sulla coscienza soggettiva che il
locutore ha rispetto agli enunciati di cui si riconosce come la causa»75. Si
tratta allora di riprendere il programma di Benveniste, ma articolandolo ad
un secondo programma, un programma di studio delle forme storiche di
soggettivazione,

delle maniere d’essere (costituito come) soggetto nei processi d’enunciazione,


dunque di riflettervisi in un rapporto a sé tramite cui si forma un ‘soggetto d’e-
nunciazione’ che appare a se stesso d’emblée come fonte del proprio dire, dunque
del ‘proprio’ pensare, delle ‘proprie’ condotte, delle ‘proprie’ volizioni ed azioni76.

Questo secondo programma è stato portato avanti da Deleuze e Guattari


attraverso il concetto di agencement collectif d’énonciation. Abbiamo tra-

73 Infra, p. 303.
74 Infra, p. 306.
75 Infra, p. 308.
76 Infra, p. 309.
E. Balibar, V. Morfino - Introduzione 41

dotto agencement, seguendo la lectio tradita, con ‘concatenazione’, termi-


ne che ha il merito di rinviare alla catena significante lacaniana, ma la cui
metaforica indica una linearità e staticità che ne impoverisce il concetto.
Si sarebbe forse potuto tradurre con ‘strutturazione’, tenendo presente che
la nozione di agencement è stata forgiata precisamente contro lo struttu-
ralismo, oppure, seguendo l’indicazione dei traduttori inglesi, con ‘mec-
canismo’. O ancora, prestando ascolto alla connotazione spazializzante
della parola, che designa un modo di distribuzione e di ripartizione degli
elementi, si sarebbe potuto tradurre con ‘composizione’ o con ‘disposi-
zione’77. Il termine italiano ʻconcatenazioneʼ sta dunque per questo ampio
spettro di significati. Quanto all’aggettivo ‘collettivo, questo è il senso pre-
ciso che ha nell’espressione:

Nella nozione di concatenazione collettiva di enunciazione, collettivo non


designa […] una comunità di condivisione di uno «strumento di comunica-
zione» il cui «potere coesivo» regnerebbe «al di sopra delle classi, dei gruppi
e delle attività particolarizzate», costituendo «una comunità a partire da un
aggregato di individui e [creando] la possibilità stessa della produzione e della
sussistenza collettiva»; esso non qualifica una realtà «ad un tempo immanente
all’individuo e trascendente la società», neutra nella sua «realtà sovraindivi-
duale» e perciò disponibile alla libera «appropriazione» dell’utilizzatore indi-
viduale. Esso significa al contrario il carattere transindividuale di un processo
produttivo immanente ai rapporti sociali, quindi ai rapporti di sfruttamento e
di dominio. Transindividuale e non «immanente all’individuo»; immanente ai
rapporti sociali e non «trascendente rispetto alla società»: proprio il contrario
di ciò che dice Benveniste, dunque78.

La teoria delle ‘concatenazioni collettive di enunciazione’ conduce dun-


que a pensare che vi siano delle enunciazioni non soggettive e delle distri-
buzioni di soggetti costantemente fluttuanti nelle formazioni discorsive.
L’esplicito riferimento di Deleuze e Guattari nella formulazione di questa
teoria all’analisi del meccanismo dell’interpellazione ideologica proposto
da Althusser in Ideologia ed apparati ideologici di Stato produce una serie
di effetti, così riassumibili:

a) rispetto all’analisi althusseriana, esso passa per la riformulazione dell’in-


terpellazione a partire dalle categorie del ‘cogito linguistico’ benvenistiano
(innesto, soggetto d’enunciazione, soggetto d’enunciato); b) dal punto di vista

77 Riprendiamo qui il contenuto di uno scambio epistolare con Sibertin Blanc sulle
possibili traduzioni del termine agencement.
78 Infra, p. 310.
42 Il transindividuale

della teoria delle concatenazioni collettive di enunciazione, esso richiede una


chiarificazione del funzionamento delle concatenazioni collettive di enuncia-
zione di soggettivazione nella riproduzione dei rapporti sociali di produzione;
c) riguardo allo studio della filosofia deleuziana in quanto tale, esso impone di
riconsiderare l’importanza del concetto di modo di produzione (e in particolare
della sua interpretazione strutturale in Althusser) nella teoria delle concatena-
zioni collettive di enunciazione79.

In particolare lo sviluppo del terzo punto conduce a formulare un’ipotesi


secondo cui, nel modo di produzione capitalistico «il familismo trova la
possibilità di stabilirsi come una concatenazione collettiva di enunciazione
soggettivante quando la famiglia, al limite, non ha più alcuna importanza
dal punto di vista della riproduzione sociale, quando essa è come ‘disinve-
stita’, ‘messa fuori-campo’»80:

Certo, quando la codificazione genealogica della riproduzione umana cessa


di essere determinante nel meccanismo di riproduzione dei rapporti sociali, la
famiglia non smette di costituire la forma della riproduzione umana; ma la sua
messa fuori campo significa che essa smette di conferire la propria forma so-
ciale alla riproduzione economica: essa diviene forma privata di riproduzione
di un materiale umano indifferenziato, laddove la riproduzione sociale passa
sempre di più per il processo del capitale come forma sociale di riproduzione
autonomizzatasi rispetto agli antichi codici dell’alleanza e della filiazione. La
forma familiare-privata della riproduzione umana può così fornire alla ripro-
duzione sociale degli esseri umani di cui essa stessa non determina il posto
(donde l’eguaglianza astratta degli uomini), ma il cui posto sarà determinato
dalle esigenze interne dell’accumulazione e della valorizzazione del capitale, il
problema essendo piuttosto quello di far sì che ciascun individuo (qualunque)
sia legato al ‘suo’ posto (qualunque), e ciò secondo un modo soggettivo che
raccoglie per così dire il testimone dei codici non economici dislocati dell’in-
dividualizzazione sociale81.

Certo, la riproduzione sociale deve comunque realizzarsi entro la ri-


produzione umana e la concatenazione d’enunciazione familista risponde
praticamente a questo problema poiché, nel suo esser messa fuori campo,
la famiglia muta di forma e di funzione nel processo d’insieme della ripro-
duzione sociale: «essa cessa di essere un codice ‘implicato’ nella determi-
nazione in ultima istanza per prendere la forma di un ambiente chiuso su
cui si applicano i rapporti sociali che essa si contenta di esprimere nel suo

79 Infra, p. 311.
80 Infra, p. 319.
81 Infra, p. 318.
E. Balibar, V. Morfino - Introduzione 43

ordine specifico separato, in virtù dell’autonomia apparente che le conferi-


sce il suo ‘depotenziamento’ reale»82.
Ad una riflessione sulla transindividualità nel campo di una teoria
dell’azione e di una ontologia dell’accaduto è dedicato il saggio di Franci-
sco Naishtat. In questa prospettiva viene sottolineata l’importanza attribui-
ta all’azione umana dalla recente storiografia, al di là della ferita narcisisti-
ca inferta da strutturalismo e scuola delle Annales, i quali avevano spostato
«la ricerca storica dall’asse portante tradizionale, in cui nazione, politica
e Stato si saldavano in gallerie di eroi e di grandi battaglie, privilegiando
invece processi anonimi, meno visibili e spettacolari, ma più significativi
sul piano della lunga durata»83. Ora, proprio nella prospettiva di affronta-
re la dialettica di azione, evento e storia dal punto di vista dell’ontologia
dell’accaduto, sarebbe un errore metodologico, secondo Naishtat,

sostituire al fascino di una concezione eroica della storia il fascino per strutture
sociali trasformate in istanze reificate della vita di una società. È vero che per
buona parte del Novecento l’impronta del modello nomologico-causale delle
scienze positive e della spiegazione funzionale e/o strutturale delle scienze so-
ciali ha condotto a trascurare puramente e semplicemente l’azione intenzionale
e la contingenza storica, dimenticando il peso dell’attività umana e delle scelte
dei singoli attori dello svolgersi storico. Le strutture e i processi di lunga dura-
ta acquistano interesse storico proprio in quanto considerano l’attività umana
come luogo e origine del suo stesso riprodursi: è questo riferimento ultimo
all’interazione umana a giustificare l’immanenza storica dei processi sociali,
anche dei più ferrei84.

Naishtat ritiene che l’azione umana sia «ricomparsa in seno alla teoria
sociale e storica come soglia di resistenza alla reificazione delle relazioni
e delle strutture»85. Certo il modo in cui l’azione entra in relazione con la
storia non può ricalcare il modello dell’impianto classico, ma deve attra-
versare «il complesso filtro delle controversie ontologico-linguistiche ed
epistemologiche»86 interne al linguistic turn.
In questa prospettiva Naishtat propone una ontologia dell’azione a parti-
re da un modello cibernetico proposto da von Wright, il cui pregio consiste
nell’idea,

82 Infra, p. 319.
83 Infra, p. 327.
84 Infra, p. 328.
85 Infra, p. 329.
86 Ibidem.
44 Il transindividuale

invero familiare al senso comune, che l’azione intenzionale è un intervento,


un’iniziativa in un ambiente indipendente e soggetto a propri condizionamenti
causali. Per quanto banale ci appaia questo modello, possiamo trarne quindi
alcune conseguenze di rilievo per un’ontologia dell’azione storica. In primo
luogo, l’azione ha la duplice caratteristica di scaturire dall’iniziativa di un
agente e di fissarsi nel mondo mediante una connessione causale empirica,
potenzialmente aperta ed empiricamente indipendente rispetto alla serie dei
propri effetti87.

Complicando il quadro proposto da von Wright è possibile mostrare


come ogni azione, «una volta aperto il vaso di Pandora della sua intera-
zione con altre azioni umane e con l’insieme di circostanze fortuite che
formano la sfera empirica, acquista una serie di significati indipendenti
dal senso originariamente attribuitole dall’agente»88. Dunque, laddove la
tradizione diltheyana e weberiana del Verstehen insiste sul senso attribuito
all’azione dal soggetto che deve essere fatto rivivere dallo storico, Naishtat
afferma che «gli eventi storici possono trascendere i motivi individuali, i
quali vengono oltrepassati dalle interpretazioni che lo storico è chiamato a
dare dell’azione»89. Conclude Naishtat:

L’azione si sdoppia così in un senso esplicitamente inteso e in un senso nar-


rativo – entrambi rilevanti per la storiografia. Il primo rimanda alla soggettività
degli attori che hanno dato luogo ai fatti. Il senso narrativo invece rimanda
all’interpretazione degli stessi eventi secondo la sequenza temporale entro la
quale vengono presi in esame dallo storico. In termini di filosofia dell’azione, il
senso narrativo poggia sull’effetto fisarmonica delle ridescrizioni dell’azione,
senza che gli attori riconoscano necessariamente in queste descrizioni i motivi
che in origine ispirarono le loro azioni90.

Tuttavia la dissociazione tra senso dell’azione e senso narrativo non è


sufficiente ad uscire da un modello individualistico di ontologia dell’azio-
ne. Il soggetto dell’azione rappresenta infatti una sorta di ancoraggio per
la serie infinita delle sue conseguenze che mostra tutti i suoi limiti quando
si passa dal piano individuale a quello collettivo: «la soluzione analitica
occulta un salto tra i risultati dell’azione, unità singolarmente ascrivibili
a persone o gruppi, e l’evento in quanto sintesi o concetto collettivo di
vaste dimensioni»91. D’altra parte non è soddisfacente nemmeno la solu-

87 Infra, p. 333.
88 Infra, p. 336.
89 Infra, p. 337.
90 Infra, p. 338.
91 Infra, p. 339.
E. Balibar, V. Morfino - Introduzione 45

zione cosiddetta olistica, in cui è facile riconoscere un impianto di matrice


hegeliana, secondo cui

gli individui non sono del tutto consapevoli di alimentare, attraverso le proprie
azioni, azioni ed eventi collettivi di più vasta portata, i quali invece possono
essere compresi solo gestalticamente attraverso la figura di una totalità irridu-
cibile, che forma il quadro storico entro cui solo è possibile cogliere l’azione
o l’evento storicamente rilevante. È qui all’opera una sorta di mano invisibile:
i singoli attori interpretano, senza esserne consapevoli, un’azione di più vasta
portata, la cui logica risponde alla struttura di una collettività indivisibile che lo
storico ha identificato come una singolarità operante storicamente92.

Al di là di individualismo e olismo si tratta secondo Naishtat di proporre


un modello ‘transindividuale’ dell’azione collettiva:

Ora, senza volere negare l’esistenza di un piano macroscopico degli eventi


storici, e senza ridurre questi ultimi al risultato o alla responsabilità di un certo
numero di azioni intenzionali singolarmente identificabili, è tuttavia possibile
ammettere che dietro ogni evento macroscopico si trovi non tanto un’ontologia
irriducibile ed essenzializzata delle collettività, quanto una sintesi storiogra-
fica operata dallo storico a partire da una serie illimitata di azioni e fatti di
minore portata (individuali e/o di gruppo). Secondo questo punto di vista, un
evento macroscopico come Rivoluzione francese costituisce una sintesi stori-
ca singolare che non risulta né dall’essenzializzazione di una collettività, né
dall’agire deliberato di un’agency intenzionale, ossia di un ristretto numero di
agenti guidati consapevolmente ex ante dall’obiettivo esplicito e dichiarato di
scatenare una rivoluzione. In questo senso l’evento di vasta portata non ha né
autore né autori: il che non significa che i suoi autori siano di natura collettiva,
ma piuttosto che l’evento è una sintesi ex post facto di cui non si dà alcuna rap-
presentazione consapevole previa o contemporanea all’azione, come se fosse
un risultato deliberatamente ricercato. Ma, funzionando come una sintesi o un
ideal-tipo, l’evento si struttura sempre attorno ad alcuni attori che fanno certe
cose e interagiscono fra di loro – sebbene ciò che fanno non sia fatto secondo
la descrizione dell’evento macroscopico, che è invece una sintesi ex post dello
storico. In definitiva, tra azione individuale ed evento storico c’è un vero e
proprio salto di piano: ma l’evento non è frutto di un dislivello ontologico tra
individualità e collettività, quanto di uno scarto interpretativo tra l’interazione
individuale, caratterizzata in senso teleologico, e l’interpretazione storiografica
che ne viene data attraverso una trama narrativa93.

92 Infra, p. 342.
93 Infra, pp. 342-343.
46 Il transindividuale

L’evento storico non può essere pensato dunque né nella forma di un’a-
zione singola, né in quella di un’azione collettiva: precisamente per descri-
vere la forma transindividuale del tradursi dell’azione in evento storico,
Naishtat fa appello al concetto di ‘sopravvenienza’ riadattato al campo del-
la teoria della storia:

[…] si potrebbe sostenere che, sebbene l’evento macroscopico non sia ridu-
cibile alla responsabilità individuale di alcuni singoli, né a un numero deter-
minato di azioni individuali, tuttavia esso sopravviene nelle azioni e interazio-
ni fra individui, nel senso che qualsiasi modificazione nella caratterizzazione
dell’evento comporta una revisione della base empirica e pratica di esso, e
quindi della catena di azioni che lo formano: e, reciprocamente, qualora si dia
una modificazione (significativa) della sua base empirica e delle azioni che lo
costituiscono, allora occorre rivedere il carattere dell’evento in quanto tale. In
questo modo, si riescono a salvare allo stesso tempo sia le azioni intenzionali
che l’irriducibilità dell’evento, respingendo così sia la tentazione dell’essenzia-
lismo che quella del riduzionismo94.

Infine il saggio di Karsenti riprende l’interpretazione del totemismo


proposta da Durkheim nelle Forme elementari della vita religiosa con il
preciso scopo di riattivarne gli enjeux fondamentali oltre la condanna di
Lévi Strauss secondo cui la prospettiva durkheimiana sarebbe viziata dalla
proiezione a priori di un sociale sostanzializzato. In realtà,

Durkheim avrebbe condotto, confrontato all’etnografia australiana, una forma


di generalizzazione di cui l’antropologia strutturale resta in effetti debitrice, e
che getta su quest’ultima una luce suscettibile di modificarne il volto, di pro-
blematizzarla e di rilanciarla in una direzione inattesa95.

In questo senso è fondamentale comprendere che l’utilizzo della cate-


goria di ‘cosa sociale’ lungi dal derivare da una sostanzializzazione del
sociale, è in realtà comprensibile attraverso le medesime dinamiche di co-
stituzione del gruppo: «le cose sociali – scrive Karsenti – sono fabbricate
tramite un movimento identico a quello che costituisce il gruppo»96.
È in particolare nella sua analisi del segno totemico che emerge l’inte-
resse della lettura durkheimiana:

94 Infra, p. 344.
95 Infra, p. 348.
96 Ibidem.
E. Balibar, V. Morfino - Introduzione 47

Se la sua interpretazione del churinga merita tuttavia un’attenzione particolare,


è perché, a differenza di esposizioni più dottrinali, essa consiste soprattutto
nell’aprire uno spazio problematico, nel porre in modo adeguato il problema,
piuttosto che nell’affrettarsi a risolverlo. Presa alla lettera, essa suggerisce che
l’esperienza di una mancanza [manque] psichica è all’origine dell’esperienza
decentrata che il gruppo fa di se stesso, in certe cose che si impongono ad esso.
Gli individui che appartengono al clan si fanno certo un’idea del totem, ma
essa, non potendo esser loro mentalmente accessibile, non può esserlo che real-
mente. Poiché non possono rappresentarsela direttamente, nell’interiorità, essi
devono fabbricare l’oggetto in cui prenderanno coscienza di ciò che essa è, e di
ciò che essi stessi sono in rapporto ad essa. Se è possibile parlare di coscienza
collettiva a questo livello, non è dunque sotto la forma piena, riflessiva, della
presenza a sé del gruppo. A ben vedere, sembra che il totem, nella sua materia-
lità, funga qui da sostituto della coscienza – non tanto un pensiero fattosi cosa,
tramite un processo lineare di qualificazione della realtà, quanto un ‘pensiero-
cosa’, un pensiero all’opera in una cosa. Parlare di coscienza sembra quindi
improprio, poco adeguato al tipo di esperienza che si intende descrivere97.

Il segno totemico sembra dunque non avere un referente nella realtà


naturale, ma è piuttosto «la soddisfazione di un bisogno mentale […] che
nasce dal momento in cui gli uomini vivono e pensano in gruppo»98:

È questa la ragione per cui la sua teoria del simbolismo si fonda sull’em-
blema preso come centro di raccoglimento destinato, non tanto a rendere «più
chiaro il sentimento che la società ha di sé», come se essa ne disponesse già,
ma piuttosto a «produrre questo sentimento», a fabbricarlo e a ripercuoterlo in
ciascuna coscienza sottoforma di sentimento del sacro99.

In altre parole, la socialità non può essere generata a partire dall’in-


terazione delle coscienze, cioè secondo un modello intersoggettivo, ma
deve essere posta in certi segni (gli emblemi), affinché, secondo un mo-
dello transindividuale, l’interazione si dia come un’esperienza sociale, che
Durkheim individua nella categoria del sacro:

Il punto di vista primitivo mostra che la credenza, nel suo principio, concer-
ne l’impersonale, intendendo con ciò innanzitutto la sua dimensione di rottura
con l’esperienza delle cose date nella percezione. Come interpretare questo
fatto? Secondo Durkheim, le cose sono sacre alla sola condizione di eccedere
la loro dimensione di cose particolarizzate, date una ad una nell’esperienza
come altrettante entità discrete, separate le une dalle altre e rinchiuse nella loro

97 Infra, p. 352.
98 Infra, p. 353.
99 Ibidem.
48 Il transindividuale

individualità. Si vede allora come l’impersonalità non debba essere vista come
un deficit di determinazione delle cose, ma piuttosto come la potenza che le
investe permettendo loro di legarsi le une alle altre, di uscire dal loro modo
di datità empirica per comporre tra loro dei rapporti che spetta poi al pensiero
determinare. Solo così può spiegarsi la continuità stabilita tra il pensiero reli-
gioso e il pensiero logico. L’‘aura d’impersonalità’ che avvolge le cose sacre, e
che contrassegna in generale il loro carattere contagioso, deve essere concepito
come una fonte di relazioni e non come un fattore di indistinzione100.

Il sacro come effetto transindividuale si rivela essere «il punto di rot-


tura senza di cui nessun pensiero generico può svilupparsi»101: «la rottura
con la personalità degli esseri, presi nella loro particolarità sensibile, in
quanto cose date ad un individuo isolato»102. Eravamo partiti dall’intelletto
materiale aristotelico come prima formulazione dell’impossibile imputa-
bilità del pensiero all’individuo particolare: il pensiero è necessariamente
transindividuale. Ritroviamo nell’interpretazione durkheimiana del totem
l’impossibile imputabilità della percezione della ‘cosa sacra’ all’individuo:
il totem è fabbricato dal gruppo secondo una logica che non può essere
intersoggettiva, ma è necessariamente transindividuale, la cui impersona-
lizzazione è alla base di ogni forma di pensiero logico.
Il cerchio si chiude. Non ovviamente il cerchio della teoria, poiché que-
sta raccolta di saggi costituisce semplicemente una prima delimitazione
di un campo di ricerca, ma almeno di un percorso che dalla filosofia ha
attraversato la biologia, la psicologia, la teoria della mente, la psicoanalisi,
la teoria della storia, la sociologia, l’antropologia ritrovando ogni volta la
questione del transindividuale come ineludibile sul piano epistemologico.

100 Infra, p. 358.


101 Infra, p. 359.
102 Infra, p. 361.
49

MURIEL COMBES
LA RELAZIONE TRANSINDIVIDUALE

1. L’individuazione psichica e collettiva: una o più individuazioni?

Una delle particolarità di Simondon è senz’altro quella di pensare la


natura della relazione tra l’individuo e il collettivo nel quadro delle so-
cietà umane attraverso lo studio dell’individuazione psichica e collettiva,
minuziosamente descritta nell’opera eponima. Il nome scelto dall’autore
per designare l’oggetto del suo libro colpisce per il suo carattere enigma-
tico: non «l’individuazione del collettivo», o «l’individuazione psichica e
quella collettiva», ma, come è noto, L’individuazione psichica e collettiva,
espressione singolare che tiene assieme due termini nella distanza unifica-
trice di un ‘e’. Che la si chiami «psichica e collettiva», come nel titolo, o
«psico-sociale», come accade altrove, l’individuazione di cui sarà questio-
ne nell’opera resta comunque una sola, pensata come una individuazione
bifronte, un’unica operazione per due prodotti o risultati distinti: l’essere
psichico e il collettivo.
Simondon precisa sin dall’introduzione che si tratta di «due individua-
zioni reciproche, l’una in rapporto con l’altra»1. Reciproche, però, non si-
gnifica identiche: reciproca è infatti quella relazione che va simultanea-
mente da un primo termine a un secondo e dal secondo al primo. Dire che
l’individuazione psichica e l’individuazione collettiva sono reciproche si-
gnifica certo, in qualche modo, farne i due poli di un’unica relazione costi-
tutiva, ma anche tener ferma la distinzione tra le due individuazioni, l’una
‘interna’ e l’altra ‘esterna’ all’individuo.
Ora, è proprio il passo in cui viene enunciata la reciprocità delle due
individuazioni ad introdurre la nozione di transindividuale: «Le due indi-
viduazioni, psichica e collettiva, […] permettono di definire una categoria
del transindividuale che tende a rendere conto della [loro] unità sistema-

1 G. Simondon, L’Individuation psychique et collective, Aubier, Paris 1989, p. 19,


tr. it. a cura di P. Virno, DeriveApprodi, Roma 2001, p. 34. [Dove necessario, ho
modificato la traduzione n.d.T.]
50 Il transindividuale

tica». In che può consistere una tale unità? Nella misura in cui l’inizio di
questo stesso capoverso designa le due individuazioni come «la relazione
interna ed esterna all’individuo», il transindividuale appare innanzitutto
come ciò che unifica non l’individuo e la società, ma una relazione interna
all’individuo (quella che definisce il suo psichismo) e una esterna (quella
che definisce il collettivo): l’unità transindividuale delle due relazioni è
dunque una relazione di relazioni.
L’individuazione psichica e collettiva è dunque l’unità di due indivi-
duazioni reciproche, l’individuazione psichica e l’individuazione colletti-
va. Sembra però che non ci si possa fermare a questa risposta. Non appena
la si osserva più da vicino, in effetti, l’individuazione psichica si rivela essa
stessa composita, perché l’emozione e la percezione costituiscono le «due
individuazioni psichiche che prolungano l’individuazione del vivente»2. Se
l’individuazione psichica è composta, però, non siamo più di fronte a due
individuazioni (psichica e collettiva), ma a una molteplicità di individua-
zioni. Ma quante individuazioni ci sono, di preciso, e come possono queste
individuazioni molteplici unificarsi in una singola individuazione psichica
e collettiva?
Per rispondere a questo interrogativo è necessario ricordare che l’intero
progetto di una filosofia dell’individuazione è diretto da una mira anti-so-
stanzialista, e quindi dall’idea che lo psichismo non è una sostanza. Si trat-
ta infatti di giungere a pensare lo psichismo e il collettivo «senza chiamare
in causa nuove sostanze»3, quali ‘l’anima’ o ‘la società’, che sarebbero
nuove in rapporto a quelle già indicate nello studio condotto ne L’individu
et sa genèse physico-biologique, vale a dire l’individuo e l’essere vivente.
I due pericoli che incombono su un tale progetto sono chiari: si chiamano
‘psicologismo’ e ‘sociologismo’, i due sostanzialismi contro cui rischia di
andare a sbattere ogni pensiero della realtà ‘psico-sociale’.
Pensare la realtà dello psichico e del collettivo senza fare appello a delle
nuove sostanze significa allora mostrare che l’individuazione psichica e
quella collettiva prolungano l’individuazione vitale, ne sono la continua-
zione. In quanto esseri individuati i viventi sorgono da una prima indi-
viduazione, l’individuazione biologica. Come abbiamo già cominciato a
vedere, però, gli esseri viventi si mantengono nell’esistenza solo a con-
dizione di perpetuare questa prima individuazione, da cui sono emersi,
attraverso una serie di individuazioni individualizzanti. È proprio questa
continuazione della prima individuazione che si chiama individualizzazio-

2 Ivi, p. 120, tr. it. cit., p. 122.


3 Ivi, p. 19, tr. it. cit., p. 33.
M. Combes - La relazione transindividuale 51

ne. Un essere vivente, infatti, «per esistere ha bisogno di poter continuare


a individualizzarsi risolvendo i problemi dell’ambiente che lo circonda e
al quale appartiene»4. Nell’analisi proposta da Simondon, per esempio, la
percezione appare come l’atto di individuazione operato da un vivente per
risolvere un conflitto con l’ambiente. In questa prospettiva percepire non
è cogliere una forma, ma l’atto attraverso il quale il soggetto, all’interno
dell’insieme costituito dalla relazione tra il soggetto stesso e il mondo, in-
venta una forma e modifica così sia la propria struttura che quella dell’og-
getto: si percepisce solo all’interno di un sistema in tensione del quale si
è un sottoinsieme. Prendendo l’esempio della sorprendente capacità dei
bambini di riconoscere le diverse parti del corpo in animali che vedono per
la prima volta, compresi quelli la cui morfologia è molto lontana da quella
umana, Simondon conclude che il bambino è corporalmente impegnato
nella percezione in funzione dell’emozione − simpatia, paura etc. − provo-
cata dall’animale. Così, ad essere percepita non è mai la semplice forma
dell’animale, ma «il suo orientamento d’insieme, quella polarità in base
alla quale esso è disteso o dritto sulle zampe, affronti o fugga, abbia un’at-
titudine ostile o fiduciosa»5. Se si ammette che l’individuazione psichica
consiste in una serie di individuazioni che prolungano la prima individua-
zione del vivente, si dirà allora che «ogni pensiero, ogni scoperta concet-
tuale, ogni insorgenza affettiva è una ripresa della prima individuazione: ne
sviluppa lo schema, come una rinascita dilazionata e parziale, ma fedele»6.
La prima individuazione, si sa, è quella che dà la luce all’essere vivente
individuato. Ma cos’è che nasce dall’individuazione psichica? Un tipo di
individuo nuovo, l’individuo psichico? Non pare. Informandoci che «lo
psichismo è fatto da individuazioni successive, che permettono all’essere
di risolvere gli stati problematici corrispondenti alla permanente comuni-
cazione di ciò che è più grande e di ciò che è più piccolo di lui»7, già l’in-
troduzione ci faceva comprendere che i problemi psichici vengono prima
dell’individuo psichico. Non esistono infatti che due tipi di individui: gli
individui fisici e gli individui viventi. È per questo che, «propriamente
parlando, non si dà nessuna individuazione psichica, ma solo una indivi-
dualizzazione del vivente che dà luce al somatico e allo psichico»8. L’indi-
viduazione psichica è un’individuazione vitale perpetuata.

4 Ivi, p. 126, tr. it. cit., p. 126


5 Ivi, p. 79, tr. it. cit., p. 86.
6 Ivi, p. 127, tr. it. cit., p.127.
7 Ivi, p. 22, tr. it. cit., p. 36.
8 Ivi, p. 134, tr. it. cit., p. 133, c. n.
52 Il transindividuale

Quella che viene impropriamente chiamata individuazione psichica ap-


pare così come un’operazione che prosegue, in un essere già individuato,
una individuazione precedente, e che può quindi dare la luce non tanto a un
nuovo individuo, quanto piuttosto a un nuovo dominio dell’essere. La defi-
nizione dell’individuo come «la realtà di una relazione metastabile»9 inva-
lida sin dall’inizio ogni approccio fondato su domini precostituiti, perché
questi dipendono dalla modalità dell’individuazione e non possono esserle
presupposti. I domini risultano infatti dal modo in cui la metastabilità del
sistema individuo/ambiente si conserva o si degrada in seguito all’indivi-
duazione. Diversamente dal dominio fisico, nel quale l’individuo appare
sopprimendo le tensioni del sistema e facendone in questo modo sparire lo
stato metastabile, il dominio del vivente si definisce come quello nel quale
l’individuo conserva la metastabilità del sistema in cui viene alla luce. Ma
cos’è che permette di definire il ‘dominio psichico’ che nasce dall’indivi-
duazione psichica, se un individuo psichico non esiste nello stesso senso
in cui esistono degli individui fisici e viventi? Posta in questi termini la
domanda non è pienamente corretta, perché implica che i domini dell’esse-
re si definiscano in virtù dei tipi di individui che li popolano. Dipendendo
dalla modalità di individuazione, dal modo cioè in cui l’individuazione
conserva o meno la metastabilità di un sistema, i domini non si definiscono
a partire dai tipi di individui che li riempiono, i quali rappresentano proprio
al contrario dei risultati dall’operazione individuante. In questo modo, tut-
tavia, resta ancora aperto l’interrogativo su ciò che consente di definire un
dominio dell’essere.
Alla luce di questo interrogativo, ritorniamo pure sull’affermazione
già citata, secondo la quale «propriamente parlando non c’è nessuna in-
dividuazione psichica, ma solo una individualizzazione del vivente che dà
luogo al somatico e allo psichico». Per comprendere questo punto biso-
gna ricordare che, finché vive, il vivente non cessa di confrontarsi con una
serie di problemi: percepire, nutrirsi, provare un’emozione rappresentano
altrettanti tentativi di risolvere questo o quel problema di compatibilità
con l’ambiente. Ora, la produzione di questa compatibilità può assumere
la forma di una duplicazione dell’unità vitale psicosomatica secondo due
serie di funzioni: le funzioni vitali o somatiche e le funzioni psichiche.
L’individuazione psichica appare allora come una nuova strutturazione del
vivente, che si trova suddiviso in due domini distinti: il dominio somatico
e il dominio psichico. Dove prima c’era un’unità psicosomatica omogenea,
c’è invece, dopo l’individualizzazione, un’unità «funzionale e relaziona-

9 Ivi, pp. 79-80, tr. it. cit., p. 87.


M. Combes - La relazione transindividuale 53

le». Unità, questa, che ci consente di rispondere all’interrogativo posto più


in alto: ciò che definisce un dominio dell’essere non sono le sostanze che
lo riempiono, ma le funzioni che nascono dalla duplicazione individuante e
che gli danno il suo nome.
Seguendo questa descrizione della dualità psico-somatica come risultato
di un’operazione duplicante interna al vivente, e non come un dualismo di
sostanze, diventa possibile riconsiderare la linea di divisione tra l’uomo e
l’animale. L’opposizione tradizionale tra uomo e animale si fonda infatti
sul dualismo sostanziale del somatico e dello psichico, che relega l’ani-
male nell’ambito delle condotte meramente somatiche: «rispetto all’uomo
che percepisce, l’animale sembra solo sentire, senza mai pervenire a una
rappresentazione dell’oggetto indipendente dal contatto con lo stesso»10.
Anche se meno numerose delle condotte istintuali derivanti dall’individua-
zione, ci sono comunque, negli animali, delle condotte che appartengono al
campo dell’individualizzazione: condotte legate a una «reazione organiz-
zata», che implicano da parte del vivente l’invenzione di una struttura. La
differenza tra l’uomo e l’animale appare quindi come «di grado, più che di
natura»11. Le conseguenze di questo anti-essenzialismo antropologico sul
pensiero del collettivo saranno numerose.
L’individuazione psichica, che ad un attento esame si rivela essere più
un’individualizzazione che un’individuazione, è presentata inoltre come
un’«individuazione interna»12. Può sembrare strano qualificare come ‘in-
terna’ una individuazione che, attraverso la percezione e l’azione, investe
la relazione col mondo e gli altri esseri viventi, vale a dire con l’esterno.
Questo carattere ‘interno’ deve essere inteso in opposizione a quello ‘ester-
no’ dell’individuazione che dà la luce al collettivo come realtà che esiste al
di fuori dell’individuo. Ma deve essere inteso soprattutto nel senso in cui
l’individuo è strutturalmente impegnato nei propri atti psichici. La perce-
zione, per esempio, non si compie al di fuori del soggetto come presa su
una forma esterna, ma impegna il soggetto percipiente come parte di un
sistema orientato. L’esempio del bambino e dell’animale lo mostra già in
modo chiaro: percepire è inventare una forma allo scopo di risolvere un
problema di incompatibilità tra il soggetto percipiente e il mondo nel quale
esiste. Si può addirittura supporre che un soggetto non percepisca e non
agisca al di fuori se non in quanto operi simultaneamente in sé una indivi-
duazione. Detto altrimenti, un soggetto «opera la separazione delle unità

10 Ivi, p. 140, tr. it. cit., p. 139.


11 Ivi, p. 141, tr. it. cit., p. 139.
12 Ivi, p. 19, tr. it. cit., p. 34.
54 Il transindividuale

nel mondo (che è oggetto della percezione, base dell’azione e garante delle
qualità sensibili), nella misura in cui compie in se stesso una individualiz-
zazione progressiva attraverso salti successivi»13. Lo psichismo, si è visto,
si riassume anche per Simondon in una simile individualizzazione progres-
siva interna all’individuo, ed è per questa stessa ragione che non può essere
compreso come una sostanza: il fatto che sia detto una ‘relazione interna’
non significa che esso sia un’interiorità.
Né foro interiore né pura esteriorità senza consistenza, lo psichismo si
costituisce all’incrocio di una doppia polarità, tra la relazione al mondo e la
relazione a sé (senza che si sappia ancora troppo bene in cosa consista que-
sto ‘Sé’ oramai desostanzializzato). La sua realtà è trasduttiva, è quella di
una relazione che collega due legami. Questa relazione, si è visto, si compie
nell’individuo come individualizzazione; essa è determinata dall’affettività
e dall’emotività, che definiscono lo «strato relazionale costituente il centro
dell’individualità»14. Situando il nucleo dell’individualità nell’affettività e
nell’emotività Simondon prende le distanze dalla maggior parte delle con-
cezioni dell’individualità psichica, fondate su una teoria della coscienza o
sull’ipotesi dell’inconscio. Il vero centro dell’individualità, non puntuale, è
dell’ordine del subcosciente: vedendo nell’inconscio un concetto costruito
sul modello – pur capovolto – della coscienza, e proprio per questo ancora
troppo sostanzialistico, Simondon è costretto a cercare altrove un fattore
capace di tenere insieme la relazione a sé e la relazione al mondo, e questa
ricerca porta alla luce quello strato affettivo-emotivo, dominio delle in-
tensità, che solo permette di comprendere come all’interno degli individui
possano operarsi delle riconfigurazioni psichiche globali mediante un at-
traversamento di soglie.
Su questo punto l’autore de L’individuazione psichica e collettiva è
molto vicino alla concezione spinoziana del soggetto come luogo di una
continua variazione della potenza di agire, in funzione della sua capacità
di affettare gli altri soggetti (di essere la causa di affetti che aumentano o
diminuiscono la loro potenza di agire) e di essere affetto da essi (vale a dire
di provare gli effetti delle loro azioni nella forma di affetti che aumentano
o diminuiscono la propria potenza). Nella misura in cui la differenza etica
che esiste tra ciò che libera e ciò che asservisce si riconduce a quella tra gli
affetti che aumentano la nostra potenza di agire e quelli che la diminuisco-
no, si può dire che la capacità di affettare e di essere affetti costituisce il
centro della teoria spinoziana del soggetto. Al punto che la coscienza, lungi

13 Ivi, p. 97, tr. it. cit., p. 101.


14 Ivi, p. 99, tr. it. cit., p. 103.
M. Combes - La relazione transindividuale 55

dall’essere un’entità stabile e autonoma, suscettibile di ospitare un libero


arbitrio, varia in funzione della globalità della vita affettiva del soggetto,
in funzione cioè del rapporto di forza che si accende in lui sia tra gli affetti
attivi e quelli passivi, sia, all’interno di questi ultimi, tra le passioni gioiose
(che aumentano la sua potenza) e le passioni tristi (che la diminuiscono).
Ciò che Simondon dichiara dello strato affettivo-emotivo, vale a dire che
«le sue modificazioni sono le modificazioni dell’individuo»15, è già vero
della capacità spinoziana di affettare ed essere affetto. E ciò che si delinea
in queste parole è una concezione del soggetto nell’elaborazione della qua-
le la relazione con l’esterno non è ciò che capita a un soggetto già costitui-
to, ma ciò senza di cui esso non potrebbe costituirsi.

2. Affettività ed emotività, la vita più che individuale

Affrontare la questione dello psichismo attraverso la discussione di


un’individuazione psichica e collettiva permette a Simondon di infrange-
re l’opposizione sostanziale tra individuo e collettività, all’interno della
quale la vita psichica si trova tradizionalmente definita come vita interna
dell’individuo. In questa nuova prospettiva, infatti, «la realtà psichica non
è chiusa in se stessa», e «la problematica psichica non può risolversi in
maniera infra-individuale», perché «una vita psichica che volesse essere
infra-individuale non riuscirebbe a superare la disparatezza16 fondamenta-
le tra problematica percettiva e problematica affettiva»17. In cosa consiste
questa disparatezza, questo scarto, questa incompatibilità?
La ‘problematica percettiva’ è quella dell’esistenza di una molteplicità
di mondi percettivi, all’interno dei quali è necessario inventare una forma
che instauri una compatibilità tra l’ambiente in cui si opera la percezione
e l’essere che percepisce. Questa problematica concerne l’individuo come
tale. Perché precisare che quello di cui parliamo qui è l’individuo come

15 Ivi, p. 99, tr. it. cit., p. 103.


16 La nozione di disparatezza (disparation), frequente in Simondon, designa una
tensione, una incompatibilità tra due elementi di una situazione, che può essere
risolta solo da una nuova individuazione, che dia luce a un nuovo livello di realtà.
La visione, per esempio, è descritta da Simondon come la soluzione di una dispa-
ratezza tra l’immagine percepita attraverso l’occhio sinistro e quella percepita at-
traverso l’occhio destro. Queste due immagini bidimensionali disparate invocano
l’apparizione di una dimensione tridimensionale, nella quale possano unificarsi.
17 G. Simondon, L’Individu et sa genèse physico-biologique, Millon, Paris 1995, pp.
164-165, tr. it. a cura di G. Carrozzini, Mimesis, Paris 2011, p. 224.
56 Il transindividuale

tale? Perché la problematica affettiva, all’inverso, è l’esperienza nella qua-


le un essere si renderà conto di non essere soltanto un individuo. L’affet-
tività, lo strato relazionale che costituisce il centro dell’individualità, ci è
apparsa come rapporto tra la relazione dell’individuo con se stesso e quella
con il mondo. La relazione con se stesso si effettua però innanzitutto nella
forma di una tensione: l’affettività, infatti, mette l’individuo in relazione
con qualcosa che egli porta con sé, ma che prova a giusto titolo come
esterno all’individuo che egli è. L’affettività comporta una relazione tra
l’essere individuato e una parte della realtà preindividuale che ogni indi-
viduo porta con sé: come «relazione a sé», quindi, la vita affettiva è una
relazione con ciò che, in sé, non è dell’ordine dell’individuo18, e ci rivela
dunque che noi non siamo soltanto degli individui, e il nostro essere non è
riducibile al nostro essere individuato.
Nel linguaggio simondoniano si chiama soggetto la realtà costituita
dall’individuo e dalla parte del preindividuale che lo accompagna finché
vive. Se il problema dell’individuo come tale è quello dei mondi percettivi,
«il problema del soggetto è quello dell’eterogeneità tra i mondi percettivi
e il mondo affettivo, tra l’individuo e il preindividuale»19. Eterogeneità
propria del soggetto come tale, del soggetto in quanto soggetto, in quan-
to cioè è un essere più che individuale, perché «il soggetto è individuo e
altro che individuo; è incompatibile con se stesso»20. Il che significa per
Simondon che il soggetto non può risolvere la tensione che lo caratterizza
se non all’interno del collettivo, ed è quindi un essere teso verso il col-
lettivo, la cui realtà è quella di una «via transitoria». Ora, il soggetto può
essere tentato, o meglio costretto, a risolvere questa tensione in maniera
intra-soggettiva. Tentativo votato allo scacco, ma che costituisce secondo
Simondon una vera e propria esperienza, meritevole di attenzione: l’espe-
rienza dell’angoscia.

18 Alcune ricerche psicologiche recenti mostrano, anche se da un punto di vista


diverso, che il ‘Sé’ è più ampio dell’essere individuato. Così, Le monde inter-
personnel du nourrisson (PUF, Paris 1989), di Daniel Stern, si interessa all’emer-
genza progressiva dei «sensi di sé» grazie ai quali il lattante, il bebè e il bambino
entrano in relazione col loro ambiente, e mostra che, già prima della costituzione
del Sé individuale, il piccolo umano non si confonde con l’esterno, ma che si
costituiscono progressivamente diverse modalità del sé. Irriducibili a degli stadi
dello sviluppo, questi sensi del sé testimoniano dell’esistenza di una vita affettiva
informata, vale a dire tutt’altro che caotica, e tuttavia ancora impersonale
19 G. Simondon, L’Individuation psychique et collective, cit., p. 108, tr. it. cit., p.111,
c.n.
20 Ibidem.
M. Combes - La relazione transindividuale 57

L’autore dell’Individuazione psichica e collettiva riserva al vissuto


dell’angoscia un posto centrale, subito dopo la prima esposizione della
nozione di transindividuale nella prima parte dell’opera, intitolata L’indi-
viduazione psichica. Se l’affettività pone il soggetto di fronte al preindivi-
duale che è in lui e che eccede però la sua individuale capacità di assimi-
lazione, questo eccesso può assumere nel soggetto che lo prova la forma
di un’invasione insopportabile. Agli occhi di Simondon l’angoscia non è
dunque un vissuto passivo, ma lo sforzo attraverso il quale il soggetto cerca
di risolvere in se stesso la tensione tra il preindividuale e l’individuale, il
tentativo di individuare d’un tratto tutto il preindividuale, come per viverlo
interamente.
Nell’angoscia «il soggetto si sente esistere come problema posto a se
stesso, e avverte la sua divisione tra natura preindividuale ed essere indivi-
duato». È per questo che una simile esperienza si trova «agli antipodi del
movimento col quale ci si rifugia nella propria individualità», e attraverso
il quale si misconosce la presenza in sé di una parte della natura preindi-
viduale che eccede l’individuo costituito21. Lungi dal misconoscere in sé
questa parte che è più grande del ‘Sé’, l’angosciato non solo ne fa doloro-
samente esperienza, come una natura che non potrà mai coincidere col suo
essere individuato, ma cerca al tempo stesso di ricostituire in sé l’unità del
preindividuale e dell’individuale. L’esperienza dell’angoscia appare dun-
que in qualche modo come la sperimentazione di un invivibile, uno sforzo
attraverso il quale il soggetto tenta di attualizzare in lui ciò che, per defi-
nizione, non è alla portata della sua interiorità, ma distrugge ogni interio-
rità. Esperienza impossibile e tuttavia reale del prendividuale, l’angoscia è
«rinuncia all’essere individuato sommerso dall’essere preindividuale, che
accetta di attraversare la distruzione dell’individualità»22.
Che l’angoscia si presenti come un disastro soggettivo non impedisce
tuttavia che si possa trarre dalla sua descrizione, come direbbe Michaux,
«un po’ di sapere»23. Dichiarando che l’angoscia rappresenta «ciò che di
più elevato può essere compiuto dall’essere solitario in quanto soggetto»24,

21 Ivi, p. 111, tr. it. cit., p. 114.


22 Ivi, p. 114, tr. it. cit., p. 116.
23 Al di là dell’onesto riconoscimento dell’ignoranza in cui siamo circa il limite
della trasformazione indotta da questa esperienza. Dopo aver affermato che l’an-
goscia sembra non poter condurre a una nuova individuazione, Simondon sostie-
ne, con una diversa sfumatura, che «su questo punto non si può tuttavia avere
nessuna certezza assoluta: questa trasformazione dell’essere soggetto alla quale
tende l’angoscia è forse possibile in qualche caso molto raro» (ibidem).
24 Ibidem.
58 Il transindividuale

Simondon afferma infatti due cose: in primo luogo che l’angoscia è


un’esperienza nella quale l’individuo si riconosce soggetto scoprendo in sé
l’esistenza di una parte preindividuale, scoperta che prende la forma vio-
lenta di una sommersione, e in secondo luogo che si tratta dell’esperienza
di una sostituzione, che realizza un soggetto solo, nell’assenza di ogni altro
soggetto e a causa di questa assenza.
Se l’angoscia è un modo di risoluzione, catastrofico proprio perché soli-
tario, della tensione interna al soggetto tra il preindividuale e l’individuato,
è verosimile che esista un altro modo, non catastrofico, di risoluzione di
questa tensione. Agli occhi di Simondon, di fatto, l’angoscia è prima di
tutto il sostituto disastroso della relazione transindividuale, il tentativo at-
traverso il quale colui che si scopre soggetto, in assenza di ogni possibile
incontro con un altro soggetto, cerca di risolvere in sé ciò che eccede la
sua individualità: tentativo disperato e votato allo scacco e il cui fallimento
prende la forma di una distruzione dell’individualità. Non si potrebbe sug-
gerire più chiaramente che la soggettività non si lascia contenere nei limiti
dell’individuo.

3. Il paradosso del transindividuale

L’esperienza dell’angoscia da parte del soggetto mostra che la tensione


tra il preindividuale e l’individuato non può risolversi all’interno dell’esse-
re stesso, ma unicamente nella relazione con l’altro essere. Questa tensio-
ne, si è visto, è esperita come incompatibilità tra la problematica percettiva
e quella affettiva. Come apprendiamo alla fine del secondo capitolo della
prima parte de L’individuazione psichica e collettiva, però, «una mediazio-
ne tra percezioni ed emozioni è condizionata dal dominio del collettivo, o
transindividuale»25. È quindi solo nell’unità del collettivo – come ambien-
te nel quale possono unificarsi percezione ed emozione – che il soggetto
può ricongiungere i due versanti della sua attività psichica e coincidere in
qualche modo con se stesso. Bisogna forse concludere da questo passaggio
che il transindividuale si identifica con il dominio del collettivo, come sem-
bra alludere la fine della frase? Non è certo ciò che suggerisce Simondon
nell’introduzione, quando presenta il valore paradigmatico della nozione di
trasduzione «per passare dall’individuazione fisica all’individuazione or-
ganica, dall’individuazione organica al’individuazione psichica, e dall’in-

25 Ivi, p. 122, tr. it. cit., p. 123, c.n.


M. Combes - La relazione transindividuale 59

dividuazione psichica al transindividuale soggettivo e oggettivo»26. Per-


ché al posto dell’‘individuazione collettiva’, che ci si aspetterebbe di veder
menzionata, compare invece il ‘transindividuale’, scisso secondo la distin-
zione tra soggetto ed oggetto? Una simile ‘scissione’ non avrebbe luogo se
si potesse identificare transindividuale e collettivo. Resta allora da capire
perché Simondon forgi questa nozione di transindividuale e la introduca
nel cuore dell’individuazione psichica e collettiva.
Quando Simondon dichiara, dopo il passaggio precedentemente citato,
che «il collettivo, per un essere individuato, è il nucleo misto e stabile nel
quale le emozioni sono dei punti di vista percettivi e i punti di vista sono
delle emozioni possibili»27, sta parlando del collettivo considerato non già
‘oggettivamente’, dal punto di vista del problema della sua natura come
realtà costituita, ma dal punto di vista della problematica psichica, dei suoi
effetti sugli individui che prendono parte alla sua individuazione. La natura
di questa reciprocità di emozioni e di punti di vista percettivi si chiarisce
poco dopo, quando Simondon spiega che «la relazione con l’altro ci mette
in questione come esseri individuati, ci pone di fronte agli altri come degli
esseri giovani o vecchi, malati o sani, forti o deboli, uomini o donne, in una
relazione in cui non si è mai assolutamente giovani o vecchi, ma sempre
più giovani o più vecchi di un altro». Non si tratta più, qui, di semplice
percezione, perché ciò che viene percepito è divenuto inseparabile da ciò
che viene provato: ci si sente vecchi in rapporto a qualcuno di più giovane,
deboli in rapporto a qualcuno di più forte etc.
Il collettivo è dunque, agli occhi di Simondon, l’ambiente di risoluzione
della tensione tra delle problematiche che restano incompatibili al livello
del soggetto isolato. In questo modo, però, la questione del ‘rapporto’ tra
individuazione psichica e individuazione collettiva non viene ancora inte-
ramente risolta. In particolare, non sappiamo ancora in quale senso queste
due relazioni possano essere dette «reciproche». È molto probabilmente
alla nozione di transindividuale, situata all’incrocio tra le due individuzio-
ni, che spetta il compito di chiarire la natura di questa reciprocità. Come è
reso immediatamente chiaro dalla tesi secondo la quale il collettivo deriva
da una specifica operazione di individuazione, il «passaggio» dallo psichi-
co al collettivo non è dato sotto forma di una appartenenza degli individui
a una comunità (come un gruppo etnico o culturale), e non può essere con-
fuso con la problematica filosofico-giuridica del passaggio della società
civile alla società politica attraverso un patto o contratto.

26 Ivi, p. 26, tr. it. cit., p. 40, c.n.


27 Ivi, p. 122, tr. it. cit., p. 124, c.n.
60 Il transindividuale

Un collettivo si costituisce quando degli individui si impegnano in una


nuova individuazione a titolo di suoi elementi. Ma cos’è che condiziona il
‘passaggio’ della vita psichica individuale a quella collettiva? Ricordan-
do come la tensione tra individuale e preindividuale spinga il soggetto a
cercare una soluzione andando al di là di se stesso, appare chiaro che non
è in nessun caso in quanto essere individuato che il soggetto può imporsi
quale condizione del collettivo. Neppure si può dire, però, che il collettivo
è presente nei soggetti nella forma di una ‘socialità implicita’, che essi
potrebbero limitarsi a realizzare. Per definizione, infatti, la tendenza degli
individui a prendere parte a un’individuazione collettiva non può essere
compresa come una semplice disposizione alla socialità, una potenza da
attualizzare, ed è del resto proprio per questo, per rendere conto cioè della
spinosa questione del ‘passaggio’ al collettivo in termini diversi da quelli
di una mediazione formale o di una mera attualizzazione di una potenza
naturale, che Simondon forgia il concetto di transindividualità.
L’impegno del soggetto in una individuazione collettiva, si è visto, so-
pravviene come risoluzione della tensione tra ciò che in lui è preindividuale
e ciò che è individuato. La tensione che il soggetto esperisce nell’affettività
e nell’emotività rappresenta la forma nella quale giunge a percepire in sé
stesso la latenza del collettivo. Questa latenza non è però dell’ordine di una
dynamis che mirerebbe a divenire energeia, coincidendo invece con un
eccesso dell’essere preindividuale che si rivela inassimilabile all’interno
dell’essere individuato: per accedere al collettivo, e per individuare la parte
del preindividuale che porta con sé, l’individuo deve trasformarsi.
La tensione vissuta dal soggetto appare allora dell’ordine del segno: se-
gno della presenza, nel soggetto, di qualcosa che eccede la sua individualità,
e che aspira a strutturarsi. Bisogna però guardarsi dal cedere alla tentazione
teleologica che vedrebbe questo segno come un precursore: più simile a
un segno della mano che a un segno premonitore, esso non annuncia, ma
richiede una risposta. Rispondere a questo segno vuol dire per l’individuo
superare una prova, perché il transindividuale deve essere scoperto, e può
esserlo soltanto «al termine della prova [che il soggetto] si è imposto, e
che è una prova di isolamento»28. La prova senza la quale un soggetto non
potrebbe incontrare il transindividuale è quella della solitudine.
Che il transindividuale, modalità di relazione con l’altro costitutiva
dell’individuazione collettiva, debba essere scoperto, e non possa esserlo
se non in seguito a una prova solitaria, è per lo meno un paradosso, ed è
quindi impossibile svelare il ‘mistero’ del transindividuale, traendo qual-

28 Ivi, p. 155, tr. it. cit., p. 152.


M. Combes - La relazione transindividuale 61

che insegnamento sulla sua natura, senza attardarsi un poco sull’esposi-


zione di questa idea paradossale. Simondon ne trova un’esemplificazione
nell’incontro dello Zarathustra nietzschiano con il funambolo. «La rela-
zione transindividuale è quella di Zarathustra […] col funambolo che si
schianta al suolo davanti ai suoi occhi e che è stato abbandonato dalla
folla; […] Zarathustra si sente fratello di quest’uomo e ne trascina via
il cadavere per dargli sepoltura; è nella solitudine, in questa presenza
di Zarathustra a un amico morto abbandonato dalla folla, che comincia
la prova della transindividualità»29. La prova di Zarathustra è quella at-
traverso la quale egli si isola dagli uomini, ai quali si rende conto di
aver voluto parlare troppo presto, e si rifugia sulla montagna, dove im-
para a rinunciare alla predicazione e a parlare con il Sole. Se ‘la prova
della transindividualità’ comincia con la solitudine, possiamo veramente
dire che la scoperta del transindividuale si verifica solo ‘al termine’ del-
la prova? Si avrebbe il diritto di farlo se l’autore avesse parlato di una
prova che sfocia nella scoperta della transindividualità; ma l’espressione
‘la prova del transindividuale’, che può certo intendersi parzialmente in
questo senso, ci dice anche dell’altro: il genitivo oggettivo (‘del’) indica
infatti che ciò che viene provato in essa non è, propriamente parlando, la
solitudine, ma già, attraverso di essa, la transindividualità stessa. Sembra
quindi che sia soprattutto per comodità del linguaggio che la scoperta
del transindividuale viene indicata come il ‘termine’ della prova. Il tran-
sindividuale non è precisamente un termine, un’entità trascendente che
si rivelerebbe in seguito a un’iniziazione. Bisogna quindi supporre che
il soggetto abbia presentito ciò che gli si manifesta nel corso della pro-
va, perché diversamente non si comprenderebbe neppure da dove nasca,
in lui, la necessità di una prova. È proprio questo l’aspetto dell’esem-
pio di Zarathustra che interessa Simondon: esso ci mostra infatti «che la
prova stessa è spesso imposta e innescata dal lampo di un avvenimento
eccezionale»30. L’incontro col funambulo è per Zarathustra l’evento che
inaugura la prova, ma è solo nell’isolamento che può dispiegarsi il pro-
cesso di costituzione del transindividuale del quale l’evento è come la
scintilla. Solo uno sguardo esterno può vedere il transindividuale come
un termine, e l’evento in questione come una ‘rivelazione’: in realtà «il
transindividuale è auto-costitutivo»31 e la solitudine è in qualche modo la
condizione o l’ambiente di questa auto-costituzione.

29 Ibidem.
30 Ivi, p. 156, tr. it. cit., 152.
31 Ivi, p. 156, tr. it. cit., p. 153.
62 Il transindividuale

L’attraversamento della solitudine, che Simondon assume come pa-


radossale condizione dell’incontro con il transindividuale, non può non
entrare in risonanza con l’altra esperienza solitaria già evocata, quella
dell’angoscia. Queste due esperienze della solitudine sono tuttavia talmen-
te antitetiche da autorizzarci a pensare l’angoscia come un riflesso invertito
della prova del transindividuale. L’esperienza dell’angoscia comincia con
l’auto-affezione del soggetto da parte del preindividuale e si conclude − ma
sarebbe meglio dire che si in-conclude − in una dissoluzione catastrofica
delle strutture individuali: essa si svolge tutta nell’elemento di una solitu-
dine che coincide con l’assenza di ogni altro soggetto. La prova del transin-
dividuale, al contrario, attraversa la solitudine come un ambiente denso,
popolato di relazioni. Sottraendosi alla relazione comune con gli altri, colui
che compie l’esperienza solitaria del transindividuale scopre una relazione
di tutt’altra natura: la prova della solitudine inizia con un incontro (foss’an-
che quello, breve e violento, con un essere in agonia), e il soggetto isolato
si mantiene nella prossimità di un di fuori (come quella «presenza pantei-
stica di un mondo sottomesso all’eterno ritorno»32). La solitudine non è più
quella – subita − di un abbandono, ma risulta dalla sottrazione − operata dal
soggetto in risposta all’evento − di ogni relazione che obliteri il «più che
individuale» che egli porta in sé. La prova solitaria della transindividualità
non può essere un’esperienza di isolamento innanzitutto perché ciò che la
innesca è un incontro evenemenziale. Il carattere straordinario di questo
evento non dipende però dall’identità di colui che viene incontrato, ed è
forse proprio per questo che, dopo aver evocato l’incontro pascaliano col
Cristo crocifisso, Simondon passa all’esempio del funambolo, sviluppan-
dolo assai più diffusamente del primo. Il funambolo è infatti l’essere più
ordinario che si possa trovare. Più precisamente, è solo in quanto diviene
assolutamente ordinario, quando la sua caduta mortale lo priva della sua
qualità di funambulo, che può divenire per Zarathustra il vettore di una
relazione di altro tipo rispetto a quella che lega degli individui in ragione
della loro funzione e che è costitutiva della vita in società. Lungi dall’esse-
re la soppressione di ogni relazione, la solitudine di cui ci parla Simondon è
piuttosto la conseguenza di una relazione di natura diversa rispetto a quella
interindividuale, relazione che egli chiama transindividuale e che, istauran-
dosi, evoca la momentanea sospensione di ogni relazione interindividuale.
Ma cos’è che distingue una relazione interindividuale da una transin-
dividuale, e perché la costituzione dell’una esige, fosse pure momenta-
neamente, la destituzione dell’altra? Nella relazione interindividuale, che

32 Ivi, p. 156, tr. it. cit., p. 152.


M. Combes - La relazione transindividuale 63

secondo Simondon è più un «semplice rapporto» che una relazione vera e


propria, l’individuo entra in relazione con gli altri e appare ai propri stessi
occhi come una somma di immagini sociali, nella quale il Sé è «compre-
so come un personaggio attraverso la rappresentazione funzionale che ne
viene fatta dagli altri»33. Seppur sufficiente alla maggior parte degli scambi
sociali, questo tipo di relazione non ci permette però di cogliere la natura
di un ‘collettivo’ che non si confonde con la comunità umana costituita, ma
può formarsi solo a partire da qualcosa che è altro sia rispetto all’individuo
costituito sia rispetto al sociale come entità, e che si identifica con quella
parte preindividuale dei soggetti che rimane ineffettuata in ogni relazione
funzionale tra gli individui. Il rapporto interindividuale costituisce un osta-
colo, o almeno una ragione di deviazione, rispetto alla scoperta e all’ef-
fettuazione di questa preindividualità residuale. È per questo che soltanto
un evento eccezionale, capace di sospendere la modalità funzionale della
relazione con l’altro, di destituire l’altro soggetto della sua funzione sociale
e di fare apparire ciò che in esso eccede la sua individualità, può costringe-
re un soggetto a rendersi conto di ciò che in lui è più che individuale, e ad
impegnarsi nella prova invocata da questa scoperta. Un simile evento, che
infrange il rapporto interindividuale funzionale e genera la necessità di una
prova, è disindividuante34 per il soggetto che lo affronta: provoca una mes-
sa in questione del soggetto, che prende necessariamente la forma di una
liberazione momentanea dall’individualità costituita, sommersa dal prein-
dividuale. A differenza della disindividuazione catastrofica dell’angoscia,
nella quale l’individuo si trova destrutturato a vantaggio dell’ascesa di un
fondo indeterminato in cui si dissolve ogni esperienza, la disindividuazio-
ne transindividuale è la condizione di una nuova individuazione.
Capiamo meglio, ora, perché la scoperta del transindividuale deriva da
un incontro ed esige la solitudine come ambiente da attraversare. È soltanto
nella solitudine che si disfa l’appartenenza comunitaria. Impegnarsi nella
costituzione del collettivo significa innanzitutto, per il soggetto, destituire
la comunità, o quantomeno deporre ciò che in essa impedisce la percezione
del preindividuale che è in lui e l’incontro con il transindividuale: le identi-
tà, le funzioni, tutta quella rete del «commercio» umano − la cui principale
moneta di scambio, come ha mostrato bene Mallarmé, è il linguaggio, «le

33 Ivi, p. 154, tr. it. cit., p. 151.


34 Per Simondon ogni individuazione psico-sociale, nella misura in cui essa ha ne-
cessariamente per elementi degli esseri già individuati, presuppone una relativa
disindividuazione degli individui. In questa disindividuazione il potenziale non
individuato contenuto in ciascuno di essi si libera, rivelandosi disponibile a un’in-
dividuazione ulteriore.
64 Il transindividuale

parole della tribù» nel loro uso quotidiano − che assegna a ciascuno il suo
posto all’interno dello spazio sociale.

4. Un dominio di passaggio (il transindividuale soggettivo)

La defezione della relazione funzionale con l’altro che origina da un


evento imprevedibile non può avere la sua fonte nella decisione volonta-
ria del soggetto. Al contrario, è proprio la relazione disindividuante con
l’altro a far sì che un soggetto possa apparire a se stesso come soggetto,
ossia come un essere psichico che può avere un’autentica relazione con se
stesso35. È solo quando non è più incontrato tramite la sua funzione che
l’altro diventa ciò che mi rimette in questione, mi forza a non percepirmi
attraverso le semplici rappresentazioni intersoggettive della socialità. È per
questo che l’individualità psicologica del soggetto si costituisce al di là
del gioco di immagini nel quale un individuo entra in un rapporto funzio-
nale con l’altro, ed «appare come ciò che elabora se stesso elaborando la
transindividualità»36. La relazione transindividuale dei soggetti appare così
come una relazione autocostituente del soggetto a se stesso attraverso ciò
che nell’altro non è ruolo o funzione, ma realtà preindividuale.
Transindividuale non è sinonimo di collettivo costituito, ma non designa
neppure una dimensione del soggetto psicologico separata dal collettivo.
L’individualità psicologica non preesiste già formata al collettivo come la
sua condizione, e il collettivo non è costituito di semplici entità psichiche.
Il fatto che l’individualità psicologica «si elabora elaborando la transindi-
vidualità» indica piuttosto che l’attitudine al collettivo, la presenza del col-
lettivo nei soggetti nella forma di un potenziale preindividuale destruttura-
to, costituisce una condizione della relazione del soggetto con se stesso. La
possibilità di definire una relazione transindividuale, infatti, è strettamente

35 ‘Prima’ di questa relazione disindividuante, l’individuo è certo in rapporto con se


stesso, ma solo come una serie di immagini e di funzioni… Si potrebbe tuttavia
obiettare che, anche ‘in assenza’ di ogni incontro con l’altro soggetto, un essere
può esperirsi come soggetto nell’angoscia, vale a dire nella relazione disindivi-
duante con se stesso. È vero che l’angoscia, come prova di una preindividualità,
non è un’esperienza individuale, ma è già soggettiva. Nella misura in cui il sog-
getto si sforza di risolvere nella sua individualità tutto il preindividuale che lo
sommerge, non si può dire che egli si accetti come soggetto: l’angoscia è piuttosto
l’esperienza nella quale un soggetto, nell’atto stesso di scoprire in sé una dimen-
sione irriducibile alla semplice individualità costituita (una dimensione ‘soggetti-
va’, appunto), si sforza di riassorbirla all’interno del suo essere individuale.
36 Ivi, p. 157, tr. it. cit., pp. 53-54.
M. Combes - La relazione transindividuale 65

connessa alla natura trasduttiva del soggetto psicologico, che sembra non
poter avere un rapporto con se stesso (o con un ‘dentro’) senza rivolgersi al
tempo stesso verso il fuori.
Riguardo alla distinzione già segnalata tra individuazione psichica e
transindividuale soggettivo e oggettivo ci si può allora domandare in cosa
essa consista e in che modo, inoltre, il transindividuale soggettivo diffe-
risca dall’individuazione psichica. A questa domanda è possibile rispon-
dere che la problematica psichica presenta tutta una serie di aspetti che
non riguardano la transindividualità: anche se viene riconfigurata dalla sua
iscrizione nel collettivo (nel quale i punti di vista diventano delle possibili
emozioni), una funzione psichica come la percezione non riguarda esclu-
sivamente il collettivo, ma innanzitutto la modalità attraverso la quale un
vivente si inscrive nel mondo.
Senza dubbio l’individualità psicologica deve essere compresa non
come il prodotto sostanziale dell’individuazione psichica, ma come il risul-
tato processuale, in progress, di ciò che questa individuazione orienta verso
l’apertura del collettivo. L’individualità psicologica si costituisce necessa-
riamente come il focolaio della costituzione del collettivo, chiarendo per-
ché «il dominio dell’individualità psicologica non ha uno spazio proprio,
ma esiste soltanto come una sovrimpressione in rapporto al dominio fisico
e a quello biologico»37. L’individualità psicologica si costituisce come rela-
zione del mondo fisico e del mondo biologico, «relazione del mondo e del
Sé», perché essa è intrinsecamente rivolta verso il collettivo: è in questo
senso che non esiste un «mondo psicologico» separato, ma già da sempre
un «universo transindividuale»38. L’individualità psicologica rivela così la
propria natura essenzialmente transizionale, tale da abbracciare l’insieme
di processi specifici che organizzano il passaggio dal livello dell’individua-
zione fisica o biologica, popolato da individui fisici e da esseri viventi, al
livello del collettivo, che come vedremo deriva da un ultimo sfasamento
dell’essere. Si spiega così perché non esiste agli occhi di Simondon niente
di simile a una realtà psicologica costituita (qualcosa come un ‘individuo
psicologico’) suscettibile di costituire l’oggetto di una scienza psicologica.
Alla luce del postulato della natura transizionale dell’individualità psi-
chica possiamo allora chiarire il senso della differenza tra il transindividua-
le soggettivo e quello oggettivo. Enunciata sorprendentemente sulla base
di una divisione che tutta la filosofia dell’individuazione mira a rimettere in
questione, questa distinzione mostra di non avere altra funzione che quella

37 Ivi, p. 152, tr. it. cit., p. 149.


38 Ivi, p. 153, tr. it. cit., p. 150.
66 Il transindividuale

di attirare l’attenzione sul doppio ‘versante’ di una stessa transindividuali-


tà: il ‘transindividuale oggettivo’ indica ciò che nel transindividuale con-
sente di descrivere la costituzione del collettivo, costituzione che può esse-
re considerata dal punto di vista dei suoi effetti sul soggetto sotto il nome
di ‘transindividuale soggettivo’. Questa ipotesi consente di rendere conto
della doppia esposizione della nozione di transindividuale ne L’individua-
zione psichica e collettiva, una prima volta nella parte sull’individuazione
psichica e una seconda in occasione della descrizione dell’individuazione
collettiva. Così, anche se nel corso del testo non viene più evocata (ve-
rosimilmente per via della sua inadeguatezza a una realtà che sfugge sia
alla soggettività che alla oggettività costituite) la distinzione iniziale tra
transindividuale soggettivo e oggettivo, può essere letta come un indizio
del diverso aspetto che la transindividualità necessariamente presenta a se-
conda del punto di vista in cui viene considerata.
Si parlerà allora di transindividuale soggettivo quando si vorrà mostrare
che l’individualità psichica è transindividuale, e che un individuo non può
consistere psichicamente in se stesso. È risultato chiaro, infatti, che ciò che
dà consistenza alla vita psichica individuale non si trova né dentro né fuori
l’individuo, ma in quella parte di preindividuale che esso non può risolvere
in sé e che lo accompagna sorpassandolo. Ciò che nel soggetto è condizio-
ne del collettivo (e costituisce come si vedrà la base del transindividuale
oggettivo) è al tempo stesso il fondamento dell’individualità psicologica: a
precedere e rendere possibile il collettivo, non lo si ripeterà mai abbastan-
za, non è la relazione a sé, ma la relazione con ciò che, in sé, eccede l’indi-
viduo e comunica immediatamente con la parte non individuale dell’altro.
Ciò che dà consistenza alla relazione a sé, o alla dimensione psicologica
dell’individuo, è ciò che lo eccede e lo orienta verso il collettivo: ciò che
vi è di reale nello psicologico è il transindividuale. Proporre una distin-
zione tra transindividuale soggettivo e oggettivo significa suggerire che la
transindividualità chiarisce altrettanto bene la natura del collettivo come
realtà in divenire che quella dell’individualità psichica, significa indicare
la presentazione del versante soggettivo del transindividuale svolta nella
prima parte de L’individuazione psichica e collettiva come il chiarimento
del senso in cui noi possiamo essere detti «soggetti».
Tutto il paradosso del transindividuale deriva allora dal fatto che esso con-
siste in un processo di auto-costituzione, ma ci si presenta come se sorgesse
dal di fuori, perché può emergere per noi solo sullo sfondo dei rapporti in-
terindividuali che costituiscono la nostra esistenza sociale e che si trovano
momentaneamente destituiti dalla sua costituzione. Più alla radice, il tran-
sindividuale emerge da ciò che in noi è altro da noi, si costituisce a partire
M. Combes - La relazione transindividuale 67

da ciò che nel soggetto non è il nucleo individuale costituito: «in ogni istante
dell’autocostituzione il rapporto tra l’individuo e il transindividuale si defi-
nisce come ciò che SUPERA L’INDIVIDUO PROLUNGANDOLO». Con
questa inusuale scrittura in maiuscolo l’autore richiama l’attenzione sulla
paradossale topologia del transindividuale, che «non è esterno all’individuo
e ciononostante si distacca in una qualche misura dall’individuo»39. Propria-
mente parlando, infatti, il transindividuale non è né interno né esterno all’in-
dividuo, ma si costituisce «al limite tra esteriorità e interiorità», in quella zona
non individuale che è per il soggetto come un esterno interno, e che «non
costituisce per l’individuo una dimensione esteriore, ma un superamento»40.
Nella misura in cui affonda le sue radici in questa zona di noi stessi
esterna all’individuo, il transindividuale sorge in noi come dal di fuori.
La struttura del soggetto proposta da Simondon è più simile a un processo
di soggettivazione che a un soggetto concepito come sostanza pensante
o come struttura derivata (come il soggetto althusseriano che risponde al
richiamo dell’ideologia), un soggetto sprovvisto di interiorità perché do-
tato «di un dentro che è soltanto una piega del fuori, come se la nave non
fosse che un’increspatura del mare»41. Questo dentro che presenta la più
grande relatività − cosa c’è di più relativo che l’interno di una piega, che
un nonnulla basta a disfare? − riecheggia la relazione tra esteriorità e in-
teriorità nella quale secondo Simondon si costituisce il punto di partenza
della transindividualità. Da questo punto di vista la figura della deleuziana
piega non sembra estranea al modello di elaborazione soggettiva proposto
dal pensatore della transindividualità, anche se questa elaborazione viene
descritta nei termini di una doppia dialettica, «l’una che interiorizza l’ester-
no, l’altra che esteriorizza l’interno»42. Questa duplice dialettica, lungi dal
modello logico hegeliano che l’intero pensiero simondoniano ricusa, è in
realtà senza mediazione né sintesi. In modo che il «dominio della trasdut-
tività», vale a dire il soggetto stesso, ne guadagnerebbe ad essere descritto
− con le parole che Deleuze prende in prestito da Foucault43 − nei termini
di un ripiegarsi [plissements] «‘dell’esterno verso l’interno e viceversa’».

39 Ivi, p. 156, tr. it. cit., p. 153.


40 Ivi, p. 157, tr. it. cit., p. 153.
41 G. Deleuze, Foucault, Ed. de Minuit, Paris 1986, p. 104, tr. it. a cura di P.A.
Rovatti e F. Sossi, Feltrinelli, Milano 1987, p. 99.
42 G. Simondon, L’Individuation psychique et collective, cit., p. 156, tr. it. cit., p.
154.
43 G. Deleuze, Foucault, cit., p. 126. Riassumendo a modo suo alcune pagine de
L’individu et sa genèse physico-biologique (pp. 258-265 della prima edizione),
Deleuze fa leva sul rinnovamento introdotto da Simondon del rapporto tra dentro
68 Il transindividuale

In un momento più avanzato del suo ragionamento Simondon arriva fino


a dichiarare che il transindividuale, essendo una fase dell’essere anteriore
rispetto all’individuo, «non sta con esso in una relazione topologica»44.
Bisogna quindi concludere che occorre fare a meno di una topologia per
descrivere la natura del rapporto tra transindividuale e individuo? No, per-
ché non è impossibile concepire una topologia che non lavori con le cate-
gorie di interno e di esterno, caratteristiche di una ontologia fossilizzata
che oblitera la realtà dello sfasamento. Tenendo conto dell’anteriorità del
transindividuale rispetto all’individuo, che impedisce di comprendere la
loro relazione nei termini di una topologia classica (perché una relazione
di interiorità o di esteriorità è concepibile solo tra elementi appartenenti
alla stessa fase dell’essere), si può conservare la nozione di una topologia
paradossale o a pieghe [plissée]. Se è vero che un soggetto è reale solo
in quanto connessione di un dentro e di un fuori, e che ciò che connette
interno ed esterno non può essere a sua volta né dentro né fuori, bisogna
allora ritenere che la realtà del soggetto è costituita dall’insistenza di una
parte dell’essere preindividuale che, precedendo l’individuo e non potendo
quindi essere né interna né esterna rispetto ad esso, deve essere concepita
come liminare rispetto al dentro e al fuori, come tale anzi da attraversare
l’individuo, da ritrovarsi perciò sia ‘dal lato’ del soggetto che da quello del
collettivo, e da costituire perciò la realtà tanto dell’individualità psicologi-
ca quanto del collettivo.

5. Il collettivo come processo

Con la nozione di transindividuale Simondon propone prima di tutto


una nuova maniera di concepire quello che, inadeguatamente, si è soliti
chiamare rapporto tra individuo e società, ed è proprio in questa prospetti-
va che si impegna a mostrare che tra di essi non è possibile nessun rapporto
immediato, e la conseguente inadeguatezza di ogni approccio psicologico
o sociologico al problema di questo (non) rapporto. Lo psicologismo, che
concepisce il gruppo come un «agglomerato di individui»45, cerca di farlo
sorgere da «dinamiche psichiche interne agli individui», mentre il sociolo-
gismo, con un procedimento inverso ma equivalente, «prende la realtà dei

e fuori nel dominio del vivente per proporre un modello alla topologia a pieghe
che vede all’opera in Foucault.
44 G. Simondon, L’Individuation psychique et collective, cit., p. 195, tr. it. cit., p.
411.
45 Ivi, p. 182, tr. it. cit., p. 177.
M. Combes - La relazione transindividuale 69

gruppi come un fatto»46. Entrambi misconoscono la realtà del sociale, che


non è né una sostanza, uno dei termine di una relazione, né una somma di
sostanze individuali, ma un «sistema di relazioni»47. Individuo e società
non si rapportano mai come due termini di per se stessi separati, perché
«l’individuo entra in rapporto con il sociale soltanto attraverso il sociale»48,
vale a dire attraverso le relazioni che esso può stabilire con individui an-
che molto lontani da lui grazie all’intermediazione di un gruppo, e il so-
ciale stesso è costituito dalla «mediazione tra l’essere individuale e l’out-
group [il gruppo di esteriorità] con la mediazione dell’in-group [gruppo di
interiorità]»49.
Essenzialmente, ciò che viene misconosciuto sia dallo psicologismo che
dal sociologismo è che il sociale è il risultato di una individuazione, dove
però ciò che si individua è sempre un gruppo. Per Simondon, infatti, un
gruppo non è un semplice insieme di individui, ma il movimento stesso
dell’auto-costituizione del collettivo, e il gruppo di interiorità, in particola-
re, non è un’entità definita da un’appartenenza sociologica, ma ciò che «na-
sce quando le forze del futuro implicite in una pluralità di individui viventi
giungono a una strutturazione collettiva»50. Una simile individuazione è in-
dissociabilmente quella del gruppo e quella degli individui raggruppati. Il
gruppo non si costituisce infatti tramite l’agglomerazione delle individuali-
tà, ma attraverso la «sovrapposizione di personalità individuali»51 che però
non preesistono all’individuazione del gruppo, né quindi possono limitarsi
«a incontrarsi e riunirsi», perché «la personalità psico-sociale è contempo-
ranea alla genesi del gruppo, e questa genesi è un’individuazione»52 nella
quale gli individui raggruppati divengono degli «individui di gruppo»53.
Se la psicologia e la sociologia misconoscono la realtà del collettivo è
insomma perché lo spiegano a partire dall’individuo o dalla società, che
rappresentano invece i suoi due poli, e dimenticano entrambe che que-

46 Ivi, p. 209, tr. it. cit., p. 201.


47 Ivi, p. 179, tr. it. cit., p. 175.
48 Ibidem.
49 Ivi, p. 177, tr. it. cit., p. 173. [In-group e out-group sono nozioni introdotte in
ambito etnologico dallo studioso americano W.G. Sumner (cfr. Id., Folkways, The
Ateneum press, Boston 1906), e riprese poi da sociologi come R.K. Merton o
H. Taijfel, che indicano rispettivamente il gruppo al quale l’individuo sente di
appartenere e quello al quale sente di non appartenere, il gruppo del ‘noi’ e quello
del ‘loro’. (n.d.T.)]
50 Ivi, p. 184, tr. it. cit., p. 179.
51 Ivi, p. 182, tr. it. cit., p. 178.
52 Ivi, p. 183, tr. it. cit., p. 178.
53 Ivi, p. 185, tr. it. ci.t, p. 179.
70 Il transindividuale

sta realtà consiste essenzialmente in una «attività relazionale tra grup-


po d’interiorità e gruppo di esteriorità». Ciò che viene rimosso, ancora
una volta, è la realtà della relazione, l’operazione di individuazione. At-
tento agli sconvolgimenti metodologici che si accendono verso la metà
del secolo, Simondon destina anticipatamente al fallimento i tentativi
che mirano a superare il sostanzialismo psicologista o sociologista at-
traverso la scelta di una dimensione intermedia, «microsociologica o
macropsicologica»54, mostrando che non esiste nessun fenomeno inter-
medio, o «psicosociologico», a sorreggere una simile dimensione, e che
non si può sfuggire al sostanzialismo oggettivando il reale secondo un
taglio via via più raffinato.
Fare però del sociale il luogo di una individuazione specifica, grazie alla
quale la relazione tra individuo e società diviene pensabile su nuove basi,
fa problema. Cosa ne è, in questa prospettiva, dell’idea di una socialità
‘naturale’, tanto umana quanto animale? In cosa si distingue dalla socialità
processuale, emergente, pensata da Simondon? L’autore si imbatte in que-
sti interrogativi domandandosi se la socialità faccia parte o meno dei ca-
ratteri specifici del vivente. La sua risposta è che, vuoi perché la specializ-
zazione morfologica rende gli individui incapaci di vivere isolati (è il caso
delle formiche o delle api), vuoi perché il gruppo appare come un modo
di condotta della specie in rapporto all’ambiente (caso dei mammiferi),
l’associazione può in qualche misura essere considerata come appartenente
alle condotte proprie della specie.
Non bisogna però dedurne che la socialità detta ‘naturale’ sarebbe riser-
vata ai viventi non umani: lungi dall’ipostatizzare una differenza a priori
tra gli uomini e gli altri viventi, Simondon afferma che esiste una socialità
naturale anche per gli uomini, quella di «gruppi funzionali, simili ai gruppi
degli animali»55. Piuttosto che a una distinzione tra società animali e socie-
tà umane, Simondon guarda qui a una distinzione tra due diverse modalità
di socializzazione, delle quali l’una si assesta al livello delle «relazioni

54 Ivi, p. 185, tr. it. cit., p. 180.


55 Ivi, p. 190, tr. it. cit., p. 184. Non si tratta qui di una stato che caratterizzerebbe
delle società dette ‘primitive’ in opposizione a delle forme di civilizzazione più
‘avanzate’. Anche se Simondon sembra andare in questa direzione quando oppone
le comunità chiuse alle società aperte (ivi, p. 275, tr. it. cit., p. 258), non bisogna
dimenticare che questa opposizione non è storica, ma concettuale, e che di fatto
ogni «gruppo sociale è un misto di comunità e società» (ivi, p. 265, tr. it. cit., p.
249): in tutte le società si sovrappongono così una socialità primaria e un poten-
ziale transindividuale.
M. Combes - La relazione transindividuale 71

biologiche, biologico-sociali e interindividuali»56 e schiaccia gli individui


animali od umani sulla loro funzione, mentre l’altra, detta transindividuale,
testimonia dei «potenziali per divenire altri»57.
Esiste dunque davvero una socialità naturale degli uomini, un ‘sociale
naturale’ definito come «una reazione collettiva della specie umana alle
condizioni naturali della vita, per esempio attraverso il lavoro»58. Si potreb-
be avere l’impressione che questa socialità primaria, in quanto naturale,
derivi da un’associazione infra-politica degli uomini, da ciò che i filoso-
fi del diritto chiamano talvolta la costituzione della società civile, ma in
questo modo si finirebbe col perdere la posta in gioco del concetto di tran-
sindividuale, riducendolo ad un concetto finalizzato ad una legittimazione
dello Stato. Come si vedrà, naturale non si oppone a politico. Ma cosa
significa allora l’idea secondo la quale il sociale naturale resta al di qua
del transindividuale, che per costituirsi esige «una seconda individuazione
propriamente umana»59? Come intendere «propriamente umana»? Istau-
rando un confine tra sociale naturale e transindividuale Simondon non è
forse condotto a ipostatizzare una essenza umana sostanziale, tradendo il
progetto di spiegare l’esistenza di un collettivo concepito come processo?

6. L’essere-psichico del collettivo (il transindividuale oggettivo)

Per distinguere il transindividuale da una socialità naturale, Simondon


non fa leva sull’opposizione tra uomo e animale, che egli rifiuta. Per distin-
guere l’uomo dall’animale, infatti, non scorge che un solo elemento: l’uo-
mo, «disponendo di possibilità psichiche più estese, e in particolare grazie
alle risorse del simbolismo, fa più spesso uso dello psichismo; è la situazio-
ne vitale che presso di lui è eccezionale e rispetto alla quale si sente sprov-
visto. Ma non bisogna vedervi una natura, un’essenza, che permetterebbe di
fondare un’antropologia; semplicemente, è stata attraversata una soglia»60.
Come indica un’osservazione discreta ma non per questo meno importante,
se gli uomini non si distinguono dagli altri essere viventi per una differenza
di natura, allora la «seconda individuazione propriamente umana», che co-
stituisce la modalità transindividuale della socialità, non può essere definita

56 Ivi, p. 191, tr. it. cit., p. 185.


57 Ivi, p. 192, tr. it. cit., p. 186.
58 Ivi, p. 196, tr. it. cit., p. 189.
59 Ivi, p. 191, tr. it. cit., p. 185.
60 G. Simondon, L’Individu et sa genèse physico-biologique, cit., nota 6, p. 163, tr.
it. cit., p. 222.
72 Il transindividuale

in opposizione a una socialità animale: «in questa opposizione tra gruppi


umani e gruppi animali noi non prendiamo gli animali per quello che sono
veramente, ma come corrispondenti, forse fittiziamente, a ciò che la nozione
di animalità rappresenta per l’uomo»61. Non si può opporre l’Uomo all’ani-
male, tanto più che gli esseri umani condividono con gli animali un modo di
socialità, e precisamente quello che è stato definito come reazione collettiva
della specie umana alle condizioni naturali della vita62.
Questa socialità funzionale, comune agli uomini e agli animali, sembra
battezzata da Simondon col nome di «sociale naturale» a causa di una costi-
tutiva inadeguatezza delle parole. Una simile terminologia, infatti, ci porta a
credere che l’individuazione «propriamente umana», attraverso la quale gli
uomini si scartano da questa prima socialità, non sia essa stessa «naturale».
Ora, se la socialità «naturale» viene definita come un insieme di «relazioni
[con la natura] rette dai caratteri della specie», è proprio per differenziarla
da una relazione con la natura indipendente dai caratteri della specie: lungi
dal definirsi come una socialità non-naturale, appartenente a un piano della
cultura concepito come opposto a quello della natura, l’individuazione pro-
priamente umana di cui parla Simondon appare anch’essa come una relazio-
ne con la natura, anche se di un altro tipo rispetto a quella tra un gruppo di
viventi e il suo ambiente. L’individuazione da cui nasce il transindividuale,
insomma, non può essere compresa in opposizione all’animale o alla natura,
ma soltanto come una forma di relazione alla natura, in cui «la Natura non è
il contrario dell’Uomo, ma la prima fase dell’essere»63.
Con questo riferimento alla natura Simondon si inscrive nella filiazione
presocratica esplicitamente rivendicata nella definizione della natura come
«realtà del possibile, nella forma di quell’apeiron da cui Anassimandro fa
uscire ogni forma individuata»64. La natura come apeiron, come potenzia-
le preindividuale reale, non è ancora una fase dell’essere, divenendone la
prima fase solo ‘in seguito’ all’individuazione e in rapporto a una secon-
da fase, quella che nasce dalla prima individuazione e in cui giungono ad

61 G. Simondon, L’Individuation psychique et collective, cit., p. 190, tr. it. cit., p.


184.
62 Se la specie umana non si distingue dalle altre specie per una differenza di essen-
ze, ci si può domandare in quale misura sia ancora legittimo continuare a parlare
di specie. Simondon conserva questa nozione non nel senso aristotelico del genere
comune e delle differenze specifiche, ma come relativa a un insieme di condotte
che determinano delle soglie in funzione delle quali si può distinguere all’interno
dei viventi dei gruppi di individui la cui condotta, a causa di identiche condizioni
d’individuazione, è relativamente simile.
63 Ivi, p. 196, tr. it. cit., p. 190.
64 Ibidem.
M. Combes - La relazione transindividuale 73

opporsi individuo e ambiente. La natura preindividuale è piuttosto senza


fase. Come sappiamo, essa non si esaurisce interamente nell’individuazio-
ne fisico-biologica che dà luce agli individui e al loro ambiente: «secon-
do l’ipotesi qui presentata, l’individuo conserva in sé dell’apeiron, come
un cristallo serba parte della sua acquamarina, e questo carico di apeiron
consente di procedere a una seconda individuazione»65. Questa seconda
individuazione, che riunisce «nature che sono veicolate da una pluralità
di individui, ma non contenute nelle individualità già costituite di questi
individui»66, è quella del collettivo. Tutta l’originalità del gesto di Simon-
don deriva da questa concezione dell’essere come polifasico, in funzione di
una natura che non è niente di diverso dal potenziale reale. Le fasi dell’es-
sere non sono infatti dei momenti di un processo, c’è un «residuo della
fase primitiva e originaria dell’essere nella seconda fase, e questo residuo
implica la tendenza verso una terza fase, quella del collettivo»67.
L’individuazione del collettivo è la seconda individuazione, nel senso
che consiste in un’operazione di nuovo tipo, che diversamente dalla prima
non genera più degli individui in rapporto con un ambiente, ma dei signifi-
cati. Da questo punto di vista l’individuazione fisica e quella biologica co-
stituiscono assieme una sola fase dell’essere, la seconda, e il problema del
‘passaggio’ dall’individuazione fisica all’individuazione biologica non può
avere quindi lo stesso senso del passaggio dall’individuazione biologica
all’individuazione collettiva. Nel corso della sua esistenza, infatti, l’indivi-
duo fisico non partecipa a una seconda individuazione: quando il cristallo
cresce prosegue una sola e medesima individuazione fisica. Il problema
del passaggio dall’individuo fisico a quello biologico è essenzialmente
epistemologico, e concerne la differenza tra il dominio della conoscenza
fisica e quello della conoscenza del vivente. Soltanto i viventi partecipano
talvolta a una seconda individuazione nel corso della loro esistenza, quella
del collettivo. Con essa, ci sono già degli essere individuati in cui persiste
una parte di apeiron¸ dei soggetti che danno vita ad una relazione trasfor-
matrice. Riunendo le parti di preindividuale che permangono in essi, gli
individui possono dare la luce a una realtà nuova, che conduce l’essere
verso la sua terza fase. Ma perché fare uso di una terminologia fisica per
descrivere una realtà sociale?
È qui che il naturalismo si rivela inseparabile dal paradigma fisico, e
quest’ultimo, inversamente, surdeterminato dall’ispirazione presocrati-

65 Ibidem.
66 Ivi, p. 197, tr. it. cit., p. 190.
67 Ibidem.
74 Il transindividuale

ca. Questa reciprocità di filosofia della natura e paradigma fisico diventa


evidente quando, spiegando che la relazione transindividuale presuppone
negli esseri individuati la permanenza di un carico di indeterminato68, Si-
mondon afferma: «si può chiamare natura questo carico di indetermina-
to», che occorre concepire come una «autentica realtà, carica di potenziali
attualmente esistenti come potenziali, ossia come energie di un sistema
metastabile»69.
Ciò che collega tra di loro gli individui nel collettivo, ciò grazie a cui
gli individui costituiti possono entrare in relazione e costituire un collet-
tivo, sono dunque queste parti della natura, del possibile reale, potenziali
attualmente esistenti come potenziali benché non attualmente strutturati: ciò
che in essi non è individuo. Si ritrova così, al livello della descrizione del
collettivo, quello che già si è scorto a proposito della relazione, e cioè che
essa «non può mai essere concepita come relazione tra termini preesistenti,
ma solo come regime reciproco di scambi di informazioni e di causalità
entro un sistema che si individua»70. È a proposito del collettivo che la ride-
finizione simondoniana della relazione manifesta con maggiore evidenza il
proprio carattere paradossale: lungi dall’essere il collettivo a sorgere dal le-
game tra individui che fondano la relazione, è «l’individuazione del collet-
tivo a identificarsi con la relazione tra gli essere individuati»71. Il collettivo
non risulta dalla relazione, ma è al contrario nella relazione che si esprime
l’individuazione del collettivo. Affinché si dia relazione, bisogna che si dia
anche un sistema teso di potenziali: «il collettivo possiede la sua ontogene-
si, la sua peculiare operazione di individuazione, che utilizza i potenziali
insiti nella realtà preindividuale contenuta negli esseri già individuati»72.
Ciò che collega gli individui tra loro, e li precede, è reale: sono le parti della
natura cariche di potenziale riunite dall’operazione dell’individuazione. È
per questo che il collettivo stesso «è reale in quanto operazione relazionale
stabile; esiste physikos e non logikos»73. Che il collettivo sia il luogo di
costituzione dei significati non toglie la sua natura ‘fisica’ (nel senso in cui
i pensatori presocratici sono detti fisici, ossia pensatori della natura, della

68 Ricordiamo che è con l’aggettivo indeterminato che normalmente si traduce il


greco apeiron.
69 Ivi, p. 210, tr. it. cit., p. 202.
70 Ibidem.
71 Ibidem.
72 Ivi, p. 211, tr. it. cit., p. 203.
73 Ibidem.
M. Combes - La relazione transindividuale 75

physis). L’apparizione dei significati ha infatti una condizione fisica, un «a


priori reale»74 di cui i soggetti sono portatori.
Per il fatto di contenere in sé questo apeiron, il soggetto non si sen-
te limitato all’individuo che esso è, ma «comincia ad associarsi al pro-
prio interno, prima che gli si manifesti la presenza di qualsiasi altra realtà
individuata»75: è qui che viene scoperto il transindividuale che può essere
detto ‘soggettivo’ in quanto chiarisce la natura dell’individualità psicologi-
ca. Per attenersi a questa suddivisione si dirà allora che il transindividuale
‘oggettivo’ riguarda il problema della costituzione del collettivo a parti-
re dalle parti di natura preindividuale contenute dagli individui, e designa
quindi il processo nel quale si struttura «la realtà preindividuale che l’in-
dividuo porta con sé insieme ad altre realtà simili e per mezzo di esse»76,
l’operazione nella quale queste parti del ‘comune’ si strutturano collettiva-
mente, e che il transindividuale soggettivo indica gli effetti, interni al sog-
getto, della scoperta di ciò che in lui eccede la sua individualità, di quella
zona di lui stesso che si rivela pre-personale e comune. Se nel corso del te-
sto non si trova nessun richiamo a questa distinzione è senza dubbio perché
essa rischia di condurre all’errore di vedere il transindividuale oggettivo
come un collettivo costituito, dove si tratta invece, proprio al contrario, di
suggerire uno spostamento di sguardo sul fenomeno della sua costituzione.
Bisogna insistere sul fatto che la nozione di transindividuale oggettivo
abbracci la descrizione del collettivo come realtà fisica, e consenta quindi
di affrontare il problema della costituzione del collettivo da un punto di
vista naturalistico e come un processo naturale, reale. Interrogandosi sulla
costituzione reale del collettivo Simondon prende infatti le distanze dalla
concezione formalista del collettivo tramite contratto77, da quel pensiero
pre-politico della costituzione della società civile e della sovranità preoc-
cupata solamente di garantire la legittimità della sussunzione della società
sotto lo Stato, e si iscrive invece in una linea problematica che cerca di pen-
sare la politica al di fuori dell’orizzonte di legittimazione della sovranità.
Se Simondon fa leva su una filosofia naturalista, bisogna comunque no-
tare che la natura, ossia ciò che per definizione è indeterminato, compa-
re come una realtà differenziata. Natura indeterminata perché non ancora
strutturata, l’apeiron è al tempo stesso carico di potenziali, e indeterminato
non può quindi essere sinonimo di indifferenziato. Le individuazioni suc-

74 Ivi, p. 197, tr. it. cit., p. 191.


75 Ivi, p. 194, tr. it. cit, p. 188.
76 Ivi, pp. 194-195, tr. it. cit, p. 188.
77 Cfr. per esempio ivi, p. 184: «il contratto non di fonda su un gruppo, non più della
realtà statutaria di un gruppo già esistente».
76 Il transindividuale

cessive dell’essere, inoltre, non lasciano il preindividuale immutato, facen-


do sì che la parte della natura preindividuale messa all’opera nell’indivi-
duazione collettiva sia quella che l’individuazione biologica ha depositato
nei viventi, e alla quale però i viventi possono accedere solo attraverso una
reimmersione nell’al di qua della loro individualità, perché si tratta di una
realtà pre-vitale. Per nominare questo preindividuale Simondon dispone
soltanto del termine transindividuale, che si presta a confusioni nella misu-
ra in cui designa tanto il preindividuale depositato nei soggetti dall’indivi-
duazione vitale, che persiste in essi ed è disponibile per una individuazione
ulteriore, quanto il suo modo di esistenza come realtà strutturata nel collet-
tivo. Si tratta però di una difficoltà insolubile, perché ciò che deve essere
nominato è ciò grazie al quale ogni soggetto, in quanto cela in sé una parte
di natura ineffettuata, è già un essere collettivo e «tutti gli individui insieme
hanno una specie di fondo non strutturato a partire dal quale può prodursi
una nuova individuazione»78.
A partire da questa concezione naturalista del collettivo si delinea una
proposta filosofica che potremmo dire umanista, ma di un umanesimo che
si costruisce sulle rovine dell’antropologia e sulla rinuncia all’idea di una
natura o di un’essenza umana79. Nella misura in cui l’appartenenza a una
specie è ciò che l’uomo condivide con gli altri viventi, non è tanto al li-
vello della specie che si fonda l’umanismo di Simondon, la sua attenzione
all’umano, quanto piuttosto sul fatto che «l’essere umano resta ancora in-
compiuto, incompleto, evolutivo individuo per individuo»80.
Quando evoca una incompletezza umana «individuo per individuo»,
Simondon è in realtà molto lontano dall’ipotesi che vede l’uomo come
un essere essenzialmente incompleto, originariamente protesico, tale da
richiedere per sua stessa natura un complemento tecnico. L’incompletez-
za dell’essere umano, infatti, non compare qui in rapporto all’uomo come

78 Ivi, p. 193, tr. it. cit., p. 187.


79 È la ragione per la quale la presentazione proposta da G. Hottois ci sembra molto
controversa. Invece di prendere in conto la critica simondoniana dell’antropolo-
gia, Hottois presenta la filosofia di Simondon come una giustapposizione di « una
ontologia dell’essere-divenire, una filosofia della natura, [...], una filosofia della
tecnica , [...] una antropologia filosofica » (cfr. G. Hottois, Simondon et la philo-
sophie de la «culture technique», Éd. De Bœck, Bruxelles 1993, p. 8, cfr. anche
p. 10), e comprende il suo umanismo (al quale consacra un intero capitolo) come
una preoccupazione per una «co-evoluzione dell’uomo e della tecnica» (Ivi., p.
13), senza mai dire che cosa bisogna intendere per uomo.
80 G. Simondon, L’Individuation psychique et collective, cit., p. 189, tr. it. cit., p. 183
c.n. [La versione italiana omette la traduzione delle parole «individu par indivi-
du», n.d.T.].
M. Combes - La relazione transindividuale 77

specie, ma soltanto «individuo per individuo», ossia dal punto di vista di


ogni uomo in quanto portatore di potenziali, di possibilità reali ineffettua-
te. Guardando più da vicino si scopre infine che questa ‘incompletezza’ si
definisce in rapporto a una realtà positiva che l’uomo porta con sé, a una
‘carica’ di realtà preindividuale, a una «riserva di essere ancora non pola-
rizzata, disponibile, in attesa»81, e che è dunque soltanto in considerazione
del potenziale reale che porta con sé come «qualcosa che può divenire
collettivo»82 che un uomo, come uomo solo, può essere considerato incom-
pleto.
Riprendendo una formula che Toni Negri usa a proposito di Leopardi, si
potrebbe dire che il pensiero di Simondon propone «un umanesimo dopo la
morte dell’uomo»83, un umanesimo senza uomo che si edifica sulle rovine
dell’antropologia. Un umanesimo che sostituirebbe la domanda kantiana,
«Che cos’è l’uomo?», con un’altra: «Quanto potenziale ha, un uomo, per
andare più in là di se stesso? Cosa può un uomo in quanto non è solo?».

[Traduzione dal francese di Francesco Toto]

81 G. Simondon, L’Individuation psychique et collective, cit., p. 193, tr. it. cit, p. 187.
82 Ivi, p. 195, tr. it. cit, p. 189.
83 Antonio Negri, Exil, Éd. Mille et une nuits, Paris 1998, p. 12.
79

AUGUSTO ILLUMINATI
L’INTELLETTO MATERIALE UNICO

Credere che il pensiero sia una proprietà personale (e in genere che l’Io
sia così importante) è abbastanza recente nella storia della filosofia. Certo,
lo si imputa a una persona, come nella placida metafora aristotelica in cui
la digestione diventa il meccanismo cui per analogia si riportano sensazio-
ne e intellezione: un attore soggettivo assorbente, una materia adatta da
ingerire per il nutrimento, una trasformazione assimilante grazie al calore
esterno e interno. Un processo che passa per un soggetto e un oggetto e si
conclude con una qualche forma di identificazione, che significa crescita
fisica, sensoriale o intellettuale, uscita in atto della facoltà interessata. Il
rovescio è che un essere perfetto non può conoscere il particolare, perché
l’identificazione con l’imperfetto conosciuto lo farebbe decadere da quella
perfezione. Un bel problema non tanto per il Motore Immobile, che è noûs
noéseos, pensiero di pensiero, autointellezione, ma per il Dio monoteisti-
co che gli succede e dovrebbe pur sapere chi aiutare, chi premiare e chi
punire e per quali pie o meschine azioni. Da entrambi i lati la coscienza è
qualcosa di imbarazzante, un sottoprodotto appercettivo della conoscen-
za della realtà esterna, l’irresistibile sonnolenza di una riuscita digestione.
Perfino Platone idealizza la verità in ipostasi senza dotarsi necessariamente
di una coscienza solipsistica; è piuttosto il neoplatonismo a introdurre una
dialettica esplicita di degradazione e salvezza, emanazione e risalita, in cui
interiorità e derelizione vanno a braccetto. Chi è prigioniero della carne si
diletta a fare graffiti sui muri della cella. Solo con una robusta iniezione di
creazionismo (la processione del molteplice dall’Uno evidentemente non
bastava) è possibile fare del mondo e della storia l’allegoria del sacro – pri-
mo fu forse Filone d’Alessandria, reinterpretando anagogicamente il detto
eracliteo sulla natura che ama nascondersi – e così inaugurare una diversa
tradizione. Il Logos, che ancora in Eraclito era il momento diurno comune
dell’intelletto umano contrapposto al privato del sogno, nel Vangelo plato-
nizzante di Giovanni diventa un principio trascendente di individuazione
e redenzione, laddove anteriormente era semplice capacità astrattiva e ri-
sultato di un’individuazione materiale conseguita grazie all’elaborazione
80 Il transindividuale

dei dati immaginativi personali in episteme corretta, vedi l’aristotelico De


anima, II e III. Ovviamente congiunto alla legalità della Natura.
È pacifico in tutta la tradizione antica che il principio razionale attivante
sia esterno all’uomo, separato, incorruttibile, impassibile, dunque unico e
variamente combinato con l’animo umano individuale in quanto connesso
a una materia corporea. Deve esistere, secondo lo schema ilemorfico, qua-
le principio formale per attivare la potenzialità di pensiero dell’intelletto,
come il fuoco accende il materiale combustibile. Che lo si equipari al Pri-
mo Motore o se ne faccia l’Intelligenza del X cielo – quello della Luna,
sotto cui hanno luogo i corpi e gli eventi contingenti – non fa differenza.
Esso può essere, soprattutto in ambito neoplatonico, anche oggetto di una
conoscenza estatica, fusionale, in evidente concorrenza con l’esperienza
dei mistici nelle contemporanee religioni rivelate, che ormai si stanno af-
fermando con pretese di primazia ed esclusività. Il tema diverrà importante
proprio quando si sviluppano, dapprima nel mondo arabo (e subordina-
tamente ebraico) poi in quello cristiano, operazioni di assimilazione fra
tradizioni diverse, quella che viene chiamata la traduzione (in senso non
meramente filologico, ma fecondamente sincretico) Greek into Arabic e
poi Arabic into Latin. La scuola di Baghdad nel IX secolo, l’officina di tra-
duzioni di Toledo nel XII con la sua appendice siciliano-fridericiana, infine
la grande ricezione nella Scolastica dell’Aristotele traslato e commentato
da Averroè nel XIII.
La dottrina standard dell’Intelligenza Agente (unica e trascendente) fu
definita nel X secolo da al-Fârâbî, il ‘secondo maestro’ per gli Arabi dopo
Aristotele, che getta le basi di tutto un complesso programma di sistema-
zione della filosofia nei suoi rapporti con la religione monoteistica. Innanzi
tutto sostiene l’armonizzazione fra Platone e Aristotele nel celebre trattato
Jam’ bayna Ra’yay al-Hakîmayn (concordanza fra le opinioni dei due sag-
gi) Aflâtun al-I-lâhî wa Aristûtâlîs (dove il primo porta l’attributo di ‘divi-
no’), legittimando la filosofia come corpo unitario di fronte alle svalutazio-
ni confessionali, ma nel contempo fissa un duplice livello di lettura in cui
salvaguarda la superiore coerenza del pensiero dimostrativo rispetto alla
Legge civile-religiosa riservata alle masse. Si può pervenire alla salvezza
seguendo ognuna delle tre religioni del Libro, ma ancor meglio e indipen-
dentemente da esse seguendo la via di Platone-Aristotele. Un programma
di dissimulato illuminismo, che sarà ripreso con accenti diversi da Mai-
monide e Averroè nei secoli successivi – lo ha ben mostrato Leo Strauss.
L’Intelligenza Agente agisce sulla facoltà razionale, estraendo la verità og-
gettiva dalle immagini individuali ottenute dai sensi, ma anche direttamen-
te sull’immaginazione, producendo la conoscenza profetica, fondamentale,
A. Illuminati - L’intelletto materiale unico 81

insieme alla razionalità e alle doti fisiche, per stabilire l’influenza di un


capo carismatico su masse facilmente infiammabili. Limitandoci alle pre-
stazioni razionali, l’Intelligenza Agente sovrintende alla corretta conoscen-
za e, a un certo grado di perfezionamento, si lascia attingere direttamente
dal singolo intelletto umano del saggio, garantendogli in vita la completa
felicità mentale, cui seguirà nell’al di là la fusione in un’unica anima col-
lettiva immortale e immemore. Nel passaggio dalla potenza all’atto l’in-
telletto umano sale infatti la scala delle essenze perdendo sempre più in
individualità e guadagnando in spiritualità, sino a sfiorare l’autointellezio-
ne del Primo Principio. Molto laicamente nel suo ultimo e perduto scritto,
un commento all’Etica Nicomachea, al-Fârâbî considererà la congiunzione
con l’Intelligenza Agente una ‘favola per vecchie’, con grande scandalo dei
suoi seguaci ed eredi (Averroè compreso), che probabilmente vedevano in
quel mito una solida garanzia per la legittimità della filosofia nei confronti
della legge religiosa.
Il tema, passando attraverso l’elaborazione di Avicenna (ibn Sînâ) e
Avempace (ibn Bâjja) riceve una formulazione originale in Averroè (ibn
Rushd) che, con un percorso tortuoso e disomogeneo fra i suoi vari scritti
in argomento, perviene infine a introdurre una nozione radicalmente inno-
vativa, destinata poi a grande fortuna in ambito cristiano-latino: quella di
intelletto potenziale unico per tutti gli uomini. Leibniz lo bollerà come mo-
nopsichismo. Averroè prosegue il programma illuministico farabiano con
maggiori cautele, istituzionalizzando la legittimità della via filosofica per
i saggi in parallelo a quella religiosa per le masse, negando invece validità
alla speculazione teologica e ai mutakallimûn che pretendono di emargina-
re i falâsifa, come avveniva ai suoi tempi nell’al-Andalus almohade – ri-
cordate la brillante rievocazione che ne ha dato lo scomparso Chahine nel
suo film Il destino? Ripristina il corretto dettato aristotelico cercando di ar-
ginare le infiltrazioni neoplatoniche e gli eccessi di concordismo. Mantiene
il ruolo dell’Intelligenza Agente e l’obbiettivo della congiunzione (copu-
latio, continuatio) con essa: arduo compito e premio del saggio, a testimo-
nianza che in ogni generazione ci sarà almeno un filosofo (o – concessione
eccezionale per l’epoca e la religione di appartenenza – una filosofa!) che
realizzerà questa prestazione impersonale a nome di tutto il genere umano.
Stabilisce infine – e questo è il tratto appunto più innovativo – l’unici-
tà, eternità e immaterialità dell’intelletto possibile o materiale (il termine
arabo hayûlânî ricalca foneticamente il greco hulikós). Non è un gioco di
parole: immateriale sta nel senso di incorporeo, non numerato da specifi-
cazione nella materia (dunque separato, impersonale, unico individuo nella
sua specie, come c’è una sola anima per cielo), materiale nel senso che fa
82 Il transindividuale

da quasi-materia o sostrato o potenza a quella forma e atto che è l’Intelli-


genza Agente, secondo il classico meccanismo ilemorfico dello Stagirita.
La congiunzione fra i due livelli o due facce della stessa medaglia è
possibile proprio perché si tratta di entità entrambe separate e perfette, al-
trimenti avremmo un degrado del superiore venendo a contatto con l’infe-
riore. «L’intelletto facendo gli intelligibili si dice attivo, ricevendoli invece
passivo. In se stesso è un’unica e medesima realtà», secondo il commento
medio averroista al De anima. Sono forze con un corpo e non in un corpo,
in esso in-abitanti o galleggianti (come Dio nell’animo dei mistici) fun-
zionalmente relazionate in quanto rispettivamente disposizione a ricevere
intelligibili e capacità produttiva dei medesimi. L’Intelligenza Agente fun-
ge così da forma e causa finale per le prestazioni dell’intelletto possibile
unico. La congiunzione sta al vertice e insieme legittima, quale virtualità
occasionalmente attingibile, le ordinarie operazioni conoscitive individua-
li: ovviamente il suo compiersi in una specie di cortocircuito fra due entità
impersonali brucia ogni molteplicità e immerge il fruitore privilegiato, an-
cora in vita, in un’anticipazione della fusione post mortem con il divino,
qualcosa di analogo all’immemore estasi mistica o al ‘letargo’ paradisiaco
dell’averroista semi-pentito Dante.
Il testo in cui ibn Rushd dispiega tutte le virtualità dell’assunzione stra-
tegica dell’intelletto materiale unico è il Commentarium magnum in Aristo-
telis De anima libros, conservato soltanto nella versione latina di Michele
Scoto. Non stupisce affatto che egli, al pari della maggioranza dei falâsifa,
neghi l’immortalità individuale dell’anima e ammetta al massimo la so-
pravvivenza selettiva e immemore in seno all’Intelligenza Agente, nella
misura in cui quello acquisito dei razionalmente più dotati vi si è assimilato
in vita. La svolta sta nel rilievo transindividuale conferito all’intelletto ma-
teriale sottraendolo alla corruttibilità e oggettivando scienza e immortalità
in un corpo collettivo sovraindividuale ma non trascendente. Nel ‘gran co-
mento’ Averroè sostiene risolutamente contro Avempace la natura infinita
dell’intelletto materiale come dell’Intelligenza Agente, solo che il primo è
passivo, la seconda attiva. In III/36 dichiara:

intellectus existens in nobis habet duas actiones [...] quarum una est de ge-
nere passionis (et est intelligere), et alia de genere actionis (et est extrahere for-
mas et denudare eas a materiis, quod nichil est aliud nisi facere eas intellectas
in actu postquam erant in potentia)1.

1 Averrois Cordubensis, Commentarium magnum in Aristotelis De anima libros (da


ora CMDA), ed. by F.S. Crawford, Mediaeval Academy of America, Cambridge
Mass. 1953, pp. 495-496).
A. Illuminati - L’intelletto materiale unico 83

Nel commento 17 a Met. lambda l’intelletto astratto è quasi forma in


intellectu materiali e il composto che ne risulta creat intellecta uno modo
et recepit ea alio modo, agit in quanto forma e recipit in quanto intelletto
materiale. Viene così introdotto lo schema del doppio soggetto dell’intel-
lezione2: le forme fantastiche sono il soggetto produttivo delle intelligibili,
mentre l’intelletto materiale, ben distinto dalla facoltà immaginativa, è il
soggetto che le riceve, una volta astratte dall’Intelligenza Agente. Le for-
me intelligibili sono individuali riguardo al soggetto produttivo (i fantasmi
immaginativi), universali riguardo al soggetto ricevente: l’intelletto mate-
riale, che ha le stesse caratteristiche di unicità e separatezza dell’Agente,
di cui è il mero risvolto ricettivo. Si para così l’obiezione che una sostanza
soggetta alla corruzione non possa accogliere le forme astratte e diventare
identica ad esse, altrimenti la natura del contingente diverrebbe necessaria.
L’intelletto possibile, anche se lavora su materiali immaginativi, dunque
non può sussistere senza una relazione con il corpo, non è un corpo né una
sua facoltà (neque corpus neque virtus in corpore) e riceve soltanto forme
universali, non immagini individuate sensorialmente.
Nel parallelo aristotelico fra sensibili e intelligibili gli oggetti del sen-
so, grazie a cui la sensazione è vera, stavano fuori del soggetto senziente,
mentre gli oggetti dell’intelletto, grazie a cui l’intellezione è vera, stanno
‘quasi’ nell’anima, o meglio stanno in potenza nelle sensazioni da cui li
libera l’astrazione. L’intelletto ‘produttivo’ produce in noi gli intelligibili
entro quello possibile. L’intelletto materiale è impassibile, nel senso che ri-
cevere le forme intelligibili astratte non è un’alterazione o una perdita, ma
un compimento salvifico della sua potenzialità, l’acquisizione di un abito
razionale: alteratio non corruptiva bensì perfectiva, nel vocabolario della
Scolastica. Esso è separato dalla materia in quanto è il luogo aristotelico
delle forme in potenza e non è individuale poiché altrimenti le riceverebbe
come individuali e non universali. Tramite indispensabile al processo cono-
scitivo è, sulla base della facoltà di pensiero sensibile o intelletto passibile,
l’immaginazione, generabile e deperibile, che fornisce, attingendo ai sensi,
immagini momentanee e individuali all’intelletto materiale: quest’ultimo,
esposto alla luce dell’Intelligenza Agente, ne trae per astrazione concetti
generali, giudizi e ragionamenti immagazzinandoli in veste di intelletto
abituale o acquisito — questo sì individuale e pertanto corruttibile.
La separatezza e unicità per tutti gli uomini dell’intelletto materiale qua
comune sostanza mentale e patrimonio culturale della specie non signifi-
ca che l’atto dell’intendere non sia individuale, poiché gli intelligibili non

2 CMDA, III/5, p. 387 e sgg.


84 Il transindividuale

sono eterni e appresi per platonica reminiscenza, ma generati nel tempo


e specificati per mediazione dei fantasmi immaginativi. Questi preparano
l’intellezione in ciò che è ricevuto e non in ciò che riceve. Non c’è quin-
di mescolanza diretta dell’Intelligenza Agente con l’intelletto potenziale,
bensì azione dell’intelligibile che sta al precedente come il sensibile sta al
senso. Come il colore in potenza deve essere attualizzato dalla luce (forma
del colore) e produce in chi sente un colore rappresentato che attualizza, in
presenza di un oggetto colorato esterno, la facoltà di vedere, così l’Intel-
ligenza Agente (forma degli intelligibili) fa passare in atto l’intelligibilità
in potenza che è nelle immagini; l’intelligibilità attualizzata ne genera una
adatta a risiedere nel pensiero. Allora l’intelletto materiale le si accosta, ne
è informato e intende. Esso è uno secondo il recipiente, diverso secondo il
ricevuto. La disposizione è nell’uomo, l’intelletto materiale, sua sostanza,
ne è fuori. Gli intelligibili speculativi sono eterni per il soggetto che li
riceve (l’intelletto materiale), generabili e corruttibili per quello che li fa
veri (l’Intelligenza Agente). L’intelletto acquisito è corruttibile e destinato
alla distruzione (definitiva con la morte, temporanea nell’evento folgorante
della congiunzione) e lo svolgimento del pensiero resta individuale cono-
scendo i particolari mediante l’attualizzazione delle immagini.
Differenza e comunicazione sono salvate dai paradossi di un’inadeguata
pluralizzazione o unificazione fusionale dell’immateriale. Il nodo che si
vuol sciogliere è quello della certezza, non la costituzione del soggetto in
base a un’esperienza interiore irrefutabile. Di conseguenza il rischio sarà
piuttosto quello della spersonalizzazione psicologica che non della frantu-
mazione in linguaggi privati. Il monopsichismo privilegia l’aspetto inten-
zionale dell’oggettività dei contenuti della conoscenza (garantiti rispetto al
senso dall’esistenza di oggetti esterni, rispetto all’intelletto dalle immagini
sensibili) nei confronti della struttura soggettiva della conoscenza, secondo
un approccio affine alla cultura greca e musulmana più attenta all’unità
della ragione, ma piuttosto ostico all’individualismo cristiano, per cui l’og-
gettività è autorevolmente garantita da un Dio-persona amoroso e provvi-
denziale (che non può ingannare, come spiegherà Cartesio). Il monopsi-
chismo riconduce Dio al Motore immobile aristotelico, oggetto d’amore
senza esserne soggetto. L’ascesa al trascendente attraverso la congiunzione
in vita del saggio con l’Intelligenza Agente diventa allora il complemento
necessario di questo congegno noetico e il punto di contrasto decisivo con
le religioni rivelate.
All’unicità dell’intelletto materiale corrisponde l’eternità della specie
umana, così che essa non debba mai restare priva dei principi universali
e dei concetti comuni a tutti. L’intelletto materiale è eterno e unico come
A. Illuminati - L’intelletto materiale unico 85

supporto ricevente e molteplice in rapporto alle forme dei fantasmi da cui


sono tratti, incorruttibile sotto il primo profilo, corruttibile solo sotto il
secondo, perituro nei singoli individui, imperituro in assoluto. Gli intel-
ligibili sono eterni in assoluto, lo sono ora sì ora no per il pensiero con-
tingente del singolo — qualcosa insomma di intermedio fra il transeunte
e l’eterno, a seconda del grado diverso che conseguono rispetto all’ultima
perfezione. Essi si attualizzano individualmente solo per brevi momenti,
ma sono memorizzati nella cultura della specie. La facoltà razionale, che
del pari si attualizza precariamente nel singolo e permanentemente nella
specie, fa da tramite, in tale duplicità, fra contingente e assoluto, fra natura
e Dio. A emblema della pienezza della specie avviene che qualche intellet-
to acquisito che padroneggia tutti gli intelligibili possa fare da tramite a un
collegamento diretto fra intelletto materiale unico e Intelligenza Agente e
quell’uomo che ne è portatore, senza più riferimento memore a esperienze
individuali, intenderà per intellectum sibi proprium omnia entia e compirà
un’azione a sé propria in tutti gli enti. Al punto culminante «l’uomo sarà
simile a Dio», conclude trionfalmente il commento III/36, «poiché è ormai
in qualche modo tutte le cose e tutte le cose in qualche modo conosce»3,
dato che gli enti non sono altro che la sua scienza, né la causa degli enti è
altro che la sua scienza. Et quam mirabilis est iste ordo, et quam extraneus
est iste modus essendi! L’identità greco-araba di recipiente e ricevuto fonda
adesso positivamente il trasumanare dell’uomo nell’universo intelligibile,
senza perdere contatto con ragione ed esperienza. Lo spinoziano amor Dei
intellectualis è alle porte.
Quanto tale tematica viene riversata nel mondo cristiano, con il cosid-
detto averroismo latino, di cui Sigieri di Brabante e Boezio di Dacia furono
i rappresentanti più eminenti, emerge un problema ben più grave dell’as-
sunto aristotelico dell’eternità del mondo e della specie umana. Non solo
non c’è creazione, ma (stante l’identificazione corrente fra parte intellet-
tuale dell’anima e anima cristiana) non c’è più responsabilità dell’uomo
singolo verso inferno e paradiso e neppure responsabilità giuridica per le
proprie azioni. Il grande dramma cosmico della storia sacra viene sospeso:

Imagine there’s no heaven,


It’s easy if you try,
No hell below us,
Above us only sky,
Imagine all the people
living for today...

3 CMDA, p. 501.
86 Il transindividuale

Tommaso, nel De unitate intellectus, ha chiarissimo non solo l’aspetto


pastorale (la perdita di controllo della Chiesa sui peccatori), ma il fatto che
l’intelletto unico fa svanire l’individuo come soggetto giuridico, la seco-
larizzazione del peccatore in materia segnata dalla legge. S’intende che
questa è una ricaduta solo cristiana: il bravo Averroè, cadì cioè giudice su-
premo a Córdoba e Sevilla, non si poneva certo questi problemi nell’eser-
cizio delle proprie funzioni. La copulatio diventava a tutti gli effetti identi-
ficazione con il divino, sostitutivo della visione beatifica riservata dopo la
morte ai salvati (il lumen gloriae), ma soprattutto veniva meno la pratica
quotidiana del controllo sulle coscienze, di cui la proprietà privata della
conoscenza è il risvolto epistemologico.
A conclusione di questa sommaria rassegna aggiungiamo due corolla-
ri. Primo, l’intelletto materiale unico non è soltanto una figura ontologi-
ca, ma un processo di effettiva cooperazione fra gli individui che ne sono
emergenza. Indispensabile è la cooperazione, poiché nessuno può giungere
alla verità senza l’aiuto di quanti l’hanno preceduto né può immaginarsi
di abbracciare da solo l’insieme delle conoscenze: il commento incessante
e concorrente della tradizione è anzi la modalità statistica più valida per
il conseguimento della vera conoscenza, per il dispiegamento di tutte le
possibilità intellettuali. Che ci sia in ogni momento almeno uno filosofo ca-
pace di continuatio4 implica che quanto più grande sarà la comunità degli
uomini che si riuniscono per questo, tanto più presto arriverà tale perfezio-
ne (Epistola de intellectu, apocrifa ma non infedele). Concorso volentero-
so di intellettuali vecchi e separati dalla vita mondana ancora nella piena
tradizione elitaria della saggezza, ma non sarà a lungo così. Già nella sua
fase più averroista-sigieriana Dante estende l’unità dell’intelletto possibile
fuori di ogni limitazione sapienziale e noetica. Leggiamo i passi del De
monarchia I § 3-4:

Poiché la potenza del pensiero umano non può essere integralmente e simul-
taneamente attualizzata da un solo uomo o da una sola comunità particolare,
è necessario che vi sia nel genere umano una moltitudine attraverso la quale
la potenza sia tutta attuata, come è necessario che vi sia una moltitudine di
cose generabili affinché tutta la potenza della materia prima stia sempre sotto
l’atto e non vi sia una potenza separata dall’atto, come afferma Averroè nel
suo commento al De anima [...] La potenza intellettuale di cui parlo non si
indirizza solo alle forme universali e alle specie ma in una certa misura anche
a quelle particolari: per questo suole dirsi che l’intelletto speculativo diventa
per estensione pratico, il cui fine è agire e fare: trattare cioè prudentemente gli

4 CMDA, III, 5.
A. Illuminati - L’intelletto materiale unico 87

affari civili e fare con arte le cose meccaniche [...] Il compito del genere uma-
no, preso nella sua totalità, è quello di attuare incessantemente tutta la potenza
dell’intelletto possibile, in primo luogo in vista della contemplazione e, conse-
guentemente, in vista dell’agire5.

La multitudo, dunque, e il termine – va da sé – non cessa di essere sug-


gestivo, è la depositaria dell’intelletto possibile unico (ovvero di un pa-
trimonio storico-culturale unitario) e l’articola, grazie alla pace garantita
dall’Impero, in processi di conoscenza, pratiche politiche ed esercizio delle
arti industriali. Non a caso il militante delle lotte comunali ritrova qui la di-
mensione della polis aristotelica e la traduce nei nuovi termini post-pagani
di humana civilitas come la tradizione farabiano-averroista aveva fatto in
termini di mandato califfale. Un contemporaneo di Dante, amico e colla-
boratore di Marsilio da Padova, Jean de Jandun, forse il più integrale aver-
roista latino, del pari radicalizza ed estende la competenza filosofica a tutti
gli uomini, secondo una divisione del lavoro fra specialità: la congiunzione
con l’Intelligenza Agente si compirebbe attraverso la cooperazione reci-
proca degli individui a livello di specie umana. Sapere e felicità cessano di
essere appannaggio di pochi eletti, dispersi nel tempo e nello spazio come
il solitario di Avempace, anzi filosofia e tecnica sono patrimonio dell’intera
umanità. Perciò ci sarà almeno un filosofo, nella parte boreale o in quella
incognita australe.
Corollario secondo. Lo spostamento d’accento averroista sull’intelletto
potenziale, che si attua asintoticamente mediante la moltitudine nello spa-
zio culturale e politico e nella successione temporale, tiene fermo un prin-
cipio di pluralità e difende l’individuazione materiale aristotelica contro
la fusionalità neoplatonica. Esso non è un’essenza anteriore o superiore o
immanente agli uomini bensì piuttosto una competenza di tipo linguistico.
Nella sua nuda possibilità di ogni abito, come la materia prima rispetto alle
forme materiali, non è questa o quella ma tutte le cose che possono essere,
perciò non è materia né forma né loro composto, è un ‘quarto genere di es-
sere’, composto di quasi-materia e di quasi-forma. In termini modernissimi
è l’in-comune e non l’essenza comune: perciò era difficile farlo rientrare
fra gli universali, pur non essendo attribuibile a nessuna individualità, quo-
niam intellectui nihil est individuitatis (scriverà altrove Averroè). Non me-
raviglia pertanto che già nella prima metà del XIV secolo, con Tommaso
di Wilton venga messa da parte l’ingombrante Intelligenza Agente, ipotesi
superflua tanto nella secolarizzazione della psicologia quanto nelle istan-

5 Dante, De Monarchia, in Opere minori, a cura di P.V. Mengaldo e B. Nardi, Clas-


sici Ricciardi-Mondadori, Milano 1996.
88 Il transindividuale

ze mistiche, mentre l’intelletto possibile è riportato a forma della comune


natura umana, identica in tutti gli individui. L’astrusa controversia scende
così sul terreno del buon senso e di una rappresentazione laica della cul-
tura, ormai immaginabile quale insieme aperto di reti invece che struttura
gerarchica comandata da un principio attivo trascendente. La posteriore
eliminazione delle cause finali si tradurrà alternativamente in un’esaltazio-
ne del libero arbitrio soggettivo o in una ripresa dell’assunto transindivi-
duale: in questo secondo caso l’erede dell’averroismo sarà, su un terreno
completamente nuovo, Baruch Spinoza.
Va bene, si dirà, ma che ce ne importa di siffatta questione? Che abbia-
mo a che fare con queste ipostasi medievali, intelligenze, enti separati, an-
geli, cieli e via discorrendo? Appunto, dell’Intelligenza Agente e del suo
cielo della Luna, in epoca post-galileiana (Ratzinger permettendo) – si passi
l’espressione vernacolare – non ce ne può fregare di meno, ma per quan-
to resta, l’intelletto materiale unico, il discorso è ben diverso. La funzione
intellettuale agente è un caso estremo della macchina ilemorfica che servì
storicamente a detronizzare le idee platoniche con relative copie, ma l’unità
dell’intelletto è la grande opzione oggettivistica che si pone in alternativa
(prima e dopo) allo spiritualismo cristiano e al coscienzialismo cartesiano.
Diciamola tutta: è la prima formulazione della transindividualità e di un per-
corso diverso da quello che ha portato al pensiero unico liberale, nella sua
duplice declinazione di soggetto prometeico e vittimario. La forzatura che
operiamo assimilando implicitamente l’intelletto unico averroista al general
intellect marxiano e alle tematiche del comune che segnano l’ultima stagio-
ne dell’operaismo italiano non è qualitativamente diversa da quella che il
dibattito medievale sulle intelligenze separate effettuò su un testo aristoteli-
co del tutto remoto da tali preoccupazioni. L’arbitrio, in entrambi i casi, era
giustificato da una scelta di fondo di tipo anti-soggettivistico, che adattava la
preminenza della struttura e della relazione sui termini relati (per dirla con
terminologia althusseriana) alle circostanze storiche e culturali dell’epoca.
Definire scientificamente il processo di individuazione dentro una rete tran-
sindividuale – l’opposto di un’ideologia dell’individualismo ancorata alle
passioni tristi dell’afflizione e della competizione – è una corrente sotterra-
nea della storia della filosofia quanto il materialismo aleatorio, sempre di al-
thusseriana memoria. Essa traversa concezioni idealistiche e materialistiche,
senza mai risolvere sino in fondo il problema, ma riproponendone i termini
in combinazioni sempre nuove ed eccentriche rispetto alle idee dominanti,
alle idee della classe dominante che esige e produce sudditi-soggetti, respon-
sabilizzati nella prassi giuridica, nelle metodologie epistemologiche, nelle
pulsioni conscie e inconscie, nei riti di obbedienza a Dio e allo Stato.
89

MARIANA DE GAINZA
IL LIMITE E LA PARTE:
I CONFINI DELL’INTERIORITÀ
NELLA FILOSOFIA SPINOZIANA

1. L’alternativa Hegel-Deleuze

Tra differenti prospettive teoriche è possibile a volte identificare certe


‘affinità elettive’ o risonanze concettuali, un richiamo reciproco che per-
mette che gli ambiti delle loro formulazioni si connettano, in modo tale
che le nozioni che sono in gioco in ciascuna ‘crescano’, guadagnino in pro-
fondità, nell’essere illuminate da altre filosofia. Affinità elettive di questo
carattere sono state segnalate e investigate da Etienne Balibar in relazione
alle opere di Spinoza e Simondon1; in concreto, il concetto simondoniano
di ‘transindividualità’ si è mostrato produttivo nel momento di tentare una
attualizzazione dell’ontologia spinoziana con in vista una rielaborazione
contemporanea dei fondamenti delle scienze umane e sociali. Il mio ten-
tativo in questo testo sarà di cercare, in uno spinozismo messo in tensione
attraverso due linee interpretative generalmente presentate come opposte e
incompatibili, alcuni spazi concettuali che si aprono in questo dialogo con
le formulazioni simondoniane.
Se l’infinitamente diversificata attività produttiva in cui consiste la
sostanza unica di Spinoza può essere letta nei termini di un processo
di individuazione nel senso di Simondon, dobbiamo domandarci quali
sono i concetti di cui possiamo servirci per precisare il senso di que-
sto processo. Il processo di differenziazione immanente ad una infinita
potenza di produzione può essere considerato – e qui intervengono due
tradizioni differenti di lettura dello spinozismo – come un processo di
determinazione che si realizza mediante negazioni progressive2, o come

1 E. Balibar, Spinoza e il transindividuale, tr. it. di L. Di Martino e L. Pinzolo,


Ghibli, Milano 2000.
2 Nella misura in cui l’ontologia spinoziana pone, in primo luogo, l’esistenza di
un’unica sostanza assolutamente infinita, vi è tutta una tradizione di lettura che fa
del problema dell’insufficiente fondazione dell’essere delle cose finite l’asse della
critica allo spinozismo. Hegel, secondo cui è possibile dar conto del concreto
solo attraverso la negazione che rende effettuale una determinazione progressiva
90 Il transindividuale

un processo di espressione che si effettua attraverso delle distinzioni3.


Ora, quando il commento critico sceglie di percorrere, in maniera esclu-
siva, uno di questi cammini interpretativi, si produce il più delle volte
una stabilizzazione definitiva dell’argomentazione, e il risultato (in cer-
to modo compiuto) di ciò che richiederebbe di essere pensato come un
processo (sempre aperto) di individuazione si riassume, dunque, in due
versioni antitetiche: o le cose finite – cioè gli individui – scompaiono,
dato che tutte le determinazioni, negandosi reciprocamente, finiscono per
consacrare una distruzione generalizzata; oppure le cose finite, in quanto
espressioni puramente positive di una potenza infinita, vengono assunte
come individui in senso pieno, guadagnando così una sostanzialità tale
che finisce per confondersi con quella che, in linea di principio, pertiene
solo a ‘Dio’. Queste ‘conseguenze’ tuttavia non corrispondono al vero

dell’essere, ha celebrato una frase spinoziana estratta dalla lettera 50 a Jarig Jelles:
Determinatio negatio est. Generalizzando un’affermazione che si riferiva in senso
stretto alla concezione della figura come determinazione esterna di un corpo, ha
riconosciuto in Spinoza un dialettico ‘quasi’ perfetto per aver saputo comprendere
il principio fondamentale che presiederebbe alla costituzione di ogni esistenza:
ogni determinazione è una negazione. Però nello spinozismo ogni determinazione
è una negazione e niente di più che una negazione, di fronte alla sostanza come
unica e assoluta positività esistente, affermazione di un’essenza infinita. Il negati-
vo è l’opposto del positivo e non può conciliarsi con esso. La negazione si rivela
così astratta ed esteriore e la realtà che determina, esclusa dal sostanziale, è per
questa ragione condannata a svanire. La diagnosi hegeliana insiste sul fatto che la
determinazione come semplice negazione non può dar conto dell’essere essenzia-
le dell’individuale. Questo obbiettivo sarà raggiunto solo attraverso la «assoluta
determinatezza o alla negatività, ch’è la forma assoluta [...] negazione della nega-
zione e quindi vera affermazione» (G.W.F. Hegel, Lezioni di storia della filosofia,
tr. it. di E. Codignola e G. Sanna, vol. 3.1, La Nuova Italia, Firenze 1981, p. 140).
3 L’espressione, secondo Deleuze, riguarda direttamente l’indagine sopra la natura
dell’infinito positivo spinoziano; cioè: l’espressione è ciò che determina la relazio-
ne tra la sostanza assolutamente infinita e l’infinità degli attributi che costituiscono
la sua essenza infinita. La relazione tra la sostanza che si esprime, gli attributi che
sono sue espressioni e l’essenza espressa da essi si comprende in quanto l’essenza
si distingue dalla sostanza attraverso gli attributi, la sostanza si distingue dagli
attribuiti attraverso l’essenza, e gli attributi si distinguono dall’essenza attraverso
la sostanza. L’assolutamente infinito si esprime dunque distinguendosi. E nel farlo
produce altrettante espressioni distinte, gli infiniti modi esistenti, in modo che
è anche l’espressione produttiva di questa potenza diversamente qualificata che
esplica l’esistenza dei modi singolari. L’espressione e la distinzione sarebbero,
quindi, le chiavi concettuali del processo di differenziazione immanente che espli-
ca la costituzione multipla e multiforme della realtà (Cfr. G. Deleuze, Spinoza et
le problème de l’expression, Minuit, Paris 1968, tr. it. di S. Ansaldi, Quodlibet,
Macerata 1999).
M. de Gainza - Il limite e la parte: i confini dell’interiorità nella filosofia spinoziana 91

concetto di ‘modo’ della sostanza spinoziana in quanto effetto immanente


a una natura concepita come produttività4.
Come pensare i modi spinoziani una volta che si assuma che essi
costituiscono il concetto dell’individuale in un modo complesso e
lontano da ogni prospettiva riduzionista? Come sfuggire a questa al-
ternativa tra espressione (dal lato della distinzione e dell’affermazio-
ne) e determinazione (dal lato della negazione)5, e avvicinarci ad una

4 La strategia di lettura dello spinozismo della tradizione hegeliana consiste nell’op-


porre la prospettiva della sostanza e quella dei modi, ‘interrompendo’, per dir così,
la fluidità della costruzione spinoziana in uno dei suoi ‘momenti’: mentre la sostan-
za è ciò che è in sé, i modi sono ciò che è in altro; se la sostanza è eterna, i modi
durano; mentre la sostanza è infinita e indivisibile, i modi si concepiscono come
determinati e composti di parti. Ma se nel caratterizzare i modi ci limitassimo a
questa serie di note distintive, conservando unicamente l’aspetto ‘oppositivo’ o
escludente rispetto alla causa sui, sottostimeremmo le conseguenze fondamentali
dell’associazione tra il carattere immanente della causalità sostanziale e la determi-
nazione basilare dell’essenza della sostanza in quanto infinita produttività di una
potenza infinita. In questo senso le letture che sono state fatte dello spinozismo nei
termini di una ontologia positiva della potenza (nella linea che va da Nietzsche
a Deleuze) rappresentano un importante correttivo di questa tendenza a opporre
le prospettive della sostanza e dei modi. L’enfasi, in questo caso, verte sul fatto
che «le cose particolari non sono altro che affezioni degli attributi di Dio, ossia i
modi con i quali gli attributi di Dio si esprimono in modo certo e determinato» (B.
Spinoza, Ethica I, pr. 25, cor.; la tr. it. dell’Etica utilizzata è quella di E. Gianco-
tti, Editori Riuniti, Roma 1988), ragion per cui ‘l’essere in altro’ è positivamente
(e non oppositivamente) espressione parziale (certa e determinata) della potenza
assoluta e allo stesso tempo qualificata (attraverso un attributo) di una forza di
produzione assoluta (la causa di sé che ha la potenza di produrre tutto ciò che esiste
con l’autoprodursi). E dato che «la potenza di Dio è la sua stessa essenza» (B.
Spinoza, Ethica I, pr. 34), questa potenza è ciò che definisce le essenze delle cose
singolari che, in quanto effetti di una causa immanente, sono espressioni determi-
nate di questa potenza (o, che è lo stesso in questo caso: parti costitutive di questa
potenza o suoi infiniti gradi) e, per questo, esse stesse sono cause dei suoi propri
effetti. Tuttavia, in alcune versioni di questa tradizione ‘espressivista’, ciò che fini-
sce per essere letto come pura identità ciò che prima era letto come opposizione, in
modo tale che i modi spinoziani vengono interpretati come espressioni immediate
dell’assoluto; da cui segue che gli aspetti fondamentali della determinazione, la
limitazione e la precarietà associate alla finitezza, tendono a perdere rilevanza. Per
questo crediamo risulti imprescindibile mantenere la tensione critica tra le letture
‘dialettiche’ e quelle ‘positive’ dello spinozismo.
5 Alternativa che troviamo formulata in modo esplicito, per esempio, in Deleuze quan-
do dice: «La teoria spinoziana della negazione (la sua eliminazione radicale, il suo
statuto di astrazione e di finzione) si basa sulla differenza fra la distinzione, sempre
positiva, e la determinazione negativa: ogni determinazione è negazione» (G. De-
leuze, Spinoza: filosofia pratica, tr. it. di M. Senaldi, Guerini, Milano 1991, p. 112).
92 Il transindividuale

comprensione delle individualità come determinazioni espressive, o


espressioni determinate del processo di produzione e delle relazioni
concrete nelle quali tali individualità sono e in virtù delle quali si co-
stituiscono?
In questo testo utilizzeremo l’esempio spinoziano dei cerchi non
concentrici delle celebre lettera 12 ‘sull’infinito’ per tematizzare la spe-
cifica concezione spinoziana della determinazione e del limite. Se nei
termini della lettera 12, ciò che ‘si dice indefinito’ deve essere diffe-
renziato tanto da ciò che è infinito per sua essenza quanto da ciò che
è infinito per sua causa (cioè deve distinguersi tanto dalla sostanza e i
suoi attributi – infiniti per loro essenza – quanto dai modi infiniti – che
devono la loro infinità alla causa da cui conseguono), è chiaro che ciò
che Spinoza vuole illustrare con questo esempio si riferisce all’essere di
ciò che è finito o limitato – che, tuttavia, nel suo essere in altro, implica
nella sua propria definizione, questo altro (infinito) in cui è. L’esempio
tratta della natura ‘indefinita’ dell’esistenza delle cose finite e limitate,
cioè della determinazione positiva delle cose finite in quanto durate
singolari. E dato che l’esistenza di una cosa finita, quando è adegua-
tamente concepita, coincide con l’essenza stessa di questa cosa (cioè,
con lo sforzo variabile ma continuo attraverso il quale persevera nell’e-
sistenza, ossia dura), possiamo dire che l’esempio illustra la forma in
cui si deve concepire, evitando l’astrazione, l’essere degli enti finiti,
nell’inseparabilità della loro essenza e della loro esistenza; cioè il modo
in cui l’infinito è effettivamente immanente al finito. O, in altre parole:
l’esempio ci lascia intravedere una concezione dell’essere dell’indivi-
duale come effetto immanente di un processo di individuazione. Dun-
que, se ciò che è in gioco nell’esempio geometrico è la determinazione
positiva della realtà del finito, questa ‘determinazione’ deve essere po-
sta in contrasto con la determinatio negatio della lettera 50 a Jarig Jel-
les, presentata da Hegel come l’esclusiva concezione spinozista della
determinazione. Infine, alla comprensione trasfigurata di ciò che sono
le ‘parti’ componenti di un tutto, che si può trarre dall’esempio geome-
trico, aggiungeremo le suggestioni a riguardo che sorgono dalla lettera
32 a Oldenburg. Presupponiamo che questo itinerario possa aiutarci a
restituire – di fronte alle suddette letture unilaterali – la complessità che
la prospettiva spinozista richiede per dialogare con modi attuali e non
riduzionisti di concepire l’individualità.
M. de Gainza - Il limite e la parte: i confini dell’interiorità nella filosofia spinoziana 93

2. Il limite (o della determinazione positiva delle cose finite)

Nella lettera 12, per illustrare la nozione di qualcosa di limitato che tut-
tavia comprende una infinità che non può essere numericamente determi-
nata, Spinoza fornisce il famoso esempio dei due cerchi non concentrici:

[…] tutte le ineguaglianze dello spazio interposto tra due cerchi, AB e CD,
e tutte le variazioni, a cui va soggetta la materia che in esso si muove, sono
superiori a ogni numero. E ciò non si conclude in base alla eccessiva grandezza
dello spazio interposto, perché se ne prendiamo una porzione anche piccolissi-
ma, le ineguaglianze in essa contenute sono superiori a ogni numero. E neppure
si arriva a tale conclusione, come avviene altre volte, per il fatto che ci manchi
il massimo e il minimo di quella grandezza, perché nell’esempio fatto li pos-
sediamo entrambi, e cioè il massimo AB e il minimo CD. Ma a essa si arriva
soltanto perché la natura dello spazio interposto tra due cerchi non ammette
una tale possibilità6.

E per sua propria natura, dunque, che lo spazio interposto tra i due cerchi
non concentrici e di diametro differente, il minore inscritto nel maggiore,
pur essendo uno spazio limitato (cioè avendo un massimo e un minimo),
non è numericamente determinabile, dato che le diseguaglianza delle di-
stanze contenute in questo spazio e le variazioni del movimento che do-
vrebbe subire la materia che si muovesse nel suddetto spazio superano ogni
numero. Ma ciò che voglio mettere qui in evidenza e considerare in detta-
glio (più che l’inadeguatezza del numero al fine di concepire tanto l’infinito
quanto il finito, che è il tema della lettera) è che, grazie all’ipotesi che i
cerchi non coincidano nel loro centro, le ‘parti’ che costituiscono questa
certa ‘interiorità’ delimitata non sono parti discrete, ma parti differenziali
(diseguaglianze o relazioni tra distanze, ossia passaggi); che, per questo,
non essendoci tra di esse discontinuità ma una variazione continua, ciò che
accade all’interno di questo spazio finito deve essere concepito in termini di
movimento; e che, correlativamente, vi è un’altra nozione di limite in gioco,
che non è quel limite stabilito da una circoscrizione fissa di uno spazio.
Precisiamo meglio. Come molti interpreti dell’opera spinoziana hanno
sottolineato7, non si tratta dell’impossibilità di attribuire un numero all’in-
sieme (infinito) delle distanze disuguali comprese tra i due cerchi, bensì
– cosa che in linea di principio non sembrerebbe nulla più che una sottile
differenza nell’enunciazione – dell’impossibilità di enumerare le disegua-

6 B. Spinoza, Epistolario, tr. it. a cura di A. Droetto, Einaudi, Torino 1951, pp.
82-83.
7 Rinvio in particolare a Gueroult, Deleuze e Macherey.
94 Il transindividuale

glianze dello spazio interposto. Questa piccola distinzione è, tuttavia, fon-


damentale. Poiché le ‘distanze diseguali’ si identificano direttamente con
gli infiniti segmenti diseguali che possono essere tracciati tra i due cerchi,
mentre, al contrario, le ‘diseguaglianze dello spazio’ interposto sono le di-
seguaglianze tra queste distanze diseguali, cioè, le differenze tra questi infi-
niti segmenti diseguali. Nel primo caso, le parti identificate con i segmenti
possono essere positivamente determinate; nel secondo caso, ogni ‘parte’ è
una differenza tra due segmenti, la differenza tra le distanze che ognuno di
questi segmenti marca positivamente. E dato che ogni ‘parte’ è, in se stessa,
un passaggio, l’esempio parla precisamente del movimento della materia
che deve girare in questo spazio. Così le diseguaglianze dello spazio com-
preso tra i due cerchi non concentrici costituiscono l’insieme non nume-
rabile delle differenze tra le loro distanze diseguali, o, il che è lo stesso,
la variazione senza fine costituita da una infinità di passaggi o transizioni
È fondamentale a questo punto mettere in rilievo il fatto che la nozione
di limite presente nell’esempio della lettera 12 non è la stessa che appare in
quell’altra famosa lettera (che Hegel ha contribuito a divulgare)8, la lettera
50 a Jarig Jelles:

Quanto al fatto che la figura è una negazione, e non alcunché di positivo, è


evidente che l’intera materia, considerata come indefinita, non può avere alcu-
na figura e che la figura può aver luogo soltanto nei corpi finiti e determinati.
Infatti, chi dice di percepire una figura, non dice con ciò di percepire niente
altro se non che concepisce una cosa determinata e in qual modo essa sia deter-
minata. Questa determinazione, dunque, non appartiene alla cosa per se stessa,
ma al contrario appartiene al suo non essere. Poiché, allora, la figura non è che
determinazione, e la determinazione è negazione, la figura, dunque, come si è
detto, non può essere altro che negazione9.

La figura non è, pertanto, qualcosa di positivo, ma il non-essere della


cosa che delimita, dato che grazie alla figura si realizza la determinazio-
ne di un contenuto, epperò dalla prospettiva di un altro che lo circoscrive
ponendogli un termine spaziale. La determinazione è negazione in questo

8 In questo senso il modo in cui Hegel ha interpretato la determinazione spinoziana


non può essere dissociato dal modo in cui ha equivocato l’esempio geometrico
della lettera 12 proprio nei termini di una somma infinita di ‘distanze diseguali’.
Per una analisi della lettura hegeliana dell’esempio rinvio al mio «El tiempo de las
partes. Temporalidad y perspectiva en Spinoza», in G. D’Anna, V. Morfino (a cura
di), Ontologia e temporalità. Spinoza e i suoi lettori moderni, Mimesis, Milano
2012, pp. 309-318.
9 B. Spinoza, Epistolario, cit., pp. 225-226.
M. de Gainza - Il limite e la parte: i confini dell’interiorità nella filosofia spinoziana 95

senso preciso, e la determinazione in quanto negazione costituisce un limi-


te necessariamente connesso con la nostra percezione dei corpi finiti («In-
fatti, chi dice di percepire una figura, non dice con ciò di percepire niente
altro se non che concepisce una cosa determinata e in qual modo essa sia
determinata», benché «questa determinazione […] non [appartenga] alla
cosa per se stessa»). Questo non vuol dire certamente che la determinazio-
ne in questa accezione si riferisca a qualcosa di puramente soggettivo, dato
che la figura si associa a cose che realmente sono ‘finite e determinate’.
L’astrazione implicita nella considerazione di una cosa unicamente secon-
do il non-essere, e non secondo il suo essere, è una operazione oggettiva,
che non è relativa ad una ‘distorsione’ dello sguardo o esclusivamente ai
limiti della nostre facoltà percettive, ma si regge nell’effettiva delimitazio-
ne esterna tra i corpi esistenti10. Ma, benché non si tratti di una falsa per-
cezione, costituisce in ogni caso una considerazione unilaterale della cosa.
Non ogni determinazione è una negazione (che ci permette di considerare
la cosa secondo il suo ‘non-essere’), dato che la determinazione è anche af-
fermazione (che ci permette di considerare la cosa secondo il suo ‘essere’).
L’esempio geometrico della lettera 12 serve dunque affinché si consideri
– rispetto alla figura che implica l’idea di determinazione come negazione
– l’altro volto della determinazione come affermazione. E se la lettera 12 ci
spinge a pensare in un’altra forma la determinazione, è così perché ciò che
qui Spinoza tratta in modo differente è la nozione di limite. La determina-
zione come negazione della lettera 50 costituisce l’idea del limite non solo
come determinazione esterna, ma anche come idea o ente di ragione, ed è
in questo senso che equivale a concepire secondo il suo non essere. Ma se
ci fermassimo a questa nozione di limite – come fa Hegel, generalizzando
e estendendo ciò che è valido per la figura alla determinazione ontologica
di tutti gli esseri finiti –, sarebbe lecito dire che, in ultima istanza, il finito
nella filosofia spinoziana non ha alcuna realtà: i limiti non sono reali, ma
meri enti di ragione e, per questo, non sono nulla che esista realmente in
natura. E se il limite non è nulla, ciò che supponiamo limitato, cioè, finito,
non sarà anch’esso nulla: l’unica realtà è, così, la sostanza assolutamente
infinita che non permette di pensare nel suo interno alcuna determinazione,

10 In questo senso vi è una necessaria relazione tra questo essere finito o limitato del-
le cose e il limite inerente alla nostra propria percezione – anch’essa finita. Così è
proprio la nozione di limite che ci permette di spiegare l’operazione di astrazione:
al di là di un certo limite, infatti, non possiamo immaginare distintamente le cose,
e per questo, grazie a certi tratti che astraiamo da una complessità attuale, pos-
siamo abbracciarle, anche se non distintamente, per lo meno in modo unificato e
organizzato.
96 Il transindividuale

dato che ogni determinazione non è nulla più di un che di immaginario e


soggettivo, che si dissolve non appena ci situiamo nella prospettiva veri-
tiera della sostanza eterna. Se il limite è considerato come una non-realtà
che separa astrattamente ciò che, concepito adeguatamente, è strettamente
positivo, questo significa che l’unico orizzonte vero è l’assoluta concor-
danza del tutto, non essendo le parti altro che ‘parti totali’ che semplice-
mente affermano la positività di questo tutto, senza opporsi né negarsi tra
di loro: l’opposizione, la negazione, il limite sono unicamente un prodotto
della mente umana che immagina scontri dove ha luogo solo una perfetta
armonia.
Di fronte ad una lettura di questo genere non è sufficiente sottolineare
che la determinazione esterna è reale ed effettiva. Dato che si potrà repli-
care – facendo uso di un altro luogo comune della critica allo spinozismo
– che il determinismo universale non è che l’altra faccia necessaria della
sussistenza di Dio come unica natura necessaria: tutte le cose si eliminano,
in virtù di una causalità meccanica agendo le une contro le altre. Questa
constatazione ‘naturalistica’ (il pesce più grande mangia il pesce più picco-
lo, ed è a sua volta divorato da un altro più grande) non conferisce all’alte-
rità e al limite effettivamente esistenti una entità reale, che è precisamente
ciò che la problematica della transindividualità vuole affermare, nella mi-
sura in cui l’unica cosa che la dissoluzione universale e transitiva di tutti
gli esseri finiti consacra è l’assoluta unità della natura, per la cui piena
positività è indifferente che questa o quella determinazione finita perisca in
questo o in quel modo, visto che il fatale destino di tutte è quello di perire.
La totalità concepita così, malgrado l’effettualità che riconosciamo alla de-
terminazione esterna, è, in definitiva, il complemento esatto di quella posi-
tività sostanziale riconosciuta in una prima istanza, dato che consiste nella
coesistenza congiunta meramente costatata di una infinità di esseri finiti
che appaiono e scompaiono permanentemente, senza vero conflitto (dove
la natura si afferma – conservando una stessa proporzione di movimento e
di riposo – in questa successione perpetua di esseri).
Non è sufficiente, quindi, insistere sulla realtà della determinazione, ma
è necessario riconsiderare la nozione di limite. Per questo l’esempio geo-
metrico della lettera 12 deve essere letto in relazione a questa correzione
dell’inclinazione immediata a concepire il limite solo come una determi-
nazione esterna e le cose reali come fossero figure: ciò che è implicito nel
caso dei due cerchi non concentrici è un’altra concezione del limite, che
restituisce ad esso la sua realtà, e lo associa alla consistenza positiva e
all’essere relazionale degli esseri finiti. È in questa direzione che si dirige,
nel nostro intendimento, la ricchezza del concetto di transindividualità.
M. de Gainza - Il limite e la parte: i confini dell’interiorità nella filosofia spinoziana 97

Se volessimo trovare nell’esempio il limite come negazione quale è


descritto nella lettera 50 dovremmo fare attenzione alla delimitazione di
questo spazio attraverso le circonferenze del cerchio maggiore e del cer-
chio minore. In questo senso lo spazio è perfettamente delimitato e sono
le circonferenze che fanno di esso ciò che esiste tra altre cose o corpi che
lo determinano esternamente; per questo, le circonferenze sono il ‘non-
essere’ dello spazio interposto tanto nel senso che al di là di esse lo spazio
interposto cessa di essere ‘questo’ spazio, quanto nel senso che, in quanto
è questo spazio, cioè secondo il suo ‘essere’, esso non è una circonferenza.
Che cos’è dunque questo spazio interposto tra i due cerchi? È uno spa-
zio definito, ossia limitato dentro di sé, poiché porta in sé la finitezza della
sua definizione, che, facendone ciò che è, esclude anche ciò che non è11.
La non concentricità dei cerchi (derivata dalla relazione specifica che lega
le circonferenze) è ciò che definisce in modo certo e determinato la co-
stituzione singolare di questo contenuto spaziale differente da altri, a cui
spetta un ‘massimo’ ed un ‘minimo’ che gli sono propri: gli pertengono, nel
senso preciso in cui costituiscono questo contenuto, condividendo la stessa
natura con il resto dei suoi componenti (sono differenze tra distanze, così
come tutte le altre ‘parti’). Per questo sono necessariamente imbricate con
le altre relazioni differenziali che compongono questo spazio, e per questo,
il limite così concepito non è separabile dal ‘corpo’ della cosa: è interno.
Ed è anche per questo che, al di là del limite, l’esistenza della cosa conti-
nua: la materia che si muove all’interno dello spazio interposto aumenta
al massimo e diminuisce al minimo la sua velocità quando attraversa le
parti limite in cui la distanza differenziale è la minore o la maggiore; ma
dopo essere aumentato al massimo o diminuito al minimo, il movimento
prosegue all’interno dello stesso spazio. La materia mobile che costituisce
l’interiorità concreta di questo spazio si definisce, in questo modo, attra-
verso la proporzione variabile di movimento e di riposo in cui consiste la
sua esistenza12.

11 Parafraso alcune parole di Althusser della prefazione di Lire Le Capital.


12 Deleuze ci offre una metafora chiarificatrice per meglio comprendere questa
differenza che abbiamo sottolineato tra la determinazione come delimitazione
esterna di qualcosa che, mediante la negazione, stabilisce ciò che questo qualcosa
non è (e che spiega che il fatto che le cose singolari siano ‘modi finiti’), e questo
altro limite che mette in atto una determinazione interna o auto-determinazione,
che esprime ciò che la cosa è (e che spiega così il fatto che le cose singolari
siano ‘modi finiti’). Il limite di una cosa che esprime o che essa essenzialmente è
coincide, dice Deleuze, con l’estensione della sua azione allo stesso modo in cui
un bosco si estende fino ai suoi margini, là dove comincia la prateria; essendo
impossibile definire questo limite come una figura che circoscrive il territorio in
98 Il transindividuale

È per questo insieme di tratti che, come abbiamo detto, l’esempio geo-
metrico della lettera 12 era convocato per illustrare l’esistenza delle cose
finite nella sua coincidenza con l’essenza stessa di queste cose. L’esisten-
za di qualcosa che può essere determinato astrattamente ad libitum13, non
ammette tuttavia una determinazione di questo genere se è considerata se-
condo la sua natura: deve essere vista come effetto necessario della causa
che la produce, come una continuazione indefinita nell’esistenza. In quanto
l’esistenza finita è nell’infinito, dalla potenza di questa causa infinita pro-
viene la forza propria nel perseverare nell’esistenza che fa dell’esistenza
delle cose particolari, essenzialmente, una esistenza continua ed indefinita.
La reversibilità tra essenza ed esistenza caratteristica dello spinozismo (che
pertiene a pieno titolo, in linea di principio, solo alla causa sui) è compro-
vata qui nel caso delle cose finite: l’essenza si definisce come potenza o
sforzo («che non implica un tempo finito, ma indefinito») nel perseverare
nell’esistenza; l’esistenza è la durata continua che risulta o coincide con
l’affermazione di questa essenza come sforzo nel perseverare. In questo
modo l’esempio geometrico illustra la forma in cui l’esistenza di una cosa
limitata coincide con l’essere attuale di una essenza, poiché questa consiste
nello sforzo variabile ma continuo per permanere durando, ossia esistendo.
La materia, nell’esempio, continua indefinitamente il proprio movimento,
attraversando gli infiniti stadi che la fanno essere ciò che è, in una esisten-
za infinitamente variabile che tuttavia si trova compresa entro certe soglie
dell’estensione, che definiscono la sua natura (un massimo e un minimo),
associate a loro volta a ciò che questo spazio materiale è in virtù della de-
terminazione esterna dei suoi limiti.

modo fisso così come è impossibile supporre che la prateria determini esterna-
mente il bosco definendo i suoi contorni. Il bosco è il risultato della sua propria
potenza espansiva, e il suo termine è dove la sua azione si arresta e dove la sua
esistenza si mescola con l’esistenza della prateria (Lezione di Deleuze su Spinoza
del 17/2/1981). L’essenza di ogni cosa finita è, quindi, come quella del bosco,
l’affermazione di una potenza di attuare che si estende tanto quanto la natura
attualmente determinata della cosa lo permette; e per questo, il limite cessa di
essere qualcosa di astratto e statico, e riguadagna il dinamismo richiesto da una
considerazione realista delle cose.
13 È ciò che dice Spinoza nella lettera 12 a proposito dell’esistenza dei modi che
può essere considerata maggiore o minore, oppure divisa in parti, senza distrug-
gere il suo concetto. In relazione a ciò l’esempio geometrico offre possibilità di
determinazione simili: «Nell’intero spazio compreso tra due cerchi aventi centri
diversi noi concepiamo una moltitudine di parti due volte maggiore che nella sua
metà; e tuttavia il numero delle parti, tanto dell’intero quanto del mezzo spazio,
è maggiore di ogni numero pensabile» (Spinoza a Tschirnhaus, epistola 81, in B.
Spinoza, Epistolario, cit., p. 309).
M. de Gainza - Il limite e la parte: i confini dell’interiorità nella filosofia spinoziana 99

3. Le parti o della modulazione infinita della natura

Ma, abbiamo detto che per avvicinare l’ontologia di Spinoza al concet-


to di transindividualità, altrettanto importante della riconsiderazione del
limite è la modificazione dell’idea di ‘parte’ che l’esempio implica. Soffer-
miamoci su questo punto. Una parte è una relazione e, in questo senso, è
in modo ineludibile legata alle altre parti e con il tutto che compone, dato
che ciò che si definisce relazionalmente non ammette di essere considerato
come chiuso dentro di sé, autosufficiente o indipendente. Le cose si con-
siderano come parti di un qualche tutto – dice Spinoza nella lettera 32 a
Oldenbourg – in quanto sussistono in una connessione mutua (coherentia),
cioè in quanto si accordano realmente le une alle altre e concordano tra di
loro nella misura del possibile (dato che le leggi o la natura di una parte si
adattano a quelle dell’altra, in modo tale che non esista la minima contrap-
posizione tra di esse).

Esempio: quando i movimenti delle particelle della linfa, del chilo ecc. si
adattano gli uni agli altri nella grandezza e nella figura, così da conformarsi in
tutto vicendevolmente e costituire tutti insieme un unico fluido, allora soltanto
il chilo, la linfa ecc. sono considerati come parti del sangue14.

Così, i movimenti delle particelle che si accordano perfettamente tra di


loro sono ciò che prendiamo in considerazione, nell’esempio geometrico,
come i ‘passaggi’ che, articolati, costituivano tutte insieme un solo fluido
o movimento continuo; «prendendo in considerazione la grandezza e la
figura» di ogni particella, quindi, come abbiamo già detto, la determina-
zione esterna che spiegava l’esistenza della cosa come una cosa tra cose
faceva della sua consistenza interna un certo movimento con determinate
caratteristiche. «I corpi si distinguono l’uno dall’altro in ragione del movi-
mento e della quiete, della velocità e della lentezza, e non in ragione della
sostanza»15, e quando sono connessi e si comunicano l’un l’altro i propri
movimenti secondo una certa relazione, compongono un unico corpo o
«un individuo che si distingue dagli altri per questa unione di corpi»16.
L’unione di corpi che si caratterizza per una certa relazione di movimento
e di riposo, in virtù della quale tutte le parti comunicano tra di loro, non può
essere vista, quindi, come semplice aggregato di elementi. Questa unione o
composizione singolare, essendo fatta di relazioni (differenze – distinzioni

14 B. Spinoza, Epistolario, cit., pp. 168-169.


15 B. Spinoza, Ethica II, lem. 1.
16 B. Spinoza, Ethica II, def. 1.
100 Il transindividuale

tra movimenti –, passaggi, transizioni) costituisce essa stessa una relazione


(una determinata ratio o proporzione di movimento e di riposo) che comu-
nica, a sua volta, con altre relazioni (altri corpi), componendo altri indivi-
dui di differente complessità. Il corpo dell’uomo, in questo modo, è forma-
to da moltissimi individui fluidi, molli e duri, di natura differente, ciascuno
dei quali è molto complesso; individui che sono affetti in moltissimi modi
dai corpi esteriori, che mantengono con l’individuo in quanto tutto un in-
terscambio permanente (in virtù del quale il corpo stesso può rigenerarsi
e conservare la proporzione – la relazione o ratio – che caratterizza la sua
costituzione). Il modo in cui si dà questa convergenza in totalità articolate e
il modo in cui la prospettiva varia quando le si considera, è presa in esame
da Spinoza quando dice:

Se supponiamo, infatti, che all’infuori del sangue non sussista altra causa
la quale imprima al sangue stesso nuovi movimenti, e che all’infuori del san-
gue non si dia altro spazio né altri corpi in cui le particelle del sangue possano
trasferire il proprio movimento, è certo che il sangue continuerebbe a mante-
nersi nel proprio stato e che le sue particelle non subirebbero altre variazioni
fuori di quelle che si possono concepire da un dato rapporto del movimento
del sangue […], e così il sangue si dovrebbe sempre considerare come un
tutto e non mai come una parte. Ma siccome si danno molte altre cause dalle
quali sono regolate le leggi naturali del sangue, e queste a loro volta da quel-
le, di qui avviene che sorgano nel sangue altri movimenti e altre variazioni, le
quali derivano non dalla sola natura del movimento reciproco di quelle parti,
bensì insieme dalla natura del movimento del sangue e delle cause esterne17.

È per stretta questione di prospettiva (di prospettiva oggettiva, poiché,


così come nel caso delle figure analizzato prima, non si tratta di un pro-
blema di percezione ‘soggettiva’) che Spinoza può dire che, nella misura
in cui concordano tra di loro, le parti convergono nella composizione di
un individuo, ma in quanto discordano o si oppongono, ogni parte for-
ma nella nostra mente una idea distinta dalle altre – il che ci conduce a
considerarla come un tutto e non come una parte. Così, per una questione
di prospettiva, un vermicello che vivesse dentro il sangue vedrebbe le
particelle come individui separati costituenti di questo fluido che sareb-
be, per lui come l’aria che noi respiriamo. Solamente una ‘visione’ più
comprensiva potrebbe riconoscere che queste particelle non sono nulla
separatamente e che rispondono alle esigenze di accordo reciproco che
la natura del sangue e le sue leggi di composizione gli impongono. Ma,

17 B. Spinoza, Epistolario, cit., p. 169.


M. de Gainza - Il limite e la parte: i confini dell’interiorità nella filosofia spinoziana 101

allo stesso tempo, supporre che queste leggi del sangue funzionino in
modo puro, costituirebbe un’altra operazione di astrazione che isolerebbe
il sangue dalle relazioni con altre cose che «modificano le leggi della sua
natura», producendo in essa movimenti e variazioni che procedono, così,
non dal movimento delle sue parti, ma, appunto, da queste cause esterne.
In questo modo, il «movimento reciproco tra le parti» di una cosa e «il
movimento tra [questa cosa] e le cause esterne» sono a tal punto intima-
mente connessi che ‘totalizzare’ nel senso di considerare le cose come se
fossero figure opposte (o ‘parti totali’) significa snaturarle. Per questo,
possiamo dire che con questo tipo di esempi Spinoza si riferisce alla na-
tura assolutamente relazionale dell’esistenza, cosa che fa della parte e del
tutto, in un senso preciso, ‘enti di ragione’.

Ora, siccome tutti i corpi della natura si possono e si debbono concepire a


quel modo in cui abbiamo concepito qui il sangue, giacché tutti i corpi sono
circondati da altri e sono gli uni gli altri reciprocamente determinati a esistere
e a operare secondo una certa e determinata maniera, da tutti insieme costan-
temente osservata in ogni circostanza, di qui segue che ogni corpo, in quanto
esiste modificato in un certo modo, deve essere considerato come parte dell’in-
tero universo, convenire col suo tutto e connettersi con tutti gli altri. E poiché la
natura dell’universo non è, come quella del sangue, limitata, ma assolutamente
infinita, le sue parti sono governate in infiniti modi da questa natura di infinita
potenza e sono costrette a subire variazioni infinite18.

Le parti della natura – e tra queste il corpo umano – si determinano


reciprocamente a esistere e ad agire e, in questo senso, coesistono in un
affettarsi reciproco che fa di esse parti sempre modificate in una o in altra
maniera. Ogni corpo, dunque, in quanto esiste attualmente, si accorda con
le altre parti e con il tutto (dato che, di fatto, solamente in questo senso può
dirsi che esiste). Il carattere illimitato del ‘tutto’ dell’universo – la natu-
ra assoluatmente infinita –, non ci autorizza a farne l’oggetto di un’astra-
zione che lo riduce ad una ‘interiorità’ dal quale separiamo un ‘esterno’
(per questo, l’immagine dei due cerchi poteva servire per far riferimento
all’esistenza delle cose finite, ma non all’esistenza infinita). La natura non
ha esterno, ma per questa stessa ragione, non ha nemmeno un interno. E
in questo senso, non vi è né ordine né simmetria in una natura dal potere
infinito che ‘modula le sue parti in mille maniere’.

18 Ivi, p. 170.
102 Il transindividuale

4. La natura conflittuale dell’esistenza (o della complessità della deter-


minazione)

Se le parti della natura sono infinitamente determinate e modulate ‘in


mille maniere’ distinte in virtù del gioco reciproco delle leggi che costitui-
scono la molteplicità delle nature che compongono la natura assoluta, esse
stesse sono, in quanto ‘parti di questo tutto’, gradi singolari di una potenza
produttiva che esplica la sua esistenza e le sue proprie capacità di azione
e di operazione. In questo senso sono intensità espressive di una potenza
naturale in virtù della quale, come abbiamo detto, si identificano con la sua
stessa forza di affermare la propria essenza e con la stessa realtà concreta
dei suoi atti. Così, nella misura in cui si sforzano di permanere nell’esisten-
za, le cose finite (sia corpi che modi del pensiero), si affrontano e coesisto-
no conflittualmente, ma si articolano anche e danno luogo a configurazioni
più potenti quando riescono a convergere (convergenza che, tuttavia, non
è una legge). «[…] in realtà, essere finito è in parte negazione»19 dell’esi-
stenza in una natura qualunque.
Che essere finito sia una negazione parziale significa che vi è qualcosa
che si afferma e qualcosa che si nega simultaneamente; concretamente la
negazione compete al carattere finito delle cose singolari, mentre l’affer-
mazione si riferisce al fatto che si tratta di enti realmente esistenti, ossia
modi di una sostanza infinita che è solo nelle sue modificazioni. O, detto
in altro modo, la negazione rinvia all’ineluttabilità della determinazione
esterna che affetta le cose singolari, e la sua parzialità al fatto che tale nega-
zione non è assoluta, ma è in necessaria connessione con la determinazione
interna – cosa che fa, degli enti finiti, una relazione tra queste due direzioni
divergenti dell’interazione e, della vita di ognuno di essi, una mescolanza
di azioni e passioni. Come ben mette in evidenza Rousset, la realtà della
determinazione esterna non implica né che non vi sia determinazione inter-
na in una cosa finita, né che non vi sia negazione anch’essa interna in una
cosa finita, «dato che un essere finito, nella relatività della sua definizione
e della sua composizione, è tributario delle tensioni opposte delle determi-
nazioni estrinseche che lo costituiscono»20.
In questo modo il conflitto non è unicamente esteriore, e questa afferma-
zione vale non solo per la configurazione ampia, ma è valida in relazione
alla costituzione stessa degli individui finiti. Dato che non è possibile se-

19 B. Spinoza, Ethica I, pr. 8, schol. 1.


20 B. Rousset, «Regarde spinoziste sur la lecture hégélienne du spinozisme», in Id.,
L’immanence et le salut. Regardes spinozistes, Kimé, Paris 2000, p. 21.
M. de Gainza - Il limite e la parte: i confini dell’interiorità nella filosofia spinoziana 103

parare, in termini rigorosi, un ambito di interiorità, definito dall’attività,


e un altro ambito di passività, che sarebbe una sorta di bordo (come la
circonferenza del cerchio), sottoposto agli urti esterni; come se vi fosse
una realtà profonda delle cose – fatta dalla forza attiva e positiva del per-
severare nell’essere – e una superficie di queste stesse cose, costituita dagli
sfregamenti e da un affettarsi reciproco inevitabile dovuto alla coesistenza
spazio-temporale delle cose singole. ‘Interno’ ed ‘esterno’ sono profonda-
mente imbricati, di maniera tale che ogni ‘interno’ è costituito e attraver-
sato dall’esteriorità; per questo, la determinazione non è solo esterna, ma
definisce anche una disposizione interna, ed il limite non è solamente ester-
no (ed in questo senso subito), ma determina attualmente certe capacità di
azione; e nello stesso modo l’opposizione, la contraddizione e la negazione
non pertengono unicamente al ‘mondo esterno’, dato che nella misura in
cui questo mondo costituisce necessariamente l’essere di ogni cosa sin-
golare come un ‘essere in relazione’, ogni individuo vive ‘internamente’
quei conflitti come oscillazioni, tensioni e ambivalenze che fanno della sua
esistenza una battaglia e una lotta in senso pieno. «Vediamo dunque che le
passioni non si riferiscono alla Mente, se non in quanto la Mente ha qual-
cosa che implica negazione, ossia in quanto si considera come parte della
natura che per sé, senza le altre parti non può essere percepita chiaramente
e distintamente»21. La mente «ha qualcosa che implica negazione» – sot-
tolineamolo – che le deriva dall’essere necessariamente una parte della
natura, che non può essere isolata dal contesto relazionale in cui è e che la
costituisce.
In virtù del reciproco affettarsi che ha luogo tra le cose esistenti, ogni
corpo è effettivamente mescolato con gli altri corpi – dato che ogni affe-
zione implica non solo la natura del corpo che è affetto, ma anche la natura
del corpo che affetta. La mente umana conosce (e misconosce) il suo corpo
– il corpo del quale è idea – in quanto percepisce le sue affezioni, ossia, in
quanto essa stessa, in quanto idea complessa, è costituita dalle idee delle
affezioni del corpo. In questo modo anche la mente si conosce (o si mi-
sconosce) da sé, in quanto, come misura di sé (idea dell’idea che essa è in
quanto idea di un corpo esistente in atto) contiene le idee delle affezioni.
È all’interno di una tal condizione che un’essenza o conatus si afferma.
Lo sforzo con cui ogni cosa singolare tenta di perseverare nel suo essere
(sforzo che definisce la sua essenza attuale) è uno sforzo sempre e neces-
sariamente determinato, dato che le affezioni del corpo e le idee di queste

21 B. Spinoza, Ethica III, pr. 3, schol.


104 Il transindividuale

affezioni sono le condizioni dell’affermazione di questo unico conatus che


il corpo e l’anima esprimono e realizzano.
Il conatus o appetito costituisce l’essenza dell’uomo in quanto determi-
nata a fare qualcosa che serve alla sua propria conservazione (così come
l’appetito è l’essenza del cavallo in quanto determinata a fare qualcosa
che serve alla conservazione del cavallo; e anche l’essenza di un cerchio
sarebbe, se lo considerassimo come una cosa naturale, il suo appetito o
impulso determinato a fare in modo che persista il movimento che lo de-
finisce: la rotazione di un segmento di retta intorno ad uno dei suoi due
estremi concepito come fisso). Ma l’appetito dell’uomo in particolare è
il desiderio, cioè «l’appetito con la sua consapevolezza»22; ossia l’uomo,
oltre a sforzarsi come tutte le cose naturali nel perseverare nel suo essere,
percepisce, cioè è consapevole, di questo sforzo. Il desiderio, così come lo
definisce Spinoza (in Ethica III, definizione degli affetti, n. 1), è, in questo
modo, «la stessa essenza dell’uomo, in quanto si concepisce determinata
da una certa data sua affezione a fare qualcosa», e in questa definizione
è fondamentalmente presente l’imbricazione tra essenza e determinazione
che abbiamo sottolineato, così come l’impossibilità di separare un interno
essenziale o attivo da un esterno che solo dovrebbe articolarsi con la passi-
vità. La spiegazione spinoziana di questa definizione è precisa:

[…] avrei potuto dire che il Desiderio è la stessa essenza dell’uomo, in


quanto si concepisce determinata a fare qualcosa; ma da questa definizione non
sarebbe seguito che la Mente [che non si conosce per se stessa se non in quanto
percepisce le idee delle affezioni del corpo per Ethica II, pr. 23] possa essere
conscia del suo Desiderio ossia dell’appetito. Pertanto per includere la causa
di questa coscienza, è stato necessario […] aggiungere, in quanto determinata
da una data qualunque sua affezione. Infatti, per affezione dell’essenza umana
intendiamo una qualunque costituzione della stessa essenza23.

L’essenza è sempre un’essenza ‘in quanto determinata’ – e simultane-


amente, determinata a fare (agire) qualcosa per conservare la sua propria
costituzione, e determinata per una sua costituzione data, cioè «per una
sua qualche affezione data». L’affermazione di un’essenza è inscindibile
dall’affermazione della stessa costituzione – che incorpora la natura dei
corpi esterni che si ‘mescolano’ con essa, in virtù di affezioni di ogni ge-

22 B. Spinoza, Ethica III, pr. 9, schol.


23 B. Spinoza, Ethica III, def. aff. 1 [per non rompere la continuità citazione-com-
mento, ho modificato la traduzione del termine latino cupiditas, reso da Giancotti
con cupidità, preferendo utilizzare il termine desiderio, assai più prossimo al por-
toghese desejo, proposto dall’autrice; n.d.T.].
M. de Gainza - Il limite e la parte: i confini dell’interiorità nella filosofia spinoziana 105

nere. Nessuna profondità essenziale, quindi, che possa astrarsi o supporsi


protetta dalle vicissitudini ‘esterne’:

Qui, dunque, con il nome di desiderio – conclude Spinoza – intendo qual-


sivoglia conati, impeti, appetiti, volizioni dell’uomo, che a seconda della varia
costituzione dello stesso uomo sono varii e non di rado tra loro opposti al punto
tale che l’uomo è trascinato in diverse maniere e non sa dove volgersi24.

L’essenza permanentemente variabile di ogni uomo è costituita, dunque,


da questi sforzi, impeti, appetiti, volizioni, in generale «a tal punto opposti
gli uni agli altri», che diviene impossibile associarla con una limpida e
calma identità continuamente affermata. L’essenza dell’uomo è il desiderio
e questo fa di ogni essenza umana singolare qualcosa di definito neces-
sariamente dalla sua apertura agli altri uomini e al resto delle cose che
costituiscono il mondo. E per questo un filosofo come Leibniz non smise
di ribadire – di fronte a coloro che lo accusavano di spinozismo –, che
in alcun modo è possibile confondere le monadi (senza porte né finestre)
con gli individui così come sono concepiti da Spinoza, individui che non
conservano dentro di loro il principio della propria azione e che dipendono
necessariamente da altri individui con i quali sono in relazioni che sono,
per ciascuno di essi, costitutive e suscettibili di essere anche (grazie alla
composizione di sforzi convergenti) costituenti di nuovi tipi e forme di
individualità complessa.

[Traduzione dal portoghese di Vittorio Morfino]

24 Ibidem.
107

WARREN MONTAG
‘COMBINAZIONI TUMULTUOSE’
TRANSINDIVIDUALITÀ
IN ADAM SMITH E SPINOZA

Qualsiasi tentativo di stabilire una relazione tra Spinoza e Adam Smith


deve fare i conti con una difficoltà fondamentale: non esiste, nell’intero
corpus delle opere di Smith, un solo riferimento a Spinoza. E ciò è davvero
singolare, se si considera che Smith, in qualche punto della sua opera, di-
scute di ogni altro celebre filosofo del periodo: Bacon, Descartes, Gassen-
di, Hobbes, Malebranche, Locke e Leibniz. Tale assenza, che a malapena
sorprende in testi quali Lectures on Jurisprudence o Wealth of Nations,
assume un notevole interesse nel caso della Theory of Moral Sentiments.
Quest’ultimo lavoro infatti comincia, in tutti i sensi, con il concetto di sim-
patia, termine usato da Hume1 e da altri autori noti a Smith per definire la
comunicazione di idee ed emozioni tra gli individui. Ed è stato proprio
Spinoza, più di ogni altro filosofo del tempo, ad indagare ciò che potrebbe
esser detta la dimensione interindividuale o transindividuale (per usare un
termine di E. Balibar2), in cui il concetto di simpatia è necessariamente
fondato. Con transindividuale intendo le diverse irriducibili singolarità so-
ciali che eludono la semplice opposizione tra la persona intesa in senso
giuridico e la comunità, società o Stato: per esempio entità come coppie,
gruppi e moltitudini3.
Certo, si potrebbe sostenere che Spinoza è presente al lavoro di Smith
(se non in esso), ma ad una certa distanza, presente nei suoi effetti, per così
dire, attraverso certi intermediari o emissari tramite i quali le sue idee ven-

1 D. Hume, A Treatise on Human Nature, ed. by D.F. Norton and M.J. Norton, Ox-
ford University Press, Oxford 2000, tr. it. di A. Carlini et alii, Laterza, Bari-Roma
1992, libro 2, parte 1, sezione 11.
2 E. Balibar, «Individualité et transindividualité chez Spinoza», in P.-F. Moreau
(éd.), Architectures de la raison: Mélanges offerts à Alexandre Matheron, ENS
Éditions, Fontenay/Saint-Cloud 1996; Cfr. A Matheron, Individu et communauté
chez Spinoza, Éditions de Minuit, Paris 1969, pp. 150-190.
3 W. Montag, «Who’s Afraid of the Multitude: Spinoza Between the Individual and
the State», in South Atlantic Quarterly, 104, 2005, 4, pp. 655-673, tr. it. di L. Di
Martino, in Quaderni materialisti, 2, 2003, pp. 63-79.
108 Il transindividuale

gono comunicate. L’idea di un riferimento indiretto a Spinoza, comunque,


non coglie minimamente come l’apertura della Theory of Moral Sentiments
sia un confronto con una filosofia, vale a dire con un insieme di concetti,
più che con un filosofo. Tale confronto non assume la sembianza del netto
rifiuto manifestato nella sezione conclusiva della Theory of Moral Senti-
ments, dove Smith esamina in modo particolareggiato differenti ‘sistemi di
filosofia morale’. Quasi mezzo secolo prima di Smith, Shaftesbury aveva
descritto la strategia, di gran lunga più sottile, dei critici della socievolezza,
così come l’aveva intesa:

Secondo un noto modo di ragionare sull’interesse, ciò che di sociale vi è in


noi dovrebbe di diritto esser abolito… e in tal modo non rimarrebbe nulla in
noi che fosse contrario ad un obiettivo autocentrato; nulla che potrebbe andar
contro ad una ferma e deliberata ricerca dell’interesse personale nella sua for-
ma estrema4.

Smith viene spesso considerato un teorico della socievolezza nel senso


più forte, per il quale la simpatia è l’origine e il fondamento della società
stessa. Sarebbe allora possibile, di contro, leggerlo (e di conseguenza si-
tuarlo in relazione a Spinoza) come un continuatore di un’opera, descritta
da Shaftesbury, di ‘abolizione’ che eliminerà o tenterà di eliminare ‘ogni
traccia’ di ciò che è genuinamente sociale?
L’apertura della Theory of Moral Sentiments, Parte I, Capitolo 1, è co-
stituita da un doppio movimento che conserva l’idea di ‘simpatia’, o forse
semplicemente la parola, solo nella misura in cui la svuota di ogni conte-
nuto o significato che eccede il confine che delimita l’individuo. In altre
parole, Smith può esser visto come qualcuno che applichi in modo ancor
più consapevole la strategia descritta da Shaftesbury, non solo abolendo
la dimensione transindividuale, ma facendolo attraverso il linguaggio e il
lessico propri della transindividualità stessa. In tal senso, l’obbiettivo della
Theory of Moral Sentiments non è tanto rifiutare o smentire l’idea stessa
della dimensione transindividuale, quanto rendere quest’ultima impensa-
bile ed anche inimmaginabile. Né le osservazioni vaghe e inconcludenti
di Hume sulla simpatia della parte seconda del Treatise of Human Nature,
né quelle più sostanziali ma tuttavia alla fine infondate di Malebranche
nel secondo libro della Recherche de la vérité rappresentano una minaccia
sufficiente a spingere Smith ad intraprendere un’operazione di esclusione.
Potrebbe trattarsi semplicemente di ciò di cui essi rappresentano una ver-

4 A.A. Cooper, Third Earl of Shaftesbury, Characteristics of Men, Manners, Opin-


ions, Times, Bobbs-Merrill, New York 1964, p. 282.
W. Montag - ‘Combinazioni tumultuose’ 109

sione ridotta ed equivoca, ossia il pensiero di Spinoza, le idee immanenti


nel corpo delle proposizioni e scolii che costituiscono la parte III e IV
dell’Ethica di Spinoza.
Per vedere in atto l’operazione filosofica di Smith non occorre spingersi
oltre il primo paragrafo della Theory of Moral Sentiments. Tale paragrafo
è notevole sotto diversi aspetti, innanzitutto, forse, perché offre la più pre-
gnante (vale a dire, la meno ambigua o ambivalente) spiegazione della sim-
patia presente nell’intero lavoro, una spiegazione rispetto alla quale ogni
successiva descrizione della simpatia rappresenterà una qualificazione:

Per quanto egoista si possa ritenere l’uomo, sono chiaramente presenti nella
sua natura alcuni principi che lo rendono partecipe delle fortune altrui, e che
rendono per lui necessaria l’altrui felicità, nonostante da essa non ottenga altro
che il piacere di contemplarla5.

Qui Smith si associa ad una schiera di critici dell’antropologia politi-


ca di Hobbes, secondo la quale gli esseri umani, nella misura in cui sono
motivati dal solo interesse personale, sono per natura inadatti alla società,
visto che le loro inclinazioni li conducono non solo all’indifferenza per il
benessere altrui ma anche ad una viva ostilità. Nella prima frase dell’opera,
Smith pare allinearsi con le decise affermazioni della socievolezza umana
messe in campo in reazione a Hobbes da personalità quali Shaftesbury,
Butler, Hutcheson, Hume e Rousseau. La simpatia come la definisce in
questo passo è irriducibile: per quanto ‘egoista’ l’uomo possa essere, resta
qualcosa di ‘chiaro’ (nel senso di ovvio, inconfondibile, innegabile), che
deve ‘rendere partecipe’ l’uomo delle ‘fortune altrui. Il termine ‘rendere
partecipe’ (interest) è degno di nota in questo caso: è qualcosa di più che
una curiosità verso gli altri che possa coesistere con il desiderio di pro-
muovere la nostra prosperità, un vantaggioso confronto tra noi stessi e gli
altri che possa aggiungere gloria nel senso hobbesiano6 al nostro benes-
sere materiale, ricongiungendosi così al nostro piacere. Al contrario, esso

5 A.Smith, The Theory of Moral Sentiments, ed. D.D. Raphael and A.L. Macfie,
Liberty Fund, Indianapolis 1976, p. 9, tr. it. di S. Di Pietro, BUR, Milano 1995, p.
81.
6 Hobbes inizialmente definisce la gloria «la gioia che deriva dall’immaginare il
proprio potere e la propria abilità» (T. Hobbes, Leviathan, Pelican, London 1968,
pp.124-125, tr. it a cura di A. Pacchi, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 47). Nel Capi-
tolo 13, comunque, Hobbes definirà la Gloria come il desiderio di ciascun uomo
che «il suo compagno nutra per lui la stessa stima che egli nutre per se stesso», un
desiderio che, se disapprovato, può condurre gli individui a tentare di ‘estorcere’
tale stima dagli altri anche con la violenza.
110 Il transindividuale

suggerisce che il nostro interesse comprende la ‘fortuna’ e perciò anche


l’interesse degli altri. La felicità degli altri (al plurale) è «necessaria a lui»,
ovvero alla sua propria felicità e non perché possa calcolare la probabilità
di ricavare qualche guadagno (attraverso la loro munificenza o bontà), ma
per la sola ragione che egli trae ‘piacere’ dalla semplice contemplazione
del loro piacere.
Se il primo paragrafo della Theory of Moral Sentiments non solo man-
tiene il concetto di simpatia ma gli dà anche rilevanza, il secondo paragrafo
lo svuota del significato che esso rivestiva nelle opere di teorici precedenti,
sostituendolo con un altro significato, radicalmente opposto. In tal modo, la
strategia filosofica di Smith – ovvero non solo il contenuto del suo pensie-
ro, le sue proposizioni di base, ma anche i modi concreti in cui le formula
e si sforza di imporle come verità – pare stranamente simile al modo di
Spinoza. Non è nient’altro che ‘l’operazione sive’ come André Tosel l’ha
definita7, un’operazione di sostituzione e traduzione, che nel caso di Spi-
noza conserva il linguaggio della teologia trasformando sistematicamente
la trascendenza in immanenza, come nel famoso deus sive natura (Ethica
IV). Nel caso della Theory of Moral Sentiments, Smith ci chiede di tradurre
la simpatia – in precedenza intesa come ‘comunicazione’ o ‘trasmissione’
di affetti da un individuo ad un altro, e dunque come un fenomeno transin-
dividuale – in un fenomeno puramente intraindividuale, che non solo non
dipende dagli altri, ma nemmeno ne richiede l’esistenza.
La prima frase del secondo paragrafo della Theory of Moral Sentiments
non confuta né corregge in alcun modo le teorie della comunicazione di
sentimenti, ma piuttosto le rende prive di senso:

Dal momento che non abbiamo esperienza diretta di ciò che gli altri uomini
provano, non possiamo formarci alcuna idea della maniera in cui essi vengono
colpiti in altro modo che col concepire ciò che noi stessi proveremmo nella loro
stessa situazione8.

Nessuna esperienza immediata: per esser precisi, io sono ‘incastonato’


nel mio corpo, ed essi, presumo, nel loro. In uno dei suoi primi testi, Of the
External Senses, Smith tenta di stabilire i confini dell’esperienza. Quando
un uomo

posa la mano sul corpo di un altro uomo, o di un qualsiasi altro animale, seb-
bene egli sappia, o possa sapere, che essi sentono la pressione della sua mano

7 A. Tosel, Spinoza et le crepuscule de la servitude, Aubier, Paris 1984, p. 55.


8 A. Smith, The Theory of Moral Sentiments, cit., p. 9, tr. it. cit., p. 81.
W. Montag - ‘Combinazioni tumultuose’ 111

come egli sente quella del loro corpo, tuttavia, dato che questa sensazione gli è
completamente estranea, spesso non ci fa caso9.

Parimenti, la visione ci presenta un mondo che è «solamente un piano o


superficie»10, che include la superficie dei corpi degli altri. Se noi ‘sappia-
mo’ che in qualche modo gli altri sentono (e si noti che Smith lascia aperta
la possibilità che possiamo non sapere), ciò avviene in virtù del nostro
‘concepire’ e non dell’esperire il loro sentimento. In assenza di un’ope-
razione dell’intelletto, del tutto inutile per la nostra esperienza dei nostri
sentimenti, non possiamo formare ‘alcuna idea’ di ciò che gli altri sentono.
Inoltre, l’‘idea’ che noi formiamo, non della situazione dei loro corpi ma
di ciò che essi sentono in un inaccessibile ‘interno’, non è affatto, a stretto
rigore, derivata da loro, bensì da noi stessi. Dobbiamo «concepire ciò che
noi stessi proveremmo nella loro stessa situazione»11. Così, non è possibile
determinare l’adeguatezza della nostra concezione dei sentimenti degli al-
tri, se non in relazione a noi stessi.
Per illustrare questo punto, Smith presenta un caso limite, che ha tutta
l’aria di una deliberata provocazione: «nonostante nostro fratello sia sotto
tortura, finché ce ne stiamo tranquilli a nostro agio, i nostri sensi non ci
informeranno mai di quel che sta soffrendo»12. È, questo, il primo di una
lunga serie, davvero insolita, almeno nella storia della filosofia, di riferi-
menti a tortura, punizione corporale ed esecuzione; infatti, il capitolo si
conclude con un encomio della pena capitale. Il termine stesso ‘fratello’ è
qui ambiguo, in un modo che cattura l’attenzione. È un termine generico,
simile al biblico ‘prossimo’, o va inteso letteralmente, vale a dire in quan-
to indicante il figlio maschio dei propri genitori e dunque membro della
propria famiglia, un consanguineo cresciuto nello stesso mondo affettivo?
È come se Smith tentasse di dissociare gli individui anche da quelli a loro
più vicini, suggerendo che i sentimenti di un altro individuo – al quale pure
fossimo legati dal più intimo dei legami e che fosse ‘sotto tortura’ e dunque
stesse sperimentando un dolore atroce, i cui segni si mostrassero inequivo-
cabilmente ai nostri sensi visivi e uditivi – restano a noi inaccessibili (ben-
ché curiosamente egli aggiunga: «finché ce ne stiamo tranquilli a nostro
agio», come se una situazione fisica condivisa aprisse la possibilità di una

9 A. Smith, «Of the External Senses», in Id., Essays in Philosohical Subjects, Lib-
erty Fund, Indianapolis 1980, p. 136, tr. it. a cura di P. Berlanda, Saggi filosofici,
Franco Angeli, Milano 1984, p. 141.
10 A. Smith, «Of the External Senses», cit., p.151, tr. it. cit., p.156.
11 A. Smith, The Theory of Moral Sentiments, cit., p. 9, tr. it. cit., p.81.
12 Ibidem.
112 Il transindividuale

condivisione del sentimento). I nostri sensi, ribadisce Smith, «non ci hanno


mai condotto, né mai potranno condurci, al di là della nostra persona»13.
Qui Smith invoca non solo una conclusione induttiva, desunta dal fatto che
sinora i nostri sensi non ci hanno mai portato né verso l’altro né oltre noi
stessi, ma anche una conclusione deduttiva: la ragione ci dice che la nostra
propria persona è un orizzonte assoluto. Quando, dunque, parliamo della
nostra ‘simpatia’ per nostro fratello mentre viene torturato sotto i nostri
occhi, non intendiamo nient’altro che questo:

con l’immaginazione noi ci mettiamo nella sua situazione, ci rappresentia-


mo mentre proviamo tutti i suoi stessi tormenti, come se entrassimo nel suo
corpo, e diventiamo in una certa misura la sua stessa persona14.

Il ‘come se’ è cruciale qui: Smith consente al lettore che abbia familia-
rità con il lessico della simpatia di iniziare a tradurre il transindividuale
nell’intraindividuale, a capire che il senso di espressioni quali ‘entrare nei’
o ‘condividere i’ sentimenti altrui, esperienze che ha appena escluso in
quanto impossibili, può ora esser compreso come esprimente atti dell’im-
maginazione grazie ai quali consideriamo ciò che noi stessi abbiamo sen-
tito – o più problematicamente potremmo sentire, qualora non lo avessimo
mai sperimentato in una situazione analoga –, il che in nessun modo im-
plica un contatto con il mondo interiore di un altro. L’atto dell’immagina-
zione di cui siamo allo stesso tempo soggetto e oggetto, e che solo in via
subordinata connette ciò che cominciamo in tal modo a sentire a ciò che
sappiamo, o possiamo sapere, circa un’altra persona è, certamente, tutto
fuorché qualcosa di immediato o spontaneo. Infatti, la simpatia, intesa ora
come atto della volontà con il quale concepiamo ciò che noi stessi po-
tremmo provare in una data situazione, significa che persino la vista di
nostro fratello sotto tortura «comincerà infine a far soffrire anche noi» solo
quando i tormenti che egli ci sembra stia soffrendo «li abbiamo ricondotti
a noi»15. Le passioni che «in alcune occasioni possono sembrare trasfuse
da un uomo a un altro istantaneamente, e prima di qualsiasi conoscenza
di ciò che le ha suscitate nella persona principalmente interessata»16, non
possono, in realtà, mai passare da uno all’altro e nemmeno oltrepassare il
limite della persona stessa.

13 Ibidem, tr. it. cit., p. 82.


14 Ibidem.
15 Ibidem.
16 Ivi, p. 11, tr. it. cit., p. 84.
W. Montag - ‘Combinazioni tumultuose’ 113

È istruttivo confrontare questo passo con la proposizione 27, forse


il centro della terza (De origine et natura affectuum) delle cinque parti
dell’Ethica di Spinoza, e della quale la descrizione che Smith fa della sim-
patia è una rielaborazione e una traduzione nell’idioma delle individualità
separate. «Se immaginiamo che una cosa a noi simile, e verso la quale
non abbiamo nutrito nessun affetto, è affetta da un qualche affetto, per ciò
stesso veniamo affetti da un affetto simile». Vi è un senso per il quale i due
passi appaiono simili: per Spinoza come per Smith, la corrispondenza di
sentimenti tra due individui ha luogo in un atto dell’immaginazione. Pos-
siamo dunque affermare che la simpatia come viene intesa da Smith e ciò
che Spinoza chiamerà nello scolio di questa proposizione una ‘imitazione
degli affetti’ (affectuum imitatio) sono operazioni simili, se non identiche?
Per incominciare a rispondere a questo interrogativo dobbiamo innanzitut-
to determinare se con il termine ‘immaginazione’ essi intendano la stessa
cosa. Come abbiamo visto, Smith assegna al concetto di immaginazione un
ruolo molto importante e piuttosto specifico nell’apertura della Theory of
Moral Sentiments, dove afferma che essa soccorre laddove i sensi vengono
meno, ossia al limite della ‘nostra persona’. L’immaginazione ci permette
di ‘concepire’ non ciò che l’altro sente, ma solo ciò che noi stessi proba-
bilmente sentiremmo sulla base sulle nostre esperienze passate, qualora
ci capitasse una disgrazia simile. L’immaginazione, dunque, non è tanto
un ‘vedere nella propria mente’ l’altro, quanto piuttosto noi stessi, anzi
un mettersi in relazione all’altro solo ipotizzando ciò che noi potremmo
presumibilmente sentire in una data circostanza e poi attribuendo il risul-
tato ad un altro. Certo – e qui sta uno dei vincoli posti alla simpatia –, se
noi non abbiamo mai sofferto in tal modo (diciamo, per esempio, nella
tortura), sarà difficile ‘simpatizzare’ completamente con una persona che si
trovi in una simile situazione. Inoltre, l’immaginazione di Smith dipende
dall’operazione della volontà: noi dobbiamo voler simpatizzare e fare un
certo sforzo mentale per conseguire e mantenere uno stato di simpatia.
Per Spinoza, al contrario, l’immaginazione non è un atto della volontà,
né, a rigore, ha luogo entro i confini della nostra persona. Nella dimostra-
zione che segue la proposizione 27, Spinoza ricapitola brevemente la sua
descrizione dell’immaginazione esposta nella Parte II dell’Ethica: il verbo
‘immaginare’ allude alla produzione delle immagini nella mente attraverso
gli incessanti e innumerevoli incontri fortuiti tra il nostro corpo ed altri
corpi, in un modo che è assolutamente indipendente dalla volontà. L’imma-
ginazione è, dunque, perfettamente ‘oggettiva’ in se stessa: consiste nelle
immagini prodotte dagli incontri tra le cose ed è fonte di errore solo se
tali immagini non sono accompagnate da un’idea della loro non esistenza.
114 Il transindividuale

Noi vediamo o immaginiamo un bastone piegato nell’acqua pur sapendo


che, mentre noi vediamo o immaginiamo, il bastone resta dritto. Immagi-
nare che un altro sta soffrendo significa letteralmente esser posti di fronte
all’immagine di questa sofferenza e ‘soffrirla’, un’immagine che è l’effetto
dell’incontro con gli altri. Abbiamo così un’esperienza dell’altro, degli af-
fetti degli altri, che non sono in alcun modo nascosti o isolati da noi. Lungi
dal doverci ‘raffigurare’ mentalmente ciò che sentiremmo se fossimo noi
stessi sotto tortura al posto di nostro fratello, assistere ad una tale scena
equivarrebbe necessariamente a soffrire a causa delle rappresentazioni o
delle immagini di un dolore atroce. Tali immagini, per il loro numero e
per l’intensità dell’affetto che producono in noi, rischiano di sopraffare la
nostra ragione (il che accadrebbe, sottolinea Spinoza nella proposizione
27, anche se l’altro ci fosse sconosciuto) indipendentemente dalla nostra
volontà o dai nostri desideri.
Ma Spinoza qui non si riferisce espressamente al fatto di immaginare
un’altra persona affetta da una certa affezione, bensì parla solo di «una
cosa a noi simile» (rem nobis similem). Prima di questo punto, nella sua
discussione sugli affetti, Spinoza faceva riferimento alle cose che produ-
cono in noi un affetto di gioia o tristezza e verso le quali di conseguenza
proviamo amore o odio. Solo nella Proposizione 21 parla per la prima volta
delle cose che noi amiamo in quanto esse stesse affette da gioia o tristez-
za. L’insistenza di Spinoza nell’uso della parola ‘cose’ nell’ambito della
discussione sugli affetti ci obbliga in parte a riflettere sulla distinzione tra
persone e cose, e a considerare se sia possibile comprendere la specificità
dell’essere umano senza separarlo dal resto della natura, senza separare
corpo e anima in sostanze differenti secondo le quali l’anima resterebbe
almeno potenzialmente libera dal corpo, e dunque dalla natura fisica. De-
finendo ‘noi’ (cose come noi) come cose affette da affetti e usando il ter-
mine ‘affetti’ nel suo senso di interazione (con altre cose da cui veniamo
affetti), egli elimina ogni nozione di un mondo interno che ci separa dalla
natura e dagli altri, vale a dire da tutte le altre cose. Non siamo più murati
in un regno interno inaccessibile agli altri, né essi lo sono nel loro; non vi
è alcuna solitudine della coscienza o rifugio di se stessi. È qui che assume
pieno significato la nozione spinoziana secondo cui tutto ciò che accresce
o diminuisce la potenza di agire del corpo, allo stesso tempo accresce o
diminuisce necessariamente e in eguale misura la potenza di pensare della
mente. Il rifiuto di Spinoza di elevare gli esseri umani al di sopra non solo
dei loro corpi ma anche della loro esistenza come mere cose, si dimostra
quanto mai indigesto per la tradizione politica e teologica sullo sfondo del-
la quale Smith delinea la Theory of Moral Sentiment: non esiste il minimo
W. Montag - ‘Combinazioni tumultuose’ 115

rifugio interno nel quale possiamo, con il corretto esercizio della volontà,
fuggire; non vi è alcun porto sicuro all’interno, al di là della violenza delle
tempeste politiche e sociali che infuriano attorno a noi; non vi è alcuna
possibilità che la mente non abbia a patire per la più piccola degradazione
inflitta al corpo.
Infatti, la specificità dell’essere umano, secondo il ragionamento di Spi-
noza, ci rende in misura maggiore e non minore preda del gioco di forze nel
quale siamo immersi. Diversamente dalle altre cose, noi siamo ‘cose’ affet-
te da affetti, compresi gli affetti che colpiscono cose simili a noi. Quanto
alle cose a noi simili, non solo non vi è nulla che renderebbe i loro senti-
menti inaccessibili a noi o i nostri a loro, ma, soprattutto, non vi è nulla che
ci protegga dai loro affetti. Questi ultimi trascorrono da individuo a indivi-
duo con la facilità di un virus trasportato da un costante flusso di immagini,
esso stesso conseguenza del fatto che siamo una cosa che interagisce con
altre cose che non possiamo né fuggire né sperare di controllare. Questo
esser affetti dagli affetti altrui, trasportato dalle immagini alle quali siamo
costantemente soggetti, Spinoza lo chiama ‘imitazione’. Il termine, usato
anche da Malebranche, deriva probabilmente dall’argomento di Descartes
secondo cui gli animali si mostrano capaci di imitare gli esseri umani, pur
non essendo altro che macchine: le macchine di Descartes imitano altre
macchine17. Perché ‘imitazione’ piuttosto che ‘trasmissione’ o ‘comunica-
zione’ di affetti, quando vi si dà chiaramente una replica dell’affetto altrui?
L’uso del termine imitazione da parte di Spinoza suggerisce la natura fisica
ed esterna del nostro assumere l’affetto altrui: non ci limitiamo a ‘sentirlo’,
ma ne veniamo alterati così nel corpo come nella mente.
Per sottolineare il fatto che l’imitazione degli affetti non è atto della
volontà, Spinoza insiste nell’affermare che anche se in precedenza non ab-
biamo sentito nulla da o per questa cosa, automaticamente (eo ipso) saremo
affetti da un affetto simile. L’imitazione qui fa riferimento ad un automati-
co e involontario mimetismo, anche a ciò che Malebranche chiamava ‘un
contagio’ di affetti, rispetto al quale né colui che causa l’affezione né colui
che la subisce hanno necessariamente qualche conoscenza o controllo. Noi
imitiamo gli affetti altrui senza sapere perché o che cosa imitiamo e, in
molti casi, senza nemmeno sapere che imitiamo i loro affetti. L’immagine
della tristezza degli altri ci rattrista, mentre l’immagine della gioia altrui ci

17 Descartes discute dell’imitazione messa in atto dagli animali (che sono per lui
macchine priva volontà) in una lettera al Marchese di Newcastle, 23 novembre
1646, in R. Descartes, Tutte le lettere, tr. it. a cura di G. Belgioioso, con la colla-
borazione di I. Agostini et alii, Bompiani, Milano 2005, pp. 2347-2353.
116 Il transindividuale

rende gioiosi. Gli affetti sorgono dall’incontro tra le cose, e l’imitazione


degli affetti è la comunicazione di una forza che trasforma secondo un
certo grado la cosa che viene affetta. In tali circostanze è impossibile par-
lare di una divisione fra uno spettatore e il principale interessato. Non c’è
alcuno spettatore nel regno degli affetti e ciascuno rischia di diventare ‘il
principale interessato’, perché gli affetti si diffondono ben oltre il punto di
origine, che si perde nel flusso. Gli affetti dunque non sono fenomeni in-
traindividuali, né, analogamente, possono appartenere ad una dimensione
ultraindividuale, lo Stato o la società. In virtù della loro peculiare natura
essi sono transindividuali, composti che prendono forma da una moltepli-
cità di individui.
Appare chiaro, a questo punto, l’interesse politico della descrizione di
Spinoza degli affetti. Il fatto che la miseria altrui si riproduce immedia-
tamente in me conduce ineluttabilmente e, di nuovo, automaticamente a
certe azioni. Il dolore che accompagna l’immagine della sofferenza degli
altri ci spinge senza riflessione o intervento della volontà «a tentare di libe-
rarli» (liberare conabimur), «per quanto sta in noi» (quantum possumus),
dalla loro miseria. Questo è l’inizio della saggezza: la commiserazione «è
di per sé cattiva e inutile»18, in quanto rattrista e quindi diminuisce in noi la
capacità di pensare e di agire.
Spinoza distingue l’imitazione del desiderio da tutte le altre forme di
imitazione affettiva: la prima è ciò che può condannare una società al
conflitto perpetuo o unire i suoi membri. L’invidia che nasce dall’ine-
guaglianza delle proprietà genera una spirale di odio e distruzione che
nessuno Stato sarà in grado di contenere. Ma l’imitazione del desiderio
produce anche ciò che Spinoza chiama emulazione (Emulatio), vale a
dire «il desiderio di una certa cosa che si genera in noi per il fatto che
immaginiamo che altri a noi simili abbiano lo stesso desiderio»19. In tutta
la proposizione 27, come abbiamo notato nella nostra analisi, Spinoza ha
fatto riferimento alla nostra imitazione degli affetti di una cosa simile a
noi, al singolare. Solo qui, nel caso dell’emulazione, fa uso del plurale:
noi imitiamo il desiderio (al singolare) degli altri (che hanno dunque tutti
lo stesso desiderio). L’uso specifico del plurale e del singolare in questa
proposizione fa sorgere una serie di interrogativi. Possiamo imitare il

18 B. Spinoza, Ethica IV, pr. 50 (la tr. it. dell’Etica utilizzata è quella di E. Giancotti,
Editori Riuniti, Roma 1988).
19 B. Spinoza, Ethica III, pr. 27, schol. [per non rompere la continuità citazione-
commento, ho preferito modificare la traduzione del termine latino cupiditas, reso
da Giancotti con cupidità, preferendo utilizzare il termine desiderio, assai più
prossimo all’inglese desire, proposto dall’autore; n.d.T].
W. Montag - ‘Combinazioni tumultuose’ 117

desiderio sentito contemporaneamente da più cose a noi simili? Ciò non


implicherebbe che esse siano a loro volta tutte affette dallo stesso desi-
derio? E come, se non per imitazione? Interrogativi interessanti e che
certamente creano difficoltà, in special modo quando li si consideri alla
luce della descrizione spinoziana del desiderio nella sezione precedente
della parte terza dell’Ethica. Come Spinoza spiega nello scolio della pro-
posizione 11, desiderio (Cupiditas), gioia (Letitia) e tristezza (Tristitia)
costituiscono i tre ‘affetti primari’, di cui tutti gli altri rappresentano va-
riazioni. La gioia è l’affetto al quale siamo soggetti quando la nostra po-
tenza è accresciuta, mentre la tristezza è l’affetto che subiamo quando la
nostra potenza è diminuita. Se io imito la gioia di un altro (o una delle sue
variazioni), la mia potenza di pensare e di agire viene accresciuta, mentre
la mia imitazione della tristezza degli altri mi indebolirà. Qual è, dunque,
il ruolo del desiderio in questo gioco di forze? In un certo senso, si può
dire che il desiderio è condizione degli altri affetti primari, in quanto
Spinoza lo definisce come ‘consapevolezza’ dello sforzo dell’individuo
di persistere nel proprio essere. Tale sforzo in relazione alla mente viene
chiamato volontà (Voluntas) e in relazione a mente e corpo viene chiama-
to appetito (Appetitus). Il desiderio è la consapevolezza di questo appe-
tito, vale a dire del nostro sforzo di persistere nel nostro essere. ‘Sforzo’
è, ovviamente, la traduzione di Conatus, l’«essenza attuale»20 di una cosa
singolare che in virtù della sua esistenza si sforza (parola che Spinoza
svuota di qualsiasi connotazione esprimente intenzione, dal momento che
parla di conatus di qualsiasi cosa singolare) di esser se stessa.
Una cosa singolare: è soprattutto qui che Spinoza si avvicina a Smith e
il fulcro della loro divergenza diviene chiaro. Lasciamo da parte l’antiuma-
nesimo teorico militante di Spinoza, il suo rifiuto categorico di separare la
cosa umana, l’individuo umano, dalle altre cose. Benché Spinoza impieghi
il termine ‘individuo’ (Individuum), preferisce tuttavia il termine ‘cosa sin-
golare’ (res singularis), un termine che non può limitarsi ai soli individui
umani. Anche nei casi in cui impiega il termine ‘individuale’, comunque,
si riferisce a cose individuali di cui l’essere umano non è che una parte.
La sua preferenza per ‘cosa singolare’, poi, si scontra con un umanesimo
teorico o contro un’antropologia in un altro senso ancora. Ci obbliga a
concepire gli esseri umani non come espressione di una natura essenziale,
egoista o benevolente (o entrambe allo stesso tempo), ma come singolarità.
L’individuo umano non è né origine né fine ma un composto, costituito da
altri individui. Come sostiene Macherey,

20 B. Spinoza, Ethica III, pr. 7.


118 Il transindividuale

l’individuo, o il soggetto, non esiste dunque in se stesso, nella semplicità irri-


ducibile di un essere unico e eterno, ma è costituito dall’incontro degli esseri
singolari che si accordano in modo congiunturale in esso, quanto alla loro esi-
stenza, ossia che coesistono in lui, senza che quest’accordo presupponga una
relazione privilegiata, l’unità di un ordine interno al livello delle loro essenze,
che persisterebbe nella loro identità21.

Il concetto spinoziano di individuo umano come di singolarità compo-


sta rende, dunque, l’identità individuale instabile e suscettibile di cambia-
mento, anche drammatico, secondo il modo in cui viene affetto dagli altri
individui. Nulla limita i confini dell’individuo – in quanto giuridicamente
definito, o in quanto soggetto di interesse – dall’espandersi al di là di ciò
che Smith riferisce alla persona. È a questo punto del pensiero di Spinoza
che la dimensione della transindividualità apre la possibilità di immaginare
forme di individualità o di singolarità umane al di là delle categorie giuridi-
che dell’individuo e dello Stato o società (concepite in modo organicistico
o ‘olistico’, come un superindividuo dotato della volontà di realizzare i
fini che ha fissato, oppure in modo individualistico, come semplice somma
delle volontà individuali irriducibilmente separate che la compongono).
Non possiamo mai ritirarci in un mondo di autosufficienza materiale o
anche affettiva, «il commercio con le cose che sono fuori di noi»22 è neces-
sario alla conservazione del nostro essere. Tuttavia questo stesso commer-
cio comporta in eguale misura rischi e occasioni. Possiamo esser travolti
da cause esterne contrarie alla nostra essenza singolare, come è nel caso di
chi ‘sceglie’ una morte volontaria23. Ma possiamo incontrare cose non solo
utili alla nostra conservazione, ma che s’accordano (convenient) alla nostra
natura. Secondo Spinoza è possibile che due individui di natura del tutto
identica «compongano un individuo due volte più potente del singolo»24.
Così, l’impeto di affetti che attraversano gli individui può distruggere la
relazione di accordo fra gli individui dai quali siamo composti, indebo-
lendoci e opponendoci a noi stessi e agli altri. Ma può anche unirci agli
altri in una relazione tale da accrescere il nostro potere di pensare e agire.
L’emulazione, l’imitazione del desiderio dell’altro, è l’affetto che accom-
pagna tale unità; è la consapevolezza di una cosa singolare composta gra-
zie all’accordo congiunturale di sforzi individuali di persistere nel proprio

21 P. Macherey, Hegel ou Spinoza, Maspero, Paris 1979, p. 216.


22 B. Spinoza, Ethica IV, pr. 18, schol.
23 Spinoza cita l’esempio di Seneca (uno dei pochi nomi che compaiono nell’opera)
come di qualcuno «costretto da un altro», ossia che «per ordine del Tiranno […] è
costretto ad aprirsi le vene» (Ethica IV, pr. 20, schol.)
24 B. Spinoza, Ethica, IV, pr.18, schol.
W. Montag - ‘Combinazioni tumultuose’ 119

essere. In quanto tale, l’individuo, nel senso spinoziano di cosa singolare,


è reale e irriducibile come le parti che lo compongono.
L’interesse, per Hobbes, Mandeville e Smith, funzionava come un
principio di individuazione; l’interesse era l’espressione della tendenza
dell’individuo all’autoconservazione, una tendenza che, almeno all’inizio,
separava ciascuno da tutti gli altri, anche se proprio questo stesso princi-
pio condurrebbe tali individui, essenzialmente separati, nella società, con
entusiasmo o riluttanza, volenti o nolenti. Nelle mani di Spinoza, però, il
principio di autoconservazione, o conatus, tende a transindividualizzare
il mondo umano, portando gli individui a comporsi in nuovi e più potenti
individui: coppie, gruppi, anche movimenti di massa di una molteplicità
di corpi in accordo, che si muovono e parlano all’unisono, mossi da un
nuovo conatus e desiderio. Un tale movimento di massa, che Spinoza ha
teorizzato nel suo ultimo lavoro, il Tractatus Politicus, nella figura della
moltitudine, spesso inizia con un momento di indignazione25 collettiva nei
confronti della crudeltà dei capi – sia essa visibile o invisibile, Monarca o
Banca Mondiale –, sufficiente a scoprire che in quel momento si è costitui-
to un nuovo più potente individuo, un tremendo potere di pensare e agire: il
potere non semplicemente di distruggere un mondo di servitù e privazione,
ma anche di costruire un altro mondo al suo posto.

[Traduzione dall’inglese di Sara Pagliano]

25 Cfr. A. Matheron, «Indignation et le conatus de l’état spinoziste», in M. Revault


D’Allones et H. Rizk (éds.), Spinoza: Puissance et ontologie, Kimé, Paris 1994,
pp. 153-165.
121

FRÉDÉRIC LORDON
L’IMPERIO DELLE ISTITUZIONI

Chiamiamo sudditi gli uomini in quanto sono tenuti a


sottomettersi alle istituzioni e alle leggi della città
Spinoza, Trattato politico, III, 1

Dovrebbe essere più spesso permesso alle scienze sociali di trarre la


propria forza da opere che non appartengono al loro proprio genere. Spi-
noza vedeva con chiarezza i limiti del discorso della ragione, capace di
colpire coloro che già la amano a sufficienza, ma incapace al di fuori di
questa risorsa di «tener a freno un affetto»1, né di suscitarne o di produrne
uno. Se dunque la ragione – «la vera conoscenza del bene e del male»2 –
non ha in se stessa se non un potere ridotto di affettare, è necessario,
affinché le sue produzioni penetrino in modo più ampio o più profondo,
aggiungere ad essa un supplemento che necessariamente viene dal suo ‘di
fuori’. Dove trovare questo supplemento capace di colpire le menti al di
là del solo effetto del logos se non nelle opere d’arte, che sono costituti-
vamente delle miniere d’affetti, dei poteri d’affettare senza eguali – la de-
finizione stessa della potenza in Spinoza. Così la combinazione dell’ana-
lisi, che spiega ma senza forza, e del potere di affettare delle opere d’arte,
che colpisce sì, ma l’immaginazione più che l’intelletto, dovrebbe essere
una cosa che non solo le scienze sociali non si proibiscono, ma che in-
vece pensino a mobilitare ogni volta che se ne presenti l’occasione. Alla
teoria della Regolazione3, che cerca di pensare il funzionamento delle
istituzioni e soprattutto le loro crisi, dovrebbe dunque essere permesso di

1 B. Spinoza, Ethica IV, pr. 14 (la tr. it. dell’Etica utilizzata è quella di E. Giancotti,
Editori Riuniti, Roma 1988).
2 Ibidem.
3 Cfr. R. Boyer, Théorie de la régulation. Une analyse critique, coll. «Agalma», La
Découverte, Paris 1986 e R. Boyer, Y. Saillard, Théorie de la régulation. L’état
des savoirs, 2ème édition, coll. «Recherches», La Découverte, Paris 2002.
122 Il transindividuale

far rientrare nel proprio corpus e nelle proprie fonti altro che il sistema
dei testi accademici e dei loro rinvii bibliografici, altro, come, per esem-
pio, quella scena della Corazzata Potëmkin in cui il plotone d’esecuzione
riunito sul ponte per fucilare degli ammutinati si paralizza all’ordine di
aprire il fuoco, momento di sospensione straordinario in cui il comando
non è come d’abitudine seguito dal suo effetto, in cui i fucili non sono
tenuti puntati ma oscillano ad immagine dell’anima dei fucilieri, in cui
l’ufficiale schiuma di rabbia per il fatto di non essere obbedito ed in cui
sorge d’improvviso una formidabile indeterminazione in cui tutto è in bi-
lico. È l’atto di rottura di uno dei marinai, spettatore disgustato della sce-
na, che catalizza l’oscillazione, e chiamando i suoi commilitoni a gettare
le loro armi, scatena la ribellione collettiva. Il corpo dei marinai riunito
si ribella contro l’iniquità degli ufficiali e, nel giro di qualche istante,
è niente di meno che l’autorità militare che crolla fragorosamente – la
morte di una istituzione.
Potremmo allora riunire sotto la denominazione di ‘sindrome Po-
tëmkin’ questi momenti al di fuori della normalità istituzionale in cui un
signore ordina e ‘non si obbedisce più’ – che il signore sia comandan-
te, padrone, professore, ma soprattutto più ampiamente qualsiasi forma
d’autorità istituita/istituzionalizzata. Vi è qui una situazione tipicamente
regolazionista, forse quella più tipicamente regolazionista, nella misura
in cui è interamente l’espressione del fondo del suo metodo, cioè l’eu-
ristica della crisi4 : cogliere in modo paradossale i meccanismi dell’or-
dine attraverso i momenti privilegiati della sua decomposizione. Ma vi
è qui del pari una questione propriamente foucaltiana, la questione della
governamentalità, a patto che la si intenda in modo sufficientemente lar-
go come la questione dell’efficacia delle norme. Entrare nella sindrome
Potëmkin, metterne in luce gli ingranaggi generali non è d’altra parte
solamente una questione foucoltiana in sé; per il suo contenuto è del pari
la maniera foucoltiana di porre la questione delle istituzioni, o, più pre-
cisamente, la questione del potere delle istituzioni, col porre non una
questione d’essenza – «che cos’è il potere?» – bensì una questione di
modalità di funzionamento: «come funziona il potere delle istituzioni?
Attraverso quali meccanismi funziona?».

4 Come è testimoniato dal titolo stesso di un’opera pubblicata recentemente sulla


moneta B. Théret (dir.), La monnaie dévoilée par ses crises, deux tomes, Editions
de l’EHESS, Paris 2007.
F. Lordon - L’imperio delle istituzioni 123

1. Istituzioni, norme, sovranità: sotto il principio della ‘potenza della


moltitudine’

Pur sembrando più ‘concrete’, le questioni che riguardano il funziona-


mento non sono tuttavia le più semplici. Il fatto è che si deve disporre di
concetti in grado di esprimere la realtà effettuale. Da questo punto di vista
rivolgersi ad una ontologia dell’attività e della potenza la cui vocazione
è di dire la produzione di effetti, non è la peggiore scelta possibile. E, in
effetti, la semplice enunciazione della sindrome Potëmkin è già ricca di
numerosi echi spinozisti. Poiché potremmo riformulare così la questione
delle istituzioni: 1) il conatus allo stato puro, quello che potremmo chia-
mare, se vogliamo, ‘conatus essenziale’5, è una forza desiderante generica
e intransitiva, ‘un desiderio senza oggetto’, come dice Laurent Bove6, la
forza motrice di ogni attività; 2) che cosa determina questo conatus es-
senziale ad attualizzarsi come desiderio specifico e ad orientarsi in una
tale o in tal altra direzione? – sono gli affetti7 ; 3) da dove vengono questi
affetti, che cosa ci affetta? Si tratta di affezioni prodotte da (cioè incontri
di) cose esterne; 4) di conseguenza, se le istituzioni, cose sociali esterne a
noi se mai ce ne sono, se le istituzioni dunque normano i nostri comporta-
menti, se esse ci fanno fare questo piuttosto che quello, per dirlo in termini
foucaultiani e ritrovare in questo modo la questione della governamenta-
lità, se esse guidano le nostre condotte, è perché hanno un certo potere di
affettarci, cioè di determinare i nostri conati a prendere una direzione e
non un’altra. In altri termini, significa che le istituzioni hanno una potenza
propria, dato che la potenza in Spinoza è precisamente questo: il potere di
affettare, il potere di una cosa di produrre effetti su una o più cose differen-
ti – effetti, cioè reazioni, re-direzioni del conatus delle cose affettate. Per
riassumere, se, nel momento in cui vivo in un certo rapporto istituzionale,
adotto una determinata condotta, è perché sono stato determinato a farlo,
dunque perché sono stato affettato, dunque perché ho subito l’effetto di
una certa potenza. Questa potenza è la potenza dell’istituzione. Ecco allora

5 F. Lordon, «Conatus et institutions. Pour un structuralisme énergétique», in L’An-


née de la Régulation, vol. 7, 2003, pp. 111-146.
6 L. Bove, «L’Ethique, partie III», in P. -F. Moreau et C. Ramond (dir.), Lectures de
Spinoza, Ellipses, Paris 2005, pp. 108-131.
7 Tutta la parte III dell’Etica e la prima metà della parte IV sono dedicate a produrre
concettualmente gli affetti elementari, a far funzionare la loro combinatoria ed a
mostrare ciò che segue da ciascuno di essi in termini d’orientamento del conatus
e di determinazione ad una tal o tal altra (re)azione.
124 Il transindividuale

il primo enunciato di una teoria spinozista delle istituzioni sociali: c’è una
potenza delle istituzioni.
Costitutivamente, l’istituzione affetta simultaneamente e identicamen-
te un gran numero di individui – tutti quelli che si trovano nell’ambito
della propria competenza. In altre parole essa produce un affetto comune
su grande scala. ‘Comune’ e ‘su grande scala’: sono le due caratteristiche
dell’affetto istituzionale. Se l’istituzione affetta su grande scala, è perché la
sua potenza è grande comparata alla potenza di uno solo. Certe istituzioni
hanno perfino il potere di affettare tutti (o quasi, e a regime): per esempio la
lingua, lo Stato, la moneta. Da questi enunciati di base segue una domanda
ovvia: questa potenza di cui dispongono le istituzioni, da dove viene loro?
La risposta spinoziana si trova nel Trattato politico ed è la seguente: la po-
tenza capace di affettare la moltitudine viene dalla moltitudine. Potremmo
prima di tutto vedervi intuitivamente un argomento di scala o, per dirla al
modo dei fisici, d’omogeneità degli ordini di grandezza8.
Vi è soprattutto nel fatto che solo la moltitudine possa affettare la molti-
tudine il tema centrale della filosofia politica di Spinoza, di fatto l’enuncia-
zione stessa della tesi fondamentale dell’immanenza. Che gli uomini, per il
fatto stesso della loro potenza, si affettino gli uni gli altri reciprocamente,
è vero su scala individuale o più esattamente interindividuale – gli uomini
si incontrano e si affettano, gioiosamente o tristemente, a seconda dei casi
–, ma è vero del pari su scala collettiva: gli uomini presi globalmente si
affettano essi stessi, la totalità degli uomini si auto-affetta. Si può dunque
dire che il mondo sociale è il campo delle affezioni reciproche degli uomini
– tra l’altro vi sarebbe con ciò una maniera di definire una scienza sociale
spinozista come scienza delle autoaffezioni del corpo sociale. Dicendo al-
lora che tutto ciò che capita agli uomini9 è fatto da altri uomini cogliamo

8 Certo, si potrebbe obiettare che vi sono situazioni nelle quali una causa molto
piccola produce un effetto molto grande – come il calcolo renale di Cromwell di
cui Pascal dice che ha salvato «la cristianità e la famiglia reale» (Pensées, 750, in
Id., Œuvres complètes, présentation et notes de L. Lafuma, coll. L’intégrale, Seuil,
Paris 2002, p. 597, tr. it. di A. Bausola, Rusconi, Milano 1993, p. 137). Ma questa
sproporzione manifesta di causa e effetto non può prodursi che nei punti critici,
quelli di cui la teoria delle catastrofi dice che sono le singolarità della struttura e di
cui essa mostra che vi si esprime tutta la struttura (R. Thom, Modelli matematici
della morfogenesi, tr. it. di S. Costantini, Einaudi, Torino 1985) – la proporzione
è così ristabilita grazie a questo argomento.
9 O, diciamo, la parte maggiore di ciò che capita agli uomini, poiché vi sono anche
delle affezioni che provengono loro da cose esteriori non sociali: eventi climatici
o naturali (benché questi producano raramente i loro effetti senza passare attraver-
so o senza combinarsi con qualche mediazione sociale).
F. Lordon - L’imperio delle istituzioni 125

questa caratteristica centrale della filosofia di Spinoza: si tratta di una fi-


losofia dell’immanenza. L’immanenza qui significa che nulla accade agli
uomini che non sia in ultima analisi l’effetto della potenza degli uomini.
Più precisamente, tutto ciò che accade al corpo sociale e nel corpo sociale
deriva, in ultima analisi, da una certa composizione della potenza dei suoi
membri. Questa composizione prende in Spinoza il nome di potenza della
moltitudine. Così, del Trattato politico, opera prima di tutto pensata come
di dominio della sola filosofia politica, come attestato prima facie dai suoi
stessi oggetti – il passaggio dallo stato di natura allo stato civile, lo Stato
e le forme di governo – , è possibile, in ogni caso questo è qui un partito
preso, fare una lettura assai più ampia, rivelando così tutta la forza di un
testo il cui potere di rendere intelligibile va ben al di là dei soli fenomeni
che prende esplicitamente in considerazione, e la cui potenza concettuale
si offre alla chiarificazione di campi a cui non si avrebbe pensato a tutta
prima. Così il Trattato politico può essere letto non solo come una filosofia
della genesi e della struttura della Città nel senso stretto del termine, ma
come la matrice di una teoria generale delle istituzioni sociali10. Per essere
più precisi: da questa lettura del Trattato politico deriva la tesi secondo
cui la ‘potenza della moltitudine’ costituisce il principio fondamentale di
tutti i fatti d’istituzione, di tutti i fatti di norma, di sovranità, d’autorità e
di valore. È dunque nei termini di potenza degli individui, di potenza della
moltitudine e di potenza delle istituzioni, e del rapporto tra queste potenze,
che si tratterà di rendere conto dell’ordine istituzionale e delle sue crisi –
altrimenti detto della sindrome Potëmkin.

2. Potenza e auto-affezione della moltitudine

Ma che cos’è la potenza della moltitudine e come si forma? Per il fatto


stesso dell’immanenza essa non può essere altro che una certa composizio-
ne di potenze individuali o, per dire la stessa cosa nel lessico duale della
vita passionale, l’affetto comune si forma attraverso la composizione di
affetti individuali. Qual è allora il meccanismo di questa composizione?
La questione è così spinosa che vi si deve per prima cosa rispondere pren-

10 Per una prima esposizione di questa tesi di lettura cfr. F. Lordon, «La légitimité
n’existe pas. Eléments pour une théorie des institutions», in Cahiers d’Economie
Politique, 53, 2007, pp. 135-164, e Id., «Derrière la légitimité, la puissance de la
multitude. Le Traité politique comme théorie générale des institutions sociales»,
in C. Jaquet, P. Sévérac et A. Suhamy (dir.) La Multitude libre. Nouvelles lectures
du Traité politique, Edition Amsterdam, Paris 2008, pp. 105-129.
126 Il transindividuale

dendo avvio dalla situazione più semplice e pura possibile, a rischio che
sia fittizia, ma di una forma di finzione ammissibile sia perché lascia vede-
re i meccanismi più fondamentali e sia perché è oltrepassabile servendosi
di una procedura costruttiva che permetta, per complicazioni crescenti, di
raggiungere progressivamente dei gradi più soddisfacenti di realismo. Ora,
la situazione più semplice, quella che, conformemente al metodo abituale
della filosofia politica classica, Spinoza considera nel Trattato politico, è
quella dello stato di natura. Seguendo Alexandre Matheron lo stato di natu-
ra può essere definito come uno stato pre-istituzionale, in qualche modo la
fase informe della moltitudine. In questa scena primitiva gli individui non
sono formalmente obbligati da nulla. Tuttavia le loro possibilità d’azione
sono limitate dai rapporti di forza che caratterizzano ciascuno dei loro in-
contri accidentali. Non c’è bisogno di dire che questo stato di natura in cui
regnano le affermazioni di potenza (conatus) senz’altra regolamentazione
al di fuori dei rapporti di forza locali è uno stato di grande violenza e di
grande instabilità. Ogni individuo non fa in esso null’altro che affermare il
suo proprio desiderio di espansione e la concezione del bene che è legata
ad esso – dato che il bene per ciascuno non è altro che ciò che a lui pare
buono11. I conflitti che nascono inevitabilmente dallo scontro reciproco di
queste asserzioni eterogenee mettono in moto dinamiche collettive di po-
sizionamento e di alleanza, governate da quel meccanismo che Spinoza
considera tra i più importanti della vita passionale, cioè l’emulazione degli
affetti12. Allo scoppiare di un conflitto gli individui collaterali prendono
partito secondo un principio di imitazione per similitudine. Questa dina-
mica che unisce riunioni mimetiche degli uni e competizioni di potenze
degli altri produce, attraverso tappe successive, la formazioni di coalizioni
sempre più grandi e sempre meno numerose, fino al punto in cui il gruppo
non si sia interamente congiunto e si ritrovi unito attorno ad una medesi-
ma concezione del bene e del male: tutti ormai approvano e disapprovano
le stesse cose, rispettivamente dichiarate lecite e illecite, il cui rispetto o
sanzione sono con ciò rimessi alla sorveglianza del gruppo così costituito-
si, ben presto dotato di strumenti coercitivi capaci di rendere queste (sue)
norme esecutive. La convergenza mimetico-agonistica funziona così come

11 «Chiamiamo bene o male ciò che giova o è d’ostacolo alla conservazione del
nostro essere» scrive Spinoza in Ethica IV, pr. 8, dem., «in quanto percepiamo che
una certa cosa produca in noi un affetto di gioia o di tristezza, la chiamiamo buona
o cattiva».
12 « Se immaginiamo che una cosa a noi simile, e verso la quale non abbiamo nutrito
nessun affetto, è affetta da un qualche affetto, per ciò stesso veniamo affetti da un
affetto simile» (B. Spinoza, Ethica III, pr. 27).
F. Lordon - L’imperio delle istituzioni 127

un potente riduttore dell’eterogeneità iniziale degli affetti poiché tutti ora


pensano, sentono e giudicano in modo identico sul bene e sul male e sulle
condotte da tenere di conseguenza.
Sarebbe del tutto inutile opporre a questo schema la sua assoluta man-
canza di realismo o il carattere immaginario della sua antropologia im-
plicita, così come obiettare che non si è mai visto nella storia uno Stato
costituirsi così. Più che inutile l’obiezione sarebbe in effetti banale salvo
nel caso in cui lo schema in questione fosse dato come modello di una
genesi storica reale. Evidentemente non lo è in alcun modo. In primo luo-
go perché l’esercizio della ricerca delle origini storiche dello Stato, o di
una qualsiasi altra istituzione fondamentale, è una chimera assolutamente
vana – da questo punto di vista l’avvertenza formulata da Durkheim è
definitiva:

Se, per origine, si intende un primo cominciamento assoluto, il problema


non ha nulla di scientifico e deve essere senz’altro scartato. Non c’è un istante
radicale in cui la religione abbia cominciato a esistere e non si tratta di trovare
un espediente che ci permetta di ritornarci con il pensiero. Come ogni istituzio-
ne umana, la religione non comincia in nessun momento. Tutte le speculazioni
di questo genere sono giustamente screditate13.

Poi perché Alexandre Matheron, da cui la struttura generale di questo


schema è ripresa14, insiste pesantemente su questo punto, è vero dei più
delicati e soggetto ad ogni forma di fraintendimento.
Questo modello, precisa, risponde ad una logica molto particolare che
potremmo qualificare come ‘metodo delle genesi concettuali’15 – in op-
posizione alla genesi storica. Per genesi concettuale si deve intendere un
esperimento mentale che parte deliberatamente da situazioni iniziali fitti-
zie e costruite ad hoc in funzione di una determinata finalità concettuale.
Queste situazioni, possiamo chiamarle ‘stati di natura’ se si vuole, anche
se al prezzo del rischio di indurre delle confusioni tra genesi concettuale e

13 E. Durkheim, Les Formes élémentaires de la vie religieuse, Quadrige PUF, Paris


1990, pp. 10-11, tr. it. di C. Cividali, Meltemi, Roma 2005, pp. 57-58.
14 A. Matheron, Individu et communauté chez Spinoza, Editions de Minuit, Pa-
ris 1988. La presentazione che se ne fa qui differisce leggermente da quella di
Matheron.
15 L’appellativo ‘genesi concettuale’ tuttavia viene da F. Lordon, A. Orléan,
«Genèse de l’Etat et genèse de la monnaie: le modèle de la potentia multitudi-
nis», in Y. Citton, F. Lordon (dir.), Spinoza et les sciences sociales. De la puis-
sance de la multitude à l’économie des affects, Editions Amsterdam, Paris 2008,
pp. 132-134.
128 Il transindividuale

genesi storica. Per questa ragione sarebbe probabilmente più adeguato par-
lare di ‘stati di natura qualificati’ allo scopo di sottolineare il carattere in-
tenzionalmente artificiale della loro costruzione, giustificato dalla specifica
finalità di isolare, per così dire, ‘nel laboratorio mentale’ dei meccanismi
elementari che nondimeno sono in funzione nelle realtà effettuali storiche
prese in considerazione. Scartando tutte le letture antropologico-storiche
realiste della genesi concettuale, Adré Orlean ci offre il vero senso ‘del-
lo stato di natura qualificato’ affermando che consiste nella ‘realtà meno
l’istituzione che si desidera generare’. Il metodo di Matheron è decisamen-
te molto vicino a quello di Durkheim, che precisa la natura del suo proprio
esercizio in questi termini:

Ben diverso [da un’impossibile ricerca delle origini] è il problema che ci


poniamo. Quel che noi vorremmo trovare, è un modo per determinare le cause,
sempre presenti, da cui dipendono le forme essenziali del pensiero e della pra-
tica religiosa. Orbene, per motivi che abbiamo esposto, queste cause sono tanto
più facilmente osservabili quanto meno complicate sono le società in cui si può
osservarle. Ecco perché cerchiamo di avvicinarci alle origini16.

L’esercizio della genesi concettuale è sufficientemente inabituale e scon-


certante da richiedere questo commentario metodologico minimale, il cui
adempimento permette forse di meglio sottolineare ciò che l’esercizio fa
emergere di più essenziale, cioè, nel caso presente, la composizione degli
affetti individuali in un affetto comune. Che questa composizione sia qui
mimetica è proprio solo della stato di natura qualificato considerato, cioè
del più basso grado di complessità della situazione iniziale pre-composi-
zione, e in alcun caso si dovrebbe fare di questa modalità mimetica ‘pura’
una proprietà essenziale o esclusiva della produzione di tutti gli affetti
comuni. Ad un durkheimiano di stretta osservanza che ricuserebbe perfino
il termine imitazione17, persino in questo stato di natura elementare, si po-
trebbe proporre il termine sostitutivo, del resto più conforme alla lettera del
testo di Spinoza, di emulazione degli affetti. Ma l’essenziale è comunque
lo stesso: la messa in contatto degli individui produce, per propagazione

16 E. Durkheim, Les Formes élémentaires de la vie religieuse, cit., p. 11, tr. it. cit., p.
11 (corsivo mio).
17 Cfr. a questo proposito la discussione sull’imitazione in E. Durkheim, Le Sui-
cide, Quadrige PUF, Paris 1985, pp. 108-115, tr. it. di M.J. Tosi, UTET, Torino
1977, pp. 155-180. Cfr. anche B. Karsenti, «L’imitation. Retour sur le débat entre
Durkheim et Tarde», capitolo 8 di Id., La société en personnes, coll. «Etudes
sociologiques», Economica, Paris 2006, pp. 162-182.
F. Lordon - L’imperio delle istituzioni 129

e risonanza affettiva18, dei nuovi ‘stati di coscienza’ (Durkheim) qualitati-


vamente distinti dagli stati individuali ‘isolati’ e propri alla formazione di
una collettività:

Nelle menti vengono a formarsi delle immagini esprimenti […] le varie ma-
nifestazioni emanate dai vari punti della folla. Una volta risvegliate nella mia
coscienza, queste varie rappresentazioni giungono a combinarsi tra loro con
quella che costituisce il mio proprio sentimento. In questo modo si forma un
nuovo stato che non è più mio al medesimo grado del precedente […]. Più stati
di coscienza simili si richiamano gli uni gli altri in virtù della loro somiglianza,
poi si fondono e si confondono in una risultante che li assorbe e ne differisce.
[…] è lo stato collettivo19.

Se si ritrascrive il lessico degli ‘stati di coscienza’ in quello degli affetti,


a cui del resto Durkheim si arrende spontaneamente quando evoca il «pro-
cesso in virtù del quale, in seno ad una riunione di uomini, un sentimento
collettivo si elabora, quello da cui risulta la nostra adesione alle regole
comuni»20, la corrispondenza con il modello spinozista di Alexandre Ma-
theron risulterà sorprendente. Ed è proprio di questo che si tratta: della
produzione di una certa maniera di «sentire comune»21.
L’affetto comune così formato ha la proprietà di essere allo stesso
tempo costituito e costituente. Costituito per il fatto stesso della com-
posizione, e d’altra parte come una potenza estranea al gruppo che l’ha
tuttavia generato e che finisce per sovrastare benché il gruppo stesso ne
sia l’origine immanente. Facendo ciò, l’affetto comune ha anche per ef-
fetto di costituire letteralmente la moltitudine sparsa dell’inizio in grup-
po, e di fargli produrre comunità. Così nel suo stesso potere costituente
l’affetto comune appare come un produttore di comunità [opérateur de
communauté], efficace non solamente nell’ordine politico in cui Spinoza
gli dà la sua prima illustrazione, ma più ampiamente in tutti i registri del
comunitario che si offrono alla declinazione nei modi specifici della ge-

18 Su questo tema della risonanza affettiva cfr. Y. Citton, L’envers de la liberté. L’in-
vention d’un imaginaire spinoziste dans la France des Lumières, coll. «Caute!»,
Editions Amsterdam, Paris 2006 e Id., «Esquisse d’une économie politique des
affects », in Y. Citton et F. Lordon (dir.), Spinoza et les sciences sociales. De la
puissance de la multitude à l’économie des affects, cit., pp. 45-123.
19 E. Durkheim , Le Suicide, cit., pp. 110-111, tr. it. cit., pp. 158-159.
20 Ivi, p. 114-115, tr. it. cit., p. 252 (corsivo mio).
21 Ibidem (corsivo mio).
130 Il transindividuale

neralità del ‘sentire comune’ – religioso, morale, monetario22, estetico23


ecc. E questo è proprio il senso dell’articolo 1 del capitolo VI del Trattato
politico:

Se una moltitudine si accorda naturalmente e vuole essere condotta come


da una sola mente, non è per la guida della ragione, bensì a partire da qualche
affetto comune24.

Lasciato alla sua indeterminazione il ‘qualche’ affetto comune non pre-


giudica in alcun modo la sua natura particolare e se funziona qui nella
formazione della Città, nulla s’oppone a che se ne osservi l’effetto in altri
ordini di comunità. Il punto importante è proprio questo: il corpo socia-
le produce comunità quando si auto-affetta attraverso un affetto comune.
Questa produzione immanente d’un effetto di trascendenza, cioè di questa
situazione in cui delle potenze e degli affetti venuti dagli uomini si com-
pongono in una potenza che si eleva al di sopra di loro e che ricade su di
loro per affettarli con un affetto comune, dunque questa dinamica ascen-
dente/discendente degli affetti individuali e collettivi forma ciò che si può
chiamare un’auto-affezione immediata della moltitudine – immediata per-
ché la moltitudine si auto-affetta senza intermediario. In un modello molto
semplificato concepito secondo la situazione iniziale dello stato di natura,
la genesi dei costumi, per esempio, risulta tipicamente dall’auto-affezione
immediata, dallo stabilizzarsi di norme collettive sul bene e sul male ad-
dossate ad affetti comuni che si impongono in una modalità a-centrica e
diffusa, in assenza di ogni polo costituito di rafforzamento.

3. Catture e auto-affezioni mediate

La moltitudine non conosce che delle auto-affezioni immediate? Evi-


dentemente no. Poiché il destino più probabile della potentia multitudinis è
di essere fatto oggetto di catture. La cattura non è necessariamente volon-
taria se per esempio la potenza della moltitudine si investe in un individuo

22 Per un’applicazione dello schema dell’affetto comune alla produzione della co-
munità monetaria cfr F. Lordon, A. Orlean, «Genèse de l’Etat et genèse de la
monnaie: le modèle de la potentia multitudinis», cit.
23 Cfr. F. Lordon, «Les multitudes de l’art», in X. Douroux (dir.), Les Nouveaux
commanditaires, Les Presses du réel, Paris (in corso di pubblicazione).
24 B. Spinoza, Trattato politico, VI, 1 (la tr. it. utilizzata è quella di P. Cristofolini,
ETS, Pisa 1999).
F. Lordon - L’imperio delle istituzioni 131

che non l’ha deliberatamente ricercata. Ne risulta tuttavia per questi uno
straordinario accrescimento di potenza che Durkheim, parlando dell’orato-
re che si rivolge ad una folla, descrive così:

Questo eccezionale aumento di forze è assolutamente reale: gli viene dal


gruppo stesso al quale si rivolge. I sentimenti che egli provoca con la sua pa-
rola ritornano a lui, ma ingranditi, ampliati, e rafforzano egualmente i suoi
sentimenti. Le energie passionali che egli solleva risuonano in lui e elevano il
suo tono vitale. Non è più un individuo che parla, ma un gruppo incarnato e
personificato25.

Dovremmo fare parola per parola l’analisi di questa citazione in cui si


concentrano forse meglio di ogni altro passaggio della sua opera gli ele-
menti di uno spinozismo di Durkheim che, così manifesto, non può essere
certo casuale26. Ciò che è più evidente risiede probabilmente nell’evocazio-
ne delle ‘energie passionali’ della coppia conatus-affetti, in cui gli affetti
(passioni) si trovano definiti da Spinoza come «le affezioni del corpo con
le quali la potenza di agire dello stesso corpo è aumentata o diminuita,
favorita o ostacolata»27, cioè come variazioni di intensità del conatus. Ma
tutto in questa citazione, di un perfetto spinozismo applicato, ci indica la
direzione della potenza della moltitudine, di cui non mancava che la paro-
la: l’immanenza («l’aumento di forze gli viene dal gruppo stesso»); la di-
namica degli affetti collettivi («Le energie passionali che egli solleva»); la
loro composizione attraverso un circuito ricorsivo risonante («I sentimenti
che egli provoca […] ritornano a lui, ma ingranditi, ampliati, e rafforzano
egualmente i suoi sentimenti»); l’effetto «assolutamente reale» che questo
affetto produce composto con quello che lo investe – e di cui si trova ad
essere, di fatto, il catturatore – effetto in termini di «aumento di forze», di
«elevamento del suo tono vitale », cioè di aumento della sua potenza di
agire.
Il punto importante qui tuttavia riguarda il fatto che questa volta la poten-
za della moltitudine, una volta composta, ricade sugli uomini, ma passan-
do per un intermediario, che ne è in qualche modo il ‘concentratore’ [con-
centrateur]. Questa intermediazione però cambia tutto. Poiché gli uomini
hanno ora l’impressione che la potenza superiore che li affetta tutti abbia
come origine questo stesso intermediario, che ne sia la fonte – mentre non

25 E. Durkheim, Les Formes élémentaires de la vie religieuse, cit., p. 301, tr. it. cit.,
p. 268.
26 Cfr. F. Lordon, «Le spinozisme de Durkheim», document CSE, 2009.
27 B. Spinoza, Ethica III, def. 3.
132 Il transindividuale

è che il punto d’investimento, e in seguito il punto di transito, della poten-


tia multitudinis. Questa illusione è costitutiva di ciò che possiamo chiamare
rigorosamente il potere, con una distinzione concettuale fondamentale della
filosofia politica spinozista che separa la potenza e il potere, la potentia e la
potestas, la cui differenza è stata sottolineata con forza dai commentari di
Alexandre Matheron28 e di Antonio Negri29: il potere è la cattura attraverso
un intermediario, uomo o istituzione, della potenza della moltitudine – ed
è dunque l’ingresso della moltitudine nel regime di auto-affezioni mediate.
Ecco allora la tesi spinozista dell’immanenza in politica: il potere è sempre
a prestito. Il potere non è che la cattura temporanea di una potenza che in
ultima analisi è quella della moltitudine. Una volta di più Durkheim vede
perfettamente questo carattere di prestito del potere, qui potere simbolico-
carismatico dell’oratore, ma la cosa è in effetti di una perfetta generalità:

L’uomo che parla alla folla […] sente in sé come una pletora anormale di
forze che lo sovrastano e che tendono a diffondersi fuori di lui; egli ha talvolta
perfino l’impressione di essere dominato da una potenza morale che lo trascen-
de e di cui è solamente l’interprete30.

Ma, che cos’è questa ‘potenza morale’ di cui non è che il ricettacolo se
non la potenza della moltitudine, e non si potrebbe forse meglio dire che il
potere in apparenza detenuto dall’uomo di potere non è che l’effetto di una
potenza che non è la sua e che gli viene da un investimento della sua per-
sona di cui l’origine gli rimane esteriore? Pascal avverte di questo i grandi
che potrebbero essere tentati di dimenticare la vera origine – estrinseca –
della loro grandezza:

Per giungere alla conoscenza verace della vostra condizione – scrive al fi-


glio del duca di Luynes –, miratela in questa immagine: un uomo fu sbattuto
dalla tempesta in un’isola sconosciuta, i cui abitanti stavano cercando affanno-
samente il loro re, che avevano perduto: e poiché quest’uomo somigliava nel
corpo e nel viso a quel re, fu scambiato per lui e riconosciuto per tale da tutto
il popolo. Dapprima egli non sapeva che fare; ma alla fine decise di accettare

28 A. Matheron, Individu et communauté chez Spinoza, cit.


29 A. Negri, L’anomalia selvaggia. Saggio su potere e potenza in Baruch Spinoza,
Feltrinelli, Milano 1982.
30 E. Durkheim, Les Formes élémentaires de la vie religieuse, Quadrige PUF, Paris
1990, p. 300, tr. it. cit., p. 268.
F. Lordon - L’imperio delle istituzioni 133

la sua buona sorte. Accolse tutti gli onori che gli vollero rendere e si lasciò
trattare da re31.

Certo, non tutte le sovranità sono fortuite e certi uomini avranno una
viva coscienza della forza immensa trasportata dalla potentia multitudinis
e dell’incommensurabile surplus di potenza che essi potranno aggiungere
alla loro potenza individuale propria. Essi, uomini di potere nel senso pieno
del termine, cioè imprenditori della cattura, cercheranno deliberatamente di
porsi nella corrente della potentia multitudinis, di farsi investire da essa, di
farla passare attraverso di loro, per mobilitarne ai propri fini tutti gli effetti.
E probabilmente pensando a questi specialisti della cattura intenzionale
[praticiens délibérés de la capture], non sorpresi dall’investimento della
loro persona attraverso l’affetto comune, ma tutti indaffarati ad ottenerlo,
che Matheron chiarisce la distinzione concettuale tra potenza e potere, di
cui fornisce una formulazione lapidaria: «Il potere politico è la confisca
operata dai governanti della potenza collettiva dei loro sudditi»32. Il potere
è la cattura di una potenza che, in ultima analisi, è quella della moltitudine.
Spinoza lo dice alla sua maniera, ma è forse uno degli enunciati centrali
del Trattato politico:

Questo diritto che è definito dalla potenza di una moltitudine si chiama in


genere sovranità (imperium)33.

Il sovrano incarna la legge perché su di lui si è cristallizzato l’affet-


to comune politico, perché egli si è trovato investito dall’affetto comune
che, produttore di comunità [opérateur de communauté], ha fatto passare la
moltitudine allo stato di corpo, ma corpo strutturato dalla verticalità di un
potere le cui stesse condizioni d’instaurazione hanno come effetto di spo-
stare nell’immaginazione collettiva il luogo dell’origine – e la moltitudine
che crede ora che la sovranità abbia come fonte stessa il sovrano ormai
istallato in una posizione dominante, che questa sia la proprietà intrinseca
di quello, la moltitudine dunque perde di vista qual è l’origine immanente
di tutto ciò che le accade, non riconosce più le sue proprie produzioni ed
entra definitivamente nel regime alienato delle auto-affezioni mediate.

31 B. Pascal, «Premier discours», Trois discours sur la condition des grands, in Id.,
Œuvres complètes, coll. L’intégrale, Seuil, Paris 2002, p. 366, tr. it. a cura di G.
Preti, in Id., Opuscoli e scritti vari, Laterza, Bari 1959, p. 108.
32 A. Matheron, Individu et communauté chez Spinoza, cit., passim.
33 B. Spinoza, Trattato politico, II, 17.
134 Il transindividuale

Questo effetto apparentemente paradossale di trascendenza imma-


nente è di fatto d’una estrema generalità poiché, allo stesso modo che
l’imperium propriamente politico, il potere di valere come carismatico,
il potere di valere come bene, come bello o come caro, è l’investimen-
to della nostra potenza collettiva che, con la produzione concreta degli
affetti comuni, la presta rispettivamente a degli uomini, a delle idee o a
delle cose. Lo stesso principio fondamentale della potentia multitudinis
è di conseguenza individuabile in tutti i campi del ‘valore’, dell’‘imporsi
socialmente’ e del ‘fare autorità’. È per questo che dal momento in cui si
accetta di considerarli al livello d’astrazione adeguata, possiamo consi-
derare come sinonimi questi concetti di sovranità, di valore, d’autorità o
di norma. Non è inutile per illustrare la forza di questa sinonimia soffer-
marsi sul concetto di sovranità di cui Michel Aglietta e André Orlean34
avevano intuitivamente percepito la generalità ben al di là del solo campo
politico, e di cui hanno realizzato un’estensione d’un grande spinozismo,
probabilmente involontario all’epoca, parlando di moneta sovrana. Poi-
ché certamente, a dispetto delle numerose insensatezze attribuite a questa
proposta concettuale da lettori troppo frettolosi, la sovranità della moneta
non ha nulla a che vedere qui con la sovranità della politica monetaria,
interpretazione che restando fissata alla forma strettamente politica del
concetto, non vede che per ‘moneta sovrana’ si deve intendere la moneta
in quanto essa produce autorità, in quanto essa si impone socialmente.
Sulla base spinozista dell’imperium concepito come «diritto che defini-
sce la potenza della moltitudine» – ed è forse utile ricordare qui che il
‘diritto’ non è in Spinoza un concetto giuridico, ma designa una capacità,
l’estensione di una potenza –, ciò che Michel Aglietta e André Orlean
hanno fatto per la moneta, deve essere esteso a tutte le entità istituzio-
nali: una teoria spinozista delle istituzioni è una teoria delle istituzioni
sovrane. Di individui che vivono sotto la norma di una istituzione e sotto
il suo imperio, si può dunque dire in modo non metaforico, che ne sono i
sudditi. E si può allora riassumere in qualche enunciato questo abbozzo
di una teoria spinozista delle istituzioni:

1. Gli uomini vivono spontaneamente secondo la loro inclinazione (ex suo


ingenio, secondo la loro complessione; Trattato politico, III, 3). È questa
l’espressione del loro diritto naturale che non è altro che la loro potenza

34 M. Aglietta, A. Orlean (sous la dir. de), La monnaie souveraine, Odile Jacob, Paris
1998.
F. Lordon - L’imperio delle istituzioni 135

(conatus) («il diritto naturale […] di ciascun individuo coincide con la


sua potenza»; Trattato politico, II, 4).
2. Che cosa determina le potenze dei diritti naturali ad andare in questa o
in quella direzione ? Sono gli affetti.
3. Come allora stabilire un ordine collettivo che regolarizza le condotte
anarchiche che derivano dalle influenze di ingenia (complessioni) ex
ante non coordinati? Facendo provare a tutti affetti omogeneizzati, che
orientano in modo simile i conati, cioè degli affetti comuni. Questo è il
lavoro delle istituzioni.
4. Di conseguenza l’istituzione non è sovrana ed è in grado di normare gli
individui facendone i (suoi) sudditi solo se, in ciascuno di essi, l’affetto
comune istituzionale ha la meglio sugli altri affetti portatori di tendenze
centrifughe.

4. La vita passionale nei rapporti istituzionali

Ma di che cosa, in dettaglio, è fatto l’affetto istituzionale e che cosa


l’istituzione trova esattamente da opporre agli affetti tristi della rinuncia
a vivere a propria guisa? Dato che deve, incessantamente, contrastare in
ciascuno dei suoi sudditi le tendenze centrifughe a vivere sui juris, secondo
il proprio diritto (naturale), l’istituzione mobilita tutto lo spettro d’affetti
di cui il suo ‘spessore’ la rende capace. Infatti, è possibile distinguere più
strati dell’istituzione, a cominciare dal più superficiale che è quello delle
interazioni istituzionali propriamente dette. Per ‘interazione istituzionale’
si deve intendere la fenomenologia della vita nelle istituzioni, l’apparire
immediato e concreto della vita sotto le norme istituzionali. Vi si osserva
un impiegato che interagisce con il suo datore di lavoro, un soldato che
interagisce con il suo superiore, un allievo con il suo professore, un fedele
con il suo parroco ecc. – si dovrebbe evidentemente mettere tutti i sudditi
al plurale: degli impiegati, dei soldati ecc. Queste interazioni tuttavia non
formano che lo strato superficiale dell’istituzione in quanto tutte queste
interazioni di una stessa classe non sono che le espressioni, o per meglio
dire le effettuazioni d’uno stesso rapporto sociale35. Tutte le interazioni im-

35 Si ritroverà in questa articolazione tra i rapporti e le interazioni che li rendono


effettivi un tema che ha la medesima forma di quello delle strutture e delle istitu-
zioni che le realizzano storicamente così come era stato sviluppato in F. Lordon,
«Conatus et institutions. Pour un structuralisme énergétique», Annexe: «Struc-
tures et institutions: esquisse d’une clarification conceptuelle», in L’Année de la
Régulation, 7, 2003, pp. 111-146.
136 Il transindividuale

piegati/datori di lavoro sono le effettuazioni del rapporto salariale, tutte le


interazioni allievi/professori sono le effettuazioni del rapporto di magiste-
ro, fedeli/ parroci del rapporto pastorale, soldati/ufficiali del rapporto mi-
litare ecc. Cogliere un’istituzione significa dunque prima di tutto cogliere
il rapporto sociale ch’essa esprime – e di cui possiamo dire che costituisce
la sua ‘profondità’.

5. Rapporti sociali e interazioni istituzionali

È dunque un affetto comune sintetico, che esprime i differenti strati


dell’istituzione, a determinare gli individui a vivere sotto la sua norma.
Così per esempio la vita produttiva sotto la norma del lavoro dipendente il
cui affetto comune specifico sostiene tutti gli elementi – la separazione dei
lavoratori dai mezzi di produzione, la loro separazione dai prodotti della
produzione, la loro soggettivazione come liberi portatori di forza lavoro, il
loro assoggettamento al diritto del lavoro, in particolare alle sue due dispo-
sizioni centrali – è specialmente caratteristica della norma di vita salariale,
cioè l’obbedienza, sotto il principio della subordinazione gerarchica e della
revocabilità unilaterale36. Ed è questo affetto comune sintetico, in cui la
norma salariale trova concretamente la sua efficacia, che dà tutto il potere
alle due parole padronali per eccellenza che sono «io Le ordino» e «Lei è
licenziato», parole la cui forza evidentemente non risiede in loro stesse, né
soprattutto nelle proprietà intrinseche dell’individuo che le pronuncia. Non
è esattamente lì il problema dell’imperio delle istituzioni? Da dove viene
il supplemento di potenza che dota queste parole del potere speciale di
affettare, cioè di piegare effettivamente gli individui – all’obbedienza nei
luoghi o all’evacuazione dei luoghi? Bourdieu37 aveva visto perfettamen-
te, dopo Austin38, che la performatività non trova la sua origine né nella
proprietà illocutoria delle parole né nelle caratteristiche sostanziali degli
individui che le pronunciano – ma che essa viene sempre dall’esterno. Ma
in cosa consiste esattamente questa azione dall’‘esterno’? Con Spinoza si
può dire che si tratta della potenza delle istituzioni, cioè per definizione, del
loro potere di affettarci, in altri termini il loro potere di farci qualcosa, e in

36 Non tenendo conto delle regole particolari che disciplinano il diritto di


licenziamento.
37 P. Bourdieu, Ce que parler veut dire. L’économie des échanges linguistiques,
Fayard, Paris 1992.
38 J.L. Austin, Come fare cose con le parole, tr. it. a cura di C. Penco e M. Sbisà,
Marietti, Genova 1997.
F. Lordon - L’imperio delle istituzioni 137

seguito di farci fare qualcosa, la potenza delle istituzioni intesa come una
certa cattura della potenza della moltitudine.
Dire che a immagine del rapporto salariale l’affetto comune esprime
l’istituzione nel suo strato più ‘profondo’, cioè il rapporto sociale che essa
effettua, non deve far perdere di vista gli effetti specifici del suo strato
superficiale, poiché questa effettuazione non è neutra o indifferente. Così,
oltre alla potenza normante del rapporto che essa effettua, l’interazione
istituzionale locale aggiunge il suo supplemento di determinazione affetti-
va idiosincratica. Quando sono di fronte ad un datore di lavoro o ad un uf-
ficiale, sono di fronte ad un rapporto sociale, ma ad un rapporto sociale in-
carnato, per così dire ad un rapporto sociale in persona, cioè: sono di fronte
a questo datore di lavoro o a questo ufficiale, qui e ora, e questo mi affetta
in modo supplementare e specifico. Poiché questo datore di lavoro in se
stesso aggiunge un surplus di determinazione affettiva, gioiosa o triste, e
fa giocare e fa funzionare il meccanismo reattivo del conatus in un senso o
in un altro. Per questa ragione per tutte le istituzioni è meglio ‘governare’
o se si vuole: ʻregnareʼ attraverso gli affetti gioiosi piuttosto che attraverso
gli affetti tristi, in virtù dell’amore piuttosto che in virtù dell’odio. Chi
regna attraverso la paura deve vincere i desideri reattivi d’affrancamento
necessariamente indotti dagli affetti tristi – «quanto maggiore è la tristezza,
con tanto maggiore potenza di agire l’uomo si sforzerà di allontanare la
tristezza»39. La paura istituzionale induce da se stessa il desiderio di sba-
razzarsi dell’istituzione o almeno di sottrarsi alla norma, laddove l’amore
istituzionale induce un desiderio di farla durare. Perché è dunque meglio
regnare in virtù dell’amore piuttosto che dell’odio? Molto semplicemente
perché i bilanci affettivi netti sono ben più favorevoli all’imperium istitu-
zionale. Come ha sottolineato Charles Ramond40, vi è un quantitativismo
della potenza e delle intensità affettive in Spinoza, la cui formula è for-
nita in Etica IV, pr. 7: «un affetto non può essere né ostacolato, né essere
tolto se non per mezzo di un affetto contrario e più forte dell’affetto da
reprimere»41, enunciazione-tipo di un’algebra degli affetti di cui si ritrove-
rà la traccia nelle proposizione 9-18 della parte quarta dell’Etica, nella sua
determinazione delle risultanti dell’affetto sintetico istituzionale.

39 B. Spinoza, Ethica III, pr. 37, dem.


40 C. Ramond, Qualité et quantité dans la philosophie de Spinoza, coll. «Philoso-
phies d’aujourd’hui», PUF, Paris 1995.
41 B. Spinoza, Ethica IV, pr. 7.
138 Il transindividuale

6. L’istituzione prodotta ad ogni istante

Questo affetto sintetico netto, del quale possiamo prendere a prestito il


nome da Spinoza stesso, l’obsequium, letteralmente parlando l’inclinazione
a seguire, seguire le direttive di condotta della norma, è ciò per cui l’istituzio-
ne si mantiene nella sovranità. Perché l’istituzione perseveri nell’esistenza
deve ad ogni istante adempiere alla condizione, eminentemente quantitativa,
enunciata da Spinoza nella lettera 50 a Jelles: «non concedo in qualunque
città diritto al sovrano sui sudditi se non nella misura in cui per potenza
li supera»42, enunciazione di cui non si mancherà di rilevare, ridiciamolo,
le notazioni algebriche – «supera», «nella misura», qui da intendere molto
letteralmente nel senso della misura metrica –, e di cui potremmo fornire la
riformulazione seguente per far meglio funzionare la trasposizione effettuata
dal registro originale della cosa politica stricto sensu al registro della cosa
istituzionale lato sensu: «non concedo in qualunque istituzione imperio ef-
fettivo, sovranità, autorità effettiva sui suoi sudditi se non nella misura in cui
il suo potere di affettarli supera il loro desiderio di vivere a propria guisa».
Che questa condizione decisiva debba essere adempiuta ad ogni istante è una
clausola che merita d’essere particolarmente sottolineata. Poiché in effetti
bisogna proprio che ad ogni istante l’istituzione affetti effettivamente gli in-
dividui e con i minimi d’intensità richiesti. Non bisogna semplicemente dire
che le istituzioni devono essere riprodotte, bisogna dire più precisamente
che devono essere prodotte ad ogni istante. Una volta di più è utile prende-
re a prestito dalle opere d’arte, questa volta dalla letteratura, quel potere di
penetrazione speciale che fa vedere d’un tratto ciò che l’analisi fatica a far
emergere attraverso i suoi mezzi specifici, e per esempio a Proust. La Ricer-
ca è infatti attraversata da un’interrogazione sul valore sociale e i giudizi di
distinzione capaci di produrre autorità [faire autorité]:

[…] il valore di un titolo di nobiltà, come di uno di borsa, sale con la doman-
da e scende con l’offerta. Tutto quel che ci pare imperituro tende alla distruzio-
ne; una condizione mondana, come qualsiasi altra cosa, non è creata una volta
per tutte, ma, come la potenza di un impero, si rifà a ogni istante con una specie
di creazione perpetua [par une sorte de création perpétuellement continue].
[…]. La creazione del mondo non è accaduta in principio, avviene ogni giorno
[La création du monde n’a pas lieu du début, elle a lieu tous les jours]43.

42 B. Spinoza, Epistolario, tr. it. a cura di A. Droetto, Einaudi, Torino 1952, p. 225
[la tr. it. è stata modificata per non rompere la continuità testo commento; n.d.T].
43 M. Proust, La fuggitiva, tr. it. di F. Fortini, Einaudi, Torino 1978, p. 269.
F. Lordon - L’imperio delle istituzioni 139

Potremmo essere quasi tentati di dire che l’istituzione non ha alcun mo-
mento di inerzia, nel senso particolare in cui il suo destino si gioca sempre
in una contemporaneità assoluta. Se in effetti ad un istante dato l’affetto
istituzionale cade al di sotto della soglia critica, allora costitutivamente ne
segue che il bilancio affettivo netto determini ora gli individui a muoversi
al di fuori di questi rapporti specifici. Come una sorta di richiamo a ciò che
la prima sociologia francese deve in termini di ispirazione larvata a Spino-
za44, si troverà in Fauconnet e Mauss (1901) uno stupefacente condensato
di una veduta delle istituzioni come effetti di potenze e di affetti e della loro
sovranità come mantenimento di una determinata intensità affettiva:

Le istituzioni esistono solo nelle rappresentazioni che se ne fa la società.


Tutta la loro forza viva viene loro dai sentimenti di cui sono oggetto; se esse
sono forti e rispettate, è perché questi sentimenti sono vivaci; se esse cedono è
perché hanno perduto ogni autorità presso le coscienze45.

Si confesserà, leggendo queste parole, che è difficile sfuggire al parallelo


tra la potenza spinozista e la forza viva maussiana, degli affetti dell’uno e
dei sentimenti dell’altro, dei sentimenti che, essendo al plurale, sono quelli
di una pluralità di individui, e prendendo avvio dagli affetti comuni, di
cui il mantenimento o il cedimento determinano la produzione di autorità
dell’istituzione, cioè il suo perseverare nell’essere – ossia, in alcune righe
potentemente suggestive, quasi tutto ciò che vorrebbe mostrare la presente
prospettiva sulle istituzioni…

7. Contemporaneità e diacronia: memoria e isteresi degli affetti

Tuttavia, dire che l’istituzione deve essere prodotta ad ogni istante non
significa in alcun modo dire che essa non avrebbe alcuna profondità diacro-
nica. E, a rischio di dare come prima impressione di cadere in una perfetta
contraddizione, bisogna anche aggiungere che le norme istituzionali fun-
zionano principalmente in virtù della memoria.
La contraddizione non è che un paradosso e il paradosso non è che ap-
parente, poiché si tratta di dire qui che gli affetti istituzionali sono in larga
parte la riattivazione contemporanea di affetti provati dagli individui nel

44 F. Lordon, «Le spinozisme de Durkheim», cit.


45 P. Fauconnet, M. Mauss, «Objet de la sociologie», in M. Mauss, Œuvres, Tome 3,
Cohésion sociale et divisions de la sociologie, Editions de Minuit, Paris 1969, p.
160 (corsivo mio).
140 Il transindividuale

passato – e così tenere insieme istantaneità e diacronicità, ad immagine


della sintesi proustiana più volte ripresa da Bourdieu: «le mort saisit le
vif»46. Se non vi è probabilmente meccanismo più centrale della vita istitu-
zionale, dobbiamo ancora dotarci della teoria di questa affezione del vivo
da parte del morto. Ora, il fenomeno della memoria affettiva occupa un
posto strategico nella struttura di produzione dell’azione che Spinoza svi-
luppa e precisamente in Etica II, pr. 17, cor.:

La mente potrà […] contemplare come se fossero presenti i corpi esterni dai
quali il corpo umano è stato affetto una volta, sebbene non esistano, né siano
presenti47.

E soprattutto Etica II, pr. 18:

Se il corpo umano sia stato affetto una volta da due o più corpi simultane-
amente, quando in seguito la mente immaginerà uno, subito si ricorderà degli
altri48.

Proposizioni di estrema importanza in effetti poiché ci consegnano il


principio dell’associazione, della memoria e dell’isteresi degli affetti: sono
stato affetto una volta da un corpo ergo ho contratto una piega affettiva.
Anche se il corpo affettante iniziale è scomparso, questo affetto può essere
riattivato, ri-provato per via dell’incontro con una cosa che è stata legata
in una maniera o in un’altra con questo corpo iniziale. Così la teoria spino-
zista della memoria e dell’isteresi degli affetti ci consegna una compren-
sione dell’iniziazione alle regole e dell’incorporazione delle norme, dove
la parola stessa ‘incorporazione’ deve essere intesa in senso letterale come
iscrizione nel corpo, come traccia della regola corporalmente inscritta, poi-
ché questo è proprio il fondo dell’operazione mnestica secondo Spinoza:
la produzione di associazioni, le pieghe della memoria, l’isteresi, tutto ciò
accade attraverso il corpo e nel corpo, occasione ideale per mettere Spi-
noza all’inizio di una discendenza teorica forse minoritaria ma impegnata
– contro l’idealismo intellettualista dominante, inspirato da un mentalismo
cartesiano divenuto il ‘luogo naturale’ di tutte le scienze sociali o qua-
si – a rivalutare la parte del corpo, e che andrebbe da Mauss a Bourdieu
passando per Foucault. Le conservazioni della memoria e le associazioni

46 Si tratta di un’espressione giuridica che indica che l’erede entra in possesso im-
mediatamente dei beni del defunto.
47 B. Spinoza, Ethica II, pr. 17, cor.
48 B. Spinoza, Ethica II, pr. 18.
F. Lordon - L’imperio delle istituzioni 141

d’affetti sono entrambe il prodotto di affezioni corporee, cioè di incontri


di corpi, da cui ne sono risultati degli affetti, ma degli affetti persistenti e
perpetuamente riattivabili, che sotto l’effetto di una re-sollecitazione ade-
guata, produrranno dunque di nuovo il loro effetto, nel presente puro però
di un’assoluta contemporaneità. Si capisce allora perché Spinoza insista
tanto sull’importanza decisiva della prima educazione: essa è la formatrice
del fondo dei grandi affetti riattivabili dato che sono le prime affezioni cor-
poree, prodotte dai genitori e dai maestri, che formeranno le prime pieghe
affettive, quelle che fanno entrare i bambini sotto i rapporti delle grandi
norme della società. Etica III, definizione 27 degli affetti:

[…] non c’è da meravigliarsi che assolutamente tutti gli atti che per consue-
tudine si chiamano cattivi siano seguiti da tristezza e quelli che si dicono retti
da gioia. Infatti […] questo dipende soprattutto dall’educazione. Senza dubbio
i genitori, biasimando quelli e rimproverando spesso i figli a causa di essi e,
viceversa, suggerendo e lodando questi hanno fatto sì che a quelli si unissero
emozioni di tristezza e a questi di gioia49.

Qui Spinoza è durkheimiano ante litteram: sì, la famiglia e la scuola


sono ‘il seminario della società’ proprio perché vi si producono delle affe-
zioni corporee che formeranno le pieghe affettive più profonde, cioè a più
forte isteresi. Tra Etica II, pr. 17, cor. e Etica II, pr. 18 abbiamo dunque
di che formarci un’idea un po’ meno idealista-kantiana di ciò che è la co-
scienza morale e la coscienza normata, o di ciò che potremmo chiamare la
coscienza istituzionale in generale: la coscienza morale, in ultima analisi,
è memoria affettiva, o più esattamente è memoria affettiva corporalmente
costituita e inscritta, in quanto sostiene una determinata idea del dover-fare
e ciò quale che ne sia la natura.

8. I meccanismi affettivi della sedizione o le dinamiche passionali della


crisi istituzionale

Che sia per effetto dell’isteresi affettiva che sostiene la norma del rappor-
to istituzionale, salariale per esempio, o attraverso gli affetti contemporanei
idiosincratici dell’interazione istituzionale che rende effettiva concretamente
questo rapporto hic et nunc, l’istituzione mantiene gli individui sotto il suo
imperio solo se ad ogni istante il suo bilancio affettivo netto resta favorevole.
Per il fatto stesso di essere sintetico, cioè composito, l’affetto istituzionale è

49 B. Spinoza, Ethica III, def. aff. 27.


142 Il transindividuale

per costituzione esposto al rischio di essere lavorato da degli elementi contra-


ri. Così può accadere che l’interazione istituzionale concreta faccia nascere
degli affetti tristi che vengono a diminuire l’effetto degli affetti del rapporto
stesso o persino che li annulli. Sono stato normato per entrare nel rapporto
salariale e per vivervi sotto il comando di un padrone; ma questo padrone-
qui che attualmente è il mio, mi è odioso. Qui è ancora necessario attingere
ad un’opera d’arte per restituire questa ambivalenza che Spinoza dice essere
la caratteristica più frequente della vita passionale (fluctuatio animi, Etica
III, pr. 17, schol.) e che Ejzenštejn mostra in una inquadratura di qualche
secondo nel momento in cui coglie il marinaio prima irrigidito in un attenti
automatico all’arrivo improvviso di un ufficiale – l’affetto del rapporto e il
suo effetto immediato sul corpo – , per gettargli immediatamente uno sguar-
do impregnato di detestazione non appena questi gli volge le spalle – l’affetto
dell’interazione contemporanea, che testimonia che il sentimento di ribellio-
ne si sta facendo strada. Ed è precisamente qui la risposta per immagini alla
questione del sapere ciò che può giungere a disequilibrare il bilancio affettivo
dell’istituzione – e, prendendo avvio, minacciare la sua sovranità, indebolire
il suo imperio. Poiché questa risposta è: un supplemento di affetti tristi. L’o-
dio verso l’ufficiale, l’odio verso il datore di lavoro o verso il professore, ecco
che cosa mina l’obsequium. Ma, dice Spinoza, è un affetto in particolare che
è il dissolvente istituzionale per eccellenza: l’indignazione. L’indignazione è
l’ultima reazione del conatus che dice: «tutto piuttosto che questo»50. Certo,
l’istituzione può far fare un gran numero di cose ai suoi sudditi – non c’è che
da prendere in considerazione ciò che gli individui che vivono sotto le istitu-
zioni del rapporto salariale hanno accettato da vent’anni a questa parte –, un
gran numero di cose ma non qualsiasi cosa, non tutto ciò che si vuole. Che gli
individui sottomettano e pieghino le loro condotte è l’effetto di un imperium
istituzionale instaurato. Allora sì,

i sudditi non godono del loro diritto, ma sono sottoposti al diritto della città,
nella misura in cui ne temono la potenza, cioè le minacce, o anche nella misura
in cui amano la società civile51.

Cosa che, conformemente al metodo di estensione-trascrizione della


cosa politica nella cosa istituzionale in generale, riscriveremo in questi ter-
mini:

50 Si potrebbe obiettare – a ragione – che l’ultima reazione del conatus, quella che
comprende assolutamente il ‘tutto’ del «tutto piuttosto che questo» è il suicidio.
51 B. Spinoza, Trattato politico, III, 8
F. Lordon - L’imperio delle istituzioni 143

I sudditi rinunciano a vivere a loro guisa e si sottomettono ai rapporti


dell’istituzione nella misura stessa in cui essi sono sotto la sua potenza, cioè
in cui essa li affetta sufficientemente per determinarli, per paura o adesione, a
conformarsi alla sua norma.

Nemmeno un istante cessa di porsi la questione di sapere fino a dove si


estende il potere dell’istituzione di far vivere gli individui sotto i suoi rap-
porti e dei limiti di ciò che essa può fargli fare. Che la logica della potenza
dell’imperium, che ricerca l’estensione indefinita del suo potere, lo ignori,
non impedisce che questo limite esista e che sia spostato o varcato se non
con grandi rischi. Poiché

non sono di pertinenza delle leggi della Città tutte quelle azioni che nessuno
può essere indotto a compiere, né con premi né con minacce [ossia non fanno
parte delle cose che l’istituzione ha il potere di far fare]. Ad esempio, nessuno
può cedere la sua facoltà di giudizio. Con quali premi o minacce, infatti, si può
costringere qualcuno a credere che il tutto non sia maggiore di una sua parte, o
che Dio non esista, o che il corpo, che vedo finito, sia un ente infinito? A crede-
re, in generale, in qualcosa che è contrario a ciò che sente o pensa?52

E infatti nessuna istituzione lo può. I marinai della Potëmkin sono furio-


si per la carne piena di vermi che viene loro data. «Non sono dei vermi»,
ribattono contro l’evidenza il maggiore e gli ufficiali che non vogliono
saperne niente delle recriminazioni della truppa. «Non sono dei vermi»… :
anche se detto dall’autorità medica della nave, la cosa è inammissibile, è
troppo grossolanamente contraria a ciò che gli uomini sentono e pensano
incontestabilmente, e l’istituzione militare saprà ben presto che cosa ne è
del suo potere di far mangiare ai suoi sudditi una carne manifestamente
avariata. Poiché è qui, tipicamente, il genere di inaccettabile rifiuto che fa
nascere l’indignazione. E quando si avvicina a queste soglie l’istituzione
si mette in pericolo.

Si deve considerare che una norma che provoca l’indignazione della mag-
gioranza ha poco a che fare con il diritto della Città. È infatti certo che gli
uomini, per impulso naturale, sono condotti ad unirsi per una speranza o timore
comune, o per il desiderio di vendicare qualche offesa fatta a tutti53.

«I prigionieri di guerra in Giappone sono trattati meglio di noi», pro-


testano gli uomini; «è carne buona, smettete di discutere» ribattono, per

52 Ivi, III, 8
53 Ivi, III, 9.
144 Il transindividuale

chiudere la questione, gli ufficiali – ed il danno subito in comune è ora


costituito.
In questo momento preciso l’istituzione sta peccando – ma nel senso
dell’immanentismo materialista di Spinoza per il quale il senso stesso della
virtù risiede nei requisiti della perseveranza e della conservazione di sé:

Una città [una istituzione] pecca dunque quando compie o permette che si
compiano azioni che possono causare la sua rovina54.
[…] e poiché il diritto della città è definito dalla potenza della moltitudine,
è certo che la potenza e il diritto della città diminuiscono nella misura esatta in
cui essa offre ad un gran numero di sudditi ragioni di unirsi55.

Momento in cui tutto è in bilico, poiché l’unione dei sudditi nell’indi-


gnazione segna la formazione di un affetto comune concorrente all’affetto
comune istituzionale – la nascita di un affetto comune sedizioso. Si for-
ma dunque una concentrazione di potenza istituzionale in cui, per dirla
in modo diverso, una parte della potenza della moltitudine che sosteneva
l’istituzione si ritira per ritorcerlesi contro. Da questo sconvolgimento del
bilancio affettivo netto dell’istituzione risultano degli effetti considerevoli
che non appaiono mai così bene come nello spettacolo dell’affrontarsi di
potenze contrarie che rende manifesta la differenza tra il ‘prima’ e il ‘poi’.
Il ‘prima’ rappresentato nella prima scena è a colpo sicuro conforme all’i-
dea che ci si fa dell’istituzione a regime, conforme al fatto d’altra parte, di
rendere, attraverso l’abitudine, impercettibili gli effetti di potenza che vi
si giocano, e non ha tuttavia nulla di banale: come spiegare che l’ammira-
glio, sessantenne panciuto, possa mettere per terra da solo e d’un colpo tre
marinai giovani e vigorosi se non perché aggiunge la potentia multitudinis
istituzionale alla sua potenza propria – in cui si ritrova, da una parte, che
la potenza degli uomini di potere è sempre a prestito, letteralmente non
è la loro, e, d’altra parte, che gli affetti, come variazioni della potenza
di agire, determinano ciò che i corpi possono. Non c’è mezzo migliore
di prendere coscienza di tutto ciò che sfugge solitamente alla coscienza
che di riposizionare gli individui in tutt’altro contesto, quello del ‘dopo’,
in cui, essendosi trovata sconvolta la configurazione generale degli affetti
comuni, il bilancio affettivo netto dell’istituzione è passato in rosso e la
potenza della moltitudine ha abbandonato gli uomini di potere, cioè ha
cessato di investirli e di sostenerli. Una volta crollata la potenza istituzio-
nale non restano che i nudi rapporti di potenza fisica, caratteristici di una

54 Ivi, IV, 4.
55 Ivi, III, 9.
F. Lordon - L’imperio delle istituzioni 145

involuzione brutale verso lo stato di natura. Poiché l’affetto d’indignazione


ha finito per distruggere l’obsequium e l’istituzione non ha più i mezzi di
potenza delle sue pretese – il suo «diritto si estende fin dove si estende la
sua potenza» – non ha a rigore più alcuna estensione ed essa non ha più il
potere di affettare gli individui per determinarli a vivere sotto i suoi rap-
porti: il suo imperio è a terra. Il pope, infusione dell’istituzione religiosa in
seno all’istituzione militare, è la vittima collaterale di questo crollo di ogni
‘produzione di autorità’ istituito e, brandendo un crocifisso la cui efficacia
era interamente simbolica, cioè affettiva, non riceve altro, svanito l’affet-
to, che un «via dal mio cammino» del marinaio che immaginava fermare.
L’ufficiale, brutalmente spogliato da tutti gli attributi di potenza istituzio-
nale, ridiventa un uomo come gli altri, ed è il più forte fisicamente, questa
volta il marinaio, che avrà la meglio. «Quando la forza fa la voce grossa
[grimasse], quando un semplice soldato prende la berretta a quattro angoli
di un primo presidente e la fa volare dalla finestra», dice Pascal56 con una
frase pungente che coglie il crollo del potere simbolico – la grimasse –, lo
svanire di tutti i supporti affettivi che facevano il potere degli uomini di
potere e che li lascia in un istante completamente nudi, il riflusso brutale
della potentia multitudinis, da cui erano irrigati, ed il ritorno ad altri rap-
porti basati sulla sola forza. C’è di che credere che Ejzenštejn avesse letto
Spinoza! Poiché il Trattato politico dà il perfetto riassunto delle scene che
Ejzenštejn ci dipinge.

Se pure diciamo che gli uomini non godono del loro diritto, ma sono sog-
getti al diritto della città, ciò non significa che hanno cessato di essere uomini
per acquisire un’altra natura, e che quindi la società abbia il diritto di far sì
che gli uomini volino, oppure, cosa altrettanto impossibile, che riguardino con
tutti gli onori cose che provocano il riso o la nausea. Vogliamo dire invece che
si danno alcune circostanze, poste le quali si danno il rispetto e il timore dei
sudditi verso la città, e tolte la quali svaniscono il rispetto e il timore, e con essi
la città stessa57.

Così periscono le istituzioni!

[Traduzione dal francese di Vittorio Morfino]

56 B. Pascal, Pensées, 797, in Id., Œuvres complètes, cit., p. 601, tr. it. cit., p. 147.
57 B. Spinoza, Trattato politico, IV, 4.
147

ETIENNE BALIBAR
DALL’ANTROPOLOGIA FILOSOFICA
ALL’ONTOLOGIA SOCIALE E RITORNO: CHE
FARE CON LA SESTA TESI
DI MARX SU FEUERBACH?1

Le Tesi su Feuerbach, un insieme di 11 aforismi a quanto pare non de-


stinati alla pubblicazione in questa forma, sono state scritte da Marx nel
corso del 1845 mentre stava lavorando al manoscritto dell’Ideologia tede-
sca, anch’esso non pubblicato. Sono state scoperte più tardi da Engels e da
lui pubblicate con alcune correzioni (non tutte prive di significato), come
appendice al suo pamphlet Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia
classica tedesca (1886)2. Sono considerate largamente una delle formu-
lazioni emblematiche della filosofia Occidentale, talvolta comparate con
altri testi estremamente brevi ed enigmatici che combinano una ricchezza
apparentemente inesauribile con uno stile enunciativo da manifesto, che
annuncia un modo di pensare radicalmente nuovo come il Poema di Par-
menide o il Trattato di Wittgenstein. Alcuni dei suoi celebri aforismi hanno
guadagnato a posteriori lo stesso valore di un punto di svolta in filosofia (o,
forse, nella nostra relazione con la filosofia) come, per esempio dei già cita-
ti Parmenide e Wittgenstein rispettivamente: «to; ga;r aujto; noei`n ejstivn

1 Keynote address, One Day Conference «The Citizen-Subject Revisited», 24 ot-


tobre 2011, department of English, SUNY Albany, New York.
2 Marx morì nel 1883. Engels ha spiegato che Marx era così riservato sulle Tesi che
non le aveva condivise con lui, benché a quel tempo i due stessero già lavorando
insieme e scrivendo a quattro mani. Alcune delle sue correzioni, pensate per mi-
gliorare una redazione ‘affrettata’ e chiarificare l’intenzione delle Tesi, sono lungi
dall’essere innocenti. Questo è il caso, in particolare, della famosa Tesi 11, che
nella formulazione originale marxiana recita: «Die Philosophen haben die Welt
nur verschieden interpretiert; es kömmt drauf an, sie zu verändern». Engels l’ha
corretta così: «Die Philosophen haben die Welt nur verschieden interpretiert; es
kommt aber darauf an, sie zu verändern», cambiando il modo del verbo e aggiun-
gendo ‘aber’ nella seconda proposizione, con ciò introducendo a forza nel testo
l’idea di una mutua esclusione tra ‘interpretare’ e ‘trasformare’, che non vi era
necessariamente. Di conseguenza è stata letta come un’opposizione generale tra
praxis (rivoluzionaria) e (mera) teoria, con l’aiuto di altre formulazioni delle Tesi.
Allo stesso modo vedremo che anche la Tesi 6 contiene una correzione che merita
una discussione.
148 Il transindividuale

te ka;i ei\nai»3, «Worüber man nicht sprechen kann, darüber muss man
schweigen»4, ma anche lo spinoziano «ordo et connexio idearum idem est
ac ordo et connexio rerum»5 il kantiano «Gedanken ohne Inhalt sind leer,
Anschauungen ohne Begriffe sind blind»6 etc.
In tali condizioni è ovviamente allo stesso tempo estremamente allettan-
te e imprudente avventurarsi in un nuovo commento. Ma è anche inevita-
bile far ritorno alla lettera delle Tesi, esaminando la nostra comprensione
della loro terminologia e proposizioni, nel momento in cui decidiamo di
valutare il posto occupato da Marx (e di una interpretazione di Marx) nei
nostri dibattiti contemporanei. È ciò che vorrei fare – almeno in parte – in
questo testo, con riferimento ad una discussione in corso sul significato
e gli usi della categoria di ‘relation’ e ‘relationship’ (entrambi possibili
equivalenti del tedesco Verhältnis), le cui implicazioni vanno dalla logica
all’etica, ma in particolare implicano una sottile – forse decisiva – sfuma-
tura che separa un’‘antropologia filosofica’ da un’‘ontologia sociale’ (o,
una ontologia dell’‘essere sociale’, come Lukács, tra altri, direbbe). Questo
scopo conduce in modo del tutto naturale a sottolineare l’importanza della
Tesi 6, che recita (nella versione originale di Marx):

Feuerbach löst das religiöse Wesen in das menschliche Wesen auf. Aber
das menschliche Wesen ist kein dem einzelnen Individuum inwohnendes Ab-
straktum. In seiner Wirklichkeit ist es das ensemble der gesellschaftlichen
Verhältnisse.
Feuerbach, der auf die Kritik dieses wirklichen Wesens nicht eingeht, ist daher
gezwungen: 1. von dem geschichtlichen Verlauf zu abstrahieren und das religiöse
Gemüt für sich zu fixieren, und ein abstrakt – isoliert – menschliches Individuum
vorauszusetzen. 2. Das Wesen kann daher nur als ‘Gattung’, als innere, stumme,
die vielen Individuen natürlich verbindende Allgemeinheit gefaßt werden.

Ed ecco una traduzione italiana classica:

3 «Identico è il pensare e l’essere» (Parmenide, Testimonianze e frammenti, tr. it.,


leggermente mod. di M. Untersteiner, La Nuova Italia, Firenze 1958, p. 131; cfr.
la nuova edizione con commento – in francese – di B. Cassin, Parménide, Sur la
nature ou sur l’étant - La langue de l’être?, Seuil, Paris 1998).
4 «Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere» (L. Wittgenstein, Tractatus
logico-philosophicus, tr. it. di A.G. Conte, Einaudi, Torino 1964, p. 82)
5 «L’ordine e la connessione delle idee è lo stesso che l’ordine e la connessione
delle cose»; B. Spinoza, Ethica II, pr. 7 (la tr. dell’Etica è quela di E. Giancotti,
Editori Riuniti, Roma 1988).
6 «I pensieri senza contenuto sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono cieche»;
I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, B 75/A 51, tr. it di G. Colli, vol. 1, Bompiani,
Milano 1987, p. 109.
E. Balibar - Dall’antropologia filosofica all’ontologia sociale e ritorno 149

Feuerbach risolve l’essenza religiosa nell’essenza umana. Ma l’essenza


umana non è qualcosa di astratto che sia immanente all’individuo singolo. Nel-
la sua realtà essa è l’insieme dei rapporti sociali.
Feuerbach, che non penetra nella critica di questa essenza reale, è perciò
costretto:
1. Ad astrarre dal corso della storia, a fissare il sentimento religioso per sé,
ed a presupporre un individuo umano astratto – isolato.
2. L’essenza può dunque essere concepita soltanto come ‘genere’, cioè
come universalità interna, muta, che leghi molti individui naturalmente.

Tra i molti commentari che sono stati dedicati a queste proposizioni (e in


particolare alle prime tre proposizioni), selezionerei quelli di Ernst Bloch
e Louis Althusser, che mettono in luce posizioni esattamente antitetiche7.
Per Bloch, il cui commento dettagliato, parte del suo magnum opus Das
Prinzip Hoffnung, fu pubblicato in un primo tempo separatamete nel 19538,
le Tesi includono la piena costruzione del concetto di praxis rivoluzionaria,
presentata come la parola d’ordine (Losungswort), che oltrepassa l’antitesi
metafisica di ‘soggetto’ e ‘oggetto’, ‘pensiero filosofico’ e ‘azione politica’.
Esse esprimo l’idea cruciale che la realtà (sociale) in quanto tale è ‘mutabi-
le’ (veränderbar) poiché la sua nozione completa non indica solo situazioni
date o relazioni derivanti da un processo compiuto (cioè il presente e il
passato), ma implica anche sempre già l’oggettiva possibilità di un futuro
o una novità (novum), cosa che né il materialismo classico né l’idealismo
hanno mai ammesso. Per Althusser, che si sofferma sulle Tesi come un sin-
tomo di una rivoluzione teorica (o ‘rottura epistemologica’) attraverso cui
Marx avrebbe lasciato cadere una lettura umanistica, fondamentalmente
feuerbachiana, del comunismo, per adottare una problematica scientifica
(non-ideologica) delle relazioni sociali e delle lotte di classe come motore
della storia, esse meritano una lettura (alquanto controintuitiva) che mostra

7 Per Ernst Bloch, cfr. Das Prinzip Hoffnung, vol. I (Suhrkamp Edition, Frankfurt
a. M. 1959, tr. it. di T. Cavallo, Garzanti, Milano 1994), e anche: «Keim und
Grundlinie. Zu den Elf Thesen von Marx über Feuerbach», in Deutsche Zeit-
schrift zur Philosophie, 1, 1953, 2, p. 237 e sgg. Per Althusser cfr. Pour Marx,
capitolo, «Marxisme et humanisme» (tr. it. a cura di M. Turchetto, Mimesis,
Milano 2008). Althusser è ritornato sull’interpretazione delle Tesi su Feuerbach
in un modo assai più critico in un testo postumo (datato 1982) «Sur la pensée
marxiste», pubblicato in Futur Antérieur, numero speciale «Sur Althusser. Pas-
sages», 8, 1993, tr. it. a cura di V. Morfino e L. Pinzolo, in Sul materialismo
aleatorio, Mimesis, Milano 20062.
8 Il Principio speranza è stato scritto durante il periodo bellico quando Bloch era in
esilio in USA, ma fu pubblicato solo dopo il suo ritorno nella Germania Occiden-
tale tra il 1954 e il 1957.
150 Il transindividuale

le ‘nuove’ idee come forzatura di un vecchio linguaggio per esprimere (o


piuttosto annunciare, anticipare) una teoria che, fondamentalmente, non ha
precedenti, ma le cui implicazioni sono ancora a venire (l’esempio princi-
pale di questa ermeneutica di concetti forzati, internamente inadeguati, è
la lettura althusseriana della praxis come nome filosofico di «un sistema
articolato di pratiche sociali»). È interessante notare che sia il commen-
tario di Bloch che quello di Althusser implicano una forte sottolineatura
dello schema temporale di un ‘futuro’ oggettivamente incluso nel presente
come una possibilità dirompente – con la differenza che per Bloch questo
schema caratterizza la storia, mentre per Althusser caratterizza la teoria o
il discorso9.
Ciò che è massimante interessante per noi è il modo in cui essi risol-
vono i paradossi nella Tesi 6 che sorgono da modi antitetici di definire
l’‘essenza umana’ (das menschliche Wesen), che riguarda direttamente la
nozione di ‘antropologia’ (ereditata da Kant, Hegel e Humboldt, ma so-
prattutto, naturalmente, da Feuerbach la cui tesi principale nell’Essenza del
cristianesimo afferma che «il segreto del discorso teologico è l’esperienza
antropologica», o che l’idea di Dio e dei suoi attributi sono rappresentazio-
ni dell’essenza umana immaginariamente invertite): «Ma l’essenza umana
– Marx bruscamente obietta – non è una astrazione inerente ad ogni singo-
lo individuo. Nella sua realtà è l’insieme delle relazioni sociali». Questo
sembra non lasciare altra possibilità che ammettere che l’‘essenza umana’
è in verità una nozione necessaria (ed una nozione fondamentale, che in-
dica il primato della domanda antropologica in filosofia), benché intesa
in modi differenti: un modo sbagliato (attribuito a Feuerbach: «l’essenza
umana è un’astrazione (o un’idea) inerente ad ogni individuo isolato») ed
un modo corretto (affermato da Marx stesso: «l’essenza umana è l’insieme
delle relazioni sociali», qualsiasi valore logico abbia quell’‘è’). Althusser,
tuttavia, va in una direzione differente: per lui proprio l’uso dell’espressio-
ne ‘essenza umana’ implica un’equivalenza di due nozioni, ‘umanesimo
teorico’ e ‘antropologia filosofica’, con cui una teoria (cioè una ricerca ma-
terialista) dell’‘ensemble’ (o sistema, articolazione) delle ‘relazioni sociali’
è incompatibile, perché fa riferimento a continue trasformazioni storiche
di ciò che significa essere ‘umano’ in relazione (di cooperazione, divisione
del lavoro, dominazione, lotta di classe) ad altri umani, distruggendo così

9 Questo schema è molto differente dall’idea tradizionale che Hegel ereditò da


Leibniz, secondo cui il presente è ‘gravido’ dell’avvenire che ne nascerà. In realtà
è l’opposto. Sarebbe interessante porre in relazione ciò con il fatto che sia Bloch
che Althusser (indipendentemente) hanno insistito sulla ‘non-contemporaneità’
del presente come sua struttura tipica.
E. Balibar - Dall’antropologia filosofica all’ontologia sociale e ritorno 151

l’idea stessa di attributi ‘universali’ e ‘permanenti’ che apparterrebbero ad


‘ogni singolo individuo’ (o soggetto). In breve storicizza e de-essenzializza
radicalmente il nostro concetto di umano, demolendo sia l’antropologia
come teoria, sia l’umanesimo come ideologia. Ne segue che l’espressione
importante nell’aforisma marxiano sarebbe «in seiner Wirklichkeit» (nella
sua realtà), poiché segnala (come un’ingiunzione teorica o poteau indica-
teur nella stessa teoria) che il discorso dell’«essenza dell’uomo» non è più
sostenibile e dovrebbe essere sostituito da un differente discorso in cui è in
questione l’analisi delle relazioni sociali. Il ‘sociale’ si oppone all’‘umano’
proprio come le ‘relazioni’ si oppongono all’‘essenza’.
Ma, se da qui ritorniamo al commentario di Bloch, possiamo osservare
due cose. Da una parte, cade chiaramente sotto questa critica, poiché sostiene
che vi sono due antropologie successive (così come vi sono due varietà di
materialismo e di fatto due tipi di umanesimo, uno astratto che parla di attri-
buti eterni dell’‘uomo’, e l’altro che – con i termini stessi di Marx – è ‘reale’ e
parla di trasformazioni storiche della società che creano un ‘uomo nuovo’10).
Dall’altra parte riesce a connettere la Tesi 6 con altri scritti marxiani che sono
più o meno contemporanei, in particolare la celebre critica della Dichiara-
zione dei diritti dell’uomo e del cittadino nella Questione ebraica, che lo
conduce a sottolineare con forza che l’antropologia dell’‘essenza astratta’
è di fatto essa stessa prodotta storicamente: esprime la visione del mondo
politica (o ideologica) di una borghesia in ascesa che riassume l’antica tradi-
zione filosofica del ‘diritto naturale’(Naturrecht) al fine di dare alla sua pro-
pria istituzione del cittadino nazionale una fondazione universalistica. Perciò
Bloch non indica solamente che ‘l’astratto umanesimo’ ha una dimensione di
classe, egli indica anche che è difficile criticare radicalmente ogni umanesi-
mo e discorso antropologico pur mantenendo una prospettiva universalistica
(inclusa una prospettiva rivoluzionaria socialista o comunista).

10 La nozione di ‘umanesimo reale ‘ è usata soprattutto nella sua opera immediata-


mente precedente (scritta con Engels): La sacra famiglia (1844). Cfr. l’inizio della
prefazione: «L’umanismo reale non ha in Germania un avversario più pericolo-
so dello spiritualismo o dell’idealismo speculativo, che pone al posto dell’uomo
reale individuale l’‘autocoscienza’, o lo ‘spirito’ ed insegna con l’evangelista:
‘è lo spirito che vivifica, la carne è inutile’. È chiaro che questo spirito privo di
carne ha spirito solo nella sua immaginazione. Ciò che noi combattiamo nella
critica baueriana è appunto la speculazione riproducentesi come caricatura. Essa
rappresenta per noi l’espressione più completa del principio cristiano-germanico,
il quale tenta il suo ultimo esperimento trasformando ‘la critica’ stessa in una
potenza trascendente» (K. Marx, F. Engels, La sacra famiglia, in Marx Engels
Opere, vol. 4, tr. it. a cura di A. Scarponi, Editori Riuniti, Roma 1972, p. 5).
152 Il transindividuale

Trovo questi argomenti incrociati di particolare interesse in un momen-


to in cui i dibattiti sull’universalismo (e sui differenti tipi di universalismo:
non solo borghese o proletario, ma anche di genere, eurocentrico o plane-
tario) tendono a prendere il posto della ‘disputa sull’umanesimo’, come è
stata combattuta nella filosofia continentale (dentro e fuori dalle sue cerchie
marxiste) negli anni Sessanta e Settanta. Forse dovremmo dire che la nuo-
va ‘disputa’, egualmente intensa, che in parte continua e in parte disloca la
‘disputa sull’umanesimo’, è precisamente la disputa sull’universalismo11. La
mia posizione da questo angolo visuale sarebbe che ‘umanesimo’ e ‘antropo-
logia’ sono di fatto due distinte nozioni o problemi, che bisognerebbe trattare
separatamente. Un’antropologia ‘non umanista’ o anche ‘anti-umanista’, per
quanto paradossale l’espressione possa suonare per i filosofi classici, potreb-
be rivelarsi non solo possibile, ma necessaria. Ma, per sbrogliare la matassa,
una nuova discussione di ciò che la Tesi di Marx esattamente significa si
rivela illuminante12. La dividerò in tre parti: 1) una nuova discussione della
pars destruens nella Tesi 6 di Marx, in particolare la critica di un’‘essenza
astratta’ inerente agli individui isolati, cercando di chiarire quali dottrine (al
di là di Feuerbach) sono implicate in questa categorizzazione; 2) una nuova
discussione della pars construens, in particolare l’indicazione di un’equazio-
ne dell’‘essenza umana’ con le ‘relazioni sociali’, facendo attenzione in par-
ticolare ad alcune particolarità della formulazione della Tesi; 3) una discus-
sione critica della ‘biforcazione’ offerta dalla tesi di Marx, in altri termini
un’esposizione di quali orientamenti sono aperti e quali sono chiusi (o persi-
no proibiti) dalle sue proposizioni in un dibattuto filosofico sull’antropologia
che precede il suo intervento e continua o viene rinnovato dopo di lui.

11 Prendo a prestito l’espressione «disputa sull’umanesimo» (la querelle de l’hu-


manisme) da Althusser stesso, che ha progettato un libro (lasciato incompiuto)
con questo titolo. Conio l’espressione ‘disputa sull’universalismo’ sullo stesso
modello.
12 Nel punto seguente, che rettifica parzialmente la mia presentazione orale alla One
Day Conference «The Citizen-Subject Revisited», SUNY Albany, October 24,
2011, non tento una lettura integrale delle Tesi (anche se traggo alcuni chiarimenti
dagli altri aforismi di Marx). Perciò lascio a lato la questione dell’‘ordine’ o ‘strut-
tura’ delle 11 Tesi, che ho toccato di passaggio. Sia Bloch (nel suo saggio) che
Althusser (nel suo insegnamento orale) avevano suggestioni ‘tematiche’ molto
specifiche circa il modo in cui le tesi avrebbero dovuto essere ‘divise’ e ‘raggrup-
pate’ al fine di gettar luce sulla costruzione latente dei loro argomenti e concetti.
Un’ulteriore interpretazione molto interessante è stata offerta da Georges Labica:
cfr. il suo Karl Marx. Les Thèses sur Feuerbach, Presses Universitaires de France,
Paris 1987.
E. Balibar - Dall’antropologia filosofica all’ontologia sociale e ritorno 153

1. La proposizione negativa: «l’essenza umana non è un’astrazione ine-


rente a ogni singolo individuo»

Una discussione che abbia realmente di mira la semantica e la grammatica


della proposizione marxiana deve necessariamente riportarsi all’originale
formulazione tedesca. Tradurre (in inglese, francese o italiano) è utile
ma insufficiente, perché le parole usate da Marx non hanno un perfetto
equivalente, o hanno uno spettro di significati che viene amputato in
altre lingue. Come vedremo è altresì importante il fatto che Marx usi un
Fremdwort (o termine straniero).
Iniziamo dalla categoria cruciale di Wesen. La traduzione abituale,
come abbiamo visto, è ‘essenza’ e questo è naturalmente inevitabile per-
ché Marx sta discutendo Feuerbach che, come è noto, scrisse Das Wesen
des Christentums (1841), ovvero L’essenza del cristianesimo, dove, come
ho ricordato, la tesi che è sostenuta è che «l’essenza di Dio» è una proie-
zione immaginaria dell’essenza umana (cioè natura). Ma una traduzione
perfettamente accettabile potrebbe essere anche ‘essere’, e in effetti la co-
mune comprensione dell’espressione «ein menschliches Wesen» in tedesco
sarebbe «un essere umano». La correlazione delle due nozioni: essere e
essenza (in greco: tov o[n e oujsiva) è al lavoro sin dall’inizio della metafisica
Occidentale, in particolare in Aristotele, la cui eredità fino ad oggi è divi-
sa tra empiristi-nominalisti, per i quali i soli ‘esseri reali’ sono gli indivi-
dui (o ‘sostanze individuali’ nella formulazione di Aristotele) e le nozioni
generali o essenze (chiamate anche ‘universali’) rappresentano astrazioni
intellettuali che vengono applicate ad una molteplicità di individui recanti
caratteri simili, ed essenzialisti-realisti per cui l’individuo singolare ‘parte-
cipa di’ (o persino ‘deriva da’) idee generali (che possono essere concepite
come essenze, tipi o specie) che sono esse stesse (iper)reali.
Un’indicazione ulteriore che le tensioni concettuali soggiacenti ad ogni
scelta di una parola o della forma di una proposizione nel testo di Marx non
sono da intendere senza un confronto ravvicinato con Hegel risulta anche
dal discutere l’antitesi fra ‘astrazione’ (Abstraktum) e ‘realtà’ (Wirklichkeit,
probabilmente meglio tradotta – gergo permettendo – come ‘effettualità’ o
‘realtà effettuale’). Vi è una fonte diretta di questa opposizione nella Feno-
menologia: quando, raggiungendo il livello dello ‘spirito’, che (anticipando
sviluppi successivi della sua filosofia politica) egli identifica con la «vita etica
del popolo», Hegel spiega che gli enti singoli (figure) o i soggetti individuali
(coscienze) sono solo astrazioni o momenti astratti dello spirito ‘reale’. Que-
sto spiega perché, nella grande antitesi che forma il nucleo dell’argomento
critico della Tesi 6, Marx può allo stesso tempo rivendicare un punto di vista
154 Il transindividuale

nominalista alla Stirner, per cui una nozione generale o idea (per es., quella
di specie o genere, come Genere Umano, Umanità) è solo un’astrazione, e
rigettare come altrettanto ‘astratta’ la nozione di individui isolati (come sono
immaginati dalla teoria politica ed economica borghese, con l’aiuto della
metafisica): poiché sia l’essenza collettiva che l’individuo singolo ‘egoistico’
sono astrazioni quando sono ‘isolati’ dalla Wirklichkeit, che è molto più che
‘realtà (cioè un’esistenza de facto, un ‘esserci’ sensibile), è un’operazione
(Wirklichkeit viene da Werk, wirken, l’equivalente tedesco di opus, operari),
un processo di farsi reale: ciò che Hegel ha definito come Spirito, e Marx
stesso identificherà con un insieme di processi storici di trasformazione che
concernono relazioni sociali. Perciò Marx mantiene il rifiuto simultaneo di
Hegel delle ‘essenze’ antitetiche, che sono tutte le più astratte nella misura
in cui pretendono di rappresentare la negazione dell’astrazione, ma sta anche
radicalmente sovvertendo la ‘logica’ di questo rifiuto nei termini di un’ope-
razione ‘spirituale’. Quanto radicalmente, questo è il problema. Ma prima di
considerare la sua definizione di un processo che è tanto ‘effettuale’ quanto
lo Spirito, pur non essendo lo Spirito, dobbiamo aggiungere una riflessione
su un altro termine usato da Marx che non è stato finora discusso.
Si tratta della formula (negativa): «…kein dem einzelnen Individuum
inwohnendes Abstractum». Fino ad ora, seguendo la più parte dei commen-
tatori, abbiamo focalizzato l’attenzione sui termini antitetici: Individuum
o Abstractum, l’individuo e l’astrazione (semplicemente identificato con
un’idea, o una ‘idea universale’). Ma abbiamo tralasciato di discutere il
verbo (participio presente) inwohnend, che le traduzioni invalse rendono
con ‘inerente a’. È stato leggermente modificato da Engels, trasformato in
innewohnend, un termine moderno il cui uso principale fa riferimento all’i-
dea di ‘possessione’, ‘essere posseduto’ (da qualche forza magica, un dio,
un diavolo ecc.), ma anche etimologicamente vicino al termine Einwohner,
che significa ‘abitante’ (o residente, abitatore) di un territorio, un luogo o
una casa ecc. A dire il vero l’originale inwohnend (con la stessa etimolo-
gia) esiste in tedesco, ma è una forma arcaica che si può trovare in contesti
teologici (per esempio in Meister Eckart, da cui passa a Jacob Böhme)13:
corrisponde al latino (ecclesiastico) inhabitare, inhabitatio (che Tommaso
d’Aquino distingue dal semplice habitatio, habitare)14. Ritornare a questo

13 Jacob Böhme, Von der Menschwerdung Jesu Christi (1620) (edizione online a
cura di Gerhard Wehr, Google ebook), 3-1.5 e 3-7.4.
14 È comune nella tradizione filosofica e teologica spiegare metaforicamente il fatto
che l’anima ‘abita’ (habitat) il corpo, o che il corpo forma una ‘casa’ per l’anima.
Inhabitare/inwohnen indicherebbe una relazione più intima e più intensa, come
quella della ‘presenza’ di Dio nell’anima del fedele. Il suo uso è spesso associato
E. Balibar - Dall’antropologia filosofica all’ontologia sociale e ritorno 155

sfondo etimologico o teoretico (di cui Marx, in quanto ottimo discepolo


dell’idealismo tedesco, ha probabilmente avuto una diretta o indiretta co-
noscenza) non è naturalmente sufficiente per sostenere un’interpretazione,
ma fornisce un sintomo della complessità delle articolazioni di un ‘indivi-
duo’ e un ‘astratto’ (o un’essenza astratta) che possono essere state l’oggetto
della critica di Marx. Queste obbediscono largamente a due modelli molto
differenti, la cui convergenza alla fine incide nella costruzione del soggetto
trascendentale moderno (come definito da Kant e dai suoi seguaci): il mo-
dello (post)aristotelico e (post)agostiniano di individuazione15. Il modello
‘metafisico’, post-aristotelico (che include un’oscillazione permanente tra
una interpretazione ‘nominalista’ ed una ‘platonica’ o ‘essenzialista’), è
meglio conosciuto e più frequentemente invocato nelle discussioni della
Tesi 6. Si riferisce ad un’interpretazione delle essenze come un ‘genere’
o una ‘specie’ (in questo caso il Genere umano o la Specie Umana) di cui
gli esseri individuali sono ‘istanze’ o ‘casi’, che partecipano degli attributi
della stessa essenza, o, in alternativa, i cui caratteri analoghi conducono
alla formazione di una singola idea del loro tipo comune (‘idea generale’).
Di qui l’importanza dell’uso feuerbachiano di Gattung (genere), che, nei
discorsi classici di storia naturale e antropologia, nomina il tipo comune, e
gli viene ora rivolto contro da Marx. Ogni individuo è rappresentativo di
un tipo, o può essere concepito come ‘formato’ o ‘creato’ separatamente
dopo il tipo: come conseguenza tutti gli individui ‘condividono’ una rela-
zione simile al tipo, ma rimangono isolati l’uno dall’altro nella loro somi-
glianza, dato che ognuno di essi (più o meno perfettamente) prende parte al
tipo completo, che può essere un tipo morale o sociale. È solo a posteriori,
quando essi già esistono come individui tipici, che essi possono relazio-
narsi l’uno all’altro in vari modi: questa relazione variabile è ‘accidentale’
ossia non definisce la loro ‘essenza’. Tuttavia, da Kant a Feuerbach stesso
è apportata una correzione a ciò: nel caso della specie ‘umana’ – che non
è una specie qualsiasi – gli individui hanno un carattere essenziale supple-
mentare, si relazionano in modo cosciente alla specie (comune) e dipendo-
no da questa coscienza per costruire una comunità morale. In questo senso
il loro ‘essere in comune’, o l’‘essenza che dà forma ad una comunità’

con sviluppi della dottrina trinitaria (cfr. K. Lehmkuhler, Inhabitatio: Die Ein-
wohnung Goottes Im Menschen, Vandenhoek & Ruprecht, Göttingen 2004).
15 Questo discorso è fortemente indebitato con il lavoro di Alain de Libera sulla ge-
nealogia del ‘soggetto’ tra scolastica e modernità: cfr. il suo contributo alla nostra
voce comune «Soggetto» del Vocabulaire Européen des Philosophies a cura di
Barbara Cassin (2004), e i due volumi della sua Archéologie du Sujet, Librairie
Vrin, Paris 2007/2008.
156 Il transindividuale

(Gemeinwesen), è già presente in potentia nella loro ‘essenza generica’


(Gattungswesen)16. Ma con questa interpretazione teleologica della natura
dell’Uomo siamo già inclinati verso un secondo modello, altrettanto tradi-
zionale, che è sintomaticamente indicato nella Tesi di Marx attraverso l’uso
di inwohnend.
Chiunque abbia una qualche conoscenza della teologia agostiniana co-
nosce l’affermazione del De vera religione (Sulla vera religione), 29, 72:
Noli foras ire, in te ipsum redi: in interiore homine habitat veritas («Non
andare all’esterno, ritorna in te stesso: nell’uomo interiore abita la verità»),
che fa eco a molte altre formulazioni nella sua opera (in particolare nelle
Confessioni e nel De trinitate), in cui è in questione il fatto che ciò che sta
al cuore (o il più intimo: interior intimo meo) dell’anima umana, perciò
esprimendo una ‘verità’ che non è solo la verità della condizione dell’uo-
mo, ma anche la verità per lui (destinata per la sua redenzione), è anche ciò
che infinitamente lo supera (superior summo meo), cioè la sua relazione
singolare con Dio o la ‘presenza’ di Dio. Sosterrò che questo è il secondo
modello che sottende la formulazione di Marx nella Tesi 6, permettendoci
di comprendere meglio in che senso l’idea di ‘relazioni sociali’ sovverta
rappresentazioni classiche dell’‘essenza dell’Uomo’. All’interno di questa
tradizione vi sono molte variazioni che vanno dalle iterazioni alle inter-
pretazioni sino alle trasformazioni (in particolar modo secolarizzazioni)17.
Queste possono essere ‘psicologistiche’, ma diventano più interessanti
quando giungono ad un punto di vista ‘trascendentale’, poiché questo è
il modo più profondo per mettere a confronto le tensioni della verticali-
tà (o sovranità) e dell’interiorità, o trascendenza e immanenza, che sono
implicate nella problematica del soggetto. In verità, è solo sullo sfondo di
questo secondo modello tradizionale che la dimensione ‘soggettiva’ della
discussione di Marx può essere colta pienamente. Dal punto di vista origi-
nariamente teologico l’idea guida è un’unità di opposti, dato che la relazio-

16 Una connessione essenziale tra Kant e Feuerbach su questo punto è, in verità,


costituita da Hegel, nella sua Enciclopedia delle scienze filosofiche (1817 e 1830),
in cui, tuttavia, il concetto di Gattung come ‘specie’ è limitato alla vita animale.
17 La formulazione agostiniana è citata, come è noto, da Husserl alla fine delle sue
Meditazioni cartesiane del 1929, in un modo che è stato criticato da eminenti
fenomenologici che pensano che abbia ritenuto solo un lato dell’aforisma agosti-
niano (chiedendo al filosofo di astrarsi dal mondo al fine di investigare una verità
interiore, ma non riuscendo a capire che questa verità interiore rappresenta anche
il luogo ‘abitato’ dall’‘ospite’ dell’uomo proveniente dal paradiso, cioè Cristo, che
perciò priva l’uomo della padronanza di sé o lo ‘espropria’ dall’interno). Cfr. J.-L.
Marion, Au lieu de soi? L’approche de Saint-Augustin, Presses Universitaires de
France, Paris 2008, p. 139 e sgg.
E. Balibar - Dall’antropologia filosofica all’ontologia sociale e ritorno 157

ne verticale tra la figura sovrana (Dio, o il Verbo di Dio, o l’Idea di Dio) e


il ‘soggetto’ individuale (Uomo, o meglio, un Uomo singolare, ‘ognuno’)
deve essere letta da entrambi i lati: come una creazione, un’ingiunzione,
un dono, una rivelazione derivante dal potere e dalla grazia di Dio, ed an-
che come una chiamata, una richiesta, un riconoscimento o un atto di fede
che esprime la dipendenza individuale del soggetto18. Ma dal punto di vi-
sta secolarizzato, antropologico, l’idea guida è spiazzata dal fatto che non
vi è più alcuna ‘verticalità’ o ‘sovranità’ che governa l’assoggettamento
dell’uomo (o la ‘soggettivazione’, come direbbero filosofi più recenti) ma
solo effetti di autorità (che può essere anche letta, criticamente, come do-
minazione) che sorgono dalle stesse rappresentazioni e attività umane. Un
buon esempio (in realtà, molto più di questo ) è la nozione kantiana di im-
perativo categorico che è interpretato anche come una ‘voce interiore’ della
ragione che esprime la dipendenza del soggetto umano da una comunità
morale di esseri razionali che lo rende autonomo o produce la sua ‘emanci-
pazione’ in virtù della sua essenziale universalità.
Marx sembra scartare questa genealogia quando obietta a Feuerbach
che la sua concezione dell’essenza umana come Gattung (genere) rimane
‘muta’ (stumme) è tenta di ‘relazionare’ o ‘unire’ (verbindende) la mol-
teplicità di individui (soggetti) solo attraverso un’universalità naturale.
Perché allora, avrebbe usato il termine ‘abitare’ al posto del semplice ‘in-
formare’ o ‘modellare’(bildend, formierend)? A parte le connotazioni teo-
logiche suggerite da Feuerbach stesso (a cui vengo sotto), potremmo pen-
sare ad un’altra interpretazione violentemente ironica (abbastanza vicina
al discorso critico della Questione ebraica), vale a dire all’idea che ciò
che ‘possiede’ dall’interno l’‘individuo astratto’ (o l’individuo individua-
lizzato) non è altro che l’‘idea della proprietà [privata]’, che nell’epoca del
materialismo [metafisico] borghese è stata sostituita a Dio come ‘interna
verità dell’uomo19.

18 Questa tipica unità di opposti è ben preservata nella trasposizione di Descartes


dell’argomento agostinaniano nel linguaggio dell’ontologia: «Io esisto con una
tale natura per cui possiedo un’idea di Dio nella mia mente», perciò come una
sostanza finita (o ‘essenza’) che ospita una sostanza infinita (o ‘essenza’). Cfr. il
mio commentario in «Ego sum, ego existo. Descartes au point d’hérésie», in Id.,
Citoyen Sujet et autres essais d’anthropologie philosophique, PUF, Paris 2011,
pp. 87-120.
19 Anziché Kant, ciò suggerisce di sottolineare un’altra forma secolarizzata della
verità che ‘abita’ l’individuo: quella proposta da John Locke nella sua teoria
dell’identità personale: i soggetti che «own themselves» separatamente sono
isolati perché ciò che li rende esseri umani identici non è solo il potere di un’«i-
dea astratta» (proprietà privata), ma il potere dell’idea di ‘astrazione’ stessa.
158 Il transindividuale

2. La proposizione positiva: «Nella sua realtà è l’insieme delle relazioni


sociali»

Il momento decisivo è naturalmente il prossimo, quando Marx, dall’in-


dicare ciò che l’‘essenza umana’ non può essere, giunge a definire ciò che
realmente è, fornendo dunque alla critica un contenuto ed un orientamento
determinati. Tuttavia, come sappiamo dai commentari e dalle parafrasi, è
anche il luogo in cui la formulazione di Marx risulta ambigua o si apre
a interpretazioni contraddittorie. Non dimenticando che queste sono note
personali ‘improvvisate’ (ma anche che hanno il dono di una certa ‘geniali-
tà’, come suggerito da Engels, o nei termini di Benjamin, hanno la qualità
di un’‘illuminazione’)20, possiamo tentare di fare chiarezza sul punto in
questione traendo il massimo beneficio dalla scrittura stessa.
Un primo punto da esaminare è il valore semantico dell’opposizione «In
seiner Wirklichkeit», tradotto con «nella sua realtà». Una interpretazione
debole la legge semplicemente come se marcasse un capovolgimento: la-
sciando da parte ciò che l’essenza umana era solo in una rappresentazione
speculativa-immaginaria-astratta proposta da filosofi come Locke, Kant e
Feuerbach, dunque erroneamente, indicheremo ora ciò che realmente è.
‘Realmente’ significa ‘veramente’ o ‘fedeli ai fatti’ [true to the facts], come
piace dire ai logici. Tuttavia, in un contesto post-hegeliano, sembra consi-
gliabile prendere in considerazione la differenza logica tra ‘realtà’ (Rea-
lität) e ‘realtà effettuale’ (o ‘effettualità’) (Wirklichkeit), e ciò significa non
solo indicare ciò che l’essenza umana effettivamente è, o ciò che diviene
quando è ‘effettuale’ (cioè prodotta come risultato di ‘operazioni’ materiali
e storiche, che è il punto sui cui Marx insiste continuamente nelle Tesi,
ricorrendo a concetti come Tätigkeit e Praxis), ma anche più di questo:
ciò che identifica l’‘essenza’ con una effettualità o un ‘processo attuale’. Il
concetto di essere/essenza non è nient’altro che il concetto di un’attività/
processo, o di una praxis21. Questa è una interpretazione ‘più forte’, ma
credo che possa essere resa ancora più convincente suggerendo che l’‘ef-

Questo è una lettura assai acuta della logica dell’‘ontologia’ che possiamo
chiamare, dopo C.B. MacPherson, ‘individualismo possessivo’. Cfr. il mio sag-
gio «My Self, my Own. Variations sur Locke», in Id., Citoyen Sujet, cit., pp.
121-154.
20 È naturalmente affascinante cercare degli echi tra le marxiane Tesi su Feuerbach e
le Tesi sul concetto di storia (1941) di Benjamin, che consapevolmente cerca di se-
guirne la traccia (dunque propone un’interpretazione che è una trasformazione!).
21 È anche su questo punto che i testi quasi-contemporanei, in particolare la Sacra
famiglia, pagano un esplicito tributo a Hegel.
E. Balibar - Dall’antropologia filosofica all’ontologia sociale e ritorno 159

fettualità’ che riguarda allo stesso tempo l’essenza umana e il concetto di


essere/essenza (Wesen) deve essere anche intesa come la sua Aufhebung
dialettica o realizzazione-negazione. Dunque ciò che ha di mira la critica
non è solamente un’‘astratta’ rappresentazione dell’essenza umana, è in-
vece la nozione di ‘essenza umana’ stessa come ‘astrazione’. Althusser ha
ragione su questo punto, ma è Bloch che ci fornisce la chiave rapportando
in modo sistematico l’invenzione della categoria di praxis nelle Tesi all’a-
forisma contemporaneo secondo cui la «filosofia deve realizzarsi» (ver-
wirklicht), ma non può realizzarsi (o divenire ‘reale’) senza essere anche
‘negata’ (aufgehoben) come ‘filosofia’ – e viceversa: la filosofia non può
essere negata senza essere realizzata22. Il mio personale contributo a ciò è
semplicemente il seguente: nel contesto della Tesi 6, la forma tipica di ‘filo-
sofia’ o di discorso filosofico è precisamente l’antropologia. Il che ci con-
duce a questa conclusione: l’antropologia come figura discorsiva (o, come
Althusser direbbe, ‘problematica’) deve essere negata-realizzata (aufgeho-
ben e verwirklicht), e dato che ‘essenza/essere umano’ (das menschliche
Wesen) è la categoria da cui deriva la possibilità stessa di un’antropologia
filosofica, deve essere anch’essa negata-realizzata. Ma il concetto che cri-
stallizza questa operazione dialettica è «l’insieme delle relazioni sociali»:
dobbiamo interpretarlo da questo punto di vista, cominciando con ‘relazio-
ni sociali’ (gesellschaftlichen Verhältnisse).
È importante tenere a mente qui un triplice fatto filologico: 1) che le
formulazioni di Marx sono situate storicamente sulla scia di un evento
fondamentale della storia delle idee (che riguarda tanto la filosofia quanto
la politica), cioè l’‘invenzione’ delle ‘relazioni sociali’ (come concetto,
originariamente in francese: les rapports sociaux)23; 2) che ‘relazione’

22 Questo aforisma è particolarmente insistente nel saggio di Marx del 1844 (pubbli-
cato nei Deutsch-Französische Jahrbücher), «Un’introduzione alla Critica della
filosofia del diritto hegeliana», in cui das Proletariat è usato per la prima volta
per nominare il ‘soggetto’ rivoluzionario (cfr. il mio saggio: «Le moment mes-
sianique de Marx», in Id., Citoyen Sujet, cit., pp. 243-264). È interessante notare
che, prendendo a prestito nuovamente dalla tradizione teologica che abita come
uno spettro le Tesi, le due nozioni di Verwirklichung (realizzazione) e Verweltli-
chung (secolarizzazione, letteralmente divenire-mondo) sono usate da Marx come
quasi-sinonimi.
23 Questo è un punto importante a cui sono state dedicate molte discussioni. For-
nisco qui una sola indicazione: P. Macherey, «Aux sources des rapports sociaux»,
in Genèse, n° 9, octobre 1992. Macherey evidenzia l’importanza dell’opera di
Louis de Bonald (un conservatore), François Guizot (un liberale) e del conte Clau-
de de Saint-Simon (un socialista la cui influenza sulla formazione intellettuale di
Marx può difficilmente essere sottovalutata).
160 Il transindividuale

dipende da un paradigma complesso, mai completamente traducibile (il


tedesco Verhältnis e il francese rapport hanno in parte aree semantiche
differenti), il cui uso filosofico suscita immediatamente i problemi delle
opposizioni di attivo versus passivo, soggettivo versus oggettivo, interno
versus esterno (che Kant ha chiamato l’«anfibolia della riflessione»); 3)
che ogni discussione della formulazione marxiana implicante die gesell-
schaftlichen Verhältnisse (che assegnano loro una funzione ‘essenziale’)
è inevitabilmente polarizzata dai successivi usi di Marx di Produktion-
sverhältnisse (‘ relazioni di produzione’, e le conseguenti ‘relazioni’ eco-
nomiche e non economiche derivate) e Klassenverhältnisse (‘relazioni di
classe’, con la conseguente descrizione del loro carattere ‘antagonistico’
ed il loro comportare differenti forme di ‘dominazione’ sociale): tuttavia,
ciò che colpisce nelle Tesi è l’assenza di questa più precisa determinazio-
ne, è il fatto che la categoria di ‘relazione’ rimane ad un livello indeter-
minato, con la sola eccezione dell’attributo ‘sociale’. La questione per i
lettori marxisti era perciò inevitabilmente posta, se cioè essi dovessero
leggere le ‘relazioni sociali’ come implicitamente dirette verso una nozio-
ne (materialista storica) della funzione determinante della produzione e
delle lotte di classe nella storia umana, o dovessero associare le Tesi con
una nozione (potenzialmente più generale o generica) di ‘relazione’ che a
sua volta tradirebbe una continuità con la tradizione dell’antropologia fi-
losofica (nella sua stessa ‘realizzazione’ o ‘secolarizzazione), o aprirebbe
la possibilità di una più ampia ontologia (sociale) basata sull’equivalenza
categoriale delle due nozioni chiave (relazione e praxis, o trasformazio-
ne). Tutte queste questioni sono naturalmente connesse e posso chiarifi-
carle qui solo parzialmente.
Per cominciare, una relation in inglese tende ad indicare una situazione
oggettiva laddove una relationship indica specificamente una relazione
tra persone che ha una dimensione soggettiva. Ma ‘relation’ ha anche un
significato logico e ontologico (secondo cui le relazioni sono opposte ai
termini o sostanze). Il francese distingue tra relation (che comunemente
significa una persona a cui ci si relaziona) e rapport, che significa sia una
proporzione che una struttura oggettiva, ma può anche essere usato per
indicare un rapporto attivo fra persone, come in rapport sexuel e anche in
rapport social (in particolare nel senso di un rapporto che ha luogo in un
contesto ‘sociale’ o segue ‘regole sociali’). Il tedesco Beziehung è riser-
vato ai contesti logici ma anche per qualificare l’attitudine di una persona
nei confronti di un’altra, laddove Verhältnis essenzialmente significa una
proporzione quantitativa o una correlazione istituzionale di situazioni (la
formula hegeliana e marxiana: Herrschafts- und Knechtschaftsverhält-
E. Balibar - Dall’antropologia filosofica all’ontologia sociale e ritorno 161

nis, una relazione di dominazione e servitù/sudditanza). Tutti questi ter-


mini si sovrappongono in parte, ma ogni volta in un modo differente.
Infine è importante richiamare il fatto che ognuna delle tre lingue ha un
altro termine di applicazione molto ampia, specialmente nel primo perio-
do moderno, vale a dire commerce in francese, intercourse in inglese o
Verkehr in tedesco.
All’inizio del XIX secolo sulla scia della rivoluzione industriale e del-
la rivoluzione francese, che hanno totalmente trasformato la percezione
e il discorso della politica, una generazione di storici e sociologi (come
diremmo oggi con uno sguardo retrospettivo) – soprattutto francesi – ha
inventato il concetto di ‘società’ in un senso nuovo, che andò al di là della
classica nozione di associazione/politica civile, o di regole normative per
l’educazione e l’interazione di individui con differenti status, per indicare
un sistema o una totalità, le cui trasformazioni e istituzioni conferiscono
sì ruoli agli individui (e danno forma o provocano i loro sentimenti e le
loro idee), ma seguendo determinate leggi oggettive o rivelando tendenze
che non sono riducibili alle intenzioni individuali. È in questo quadro ge-
nerale che i conflitti furono combattuti tra le neonate ‘ideologie’, tipiche
dell’epoca post-rivoluzionaria (come ‘conservatorismo’, ‘liberalismo’ e
‘socialismo’) e che l’idea di una nuova ‘scienza’ chiamata sociologia è
nata24. La nozione chiave per le ideologie politiche e il discorso sociolo-
gico era precisamente quella di rapporto sociale, cioè una distribuzione
di ruoli e schemi di interazione tra individui e gruppi marcati da recipro-
cità o dominazione, che dipende dalla costruzione (o ‘fabbrica’) della so-
cietà in un modo ‘organico’ e che caratterizza la sua differenza con altre
nella storia e nella geografia (quindi portando al centro le questioni della
trasformazione e della comparazione nelle scienze sociali)
Non c’è dubbio che questa svolta espistemologica ha anche affinità con
la nozione hegeliana di ‘spirito oggettivo’ e di ‘società civile’ (bürgerli-
che Gesellschaft), al cui interno il concetto fenomenologico hegeliano di

24 Cfr. I. Wallerstein, Unthinking Social Science. The Limits of Nineteenth Century


Paradigms, Second edition with a New preface, Temple University Press, Phila-
delphia 2001. Una nozione chiave analitica – forse la sola centrale – che nasce
dalla costituzione della sociologia, era la nozione di individualismo (introdotta
per la prima volta in Francia da Tocqueville) come distinto dall’egoismo mora-
le, per descrivere un comportamento di persone che sono separate dalla propria
affiliazione sociale (gruppi di status, famiglia, confessioni religiose), che natural-
mente le differenti ideologie hanno valutato in modo differente. Nella Questione
ebraica (1844) Marx osserva l’uso di ‘egoismo’, ma in un senso che è piuttosto
simile a ‘individualismo’, cioè a contraddizione tra le condizioni sociali e il loro
proprio risultato.
162 Il transindividuale

‘riconoscimento’ (Anerkennung) viene integrato come un momento sog-


gettivo (o meglio: inter-soggettivo) per dar conto della tensione perma-
nente di individualità e istituzione nella storia. Tuttavia una differenza
importante è che le nozioni hegeliane sono più ‘deduttive’ (o addirittura
speculative, a dispetto del loro importante contenuto empirico, come è
testimoniato dalla lettura hegeliana della storia sociale di Montesquieu
o dell’economia politica di Adam Smith o della scuola storica del dirit-
to), poiché sono assegnate a priori per giustificare una costruzione della
monarchia costituzionale borghese come il compimento storico della ‘ra-
zionalità’ in politica. E non c’è nemmeno dubbio che – nelle Tesi su Feu-
erbach e nell’opera immediatamente seguente (scritta con Engels e Moses
Hess), l’Ideologia tedesca, in cui il concetto ‘francese’ di rapport social, è
tradotto e pluralizzato come die gesellschaftlichen Verhältnisse, Marx sta
cominciando a offrire il suo proprio contributo a questo mutamento epi-
stemico, combinando una prospettiva ‘comunista’ di trasformazione radi-
cale con un modo specificamente ‘dialettico’ di analizzare i conflitti come
forze immanenti dello sviluppo e del mutamento delle strutture sociali che
storicamente ‘inquadrano’ il carattere umano.
È la modalità specifica di questo contributo nelle Tesi che ci interessa
qui. È allo stesso tempo esso stesso molto speculativo (anche quando
viene attaccata ferocemente la speculazione ‘filosofica’) e (come ho già
notato) largamente indeterminato – che significa anche che molti sviluppi
potenziali rimangono latenti nelle formulazioni. È stato certamente inevi-
tabile che, provando a superare la pura speculazione (o un’astratta critica
dell’astrazione), Marx abbia avuto bisogno di ridurre l’indeterminazio-
ne dei suoi concetti. Come sappiamo (e la più parte dei commentatori
concordano) ciò è già in fase avanzata nell’Ideologia tedesca (a cui mi
capiterà di fare riferimento ancora). Ma per comprendere perché le Tesi
hanno prodotto una tale eco in filosofia e restano un testo chiave se vo-
gliamo ‘problematizzare’ il pensiero e le scelte di Marx, dobbiamo fare
attenzione a ciò che è già lì, il ‘materialismo storico’ che sta arrivando,
e a ciò che ancora differisce dai suoi assiomi. Io credo che due elemen-
ti hanno soprattutto importanza qui: uno è l’articolazione dei due attri-
buti ‘umano’ (menschlich) e ‘sociale’ (gesellschaftlich), l’altro è l’uso
enigmatico di un Fremdwort (francese) per nominare la somma totale
(o l’effetto combinato) delle relazioni sociali equivalente ad una nuova
definizione dell’essenza umana: das ensemble der g.V., dal momento che
così tante categorie sarebbero state disponibili all’interno della tradizione
filosofica tedesca.
E. Balibar - Dall’antropologia filosofica all’ontologia sociale e ritorno 163

Sarebbe una traccia utile discutere ogni singolo uso delle parole ‘umano’
e ‘sociale’ nelle Tesi. Per brevità mi concentrerò sulle implicazioni della
Tesi 10 nella sua relazione con la questione antropologica:
Il punto di vista del vecchio materialismo è la società borghese (die bürgerliche
Gesellschaft); il punto di vista del nuovo è la società umana (die menschliche Ge-
sellschaft) o l’umanità sociale (die gesellschaftliche Menschheit).

Di nuovo troviamo qui una di quelle belle formulazioni simmetriche che


Marx era capace di inventare, così difficili da interpretare! Le ‘correzio-
ni’ di Engels sono rivelatrici, perché portano in primo piano un contenuto
politico che è solo latente, ma con il rischio di rendere confuse le implica-
zioni analitiche. A quanto pare, era preoccupato che l’equazione die men-
schliche Gesellschaft = die gesellschaftliche Menscheit equivalesse ad una
tautologia. Perciò introdusse un contenuto più esplicitamente ‘socialista’
trasformando il secondo in die vergesellschaftete Menschheit, l’umanità
socializzata – intendendo una società (o un ‘mondo’) in cui gli individui
non sono più separati dalle loro proprie condizioni collettive di esistenza,
dunque forzati in una forma ‘astratta’ di esistenza, che paradossalmente
rende l’individualismo la forma ‘normale’ della vita sociale, ‘alienando’
gli esseri umani in quanto isolati dalle relazioni con gli altri da cui dipen-
de la loro vita ‘pratica’ (o dando a quelle relazioni una forma coercitiva,
inumana), una ‘separazione’ che conduce ad una ‘lacerazione del Sé’ –
Selbstzerrissenheit, proprio quell’alienazione che i sentimenti comunitari
e religiosi cercherebbero di curare nell’immaginario (Tesi 4). Per comple-
tare questa chiarificazione, Engels mette anche le virgolette all’aggettivo
nell’espressione ‘bürgerliche’ Gesellschaft, modo per indicare che il ter-
mine ha conservato il valore tecnico che aveva nella filosofia hegeliana (la
più parte delle volte tradotto oggi come ‘società civile’, come opposto di
‘Stato’ o ‘società politica’), ma anche per suggerire che la società civile ha
un carattere borghese, in cui le relazioni sociali sono dominate dalla logica
della proprietà privata, generando individualismo ed una forma di società
alienata. L’intero argomento allora diviene esplicito: ‘il Materialismo anti-
co’ (a cui Feuerbach ancora appartiene) non sarà capace di superare l’alie-
nazione che denuncia ad alta voce, poiché è ancora una filosofia borghese
che assume un individuo ‘naturalmente’ separato dagli altri (o riferito se-
paratamente all’essenza dell’‘umano’), laddove un ‘nuovo Materialismo’
– le cui categorie chiave sono le ‘relazioni sociali’ costituenti l’umano e la
praxis o una trasformazione pratica già all’opera in ogni forma di socie-
tà – è capace di spiegare come l’umanità ritorni alla sua essenza (o al suo
essere autentico) riconoscendo (non negando, reprimendo, contraddicen-
164 Il transindividuale

do) la propria determinazione ‘sociale’. In altri termini l’umano è sempre


stato ‘sociale’ dal punto di vista delle sue condizioni materiali (o non è
mai consistito in nient’altro che nelle ‘relazioni sociali’ in sé), ma era per
sé lacerato e alienato, contraddicendo questa essenza nella sua ideologia e
nelle sue istituzioni, con la moderna società ‘civile-borghese’ che spinge le
contraddizione all’estremo. Ed è ora necessario che la contraddizione sia
risolta con la società eliminando praticamente i suoi propri ‘prodotti’ alie-
nati e riconciliandosi con se stessa – in altri termini pienamente ‘umano’ e
realmente ‘sociale’.
Questa è una lettura del tutto compatibile con alcune delle più esplicite
affermazioni di Marx a proposito dei vari gradi dell’emancipazione umana
come erano enunciati nei suoi scritti dello stesso periodo, in cui è proposta
una ‘dialettica’ del rovesciamento dell’alienazione (la separazione degli
esseri umani dalla loro propria essenza)25. Ma risolve in modo troppo sem-
plice le tensioni filosofiche implicate nel permanente duplice uso in Marx
(quid pro quo) dei nomi ‘umano’ e ‘sociale’, derivante dalla distribuzione
dei loro usi morali (o etici) e del loro significato storico (o descrittivo) in
categorie differenti, trasformando dunque la forte dimensione performati-
va degli scritti di Marx (che è anche al centro del suo ‘umanesimo pratico’
o ‘umanesimo reale’) in un sillogismo politico. Laddove Marx stava di
fatto suggerendo che una autentica relazione dei soggetti al proprio es-
sere/essenza (Wesen) avrebbe inevitabilmente trasformato la nostra inter-
pretazione di ciò che significa essere (un) ‘uomo’, perché rivelerebbe che
l’umano è essenzialmente ‘sociale’, ed il ‘sociale’ è allo stesso tempo una
condizione di possibilità per ogni vita individuale (o ‘l’uomo è un’animale
sociale’ come è stato ratificato dalla tradizione post-aristotelica) ed una
realizzazione ideale delle aspirazione etiche dell’uomo (in altri termini una
forma di vita ‘comunista’), Engels suggerisce ora che un processo di socia-

25 Di estrema importanza sotto questo aspetto sono le elaborazioni nella Questione


ebraica (1844), un saggio che è celebre per la sua critica della distinzione ‘astrat-
ta’ di ‘diritti dell’uomo’ e diritti del cittadino come un’espressione della riduzione
borghese dell’‘uomo’ alla proprietà privata che possiede l’individuo (che include
la nozione lockiana del «proprietor in one’s person»). Così come l’‘emancipazio-
ne religiosa’ che libera l’individuo dal suo assoggettamento ad un immaginario
potere trascendente non è ancora ‘emancipazione politica’ che garantisce per
l’eguaglianza giuridica e la libertà di ogni individuo (all’interno dei limiti dello
Stato-Nazione), l’emancipazione politica (benché sia un progresso nella storia
dell’umanità) non è ancora l’‘emancipazione sociale’ che libera gli individui dal
loro isolamento alienato e dalle leggi di ferro della competizione che fanno di
ciascuno un ‘lupo’ per l’altro. Ed è solo un’emancipazione sociale che può essere
considerata un’‘emancipazione umana’ in senso pieno.
E. Balibar - Dall’antropologia filosofica all’ontologia sociale e ritorno 165

lizzazione sta avendo luogo nella storia in modo che emergano le condizio-
ni in cui è possibile trasformare la ‘natura umana’ in un modo rivoluziona-
rio. Ma questa ridistribuzione dei lati storico ed etico della due categorie
tra i regni complementari di ‘fini’ e ‘significati’ ha anche il risultato di
immettere nelle formulazioni marxiane una ‘ontologia sociale’ che non vi
è necessariamente (o non è letteralmente presente). E, come conseguenza,
nel ridurre l’indeterminazione delle affermazioni di Marx, riduce le loro
potenzialità26. Possiamo trovare una conferma che questa riduzione abbia
avuto luogo se esaminiamo l’altro effetto stilistico enigmatico in questa
parte di Tesi 6, vale a dire l’uso della parola francese ensemble.
Sostengo che non possiamo semplicemente spiegarlo in un modo ‘de-
bole’, facendo riferimento a circostanze e condizioni di scrittura: il fat-
to che Marx (che comunque scriveva e parlava correntemente francese)
stava vivendo a Parigi al tempo, e inserisse in modo abbastanza natura-
le delle parole francesi nelle sue note personali quando gli venivano in
mente più rapidamente dei concetti tedeschi (ha fatto la stessa cosa più
tardi con l’inglese). Questo può essere vero, ma offusca il fatto che cer-
te opposizioni semantiche cruciali sono qui in gioco. In effetti ensemble,
un termine provocatoriamente ‘neutrale’ o ‘minimale’, ha senso se lo ve-
diamo come un’alternativa a nozioni speculative , che sono centrali nella
dialettica hegeliana (ma anche nel discorso ‘sociologico’ emergente, con la
sua ossessione di ‘organicità), come das Ganze, die Ganzheit (o Totalität),
o die gesamten (gesellschaftlichen Verhältnisse), cioè il tutto, la totalità
(organica delle relazioni sociali). Ciò che Marx sta qui evitando con cura è

26 Ciò che permette a Engels (prima di molti marxisti) di fare questa rettifica è na-
turalmente il fatto che è divenuto familiare con il più tardo ‘materialismo storico’
e le analisi delle relazioni di produzione con le loro contraddizioni interne, come
spiegate nel Capitale: dato che è lì che Marx descriverebbe la struttura della
produzione materiale (incluso lo sfruttamento e la dominazione di classe) come
una matrice che genera trasformazioni nel carattere storico della specie umana, e
afferma che il capitalismo fa assegnamento su un più alto grado di ‘socializzazio-
ne’ (Vergesellschaftung) del processo lavorativo (cooperazione, industrializza-
zione, educazione politecnica) che deve essere incompatibile con le norme della
proprietà privata. Un’interessante formulazione intermedia è offerta nell’Ideo-
logia tedesca dove Marx afferma con forza la funzione determinante del lavoro
nel ‘produrre’ la ‘natura’ umana, mettendo sullo stesso piano lo sviluppo delle
forze produttive con una successione di modalità nella divisione del lavoro che
genera prima la proprietà privata, poi il comunismo (definito, come è noto, come
«il movimento reale che abolisce/supera – aufhebt – lo stato di cose esistente»),
ma non usa il termine tecnico ‘relazioni di produzione’ e ‘modi di produzione’.
Invece fa un ampio uso dei termini: Verkehr e Verkehrsformen: commercio e le
sue forme.
166 Il transindividuale

una categoria che indichi completezza, proprio nel momento in cui sembra
seguire esattamente il movimento hegeliano che privilegia la ‘concreta uni-
versalità’ contro l’‘astrazione’ (dato che il concreto e il completo in Hegel
sono sinonimi)27. Dunque si sta allontanando da Hegel nel momento in cui
gli si avvicina di più. Per mettere la cosa in modo più provocatorio, è come
se Marx stesse capovolgendo la scelta hegeliana per il «buon (o reale) infi-
nito» (che significa un infinito che è integrato nella forma di una totalità) in
favore del «cattivo infinito» (un infinito che è solo indefinito, identico con
una mera addizione o successione di termini, che rimane aperto). Questa
ipotesi è supportata da una singola sintomatica parola, ma ha il grande in-
teresse di rendere possibile combinare tutti gli elementi logici, ontologici e
anche onto-teologici in una singola operazione.
Io credo che possano essere attribuite tre connotazioni positive all’appa-
rentemente negativa preferenza per das ensemble al posto di das Ganze, in
altre parole l’uso di un Fremdwort che performativamente decostruisce l’ef-
fetto-totalizzazione o (per prendere a prestito per un momento il linguaggio
di Sartre) indica che la ‘nuova’ categoria di essere/essenza (Wesen) funziona
solo come una ‘totalità detotalizzata’ (o forse persino come una ‘totalità
auto-de-totalizzante’). La prima è una connotazione di orizzontalità: le ‘re-
lazioni sociali’ interagiscono o interferiscono l’una con l’altra, ma non de-
vono venire gerarchizzate verticalmente (con alcune relazioni che sono più
decisive, o più essenzialmente umane, ed un tipo di relazione che determina
le altre ‘in ultima istanza’)28. La seconda è una connotazione di indefini-
tezza o serialità, che significa che le relazioni sociali che sono costitutive
dell’umano formano una rete che rimane aperta, e che per esse non c’è né
una chiusura concettuale (dunque non una demarcazione a priori o empirica
tra ciò che è umano e ciò che non lo è), né una chiusura storica (dunque non
ascrive limiti allo sviluppo delle relazioni/attività sociali che aprono nuove

27 Si pensi all’aforisma nella prefazione della Fenomenologia dello spirito: «das


Wahre ist das Ganze» (il vero è la stessa cosa del tutto, verità e totalità sono
sinonimi).
28 Rinviamo alle precisazioni di Michel Foucault nelle Parole e le cose (1966): le
definizioni antropologiche dell’essenza umana nel XIX secolo, dopo la rivoluzio-
ne kantiana che ne recide la dipendenza teologica e conferisce loro una ‘finitudine
costitutiva’, sono in relazione con tre categorie ‘quasi-trascendentali’: ‘lavoro’,
‘linguaggio’ e ‘vita’. È largamente ammesso (anche da Foucault stesso) che il
paradigma marxiano sceglie la prima possibilità quando giunge a formulare la
domanda antropologica (che è esattamente ciò che la Arendt è altri hanno rimpro-
verato a Marx: di aver scelto una definizione dell’uomo come animal laborans).
Ma ciò che affrontiamo qui sono le modalità, le esitazioni e le sospensioni di
questa ‘scelta’.
E. Balibar - Dall’antropologia filosofica all’ontologia sociale e ritorno 167

possibilità per l’umano, siano esse costruttive o anche distruttive). Infine


possiamo evocare una connotazione di molteplicità nel senso forte, cioè di
eterogeneità: non solo vi sono di fatto molteplici ‘relazioni sociali’ che ‘for-
mano’ l’umano, ma dipendono da molti domini differenti, differenti generi
(o come direbbe Bloch, esse formano un multiversum), e non da uno solo
che conferirebbe ad esse la qualità ‘umana’. Di conseguenza non è come
nella polis aristotelica, con cui la concezione marxiana sembra condividere
così tanti assiomi ‘anti-individualistici’, in cui vi è una molteplicità di rela-
zioni sociali, simmetriche o dissimmetriche, ma sempre attribuite all’umano
in virtù dell’uso del linguaggio (o discorso: logos): è piuttosto come nella
metafisica di Aristotele, in cui differenti ed eterogenei generi di essere cono
chiamati così per analogia, distributivamente, ma non sono emanazioni di
un supremo genere univoco che sarebbe l’‘Essere in quanto tale’.
Se assumiamo queste connotazioni insieme (e evitando con cura di im-
porre ad un livello più generale qualcosa come un ‘insieme di insiemi’),
possiamo infine capire perché la critica interna della stessa nozione di ‘es-
senza’, la dissoluzione di astratte rappresentazioni dell’Umano (o nozioni
‘umaniste’ ereditate dalla tradizione metafisica e fatte proprie da filosofi
borghesi per riconciliare l’individualismo economico con nozioni politi-
che e morali di comunità), e un uso contraddittorio del concetto hegelia-
no di ‘realtà effettuale’ sono imbricati in questo modo complesso. Scrivere
che «nella sua realtà (Wirklichkeit) l’essere/essenza umana (Wesen) non è
un’astrazione che abita l’individuo singolo/singolare/isolato, ma l’ensem-
ble (aperto, indeterminato) delle relazioni sociali» è un atto performativo
che simultaneamente trasforma il significato di tutti i termini chiave che
usa. Nella misura in cui il termine ‘essenza’ viene applicato in un modo
‘materialista’ al problema antropologico acquista anche un paradossale si-
gnificato (anti)ontologico per mezzo di cui i suoi effetti riconosciuti sono
capovolti: invece di ‘unificare’ e ‘totalizzare’ una molteplicità di attributi,
apre ora una indefinita gamma di metamorfosi (o trasformazioni) nella mi-
sura in cui gli individui sono essenzialmente ‘modi’ (come direbbe Spinoza)
delle relazioni sociali che essi producono attivamente, o attraverso cui in-
teragiscono collettivamente con altri e con le ‘condizioni’ naturali. Questa
critica rivela che può esservi una singola alternativa alle apparentemente
antitetiche nozioni di individualità e soggettività ereditate dalla metafisica
Occidentale – una alternativa che si ripromette di non creare nuove figure
dell’‘essere supremo’
168 Il transindividuale

3. La biforcazione: ‘ontologie’ e ‘antropologie’ rivali

Traendo lezione da queste considerazioni filologiche e semantiche e ri-


tornando alla difficoltà centrale che concerne una relazione ‘trasformativa’
o ‘performativa’ del pensiero di Marx (e le scelte concettuali espresse at-
traverso le parole) al problema dell’‘antropologia’, per cui testimoniano
interpretazioni antitetiche nella storia del marxismo, riassumerei le mie
congetture nel modo seguente:

a) Non c’è modo per discutere le tensioni nell’idea di un’antropologia


filosofica, e le sue relazioni ad un ideale di ‘umanesimo’, senza inserirla in
una questione ontologica, che di fatto ci forza, non solo a collocare il dibat-
tito sull’antropologia nel suo immediato contesto moderno, o ‘borghese’,
ma anche a ritornare al più ampio dominio della ‘storia della metafisica’,
delle sue ‘rivoluzioni’ e problematica ‘fine’. Ho suggerito la stessa cosa
nel passato proponendo che la ‘prima’ filosofia materialista di Marx sia da
riferire ad un’‘ontologia della relazione’, in cui la nozione fondamenta-
le non è quella di ‘individualità’ ma di ‘transindividualità’ (o un concetto
dell’individuo che include sempre-già le sue relazioni a – o dipendenza
da – altri individui)29.
Ma poi può sorgere una ambiguità pericolosa. Potremmo credere che –
proprio come, per Bloch ed altri, ciò che distingue l’invenzione di Marx
non è una rozza soppressione del problema antropologico, ma il suo essere
traferito dalle astrazioni borghesi/metafisiche a determinazioni storico-so-
ciali – tutto il problema abbia a che fare con l’invenzione di una ontologia
sociale. Possiamo vedere ora che si tratta di una formulazione ambigua.
Può significare che stiamo ‘ontologizzando il sociale’, che a sua volta si-
gnifica o che la ‘società’ come un tutto (un sistema, un organismo, una rete,
uno sviluppo…) è istallata nel posto dell’‘essere’, o che l’emergenza del

29 Cfr. la mia Filosofia di Marx, Manifestolibri, Roma 1994, capitolo 2. Su questa


base ho proposto anche una discussione sulle affinità tra Marx e, specificamente,
Spinoza e Freud (con tutte le loro differenze). Altri nomi possono essere natu-
ralmente aggiunti, se è vero che è difficile trovare un grande filosofo a cui la
questione della transindividualità non si è presentata, e che non considera, al-
meno ipoteticamente, la possibilità di pensare le ‘relazioni’, e non i ‘termini’ o
le ‘sostanze’, come le categorie fondamentali della comprensione del reale. Nel
suo estremamente istruttivo commentario delle Tesi su Feurbach (Marx 1845,
Editions Amsterdam, Paris 2008, pp. 137-160), Pierre Macherey ha lavorato su
questa idea proponendo una tesi secondo cui Marx trasformerebbe un’‘essenza’
in una ‘non-essenza’, cosa che mi sembra del tutto compatibile con ciò che ho
provato a spiegare in questo articolo.
E. Balibar - Dall’antropologia filosofica all’ontologia sociale e ritorno 169

sociale (come opposto del biologico, dello psicologico etc.) è ‘essenzial-


mente’ attribuito a qualche istanza quasi-trascendentale, che ha una qualità
‘socializzante’ (come linguaggio, o lavoro, o sessualità, o anche ‘il comu-
ne’, ‘il politico’). O, forzando le rappresentazioni anteriori, potrebbe signi-
ficare che stiamo ‘socializzando l’ontologia’: non nel senso di sottoporre
l’ontologia a qualche preesistente principio sociale più fondamentale (cosa
non molto differente dall’installare la ‘Società’ dove abitualmente stava
‘Dio’ nella metafisica classica), ma nel senso di ‘tradurre’ ogni domanda
ontologica (per es. individuazione/individualizzazione, l’articolazione di
‘parti’ e ‘tutto’, l’imbricazione di passato, presente e futuro etc.) in una
domanda ‘sociale’ nel senso più generale, quelle circa le condizioni o rela-
zioni che impediscono all’individuo umano la possibilità dell’isolamento,
quali che siano la ‘materia’ o la ‘sostanza’ e le modalità o funzioni di queste
relazioni. ‘Relazionarsi’ e ‘essere in relazione a’ sarebbe quindi considerata
l’impronta fondamentale dell’umano.
Questo era a dire il vero quello che avevo in mente quando, alcuni
anni fa, ho interpretato in questo senso l’affermazione marxiana: «nella
sua realtà, l’essenza/essere umano è l’insieme delle relazioni sociali». Ma
qualcosa di disturbante rimane da chiarire, vale a dire il fatto che, ancora
una volta, siamo stati forzati a far uso dell’aggettivo ‘umano’ proprio nella
formulazione che revoca l’‘umanesimo’ dai nostri discorsi, cioè impedisce
ogni possibilità di identificare/definire ‘l’umano’ prima della (sempre in-
completa) scoperta della molteplicità degli altri modi di ‘relazionare esseri
umani’, o ‘relazionare un essere umano’. Io vedo una sola possibilità di su-
perare questa difficoltà: trarre le conclusioni in modo radicale dal fatto che
l’‘umano’ (o ‘uomini’ nella lingua classica) esiste solo al plurale. Questo
non solo per dire che una pluralità fatta di singolarità irriducibili (o ‘per-
sone’) è una condizione originaria dell’essere umano (tesi della Arendt),
forse nemmeno solo che la ‘moltitudine’ è la figura originaria dell’esisten-
za nella società e nella storia (tesi di Negri), ma che le relazioni sociali in
senso forte sono quelle che, tenendo insieme gli esseri umani o impedendo
il loro ‘isolamento’, fanno anche la loro irriducibile differenza, in parti-
colare distribuendoli tra varie ‘classi’ – che non significa dire che queste
distribuzioni sono stabili o eterne o coerenti tra di loro30. In altri termini le

30 Vi sono alcune importanti affinità tra questa formulazione e ciò che Maurice
Blanchot, in un noto saggio molto sintetico, non senza relazione con la sua quasi
contemporanea meditazione sulle «parole di Marx», chiama le rapport du troi-
sième genre («il rapporto di terzo genere/tipo») (in L’entretien infini, Gallimard,
Paris 1969, pp. 94-105), in cui si trova l’equazione: «L’homme, c’est-à-dire les
hommes» (l’uomo, cioè gli uomini). Ritornerò altrove su questa comparazione.
170 Il transindividuale

‘relazioni sociali’ sono sempre internamente determinate come differenze,


trasformazioni, contraddizioni e conflitti, che sono sufficientemente radi-
cali per lasciare solo l’eterogeneità che essi creano come ‘il comune’ (o
in una terminologia filosofica più gergale: l’essere-con o Mitsein) senza
cui gli individui ‘relazionandosi’ l’un l’altro ritornerebbero all’isolamento
essenziale, o all’‘individualismo’ ontologico31. Ma questo non è veramente
differente dall’affermare che le relazioni sociali sono ‘pratiche’ (o l’es-
senza della società è praxis, come Marx ha potentemente enunciato nelle
Tesi), in altri termini le caratteristiche distintive delle relazioni (ed anche la
ragione per cui, ad un secondo grado, esse devono essere articolate l’una
all’altra o si influenzano l’un l’altra senza essere fuse in un unico ‘tutto’)
sono il modo in cui esse rendono possibile per alcuni ‘individui’, ‘gruppi’,
‘parti’ (o anche partiti) di trasformare altri, essendo trasformati da altri,
e forse alla fine di trasformare la modalità della relazione stessa. Come
Marx suggeriva, ‘relazione’ e ‘praxis’ divengono dei termini strettamen-
te correlativi (ed il secondo non è meno metamorfico o veränderbar del
primo…) non appena una nozione di ‘realtà effettuale’ è recisa dall’ideale
(teologico, spirituale) di ‘completezza’, per essere associata con uno sche-
ma di ‘infinità aperta’32.

b) Ma un’ancora più grande anfibolia ‘abita’ un tale tentativo di identi-


ficare come dobbiamo intendere l’operazione filosoficamente sovversiva
nella ri-definizione/de-costruzione di Marx dell’‘essenza umana’: è l’anfi-
bolia circa l’interpretare le relazioni e il loro intrinseco processo di ‘trasfor-
mazione’ (o mutamento: Veränderung nella terminologia delle Tesi) come
‘esterno’ o ‘interno’, inscritto in una distribuzione (mutevole) di condizioni

31 Questo spiega anche, a mio vedere, perché è insufficiente mettere in relazione il


primate delle ‘relazioni sociali’ con l’emergenza di un’antropologia storica (o,
per questa posta in gioco, culturale): perché una tale antropologia (il cui prati-
camente insuperabile prototipo risiede nella descrizione hegeliana delle ‘epoche’
della storia mondiale come costruzioni di successive idee ‘spirituali’ dell’umano)
relativizza solo (cronologicamente, geograficamente) la validità di qualsivoglia
definizione dell’‘essenza umana’, ma non rimuove assolutamente il fatto che una
tale definizione deve essere comune a ognuno nella società considerata, o subor-
dinare al suo interno tutte le opposizioni e le differenze.
32 Nel libello Eléments d’autocritique (Hachette Littérature, Paris 1974) Althusser
attribuisce a Spinoza «l’aver inventato, pressoché solo nella storia della filosofia,
la nozione di totalità senza chiusura». Non sembrava essere al corrente del fatto
che una simile distinzione costituiva il nucleo del capolavoro di Emmanuel Lévi-
nas, Totalité et infini. Essai sur l’extériorité (1961), che aveva anch’esso di mira
l’eredità hegeliana in filosofia.
E. Balibar - Dall’antropologia filosofica all’ontologia sociale e ritorno 171

e di forze, o in uno sforzo decisivo (forse solo una deviazione) dei soggetti
che li costituisce in creatori delle loro proprie relazioni33. Questa a dire il
vero è una discussione molta antica in filosofia. Ciò che qui ci interessa
sono le ragioni per cui tali aporie che sembrano rinviarci alla ‘metafisica’
non cessano mai di ritornare all’interno di un discorso ‘dialettico’ che, in
principio, ha esposto il loro carattere puramente ‘astratto’ (prima, in Hegel,
ma anche in Marx). Molti brillanti discorsi ‘marxisti’ sono stati elaborati
per risolvere filosoficamente il dilemma dell’esternalità versus l’internalità,
per trasporre su un piano differente la nozione hegeliana di soggettivazione
come interiorizzazione dialettica delle relazioni interne. Basti pensare sem-
plicemente (in direzioni opposte) alla nozione ultra-hegeliana di Lukács
del Proletariato come un ‘soggetto-oggetto’ della storia, la cui coscienza di
classe implica la negazione della ‘totalità’ delle relazioni sociali già trasfor-
mate dal capitalismo in relazioni mercantili, dunque un capovolgimento
attivo e immanente di queste stesse relazioni ‘reificate’.34 O la proposta
‘spinozista’ di Althusser (e radicalmente anti-hegeliana) che lo stesso pro-
cesso storico ‘surdeterminato’ potrebbe essere analizzato nei termini delle
sue condizioni ‘esterne’ oggettive e necessarie così come nei termini delle
sue azioni o capacità di agire intrinseci ‘aleatori’ e transindividuali (che
egli chiama ‘incontri’) 35. In questa notazione conclusiva voglio solo de-
scrivere come l’anfibolia affiori nel ‘momento’ delle Tesi (e dell’Ideologia
tedesca, in breve nel 1845).
Io credo che le aporie nel testo di Marx siano interessanti non solo come
oggetto per i ‘marxologi’ ma perché formano un episodio tutto nuovo della
antica controversia sulla possibilità (o impossibilità) delle ‘relazioni inter-
ne’, che in un certo senso (da Platone a Russell…) raddoppia la controversia
tra nominalisti e realisti a proposito degli ‘universali’. Hegel, a dire il vero,
è un esempio privilegiato di un filosofo che non solo difende l’idea che le
‘relazioni interne’ (cioè le relazioni che non stanno solo legando in un modo
contingente, o dall’esterno, ‘termini’ come individui o sostanze che riman-

33 Prendo la categoria di «anfibolia» nel senso stretto in cui è usata da Kant in quella
che è forse la più notevole elaborazione della Critica della ragion pura, l’«Anfi-
bolia dei concetti della riflessione», ma presuppongo che si possa applicare non
solo ai casi elencati da Kant (unità contro diversità, adeguazione contro inadegua-
zione, materia contro forma), ma anche ad altri, che contano in special modo in
domini pratici: attività contro passività, soggettivo contro oggettivo ecc.
34 G. Lukács, Storia e coscienza di classe (1923).
35 Condenso indicazioni dal ‘primo’ e dal ‘secondo’ Althusser, che certamente non
sono completamente incompatibili: cfr. E. de Ipola, Althusser, el infinito adiós, Si-
glo XXI, Buenos Aires 2007, e W. Montag, Philosophy’s Perpetual War. Althusser
and His Contemporaries, Duke University Press, Durham and London 2012.
172 Il transindividuale

gono indipendenti dalle loro relazioni, ma sono rispecchiate nella costitu-


zione o disposizione dei loro stessi supporti) esistono36, ma della idea assai
più forte che le relazioni sono ‘reali’ solo se sono, precisamente, interne o
internalizzate. Che, nel suo caso, può solo significare che sono relazioni
‘spirituali’, o sono divenute momenti nello sviluppo del Geist (oggettivo),
cioè sono realizzate nella forma di istituzioni storiche dotate della coscienza
del loro valore culturale, della loro funzione politica etc. Come criticare que-
sta costruzione ‘spiritualistica’ (ed anche teleologica) dell’internalità delle
relazioni senza ritornare semplicemente a ciò che essa era intenzionata a su-
perare, vale a dire una rappresentazione meccanicistica e naturalistica delle
relazioni esterne (cioè essenzialmente relazioni non-soggettive) per mezzo
di cui i termini che fungono da supporto (siano essi ‘individui’, ‘nazioni’,
‘culture’, ‘classi’ etc.) sono passivi e autonomizzati dal loro elemento ‘co-
mune’? Ma anche: perché evitare il privilegio dell’esternalità (spazio, ma-
teria, disseminazione, contingenza…) che precisamente ogni spiritualismo
aborre e ogni materialismo a contrario rivendica e prova a costruire dentro
la sua propria concezione di ‘capacità di agire [agency]’ o persino di ‘sog-
gettività’? Perché ‘l’essere soggetto’ dovrebbe equivalere ad ‘interiorità’37.
Se proiettiamo queste interrogazioni sulla nostra lettura della Tesi di
Marx della Wirklichkeit dell’‘ensemble’ delle relazioni sociali, mi sembra
che ciò che scopriamo è una permanente oscillazione tra due possibilità di
‘interpretazione’, una più ‘esternalista’, la seconda più ‘internalista’, ben-
ché mai interamente separate. Un modo di leggere l’‘ensemble’ lo identifica
con ciò che più tardi si intenderà con una struttura, dunque insistendo sul
fatto logico che i processi di soggettivazione che accompagnano la pas-
sività o il divenire attivo (anche rivoluzionario) degli agenti sociali sono
interdipendenti, e formalmente dipendenti dalle relazioni che formano le
loro ‘condizioni’ (per esempio, i movimenti anti-capitalistici sono dipen-
denti dalle trasformazioni del capitalismo che influenzano le loro ideologie
o coscienze, le loro forme di organizzazione etc.). Ma un’altra via di lettura
è quella di riprendere il grande modello hegeliano dell’intersoggettività o

36 Un esempio classico della discussione concerne la questione della paternità: la


‘paternità’ connota una relazione ‘esterna’ tra individui che viene poi socialmente
riconosciuta come ‘padre’ e ‘figlio’, o una qualità ‘interna’ di ognuno (come risul-
tato della loro storia personale, inclusa la nascita ecc.) e a proposito della ‘madre’?
o ‘figlio’ e ‘figlia’?
37 Di sicuro c’è una terza tradizionale possibilità per superare questo tipo di anfi-
bolia: invocando un concetto di ‘vita’ generalizzato (o organicità, sistema ecc.).
Noto solo qui che il concetto classico di ‘vita organica’ tende a preservare l’inte-
riorità a spese della psicologia, della coscienza, della soggettività.
E. Balibar - Dall’antropologia filosofica all’ontologia sociale e ritorno 173

‘riconoscimento conflittuale’ (come esposto fondamentalmente nella dialet-


tica Servo-Signore della Fenomenologia): questo modello sfugge ad ogni
rischio di ontologizzare la relazione nella forma di una struttura astratta e
formale che domina dall’alto le azioni di soggetti storici, perché suggerisce
che le dimensioni istituzionali delle relazioni sociali sono essenzialmente
cristallizzazioni o materializzazioni della dissimmetria che influenza la per-
cezione dell’altro per ogni soggetto (per esempio, la reciproca incapacità
del signore e del servo di ‘percepire’ ciò che rende la visione del mondo
dell’altro irriducibile alla propria: sacrificando la vita per il ‘prestigio’ o col-
tivando il lavoro come un valore progressivo), ma produce anche l’illusione
che, in un dato conflitto sociale, qualcosa che abbia luogo all’insaputa dei
soggetti coscienti (o che resti bewusstlos, come la mette Hegel) può in ulti-
ma istanza venire reintegrato o ‘interiorizzato’ nella coscienza in modo tale
che soggettività antagoniste (o semplicemente differenti) siano immagini
speculari di un solo ‘spirito’. In una terminologia differente, potremmo dire
che vi è un elemento di ‘transindividualità’ in ognuna di queste possibilità.
È molto interessante vedere che, nell’Ideologia tedesca, la cui scrittura
accompagna la concezione delle Tesi su Feuerbach o le segue immedia-
tamente, Marx prova a ‘mediare’ l’anfibolia dell’interpretazione interna o
esterna della categoria di ‘relazione sociale’ (o la sua fluttuazione in dire-
zione di una struttura oggettiva o in direzione di una pura intersoggettivi-
tà) attraverso un pressoché ubiquo uso del termine Verkehr (‘commercio’
o ‘rapporto’) che può essere letto da entrambi gli angoli (o in entrambi i
registri). Presto, tuttavia, la dualità ritornerà con differenti modi di spiega-
re l’alienazione che caratterizza le relazioni all’interno del capitalismo (e
più in generale la società borghese)38: come un’estraneazione dei soggetti
dal loro proprio ‘mondo’ collettivo, o come un lacerarsi di quel mondo in
mondi della vita antitetici, uno utilitaristico e individualistico e uno imma-
ginario e comunitario (la spiegazione che è chiaramente privilegiata dagli
aforismi nelle Tesi nel descrive l’ideologico come ‘duplicazione’ del mondo
sociale), o con un modello maggiormente strategico di dominazione, con-
flitto e scontro politico tra ‘classi’ (che il Capitale chiama Herrschafts- und
Knechtschaftsverhältnis come relazione politica che ‘direttamente’ sorge
dall’‘immediato antagonismo’ nel processo di produzione tra lavoratori

38 E ci si lasci notare di passaggio che il termine francese o inglese ‘alienation’ rende


due concetti tedeschi usati da Hegel e da Marx: Entäusserung o ‘esternalizzazio-
ne’, proiezione ‘fuori di sé’, e Entfremdung o ‘estraneamento’, sudditanza ad un
‘potere alieno’, al potere dell’altro.
174 Il transindividuale

sfruttati e proprietari dei mezzi di produzione)39. In entrambi i casi, tuttavia,


la molteplicità iniziale (ed eterogeneità) delle ‘relazioni sociali’ è stata sus-
sunta sotto (e di fatto ridotta a) l’assoluto privilegio delle relazioni di lavoro,
che riporta in auge un’‘ontologia sociale’ poiché conferisce al solo ‘lavoro’
la capacità di ‘socializzare’ realmente i soggetti in una ‘divisione del lavo-
ro’, e tende a rappresentare la società come un ‘organismo produttivo’, per
quanto complesso possa essere concepito il sistema delle altre istanze (più
tardi chiamate ‘sovrastrutture’, Überbau) che derivano dalla funzione mate-
riale del lavoro, o che lo ricoprono ideologicamente. L’alienazione sociale in
tutte le sue forme (psicologica, religiosa, artistica…) è essenzialmente uno
sviluppo dell’alienazione del lavoro. Ed il conflitto politico è essenzialmente
un antagonismo tra classi che sono classi lavoratrici o classi proprietarie che
vivono del lavoro di altri uomini, come il Manifesto afferma senza indugio.

c) Marx dopo il momento fuggitivo delle Tesi ha probabilmente avuto


ragioni molto buone per completare questa riduzione antropologica al la-
voro alienato con l’ontologizzazione dell’affermazione indeterminata nel-
la Tesi 6 sull’‘essenza umana’ (e ancora una volta ci si lasci ripetere che
questo non è tanto un ‘tradimento’ della radicalità filosofica espressa dagli
aforismi del 1845 quanto una continuazione, in una congiuntura data, della
rischiosa speculazione che queste avevano iniziato): c’era l’enorme esten-
sione dei fenomeni sociali, che vanno dalla vita di ogni giorno sino alle tra-
sformazioni costituzionali dello Stato e le nuove forme di politica di massa,
prodotte dalla rivoluzione industriale e dall’ascesa del capitalismo – che
probabilmente erano persino più decisive nella loro forma negativa, vale
a dire l’imperativo ‘materialista’ di contrastare la soppressione borghese
del ruolo sociale attivo dei lavoratori e delle classi operaie, e la negazio-
ne intellettuale delle forze e attività ‘produttive’. Senza questa equazione
unilateralmente asserita da Marx (relazioni sociali = relazioni di produzio-
ne, o loro conseguenze) dovremmo forse ancora identificare una ‘società’
con uno spirito o una cultura, o un regime politico… Tuttavia, dobbiamo
misurare pienamente le conseguenze antropologiche (sono tentato di dire
il prezzo antropologico) implicato in questa riduzione (prima di tutto nel
senso di una ‘riduzione di complessità’).
Forse il modo migliore per misurarlo, all’interno di una discussione
sulle Tesi su Feuerbach, è indicare quali conseguenze deformanti produ-
ce sulla lettura e sull’interpretazione di Feuerbach stesso. La principale

39 K. Marx, Il Capitale, libro III, capitol 47, sulla «Genesi della rendita fondiaria
capitalistica».
E. Balibar - Dall’antropologia filosofica all’ontologia sociale e ritorno 175

obiezione di Marx contro Feuerbach nelle Tesi e che quella sua concezione
di materialità/sensibilità (Sinnlichkeit) resta ‘astratta’ o ‘inattiva’ (cosa che
curiosamente significa allo stesso tempo che manca allo stesso tempo una
dimensione ‘soggettiva’ e ‘oggettiva’: cfr. Tesi 1). Di conseguenza Feuer-
bach starebbe sussumendo singoli esseri umani sotto un’essenza umana
che è solo un’idea, per quanto fosse proclamata ‘concreta’ o ‘empirica’.
Al contrario, il materialismo proprio a Marx identifica le relazioni sociali
con l’attività (Tätigkeit), ma questa attività diventerebbe omnicomprensiva
quando (nel passo successivo) fosse definita come un continuo processo
collettivo che è sia poivhsi" che pra`xi$, che varia dalle attività produttive
elementari alle insurrezioni rivoluzionarie e fa del lavoratore collettivo qua
lavoratore/produttore un potenziale rivoluzionario (e per converso, il sog-
getto rivoluzionario un conscio, organizzato e indomito lavoratore) Questa
è la base della grande narrazione comunista. Ma è una lettura corretta di
Feuerbach? Nient’affatto e per una buona ragione: non si potrebbe dire sen-
za qualificazione che il concetto di Feuerbach di essenza umana si riferisce
solo ad una «astratta nozione di genere» in cui la dimensione relazionale
è assente (e che per questa ragione immagina che il genere separatamen-
te ‘abiti’ ogni individuo, conferendogli una qualità ‘umana’ nella stessa
maniera). Il genere (Gattung) di Feuerbach è esso stesso profondamente
relazionale, perché è concepito nei termini di un ‘dialogo’ tra soggetti di-
stinti come ‘Io’ e ‘Tu’. Ciò che resta problematico naturalmente è se il tipo
di ‘relazionalità’ dialogica che, secondo Feuerbach, è inerente all’essenza
umana, possa essere chiamata ‘sociale’. Probabilmente è esistenziale più
che sociale. Ma, a sua volta, non vi è un rischio che la negazione di Marx
che ciò che Feuerbach chiama una ‘relazione’ (una Beziehung più che una
Verhältnis) abbia un carattere ‘sociale’ nasca dalla sua arbitraria decisione
di identificare certe relazioni e pratiche (connesse alla produzione ed al la-
voro) come relazioni sociali e pratiche socializzanti a spese di tutte le altre?
Più in specifico. La Tesi 4 è una buona guida qui: nell’Essenza del cristia-
nesimo Feuerbach ‘demistifica’ i misteri della teologia riducendo le nozioni
teologiche (per cominciare, il concetto di Dio) a nozioni antropologiche e a
«realtà umane». Ma più precisamente è alle prese con una interpretazione del
dogma cristiano della Trinità nei termini di una duplice trasposizione: una
trasposizione dell’istituzione ‘terrena’ della famiglia nell’immagine ideale
della ‘Sacra Famiglia’, seguita da una trasposizione della Sacra Famiglia
stessa (come una comunità immaginaria) in una più speculativa comunica-
zione delle ‘persone’ divine (hypostases) che si ipotizza siano Una in Tre
(cioè pienamente ‘riconciliate’) – il Padre, il Figlio (il Verbo incarnato) e lo
Spirito, al posto del Padre, del Figlio e della (vergine) Madre. Da qui non è
176 Il transindividuale

lunga la via per spiegare che il ‘segreto’ della teologia cristiana è una proie-
zione delle relazioni sessuali tra gli uomini (segnata dal desiderio, dall’amo-
re imperfetto, dal piacere dei sensi) in un ideale amore perfetto (che celebri
passaggi della Bibbia identificano schiettamente con ‘Dio’)40. Con questa
dottrina noi vediamo un’altra possibilità di interpretare un’affermazione qua-
le «L’essenza umana non è un’astrazione … nella sua realtà è l’insieme delle
relazioni (sociali)», che non sarebbe diretta contro Feuerbach, ma piuttosto
sosterrebbe la sua posizione: suggerirebbe che ciò che ‘abita’ gli individui e li
rende ‘umani’ è la relazione sessuale con le sue dimensioni affettive (amore)
e le sue realizzazioni istituzionali (famiglia). Perciò essi sono costituiti nelle
e dalle relazioni. Questo è anche un modo di enfatizzare un Verkehr (nel
senso di ‘commercio’) come struttura produttiva-riproduttiva dell’umano41.
Cosa potrebbe obiettare Marx a questa possibile difesa feuerbachiana?
Probabilmente ciò che è latente nella Tesi 4 e leggermente più sviluppato
nell’Ideologia tedesca, vale a dire che la visione di Feuerbach della ‘fami-
glia terrena’ non è essa stessa molto ‘reale’, perché rimuove le contraddi-
zioni attraverso la sua enfasi (romantica) sull’‘amore’, anche se cerca ciò
nondimeno di collocare la fonte dell’‘alienazione’ nell’imperfezione o nella
finitudine della sessualità umana. Nell’Ideologia tedesca Marx (ed Engels)
spiegherà che la differenza sessuale (come una differenza di ‘tipi’ umani)
risulta da «una divisione sessuale del lavoro» (sic) tra uomini e donne. E nel
Manifesto del partito comunista (1847), prendendo l’argomento a prestito
dal criticismo ‘femminista’ saintsimoniano, spiegheranno che il matrimonio
e la famiglia borghese è una forma di «prostituzione legalizzata» (in perfetto
accordo con l’affermazione della Tesi 4 che la «contraddizione» inerente
alla «base» terrena della religione può essere risolta solo attraverso l’«anni-
chilazione teoretica e pratica della famiglia»). Questo è un argomento po-
tente che vale a spiegare che le nozioni ‘metafisiche’ dell’essenza umana

40 La frase dall’Epistola I di Giovanni: «Dio è amore» gioca un ruolo centrale nello


sviluppo mistico del Cristianesimo così come nelle interpretazioni ‘antropologi-
che’ della cristianità sino a Spinoza: le due influenze convergono in Hegel che
trasforma la frase in una equivalenza simmetrica (Gott ist Liebe, die Liebe ist
Gott) (cfr. il mio «Ich, das Wir, und Wir, das Ich ist. Le mot de l’esprit», in Id.,
Citoyen Sujet, cit., pp. 209-241.
41 Val la pena ricordare la prossimità etimologica del termine tedesco per tipo o
genere: Gattung, con il termine ‘sposi’, ‘marito’ e ‘moglie’: Gatte/Gattin, usa-
to ampiamente da Hegel per ricacciare la sessulità nella dimensione ‘animale’
dell’uomo, e da Feuerbach per sottolineare la dimensione ‘tipicamente umana’
della sessualità, che un discorso spiritualista esprime per mezzo di eufemismi
e sublima. Su tutto ciò cfr. Ph. Sabot, «L’anthropologie comme philosophie.
L’homme de la religion et la religion de l’Homme selon Ludwig Feuerbach», cit.
E. Balibar - Dall’antropologia filosofica all’ontologia sociale e ritorno 177

non sono solo ereditate da un passato ideologico, ma sono permanentemen-


te ricostituite attraverso i processi che ‘sublimano’ le contraddizioni sociali
di tutti i tipi. Ma conferma anche la tendenza marxiana ad eliminare alcune
delle potenzialità della sua ‘tesi’, al fine di non ‘aprire’ l’‘ensemble’ delle re-
lazioni sociali nella direzione di una illimitata variazione di modi eterogenei
di socializzazione (dunque anche modi di soggettivazione), ma di reinstau-
rare una quasi-trascendentale equivalenza del ‘sociale’ (e del ‘pratico’) con
l’attributo specificamente (essenzialmente) umano del ‘lavoro’ (e opera). È
attraverso una rivoluzione nella divisione del lavoro che gli agenti umani
potrebbero trasformare le loro proprie relazioni costitutive (che li rendono
umani), non attraverso una ‘rivoluzione’ in una qualsiasi delle relazioni su-
bordinate e accidentali che formano così tanti campi di applicazione per la
stessa generale divisione del lavoro. E, in questo modo, i poteri dell’Uno
(unità, uniformità, totalità) sono imposti con ancora maggior forza, poiché
essi divengono i poteri stessi del novum, dell’emancipazione a venire42.

[Traduzione dall’inglese di Vittorio Morfino]

42 Il riferimento a fonti saintsimoniane è cruciale dal punto di vista storico (ben-


ché la critica del matrimonio borghese come «prostituzione legale» in ultima
istanza derivi dalle prime femministe come Mary Wollstonecraft) ma soprattutto
dal punto di vista politico e teorico. Come sappiamo non vi è nulla di semplice
nell’applicare un solo concetto di ‘relazione sociale’, ‘movimento sociale’, ‘po-
litica emancipativa’ tanto all’emancipazione delle donne dal patriarcato quanto
all’emancipazione degli operai dal capitalismo, cosa che nondimeno ha formato
il nucleo del socialismo ‘utopistico’ saintsimoniano e di altre dottrine romantiche.
È una difficoltà anche a proposito della storicità come è chiaramente mostrato
dalle frasi d’apertura del Manifesto del partito comunista, dove Marx ed Engels
prendono a prestito una lista di successive ‘dominazioni di classe’ direttamente
dall’Exposition de la Doctrine saint-simonienne (1929), ma eliminano «la do-
minazione degli uomini sulle donne» dalla lista, forse a causa dei loro pregiudizi
maschilisti, ma anche perché non c’è alcun modo in cui questa altra forma di
sfruttamento-dominazione possa essere inserita nella successione cronologica che
conduce dalle ‘comunità primitive’ fino al capitalismo e al comunismo, seguendo
le trasformazioni del regime di proprietà; cfr. E. Balibar, F. Duroux, R. Rossanda,
Comunismo e femminismo, Einaudi, Torino (in corso di pubblicazione).
179

VITTORIO MORFINO
L’ENJEU MARX FREUD
IL TRANSINDIVIDUALE TRA GOLDMANN
E ALTHUSSER

1. Lo strutturalismo genetico e il transindividuale

Se il concetto di transindividuale, nella sua accezione negativa, si pone


come una netta istanza di rifiuto della tradizione individualistica, non è
possibile non rilevare il largo uso che in questo senso ne ha fatto, nei suoi
ultimi scritti, Lucien Goldmann. In realtà in questi non si trova una vera
e propria definizione del concetto di transindividuale, una teorizzazione
del transindividuale, e tuttavia le occorrenze del termine ricorrono in un
sistema di relazioni teoriche perfettamente definito1. A partire da esso è
possibile tracciare la teoria goldmaniana del transindividuale.
Goldmann definisce la sua posizione filosofica, attraverso un termine
«preso a prestito da Jean Piaget»2, come strutturalismo genetico, nelle cui
fila arruola Hegel, Marx, Freud e il Lukács di Storia e coscienza di classe,
oltre naturalmente a Piaget stesso. Egli oppone questo strutturalismo tanto
alla tradizione del soggetto, che va da Descartes a Sartre, quanto ai teorici
strutturalisti, che negano l’esistenza del soggetto, del tempo e della storia.
L’ipotesi fondamentale dello strutturalismo genetico consiste nel ritenere
che ogni comportamento umano abbia il carattere di una struttura signifi-
cativa che il ricercatore deve evidenziare. Questa posizione rigorosamente
monista, strutturalista, genetica, che, come detto, è apparsa per la prima vol-

1 La prima occorrenza del termine ‘transindividuale’ si trova in Pour une sociologie


du roman, Gallimard, Paris 1964, p. 32. Negli anni successivi il termine ricorre
con una certa frequenza sotto la penna di Goldmann; cfr. in particolare Marxisme
et sciences humaines (Gallimard, Paris 1970) ed il postumo Lukács et Heidegger
(Denoël, Paris 1973). Anche nel resoconto di un dibattito seguito ad una confe-
renza di Foucault su «Qu’est-ce un auteur?» troviamo un ampio uso in Goldmann
della categoria di ‘transindividuale’ (cfr. M. Foucault, Dits et écrits. 1954-1988,
vol. 1, Gallimard, Paris 1994, pp. 812-820). In Théorie de la création litteraire,
Denoël / Gonthier, Paris 1971, Goldmann dedica un intero capitolo al transindivi-
duale: «Pensée dialectique et sujet transindividuel» (pp. 121-154).
2 L. Goldmann, «Jean Paul Sartre: ‘Question de méthode’», in Id., Marxisme et
sciences humaines, cit., p. 246 (dove non diversamente indicato, la tr. it. è mia).
180 Il transindividuale

ta con Hegel e Marx, vede una sua seconda tappa fondamentale in Freud,
«prima elaborazione rigorosa di uno strutturalismo genetico nel campo della
psicologia individuale»3. Tuttavia Freud non ha condotto sino in fondo la sua
rivoluzione metodologica, poiché, spiegando ogni stato presente a partire da
uno stato passato, ha rinunciato ad introdurre «nella sua visione una dimen-
sione essenziale per ogni strutturalismo genetico: quella dell’avvenire»4.
Questo strutturalismo rifiuta il dualismo individuo-società:

[…] non c’è società al di fuori degli individui che la costituiscono, né in-
dividui estranei ad ogni forma di vita sociale, ma l’ipotesi fondamentale dello
strutturalismo genetico esige [implique] che ogni fenomeno appartenga ad un
numero più o meno grande di strutture di livelli differenti, o, per utilizzare un
termine che preferisco, di totalità relative, e che ha, all’interno di ognuna di
queste totalità, un significato particolare5.

Dunque il compito che Goldmann affida allo strutturalismo genetico è


quello di stabilire il carattere delle strutture specifiche nei diversi settori
della realtà in generale e della realtà umana in particolare, rifiutando ra-
dicalmente il dualismo tra comprensione e spiegazione e affermando la
necessità d’entrambe: la prima al livello della descrizione di una struttura
significativa, la seconda al livello della conoscenza della relazione fun-
zionale del significato di questa struttura rispetto al comportamento di un
soggetto.
I comportamenti umani sono frammenti di senso che si rivelano signi-
ficativi se integrati nell’insieme di cui sono parte, in una totalità relativa
più vasta. Tuttavia è possibile integrare l’oggetto a più strutture differenti e
soprattutto le strutture non sono permanenti ma costituiscono «il risultato
[aboutissement] di una genesi»6. Dunque, scrive Goldmann,

sarebbe […] più esatto dire che la realtà sociale e storica in un momento dato si
presenta sempre come una mescolanza estremamente complessa [une mélange
extrêmement enchevêtré] non di strutture, ma di processi di strutturazione e
destrutturazione il cui studio non avrà un carattere scientifico che il giorno in
cui i principali tra questi processi saranno stati colti con sufficiente rigore7.

3 L. Goldmann, «Genèse et structure», ivi, p. 24.


4 Ivi, p. 24.
5 Ivi, p. 26.
6 L. Goldamann, «Le sujet de la création culturelle», ivi, p. 97.
7 Ivi, p. 85.
V. Morfino - L’enjeu Marx Freud 181

Questi processi di strutturazione e destrutturazione conoscono degli


istanti privilegiati «che corrispondono al passaggio da una vecchia ad una
nuova struttura»8. Rispetto all’intelligibilità di questi processi è secondo
Goldmann fondamentale stabilire la questione del soggetto, questione de-
cisiva per tutto il campo delle scienze umane. Come detto, lo strutturalismo
genetico si oppone in modo deciso alla tradizione del soggetto individuale,
ed è precisamente a questo livello e per sottolineare questa opposizione che
troviamo ripetutamente il termine transindividuale:

Mi sembra – scrive Goldmann – che questo concetto di soggetto collettivo


o, più precisamente, transindividuale separi nettamente il pensiero marxista
da ogni altra filosofia. Poiché da Descartes a Sartre, passando per Locke,
Hume, il pensiero illuministico, Kant e Husserl, per citare solo qualche nome,
noi troviamo sino ad oggi l’idea di soggetto individuale al centro di ogni set-
tore del pensiero filosofico. D’altra parte, nelle filosofie meccaniciste si esige
[implique] – e nell’infatuazione contemporanea per lo strutturalismo perfino
lo si proclama – la negazione del soggetto. Resta – è vero – Hegel presso
cui troviamo un soggetto transindividuale: «la sostanza come soggetto». Ma
malgrado alcune analisi particolari degne di nota, questa sostanza, lo Spirito,
resta una nozione speculativa molto generale, e come tale, priva di precisio-
ne. È solo nel pensiero di Marx che il soggetto storico diverrà una realtà em-
pirica che si deve cogliere e studiare in ogni caso particolare. Aggiungiamo
che per ogni processo o fatto storico il soggetto transindividuale non è dato
in maniera immediata e che è sempre necessaria una ricerca sufficientemente
lunga e difficile per metterlo in luce9.

In particolare la posizione di un soggetto transindividuale permette di


svuotare completamente una distinzione fondamentale della filosofia mo-
derna, quella di soggetto empirico e di soggetto trascendentale. Il concetto
di soggetto trascendentale è

nato dalla necessità di conciliare l’affermazione secondo cui è l’uomo che co-
struisce il mondo e soprattutto le categorie che strutturano la percezione ed il
pensiero scientifico con il fatto che l’io empirico non ha con ogni evidenza co-
struito né il mondo che ha di fronte a lui né le categorie scientifiche e percettive
attraverso cui lo coglie. Si giunge così a questo mostro che si suppone crei le
strutture della conoscenza con l’aiuto delle quali il soggetto coglie un mondo
che gli è estraneo e opposto. Se sostituiamo il soggetto empirico con i soggetti
collettivi, questa costruzione diventa inutile: sono in effetti i gruppi umani em-
pirici che hanno realmente costruito le case, tracciato le strade, sviluppato le

8 L. Goldmann, «Pour un approche marxiste à l’histoire du marxisme», ivi, p. 121.


9 L. Goldmann, «Pouvoir et humanisme», ivi, pp. 330-331.
182 Il transindividuale

industrie ed allo stesso tempo creato le istituzioni sociali, lo Stato e le categorie


mentali con l’aiuto delle quali i membri di questi gruppi percepiscono queste
realtà e ne elaborano la teoria10.

Tuttavia quello che Goldmann chiama strutturalismo genetico non si


occupa solo dei soggetti transindividuali. Uno spazio riservato allo stu-
dio del soggetto individuale permane, lo spazio della psicoanalisi, e, più
in specifico, di quella che Freud chiama libido e che tuttavia non spiega
mai il senso delle creazioni storico-culturali, poiché «non si potrebbe
ridurre al desiderio individuale il significato d’alcuna opera d’arte di va-
lore, d’alcun pensiero filosofico autentico e d’alcuna creazione storica
in generale»11. Tuttavia, anche a livello dei concetti fondamentali della
psicoanalisi, non è possibile mettere del tutto tra parentesi il soggetto
transindividuale poiché

se si può senza difficoltà ammettere il carattere puramente individuale dell’Es,


le cose non vanno allo stesso modo con l’Io. Freud vede in esso la lotta tra
l’Es e il Super-Io che egli considerava sempre come una unità. In realtà que-
sto Super-Io il cui conflitto con l’Es contribuisce alla costituzione dell’Io è un
mescolanza [mélange] di strutturazioni differenti dovute al fatto che ogni indi-
viduo appartiene ad un gran numero di gruppi: nazioni, classi sociali, famiglie,
cerchie di amici, gruppi professionali, classi scolastiche ecc.12

Si può dunque produrre una conoscenza scientifica del soggetto indivi-


duale solo su un piano pulsionale, sul piano dell’Es, perché il piano dell’Io
e del Super Io appartengono invece alla conoscenza scientifica del soggetto
transindividuale:

La vera opposizione non è, come pensava Freud, tra le pulsioni dell’Es, sog-
getto individuale a predominanza inconscia e biologica, e le pulsioni dell’Io,
soggetto individuale anch’esso ma a predominanza cosciente e socializzata.
Essa è situata invece tra le pulsioni dell’Es e quelle che strutturano la coscienza
di un essere che, pur restando biologicamente un individuo, rappresenta solo,
in quanto essere cosciente e socializzato, un elemento parziale di un soggetto
che lo trascende13.

10 Ivi, p. 334.
11 L. Goldmann, «Critique et dogmatisme dans la création littéraire», ivi, p. 39.
12 L. Goldmann, «Pouvoir et humanisme», ivi, p. 328.
13 L. Goldmann, «Le sujet de la création culturelle», ivi, p. 103.
V. Morfino - L’enjeu Marx Freud 183

2. L’ontologia del transindividuale

Ma veniamo alla teoria goldmaniana del soggetto transindividuale.


Come abbiamo detto, essa è costruita con materiale filosofico proveniente
dalla tradizione Hegel / Marx (Le Tesi su Feuerbach) / Lukács (Storia e co-
scienza di classe) ed in particolare di alcune posizioni filosofiche espresse
all’interno di questa tradizione:
1) La tesi hegeliana dell’identità del soggetto e dell’oggetto del pensiero.
2) La tesi marxiana dell’unità della teoria e della pratica, del carattere pra-
tico di ogni fatto umano, e della «circolarità del soggetto e dell’oggetto,
delle condizioni sociali e dell’attività umana»14.
3) Infine, quanto al contributo di Lukács, «l’introduzione [nelle scienze so-
ciali] della categoria di totalità, l’affermazione dell’impossibilità di se-
parare i giudizi di fatto dai giudizi di valore e soprattutto l’introduzione
nelle scienze sociali del principale concetto operativo [opératoire] del
pensiero dialettico, quello di coscienza possibile (zugerechnetes Bewusst-
sein), creano la possibilità di una sociologia dialettica positiva»15.
Questo è il tessuto di relazioni concettuali che sottende l’uso del termine
‘soggetto transindividuale’. Tuttavia con una serie di precisazioni. In pri-
mo luogo Goldamann ritiene che si debba attenuare la radicalità della tesi
hegeliana (che proviene dalla posizione idealista secondo cui ogni realtà è
spirito), «sostituendola con un’altra più conforme alla nostra posizione ma-
terialista dialettica – secondo cui il pensiero è un aspetto importante, ma un
aspetto solamente della realtà – parlando di identità parziale del soggetto
e dell’oggetto della ricerca, identità che vale non per ogni conoscenza, ma
solo per le scienze umane»16. In secondo luogo, rispetto alla tesi marxiana
espressa nelle Tesi su Feuerbach, che Goldmann vede confermata dalle
ricerche in laboratorio di Piaget, se va sottolineato che essa permette di
superare il dualismo che nasce dall’errore di prendere l’individuo come
soggetto della prassi, resta ancora troppo generale nella sua individuazio-
ne del ‘vero soggetto’ nella ‘collettività’, nella ‘specie umana’ e sarà più
tardi «concretizzata dalla sostituzione della collettività generica ancora
astratta con una realtà empirica ben altrimenti concreta, quella delle classi
sociali»17. In terzo luogo, rispetto ai concetti lukacciani, Goldmann precisa

14 L. Goldmann, «L’idéologie allemande et les Thèses sur Feuerbach», ivi, p. 176.


15 Ivi, p. 238.
16 L. Goldmann, «La sociologie de la littérature: statut et problèmes de méthode»,
ivi, p. 55.
17 L. Goldmann, «Philosophie et sociologie dans l’œuvre du jeune Marx. Contribu-
tion à l’étude du problème», ivi, p. 150.
184 Il transindividuale

che essi sono usati in modo circoscritto, presupponendo un’identità parzia-


le e storica del soggetto e dell’oggetto: ciò implica evidentemente il rifiuto
della coscienza di classe del proletariato come luogo infine raggiunto di
quest’identità e della trasparenza a sé della totalità.
Goldmann fa della VI tesi su Feuerbach il centro della sua costruzione
del concetto di soggetto transindividuale. In essa, nella definizione dell’es-
senza umana come ‘insieme dei rapporti sociali’, vi è l’individuazione reale
del soggetto del pensiero e della prassi contro la tradizione individualista:

Uno degli elementi essenzialmente nuovi apportati dal pensiero di Hegel in


relazione alla filosofia classica in tutte le sue forme (razionalismo, empirismo,
illuminismo) è stato la sostituzione del soggetto individuale, l’ego di Descartes
o degli empiristi, con un soggetto collettivo o quantomeno transindividuale [un
sujet collectif ou tout ou moins transindividuel]. Il progresso non meno impor-
tante che ha rappresentato in seguito il pensiero di Marx in relazione a quello di
Hegel è stato quello di dare uno statuto scientifico e positivo al soggetto tran-
sindividuale indicando ch’esso non consiste in una sorta di affermazione vaga,
ma che suppone ogni volta l’analisi concreta delle relazioni economiche, sociali,
intellettuali e affettive nelle quali si trovano vincolati [engagés] gli individui che
ne fanno parte, relazioni che, ben inteso, cambiano nel corso della storia. […]
L’essenza umana dice Marx, non è qualcosa di universale, una sorta di astrazio-
ne, un denominatore comune, la comprensione di una sorta di classe logica di
cui gli individui isolati costituirebbero l’estensione, ma l’insieme dei rapporti
sociali, nei quali si trovano vincolati [engagés] quegli individui, e ciò significa
un insieme di strutture di significato concrete, economiche, sociali, politiche,
intellettuali che si oppongono e sono incluse le une nelle altre18.

Per formulare la natura delle relazioni tra i soggetti individuali all’in-


terno del soggetto collettivo, del soggetto transindividuale, Goldmann co-
nia un neologismo, intrasubjectivité, allo scopo di evitare il vocabolario
dell’intersoggettività che pensa i soggetti individuali come dei soggetti
assoluti. Il soggetto transindividuale è costituito non da relazioni soggetto-
oggetto come nella libido, né da relazioni intersoggettive, ma da relazio-
ni «intra-soggettive, cioè da relazioni tra individui ognuno dei quali è un
elemento parziale del vero soggetto dell’azione»19. È qui si traccia la fon-
damentale distinzione tra il metodo psiconalitico e quello che Goldmann
chiama dialettico:

[…] se la libido, malgrado ogni suo sviluppo e le modificazioni apportate


dall’apparire della coscienza, della funzione simbolica e del linguaggio, resta

18 L. Goldmann, «L’idéologie allemande et les Thèses sur Feuerbach», ivi, p. 185.


19 L. Goldmann, «Le sujet de la création culturelle», ivi, p. 101.
V. Morfino - L’enjeu Marx Freud 185

sempre individuale, il comportamento che corrisponde al bisogno di dominare


la natura, migliorare le condizioni di vita, cambia completamente; con la co-
municazione ed il linguaggio si sviluppa, effettivamente, la possibilità di una
divisione del lavoro che reagisce a sua volta sulla funzione simbolica, e così via
– e ciò che Piaget ha chiamato lo choc en retour – generando qualcosa di inte-
ramente nuovo e sconosciuto. Si ha qui: il soggetto costituito da più individui20.

Ed ecco l’esemplificazione proposta da Goldmann:

Se […] io sollevo un tavolo molto pesante con il mio amico Jean, non sono
io che sollevo il tavolo e non è nemmeno Jean. Il soggetto di questa azione,
nel senso più rigoroso della parola, è costituito da Jean e da me (e, ben inte-
so, per altre azioni dovremmo aggiungere altri individui in numero molto più
ampio), ed è per questo che le relazioni tra Jean e me non sono delle relazioni
di soggetto-oggetto, come nel campo della libido, né delle relazioni intersog-
gettive, come pensano i filosofi individualisti che prendono gli individui per
dei soggetti assoluti, ma ciò che io proporrei di designare attraverso un neolo-
gismo, delle relazioni intrasoggettive […]. Ma, perché si possa sollevare il ta-
volo insieme, è necessario che lo si possa designare e designare tutta una serie
d’altre cose; è necessario dunque che vi sia un pensiero teorico. E anche tutto
ciò che sarà detto sul piano della teoria sarà, nella misura in cui resta legato al
comportamento che prende come oggetto il mondo ambiente naturale o altri
gruppi umani, un campo in cui il soggetto sarà transindividuale, e in cui ogni
comunicazione tra Jean e me riguardo al tavolo che stiamo sollevando resta una
comunicazione all’interno del soggetto, una comunicazione, abbiamo appena
detto, intra-soggettiva21.

Come detto, Goldmann ritiene fondamentale la definizione del soggetto


transindividuale per ogni ricerca nel campo delle scienze umane, poiché il
problema fondamentale rispetto ad esse è precisamente quello di definire
rispetto a quale soggetto si situa l’intellegibilità di ogni comportamento a
carattere anche solo parzialmente cosciente:

Per la psicoanalisi questa intelligibilità resta sempre individuale, dato che


l’eventuale intelligibilità sociale non ha che un carattere secondario, derivato,
e alla fin fine imposto dall’esterno, benché interiorizzato in seguito. Per il pen-
siero dialettico, al contrario, è l’intelligibilità in relazione al soggetto collettivo
che è primordiale, dato che l’eventuale intelligibilità in relazione al soggetto
individuale, fintanto che non siamo confrontati a fenomeni irrazionali come la
follia, il sogno o il lapsus stesso, ha un carattere subordinato e secondario. Ben
inteso, non è questione in tutto ciò di una coscienza collettiva che si situereb-

20 Ivi, pp. 101-102.


21 Ivi, p. 102.
186 Il transindividuale

be al di fuori delle coscienze individuali e non vi è altra coscienza che quella


degli individui. Solo che alcune coscienze di individui si trovano in relazioni
non intersoggettive, ma intrasoggettive l’una con l’altra e costituiscono così il
soggetto di ogni pensiero di ogni azione a carattere sociale e culturale22.

Transindividualità e intrasoggettività sono dunque concetti strettamente


legati che permettono di pensare la struttura reale della coscienza non come
un’entità supra individuale, ma come ciò che esiste negli individui presi
come parte di un tutto. La coscienza è dunque un fenomeno transindividua-
le, coscienza di soggetti collettivi, gruppi umani, gruppi sociali specifici
che «s’oppongono ben inteso ad altri gruppi ma agendo anche insieme ai
gruppi ai quali si oppongono»23.
Questi gruppi sociali, classi sociali, sviluppano delle categorie comuni
che costituiscono la strutturazione mentale della coscienza transindividua-
le del gruppo:

L’esperienza di un solo individuo è di gran lunga troppo breve e troppo


limitata per poter creare una simile struttura mentale; questa non può che es-
sere il risultato dell’attività congiunta di un numero notevole di individui che
si trovano in una situazione analoga, cioè che costituiscono un gruppo sociale
privilegiato, individui che hanno vissuto lungamente in maniera intensiva un
insieme di problemi e si sono sforzati di trovare una soluzione pregna di si-
gnificato [significative]. […] Le strutture mentali, o per utilizzare un termine
più astratto, le strutture categoriali di significato [significatives], non sono dei
fenomeni individuali, ma dei fenomeni sociali24.

Queste strutture categoriali non sono rispetto al singolo individuo né co-


scienti né incoscienti in senso freudiano, cioè oggetto di rimozione, ma sono
semplicemente dei processi «non coscienti dello stesso tipo, sotto certi aspetti,
che quelli che regolano il funzionamento delle strutture muscolari o nervose
e determinano il carattere particolare dei nostri movimenti e dei nostri ge-
sti senza per questo essere né coscienti né rimossi»25. Goldmann ritiene che
la caratteristica fondamentale della strutturazione delle categorie mentali di

22 Ivi, p. 104. Questo soggetto transindividuale che elabora il pensiero teorico e la


visione del mondo può, precisa Goldmann, anche elaborare una visione individua-
listica, ma «celle-ci n’est en rien moins collective que toutes les autres formes de
pensée», poiché «pour être isolé sur son île, Robinson n’en est pas une création
moins collective que les visions et les formes de pensée qui nient toute réalité à
l’individu» (ivi, p. 105).
23 L. Goldmann, «Critique et dogmatisme dans la création littéraire», ivi, p. 38.
24 Ivi, pp. 57-58.
25 Ivi, p. 59.
V. Morfino - L’enjeu Marx Freud 187

un gruppo sociale sia la tendenza ad una «significazione coerente senza mai


giungere a realizzarla completamente»26. Su queste basi teoriche egli fonda la
sua sociologia dialettica della letteratura, secondo cui il capolavoro letterario
sarebbe capace di fornire questa coerenza su un piano immaginario:

La prospettiva abituale della sociologia delle sovrastrutture si trova allo stes-


so tempo mantenuta e capovolta. Mantenuta, nella misura in cui la creazione
estetica, lungi dal presentarsi come un fenomeno individuale, appare al contra-
rio come una manifestazione del legame inseparabile che lega le coscienze indi-
viduali alle strutture globali che noi chiamiamo abitualmente coscienze colletti-
ve. Capovolta, nella misura in cui l’opera d’arte, lungi dal riflettere puramente e
semplicemente la coscienza collettiva e d’essere riducibile ad essa […], costitu-
isce al contrario un grado di coerenza unica verso cui tendono, con maggiore o
minore efficacia, le coscienze degli individui che costituiscono il gruppo. Lungi
dal tradurre ciò che dicono o pensano realmente, l’opera rivela così ai membri
del gruppo ciò che ‘pensavano senza saperlo’; è il punto più avanzato verso
cui tendono le coscienze reali degli individui e, come tale, naturalmente unica
e insostituibile. Tuttavia non si deve dimenticare che l’opera può raggiungere
questa coerenza ed avere questo valore esemplare solo perché essa è costituita
dalle categorie mentali dinamiche e collettive che strutturano la coscienza del
gruppo, e determinano una direzione [une vection] nella quale l’artista, lo scrit-
tore o il filosofo è semplicemente andato un po’ più in là degli altri uomini27.

3. La critica di Goldmann ad Althusser

Sulla base di questo concetto di transindividuale Goldmann fa una dura


critica dell’interpretazione althusseriana di Marx, critica che è quasi inte-
ramente concentrata in uno scritto dal titolo «L’idéologie allemande et les
Thèses sur Feuerbach».
Il confronto con Althusser si gioca tutto intorno all’interpretazione delle
Tesi su Feuerbach, testo che Goldmann considera una svolta fondamentale
nel pensiero Occidentale e la cui importanza paragona al Discorso sul metodo,
alla Critica della ragion pura e alla Fenomenologia dello spirito. In queste
tesi sarebbe espressa per la prima volta una posizione rigorosamente monista,
dialettica e genetica: delle 5 idee fondamentali, secondo Goldmann, del ma-
terialismo dialettico si trovano nelle tesi l’idea dell’unità della teoria e della
prassi, la teoria del soggetto transindividuale, mentre sono vicine l’idea del ca-

26 L. Goldmann, «Le sujet de la création culturelle», ivi, p. 114.


27 L. Goldmann, «L’esthétique du jeune Lukács», ivi, p. 240.
188 Il transindividuale

rattere inseparabile di fatti e valori e dell’identità totale o parziale del soggetto


e dell’oggetto; manca invece del tutto la formulazione del concetto di totalità.
Rispetto a questa posizione Goldmann ricorda che Althusser ha invitato
a scegliere tra Spinoza e Feuerbach (il riferimento implicito è al titolo del
primo paragrafo, «Spinoza ou Feuerbach», della prefazione di Jean Pierre
Osier all’edizione francese dell’Essenza del cristianesimo effettivamente
ispirata al pensiero althusseriano28). Questo potrebbe far pensare che Al-
thusser sia sulla stessa linea di Marx nella sua critica e presa di distanza da
Feuerbach. Ma in realtà non è così:

[…] mentre Marx critica Feuerbach da un punto di vista dialettico come trop-
po materialista e troppo meccanicista, Althusser, che rappresenta egli stesso una
delle forme più estreme di meccanicismo che abbia mai preso un pensiero che
si richiamava a Marx, rimprovera al contrario a Feuerbach d’aver conservato le
idee di soggetto e di significato [signification] e di essere in questo modo, mal-
grado ciò che Marx chiamava il suo meccanicismo, ancora troppo vicino non
solamente a Hegel e all’idealismo, ma anche a ciò che Marx o Lukács avrebbero
chiamato la dialettica. In breve, per Marx Feuerbach coll’aver demistificato le il-
lusioni del cristianesimo, ha tentato di ridurre il pensiero religioso alle aspirazioni
e ai significati profani dell’uomo nella sua vita quotidiana ma, facendo questo,
ha completamente eliminato dalla sua concezione dell’uomo reale le dimensioni
più importanti della sua esistenza empirica: la praxis e il carattere collettivo del
pensiero e dell’azione. Per Feuerbach il pensiero teologico non è che una for-
ma mistificata del pensiero profano e più precisamente della sensibilità, questa
essendo tuttavia il prodotto dell’azione delle circostanze esteriori su un essere
passivo che ha lo statuto non di un attore ma di uno spettatore. È ciò che Marx
chiama materialismo vecchio e contemplativo, e che noi chiamiamo il materiali-
smo meccanicistico e non dialettico. Al contrario per Althusser, Feuerbach non è
andato sufficientemente lontano nella direzione di questo materialismo poiché ha
conservato al suo individuo reale l’idea di una coscienza o di una sensibilità rela-
tivamente passive, ma pregne di significato [signifiantes]. Non si tratta secondo
lui di ridurre un soggetto e un senso alienati ed erronei a un soggetto ed un senso
veri, ma di abbandonare il soggetto e il senso che sono, come tali, dei concetti
ideologici, a vantaggio del loro modo di produzione29.

28 J.-P. Osier, Préface, a L. Feuerbach, L’essence du christianisme, Maspero, Paris


1968, pp. 7-78.
29 L. Goldmann, «L’idéologie allemande et les Thèses sur Feuerbach», ivi, pp. 166-
167. Goldmann spiega storicamente l’interpretazione althusseriana come il pro-
dotto della necessità di rinunciare all’idea marxiana del proletariato come della
sola classe che orienta la sua azione verso la sua propria soppressione. L’integra-
zione del proletariato nella società capitalistica del dopoguerra ha fatto sì che gli
althusseriani «pour conserver l’idée de révolution, dans un sens de prise de pou-
voir politique antérieure aux transformation économiques […] ont du abandonner
V. Morfino - L’enjeu Marx Freud 189

Questo quadro generale in cui Goldmann presenta la lettura di Althusser


come di fatto antitetica a Marx stesso rispetto a Feuerbach, ritornerà, come
una sorta di contrappunto, nell’interpretazione delle singole tesi.
Rispetto alla prima tesi Goldmann sottolinea come Marx occupi la posi-
zione diametralmente opposta ad Althusser nella lettura di Feuerbach: «Marx
e gli althusseriani sono d’accordo nel vedere in Feuerbach allo stesso tempo
il più materialista degli idealisti e il più idealista dei materialisti. L’opposizio-
ne comincia rispetto alla valutazione del suo pensiero: per Althusser Feuer-
bach è ancora troppo idealista, per Marx lo è troppo poco»30. Seguendo Marx
nell’affermazione che si deve rimpiazzare l’intuizione sensibile con l’attività
percettiva, ne risulta «che non si potrebbe immaginare, nelle scienze umane
quantomeno, una rottura radicale, una coupure epistemologica, per utilizzare
il termine di Althusser, tra l’ideologia e la scienza, dove l’ideologia dipende
secondo lui nella sua stessa costituzione dalla pratica e dai giudizi di valore,
mentre la seconda è relativamente autonoma»31.
A proposito della terza tesi Goldmann sottolinea come essa risolva il pro-
blema insolubile per ogni materialismo meccanicista, «da Democrito o Spi-
noza attraverso Holbach e Helvétius fino a Feuerbach e Althusser», che con-
cepisce «l’uomo e la sua struttura psichica come il prodotto delle circostanze,
di cause o di strutture preliminarmente esistenti»32. In specifico, per quanto
riguarda Althusser, le circostanze sotto forma di rapporti di produzione sono
una sorta di cominciamento assoluto che non lascia alcuno spazio alla tra-
sformazione, mentre, in Marx, «il passaggio dal materialismo meccanicistico
alla posizione dialettica suppone l’abbandono della determinazione rigorosa
dello psichismo umano [du psychisme humain] attraverso le circostanze e
[…] l’adozione di una regolazione interna, di un circolo al cui interno la
struttura psichica degli uomini ed il loro comportamento sono senza dubbio
il prodotto delle circostanze e dell’educazione a condizione di non dimenti-
care che le circostanze, così come la natura ed il contenuto dell’educazione,
sono essi stessi il prodotto dello psichismo [du psychisme] e del comporta-
mento anteriore degli uomini, psichismo e comportamento che erano essi
stessi il risultato di circostanze e di un’educazione differente, e anche che
gli uomini attuali trasformano a loro volta la struttura delle circostanze e la
natura dell’educazione che sarà data agli uomini che verranno»33.

les notions de sujet collectif et de lien étroit entre toute praxis (théorique, pratique
ou politique) et la conscience collective» (ivi, p. 168).
30 Ivi, p. 171.
31 Ivi, pp. 173-174.
32 Ivi, p. 176.
33 Ivi, p. 179.
190 Il transindividuale

A proposito dell’ottava, nona e decima tesi, Goldmann nota come Al-


thusser, sulla scorta della negazione del soggetto operata da tutto lo struttu-
ralismo, non solo non attribuisca nessuna importanza alla distinzione ope-
rata da Marx tra materialismo meccanicistico e materialismo dialettico, tra
soggetto individuale e soggetto transindividuale, ma finisca per ricondurre
quest’ultimo al primo.
Ma è a proposito della sesta tesi che ha luogo il vero e proprio confronto
con Althusser, laddove cioè Marx, secondo Goldmann, definisce il vero
soggetto del pensiero e della prassi come soggetto transindividuale. In-
terpretando la definizione marxiana dell’essenza umana come ‘ensemble
des rapports sociaux’ Althusser fa due affermazioni. La prima «secondo
cui, nella ricerca scientifica concreta, il concetto globale di ‘ensemble de
rapports sociaux’ si precisa nei concetti più specifici di modo di produ-
zione, rapporti di produzione, sovrastruttura, ideologia ecc.»34, a parere di
Goldmann è perfettamente valida, mentre la seconda «secondo cui questi
concetti non fanno più intervenire nemmeno una sola volta come concetto
teorico il concetto di uomo o di umanesimo»35, è altamente contestabile.
Goldmann ritiene che Althusser dimentichi

semplicemente che anche sul piano teorico non vi sono né per Marx, né nella
realtà, rapporti di produzione che non siano rapporti tra gli uomini, ideologia
che non sia una forma di pensiero degli uomini, forze produttive che non siano
o delle qualità degli uomini (come per esempio la qualificazione professionale
della classe operaia) o dei prodotti dell’attività degli uomini come il capitale
costante (macchine, materie prime ecc.) che esistono d’altra parte in quanto
forze produttive solo nella misura in cui sono maneggiate e utilizzate dagli uo-
mini. […] Certo, si può sul piano della scienza contestare questa affermazione
e pensare come Althusser che l’uomo non abbia alcuno spazio nello studio del-
le strutture economiche, sociali, politiche o ideologiche […]. Ciò che ci sembra
contestabile è di richiamarsi a Marx, che con ogni evidenza ha sempre pensato
e affermato il contrario36.

4. L’analisi di Althusser della sesta tesi

Il luogo specifico su cui insiste la critica goldmaniana di Althusser è la


«Note complémentaire sur l’‘humanisme réel’» pubblicata nel 1965 sulla
«Nouvelle Critique» e ripresa poi nel Pour Marx. Qui Althusser sostie-

34 Ivi, pp. 189-190


35 Ivi, p. 190.
36 Ivi, p. 190.
V. Morfino - L’enjeu Marx Freud 191

ne che nell’espressione ‘umanesimo reale’ il termine ‘reale’ non ha una


funzione conoscitiva ma «di indicazione pratica», «l’equivalente di un se-
gnale, di un cartello stradale, che indica quale movimento si deve fare ed
in quale direzione, fino a dove ci si deve spostare per non trovarsi più nel
cielo dell’astrazione, ma sul terreno reale»37. Il paradosso secondo Althus-
ser consiste nel fatto che l’espressione ‘umanesimo reale’ indica la strada
che si deve percorrere per accedere ad una conoscenza scientifica degli
uomini concreti, che è conoscenza dei rapporti sociali, conoscenza tuttavia
rispetto a cui il concetto di ‘uomo’ (e, di conseguenza, di ‘umanesimo’)
non esercitano alcuna funzione, sostituito da modo di produzione, forze
produttive, rapporti di produzione etc. etc.: «Questo concetto in effetti ci
appariva inutilizzabile dal punto di vista scientifico non perché astratto! –
ma perché non è scientifico»38.
La sesta tesi su Feuerbach rappresenta per Althusser una perfetta mise en
abîme di questo paradosso:

La VI tesi su Feuerbach dice proprio che ‘l’uomo’ non astratto è «l’in-


sieme dei rapporti sociali». Ora, se si prende questa espressione alla lettera,
come una definizione adeguata, essa non vuol dire nulla. Si provi a darne una
spiegazione letterale e si vedrà che non c’è modo di venirne a capo, a meno
di non ricorrere ad una perifrasi di questo genere: «se vogliamo sapere qual
è la realtà, non quella che corrisponde adeguatamente al concetto di uomo
o di umanesimo, ma che è indirettamente in causa in questi concetti, non è
un’essenza astratta, ma l’insieme dei rapporti sociali». Questa perifrasi fa im-
mediatamente apparire un’inadeguazione tra il concetto di uomo e la sua de-
finizione: insieme dei rapporti sociali. Tra questi due termini (uomo/insieme
dei rapporti sociali) c’è probabilmente un rapporto, ma non è leggibile nella
definizione, non è un rapporto definitorio, non è un rapporto conoscitivo.
Tuttavia questa inadeguazione ha un senso, questo rapporto ha un senso: un
senso pratico. Questa manifesta inadeguazione designa un’azione da com-
piere, uno spostamento da mettere in atto. Essa significa che per incontrare
e trovare la realtà a cui si fa allusione cercando non più l’uomo astratto ma
l’uomo reale, si deve passare alla società, e mettersi ad analizzare l’insieme
dei rapporti sociali39.

Il soggetto transindividuale di cui parla Goldmann, che dalla VI tesi


marxiana, diviene il centro di tutto il suo strutturalismo genetico, sembra
essere messo fuori gioco in quanto nozione ideologica.

37 L. Althusser, Pour Marx, La Découverte, Paris 19963, p. 254.


38 Ivi, p. 255.
39 Ivi, p. 254.
192 Il transindividuale

Ciò che tuttavia complica questa opposizione polare tra strutturalismo


genetico e strutturalismo statico è il commento alla VI tesi che Balibar
ha proposto nella Filosofia di Marx nel 1993 Nel definire l’essenza uma-
na come «das ensemble der gesellschaftlicher Verhältnisse», Marx rifiuta,
secondo Balibar, tanto la posizione nominalista che la posizione realista:
«quella che vuole che il genere, o l’essenza, preceda l’esistenza degli in-
dividui, e quella che vuole che gli individui siano la realtà primaria, a par-
tire dalla quale si astraggono gli universali»40. Il solo contenuto effettivo
dell’essenza umana starebbe nelle molteplici relazioni che gli individui in-
trattengono tra di loro e ciò condurrebbe Marx, secondo Balibar, a prendere
le distanze tanto dal punto di vista individualistico che da quello organi-
cistico (olistico). Questa sarebbe la ragione per cui Marx usa il termine
francese ensemble e non quello tedesco das Ganze.
La lettura di Balibar è manifestamente nel solco dell’interpretazione
althusseriana di Marx e tuttavia presenta il paradosso di caratterizzarsi at-
traverso il termine che Goldmann usa per marcare tutta la sua distanza da
Althusser: ‘transindividuale’. Tuttavia, qui si deve fare attenzione. Balibar
non usa il termine ‘transindividuale’ nel senso di Goldmann, ma piutto-
sto nel senso dell’Individuation psychique et collective di Simondon, testo
pubblicato postumo nel 198941. ‘Transindividuale’ significa in Balibar non
soggetto collettivo, ma ontologia relazionale, tessuto di relazioni che attra-
versano e costituiscono gli individui. Significa soprattutto, per riprendere
il linguaggio di Simondon, che l’individuazione psichica e quella sociale
non devono essere pensate come due individuazioni successive, secondo
un modello diacronico di sviluppo, ma in termini sincronici, come un me-
desimo processo che dà luogo ad un interno e ad un esterno: il concetto di
transindividuale dà conto precisamente di questa duplice individuazione,
psichica e collettiva, che avviene ad un tempo.

5. Uno o due transindividuali?

In tutta la sua opera Althusser usa il termine ‘transindividuale’ una sola


volta, e ad anche in questo unico caso senza che al termine sia attribuito un

40 E. Balibar, La filosofia di Marx, tr. it. di A. Catone, Manifestolibri, Roma 1994, p.


35
41 G. Simondon L’individuation psychique et collective, Aubier, Paris 1989, tr. it. di
P. Virno, prefazione di M. Combes, DeriveApprodi, Roma 2001.
V. Morfino - L’enjeu Marx Freud 193

valore teorico specifico42. Se tuttavia, con un colpo di forza teorico, pones-


simo al centro dello strutturalismo althusseriano degli anni Sessanta il con-
cetto di transindividuale, potremmo forse, per contraccolpo, produrre una
serie di conseguenze teoriche che permetterebbero da una parte di tracciare
una precisa linea di demarcazione rispetto al ‘soggetto transindividuale’ di
Goldmann e dall’altra portare dei contributi al concetto di ‘transindividua-
le’ pensato nella prospettiva di Simondon.
Questo colpo di forza va messo alla prova su tre concetti decisivi tan-
to per la costruzione teorica goldmaniana che per quella althusseriana:
genesi, tempo e soggetto. Ora, in Goldmann il soggetto transindividuale
come unità del soggetto e dell’oggetto, della teoria e della pratica, pos-
siede una temporalità che lega indissolubilmente genesi e struttura. Ecco
come Goldmann espone la struttura del divenire del soggetto transindi-
viduale:

Marx definisce molto bene questo ordine di trasformazione: sviluppo


delle forze produttive grazie alla praxis degli uomini, cambiamento parziale
dell’ideologia, presa di coscienza, trasformazione della realtà grazie alla pratica
degli uomini, trasformazione delle sovrastrutture43.

A partire da una prospettiva di questo genere Goldmann non ha difficol-


tà a ripetere contro Althusser gli argomenti che Hegel usò contro Spinoza:
la struttura è l’abisso (Abgrund) in cui ogni genesi, ogni tempo, ogni sog-
getto si dissolve.
Proviamo ora a riprendere questi concetti uno per uno e verifichiamo se
sono veramente assenti oppure se sono presenti in una forma differente,
e se in questa forma non consentano di pensare, all’interno del pensiero
althusseriano degli anni Sessanta, il concetto di transindividuale in modo
differente:
1) genesi;
2) tempo;
3) soggetto.

42 «Bien qu’on ait pu soutenir qu’il y a dans l’inconscient un élément ‘transindivi-


duel’, c’est de toute façon dans l’individu que se manifestent les effets d’incons-
cient, et c’est sur l’individu que la cure opère, même si elle requiert la présence
d’un autre individu (l’analyste) pour transformer les effets d’inconscients exis-
tants» (L. Althusser, «Sur Marx et Freud», in Id., Ecrits sur la psychanalyse, éd.
par O. Corpet et F. Matheron, Stock/Imec, Paris 1993, p. 238).
43 L. Goldmann, «L’idéologie allemande et les Thèses sur Feuerbach», in Id.,
Marxisme et sciences humaines, cit., p. 183.
194 Il transindividuale

6. Una critica della ‘genesi’

Goldmann traccia a più riprese la linea di demarcazione tra il proprio


strutturalismo e quello cosiddetto statico, di cui Althusser è un paradigma
nel campo del marxismo, attraverso il concetto di ‘genesi’. In Althusser i
rapporti di produzione sarebbero una sorta di cominciamento assoluto, la
struttura sarebbe una sorta di essere parmenideo da cui è stata espunta se
non la molteplicità, certo il movimento. Una struttura che non ha una gene-
si. Ora, alcuni passaggi del Pour Marx e di Lire le Capital avrebbero forse
potuto mettere in crisi una lettura di questo genere, e tuttavia è negli inediti
di quegli stessi anni che appare alla luce del sole la ragione dell’assenza del
concetto di ‘genesi’. In una lettera a Diaktine del 22 agosto 1966 Althusser
si sofferma lungamente sulla questione:

Chi dice genesi dice: ricostituzione del processo attraverso il quale un fe-
nomeno A è stato effettivamente generato. Questa ricostituzione è essa stessa
un processo di conoscenza: non ha senso (di conoscenza) che se riproduce
(ricostituisce) il processo reale che ha generato il fenomeno A. Si vede imme-
diatamente che chi dice genesi dice dall’inizio che il processo di conoscenza
è identico in tutte le sue parti, e nel loro ordine e nella loro successione, al
processo di generazione reale. Ciò vuol dire, per parlare un linguaggio meno
astratto, che chi fa la genesi di un fenomeno A può seguire à la trace, in tutte
le sue fasi, fin dalla sua origine, il processo di generazione reale, senza alcu-
na interruzione, cioè senza alcuna discontinuità, lacuna o rottura […]. Questo
recupero immediato e integrale, senza alcuna interruzione, del processo reale
attraverso il processo di conoscenza, implica l’idea, che sembra ovvia, che il
soggetto del processo reale è un solo e stesso soggetto, identificabile dall’origi-
ne del processo fino alla fine44.

Il paradigma della genesi implica dunque in una sorta di unità organica i


concetti di ‘processo di generazione’, ‘origine del processo’, ‘fine o termi-
ne del processo’, ‘identità del soggetto del processo di generazione’, unità
che è impregnata dal riferimento ad un’esperienza, l’esperienza della gene-
razione, «che sia quella del bambino che diventa un adulto, o del seme che
diventa un essere vegetale o vivente»45. Nel modello genetico l’individuo
che troviamo alla fine del processo, che si tratta di generare, è già presente
all’origine en germe. Questo fa sì, secondo Althusser, che la struttura di
ogni ‘genesi’ sia teleologica:

44 L. Althusser à D., in Id., Ecrits sur la psychanalyse, cit., pp. 83-84.


45 Ivi, p. 84.
V. Morfino - L’enjeu Marx Freud 195

Ogni pensiero genetico è ossessionato dalla ricerca della ‘nascita’, con tutto
ciò che comporta in termini di ambiguità questa parola, che presuppone, tra
altre tentazioni ideologiche, l’idea (il più delle volte implicita e misconosciuta)
che ciò che deve essere osservato nella sua nascita ha già il suo nome, possiede
già la sua identità, è già identificabile, dunque in una certa misura esiste già
prima della sua nascita per poter nascere!46

Ma la critica del concetto di genesi non conduce Althusser alla negazione


del divenire, del mutamento, come ritiene Goldmann. Il concetto di ‘genesi’
come ogni concetto ideologico «riconosce misconoscendola, cioè designa
una realtà mentre la ricopre di una falsa conoscenza, di una illusione»47.
La realtà che il concetto di genesi misconosce pensandola entro il modello
della nascita è «il sorgere [le surgissement] del fenomeno A, radicalmente
nuovo in relazione a tutto ciò che precede il proprio sorgere»48:

Da ciò l’esigenza di un’altra logica rispetto a quella della genesi, ma preci-


samente per pensare [penser] questa realtà, e non per dispensarsi [dispenser]
dal pensare questa realtà. Ho da lungo tempo attirato l’attenzione sulla neces-
sità di costituire questa nuova logica, che è la stessa cosa che definire le forme
specifiche di una dialettica materialista49.

In una breve nota dattiloscritta esattamente un mese dopo, il 22 settembre


1966, intitolata «Sur la genèse», Althusser dà un nome a questa nuova logica
che dovrà sostituirsi alla logica costruita intorno alla ‘catégorie idéologique
(religieuse) de la genèse’: ‘théorie de la rencontre’ o ‘théorie de la conjonc-
tion’. Esempio privilegiato, come del resto anche nella lettera a Diaktine, la
logica della costituzione del modo di produzione capitalistico:

1) gli elementi definiti da Marx si ‘combinano’, io preferisco dire (per tra-


durre il termine Verbindung) si ‘congiungono’ ‘facendo presa’ in una struttura
nuova. Questa struttura non può essere pensata, nel suo sorgere [surgissement],
come l’effetto di una filiazione, ma come l’effetto di una congiunzione. Questa
Logica nuova non ha nulla a che vedere con la causalità lineare della filiazione
né con la causalità ‘dialettica’ hegeliana, che non fa altro che enunciare ad alta
voce ciò che la logica della causalità lineare contiene implicitamente. 2) Tut-
tavia ognuno degli elementi che si sono appena combinati nella congiunzione
della nuova struttura (nello specifico il capitale-denaro accumulato, le forze
lavoro ‘libere’, cioè spogliate dai loro strumenti di lavoro, le invenzioni tecni-

46 Ivi, p. 86.
47 Ivi, p. 88.
48 Ibidem.
49 Ivi, p. 89.
196 Il transindividuale

che) è esso stesso, in quanto tale, un prodotto, un effetto. Ciò che è importante
nella dimostrazione di Marx è che questi tre elementi non sono i prodotti con-
temporanei di una sola ed unica situazione: non è, detto altrimenti, il modo di
produzione feudale che da sé solo e per una finalità provvidenziale, genera allo
stesso tempo i tre elementi necessari perché ‘faccia presa’ la nuova struttura.
Ognuno di questi elementi ha la sua propria ‘storia’ o la sua propria genealogia
(per riprendere un concetto felicemente usato da Balibar a questo proposito): le
tre genealogie sono relativamente indipendenti. Si vede anche Marx mostrare
che uno stesso elemento (le forze lavoro ‘libere’) può essere prodotto come ri-
sultato da genealogie del tutto differenti. Dunque le genealogie dei tre elementi
sono indipendenti le une dalle altre, e indipendenti (nella loro co-esistenza,
nella co-esistenza del loro rispettivo risultato) dalla struttura esistente (il modo
di produzione feudale). Cosa che esclude ogni rinascita [résurgence] del mito
della genesi: il modo di produzione feudale non è il ‘padre’ del modo di produ-
zione capitalistico nel senso in cui il secondo sarebbe stato contenuto ‘in ger-
me’ nel primo. 3) Ciò detto restano da concepire i tipi di causalità che possono,
a proposito di questi elementi (e a proposito della genealogia di ogni elemento)
intervenire per rendere conto della produzione di questi elementi come ele-
menti che entrano nella congiunzione che farà ‘presa’ in una struttura nuova.
Si deve qui, mi sembra, distinguere due tipi distinti di causalità: a) la causalità
strutturale: un elemento può essere prodotto come effetto strutturale. La causa-
lità strutturale è la causalità ultima di ogni effetto [la causalité dernière de tout
effet]. […] b) questa legge sembra essere generale. Ma la causalità strutturale
definisce in quanto strutturale, dunque come effetto strutturale, delle zone o
delle sequenze rigorosamente definite e limitate, in cui la causalità strutturale
si compie nella forma della causalità lineare. […]50.

Il nucleo fondamentale di questa nuova logica, il cui progetto Althusser


riprenderà negli anni ’80, è la tesi del primato dell’incontro sulla forma,
cioè l’affermazione della contingenza di ogni forma perché risultato di un
complesso intreccio di incontri ciascuno dei quali necessari, ma di una ne-
cessità, se mi è concesso l’ossimoro, del tutto aleatoria, cioè priva di un
progetto o di un telos. In questo senso gli elementi che fanno presa non
sono lì perché la forma sia, ma hanno ciascuno una propria storia, effetto a
sua volta di un intreccio di incontri che hanno avuto luogo, ma ovviamente
anche mancati. Come scrive Althusser nella lettera a Diaktine, «l’assenza
possiede un’efficacia, a condizione ben inteso che non sia l’assenza in ge-
nerale, il niente, o qualsiasi altro [tout autre] ‘aperto’ heideggeriano, ma
un’assenza determinata, che gioca un ruolo nel luogo della sua assenza»51.

50 L. Althusser, «Sur la génèse», in Décalages, vol. 1, Issue 2, 2012.


51 L. Althusser à D., in Id., Ecrits sur la psychanalyse, cit., p. 91.
V. Morfino - L’enjeu Marx Freud 197

In questo senso, il modello del transindividuale, proiettato a ritroso sul-


la problematica althusseriana, riceve una prima importante specificazione:
la complessa trama di relazioni che abbiamo stabilito di chiamare ‘transin-
dividuale’ non è garanzia di ordine o stabilità (benché la causa strutturale
possa dar luogo a delle sequenze lineari), ma intreccio complesso di incon-
tri, il venir meno o l’aver luogo di ognuno dei quali può ridisegnare l’intera
trama, e così via all’infinito.

7. Il tempo, i tempi

Secondo nodo cruciale – strettamente legato alla questione della genesi


– della critica di Goldmann ad Althusser: la questione del tempo. Lo strut-
turalismo statico althusseriano sopprimerebbe il tempo, e questa soppres-
sione sarebbe in fondo una conseguenza necessaria della negazione della
genesi della struttura.
Qui in realtà la risposta di Althusser si trova scritta a chiare lettere in
quello che è forse il paragrafo più importante di tutto Leggere il Capita-
le, l’«Abbozzo di una teoria del tempo storico». In questo testo Althusser
critica la rappresentazione hegeliana del tempo fondata sulla continuità
omogenea e sulla contemporaneità o categoria del presente storico, le due
coordinate dell’Idea, successione e simultaneità, nel suo darsi sensibile.
La seconda, la categoria di contemporaneità, dice precisamente qual è la
struttura dell’esistenza storica della totalità sociale, la cui natura spirituale
fa sì che ogni parte sia pars totalis in senso leibniziano e che, operando una
sezione di essenza di questa totalità, si trovi ad ogni livello della società lo
stesso tempo. Ora, la continuità del tempo si fonda precisamente sul suc-
cedersi continuo di questi orizzonti contemporanei la cui unità è garantita
dall’omnipervasività del concetto. Ora, «costruire il concetto marxista di
tempo storico a partire dalla concezione marxista della totalità sociale»52
significa per Althusser in primo luogo prendere le distanze dalla teoria he-
geliana del tempo storico. Il tutto sociale marxiano

è un tutto la cui unità, lungi dall’essere l’unità espressiva o ‘spirituale’ del tutto
di Leibniz e Hegel, è costituita da un certo tipo di complessità, l’unità di un
tutto strutturato, che comporta dei livelli o istanze distinti e ‘relativamente au-
tonomi’, che coesistono in questa unità strutturale complessa articolandosi gli

52 L. Althusser, «L’objet du Capital», in Lire le Capital, PUF, Paris 19963, p. 280, tr.
it. a cura di R. Rinaldi e V. Oskian, Feltrinelli, Milano 19762, p. 104.
198 Il transindividuale

uni con gli altri a seconda dei modi di determinazione specifici, fissati in ultima
istanza dal livello o istanza dell’economia53.

Il tutto per Marx è ‘un tutto organico gerarchizzato’, tutto che decide
appunto della gerarchia, del grado e dell’indice di efficacia tra i diversi
livelli della società, la cui temporalità non può essere pensata attraverso la
categoria hegeliana di contemporaneità:

La coesistenza dei differenti livelli strutturati: l’economico, il politico e


l’ideologico ecc., e quindi dell’infrastruttura economica, della sovrastruttura
giuridica e politica, delle ideologie e delle formazioni teoriche (filosofia, scien-
ze), non può più essere pensata nei termini della coesistenza del presente hege-
liano, di quel presente ideologico in cui coincidono la presenza temporale e la
presenza dell’essenza nei suoi fenomeni54.

Non solamente un tempo continuo e omogeneo «non può essere ritenuto


il tempo della storia», ma non è possibile nemmeno pensare «nello stesso
tempo storico il processo dello sviluppo dei differenti livelli del tutto»:
ogni livello ha infatti «un tempo proprio relativamente autonomo dagli al-
tri livelli»55. Secondo Althusser ad ogni modo di produzione corrisponde
il tempo e la storia dello sviluppo delle forze produttive, dei rapporti di
produzione, della sovrastruttura politica, della filosofia, delle produzioni
estetiche. Ciascuna di queste storie è scandita secondo ritmi propri e può
essere conosciuta solo se si determina il concetto della specificità della sua
temporalità, con il suo sviluppo continuo, le sue rivoluzioni, le sue rotture.
Non si tratta di settori indipendenti, ma relativamente autonomi, autonomia
relativa che è appunto fondata su un certo tipo di articolazione del tutto, su
un certo tipo di dipendenza:

La specificità di questi tempi e di queste storie è differenziale essendo basata


sui rapporti esistenti tra i differenti livelli del tutto. […] Non è sufficiente dire,
come fanno i migliori storici dei nostri tempi, che si danno [il y a] periodizza-
zioni differenti secondo i tempi differenti, che ogni tempo ha i suoi ritmi, alcuni
lenti, altri lunghi, ma bisogna pensare queste differenze di ritmo e di scansione
nel loro fondamento, nel tipo di articolazione, di spostamento e di torsione che
raccorda tra loro questi tempi differenti56.

53 Ivi, pp. 280-281, tr. it. cit., p. 104.


54 Ivi, p. 283, tr. it. cit., p. 106.
55 Ivi, p. 284, tr. it. cit., p. 106.
56 Ivi, pp. 284-285, tr. it. cit., p. 107.
V. Morfino - L’enjeu Marx Freud 199

Nella costruzione di questo concetto non hanno alcuna utilità le catego-


rie di continuo e discontinuo «che racchiudono il piatto mistero di tutta la
storia»; si tratta di costruire categorie «infinitamente più complesse, spe-
cifiche per ogni tipo di storia, in cui intervengono delle nuove logiche»57.
Questa complessità emerge se si sottopone la contemporaneità ad una se-
zione d’essenza:

La coesistenza che si constata nella ‘sezione d’essenza’ – scrive Althusser


– non denota alcuna essenza onnipresente che sia il presente stesso di ciascuno
dei ‘livelli’. La sezione che ‘vale’ per un determinato livello, politico o econo-
mico, e che quindi corrisponderebbe a una ‘sezione d’essenza’ per la politica,
non corrisponde a nulla di simile per gli altri livelli, l’economico, l’ideologico,
l’estetico, il filosofico, lo scientifico che vivono in altri tempi e conoscono altre
sezioni, altri ritmi e altre interpunzioni. Il presente di un livello è, per così dire,
l’assenza di un altro e questa coesistenza di una ‘presenza’ e di assenze non è
che l’effetto della struttura del tutto nel suo decentramento articolato58.

In altre parole la non-contemporaneità è una caratteristica essenziale


della struttura, ed è precisamente a partire da questa non contemporanei-
tà strutturale che è stato possibile per Althusser proporre una critica del
modello della ‘genesi’. La non contemporaneità, la temporalità plurale, è
precisamente la marca della contingenza della struttura, del suo essere non
destino ma effetto, permanentemente revocabile, di un tessuto di incontri,
di storie, di ritmi.
E, anche qui, dalla proiezione forzata della categoria di ‘transindividua-
le’ sulla problematica althusseriana otteniamo per contraccolpo una precisa
linea di demarcazione rispetto alla tradizione dell’intersoggettività: il tem-
po del transindividuale non può essere la contemporaneità, il mero Zuglei-
chsein delle monadi di cui parla Husserl che fonda il tempo della storia,
ma il non contemporaneo, l’impossibile contemporaneità della struttura,
l’intreccio dei tempi, dei ritmi, delle storie.

8. Il soggetto, i soggetti

Infine la questione del soggetto. Goldmann, nelle sue analisi, propo-


ne una precisa partizione tra psiconalisi e sociologia dialettica quanto allo
studio del soggetto come luogo di imputazione dell’azione: la prima ha

57 Ivi, p. 289, tr. it. cit., p. 111.


58 Ivi, p. 290, tr. it. cit., p. 111.
200 Il transindividuale

di mira un soggetto individuale, mentre la seconda un soggetto transindi-


viduale. L’antiumanesimo teorico di Althusser negherebbe secondo Gold-
mann il soggetto su entrambi i piani.
Le Trois notes sur la théorie des discours, scritte nel 1966 e rimaste ine-
dite sino al 1993, rivelano come la posizione althusseriana sia in realtà un
tentativo di pensare in termini transindividuali tanto il soggetto individuale
che quello collettivo. Come in Simondon dunque, il transindividuale non
è identificabile con il soggetto collettivo, bensì come la complessa trama
di relazioni al cui interno si costituiscono tanto i soggetti individuali (le
libido59) che i soggetti collettivi. Proprio alla precisa definizione dei livelli
e delle articolazioni di questa trama sono dedicate le Trois notes.
In primo luogo Althusser mostra come il soggetto, o meglio l’effetto-
soggettività, sia prodotto in modo differente all’interno di discorsi di tipo
differente: discorso ideologico, estetico, scientifico, inconscio.

Se compariamo tra di loro i diversi effetti-soggetto prodotti attraverso le


differenti forme di discorso, costatiamo 1) che il rapporto di questi soggetti
ai discorsi considerati non è lo stesso, 2) detto altrimenti che la posizione del
soggetto ‘prodotto’ o indotto dal discorso rispetto al discorso stesso cambia. È
così che il soggetto ideologico fa parte in persona, è presente in persona nel
discorso ideologico, poiché è lui stesso un significante determinato di questo
discorso. Costatiamo che il soggetto del discorso scientifico è invece [en re-
vanche] assente in persona dal discorso scientifico, non essendo designato da
alcun significante (soggetto evanescente, che si iscrive in un significante solo
a condizione di sparire dalla catena nell’istante in cui appare in esso – sennò
la scienza passa nell’ideologia). Il soggetto del discorso estetico per interposte
persone (sempre al plurale). Il soggetto del discorso inconscio occupa una po-
sizione differente da tutti i precedenti: è ‘rappresentato’ nella catena dei signi-
ficanti da un significante che ne ‘tiene il luogo’, è dunque assente dal discorso
dell’inconscio per ‘luogo-tenenza’60.

Ciascuno di questi discorsi ha una sua struttura specifica, significanti


e materie differenti, funzione e articolazione differente rispetto agli altri
discorsi61. Ora, proprio nel tentativo di pensare l’articolazione del discor-

59 Nella seconda nota Althusser insiste sul fatto che la libido è un effetto del dicorso
dell’inconscio, precisando che «l’effet libido n’est pas plus extérieur au discours/
inconscient que la libido (comme cause) ne lui est extérieure et antérieure», in
altre parole «l’effet n’est rien d’autre que le discours même» (L. Althusser, «Trois
notes sur la théorie des discours», in Id., Ecrits sur la psychanalyse, éd. par O.
Corpet e F. Matheron, Imec/Stock, Paris 1993, p. 158).
60 Ivi, p. 131.
61 Ivi, pp. 132-133.
V. Morfino - L’enjeu Marx Freud 201

so ideologico e del discorso dell’inconscio risiede il nocciolo teorico del


‘transindividuale’, pensato non à la Goldmann come ambito di ricerca con-
trapposto a quello dell’individuale, ma come luogo di costituzione dell’in-
dividuale e del sociale. Ecco la proposta althusseriana:

In tutte le formazioni sociali la base richiede la funzione-supporto (Träger)


come una funzione da assumere, come un posto da tenere nella divsione tecnica
e sociale del lavoro. Questa richiesta resta astratta: la base definisce le funzioni-
Träger (la base economica, e la sovrastruttura politica e ideologica in egual
modo), ma riguardo a chi deve assumere ed eseguire questa funzione, e come
questa assunzione può aver luogo, la struttura (base o sovrastruttura) che defi-
nisce queste funzioni se ne frega: «non vuole saperlo» […]. È l’ideologia che
assicura la funzione di designare il soggetto (in generale) che deve occupare
questa funzione, e per questo deve interpellarlo come soggetto, fornendogli le
ragioni-di-soggetto dell’assumere questa funzione. L’ideologia interpella l’in-
dividuo costituendolo come soggetto (ideologico: dunque del suo discorso), e
fornedogli le ragioni-di-soggetto (interpellato come soggetto) dell’assumere le
funzioni-di-Träger attraverso la struttura. […] Avanzerei allora l’idea seguen-
te: che la funzione-soggetto, che è l’effetto proprio del discorso ideologico,
richieda a sua volta, prodotto o indotto … un effetto proprio, che è l’effetto
inconscio, o l’effetto soggetto-del-l’incoscio, cioè la struttura propria che per-
mette il discorso dell’inconscio. Questa ultima funzione permette alla funzione
soggetto d’essere assicurato nel misconoscimento62.

Il discorso ideologico, come ripeterà in Ideologia e apparati ideologici


di Stato, è un discorso a centration spéculaire. Ma la tesi che Althusser
avanza nelle Trois notes è più radicale: l’interpellazione come soggetti de-
gli individui umani produce in loro un effetto specifico, l’effetto inconscio,
che permette agli individui di assumere la funzione di soggetti ideologici.
Althusser insiste sul fatto che non si deve pensare in termini di genesi, di
filiazione dell’inconscio dall’ideologico, ma in termini di articolazione dif-
ferenziale. Si tratta: 1) di constatare l’esistenza di un effetto inconscio che
costituisce una struttura autonoma, 2) di pensare l’articolazione di questa
struttura sulla struttura ideologica, evitando sia sociologismo che psicolo-
gismo, i quali ricercano appunto la ‘genesi’. Scrive Althusser:

Diremo quindi che si constata l’esistenza di una istanza specifica, quella


dell’inconscio; che l’inconscio è strutturato «come un linguaggio», dunque co-
stituisce un discorso reso possibile dall’esistenza di un certo numero di signifi-
canti propri (che in generale non sono delle parole), discorso che è sottoposto
alle leggi generali del discorso e che, come ogni discorso, produce, induce un

62 Ivi, pp. 134-135.


202 Il transindividuale

effetto-soggetto. Diremo che il discorso dell’inconscio produce un ‘soggetto’


che è ‘respinto’ dal discorso di cui è il soggetto, che figura in esso per luogo-
tenenza (dato che un significante lo rappresenta in esso, in senso lacaniano).
Diremo che l’esistenza di questo discorso dell’inconscio, e del soggetto spe-
cifico che lo induce, è indispensabile perché funzioni il sistema attraverso cui
l’individuo assume il suo ‘ruolo’ di soggetto ideologico, interpellato in quanto
soggetto ideologico dall’ideologia63.

L’articolazione dell’inconscio sull’ideologia è fondamentale, «l’incon-


scio è un meccanismo che ‘funziona’ massicciamente a ideologico»64:

Che cosa significa questa espressione? Designa il fatto della ripetizione degli
effetti dell’inconscio in ‘situazioni’ in cui l’inconscio produce i suoi effetti, cioè
esiste in formazioni tipiche (sintomi ecc.). Queste formazioni sono osservabili e
definibili. La caratteristica propria di queste ‘situazioni’ è quella di fare corpo con
le formazioni dell’inconscio che sono realizzate in esse. Detto altrimenti consta-
tiamo che l’inconscio esiste nel ‘vissuto’ oggettivo-soggettivo (utilizzo provvi-
soriamente questi termini), e vi realizza alcune di queste formazioni. […] Ora,
cos’è una ‘situazione’? È un formazione dell’ideologico, formazione singolare,
in cui il ‘vissuto’ è informato dalla struttura (e le modalità specifiche) dell’ideolo-
gico, è questa struttura stessa nella forma dell’interpellazione ricevuta65.

Dunque l’affermazione secondo cui l’inconscio funziona a ideologia si-


gnifica secondo Althusser che l’inconscio produce le sue formazioni nelle
formazioni del discorso ideologico, mostrandoci la sua articolazione speci-
fica con l’ideologico. Tuttavia questa espressione deve essere specificata:

Notiamo effettivamente nell’esperienza clinica, che non ogni formazione


ideologica conviene alla ‘presa’ dell’inconscio, ma che è operata una selezione
tra le ‘situazioni’, o che le situazioni sono incurvate [infléchies] e perfino pro-
vocate perché questa presa abbia luogo […]. Detto in altro modo l’inconscio
(un inconscio determinato) non funziona a qualsiasi formazione ideologica, ma
ad alcune tra di esse, che presentano una configurazione tale per cui il meccani-
smo dell’inconscio vi possa ‘giocare’, tale per cui le formazioni dell’inconscio
possano farvi ‘presa’66.

Dunque l’inconscio non funziona in virtù di qualsiasi formazione


ideologica, ma solo in virtù di alcune di esse. Ciò significa che l’articolazione
non è mai generale, ma sempre selettivo-costitutiva. In altre parole il

63 Ivi, pp. 139-140.


64 Ivi, p. 141.
65 Ivi, pp. 141-142.
66 Ivi, p. 143.
V. Morfino - L’enjeu Marx Freud 203

discorso dell’inconscio si produce in e attraverso il discorso ideologico,


attraverso lo specifico frammento del discorso ideologico su cui fa presa
il discorso dell’inconscio, essendo assente da quel discorso, cosicché «il
discorso dell’ideologico serve da sintomo al discorso dell’inconscio in
questione»67.
A partire dalla definizione di questa specifica articolazione di inconscio
e ideologia, di una struttura su un’altra, potrebbe, secondo Althusser, esse-
re di nuovo posta la questione dello statuto delle categorie della seconda
topica freudiana (l’Io, il Super Io e l’Es):

L’Io che dice ‘io’ è evidentemente molto vicino al ‘soggetto’ del discorso
ideologico: il ‘Super Io’ è molto vicino al Soggetto che interpella sotto forma
di soggetto ogni soggetto ideologico. […] il grande Altro che parla nel discorso
dell’inconscio, sarebbe allora non il soggetto del discorso dell’ideologico, Dio,
il Soggetto ecc., ma il discorso dell’ideologico stesso instaurato come soggetto
del discorso dell’inconscio, cioè come effetto di questo discorso, presente nel
significante di questo discorso come assente per rappresentazione in un signifi-
cante (presente-assente per ‘luogo-tenenza’)68.

Althusser sottolinea che non si tratta di identificare le categorie di una


struttura con quelle di un’altra, ma piuttosto di mostrare con precisione
come «alcuni elementi strutturali […] appartengano allo stesso tempo alla
struttura del discorso dell’ideologico e dell’inconscio, e che alcune rela-
zioni strutturali (es. la centrazione) appartengono allo stesso tempo alla
struttura del discorso dell’ideologico e del discorso dell’inconscio – ma
ogni volta in posizioni differenti assegnate dalla struttura sulla quale queste
categorie e queste relazioni strutturali sconfinano»69
La definizione di questa articolazione permetterebbe di affrontare la
questione dell’instaurazione dell’inconscio nel bambino, sostituendo la
problematica della ‘genesi’, con quella della «congiunzione di elementi
differenti che fanno presa sotto la forma dell’inconscio nel bambino»70:

Credo che non si possa porre questo problema sotto forma di un problema,
ma solamente disporre gli elementi in presenza che ‘presiedono’ alla congiun-
zione che ‘fa presa’ sotto forma di inconscio ; si deve però utilizzare il ter-
mine ‘presiedono’ nel senso della funzione di presidenza, che si esercita per
definizione sempre a distanza. […] Ora, questi elementi in presenza esistono

67 Ivi, p. 144.
68 Ivi, pp. 144-145.
69 Ivi, p. 146.
70 Ibidem.
204 Il transindividuale

nei personaggi della scena familiare, della situazione familiare : ‘situazione’


ideologica in cui si producono, come costitutivi di questa ‘situazione’, gli
effetti d’articolazione degli inconsci della madre e del padre sopra e nella
struttura di questa situazione ideologica. Inconsci articolati sull’ideologico,
degli inconsci articolati gli uni sugli altri attraverso l’intermediario (nella)
loro articolazione sull’ideologico, ecco ciò che compone la ‘situazione’ che
presiede all’instaurazione dell’inconscio del bambino71.

9. Marx, Freud e Darwin

I personaggi teorici attorno a cui si gioca la questione della definizione


di un modello di transindividualità sono evidentemente Marx e Freud. Ma
forse, un terzo personaggio, da dietro le quinte, gioca un ruolo altrettanto
fondamentale: Charles Darwin.
Proprio a proposito della questione della genesi Goldmann ricorda la
superiorità della posizione di Marx rispetto a quella di Darwin:

Il pensiero dialettico, senza misconoscere l’importanza del passato e del


presente, vede nondimeno nell’avvenire un fattore importante della spiegazio-
ne positiva; esso rende giustizia all’ipotesi di uno strutturalismo genetico uni-
versale che vede in ogni dato, passato o presente, un insieme di virtualità che
non prenderanno il loro vero significato se non attraverso la loro evoluzione
ulteriore e la loro inserzione nelle strutturazioni in corso e le strutture dina-
miche e relativamente equilibrate che genereranno queste ultime. Malgrado
la sua immensa ammirazione per Darwin, Marx ha nettamente marcato questa
differenza quando ha scritto nella prefazione all’«Introduzione» alla Critica
dell’economia politica che l’«anatomia dell’uomo è una chiave per l’anatomia
della scimmia»72.

E se il problema fosse tutto racchiuso in questo breve passaggio? E se


pensare un concetto materialista di ‘transindividuale’, come si è tentato di
fare attraverso Althusser, richiedesse l’inversione della gerarchia tra le po-
sizioni di Marx e di Darwin? Nell’«Introduzione» del 1857 quando Marx
afferma che «l’anatomia dell’uomo è una chiave per l’anatomia della scim-
mia» intende dire che in base alla conoscenza del grado più alto e più svi-
luppato è possibile comprendere ciò che nei gradi inferiori si trova appena
accennato, mentre viceversa «ciò che nelle specie animali inferiori accenna
a qualcosa di superiore può essere compreso solo se la forma superiore è

71 Ivi, p. 147.
72 L. Goldmann, «L’esthétique du jeune Lukács», in Id., Marxisme et sciences hu-
maines, cit., p. 233.
V. Morfino - L’enjeu Marx Freud 205

già conosciuta»73. Questo passaggio marxiano è dominato da un modello


di filosofia naturale inteso come Stufenfolge, serie graduale ed orientata di
perfezioni, che ha dominato l’Ottocento tedesco dalla Naturphilosophie
sino all’evoluzionismo à la Haeckel. Per non fare che un esempio, Hegel
a proposito delle organizzazioni viventi meno sviluppate scriveva nella fi-
losofia della natura:

Ciò che in esse appare irrilevante [untergeordnet], p. es. organi senza fun-
zioni, diventa chiaro solo mediante le organizzazioni superiori, in cui si ricono-
sce il posto che ciò occupa74.

La funzione degli organi della scimmia si spiegherebbe in base alla fun-


zione degli organi analoghi nell’uomo. Ora, proprio Darwin ci proibisce
un tale passaggio. Gli organi appena accennati, senza funzioni, non posso-
no essere selezionati se non in quanto giocano un ruolo differente, hanno
una funzione differente nell’organismo cosiddetto inferiore. Il complesso
equilibrio tra interno ed esterno, tra organi e ambiente, di cui è costituito
ogni scenario bio-geografico, non può essere spiegato in base alla funzione
di organi più complessi che agiscono in un altro scenario, ma deve essere
spiegato attraverso il tessuto di relazioni di quell’interno e di quell’esterno.
Questa mi sembra l’importanza metodologica fondamentale del concetto
gouldiano di exaptation: il divieto di spiegare il presente in base al futuro,
di proiettare la funzione futura su quella presente.
La medesima cautela metodologica può essere trasposta sul piano della
storia, ed in fondo è proprio questo che Althusser fa quando impone di non
proiettare l’esistenza della borghesia e del proletariato all’origine del modo
di produzione capitalistico. Proprio la dissociazione di genesi e struttura sta
alla base del tentativo di costruire un concetto materialista del ‘transindi-
viduale’, capace di pensare il primato della relazione sugli elementi ed allo
stesso tempo la ‘necessità della contingenza’ di questa relazione.

73 K. Marx, Grundrisse, in Marx Engels Gesamtausgabe, Abt. 2, Bd.1, T. 1, Dietz


Verlag, Berlin 1976, p. 40, a cura di E. Grillo, vol. 1, La Nuova Italia, Firenze
1968, p. 33.
74 G.W.F. Hegel, System der Philosophie (Zweiter Teil: Die Naturphilosophie), in
Id., Sämtliche Werke, hrsg. von H. Glockner, Bd. 9, Frommann, Stuttgart 1929,
p. 61.
207

JASON READ
LA PRODUZIONE DELLA SOGGETTIVITÀ.
DAL TRANSINDIVIDUALE AL COMUNE

La congiuntura attuale è contrassegnata da un’impasse cruciale per quel


che riguarda il modo di affrontare la questione della politica. Ciò è dovuto
in parte al fatto che le differenti figure attraverso cui affrontarla – il cittadi-
no, il lavoratore o il militante – hanno esaurito il loro senso: il cittadino è
stato sostituito dal gruppo di interesse, il lavoratore dall’investitore del pro-
prio capitale umano e il militante dal terrorista. Come scrive Alain Badiou:

Questo soggetto politico ha avuto numerosi nomi. Si è chiamato cittadino,


non certo nel senso dell’elettore o del consigliere municipale, ma nel senso del
cittadino della sezione di Piques, quello del 1793. Si è chiamato rivoluzionario
di professione. Si è chiamato militante delle situazioni di massa. Siamo proba-
bilmente in un tempo in cui il suo nome è sospeso, in un tempo in cui bisogna
trovarne il nome1.

Invece di lavorare nella direzione supposta da Badiou, e trovare un nuo-


vo nome per il soggetto politico, vorrei concentrarmi in questo saggio sulla
‘produzione di soggettività’. La produzione di soggettività, il modo in cui
gli esseri umani sono costituiti in quanto soggetti, attraverso le strutture del
linguaggio e del potere; adottare un siffatto concetto è spesso visto come
negazione completa dell’agire [agency2] politico, cioè come affermazione
che tutto è effetto di potere e che l’agire [agency] e l’azione [action] non
possono esistere. Ciò che io vorrei invece proporre è che, lungi dal rappre-
sentare un vicolo cieco teorico per la politica, la produzione di soggettività
è la condizione del suo rinnovamento. Solo esaminando il modo in cui la
soggettivazione è prodotta possiamo comprendere come essa potrebbe es-
sere prodotta altrimenti, trasformando se stessi, invertendo una condizione
passiva in un processo attivo. La connessione tra produzione e politica che

1 A. Badiou, Metapolitica, tr. it. di M. Bruzzese, Cronopio, Napoli 2001, p. 117.


2 [Agency indica una proprietà strutturale del soggetto-dell’-azione, e rinvia a con-
cetti quali l’iniziativa o l’autonomia; action rimanda all’azione puntuale e localiz-
zata: n.d.T.].
208 Il transindividuale

sostiene il progetto marxista resta sempre valida, ma la produzione neces-


sita di essere compresa nel senso più ampio, non solo in quanto lavoro, in
quanto fatica spesa nella fabbrica, ma come miriade di modi in cui le azio-
ni, le abitudini, e il linguaggio producono effetti, compresi gli effetti sulla
soggettività, sui modi di percepire, comprendere e rapportarsi al mondo.
In quanto prospettiva filosofica, o linea di ricerca, la produzione di sog-
gettività è essenzialmente disorientante, in primo luogo poiché essa ci co-
stringe a trattare qualcosa che è generalmente considerato come originario
nella società liberal-individualistica, il soggetto o l’individuo, come un che
di prodotto, e di vedere dunque la causa e l’origine delle azioni come un
effetto di una produzione precedente.
Questa prospettiva è trasversale rispetto alle vie tradizionali del pensiero
filosofico, e articola cause con effetti, condizioni materiali con stati interio-
ri, oggetti con soggetti. Come gesto iniziale di orientamento, propongo che
la produzione di soggettività sia almeno provvisoriamente definita lungo
due assi che essa taglia trasversalmente: quello base/sovrastruttura e quel-
lo struttura/soggetto. Anziché comprendere il lavoro di Marx tramite la
spesso citata figura base-e-sovrastruttura, in cui la produzione delle cose e
la riproduzione della soggettività sono assegnate ciascuna ad un grado di
effettività secondo una struttura gerarchica, è forse più interessante con-
siderare la sua opera attraverso l’intersezione di un modo di produzione
e di un modo di assoggettamento [subjection]. Questa affermazione trova
un supporto testuale nei molteplici luoghi in cui Marx fa riferimento alla
preistoria del capitalismo, al crollo del feudalesimo e ai modi precedenti
di produzione. Non è sufficiente per il capitalismo costituirsi economica-
mente, sfruttare i flussi di ricchezza e di lavoro, ma deve costituirsi anche
soggettivamente, sviluppare i desideri e gli habitus necessari per la sua
auto-perpetuazione3. Come scrive Marx:

Man mano che la produzione capitalistica procede, si sviluppa una classe


operaia che per educazione [Erziehung], tradizione, abitudine [Gewohneit],
riconosce come leggi naturali ovvie le esigenze di quel modo di produzione4.

Così, la produzione di soggettività richiede che due lati della realtà


sociale, quella della costituzione delle idee e dei desideri, e quella della
produzione delle cose, siano pensati non come gerarchicamente strutturati

3 Entrambi questi punti sono maggiormente sviluppati nel mio The Micro-Politics
of Capital: Marx and the Prehistory of the Present, SUNY, Albany 2003.
4 K. Marx, Il Capitale, tr. it. di D. Cantimori, vol. I, Editori Riuniti, Roma 1980, p.
800.
J. Read - La produzione della soggettività. Dal transindividuale al comune 209

l’uno rispetto all’altro, ma completamente immanenti, simultanei e interni


ai medesimi siti. Ciò non significa ovviamente, che la produzione della
soggettività sia puro assoggettamento, la soggettività non è semplicemen-
te un effetto della struttura economica, privo di una specifica causalità e
di specifici effetti, effetti che sono anche in un rapporto di antagonismo
rispetto alle esigenze della struttura economica. Questa combinazione di
assoggettamento e soggettività può essere compresa facendo attenzione ai
due sensi del sintagma produzione di soggettività come non-identità si-
multanea del modo in cui la soggettività è prodotta e del modo in cui la
soggettività è produttiva, non solo in termini di valore o ricchezza, ma della
sua capacità generale di produrre effetti. Il soggetto è in un certo senso un
effetto della struttura, ma non è mai solo un effetto della struttura. Questo
può essere correlato alla logica dell’antagonismo nel Capitale di Marx,
dalla discussione del processo lavorativo fino alla lotta sull’orario gior-
naliero di lavoro: ad ogni passo i soggetti che il capitale produce, tramite
addestramento, educazione e habitus, producono un surplus di soggettività,
di desideri e bisogni, in lotta contro il sito stesso della loro costituzione.

1. Dal Gattungswesen al transindividuale

Ho ricapitolato brevemente questi due aspetti solo per introdurre due


ulteriori problemi recati dalla produzione di soggettività; e cioè, rispettiva-
mente: la relazione dell’individuo alla società e la soggettivazione politica.
È in relazione a questi problemi che noi vediamo la difficoltà di questo
orientamento, la sua sfida ai modi esistenti di pensare, e la sua promessa, la
sua capacità di riorientare il pensiero.
Questi problemi, quello di un’ontologia sociale e quello politico, ad un
primo sguardo sembrerebbero non solo distinti, ma anche distanti, l’uno
dall’altro, il primo essendo speculativo e il secondo pratico. Tuttavia, essi
sono inseparabili, uniti dalla difficoltà di immaginare forme differenti di
collettività, un compito che richiede la creazione di nuovi modi di pen-
siero e la distruzione di un’ontologia individualistica (il fardello di questa
ontologia individualistica ha gravato sulle teorie della produzione e della
costituzione della soggettività, conducendo a immaginare la produzione di
soggettività come un progetto individualistico di auto-stilizzazione estetica
o come distanziamento ironico dalle condizioni della produzione).
Muovere dalla produzione di soggettività significa che il soggetto, l’in-
dividuo, dev’esser visto come prodotto, come un effetto, e che quindi esso
non può avere il privilegio della datità, della base irriducibile dell’ontolo-
210 Il transindividuale

gia, dell’epistemologia e della politica. Inoltre, tener fermo ad entrambi i


sensi del genitivo, cioè alla simultanea non-identità del modo in cui la sog-
gettività è produttiva e prodotta, significa che il soggetto può essere visto
non solo come un semplice effetto della società. Così, le due vie alla com-
prensione della relazione tra l’individuo e la società, iniziare dagli individui
come un dato comprendendo la società come null’altro che la somma totale
degli individui, o invece iniziare dalla società e vedere gli individui come
semplici effetti di una struttura più ampia, sono esclusi dall’inizio. Come
osserva Etienne Balibar, queste due concezioni, che possiamo chiamare
individualismo e olismo (o organicismo), rappresentano la parte preponde-
rante della riflessione Occidentale sulla questione del rapporto individuo/
società5. Così, il problema politico e il problema ontologico si rivelano,
se non identici, almeno assai simili; in ciascun caso si tratta di pensare al
di là dell’opposizione tra individuo e società, di spostarsi al di là di questi
punti di partenza per cogliere il nesso produttivo da cui gli individui come
le collettività emergono.
Il pensiero di Marx tenta in alcune occasioni di rompere con ambedue
queste opzioni. Dico: ‘in alcune occasioni’, perché malgrado il fatto che la
sociologia marxiana si opponga in modo coerente sia all’individualismo
che all’olismo – organicista o funzionalista – metodologici, Marx argo-
menta contro queste prospettive solo in quei momenti occasionali in cui
egli riflette sulle proprie opzioni filosofiche fondamentali.
Come egli scrive, criticando l’individuo isolato posto come fondamento
dal pensiero economico classico:

L’uomo è nel senso più letterale del termine uno ζῶν πολιτικόν, non solo
un animale sociale, bensì un animale che può isolarsi solo nella società6.

Come renderemo più chiaro in seguito, ciò che vi è di essenziale in que-


sto punto è che l’alternativa tra l’individuo e il collettivo è rifiutata: l’indi-
viduazione è inevitabilmente un processo sociale. Più fondamentalmente,
si può sostenere che il nucleo della critica dell’economia politica di Marx,
dai primi testi sull’alienazione fino al Capitale, è l’idea che il capitale non
sfrutta solo gli individui, ma le stesse condizioni collettive della soggetti-
vità, a cui Marx si riferisce con il termine essenza generica (Gattungswe-

5 E. Balibar, Spinoza: From Individuality to Transindividuality, Eburon, Rijnsburg


1997, p. 6, tr. it. di L. Di Martino e L. Pinzolo in Id., Spinoza. Il transindividuale,
Edizioni Ghibli, Milano 2001, p. 113.
6 K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, tr. it. di G.
Backhaus, in Marx Engels Opere, vol. 29, Editori Riuniti, Roma 1986, p. 18.
J. Read - La produzione della soggettività. Dal transindividuale al comune 211

sen). Tuttavia, per ragioni più storiche che filosofiche, Marx considerava
questa essenza generica essenzialmente come costituita dal lavoro, e dal
lavoro inteso specificamente come la produzione di cose per mezzo del
corpo e delle mani. Il lavoro è inevitabilmente collettivo, in parte perché
ingloba le basi biologiche della soggettività; esso è correlato alla nostra
condizione comune di necessità biologica. Il lavoro non è solo una costan-
te antropologica che definisce la relazione metabolica dell’uomo con la
natura: esso comporta abilità, strumenti e conoscenze, tutti prodotti dalla
storia e dalle relazioni sociali. Il lavoro è l’inevitabile relazione dell’uma-
nità con la natura, e la costituzione di una seconda natura inorganica. Il la-
voro è costituito da, e costituisce, habitus, pratiche e schemi operativi che
attraversano gli individui, creando una relazione sociale ed un patrimonio
condiviso di conoscenze. Il lavoro non è solo una condizione passivamente
condivisa, quella del bisogno, ma ci pone attivamente in una relazione di
reciprocità: lavorare è sempre lavorare in relazione ad altri. Le afferma-
zioni più chiare di Marx a proposito dello sfruttamento capitalistico delle
condizioni collettive della soggettività si trovano nel capitolo del Capitale
dedicato alla cooperazione. Come Marx osserva, quando un gran numero
di persone sono riunite in un luogo come un’officina, la somma totale della
loro attività produttiva eccede quella dei lavori singoli dello stesso numero
di individui, ma isolati. Marx scrive: «Nella cooperazione pianificata con
altri l’operaio si spoglia dei suoi limiti individuali e sviluppa le facoltà del-
la sua specie»7. Lo sfruttamento non riguarda l’individuo, l’alienazione di
ciò che è unico e proprio all’individuo, ma piuttosto ciò che è im-proprio
all’individuo, e che esiste solo in relazione.
Malgrado il fatto che Marx collochi questo sfruttamento delle condizio-
ni collettive della soggettività al centro stesso del Capitale, non analizza
teoreticamente queste condizioni. Marx è da molti punti di vista alquanto
nominalista rispetto alle cause di questo surplus sociale, che è la ragione
per cui un gruppo che lavora insieme è necessariamente più della somma
delle proprie parti. Marx scrive:

Che la giornata lavorativa combinata riceva tale forza produttiva accresciu-


ta, nel caso dato, perché essa eleva il potenziale meccanico del lavoro, o perché
contrae nello spazio, in rapporto alla scala di produzione, il campo di produ-
zione, perché nel momento critico rende liquido molto lavoro in poco tempo,
o perché eccita l’emulazione dei singoli intensificandone gli spiriti vitali, o
perché imprime alle operazioni dello stesso genere compiute da molte persone
il carattere della continuità e della multilateralità, o perché compie contempo-

7 K. Marx, Il Capitale, cit., p. 370.


212 Il transindividuale

raneamente operazioni differenti, o perché economizza i mezzi di produzione


mediante l’uso in comune di essi, o perché conferisce al lavoro individuale il
carattere di lavoro sociale medio, – in ogni caso, la forza produttiva specifica
della giornata lavorativa combinata è forza produttiva sociale del lavoro, ossia
forza produttiva del lavoro sociale. E deriva dalla cooperazione stessa. Nella
cooperazione pianificata con altri l’operaio si spoglia dei suoi limiti individuali
e sviluppa la facoltà della sua specie [Gattungsvermögen]8.

Marx elenca tutte le possibili cause, dagli spiriti vitali al conformismo


di massa, restando egualmente aperto ed egualmente indifferente alle di-
verse cause della cooperazione. Per lui è sufficiente dire che l’uomo è un
animale sociale, e partire da ciò. Il che non significa che egli resti del tutto
silenzioso quanto alle basi dell’esistenza collettiva. Nei suoi momenti più
teoretici o speculativi Marx fa riferimento alla natura inorganica, o al cor-
po, come base della soggettività. In prima istanza, e restando in prossimità
degli aspetti generali dell’essenza generica, questo corpo inorganico è la
natura stessa, la natura considerata nella sua totalità: l’animale interagisce
con una parte specifica della natura, cioè con il suo ecosistema, mentre
l’uomo interagisce con la natura nella sua interezza, materialmente ed este-
ticamente9. Negli scritti più tardi Marx usa il termine ‘corpo inorganico’
per accentuare il fatto che queste precondizioni non sono semplicemente
date, ma sono in effetti prodotte. Il corpo inorganico dell’uomo include la
seconda natura, habitus, strumenti, e strutture – tutto quanto funzioni come
precondizione dell’attività produttiva. Così, il corpo inorganico è situato al
punto di indistinzione tra natura e storia10.
Inoltre, queste condizioni non sono solo fisiche, in qualità di strumen-
ti e condizioni naturali, ma inglobano altrettanto le precondizioni mentali
della produzione. Meglio: ogni strumento è indissociabile dagli habitus,
dai modi dell’agire e di comportarsi. Così, se una componente mentale
irriducibile accompagna ogni tipo di lavoro, separando «il peggiore degli
architetti dalla migliore delle api», questa componente mentale è irriduci-
bilmente collettiva anch’essa, composta di conoscenze condivise incarnate
in habitus e pratiche11.
In modi diversi ma correlati, Balibar e Paolo Virno hanno suggerito il
termine ‘transindividuale’ allo scopo di nominare e concettualizzare ciò

8 Ibidem.
9 K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, tr. it. di G. Della Volpe, in
Marx Engels Opere, vol. 3, Editori Riuniti, Roma 1976, pp. 328-329.
10 F. Fischbach, La production des hommes: Marx avec Spinoza, PUF, Paris 2005, p.
56.
11 K. Marx, Il Capitale, cit., p. 284.
J. Read - La produzione della soggettività. Dal transindividuale al comune 213

che Marx designa tramite concetti presi a prestito quali ‘essenza generica’ e
‘corpo inorganico’. Il termine è tratto dall’opera di Gilbert Simondon, che
interroga il privilegio attribuito dal pensiero Occidentale al principio di in-
dividuazione12. Per Simondon l’individuazione deve essere colta come un
processo di cui l’individuo non è né il fine ultimo né l’inizio assoluto, ma
l’effetto continuo di un’attività. Vi sono multiple e successive individuazio-
ni, fisiche, biologiche, psichiche e collettive, ciascuna delle quali risolve il
problema posto dalle altre, e trasforma i termini fondamentali della relazio-
ne. Alla base delle idee di Simondon vi è un fatto fondamentale dell’esisten-
za, che Marx indica (e Virno sottolinea): ciò che forma il nucleo stesso e la
stessa base della nostra individualità, la nostra soggettività, le sensazioni,
il linguaggio e gli habitus, non può esserci esclusivo in quanto individui13.
Questi elementi possono essere descritti solo come pre-individuali, come
precondizioni della soggettività. In un certo senso essi neppure esistono,
almeno in qualità di cose individualizzate; essi rappresentano piuttosto una
condizione metastabile, un flusso di possibilità. Virno, seguendo le orme di
Simondon, delinea tre livelli differenti di singolarità preindividuale: le sen-
sazioni e le pulsioni che costituiscono la base biologica della soggettività; il
linguaggio che ne costituisce le relazioni psichiche e collettive; e le relazioni
produttive, che costituiscono l’articolazione storica del pre-individuale14.
L’esempio più chiaro della posta in gioco della scelta di connotare que-
ste diverse relazioni e attività come pre-individuali può essere osservato
riferendosi all’esempio specifico del linguaggio. Il linguaggio è transindi-
viduale; non esiste, è abbastanza noto, qualcosa come un linguaggio priva-
to. Ma esso è anche fondamentalmente pre-individuale: il linguaggio non è
composto di cose individuali, come le parole, ma di relazioni differenziali.
Virno segue Saussure nel definire il linguaggio come un sistema di rela-
zioni, ma accentua il fatto che ciò dovrebbe essere visto come l’insostan-
zialità fondamentale del linguaggio, la sua metastabilità, piuttosto che la
sua struttura15. Il linguaggio non è l’enunciato o il sistema, ma il sistema
metastabile di relazioni tra i due: ogni enunciazione presuppone un sistema
di differenze come condizione della sua articolazione, ma ogni sistema è

12 G. Simondon, L’individuation à la lumière des notions de forme et d’information,


Millon, Grenoble 2005, p. 23.
13 P. Virno, Quando il verbo si fa carne, Bollati Boringhieri, Torino 2003, pp.
188-191.
14 P. Virno, Grammatica della moltitudine. Per una analisi delle forme di vita con-
temporanee, DeriveApprodi, Roma 2002, pp. 75-77.
15 P. Virno, «Il cosiddetto ‘male’ e la critica dello Stato», in Forme di vita, 4, 2005,
p. 28.
214 Il transindividuale

in corso continuo di trasformazione da parte delle enunciazioni che lo at-


traversano. Così, per proseguire nell’esempio del linguaggio, le singolarità
pre-individuali esistono come un insieme di relazioni articolato differen-
zialmente – o almeno di relazioni possibili, in effetti metastabili. Queste
precondizioni non sono semplicemente il materiale grezzo della sogget-
tività; non sono completamente trasformate in un soggetto, ma persistono
come un potenziale inesausto assieme al soggetto16. In noi c’è sempre più
della nostra identità putativa come individui, ed è solo a causa di ciò che
qualcosa come la collettività o le relazioni sociali sono possibili17. I due
concetti centrali dell’ontologia, o dell’onto-genetica, di Simondon, cioè
pre-individuale e trans-individuale, sono strettamente complementari: è a
causa del fatto che l’individuo è solo un processo, un’individuazione di un
campo metastabile di differenza pre-individuale, che è possibile pensare il
transindividuale come altra cosa che una collezione di individui.
Da questo punto di vista è essenzialmente scorretto porre qualcosa come
la ‘società’ e l’‘individuo’ alla stregua di due entità separate, la cui relazione
giustamente fa problema. Per Simondon il transindividuale non è qualcosa
che sta al di sopra degli individui, ma nient’altro che l’articolazione degli
individui. Gli individui sono individui del collettivo, di peculiari relazioni
e strutture sociali, proprio come i collettivi non sono altro che un riflesso
degli individui che li costituiscono. Il transindividuale non è la relazione
tra due termini già costituiti, l’individuo e la società, ma una relazione di
relazioni, che ingloba la relazione dell’individuo a se stesso, il processo
della sua individuazione psichica, come pure la relazione tra individui e la
relazione tra differenti collettività18.
Il transindividuale è da molti punti di vista un’articolazione del pre-
individuale, in quanto gli habitus, il linguaggio, gli affetti e le percezioni
formano la base di una cultura condivisa. Gli individui sono individuati in
relazione ad un linguaggio specifico o ad uno sfondo culturale comune,
non al linguaggio o alla cultura in generale19. Il transindividuale, o il comu-
ne, è, come afferma Virno, ‘storico-naturale’: storico perché un linguaggio

16 Nella terminologia di Simondon, il termine ‘soggetto’ si riferisce alla coesistenza


dell’individuale e delle condizioni e singolarità rispettivamente transindividuali
e preindividuali. Vedi G. Simondon, L’individuation psychique et collective, Au-
bier, Paris 1989, pp. 204-205, tr. it. di P. Virno, DeriveApprodi, Roma 2001, p.
164.
17 Ivi, pp. 194-195, tr. it. cit., p. 156-159.
18 M. Combes, Simondon, Individu et collectivité: Pour une philosophie du transin-
dividuel, PUF, Paris 1999, p. 46.
19 B. Stiegler, Passer à l’acte, Galilée, Paris 2003, pp. 13-17.
J. Read - La produzione della soggettività. Dal transindividuale al comune 215

dato, un dato insieme di habitus o una cultura, è esso stesso l’effetto sto-
rico e contingente di varie trasformazioni, ma questa storia non cambia
il fatto che linguaggio, habitus e relazioni di produzione sono costitutive
dell’umanità come tale20. La produzione della soggettività, e i suoi corollari
concettuali quali transindividuale e preindividuale, implicano non solo di
ripensare l’antinomia di individuale e collettivo, ma di elaborare una nuova
ontologia e una nuova logica del pensiero su questa materia. Il soggetto è
un ‘individuo sociale’, non solo nel senso per cui esso vive entro la società,
ma nel senso che l’individualità può essere articolata, può essere prodotta,
solo all’interno della società21.

2. Dal transindividuale al comune

La trasformazione del capitale può essere vista come un’incorporazione


o sussunzione crescente della produzione di soggettività nel capitale, in
termini tanto di condizioni preindividuali che di relazioni transindividuali.
Il capitale comincia con la sussunzione formale, con la forza-lavoro, che
è inizialmente presa come essa si presenta secondo la sua struttura tra-
dizionale determinata dallo sviluppo tecnologico e sociale; ma, nel corso
dello sviluppo capitalistico, il capitale trasforma questa relazione basilare,
trasformando gli habitus che legano conoscenza e lavoro. Al posto degli
habitus sviluppatisi organicamente che connettono il lavoro della mano
con quello della testa, il capitalismo interpone la conoscenza combinata
della società, esteriorizzata nelle macchine e interiorizzata nei concetti e
nei modi di pensare. A questo punto il capitale non si limita a sfruttare il la-
voro, estraendone un surplus, ma altera in modo essenziale la società tutta
intera. La sussunzione in questo caso attraversa ambedue i lati della rela-
zione mercantile, inglobando il lavoro, che finisce per comprendere in sé il
lavoro del linguaggio, della mente e degli affetti, e la stessa forma-merce.
Se le sensazioni, il linguaggio, e gli habitus conoscitivi costituiscono
lo sfondo preindividuale della soggettività, allora si dovrà riconoscere che

20 P. Virno, «Il cosiddetto ‘male’ e la critica dello Stato», cit., p. 26.


21 «In questa situazione modificata [l’operaio] non è né il lavoro immediato, ese-
guito dall’uomo stesso, né il tempo che egli lavora, bensì l’appropriazione della
sua forza produttiva generale, la sua comprensione della natura e del dominio su
di essa attraverso la sua esistenza di corpo sociale – in breve lo sviluppo dell’in-
dividuo sociale, che si presenta come il grande pilastro della produzione e della
ricchezza» (K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica,
tr. it. di G. Backhaus, in Marx Engels Opere, vol. 30, p. 91).
216 Il transindividuale

gran parte di ciò che noi sentiamo, discutiamo e facciamo ci raggiunge


sottoforma di merce. È da questo punto di vista che possiamo cogliere la
dimensione ontologica della prima frase del Capitale – «La ricchezza delle
società nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico si presen-
ta come una ‘immane raccolta di merci’»22 – invertendola: qualunque cosa
appaia, lo fa come una merce.
Questa trasformazione di ciò che appare ha degli effetti sulla soggetti-
vità, come Marx stesso ci ricorda: la produzione non si limita a creare un
oggetto per il soggetto, ma crea anche un soggetto per l’oggetto23. Sotto il
regime della produzione di merci, la produzione di proprietà privata, ciò
induce una riduzione drastica del senso di un oggetto: «La proprietà privata
ci ha fatti talmente ottusi e unilaterali che un oggetto è nostro solo quando
lo abbiamo…»24.
La sussunzione reale della soggettività al capitale è articolata da due
differenti produzioni di soggettività, ciascuna definita da settori economici
differenti: in termini di produzione, c’è un movimento di allontanamento
dal lavoro come impresa solitaria, dal lavoro dell’artigiano il cui sforzo
individuale organizza il processo di lavoro, e di avvicinamento ad un la-
voro che impegna la conoscenza e il desiderio dell’umanità in generale,
mentre, simultaneamente, dal lato del consumo, si assiste ad una riduzione
del mondo intero a ciò che può essere posseduto, goduto nel comfort della
vita privata – una privatizzazione massiccia del desiderio.
La sussunzione reale è uno sfruttamento accresciuto del transindividuale
e una mercificazione del preindividuale. Questa divisione tra produzione e
consumo definisce in una certa misura il paradosso dell’esistenza sociale
sotto il regime capitalistico contemporaneo: mai gli esseri umani sono sta-
ti più sociali nella loro esistenza, né più individualizzati, privatizzati, nel
modo di comprendere attivamente la loro esistenza. Da un lato, la più sem-
plice delle azioni, dal cucinare un pasto allo scrivere un saggio, impegna
il lavoro di individui distribuiti su tutto il globo terrestre, materializzato
in merci, habitus e macchine; mentre, dall’altro lato, c’è una tendenza a
trasformare ogni cosa, ogni relazione sociale, in qualcosa che può essere
scambiata come merce.
Nei Grundrisse Marx fornisce forse la definizione più succinta di questa
relazione tra individuale e collettivo nei primi stadi del capitalismo. Egli
scrive:

22 K. Marx, Il Capitale, cit., p. 67.


23 K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, cit., p. 26.
24 K. Marx, I manoscritti economico-filosofici del 1844, cit., p. 139.
J. Read - La produzione della soggettività. Dal transindividuale al comune 217

Solo nel XVIII secolo, nella ‘società civile’ le differenti forme dei nessi so-
ciali si presentano al singolo come un puro mezzo per i suoi fini privati, come
una necessità esteriore. Ma l’epoca che crea questo modo di vedere, il modo
di vedere del singolo isolato, è proprio quella dei rapporti sociali (generali per
questo modo di vedere) finora più sviluppati25.

Entrambe queste tendenze si sono intensificate dal XVIII secolo ad oggi,


e noi siamo divenuti simultaneamente maggiormente connessi e discon-
nessi. La materializzazione dell’intelligenza collettiva nelle macchine pro-
duce nuovi effetti di isolamento «isolando gli attori sociali nelle loro auto-
mobili e davanti a schermi video separati»26. Le relazioni transindividuali,
che sono la cooperazione di menti, macchine e corpi multipli, producono
percezioni individualizzate e isolate. Come osserva acutamente Bernard
Stiegler, sarebbe scorretto identificare queste tecnologie, e gli habitus di
isolamento e separazione che comportano, con una ‘società dell’indivi-
dualismo’. Stiegler utilizza il concetto simondoniano di transindividuale
– compreso come una relazione costitutiva dell’individuale e del collettivo
– per abbozzare una diagnosi della tecnologia moderna27.
L’isolamento delle persone che guardano la televisione, affrontano le
frustrazioni degli ingorghi stradali nell’ora di punta o navigano in rete,
non è quello di individui intesi come punti singolari di differenza entro un
collettivo, ma una ripetizione serializzata dell’identico. In ciascun caso, la
percezione o la coscienza sono strutturate dallo stesso oggetto, il program-
ma televisivo, il tracciato stradale o il motore di ricerca, ma in un modo che
non può mai formare la base di un ‘noi’, di una collettività28.
Non c’è comune né collettività costituiti dai diversi individui che guar-
dano lo stesso programma, dalle diverse auto sulla stessa strada, o dalle
diverse connessioni allo stesso sito web: le altre persone incontrate in tali
contesti sono, nella migliore delle ipotesi, misurate quantitativamente, pro-
ducono effetti solo quanto al loro numero, alla peggio sono impegnati con
gli altri in modo competitivo, in quanto ostacoli agli obiettivi e alle inten-
zioni di ciascuno.
Da questa descrizione sommaria della congiuntura attuale è possibile
specificare ciò che si intende con politica della produzione di soggettivi-
tà. La politica tocca direttamente le condizioni preindividuali e transindi-

25 K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, cit., p. 18.


26 M. Hardt, A. Negri, Impero, tr. it. di A. Pandolfi, Rizzoli, Milano 2002, p. 300.
27 B. Stiegler, La télécratie contre la démocratie, Flammarion, Paris 2006, p. 61.
28 B. Stiegler, Aimer, s’aimer, nous aimer. Du 11 septembre au 21 avril, Galilée,
Paris 2003, pp. 29-30.
218 Il transindividuale

viduali della soggettività, essa riguarda la distribuzione, presentazione e


articolazione di queste. Tali condizioni costituiscono ciò che chiameremo
il comune [the commons]. Il comune è un termine che è divenuto oggetto
di larga parte della discussione politica e filosofica degli ultimi anni. Ad
un primo sguardo ciò potrebbe sembrare strano, poiché il termine è stato
inizialmente applicato alla proprietà comune dei pascoli e delle terre, una
forma sociale che è stata distrutta nella maggior parte del mondo. Tuttavia,
il comune può essere anche compreso come riferito non solo alle condizio-
ni necessarie dell’esistenza materiale, ma pure alla soggettività29.
La posta in gioco allora intorno ai vari ‘beni comuni’ [the various com-
mons], come la conoscenza e i prodotti digitali, è una lotta che riguarda
forze e relazioni che producono la soggettività come pure la ricchezza e
il valore di scambio. Come abbiamo visto, nel capitalismo il comune [the
common] è diviso, scisso tra lavoro, reificato in macchine e strutture, e
consumo, che lo riduce ad un oggetto privato da consumare passivamente.
Il compito politico presente deve essere in qualche modo legato all’at-
tualizzazione o alla manifestazione del comune. Il problema è come fare
del comune, cioè delle condizioni transindividuali e preindividuali della
soggettività, qualcosa d’altro che non lo sfondo incoativo dell’esperien-
za, qualcosa che possiamo afferrare attivamente, in modo che i soggetti
possano trasformare le proprie condizioni invece di esserne semplicemen-
te costituiti. Per plagiare Hegel, è necessario pensare il transindividuale
come soggetto piuttosto che come sostanza. Si tratta di portare lo sfondo,
la pluralità che sostiene il linguaggio, la sensazione e la conoscenza in
primo piano: trasformando una condizione passiva in una produzione at-
tuale. La politica della produzione di soggettività tratta della relazione tra
un soggetto e le condizioni della produzione. È in questione la produzione
e trasformazione delle relazioni stesse che ci producono. È possibile in-
terpretare questo progetto politico come un problema di costituzione di
una forma collettiva di soggettività contro un’esistenza individualizzata e
isolata. Questo è l’aspetto che tale conflitto assume in Marx – è un conflitto
tra due produzioni di soggettività: il mercato, o il consumo, che produce
non solo un mondo ridotto a proprietà, ma gli stessi individui come posses-
sori o consumatori, le cui relazioni sono governate secondo le finzioni di
«libertà, uguaglianza e Bentham»; e, al polo opposto, la fabbrica, che pro-
duce e sfrutta una collettività transindividuale. Laddove l’argomentazione
generale di Marx contro l’uomo ‘egoista’ della società civile coglie qualco-
sa di essenziale a proposito dell’ontologia sociale alla base dell’economia

29 A. Negri, Kairos, Alma Venus, Multitudo, Manifestolibri, Roma 2000, pp. 110-111.
J. Read - La produzione della soggettività. Dal transindividuale al comune 219

politica e del pensiero politico liberale, essa finisce però nella strada senza
uscita dell’opposizione individuo/società. Cioè a dire che essa ingenera
l’impressione che si possa semplicemente scegliere l’‘individuo’ o la ‘col-
lettività’ come un valore etico dell’individualismo o della solidarietà. Tut-
tavia, le cose non sono così semplici. Non è sufficiente opporre il collettivo
all’individuo, come le buone alle cattive forme della soggettivazione. In
primo luogo perché, come già osservato, ontologicamente, l’individuo, il
soggetto, non è altro che una modificazione delle condizioni preindividuali
e delle relazioni transindividuali. Come Marx afferma nei Grundrisse, è
necessario pensare l’individuo ‘isolato’ come sociale, come il prodotto e la
condizione di una società determinata: non vi è opposizione tra l’individuo
e il collettivo, solo differenti articolazioni della transindividualità, diffe-
renti produzioni della soggettività. Vi è una seconda e più complessa obie-
zione a questa opposizione: identificare il transindividuale al collettivo, ad
un qualche ideale di solidarietà, significa assumerlo come suscettibile di
rappresentazione. La precoce critica marxiana dello Stato nell’Ideologia
tedesca articolava uno iato tra le condizioni produttive della soggettività
e la rappresentazione di queste condizioni. Lo Stato è una «comunità ap-
parente» basata sui legami reali della carne e del sangue, del linguaggio e
della divisione del lavoro30. Questa fenditura che separa le condizioni pro-
duttive di soggettività e la rappresentazione di queste condizioni è fondata
sulla connessione tra transindividuale e soggettività. Le relazioni che costi-
tuiscono il transindividuale non sono che condizioni preindividuali meta-
stabili, un flusso simultaneamente prodotto e produttore (come ad esempio
quando diciamo che ‘un linguaggio’, nel momento in cui esso è la condi-
zione di ogni articolazione e di ogni stile, è al tempo stesso trasformato dai
vari gerghi e dialetti). Per questa via Simondon opera una distinzione tra
società e comunità: una società è metastabile, attraversata da individuazio-
ni, laddove una comunità è chiusa, statica31.
Una comunità fa delle proprie specifiche condizioni di appartenenza, dei
suoi specifici valori o norme, le condizioni dell’appartenenza come tale. La
rappresentazione del transindividuale, in quanto fa di specifici attributi o
qualità – un linguaggio, delle pratiche culturali o dei valori – i rappresen-
tanti della collettività in quanto tale, finisce per chiudere quest’ultima, ne
fa una comunità e non una società.

30 K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, tr. it. di F. Codino, Editori Riuniti, Roma
1975, p. 60.
31 G. Simondon, L’individuation psychique et collective, cit., pp. 104-111, tr. it. cit.,
pp. 91-96.
220 Il transindividuale

Se il transindividuale non può essere rappresentato, come può allora es-


sere attualizzato? Rispondere a questa domanda implica non solo un esame
del nesso tra politica e rappresentazione, ma anche una ridefinizione del
vocabolario che utilizziamo per discutere di relazioni sociali e della loro
materializzazione in oggetti e strutture. Virno afferma che l’ontologia di
Simondon rende possibile una ridefinizione dei fondamentali, ma spesso
vaghi, concetti marxisti di alienazione, reificazione e feticizzazione:

Chiamo reificazione il processo attraverso cui la realtà preindividuale di-


viene una cosa esterna, una res che appare come un fenomeno manifesto, una
serie di istituzioni pubbliche. Con alienazione intendo la situazione in cui il
preindividuale rimane un componente interno del soggetto, e che tuttavia il
soggetto non è in grado di dominare. La realtà preindividuale che rimane im-
plicita, come un presupposto che ci condiziona ma che non siamo in grado di
afferrare, è alienata32.

L’argomentazione di Virno è in parte basata su di una rivalorizzazione


della reificazione: la reificazione è l’esternalizzazione del preindividuale,
la sua articolazione in una serie di cose, strutture, macchine… Il punto
centrale è che la ‘cosa’ in questo caso porta con sé la relazione ed è almeno
potenzialmente pubblica, e quindi esposta alla possibilità di una trasforma-
zione o di una riarticolazione. L’esempio fondamentale, o la provocazione,
di Virno resta il general intellect, il termine usato da Marx per indicare l’in-
telligenza collettiva ad un tempo interiorizzata nelle macchine e distribuita
nello spazio sociale sotto forma di conoscenze, habitus e modi di agire33.
Da questo punto di vista la dimensione sociale è inaggirabile e non può
essere eliminata. Si tratta di una relazione fondamentalmente distinta dalla
feticizzazione, in cui le qualità e gli attributi dell’esistenza sociale sono
attribuiti ad una cosa, facendo eco alla formula marxiana classica secondo
cui la relazione sociale tra gli uomini prende la forma di una relazione tra
le cose: «Feticismo significa assegnare a qualcosa – per esempio al denaro
– caratteristiche che appartengono alla mente umana (socialità, capacità di
astrazione e di comunicazione ecc.)»34. Così, Virno riconduce il feticcio
ai più antichi argomenti di Marx a proposito del denaro, per i quali «il

32 P. Virno, «Reading Gilbert Simondon: Transindividuality, Technical Activity, and


Reification», in Radical Philosophy, 136, 2006, p. 38 [di questo testo non esiste
versione italiana].
33 P Virno, «Il cosiddetto ‘male’ e la critica dello Stato», cit., p. 24.
34 P. Virno, «Reading Gilbert Simondon: Transindividuality, Technical Activity, and
Reification», cit., p. 40.
J. Read - La produzione della soggettività. Dal transindividuale al comune 221

denaro […] è il potere espropriato dell’umanità»35. Di qualunque qualità


o attributo io possa esser carente – intelligenza, bellezza, forza – posso
procurarmela sul mercato. Il denaro frantuma le singolarità preindividua-
li, gli elementi fondamentali della soggettività, trasformandoli in cose che
possono essere acquistate. L’asserzione di Marx a proposito del potere ‘on-
tologico’ del denaro interseca la nozione simondoniana di ontogenesi. Non
è dunque un caso che il saggio di Marx sul potere del denaro nella società
borghese termini con una discussione dello statuto dell’individuo: il mon-
do del denaro è giustapposto a quello dell’individuo insostituibile, in cui le
qualità sociali possono essere scambiate solo sulla base delle loro qualità
analoghe – se vuoi essere amato devi essere capace di amare, e così via:
«ogni tuo rapporto con gli uomini – e con la natura – dev’essere un’espres-
sione determinata, corrispondente all’oggetto da te voluto, della tua reale
vita individuale»36.
Tornando al paradosso dell’esistenza moderna summenzionato, l’isola-
mento socializzato, o ciò a cui mi riferisco parlando dello sfruttamento
del transindividuale contemporaneamente alla mercificazione del preindi-
viduale, è possibile affermare che questa relazione costituisce una nuova
forma di alienazione, una volta che si sia stabilito di assumere il significato
che a questa nozione conferisce Virno.
L’alienazione, almeno nel modo in cui è stata interpretata, cioè alla stre-
gua di una parola d’ordine generica delle diverse versioni del marxismo
hegeliano, è stata compresa come una perdita di sé, una perdita di sogget-
tività trasferita all’oggetto. In quanto tale, il concetto riproduce spesso in
modo acritico la stessa ontologia individualistica contro cui gli scritti di
Marx sono rivolti. Tuttavia, come abbiamo già osservato, non è certo che
Marx stesso abbia compreso in questo modo il concetto; l’alienazione non
è solo la perdita dell’oggetto e del controllo dell’attività, è anche alienazio-
ne dall’essenza generica [Gattungswesen], dalla natura universale dell’u-
manità, da ciò cui ci possiamo riferire come alle componenti preindividuali
e transindividuali della soggettività. L’alienazione è più perdita dell’og-
gettività per il soggetto, perdita della relazione con le proprie condizioni
di possibilità, che perdita del soggetto nell’oggetto 37. Come argomenta
Virno, l’alienazione è una separazione dalle condizioni della produzione
di soggettività; non è una perdita di ciò che è più unico e personale, ma
una perdita del legame con ciò che vi è di più generico e condiviso. La

35 K. Marx, I manoscritti economic-filosofici del 1844, cit., p. 352.


36 Ivi, p. 354.
37 F. Fischbach, La production des hommes, cit., p. 14.
222 Il transindividuale

mercificazione del preindividuale è un’alienazione dovuta al fatto che le


componenti basilari della nostra soggettività – linguaggio, habitus, perce-
zioni – ci raggiungono in una forma reimpostata, come cose che possono
essere solo passivamente consumate. L’ambiente-medium [milieu] della
nostra esistenza, preindividuale e transindividuale, diventa qualcosa cui
siamo passivamente soggetti, un mero oggetto di consumo, non qualcosa
su cui possiamo agire o che possiamo trasformare, una condizione che non
può essere condizionata.
Se l’alienazione descrive la mercificazione del preindividuale, cosa al-
lora potrebbe descrivere al meglio lo sfruttamento del transindividuale?
Rispondere a questa domanda è difficile perché essa è trasversale rispet-
to alla distinzione operata da Virno tra feticismo e reificazione come due
modi di presentazione del transindividuale. Il feticismo e la reificazione
trattano entrambi della relazione tra la socialità e le cose, cose che non
sono opposte alla soggettività, alla costituzione dell’individuo, ma ne sono
piuttosto la condizione. Con il feticismo la cosa rappresenta e sostituisce la
relazione; il denaro è null’altro che la concretizzazione dei desideri. Esso
è quindi in grado di stare-per differenti attributi e relazioni sociali. Come
Marx scrive a proposito del denaro: «[l’individuo] porta con sé, in tasca,
il proprio potere sociale, così come la sua connessione con la società»38.
Mentre invece nella reificazione la cosa è la relazione, la rete di macchine
che costituisce il general intellect, il quale non può esistere separato dalle
relazioni. Nella reificazione la cosa è ciò che mette in relazione piuttosto
che sostituire la relazione. La generalizzazione da parte di Virno del pro-
blema della feticizzazione rende possibile ritornare sulla critica marxiana
dello Stato, che è essenzialmente una critica della rappresentazione della
collettività, della socialità stessa, attraverso una deviazione apparentemen-
te bizzarra: la rielaborazione della critica marxiana del capitale da parte
di Gilles Deleuze e Félix Guattari. Nella loro ingegnosa lettura di Marx,
Deleuze e Guattari hanno generalizzato questa critica dello Stato in un esa-
me del modo in cui ogni società rappresenta le proprie condizioni storiche.
In ogni modo di produzione, in ogni produzione di soggettività, esiste un
elemento improduttivo, una rappresentazione dell’ordine sociale in quanto
tale, ciò che Deleuze e Guattari chiamano un corpo pieno, che si appropria
delle forze sociali della produzione. Essi scrivono:

Le forme di produzione sociale implicano anch’esse un’attitudine improdut-


tiva ingenerata, un elemento d’antiproduzione abbinato al processo, un corpo

38 K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, cit., p. 89.


J. Read - La produzione della soggettività. Dal transindividuale al comune 223

pieno determinato come socius. Può essere il corpo della terra, o il corpo dispo-
tico, oppure il capitale. Di questo Marx dice: non è il prodotto del lavoro, ma
appare come il suo presupposto naturale o divino. Non si accontenta infatti di
opporsi alle forze produttive in se stesse, ma ripiega su [il se rabat sur] tutta la
produzione, costituisce una superficie ove si distribuiscono le forze e gli agenti
di produzione, cosicché si appropria il plusprodotto e si attribuisce l’insieme
e le parti del processo che sembrano emanare da lui come una quasi causa39.

Il concetto deleuzo-guattariano del socius allarga l’idea marxiana del


corpo inorganico; in ambedue i casi si tratta delle precondizioni della pro-
duzione, delle condizioni materiali, intellettuali e sociali che appaiono
come date. Deleuze e Guattari insistono sulla natura storica di questa rela-
zione, il corpo inorganico, il socius, non è solo il mondo naturale, ma inglo-
ba tutte quelle condizioni della produzione – istituzioni, habitus e modi di
essere – che rappresentano una sorta di seconda natura. Le condizioni della
produzione prodotte storicamente, le condizioni tecniche e sociali, inclusa
la struttura politica, appaiono come qualcosa di dato piuttosto che prodotto,
come delle precondizioni d’origine divina. Questo corpo costituisce una
rappresentazione particolare della comunità, basata su una condizione di
appartenenza: le linee della filiazione o discendenza che determinano un
clan; abitudini e tradizioni che definiscono una cultura; o ancora linguag-
gio e nascita che costituiscono una nazione. La società stessa esiste come
un feticcio, o piuttosto essa è feticizzata al punto che ciò che è prodotto
dalle relazioni sociali, come il potere del despota o il capitale stesso, appare
come la causa della produzione invece che il suo effetto. Come scrive De-
leuze: «Il feticcio è l’oggetto naturale della coscienza sociale come senso
comune o riconoscimento di valore»40. Parlare della società come di una
cosa e non come di una relazione, come qualcosa di dato e non di prodotto,
significa essere sotto l’influsso del feticismo.
In questa serie di corpi feticizzati, il capitale funziona in parte come
un’eccezione. Come Marx afferma nei Grundrisse, il capitalismo è fonda-
mentalmente differente da tutti i modi di produzione precedenti poiché in
esso la produzione non è subordinata alla riproduzione di un modo parti-
colare di esistenza. Laddove nei modi di produzione precedenti la produ-
zione, la creazione di ricchezza, era sempre subordinata alla riproduzione
– alla conservazione di strutture peculiari d’autorità, di forme particolari di

39 G. Deleuze, F. Guattari, Anti-Edipo, tr. it. di A. Fontana, Einaudi, Torino 1972, pp.
11-12.
40 G. Deleuze, Differenza e ripetizione, Cortina, Milano 1997, p. 269.
224 Il transindividuale

soggettività – sotto il capitale la ricchezza è subordinata solo a se stessa,


alla produzione di ricchezza ulteriore. Come scrive Marx:

Nell’economia politica Borghese – e nell’epoca della produzione cui essa


corrisponde – questa completa estrinsecazione dell’interiorità umana si pre-
senta come un completo svuotamento; questa universale oggettivazione come
estraneazione totale, e l’eliminazione di tutti gli scopi unilaterali determinati
come sacrificio dello scopo autonomo ad uno scopo del tutto esterno41.

Per ritornare ai termini di Simondon, il feticcio non è più una comunità


particolare, una condizione particolare dell’appartenenza sociale, ma di-
venta una società organizzata intorno ad un oggetto astratto, al denaro o al
capitale stesso. Come abbiamo visto, il denaro non è che l’alienazione del
potenziale umano; esso è tutto ciò che gli uomini fanno, tutto ciò che essi
possono desiderare, rappresentato nella forma di un oggetto, un equivalen-
te universale che non è altro se non la materializzazione di questo stesso
astratto potere. Vi è dunque una connessione tra feticizzazione e alienazio-
ne, tra la separazione dalle condizioni costitutive e la loro proiezione su di
un oggetto. Come scrive ancora Marx: «Tutte le forze del lavoro si pro-
iettano come forze del capitale, come tutte le forme di valore della merce
si presentano come forme del denaro»42. Questa tendenza si accresce con
la sussunzione reale della società: più la produzione è distribuita in tutta
l’estensione della società, più essa diventa collettiva, più è il capitale che
appare invece lui stesso come produttivo. Per comprendere il capitale è
necessario penetrare il brumoso regno del feticismo, ma è anche necessario
comprendere come il capitale trasformi dalle fondamenta questa relazione
– vi è una differenza essenziale tra la feticizzazione del despota e la feti-
cizzazione delle merci. Nel primo caso, l’oggetto in questione rappresenta
il potere produttivo della società: il despota rappresenta una precondizio-
ne dei lavori sociali. Nel secondo, l’oggetto non rappresenta questi poteri,
conferendo loro un’istanza concreta, qualcosa in cui credere, ma opera at-
traverso di loro. Il denaro non rappresenta niente, o piuttosto ciò che esso
rappresenta è solo il puro potenziale astratto; è la capacità di comperare
ogni cosa, di diventare ogni cosa, potere sociale in astratto.
Gli assiomi del capitale si riferiscono più a ciò che deve essere fatto per
necessità che alle credenze. Deleuze e Guattari esprimono questa diffe-
renza tra il corpo rappresentazionale e quello funzionale nei termini della

41 K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, cit., pp.


420-421.
42 K. Marx, Il Capitale, cit., p. 664.
J. Read - La produzione della soggettività. Dal transindividuale al comune 225

distinzione tra codici e assiomi. I codici instaurano una relazione tra azioni
e desideri, azioni e percezioni, ‘relazioni tra flussi’, nei termini deleuzo-
guattariani. In riferimento all’ontologia sociale che stiamo qui sviluppan-
do, potremmo dire che i codici sono un’articolazione particolare delle con-
dizioni preindividuali della soggettività, un’organizzazione particolare del
transindividuale che delimita una comunità. Il punto essenziale è che que-
sti codici, innestandosi su un corpo particolare, assegnano un significato
specifico a queste pratiche particolari, situandole entro una religione, una
nazione, una cultura, un modo di vita. Possiamo considerare i codici come
una tradizione o come delle prescrizioni e regole che riguardano la produ-
zione e la distribuzione di beni, prestigio e desiderio. In quanto tali, essi
sono inseparabili da una relazione specifica al passato – una relazione di
ripetizione. In ciò, essi sono distinti dagli assiomi. Gli assiomi non hanno
‘senso’, stabiliscono soltanto relazioni tra flussi differenziali, tra quantità
puramente astratte, tra cui le più importanti sono i flussi di denaro e di
potenziale soggettivo astratto, altrimenti noto come forza-lavoro. Scrivono
Deleuze e Guattari: «il tuo capitale o la tua forza lavoro, il resto non ha im-
portanza […]»43. Gli assiomi non ripetono né venerano il passato, ma sono
essenzialmente flessibili; è sempre possibile aggiungere nuovi assiomi al
sistema, per aprire nuovi mercati. La posta in gioco della distinzione trac-
ciata da Deleuze e Guattari tra codici e assiomi è la duplicità dei modi pos-
sibili per comprendere la costituzione delle relazioni sociali. I codici costi-
tuiscono una totalità di senso, una comunità, laddove gli assiomi sono più
funzionali che sensati, e costituiscono una società governata da astrazioni.
In un caso e nell’altro, codici o assiomi, i poteri produttivi dell’umanità,
il transindividuale, sono feticizzati, trasformati negli attributi di un ogget-
to. Tuttavia, vi è una differenza fondamentale: l’oggetto pre-capitalista, il
corpo pieno soggetto al dominio di un codice, è più restrittivo, poiché lega
il transindividuale ad una condizione particolare di appartenenza – una tra-
dizione, una tribù, una nazione; mentre il corpo pieno del capitale è fon-
damentalmente aperto: il potere produttivo delle relazioni sociali appare,
ma appare come l’attributo di un oggetto paradossalmente astratto, denaro
o capitale.
Il modo di Deleuze e Guattari d’intendere codici e assiomi (e dell’onto-
logia sociale relazionale che essi implicano) ci riconduce nelle vicinanze
della tesi dialettica fondamentale di Marx rispetto al capitalismo: cioè, alla
tesi per cui le potenze produttive fondamentali dell’umanità, della transin-
dividualità, si avvicinano all’apparire in quanto tali. Il capitale dissolve

43 G. Deleuze, F. Guattari, L’anti-Edipo, cit., p. 285.


226 Il transindividuale

le illusioni che mascheravano lo sfruttamento sotto apparenze religiose o


politiche. Secondo il celebre passo del Manifesto:

Il continuo rivoluzionamento della produzione, l’ininterrotto scuotimento di


tutte le situazioni sociali, l’incertezza e il movimento eterni contraddistinguono
l’epoca dei borghesi fra tutte le epoche precedenti. Si dissolvono tutti i rapporti
stabili e irrigiditi, con il loro seguito di idee e di concetti antichi e venerandi, e
tutte le idee e i concetti nuovi invecchiano prima di potersi fissare. Si volatiliz-
za tutto ciò che vi era di corporativo e di stabile, è profanata ogni cosa sacra,
e gli uomini sono finalmente costretti a guardare con occhio disincantato la
propria posizione e i propri reciproci rapporti44.

Il capitale nel suo incessante rivoluzionare le condizioni della produ-


zione, espone la natura prodotta della socialità in quanto tale. Nei termini
di Alain Badiou, il capitale rappresenta una desacralizzazione del legame
sociale45. Deleuze e Guattari aggiungono alla comprensione di questo pro-
cesso qualcosa che Marx non ha colto nella sua identificazione del capitali-
smo con una modernizzazione incessante: la produzione di nuovi territori,
di nuove rappresentazioni dell’appartenenza. Ciò che un tempo esisteva
come codice, come oggetto di credenza e valorizzazione collettive, rinasce
come oggetto privato. Le religioni, le culture e le pratiche di tutto il mondo
rinascono come oggetti di consumo privato: tutte le culture e le fedi del
mondo – Buddismo, spiritualità dei Nativi Americani, eccetera – posso-
no essere godute nella privacy della propria abitazione. Come affermano
Deleuze e Guattari, il capitalismo è «lo screziato dipinto di tutto ciò che è
stato creduto»46. Queste credenze private sono rese possibili dal fatto che la
società è prodotta e regolata tramite gli assiomi del mercato e non tramite i
codici della cultura. In un certo senso esse non solo sono rese possibili dal
mercato, ma necessarie: è possibile sostenere, come fa Stiegler, che la per-
dita di una cultura transindividuale conduce alla ricerca di senso nell’ambi-
to privato, nel territorio artificiale dei differenti desideri e credo spirituali.
Gli assiomi del mercato producono la merce, che è per definizione sepa-
rata da, e nasconde le proprie condizioni costitutive, occultando il lavoro
alla base della sua produzione (questo è uno degli aspetti della definizione
marxiana del feticismo delle merci). Una volta separati dai loro differenti
codici e culture, non vi è contraddizione tra le culture, le credenze i valori

44 K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista, tr. it. di E. Cantimori Mez-
zomonti, Einaudi, Torino 1970, p. 104.
45 A. Badiou, Manifesto per la filosofica, tr. it. di F. Elefante, Feltrinelli, Milano
1991, p. 43.
46 G. Deleuze, F. Guattari, Anti-Edipo, cit., p. 37.
J. Read - La produzione della soggettività. Dal transindividuale al comune 227

e gli ideali che occupano lo spazio comune del mercato. Come dice Peter
Sloterdijk illustrando la materializzazione di questa indifferenza:

Forse la migliore introduzione al Capitale sarebbe proprio questa: mettersi


quotidianamente davanti al televisore obbligandosi per il resto del tempo a sfo-
gliare giornali e riviste, mentre – va da sé – si ascolta ininterrottamente la radio.
[…] Viviamo in un mondo di oggetti correlati secondo pseudoequazioni, in un
mondo che istituisce pseudouniformità e pseudoequivalenze tra ogni cosa e ogni
altra, che infine induce a quello stato di disintegrazione interiore e di indifferenza
in cui gli esseri umani perdono la facoltà di discernere tra giusto e sbagliato, im-
portante e irrilevante, produttivo e distruttivo… La confusione ormai è totale47.

Il mondo, o almeno la questione del suo significato, diventa una questione


privata, nel momento stesso in cui il mondo è governato da flussi astratti e
privi di significato. L’argomento di Deleuze e Guattari, tuttavia, non si riduce
a dire che la soggettività è interamente prodotta nella sfera privata. Non si
tratta semplicemente della produzione di soggettività ad opera della merce,
dei frammenti di codice e di desiderio residui di tutte le religioni e culture:
è la frattura tra questi codici privati e gli assiomi del mercato che produce e
riproduce la soggettività48. Gli assiomi del capitale non possono essere defi-
niti pubblici, poiché essi sono per definizione estranei al problema generale
del senso, e quindi alla controversia e al dibattito pubblici, assumendo l’a-
spetto di leggi quasi-naturali (un altro aspetto del ‘feticismo delle merci’) e
divenendo ciò che Virno definisce come «pubblicità senza sfera pubblica»49.
Il transindividuale è feticizzato, costretto ad apparire sotto forma delle quan-
tità astratte e indifferenti del denaro, che ne fanno una forza impersonale.
L’impersonalità di questa forza, la sua astrazione dalle altre pratiche e nor-
me, rende possibile la proliferazione di una serie di oggetti privati, desideri
mercificati. Il mercato non può essere definito come un ‘noi’, poiché non
c’è modo di identificarsi con la forza impersonale delle sue leggi strutturali,
né la merce può essere identificata all’Io, all’individuo, poiché essa resta
pre-formattata, inaccessibile e alienante. Le cose che acquistiamo per consu-
marle nella privacy delle nostre case non sono mai nostre in senso proprio,
poiché richiedono innanzitutto una subordinazione al mercato come con-
dizione dell’individuazione (condizione che diventa vera, o più vera, man
mano che le merci divengono condizioni della nostra immagine e dei nostri

47 P. Sloterdijk, Critica della ragion cinica, tr. it. di A. Ermano e M. Perniola, Gar-
zanti, Milano 1992.
48 G. Deleuze, F. Guattari, Anti-Edipo, cit., p. 301.
49 P. Virno, Grammatica della moltitudine, cit., p. 32.
228 Il transindividuale

ideali)50. Da questo punto di vista possiamo comprendere tutte le implica-


zioni della terza ridefinizione di Virno: la reificazione. Il transindividuale è
reificato quando diventa una cosa pubblica. L’esempio proposto da Virno è,
come abbiamo visto, il concetto marxiano di general intellect, i poteri col-
lettivi dell’intelligenza, distribuiti nelle macchine e nei soggetti dello spazio
sociale, su cui si fonda la produzione contemporanea. Come il denaro, o il
capitale, il general intellect incarna i poteri collettivi della società, ma lo fa in
un modo essenzialmente differente dal semplice essere trasposto su di un og-
getto al modo del denaro. Con il general intellect le potenze collettive della
società sono articolate tramite una serie di oggetti e relazioni – le macchine,
la conoscenza e gli habitus che costituiscono le relazioni produttive della
società. Riprendendo il termine da Marx, Virno ha affermato che il general
intellect dovrebbe essere compreso non solo come l’intelligenza incorporata
nelle macchine – la macchina a vapore o i telegrafi del tempo di Marx o i
computer di oggi – ma come l’intelligenza generica incarnata nella soggetti-
vità, gli habitus e i saperi che compongono le condizioni preindividuali della
soggettività. Così, una caratteristica essenziale del general intellect è il fatto
che le regole e le norme che governano la vita collettiva sono costantemente
riscritte e trasformate man mano che nuovi codici, nuovi saperi e nuovi stili
sono prodotti, finendo per manifestare la contingenza e l’artificialità dell’e-
sistenza pubblica. Questa contingenza è a doppio taglio. Innanzitutto, essa
disimpegna il transindividuale da un oggetto fisso, da una ripetizione del
passato; esso diviene una pura forza differenziale. In secondo luogo, libera
l’attività umana da tutte le norme, da tutti i criteri, compresi quelli del valore
di scambio. Fintantoché il denaro può essere denunciato come un feticcio,
come un’alienazione dei poteri e dell’attività umana, come un’astrazione re-
ale, esso può ancora imporre un’equivalenza alle differenti attività e pratiche:
l’equivalente deve essere scambiato con un equivalente. Come Marx osserva
nel Capitale, uno degli enigmi fondamentali del capitalismo è il modo in cui
esso produce ineguaglianza, cioè plusvalore, in un mercato in cui l’eguale
si scambia con l’eguale. La risposta a questo enigma è ovviamente la forza-
lavoro e la divisione tra produzione e consumo, mercato e fabbrica. Malgra-
do questa ineguaglianza, il capitale, il capitale della sussunzione formale,
non può fare a meno dell’immagine dell’eguaglianza, della scambiabilità
generalizzata, e della commensurabilità dei lavori. Man mano che il gene-
ral intellect occupa il proscenio, e la contingenza e l’assenza di fondamento
delle regole e delle procedure operative divengono dominanti, lo standard

50 B. Stiegler, La télécratie contre la démocratie, cit., p. 118.


J. Read - La produzione della soggettività. Dal transindividuale al comune 229

dell’eguaglianza scompare. Ciò dà origine ad una situazione essenzialmente


ambivalente. Come scrive Virno:

Il venire in primo piano delle attitudini fondamentali dell’essere umano


(pensiero, linguaggio, autoriflessione, capacità di apprendimento) può pren-
dere un aspetto inquietante e oppressivo, oppure può dar luogo a una inedita
sfera pubblica, a una sfera pubblica non statale, lontana dai miti e dai riti della
sovranità51.

Questa apparenza inquietante e oppressiva si riferisce innanzitutto alle


nuove possibilità di sfruttamento. Il lavoro [work] della sussunzione reale,
il lavoro [work] che utilizza le capacità di creazione e di interazione, non
è isolato nel tempo e nello spazio, il che rende lo sfruttamento coestensi-
vo all’esistenza. Lo sfruttamento non è più organizzato attorno alle enti-
tà astratte del lavoro [labour] e del danaro, ma ingloba tutta l’esistenza.
Inoltre, e più precisamente, essa si riferisce al crollo sia dell’individualità
che della collettività, alla combinazione del feticismo e dell’alienazione. Il
mercato – ciò a cui Deleuze e Guattari alludono parlando di assiomi del ca-
pitale – diviene il nuovo feticcio della transindividualità; esso è una forma
di transindividuale, di collettivo, che produce e presuppone l’alienazione.
Esso non permette la possibilità di costituire un’individuazione attraverso
il collettivo, non esiste come un ‘noi’, ma solo come una serie di leggi
quasi-naturali da cui emergono i ‘loro’ in quanto risultante ostile delle azio-
ni individuali. La competizione è una forma paradossale di individuazione
in quanto essa produce individui che tanto più si rassomigliano quanto più
si vedono come assolutamente opposti gli uni agli altri, legati da un’aspra
conflittualità52. Al tempo stesso, la produzione collettiva di norme di cono-
scenza e di azione rende possibile una nuova politica, che liberi il collettivo
dai vari corpi pieni che tentano di rappresentarlo, ciò che Virno chiama una
sfera pubblica non-governativa, e che noi abbiamo chiamato qui il ‘comu-
ne’. La reificazione del transindividuale, la sua istanziazione fisica in pra-
tiche, macchine e habitus rende possibile una nuova comprensione della
collettività, non in quanto massa amorfa da rappresentare, ma come una
moltitudine che agisce e non può essere separata dal suo agire. Questa col-
lettività, questa moltitudine esiste già nel ‘lato nascosto della produzione’,
nelle forze sempre più socializzate e collettive della forza-lavoro, ma la sua
attività e potenzialità è più o meno invisibile, occultata dal feticismo dei

51 P. Virno, Grammatica della moltitudine, cit., p. 32.


52 B. Stiegler, Aimer, s’aimer, nous aimer. Du 11 septembre au 21 avril, cit., p.
30-31.
230 Il transindividuale

popoli e dall’alienazione degli individui53. Si tratta di articolare questo co-


mune, questa collettività transindividuale irrappresentabile, contro le con-
dizioni e le pratiche che la occultano. Noi vediamo il luccichio delle merci
che acquistiamo, e vediamo le forze economiche che strutturano e lacerano
la nostra esistenza, ma non vediamo le relazioni sociali, il transindividuale,
che sostiene queste merci e le leggi dell’economia54.
La questione politica non riguarda la ricerca del ‘soggetto’ capace di
trasformare le condizioni politiche esistenti, cioè che potrebbe giocare lo
stesso ruolo del proletariato, l’affossatore della società attuale. Piuttosto,
nel volgere la nostra attenzione alla produzione di soggettività, alle con-
dizioni preindividuali e alle relazioni transindividuali che costituiscono la
soggettività, è possibile riconoscere gli assoggettamenti che costruiscono
il presente, la feticizzazione del potenziale trasformativo astratto dell’u-
manità sotto forma di denaro e l’alienazione della soggettività nelle merci
che costituiscono la nostra esistenza quotidiana. Il mercato rappresenta un
corto circuito del transindividuale, poiché crea individui come consumatori
primariamente passivi di un’esistenza alienata ed un pubblico che appare
solo nella forma di un mercato feticizzato. Al tempo stesso, tuttavia, è an-
che possibile vedere nelle condizioni attuali della produzione di soggettivi-
tà delle linee di liberazione, in particolare la possibilità di un pubblico che
non sia più costruito attorno a un corpo pieno feticizzato, nazione, Stato o
mercato, ma aperto alle sue stesse innovatività e trasformazione produtti-
va. La produzione di soggettività non è sinonimo di assoggettamento, del
modo in cui gli individui sono prodotti dal sistema, né è una forza erutti-
va, una forza rivoluzionaria; piuttosto, è un metodo tramite cui le linee di
demarcazione tra assoggettamento e liberazione possono essere tracciate.

[Traduzione dall’inglese da Andrea Cavazzini]

53 P. Virno, Grammatica della moltitudine, cit., p. 15.


54 Massimo De Angelis ha sottolineato il modo in cui l’economia capitalista, incen-
trata sula competizione, deve necessariamente oscurare le relazioni cooperative
che sono necessarie alla sua esistenza. Cfr. M. De Angelis, The Beginning of His-
tory: Value Struggles and Global Capital, Pluto, London 2007, p. 207.
231

ANDREA CAVAZZINI
CELLULE, ORGANISMI, COMUNITÀ.
IL TRANSINDIVIDUALE NELLE SCIENZE
DELLA VITA CONTEMPORANEE

1. L’individuazione nelle scienze biologiche

Nelle scienze biologiche odierne1 i temi che possiamo ricondurre alla


nozione di transindividuale emergono in conseguenza di una problema-
tizzazione, in se stessa di lunga durata nella storia di questo campo del
sapere, dell’individuazione; e quest’ultimo tema dipende a sua volta da
una problematicità ineliminabile, nelle scienze della vita, del concetto di
individuo. Quali sono infatti gli individui con cui ha a che fare la biologia?
I suoi elementi primi, i suoi ‘atomi’ costituenti? Come è noto, ne sono stati
proposti diversi – per citarne solo tre: specie, organismi, geni –, nessuno
dei quali si è poi rivelato cosi ‘elementare’; anzi, tutte le entità proposte per
occupare questo ruolo si sono scoperte poi caratterizzate da una coerenza
interna quantomeno problematica, risultato di combinazioni aleatorie, pro-
cessi di formazione dall’andamento contingente – o più semplicemente ci
si è accorti che né la struttura né la funzione delle entità in questione erano
compiutamente individuabili e determinabili senza ricorrere ad un contesto
più ampio, a relazioni e processi più globali. Vi è qui forse un movimento
dialettico proprio alla biologia. I suoi oggetti e le sue procedure – soven-
te frutto di un bricolage tra tecniche empiriche, prestiti interdisciplinari,
suggestioni metaforiche, estrapolazioni analogiche – sono relativi ad una
modellizzazione prelevata su di una realtà ‘grezza’ che resta relativamente
e da ultimo sfuggente. È certo possibile di volta in volta obiettivare un
certo campo di razionalità biologica, cui riferire determinate procedure
conoscitive e determinati oggetti, ma questa obiettivazione è sempre par-

1 Questo articolo fa parte di una ricerca d’insieme sulla struttura concettuale delle
attuali scienze della vita che ho condotto in diversi luoghi, in particolare nel nu-
mero dedicato a Darwin sul numero 6 di Quaderni materialisti, nell’intervento al
colloquio veneziano del 28-29-30 ottobre dedicato all’epistemologia storica e alle
scienze attuali e organizzato con Maria Turchetto (cfr. i relativi Atti nei Quaderni
di Althusseriana presso Mimesis), e nel fascicolo Logiche del vivente della rivista
Discipline filosofiche, co-diretto con Alberto Gualandi, Quodlibet, Macerata 2009.
232 Il transindividuale

ziale, e non sfuggirà perciò a delle impasse. Allora, o le impasse verranno


razionalizzate da costruzioni tappabuchi che tenteranno di salvare la tenuta
complessiva dell’obiettivazione; o si innescherà un processo di dis-obiet-
tivazione, una sorta di regressione dall’obiettivazione costituita a ciò che
potremo chiamare – parafrasando un’espressione usata da Alain Connes2
per indicare il rapporto tra sistemi assiomatici e ‘materia’ matematica grez-
za – la ‘realtà vitale arcaica’, dal nuovo contatto con la quale, ottenuto per
regressione archeologica, potranno formarsi, da un lato, nuove obiettiva-
zioni, dall’altro, una presa di coscienza delle condizioni stesse di qualsivo-
glia obiettivazione. Nelle scienze della vita, questo movimento è evidente
fin dal titolo dell’atto di nascita dell’evoluzione darwiniana, The Origins of
the Species – ciò che sembrava costituire un’essenza, un costituente ultimo
della realtà vitale, si scopre in realtà essere un prodotto, e si imprende a
disseppellirne il dispositivo nascosto di produzione. Ripercorriamo alcu-
ne tappe di questa disobiettivazione archeologica, ciascuna corrispondente
alla relativizzazione di un presunto ‘individuo’ rispetto ad un dispositivo di
formazione. Dopo che l’evo-devo ha riunito lo studio dello sviluppo a quel-
lo dell’evoluzione, è diventato più chiaro che la realtà vivente si organizza
in scale differenti, la cui comunicazione non ha nulla di evidente: non solo
non è possibile ricavare, ad esempio, l’organismo dai geni, ma nemmeno
risolvere interamente questi ultimi in una veduta ‘olistica’ indifferenziata.
Il passaggio da una scala all’altra richiede quindi dei concetti analogici, ad
un tempo universali e in grado di rispecificarsi ad ogni mutamento di scala.
L’individuazione sembra essere uno di questi concetti, in quanto essa inter-
viene a tutte le scale, ma in ciascuna secondo leggi differenti cui le modali-
tà delle altre scale corrispondono solo analogicamente. Da ciò si può forse
trarre che il processo di individuazione, presente ad ogni scala del vivente,
corrisponde ad un carattere originario della ‘realtà vitale arcaica’, ma ciò
diviene visibile solo allorché: 1) lo sviluppo è esplicitamente tematizzato;
2) esso viene articolato all’evoluzione. Queste due condizioni sono richie-
ste affinché si riveli l’organizzazione per scale della vita, e appaiano quindi
le strutture analogicamente invarianti da una scala all’altra, tra cui appunto
l’individuazione.

2 Cfr. A. Connes/J.-P. Changeux, Matière à pensée, Odile Jacob, Paris 2000: «Esiste
indipendentemente dall’uomo una realtà matematica grezza» (p. 48); e ancora:
«La realtà matematica, in virtù della propria struttura, della propria armonia inter-
na, è una riserva inesauribile di organizzazione» (p. 168).
A. Cavazzini - Cellule, organismi, comunità 233

Le Forme viventi. Prima di Darwin, l’organismo individuale è considera-


to un semplice accidente di «Forme (specie, tipi ideali) […] concepite come
una sorta di realtà trascendente»3; l’organismo, nel corso del suo sviluppo,
attraversa e illustra la ‘serie animale’ e i suoi gradi di perfezione, già da
sempre dati e invariabili, di cui l’essere vivente non è che illustrazione in-
differente e accidentale. Il vero individuo pertinente è quindi il Tipo, legato
agli altri tipi da un rapporto gerarchico immutabile: nella serie delle specie,

la perfezione dell’uomo segna il limite superiore. E anche se si cancella il


principio di una scala unica […], resta il postulato di un sistema delle Forme
[…] i cui termini sono dei gradi di compimento: tale sistema ha in sé – nella
sua unità armoniosa – la sua ragion d’essere, e tutto il possibile biologico vi è
incluso4.

Il sistema delle Forme ha due proprietà fondamentali: l’inderivabilità


(esso è un dato ultimo), e l’equilibrio tra le singole Forme (è un sistema
chiuso e stabile). In vigore fino al XIX secolo, questo sistema trova una
formulazione classica in Linneo:

Poiché non vi sono nuove specie; poiché il simile produce sempre il simile;
poiché in ogni specie un’unità presiede all’ordine, dobbiamo necessariamente
attribuire questa unità […] a un Essere Onnipotente e Onnisciente5.

Come nota J.-J. Kupiec, in questo sistema l’unico ruolo dell’individuo


consiste nel moltiplicarsi identicamente: solo l’appartenenza ad una specie
lo rende conoscibile grazie ai caratteri ereditati da quest’ultima: le varieta-
tes laevissimae non contribuiscono a definirne «essenza e identità»6. Inol-
tre, questo sistema è conservato in equilibrio da una police de la nature:

Esiste una relazione specifica tra ciascun animale e il suo nutrimento, che
esclude le interferenze […] generatrici di disordine […] Dio ha creato un tutto,

3 G. Canguilhem, G. Lapassade, J. Piquemal, J. Ullmann, Dallo sviluppo all’evolu-


zione, tr. it. di E. Castelli Gattinara, Prefazione di E. Gagliasso Luoni, Postfazione
di M. Cammelli, Mimesis, Milano 2006, p. 67. Cfr. anche A. Cavazzini, «La sto-
ria, le tracce, la vita», in Quaderni materialisti, 6, 2007.
4 Ivi, pp. 67-68.
5 Citato da J.-J. Kupiec e P. Sonigo, Ni Dieu ni gène, Seuil, Paris 2000, p. 19. Si
noti che questa frase inverte perfettamente la logica darwiniana, per cui: vi sono
nuove specie; la discendenza ha sempre variazioni; non vi è equilibrio prestabilito
né inter- né intra-specifico (e di conseguenza non vi è nessun Essere onnipotente
e onnisciente…).
6 Ibidem.
234 Il transindividuale

dunque ha anche organizzato i rapporti tra le specie che costituiscono que-


sto tutto […] In questo sistema, la ratio popolazionale tra una preda e il suo
predatore, o più in generale tra tutti gli esseri di una catena alimentare, è una
proprietà specifica della loro relazione, data apriori, cui essi non possono non
conformarsi7.

Questo principio di regolazione (che ritroveremo fino a ridosso di Dar-


win, cioè in Cuvier8) contraddice l’equilibrio tra specie «fluttuante e mo-
dificabile nel corso dell’evoluzione, risultato a posteriori del loro incontro
in condizioni determinate»9. Darwin ricondurrà l’individuo ‘Specie’ a dei
processi di individuazione soggiacenti, in cui giocano un ruolo cruciale ap-
punto le differenze dei singoli organismi, che diviene possibile pensare in
se stessi, e il disequilibrio di organismi e popolazioni rispetto all’ambiente.
Innanzitutto, l’organismo cessa di essere riflesso sbiadito della Specie: al
contrario, questa emerge dal processo di filiazione che lega gli organismi –
non è più quindi il divenire dell’organismo a trovare il proprio fondamento
nelle relazioni tra specie, ma la dinamica orizzontale delle interazioni orga-
nismiche (accoppiamento e filiazione) a produrre la specie:

Solo se si inverte la subordinazione dell’individuo al tipo la circolarità di


questi concetti viene infranta […] la specie non mantiene più che un’esistenza
nominale; ma attraverso la filiazione degli individui diventa concepibile una
genesi reale delle Forme10.

Lo stesso avviene per l’armonia entro e tra le specie: essa emerge da un


processo contingente di aggiustamenti continui in cui ciò che è dato già-
da-sempre non è l’ordine ma il disequilibrio. Per il vivente darwiniano,
l’equilibrio non è un dato ma un compito, e tale resta nelle attuali teorie
dell’evoluzione:

L’equilibrio si modifica molto spesso ed è necessario integrare una compo-


nente di disequilibrio della specie rispetto al suo ambiente. Questo disequili-
brio si traduce al livello delle specie in due modi diversi, sia tramite variazioni
dette ecofenotipiche reversibili, sia tramite l’evoluzione graduale irreversibile.
Le variazioni ecofenotipiche corrispondono a potenzialità di variazioni esisten-
ti nel programma genetico di una specie in cui la morfologia espressa dipende
strettamente dai parametri ambientali […]. Queste variazioni morfologiche

7 Ivi, pp. 20-21.


8 G. Cuvier, Nature, in Dictionnaire des sciences naturelles, t. XXXIV, 1825, pp.
262-268, citato in J.-J. Kupiec-P. Sonigo, Ni Dieu ni gène, cit., p. 219.
9 Ivi, p. 21.
10 G. Canguilhem et alii, Dallo sviluppo all’evoluzione, cit. p. 68.
A. Cavazzini - Cellule, organismi, comunità 235

sono in genere riscontrate nelle specie che presentano […] delle variazioni
morfologiche clinali che seguono i gradienti geografici dei parametri ambienta-
li. Queste variazioni sono reversibili e non costituiscono un fenomeno evoluti-
vo, ma soltanto un adattamento fine ad un ambiente fluttuante. L’altra reazione
delle specie ai cambiamenti continui dell’ambiente è l’evoluzione graduale la
cui irreversibilità ne fa un fenomeno evolutivo11.

In altri termini, la sopravvivenza del vivente (organismo o specie) in


un ambiente dato non è un presupposto ma un risultato possibile della sua
condotta – e nel corso dell’esecuzione di tale compito il vivente modella la
propria forma (cioè si individua) entro una relazione all’ambiente già-da-
sempre presupposta alla forma stessa. Si noti che il meccanismo innega-
bile dell’evoluzione graduale è oggi ritenuto incapace di dar vita a nuove
specie: il modello degli equilibri punteggiati di Gould-Eldredge, anche se
oggi viene più o meno integrato al gradualismo, ha introdotto l’idea che
l’evoluzione graduale interviene per ‘aggiustare’ i rapporti specie-ambien-
te, mentre per la speciazione si richiede una discontinuità ad un livello
qualsiasi dell’organizzazione vivente di cui sembra potersi imputare la re-
sponsabilità ai meccanismi regolatori dei geni di sviluppo che controllano
il Bauplan dell’organismo12. Ciò non inficia tuttavia la riconduzione dar-
winiana dell’ordine delle Forme ai processi di filiazione e equilibrazione
specie-ambiente: infatti, il ruolo dei geni di sviluppo rende semmai più
evidente che la genesi delle specie è localizzata nel processo di filiazione;
e inoltre un’alterazione nel sistema di regolazione che dà luogo al Bauplan
può esser vista come un disequilibrio cui l’organismo dovrà adattarsi – che
dovrà cioè essere integrato in un equilibrio la cui esigenza interviene già
nello sviluppo embrionale – affinché essa possa dar luogo ad una nuova
specie (altrimenti, si ha una mutazione nociva o letale). Torneremo più
avanti su ciò: qui basti rilevare come, dopo Darwin, la genesi e la stabiliz-
zazione delle forme dipenda sempre da processi genealogici e di rottura-
ristabilimento di equilibrio, i quali eccedono l’individualità specifica e,
come vedremo, anche quella organismica.

L’organismo. Un’obiettivazione, dicevamo, dipende da un modello.


Il modello dell’obiettivazione linneana delle specie è preso dalla logica

11 J. Chaline, Les horloges du vivant, Hachette, Paris 1999, p. 81.


12 A questo proposito, E. Gagliasso, «Baupläne e vincoli di struttura», A. Gualandi,
«L’individuazione neotenica umana e la genesi esattante del ‘senso’» e T. Pievani,
«Exaptation: la logica evolutiva del vivente», tutti raccolti in A. Cavazzini-A.
Gualandi (a cura di), Logiche del vivente, cit.
236 Il transindividuale

aristotelica: più precisamente dall’albero di Porfirio13. La classificazione


ricalca la struttura gerarchica degli esseri, ove individuum est ineffabile,
e dunque l’ontogenesi si esaurisce nell’addizione di differenze specifiche
‘inscatolate’ ad una materia grezza. Per invertire questa logica, e fare dei
processi al livello dell’organismo il crogiuolo genetico della specie, anche
Darwin ha preso a prestito dei modelli da altri saperi e discorsi: nel suo
caso l’analogia è con Malthus, e, ovviamente, Adam Smith. Quest’ultimo
fornisce un modello in cui l’ordine superiore è prodotto da interazioni al
livello inferiore che restano ‘cieche’, non orientate alla realizzazione del-
le strutture che emergono al livello superiore. Questa analogia presenta
l’inconveniente di reificare l’individuo, e di fare dell’organismo un atomo
di finalità e bisogni secondo il modello razionalistico-empirista dell’homo
oeconomicus14. Ma se quest’ultimo è necessariamente un’unità indivisibile
presunta titolare di finalità naturali e trasparenti alla coscienza, l’organismo
presenta con ogni evidenza una coerenza interna molto più problematica.
La fisiologia post-bernardiana mostra l’organismo come il prodotto di un
lavoro di integrazione e coerentizzazione di processi la cui unificazione a
partire dalla molteplicità ancora una volta si presenta come un compito,
cioè come un processo di individuazione:

L’esistenza di un ambiente [milieu] liquido che unisce le diverse cellule di


un organismo è indispensabile al funzionamento dell’insieme. La teoria cel-
lulare è inseparabile dall’idea di ambiente interno. L’organismo riunisce una
moltitudine di cellule […] Ogni cellula individualizzata dalla propria mem-
brana plasmica segue il proprio destino sotto il comando genetico del nucleo
[…] L’ambiente interno definito da Claude Bernard – il sangue e i liquidi che
bagnano le cellule – è quindi l’unificatore dell’organismo. Nel liquido extracel-
lulare la cellula attinge gli alimenti […] i combustibili e l’ossigeno […] rigetta
gli scarti della sua attività15.

Se l’organismo si individua tramite questo lavoro di unificazione operato


dall’ambiente interno, la sua individuazione è anche – e simultaneamente –
dipendente dal modo in cui tale ambiente reagisce alle fluttuazioni dell’am-
biente esterno: ancora una volta si tratta di reagire al disequilibrio, questa
volta non per fissare dei caratteri specifici tramite variazioni ecofenotipiche
o gradual-evolutive, ma per mantenere integra l’unità dell’organismo:

13 J.-J. Kupiec e P. Sonigo, Ni Dieu ni gène, cit., pp. 22-24.


14 Si veda su ciò l’articolo di G. Molina nel citato volume dei Quaderni Materialisti.
15 J.-D. Vincent, Biologie des passions, Odile Jacob, Paris 1998, pp. 44-45.
A. Cavazzini - Cellule, organismi, comunità 237

Al contrario dell’ambiente esterno […] sottomesso a cambiamenti incon-


trollabili, l’ambiente interno è dotato di elasticità […] Questa elasticità traduce
l’esistenza di forze messe in gioco ogni volta che, sotto l’influenza di variazioni
dell’ambiente esterno, una caratteristica dell’ambiente interno tende a deviare
dal proprio valore normale16.

I meccanismi regolatori assicurano la costanza dei parametri neces-


sari alla sopravvivenza dell’organismo. Ora, la concezione bernardiana
dell’equilibrio dell’ambiente interno è stata complessificata, anche se non
decisivamente modificata:

Un organismo vivente è in stato di disequilibrio permanente ed è più esatto


parlare di uno stato centrale fluttuante che di una costanza dell’ambiente in-
terno […] N.H. Spector parla di uno stato centrale fluttuante definito da due
proposizioni: «1. Ogni organismo vivente, dalla nascita alla morte, è in stato
di non-equilibrio. 2. La reazione di un organismo ad uno stimolo dipende ed è
modulato da […] uno stato centrale definito come la condizione reattiva totale
ad un momento dato di un neurone, di un insieme funzionale di cellule, di un
elemento subcellulare all’interno del sistema nervoso o di quest’ultimo con-
siderato come un tutto». Questo stato centrale è, per definizione, fluttuante;
incessantemente, cambia con l’ora del giorno, il giorno dell’anno […] e […]
gli eventi della vita quotidiana. È, ad un tempo, il tutto e la parte degli insiemi
e dei sottoinsiemi che lo costituiscono17.

Questo ampliamento dei poteri organizzatori dell’ambiente interno per-


mette una certa distanza dall’idea armonicistica e teleologica implicata
nel concetto di omeostasi: «Secondo la teoria dell’omeostasi, l’animale
è una rappresentazione stabile del mondo che lo circonda»18. Quest’idea
di un rispecchiamento reciproco tra organismo e ambiente non suggeri-
sce un’armonia prestabilita, e quindi un’individuazione sempre-già data
e compiuta? Non ricostituisce cioè la «police de la nature» linneana al li-
vello dell’organismo? – l’aristotelismo in fondo si basa su una coattazione
a priori tra l’anima e le cose, dunque tra il vivente e il mondo, nel quadro
di un kosmos. La teoria dello stato centrale fluttuante mostra come l’unità
dell’organismo sia una volta di più un compito da svolgere in condizioni
mutevoli, secondo esigenze provvisorie:

Lo stato centrale – rappresentazione del mondo – è una proiezione e fusione


di tre dimensioni: corporea, extracorporea e temporale. La dimensione corpo-

16 Ivi, pp. 46-47.


17 Ivi, p. 184-189.
18 Ivi, p. 185.
238 Il transindividuale

rea è definita dai dati fisiochimici dell’ambiente interno […]. La dimensione


extracorporea si dispiega nella rappresentazione che l’individuo ha del mon-
do, ad un tempo spazio sensoriale ricevuto dagli organi di senso e spazio del
movimento percepito da ricettori specializzati […]. La dimensione temporale è
occupata dalle tracce accumulate nel corso dello sviluppo dell’individuo dalla
nascita alla morte19.

L’unità del vivente non è quindi stabilita a priori, e successivamente


ristabilita contro le deviazioni, secondo la legge di una totalità organismica
data in anticipo come un tutto, ‘dall’alto’: essa si costruisce dal basso e vol-
ta per volta, per integrazioni locali e opportunistiche, scandite da un tem-
po irreversibile e singolare. Più che una totalità autoregolantesi, essa è un
lavorio indefinito di traduzioni e aggiustamenti tra componenti, processi,
azioni, stimoli, all’interno dell’organismo e tra esso e il suo esterno – per-
ciò, il risultato non può mai essere un vero rispecchiamento della coerenza
del mondo nell’unità dell’organismo. Quest’ultimo non fa che ‘aggiustarsi’
in modo da esistere in una data parte di mondo, in un dato tempo e a date
condizioni, secondo prospettive parziali, dalla coerenza problematica, e dal
valore circostanziale20.

Le cellule. Se l’individuo è un’unità solo come risultato, per le sue com-


ponenti cellulari vale lo stesso. I rapporti tra cellule istituiti dall’ambiente
interno costruiscono l’organismo, come si è visto, ma le cellule non sono
individuate indipendentemente dai loro rapporti reciproci entro il contesto
dello sviluppo. La teoria cellulare è sempre stata al centro di un complesso
intreccio di modelli metaforici più o meno consapevoli, sociali, politici,
fisici, di ispirazione sia atomistica che organicistica. Qui non è possibile ri-
percorrerli, e perciò rimandiamo alle numerose e pregevoli summe storiche
su questa teoria21. In ogni caso, pare acquisita l’idea che il funzionamento
di una cellula si dia solo entro un processo di comunicazione cellulare:

L’ambiente interno […] è un ambiente in cui circola l’informazione […]


Affinché vi sia vita, occorre dell’organizzazione, e affinché vi sia dell’orga-
nizzazione, occorre della comunicazione, cioè scambi di informazione tra le
cellule, e, in seno ad un’unica cellula, tra gli elementi che la compongono22.

19 Ivi, pp. 189-190.


20 Sulla problematicità dell’unità interna del vivente, si veda A. Cavazzini, «La sto-
ria, le tracce, la vita», cit.
21 In particolare quelle di F. Duchesneau e A. Orsucci.
22 J.-D. Vincent, Biologie des passions, cit., p. 49.
A. Cavazzini - Cellule, organismi, comunità 239

I due modi di comunicazione fondamentali sono gli ormoni, che agi-


scono a distanza, in modo diffuso e distribuito sulla durata, e il sistema
nervoso, che agisce in modo locale, immediato e discreto23. Ancora più
esplicitamente, Jean-Claude Ameisen ricorda che

noi siamo delle società cellulari nessuna delle cui componenti […] può soprav-
vivere sola. Il destino di ciascuna delle nostre cellule dipende in permanenza
dalla qualità dei legami provvisori che essa è in grado di tessere con il proprio
ambiente […] la presenza della collettività è necessaria alla sopravvivenza di
ciascuna cellula24.

Si vede bene qui all’opera l’analogia con una tesi ‘sociologica’ per cui
ciascun individuo necessita per mantenersi in esistenza della cooperazione
del tutto cui lo legano i processi comunicazionali. Sono questi processi a
far sorgere e perire le differenti entità cellulari di cui l’organismo consta:

Dai primi giorni che seguono il nostro concepimento […] il suicidio cellula-
re gioca un ruolo essenziale nel nostro corpo in corso di costruzione, scolpendo
le metamorfosi successive della nostra forma in divenire, nei dialoghi che si
stabiliscono tra le differenti famiglie di cellule in corso di nascita, il linguaggio
determina la vita e la morte25.

Nel corso della morfogenesi, l’uovo fecondato si differenzia, le diffe-


renti regioni cellulari si specializzano, e in questo processo le cellule non
solo proliferano, ma muoiono anche al momento e nel luogo opportuno
per dar luogo alla forma tramite un gioco ordinato di pieni e vuoti (o me-
glio di riempimento e svuotamento, crescita e diminuzione, proliferazione
e decimazione). Ciascuna cellula o famiglia cellulare si individua, corre
incontro al proprio destino conservandosi o morendo in dati tempi, luoghi
e proporzioni, solo tramite ed entro il contesto globale della differenzia-
zione cellulare e della morfogenesi. Ciò che tiene insieme questo contesto
è concettualizzato da Ameisen (e molti altri biologi) secondo un model-
lo semiologico esplicito. Le cellule si individuano comunicando tra loro,
scambiandosi messaggi:

La morte cellulare [può] essere scatenata da segnali – ormoni – emessi a


distanza e in viaggio attraverso il corpo. La metamorfosi di una larva in farfalla
si accompagna alla morte della maggior parte delle cellule che compongono

23 Ivi, p. 51.
24 J.-Cl. Ameisen, La sculpture du vivant, Seuil, Paris 2003, pp. 15-16.
25 Ivi, p. 16
240 Il transindividuale

i suoi muscoli, e delle cellule nervose che controllano la loro attività. È la


modificazione simultanea di due ormoni Paris, che innesca all’improvviso, a
distanza, la morte delle cellule muscolari e nervose […] Si modifichino artifi-
cialmente questi segnali, e le cellule sopravvivono, implicando la persistenza
dei tessuti e degli organi che compongono […] Le cellule destinate a morire
non scompaiono in ragione di una fondamentale incapacità di sopravvivere.
Se l’orologio della morte cellulare indica il momento della morte a venire, la
sentenza di morte è quanto a lei revocabile. Essa dipende dall’ambiente in cui
si trovano le cellule […] dai segnali che si scambiano le cellule […] dal dia-
logo tra cellule attraverso il corpo in corso di costruzione […] dal linguaggio
cellulare26.

L’analogia tramite cui Ameisen descrive l’individuazione delle cellule


prende spesso una piega antropomorfica assai dubbia. Così, l’idea «che la
risposta di una cellula alle modificazioni dell’ambiente non è univoca» ma
«dipende ad un tempo dalla natura dei segnali, dal momento in cui li per-
cepisce e dallo stato in cui si trova […] dal suo presente e dalla sua storia,
dai segnali che ha ricevuto nel passato e dal modo in cui li ha interpretati»,
si prolunga nell’idea che il risultato non univocamente determinato dell’in-
tegrazione di tutti questi parametri sia una sorta di ‘decisione’ di vivere o
morire da parte della cellula27, fino alla tonalità particolarmente dubbia di
un passaggio come questo:

Sembra in effetti che ogni cellula esibisca sulla propria superficie un segna-
le. Questo segnale di vita avrebbe l’effetto di permettere ad ogni cellula vivente
di impedire, in ogni istante, che una cellula-becchino non le si leghi, alla ricer-
ca di segnali di morte. E sembra che ogni cellula che abbia imboccato la via
dell’autodistruzione cominci, prima ancora di esibire la segnatura dei morti, a
smettere di esibire la segnatura dei viventi […] Per una cellula, cadere verso
la morte, significa forse semplicemente smettere […] di affermare la propria
appartenenza alla comunità dei viventi28.

Che Ameisen qui sostituisca semplicemente l’immaginazione delle ‘in-


tenzioni’ della cellula alla conoscenza dei meccanismi dell’interazione cel-
lulare che decidono della morte cellulare, è del tutto chiaro. Ma ciò dipende
dal modello semiologico dell’interazione? Pierre Sonigo è convinto che
l’antropomorfismo della nozione stessa di ‘segnale’ sia ineliminabile; per-
ciò bisognerebbe «cercare delle spiegazioni [dei comportamenti delle co-
munità cellulari] che non facciano appello né ai segnali né alla cooperazio-

26 Ivi, pp. 47-48.


27 Ivi, p. 51.
28 Ivi, p. 67.
A. Cavazzini - Cellule, organismi, comunità 241

ne […] è sufficiente che le cellule scambino non dei segnali ma delle risorse
perché esse si organizzino senza rinunciare al loro interesse individuale
[…] le cellule si trovano a competere per un segnale di proliferazione»29.
La sostituzione di un modello mutuato da un’ecologia ultradarwiniana a
quello semiologico ci fa cadere in un nuovo antropomorfismo, che ha in
comune col primo la tendenza a pensare le cellule come preesistenti ai
loro rapporti, presupponendo così ciò che si tratta di spiegare: se infatti la
nozione di segnale rimanda ad un codice convenzionale stabilito tra par-
lanti preesistenti alla loro interazione comunicativa, secondo un modello
classico di comunicazione intersoggettiva (e non transindividuale), la no-
zione di risorsa, e ancor più quella di competizione, rinviano ad un modello
smithiano in cui di nuovo gli elementi entrano in contatto solo successi-
vamente alla loro costituzione. Dunque, il darwinismo esteso di Kupiec
e Sonigo è ancora troppo ‘individualista’ per pensare l’individuazione sul
piano cellulare, che pure per i due autori fa (correttamente) problema. Per
loro, si tratta di negare ogni gerarchia o differenza presupposta a qualunque
livello dell’organismo, e ricavare invece la fissazione di strutture specifiche
da un processo di differenziazione e di interazione:

Si suppone che le cellule possano differenziarsi spontaneamente in seguito


ad eventi aleatori e che le interazioni cellulari intervengano secondariamente
per canalizzare e stabilizzare le cellule in stati di differenziazione adeguati […]
non serve più presupporre un’asimmetria tra cellule che emettono un segnale
e cellule che lo ricevono […] gli eventi del livello molecolare, interni alle cel-
lule, sono selezionati dalle interazioni al livello superiore delle relazioni tra
cellule30.

In realtà, il modello semiologico-segnaletico è rifiutato solo perché in-


compatibile con questa individuazione contestuale delle cellule: ma forse
è eccessivo pensare che ogni interazione semiotica presupponga necessa-
riamente un codice prefissato, e dunque due locutori definiti a priori – è
possibile dopotutto pensare che il significato dei segni si determini pro-
gressivamente (e con esso il posto rispettivo ed il rapporto reciproco dei lo-
cutori) nel corso di un’interazione non preprogrammabile, secondo quanto
previsto da certe teorie del significato (Husserl, Marty, Bühler, Schütz…)31
per cui esso risulta immanente al ‘fatto comunicativo’, cioè,

29 J.-J. Kupiec e P. Sonigo, Ni Dieu ni gène, cit., p. 177.


30 Ivi, pp. 98-99.
31 Tutte analizzate e riprese da E. Melandri, Le «Ricerche logiche» di Husserl. Intro-
duzione e commento alla Prima ricerca, il Mulino, Bologna 1990.
242 Il transindividuale

indipendentemente da ogni modello razionale, [ed emerga] dal progetto impli-


cito nella collaborazione e comunicazione che costituiscono il mondo ambiente
come universo sociale32.

In questo modello, parlante e ascoltatore non coincidono in una traspa-


renza immaginaria: al punto di vista del parlante, assunto tacitamente dalle
teorie intese a realizzare una coincidenza de jure tra i locutori, Melandri
propone di sostituire, come alternativa e non come complemento, il pun-
to di vista dell’ascoltatore, ricentrando la produzione di significato non
sull’espressione ma sull’interpretazione: «L’ascolto non si impara che a
poco a poco, per imitazione, abitudine e interiorizzazione»33. Nel processo
di interpretazione si ha inizialmente un significato fluttuante, la cui identità
si precisa nel tempo, nel corso dell’interazione comunicativa, fino a indi-
viduarsi come risultato di un processo di rimandi, riscritture, ritorni, ecc34.
Questo modello ci aiuta a comprendere cosa possa significare la semiosi
nei vari livelli del mondo vivente35: il vivente non ha mai a che fare con la
materialità bruta di un ambiente oggettivo, ma – secondo la teoria pionie-
ristica di J. von Uexküll – sempre con delle forme che esso ‘preleva’ sulla
realtà oggettiva, e che sono dotate di significato in quanto gli consentono
di svolgere determinate funzioni. L’Umwelt dei viventi è quindi un siste-
ma integrato in cui le distinzioni di oggetti, qualia ecc. che il vivente vi
pratica hanno un significato funzionale, rimandano a valori relativi alle
funzioni vitali, e sono quindi segni oltre che realtà fisiche. Come si vede,
qui la semioticità non rinvia all’esistenza di un codice prefissato, ma alla
produzione di rilevanze funzionali da parte degli atti di un interprete che
cerca di orientarsi in una situazione cercando di attuarvi delle strategie
di azione36. I segni all’opera nel mondo vivente si individuano nel corso
della storia onto- e filo-genetica, ma una volta sorti essi agiscono in quanto
significati funzionali, e non solo in quanto entità meccaniche o chimiche.

32 Ivi, p. 176.
33 Ivi, p. 180.
34 Ivi, p. 219. La funzione dello spessore temporale è qui cruciale; tra i meccani-
smi dell’individuazione del significato, Buhler dà un posto di rilievo all’anafora
(«rinvio all’indietro […] a quanto già detto nel corso dell’eloquio») e alla catafora
(«rinvio in avanti, a quel che si deve ancora dire o che ci si attende dal discorso»,
p. 220).
35 Per questo problema, si vedano i testi raccolti nel ricco sito «Biosemiotics», http://
www.ento.vt.edu/~sharov/biosem/.
36 Sul rapporto struttura-funzione, A. Cavazzini, «La storia, le tracce, la vita», cit.,
e Id., «Il concetto e la vita tra filosofia e scienze», in A. Cavazzini-A. Gualandi,
Logiche del vivente, cit.
A. Cavazzini - Cellule, organismi, comunità 243

Ad esempio, il modello della tensegrity37 proposto da Donald Ingber e Pa-


trizia d’Alessio, cerca di articolare funzioni cellulari quali il movimento e
la crescita, gli effetti meccanici legati ad una particolare struttura, e la con-
versione di questi effetti secondo una logica ‘transduttiva’ resa possibile da
parametri formali:

Per spiegare i cambiamenti di forma delle cellule, associati ai cambiamenti


delle loro funzioni, come il movimento e la crescita, Donald Ingber ha applica-
to il modello della tensegrità alla biologia cellulare. Questo modello permette
di spiegare come l’energia meccanica può essere trasformata in un messaggio
chimico, o come è possibile convertire un segnale fisico in una risposta biolo-
gica, un processo chiamato ‘meccanotrasduzione del segnale’. La comunica-
zione è attualmente considerata come un elemento essenziale per la funzione
biologica38.

Più in particolare,

l’organizzazione strutturale conferita dall’interconnessione dei filamenti del


citoscheletro rende la cellula capace di tradurre le forze meccaniche in risposte
biochimiche. Lo stato di tensione dei filamenti del citoscheletro determina la
forma delle cellule e contribuisce alla loro funzione39.

È impossibile qui descrivere nel dettaglio questo modello, ma il suo


nucleo concettuale è chiaro: l’individuazione delle cellule (la loro asse-
gnazione ad una forma e ad una funzione) dipende da processi meccanici,
certo, ma che, lungi dal ridursi ad un rapporto stimolo-risposta, incorpora-
no l’efficacia di una forma significativa, di una struttura funzionale, la cui
origine è certo riconducibile all’ordinaria morfogenesi, ma che conferisce
rilevanza funzionale alle interazioni materiali specifiche alla base della
morfogenesi successiva. Si può dunque parlare di ‘comunicazione’ nella

37 Termine inventato da Buckminster Fuller per caratterizzare un sistema «capace di


autostabilizzarsi in maniera meccanica in ragione della distribuzione degli sforzi
interni di tensione e di compressione», cioè una «costruzione architettonica carat-
terizzata da elementi resistenti alla compressione che non si toccano ma intercon-
nessi da serie continue di elementi tensionali» (P. d’Alessio, «Le couple du vivant
entre tension et mouvement», in P. d’Alessio - J. Dhombres (éds.), L’architecture
de la vie: de Platon à la tensegrité, in Sciences et techniques en perspective,
vol. 9, 2, 2005, p. 116). Cfr. anche P. d’Alessio, «Biologia dell’elasticità», in A.
Cavazzini-A. Gualandi, Logiche del vivente, cit.
38 P. d’Alessio, «Evolution morphologique des cellules», in P. d’Alessio - J.
Dhombres (éds.), L’architecture de la vie: de Platon à la tensegrité, cit., p. 39.
39 Ivi, p. 40.
244 Il transindividuale

misura in cui gli scambi fisici e chimici sono subordinati ad una causalità
formale che organizza il loro svolgimento. Sembra ovvio far risalire questa
causalità formale ai geni, cui è stato attribuito il potere di trasmettere la
forma specifica da un individuo ai suoi discendenti, e dunque in un certo
senso di operare la morfogenesi. Vediamo dunque il rapporto tra questo
potere e il tema dell’individuazione.

I geni. I geni costituiscono un banco di prova per tale tematica, cui sem-
brano di primo acchito essere irrimediabilmente riottosi. Il concetto di gene
resta lungi dall’ideale della chiarezza e della distinzione: prodotto di una
stratificazione storica largamente aleatoria, si compone di elementi dalla
provenienza disparata. Nei lavori di Mendel, i geni «sono dei rappresen-
tanti convenzionali dei caratteri che permettono di operare dei calcoli sul-
le somiglianze ereditarie»40. L’entità mendeliana è quindi eminentemente
astratta, non presuppone alcun dispositivo causale e nemmeno in fondo una
struttura materiale. Ma questa entità, per svolgere il suo ruolo nel calcolo
delle somiglianze, deve possedere un carattere discreto e ‘atomistico’: se i
geni non sono unità discrete, individuate e univoche alla stessa stregua dei
caratteri dei piselli su cui Mendel ha condotto gli esperimenti, il calcolo non
funziona. Questa entità astratta verrà successivamente identificata con del-
le ‘cose’ reali e con un meccanismo causale di formazione dell’organismo
e trasmissione ereditaria, principalmente grazie ad August Weismann41. I
geni (o meglio, il ‘plasma germinale’) appaiono allora come ‘atomi di vi-
vente’, che, conservando la loro identità da un organismo all’altro, confe-
riscono al discendente la forma del genitore, restando essi stessi immutati.
Un’entità di questo tipo sfugge al processo di individuazione: essa è pensa-
ta come sempre-già individuata, ed in grado perciò di trasmettersi identica
a se stessa nel corso delle generazioni. Pre-individuale, perché attraversa
intatto organismi e generazioni, il gene non è però trans-individuale, per-
ché esso è d’emblée un’entità compiuta e definita, su cui non agisce alcun
processo causale proveniente dall’organismo. Questa inaccessibilità all’in-
dividuazione è associata del resto ad un potere individuante autonomo:
il gene opera l’individuazione dell’organismo, ma non viceversa. Erwin
Schrödinger aggiungerà questo elemento ulteriore all’ibridazione tra gli
atomi astratti mendeliani e quelli fisici weismanniani: i geni contengono

40 P. Sonigo, Une onde d’abeilles, in P. Sonigo-I. Stengers, L’évolution, EDP, Cour-


taboeuf 2003, p. 20.
41 Per la storia paradossale del gene e le teorie di Weissmann, cfr. A. Pichot, Histoire
de la notion de gène, Flammarion, Paris 1999.
A. Cavazzini - Cellule, organismi, comunità 245

un codice simbolico, dell’informazione: «Una rappresentazione dell’insie-


me degli elementi che compongono un sistema è contenuta all’interno di
uno dei suoi elementi»42. Watson e Crick assoceranno i caratteri logici di
queste entità ipotetiche alla struttura materiale del DNA. Tra Weismann,
Schrödinger e Crick, i geni diventano i portatori del programma genetico
– essi sono ritenuti contenere tutta l’informazione necessaria affinché una
forma sia assegnata all’organismo, pur restando essi stessi dall’inizio per-
fettamente individuati e definiti aldilà di qualsiasi interazione organismica.
Fondendo le teorie di Mendel e Weismann, il gene della biologia molecola-
re anni Cinquanta è un essere ad un tempo fisico-chimico e logico,

un pezzo dell’orologio che contiene la descrizione dell’orologio […] un ele-


mento fisico di un sistema che contiene al tempo stesso una descrizione o una
rappresentazione completa di questo sistema43.

Il gene non è prodotto dunque di alcuna individuazione, e al tempo stes-


so contiene le condizioni complete dell’individuazione dell’organismo.
Questa autosufficienza, o onnipotenza, dei geni spiega il loro fascino per-
sistente: finalmente la biologia dispone di un meccanismo causale e logico
in grado di render conto autonomamente di qualsiasi processo di indivi-
duazione, cellulare, organismico e specifico. Tuttavia, il potere esorbitante
dei geni sembra frutto più di una sovrapposizione di modelli teorici, logici
ed empirici disparati che di una teoria plausibile dei processi viventi. La
biologia molecolare, indagando la struttura materiale dei geni, ha posto
anche dei severi limiti al carattere presunto endogeno ed autosufficiente
del loro potere individuante: ha scoperto cioè che i geni stessi, non solo
hanno bisogno di un contesto extragenetico per produrre l’individuazione
della forma, ma essi stessi necessitano un’individuazione che non è data
d’emblée nella struttura molecolare. Oggi un gene è considerato come una
sequenza di DNA dotata di funzioni specifiche. Si pone allora il problema
di sapere se tale specificità è intrinseca alla sequenza o dipende dal con-
testo. Questa domanda – che forse è priva di senso perché una molecola
di DNA fuori da un contesto qualsiasi non ha alcuna funzione specifica o
generica – ammette risposte differenti: dalla scoperta dei geni omeotici
e dall’ingegneria genetica possiamo inferire tanto una notevole plasticità
delle funzioni di un gene quanto un limite alle virtualità delle sequenze di
DNA. Se dunque vi è una forma di specificità, perché una sequenza non
pare essere solo un supporto neutro di condizioni contestuali, essa pare

42 P.-A. Miquel, Qu’est-ce que la vie?, Vrin, Paris 2007, p. 17.


43 Ivi, p. 28.
246 Il transindividuale

definire un ventaglio piuttosto ampio di possibili funzionalizzazioni e non


una determinazione funzionale univoca44. In ogni caso, «il genoma è in-
comprensibile […] finché non è ‘tradotto’ in funzioni fisiologiche»45, di cui
sono responsabili le proteine. Senza contestualizzazione funzionalizzante,
i geni restano non-individuati:

In primo luogo, dobbiamo identificare tutti i geni, […] o almeno le parti co-
dificanti del DNA che vi corrispondono. Ma ciò non significa sapere ciò che fa
ciascun gene e ciò che rappresenta funzionalmente […] Secondariamente, sap-
piamo che vi sono molte più proteine che geni. Cosa determina quale proteina
debba essere prodotta e quando? […] Vi è un’interazione complessa tra i geni e
il loro ambiente – l’ambiente della cellula […] l’ambiente dell’organismo entro
cui si trovano i geni […] infine […] possiamo sapere tutto della composizione
in acidi aminati di tal proteina, e tuttavia avere grandi difficoltà a determinare
la sua struttura tridimensionale, e la funzione chimica che essa garantisce46.

Ciò significa che da nessuna parte possiamo trovare un programma


completo che specifichi la totalità delle proprie condizioni d’esecuzione
prima ed indipendentemente dal contesto fattuale di tali condizioni – non
vi sono individui che precedono il processo individuante:

Gran parte di ciò che fanno le proteine non dipende per nulla dalle istruzioni
dei geni. Ciò appartiene all’ambito della chimica dei sistemi complessi auto-

44 Ciò ha condotto alcuni autori (A. Pichot, Kupiec-Sonigo) a proporre di mettere tra
parentesi la nozione di gene, resa inutilizzabile dal suo carattere bricolé e dall’in-
capacità di dare confini precisi al ruolo specifico dei geni nell’ontogenesi. Questa
soluzione massimalista lascia perplessi: in biologia, quasi tutti i concetti hanno
un’origine ‘impura’, una storia aleatoria e dei confini incerti. Tuttavia, o perciò, è
molto difficile che una nozione biologica scompaia definitivamente: la conoscenza
della vita è una divoratrice di modelli e concetti, che continua a rifunzionalizza-
re e a riciclare (un buon esempio dell’exaptation di cui parla S.J. Gould. Cfr. A.
Cavazzini, «La storia, le tracce, la vita», cit.). Nel caso dei geni, le stesse ricerche
evo-devo, che hanno scosso un determinismo genetico rigido, sembrano difficili
da pensare senza ricorrere al gene, non solo come dispositivo causale coinvolto
nella costruzione del Bauplan, ma soprattutto come strumento per individuare e
‘marcare’ delle sequenze processuali specifiche, o dei ‘moduli’ processuali, entro
la rete dei rapporti di regolazione. Il gene è quindi indispensabile per localizzare
e differenziare degli ordini determinati all’interno di un’interazione contestuale
complessiva (ciò che permette al tempo stesso di intervenire in essa tecnicamente).
Il che significa: la scala di pertinenza dei geni è irriducibile a quella organismica, e
non solo viceversa. Il non-riduzionismo funziona nei due sensi.
45 D. Noble, La musica della vita, tr. it. di S. Ravaioli, Bollati Boringhieri, Torino
2009, p. 51.
46 Ivi, p. 66.
A. Cavazzini - Cellule, organismi, comunità 247

organizzatori […] non vi sono geni per le proprietà dell’acqua, dei grassi o dei
lipidi che costituiscono le membrane cellulari. Peggio ancora, non vi sono geni
[…] per le interazioni. Tutta questa informazione è implicita nelle proprietà
stesse dell’ambiente in cui operano i geni47.

Ora, è questo ‘ambiente’ a costituire il legame transindividuale tra un


organismo e il suo genitore, e non un programma interamente racchiuso
nei geni:

Il DNA non agisce mai fuori del contesto di una cellula. Noi ereditiamo
ben più che il nostro DNA. Ereditiamo l’ovulo di nostra madre e tutto il mac-
chinario, compresi i mitocondri, i ribosomi e altri componenti citoplasmatici
[…] ereditiamo anche un mondo. La chimica dell’acqua, dei lipidi e di altre
molecole di cui né la forma né la proprietà sono codificate dal DNA – tutto ciò
è semplicemente dato48.

Dunque, l’eredità è un processo di individuazione che avviene tra più


organismi, e non la trasmissione di una realtà già individuata. Ciò che è tra-
smesso e ‘passa’ da un organismo alla sua discendenza non è un programma
già specificato e definito, ma un insieme di materiali e di condizioni che ne
regolano le interazioni; queste interazioni innescano dei processi che daran-
no luogo ad un nuovo organismo. Tra il progenitore e la progenie il legame
transindividuale è assicurato da un flusso di materiali e di forze, da un cam-
po di virtualità che danno luogo a processi di formazione, e non da un’iden-
tità che si mantiene stabile nel succedersi e deperire degli organismi che
‘programma’. Gli organismi potrebbero allora essere visti semplicemente
come manifestazioni di un processo di individuazione, e ogni dualità tra essi
e il loro programma genetico invariante sarebbe cancellato:

Gli individui non si succedono, fanno parte di un sistema che ‘oscilla’ […]
Gli umani […] sono un’emergenza periodica di fenomeni cellulari collettivi
[…] Si tratta di concepire un fenomeno di crescita dell’insieme madre-bambi-
no, seguito da una scissione lungo un asse […] Il risultato è la produzione di
due umani a partire da un curioso fenomeno di crescita e di divisione asimme-
triche […] Il bambino si sviluppa a partire dalla madre per crescita e separazio-
ne, come una cellula o un ramo d’albero. Ciò differisce dall’idea abituale della
produzione di un uovo che porta un piano di costruzione. Nel quadro classico,
la discontinuità definita a priori tra due individui […] imponeva di ricreare un
legame informazionale tra i due. Era il ruolo del gene. Questo legame è inutile

47 Ivi, p. 68.
48 Ivi, p. 77.
248 Il transindividuale

se si ristabilisce il legame materiale. Se gli individui sono in continuità, l’oppo-


sizione classica tra crescita e riproduzione è dissolta49.

In un quadro darwiniano, ricordiamolo, tutte le specie sono unite in si-


stema da legami genealogici più o meno distanti – se quindi non vi è più
distinzione tra sviluppo e filiazione, non ve n’è più nemmeno tra filiazione
e sorgere di nuove specie.

2. La disgiunzione tra il vivente e il senso

Regredendo dai supposti ‘individui’ propri a differenti modelli teorici


alle loro condizioni d’individuazione, siamo forse riusciti a toccare qualco-
sa della ‘realtà vitale arcaica’. I differenti livelli della vita, ciascuno con le
proprie entità individuali, appaiono come increspature più o meno stabili e
definite su di un immenso processo di individuazione, le cui differenti scale
e ritmi producono individui differenti in modi differenti, ma sempre privi
di identità sostanziale. Le differenziazioni tra i livelli del sistema vitale nel
suo complesso non sono di natura tale da legittimare degli strati privilegiati
all’interno di questa onda incessante di individuazioni variamente instabili.
La specificità dell’Umano come centro e fonte di valori privilegiati non
può più essere garantita da una presunta collocazione eccezionale nel mon-
do vivente. Al contrario, l’umanità dell’uomo diventa essa stessa il pro-
dotto di un’individuazione che coinvolge un ulteriore livello del vivente:
quello delle condotte inter- e intra-specifiche, indagato dall’etologia, i cui
individui sono le specie intese come portatrici di comportamenti e atteg-
giamenti determinati. La condotta umana, e non solo quella, appare in certe
analisi etologiche odierne come individuata da ed entro, e non presupposta
a, questo gioco di interazioni tra condotte:

L’animalità […] è legata a una dimensione dell’umano che questo occulta,


squalificando il proprio corpo, i propri desideri e affetti rispetto allo spirito e
alla razionalità. L’animalità sottende questa irresistibile attrazione dell’uomo
verso certi rapporti con gli altri o con se stesso, certe sue disposizioni in rappor-
to al mondo […] L’animalità si riferisce a quel vivente con cui la condivisione
degli affetti è possibile50.

49 P. Sonigo, Une onde d’abeilles, cit., pp. 75-76.


50 D. Lestel, L’animalité, L’Herne, Paris 2007, p. 92.
A. Cavazzini - Cellule, organismi, comunità 249

L’opposizione umano-animale non è originaria, ma si costituisce in seno


ad una communicatio originaria:

Uomini e animali hanno costituito nel corso dei secoli una diversità sorpren-
dente di comunità miste, interspecifiche […] queste associazioni sono fondate
su interessi reciproci e scambi mutui […] e costituiscono delle comunità ibri-
de51.

Le famiglie polispecifiche costruite da umani e animali nel corso di tutta


la loro storia (e preistoria) comune realizzano dei legami transindividuali di
differente natura: comunità di interessi; comunità d’affetti (non esistendo
comunità ibride puramente strumentali), in cui si assiste a giochi e scambi
di empatia e identificazione; e infine comunità fondate sulla condivisione
di senso

in cui le azioni e gli affetti rinviano ad un’identità e ad una rappresentazione


di sé e degli altri che hanno un’innegabile consistenza, in seguito ad una storia
condivisa e a rappresentazioni distribuite nel gruppo52.

Sebbene un’asimmetria resti ineliminabile – l’uomo ha, nei confronti dei


suoi partners animali un potere unico di iniziativa e decisione, un sistema
di attese mediate culturalmente e simbolicamente direzionate in modo uni-
laterale, e una maggior capacità di attribuire competenze cognitive all’altro
polo dell’interazione53 – ciò non vuol dire che l’uomo sia già dato come tale
al di fuori di queste interazioni ibride: le sue virtualità, ivi comprese quelle
asimmetriche, si realizzano solo entro questo ‘commercio’54 all’interno di
un legame in cui umanità e animalità si co-individuano come effetto di un
gioco mobile di rispecchiamenti, identificazioni, demarcazioni. L’umanità
è quindi l’effetto di un individuarsi, di un divenir-uomo, possibile solo in
relazione alla frontiera mobile istituita dal legame con gli animali, o meglio,
con ciò che subisce, parallelamente, un divenir-animale entro uno spazio di
individuazione condiviso. Questo lavoro transindividuale dell’ominazione
spiega perché i tentativi di definire solo sul piano biologico la specificità
umana, e il suo rapporto con il restante mondo vivente, finiscano in genere
per riprodurre uno sterile dibattito con una definizione puramente cultu-

51 Ivi, p. 93.
52 D. Lestel, L’animal singulier, Seuil, Paris 2004, pp. 21-24. Si veda tutto questo
interessantissimo libro.
53 Ivi, pp. 29-30
54 Lo stesso vale per gli animali che realizzano nuove possibilità di comportamento
e soggettivazione grazie alla loro convivenza con gli uomini.
250 Il transindividuale

rale. Homo sapiens ha certo una struttura biologica determinata, e ciò che
può fare non è senza rapporto con la taglia del cervello, la maturità tardiva
o la bipedia. Ma l’ominazione non è solo la somma dei tratti biologici di
un primate. D’altronde, essa non si dà nemmeno solo come elaborazione
culturale. Essa va vista piuttosto come un processo di individuazione in-
terspecifico al livello delle condotte e delle comunicazioni; si tratta quindi
di un processo eminentemente contingente, poiché esso presuppone una
pluralità di comportamenti e di ‘soggetti’55 reciprocamente irriducibili, nel
cui intreccio stabilire un gioco di rinvii tra fascinazione e repulsione, vici-
nanza e distanza, alleanza e antagonismo. In ogni caso, a causa di questa
molteplicità irriducibile di condotte reciprocamente inassimilabili, l’opaci-
tà è ineliminabile da questo spazio di individuazione, il che significa che
l’individuazione stessa dell’uomo è sempre provvisoria, problematica, in-
certa, attraversata da punti ciechi e ambiguità, poiché dipende strettamente
dalla contingenza degli incontri dell’uomo con una pluralità di significati,
affetti, gesti, la cui estraneità è mobile ma non superabile. La coscienza, o
la cultura, dell’uomo non può quindi essere il luogo di un’identificazione
simpatetica e responsabilizzante nei confronti della totalità della biosfera,
come vorrebbe un umanesimo ecologista ingenuo: certo la civiltà umana
può tematizzare l’intera realtà vivente, ma non può rendersela totalmente
familiare e ‘propria’, al punto da includere la responsabilità verso ogni
sua componente nei criteri stessi dell’ominazione. E questo perché l’omi-
nazione dipende da rapporti conflittuali e aleatori in cui il ruolo struttura-
le dell’impensato, del rimosso, del fantasmatico rendono impossibile che
l’Uomo diventi la cartina di tornasole, il perno di una totalizzazione in cui
tutti i prodotti del grande processo dell’individuazione sarebbero disposti
armoniosamente ed il processo giungerebbe a pensare se stesso. Dopotutto,
ad ogni livello di analisi abbiamo incontrato la tendenza a trovare un di-
spositivo per cui la vita potesse riflettersi in se stessa, totalizzare il proprio
divenire come il Concetto hegeliano ritrova la propria unità autodifferen-
ziantesi nell’esteriorità provvisoria delle proprie differenziazioni: una tale
funzione è stata via via attribuita all’armonia della Catena degli Esseri,
alla struggle for life degli organismi, all’omeostasi, ai geni, allo spirito
umano. In tutti questi dispositivi si cerca di trovare un punto di inversione
da cui la natura vivente possa reinteriorizzare e autoriferire il movimento e

55 «Il mondo fisico resiste all’intenzionalità umana; l’animale vi risponde. In parti-


colare sviandola. Se l’animale è molto bravo a manipolare l’umano, quest’ultimo
eccelle nel farsi manipolare» (ivi, p. 27); in altri termini il rapporto uomo-animale
comporta «un misto sottile di controllo e seduzione» (p. 31).
A. Cavazzini - Cellule, organismi, comunità 251

la legge con cui essa produce le proprie determinazioni – e trovare quindi


una pienezza della Vita da cui essa potrebbe a sua volta ridivenire Norma
e Fondamento dell’esistenza umana56. Ma questo punto di autoriflessione,
in cui la Natura diverrebbe Concetto, non si trova da nessuna parte – il
movimento dell’individuazione si muove secondo un ritmo certo regolato e
intelligibile, ma in cui l’esteriorizzazione, che muove dal transindividuale
verso la pluralità degli ‘individuati’, non fa mai ritorno dalla contingenza e
dalla dispersione in una serie inorganica di condizioni fattuali. D’altronde,
è appunto la Filosofia della Natura di Hegel a postulare l’irriducibilità della
natura al concetto, e che la vita stessa è inadeguata a quest’ultimo a causa
dell’esteriorità irrecuperabile della morte, della pluralità di specie recipro-
camente ostili, della necessità della riproduzione sessuale. Ciò non signifi-
ca forse che è l’individuazione stessa ad impedire alla vita di totalizzarsi e
divenire letteralmente Fine a se stessa? In modo forse paradossale, sarebbe
allora il punto più screditato del sistema dialettico, ma che è anche quello
in cui la resistenza del reale alla totalizzazione si manifesta come un limite
evanescente, a poter fornire una chiave di lettura complessiva del tema
dell’individuazione. Il transindividuale in campo biologico sarebbe allora
legato al risultato finale della Naturphilosophie hegeliana: la disgiunzione
irrimediabile tra il vivente e il senso.

56 È per impedire questo esito che A. Prochiantz ha introdotto il concetto di ‘ana-


tura’, su cui, oltre a ciò che ne dico in «La storia, le tracce, la vita», cit., cfr.
le osservazioni di Y. Duroux, «La pensée du biologiste», in Critique, juin-juillet
2002, p. 563: «Nulla sembra dover resistere alla grande tentazione della biolo-
gia: il biologismo. Il linguaggio è un organo, la sociobiologia estende il dominio
dell’etologia, e la concorrenza vitale diventa la parola d’ordine della conoscenza
delle cose del mondo. La Vita – con una maiuscola – riunisce i poteri dell’ontolo-
gia. Qui, l’‘anatura’ è un gesto di resistenza».
253

FELICE CIMATTI
«L’INDIVIDUO È L’ESSERE SOCIALE»1
MARX E VYGOTSKIJ SUL TRANSINDIVIDUALE

1. «La coscienza è un rapporto sociale»

L’animale non umano, per Marx, «è immediatamente una cosa sola


con la sua attività vitale. Non si distingue da essa. È quella stessa [attività
vitale]»2. Prendiamo un esempio determinato, un castoro. Per esplicare la
sua ‘attività vitale’, ad esempio il costruire dighe sul corso dei fiumi, un
castoro si basa essenzialmente su abilità innate, abilità appunto che non
deve imparare, che non sono fuori di lui. Essere un castoro significa ap-
punto nascere con un insieme di aspettative e abilità innate. In questo senso
se il costruire dighe è una attività che distingue il castoro dalle altre specie
animali, se questa è la sua essenza animale, allora questa stessa essenza è
presente in modo implicito dentro di lui già alla nascita: l’essenza del ca-
storo è dentro il castoro, come un chilo di rigatoni sta dentro la scatola di
cartone che lo contiene. Questo non significa che non sia importante anche
l’esperienza né che tutto il comportamento animale sia innato; il punto è
che ciò che l’animale può imparare è vincolato in modo più o meno rigido
dalla sua costituzione biologica innata. Per l’animale non umano, allora,
non vale la frase di Marx dei Manoscritti economico-filosofici del 1844 che
abbiamo scelto come titolo, al contrario, qui l’individuo coincide con l’es-
sere individuale, cioè l’essenza è dentro ogni singolo animale non umano.
Espresso in altro modo, ogni castoro è ogni altro castoro, nel senso che
dovunque ci sia un castoro troveremo più o meno le stesse attività, la stessa
forma di vita, le stesse esperienze.
Per l’animale umano, al contrario, questa identificazione fra essenza e
individuo non vale, perché «l’uomo fa della sua attività vitale l’oggetto
stesso della sua volontà e della sua coscienza. Ha un’attività vitale coscien-
te. Non c’è una sfera determinata in cui l’uomo immediatamente si confon-

1 K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, tr. it. a cura di N. Bobbio,


Einaudi, Torino 2004, p. 110.
2 Ivi, p. 74.
254 Il transindividuale

da. L’attività vitale cosciente dell’uomo distingue l’uomo immediatamente


dall’attività vitale dell’animale. Proprio soltanto per questo egli è un essere
appartenente ad una specie [Gattungswesen]»3. Mentre per il castoro il co-
struire una diga sul corso di un fiume è una attività spontanea e naturale, e
infatti nessun castoro adulto gli spiega che è il caso di costruirla, né tanto-
meno gli viene in mente di costruire qualche altra struttura, per l’animale
umano ogni attività presuppone una presa di posizione cosciente rispetto
alla propria esistenza. Il castoro, appena è fisicamente in grado di farlo,
comincia ad occuparsi del fiume e della diga; il castoro, cioè, non deve in-
terrogarsi su quel che c’è da fare, il compito di ogni castoro è già inscritto
nella sua natura; è la selezione naturale che ‘ha pensato’ a quello che devo-
no fare i castori. L’umano, invece, fin dall’inizio si trova nella situazione
di doversi chiedere che fare, dove farlo e perché farlo, e così, appunto, «fa
della sua attività vitale l’oggetto stesso della sua volontà e della sua co-
scienza». Il castoro è libero di costruire una diga, nel senso che non occorre
che qualcuno lo spinga con la forza a costruirne una, ma non è libero di non
costruire una diga, e invece costruire un ponte. L’umano è libero in questo
secondo senso, ogni volta si trova nella situazione di dovere scegliere fra
costruire una diga o un ponte, o non costruire proprio niente: «soltanto
per ciò la sua attività è un’attività libera»4. Se ora ci chiediamo qual è la
caratteristica distintiva, specie-specifica, dell’Homo sapiens, ci troviamo
di fronte ad un caso molto diverso da quello del Castor canadensis o del
Castor fiber: ci sono esseri umani che costruiscono dighe, altri invece che
costruiscono ponti, però ce ne sono altri che dighe e ponti invece li di-
struggono, altri ancora che i fiumi li attraversano a nuoto, e così via. Ogni
corpo umano, alla nascita, può diventare costruttore di dighe oppure di
ponti, ma anche nuotatore e ogni altra attività che può venire in mente: qui
l’essenza umana non coincide con l’individualità di ogni esemplare della
specie Homo sapiens, qui l’essenza della specie umana è nell’insieme delle
attività di questa specie, sia di quelle effettivamente esistenti che di quelle
ancora soltanto possibili. Ma c’è di più, perché mentre il castoro – per co-
struire una diga – deve seguire il programma innato che è già dentro di sé,
per costruire un ponte un umano deve prima imparare a parlare una lingua,
poi deve imparare a progettarlo, poi deve convincere qualcuno che è in gra-
do di costruirne uno in cemento e acciaio. Questo significa che l’essenza
umana si trova al di fuori del singolo individuo umano, nell’insieme delle
relazioni sociali umane. Non è soltanto che l’animale umano è un animale

3 Ibidem.
4 Ibidem.
F. Cimatti - «L’individuo è l’essere sociale» 255

fortemente sociale, perché molte altre specie animali sono fortemente se


non più sociali: il punto è che l’umano diventa umano soltanto al di fuori
di sé, nelle relazioni sociali con gli altri umani5. «L’individuo [umano] è
l’essere sociale», infatti, non un essere sociale.

Le sue manifestazioni di vita – anche se non appaiono nella forma imme-


diata di manifestazioni di vita in comune, cioè compiute ad un tempo con altri
– sono quindi una espressione e una conferma della vita sociale. La vita indi-
viduale dell’uomo e la sua vita come essere appartenente ad una specie non
differiscono fra loro, nonostante che il modo di esistere della vita individuale
sia – e sia necessariamente – un modo più particolare o più universale della
vita della specie6.

Il caso esemplare di questa situazione, in cui l’essenza si trova non den-


tro di sé bensì al proprio esterno, è quello della autocoscienza. Se c’è una
caratteristica distintiva dell’umano, almeno così ci rappresentiamo (non a
caso ci definiamo, come specie animale, Homo sapiens sapiens), è l’auto-
coscienza, cioè la capacità di essere coscienti del fatto di essere coscienti.
Questa è l’essenza umana. Ma questa essenza, a sua volta, ha una storia
sociale, è una essenza che entra nel corpo umano dall’esterno, è, come
scrive Vygotskij, un «trapianto […] dall’esterno all’interno»7. Un piccolo
umano diventa autocosciente quando impara ad usare la lingua pubblica
in modo privato8, quando impara a parlare a se stesso così come gli altri
parlano a lui:

La produzione della vita [umana], tanto della propria nel lavoro quanto
dell’altrui nella procreazione, appare già in pari tempo come un duplice rappor-
to: naturale da una parte, sociale dall’altra, sociale nel senso che si attribuisce
a una cooperazione di più individui [...]. Solo a questo punto [...] troviamo che
l’uomo ha anche una ‘coscienza’. Ma anche questa non esiste fin dall’inizio,
come ‘pura’ coscienza. Fin dall’inizio lo ‘spirito’ porta in sé la maledizione
di essere ‘infetto’ dalla materia, che si presenta qui sotto forma di strati d’aria
agitati, di suoni, e insomma di linguaggio. Il linguaggio è antico quanto la

5 Cfr. T. Wartenberg, «Species-Being and Human Nature in Marx», in Human Stu-


dies, 7, 1982, pp. 77-95.
6 K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, cit., p. 110.
7 L.S. Vygotskij, Istorija razvitija vyssih psihiceskih funktcij, Accademia delle
Scienze Pedagogiche, Mosca [1930-1931] 1960, tr. it. Storia dello sviluppo delle
funzioni psichiche superiori, tr. it. a cura di M.S. Veggetti, Giunti, Firenze 1974,
p. 219.
8 F. Cimatti, La scimmia che si parla. Linguaggio, autocoscienza e libertà nell’ani-
male umano, Bollati Boringhieri, Torino 2000.
256 Il transindividuale

coscienza, il linguaggio è la coscienza reale, pratica, che esiste anche per altri
uomini e che dunque è la sola esistente anche per me stesso, e il linguaggio,
come la coscienza, sorge soltanto dal bisogno, dalla necessità di rapporti con
altri uomini. Là dove un rapporto esiste, esso esiste per me [...]. La coscienza
è dunque fin dall’inizio un rapporto sociale e tale resta fintanto che in genere
esistono uomini9.

Se la coscienza è la nostra essenza, allora questa presunta essenza indivi-


duale «è dunque fin dall’inizio un rapporto sociale», cioè è una paradossale
essenza transindividuale, una essenza esterna e diffusa – come appunto
una lingua – fra gli individui. Questa prospettiva non si limita a sostenere
che, per comprendere la psicologia di un essere umano, è importante an-
che tenere conto delle sue relazioni sociali e del necessario rapporto che
la mente individuale deve intrattenere con gli strumenti esterni10. In realtà
con Marx si propone un modo completamente diverso di intendere la men-
te umana, che – con molta più coerenza delle scienze cognitive11 e della
cosiddetta grounded cognition12 – pone all’origine la nozione di ‘rapporto
sociale’. In effetti è uno strano materialismo quello di chi sostiene che per
naturalizzare la psicologia, cioè per escludere che «nella mente esistano
componenti riconducibili allo spirito vitale, all’anima incorporea, ai piani
astrali e a qualsiasi altro fattore che non risulti integrabile nella scienza
naturale»13, si debba ricondurre tutto il comportamento umano a quello che
succede nella mente individuale, e in prospettiva nel singolo cervello. In
effetti questo curioso e miope naturalismo (che non riesce a vedere oltre le
ossa del cranio) alla fine propone una nuova essenza, il cervello appunto,
che – con le parole di un famoso scienziato cognitivo –

crea il ‘me’ che viene reso pubblico nel mondo sociale […] [ed] è sempre lui
che mi rende capace di condividere la mia vita mentale con gli amici e mi con-

9 K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, tr. it. di F. Codino, Editori Riuniti, Roma
1975, pp. 20-21.
10 Cfr. ad esempio A. Clark, Natural-Born Cyborgs. Minds, Technologies, and the
Future of Human Intelligence, Oxford University Press, New York 2003.
11 Una analisi molto chiara e informata della ‘crisi’ delle scienze cognitive contem-
poranee, che sempre più con difficoltà riescono a distinguere il proprio punto di
vista da quello della neurologia, cioè da un progetto scientifico che di fatto non ha
più bisogno della nozione di ‘mente’, si trova in M. Marraffa, La mente in bilico.
Le basi filosofiche della scienza cognitiva, Carocci, Roma 2008.
12 Cfr. L. Barsalou, «Grounded Cognition», in Annual Review of Psychology, 59,
2008, pp. 617-645.
13 G. Botterill, P. Carruthers, Filosofia della psicologia, tr. it. di A. Tissoni, Il Sag-
giatore, Milano 2001, p. 17.
F. Cimatti - «L’individuo è l’essere sociale» 257

sente, in tal modo, di creare qualcosa più grande di qualunque cosa saremmo
in grado di fare da soli14.

Un naturalismo che per un verso si inventa un nuovo homunculus, il cer-


vello, che è un doppione nascosto dell’individuo esterno (cambia la parola,
ma fa esattamente tutto quello che un tempo faceva l’anima; non sembra
proprio un grande passo in avanti), per un altro non riesce a scorgere la dif-
ferenza esistente fra l’esistenza di un castoro e quella di un essere umano.
È il cervello, infatti, che «mi consente […] di creare qualcosa più grande
di qualunque cosa saremmo in grado di fare da soli»: come nel caso dei
castori la vita sociale e alla luce del sole non è che l’effetto esterno di quel-
la individuale, l’essenza è dentro l’individuo15. È infatti l’individualismo
cognitivo il marchio di fabbrica del cognitivismo, e paradossalmente anche
del suo antagonista, il comportamentismo (per il cognitivismo la mente è
piena, per il comportamentista la mente è vuota: sono le due alternative
possibili se si presume che la mente sia un’entità individuale): la mente
umana è originariamente una entità autonoma e indipendente. Così, nelle
parole del primo teorico delle scienze cognitive, cognitivismo significa «la
convinzione che, parlando delle attività cognitive umane, sia necessario
parlare di rappresentazioni mentali», che, in particolare, sono distinte dal
«livello […] sociologico o culturale»16. I contenuti della mente individuale
sono quindi ‘rappresentazioni mentali’ che sono diverse da quelle che si
possono trovare al di fuori della mente, nella società. Un individualismo
cognitivo che discende dal modello che è stato alla base delle scienze co-
gnitive, il calcolatore: «il computer» infatti «fornisce […] il modello più
promettente del modo in cui funziona la mente umana»17. Un computer è
un dispositivo fisicamente distinto, che contiene programmi e dati. Questo
modello dura anche oggi che le scienze cognitive vengono sempre più criti-
cate perché poco embodied e grounded: in effetti oggi le neuroscienze met-
tono, nel posto che nei primi tempi delle scienze cognitive era occupato dal
computer, il cervello. Un cervello è un’entità più biologica di un computer,
ma svolge, in questo quadro teorico, le stesse funzioni che venti anni fa

14 C. Frith, Inventare la mente. Come il cervello crea la nostra vita mentale, tr. it. di
E. Paulesu, Raffaello Cortina, Milano 2009, p. XXVII.
15 J. Tooby, L. Cosmides, «On the Universality of Human Nature and the Unique-
ness of the Individual: The Role of Genetics and Adaptation», in Journal of Per-
sonality, 58, 1990, 1, pp. 17-67.
16 H. Gardner, La nuova Scienza della mente. Storia della rivoluzione cognitiva, tr.
it. di L. Sosio, Feltrinelli, Milano 1994, p. 18.
17 Ibidem.
258 Il transindividuale

svolgeva quest’ultimo. Di qui il persistente individualismo cognitivo delle


scienze cognitive. Così oggi come allora vale la scarsa attenzione teorica
(non empirica) per i fenomeni transindividuali, cioè i fenomeni che si col-
locano fra i cervelli, e non al loro interno: un individualismo che impone,
perché così impone il modello teorico di fondo,

di mettere fra parentesi certi fattori che possono essere importanti per il funzio-
namento cognitivo ma la cui discussione complicherebbe oggi senza necessità
l’impresa della scienza cognitiva. Questi fattori comprendono l’influenza di
fattori emotivi o emozionali, il contributo di fattori storici e culturali e il ruolo
del contesto generale in cui particolari azioni e pensieri si verificano18.

Le scienze cognitive dei nostri giorni si occupano proprio di questi fat-


tori, allora trascurati, ma senza mettere in discussione l’ipoteca dell’indi-
vidualismo cognitivo: pertanto si cerca di allargare i confini della mente
individuale, oppure di situare la mente in un corpo, a sua volta immerso in
un particolare ambiente, o ancora si studia come le diverse menti entrano
in rapporto fra loro (è il campo, per citare un caso oggi molto alla moda,
dei cosiddetti neuroni specchio). Una grande attenzione empirica, da cui
tuttavia non si estrae il succo teorico che contiene: non si tratta tanto di
ampliare i confini della mente individuale, quanto piuttosto abbandonare
un modello che impone l’individualismo cognitivo. Non si tratta di sotto-
lineare che sono importanti anche le relazioni sociali, quanto piuttosto di
mettere la nozione di relazione al centro dello studio della mente umana.
Solo in questo modo si può dare conto del fatto che, per tornare all’esempio
iniziale, le nostre esistenze sono diverse da quelle dei castori, perché nes-
suna essenza interna mi costringe a costruire dighe anziché ponti. Questo
naturalismo non sa spiegare questa differenza, ed in realtà nemmeno la
vede. Con Marx, allora, nasce un materialismo della relazione che consi-
dera l’individuo come entità radicalmente sociale:

si vede [allora] come la storia dell’industria e l’esistenza oggettiva già for-


mata dell’industria sia il libro aperto delle forze essenziali dell’uomo, la psico-
logia umana, presente ai nostri occhi in modo sensibile19.

Per studiare la psicologia individuale non è sufficiente cercare dentro il


cervello, lì si trovano neuroni e biochimica, che certo sono necessari per
comprendere la fisiologia umana, ma non per capire in che credono gli

18 Ibidem.
19 K. Marx, Manoscritti economico-filosofici, cit., p. 115.
F. Cimatti - «L’individuo è l’essere sociale» 259

esseri umani, e perché vivano come vivano, e perché desiderino vivere in


modo diverso. Così «una psicologia, per la quale sia chiuso questo libro,
cioè sia chiusa proprio la parte della storia più presente e accessibile ai
sensi, non può diventare una scienza effettiva, ricca di contenuto e reale»20.

2. Vygotskij e la relazione individuo-società

Chi ha cercato di aprire ‘questo libro’, e quindi di costruire una psicologia


‘ricca di contenuto e reale’ è stato Lev Semenovič Vygotskij (1896-1934)21.
Si tratta di una psicologia che, ponendosi d’un solo colpo al di là della con-
trapposizione fra internalismo (oggi le scienze cognitive) ed esternalismo (le
varie e ricorrenti forme di comportamentismo), pone al centro del suo appa-
rato teorico la nozione di relazione. Per l’internalismo prima viene il dentro,
l’essenza, il cervello, poi – come aggiunta importante ma non necessaria – le
relazioni sociali. Così un suo inevitabile corollario è l’innatismo. Per l’ester-
nalismo, al contrario, dentro la mente propriamente non c’è nulla, e quindi
la nozione centrale è quella di apprendimento. Qui è l’individuo ad essere
secondario e accessorio, invece. Per Vygotskij al contrario si tratta di partire
dalla relazione fra l’individuo e la società, e ricostruire il percorso ontogene-
tico attraverso il quale si forma l’individuo, cioè il suo processo di individua-
zione. È ciò che sta fra gli individui, nel transindividuale, la natura umana,
e per questo, con Marx, l’umano è un «essere appartenente ad una specie»:

nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti
determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produ-
zione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze
produttive materiali. L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la
struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una
sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate
della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona,
in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscien-
za degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere
sociale che determina la loro coscienza22.

20 Ivi, p. 116.
21 Per una ricostruzione complessiva della sua figura cfr. M.S. Veggetti, Lev
Semenovič Vygotskij. Psicologia, cultura, storia, Giunti Lisciani Editori, Firenze
1994, e H. Daniels, M. Cole, J. Wertsch (eds.), The Cambridge Companion to
Vygotsky, Cambridge University Press, New York 2007.
22 K. Marx, Per la critica dell’economia politica, tr. it. di E. Cantimori Mezzomonti,
Editori Riuniti, Roma 1974, p. 5.
260 Il transindividuale

Questo celebre passo non sostiene che la coscienza individuale non esi-
sta, sostiene che la coscienza – oggigiorno si preferisce parlare di mente,
o di cervello se si vuole essere dei naturalisti integrali – non è il punto di
partenza del percorso di sviluppo individuale; all’inizio ci sono i ‘rapporti di
produzione’, in cui gli esseri umani vivono e pensano, ossia ‘forme determi-
nate della coscienza sociale’; quindi, su questa base, che è insieme materiale
e trascendentale, si forma la ‘loro coscienza’, la loro individualità.
L’originale psicologia materialista di Vygotskij, che è materialista senza
essere eliminativista (senza cioè fare a meno della mente individuale), ma
anche senza essere internalista (cioè privilegiando la mente individuale e
innata rispetto alle relazioni sociali), è tutta intorno a questo schema ge-
nerale: prima la relazione storico-sociale (prima in senso trascendentale),
poi il processo di individuazione: «le relazioni fra [le] funzioni psichiche
superiori» della mente individuale, la sua coscienza, «sono state un tempo
relazioni fra persone»23, cioè appunto transindividuali.
All’inizio di questo processo c’è, naturalmente, un corpo di una specie
animale, la specie Homo sapiens, che ha la potenzialità biologica di riceve-
re il ‘trapianto’ delle relazioni sociali esterne. Un corpo di un animale della
specie Castor fiber non ha questa predisposizione. Ma appunto, si tratta di
una predisposizione, che di per sé non predetermina lo sviluppo successi-
vo. Tutto il modello basato sulla nozione di transindividuale esclude che
esista qualcosa come una essenza interna che debba poi soltanto maturare
e riversarsi all’esterno. La precondizione per lo sviluppo di una indivi-
dualità umana è allora «la presenza degli organi e delle funzioni peculiari
dell’uomo. L’acquisizione dei valori della civiltà da parte del bambino è
condizionata alla maturazione delle funzioni e degli apparati corrisponden-
ti. A un determinato stadio del suo sviluppo biologico il bambino apprende
l’uso della lingua, se il suo cervello e l’apparato fonatorio si sviluppano
normalmente»24. Sulla biologia dell’animale umano Vygotskij non si con-
centra ulteriormente, proprio perché quella biologia – di per sé – è una
condizione necessaria ma non sufficiente a formare un individuo umano:

come nel processo dello sviluppo storico l’uomo modifica non i propri orga-
ni naturali, ma i propri strumenti, così nel processo dello sviluppo psicologico
l’uomo perfeziona il funzionamento del suo intelletto principalmente mediante
lo sviluppo di particolari ‘mezzi ausiliari’ tecnici di pensiero e di comporta-
mento. La storia della memoria umana non può essere compresa senza la storia
della scrittura, così come la storia del pensiero umano senza la storia del lin-

23 L.S. Vygotskij, Istorija razvitija vyssih psihiceskih funktcij, tr. it. cit., p. 197.
24 Ivi, p. 75.
F. Cimatti - «L’individuo è l’essere sociale» 261

guaggio. Basta solo ricordare la natura e l’origine sociali di qualsiasi segno cul-
turale per capire che lo sviluppo psicologico, esaminato da questo punto di vi-
sta, è essenzialmente sociale, condizionato dall’ambiente. Esso entra a far parte
del contesto di tutto lo sviluppo sociale e si rivela come sua parte organica25.

Accanto ed insieme allo sviluppo biologico, quello in cui opera la sele-


zione naturale, si affianca, nel caso dell’animale umano, quello culturale.
Qui è ancora più evidente l’originalità del lavoro di Vygotskij, per il quale
non si tratta di aggiungere, dopo una prima fase di sviluppo esclusivamente
biologica, una sorta di completamento o aggiunta culturale. Per Vygotskij
fin dall’inizio lo sviluppo organico si intreccia a quello socio-culturale,
che quindi è ‘parte organica’ dello sviluppo dell’individuo26. Le relazioni
sociali contribuiscono a formare lo stesso corpo dell’animale umano, la
sua fisiologia come la sua psicologia. Così il corpo impara una particolare
andatura bipede27, ciò che comporta ristrutturazioni radicali del suo sistema
scheletrico e muscolare, impara a parlare, e quindi a controllare, svilup-
pare e modificare le parti del corpo implicate nella produzione materiale
dei suoni linguistici28 oppure dei gesti comunicativi, impara a controllare
il proprio stesso comportamento, a prestare attenzione alla propria atten-
zione: «sul piano della filogenesi […] tali funzioni si sono formate non
come il prodotto dell’evoluzione biologica ma per lo sviluppo storico del
comportamento»29:

nel sistema delle categorie psicologiche rientrano anche le forme simboliche


esterne di attività come le relazioni verbali, la lettura, la scrittura, il calcolo e
il disegno. Di solito questi processi sono considerati estranei e secondari ri-
spetto ai processi psichici interni, ma dal nuovo punto di vista da cui partiamo

25 L.S. Vygotskij, A. Lurija, Etjudy po istorii povedenija, Gosizdat, Mosca-Lenin-


grado 1934, tr. it. a cura di M.S. Veggetti, La scimmia, l’uomo primitivo, il bam-
bino. Studi sulla storia del comportamento, Giunti, Firenze 1987, p. 6.
26 Una posizione simile, ma che ancora si muove all’interno della tradizione delle
scienze cognitive, e che quindi non coglie fino in fondo la rilevanza delle relazioni
sociali per lo sviluppo individuale, è quella di M. Tomasello, Le origini culturali
della cognizione umana, tr. it. a cura di L. Anolli, Il Mulino, Bologna 2005.
27 K Adolph, Learning in the Development of Infant Locomotion, Monographs of the
Society for Research in Child Development, 1997, serial number No. 251, vol. 62,
n. 3.
28 P. Kuhl, «A New View of Language Acquisition», in Proceedings of the National
Academy of Sciences, 97, 2000, (22), pp. 11850-11857.
29 L.S. Vygotskij, A. Lurija, Orudie i znak v razvitii rebënka, in Sobranie sočinenij,
vol. VI, Pedagogika, Moskwa 1984, pp. 5-90, tr. it. a cura di L. Mecacci, Strumento
e segno nello sviluppo del bambino, Laterza, Bari Roma 1997, p. 60.
262 Il transindividuale

vengono inclusi nel sistema delle relazioni psichiche superiori come equiva-
lenti a tutti gli altri processi psichici superiori. Tendiamo a considerarli anzi-
tutto come forme particolari di comportamento, che si costituiscono durante
lo sviluppo socio-culturale del bambino e rappresentano una linea esterna di
sviluppo dell’attività simbolica, accanto alla linea interna che rappresenta lo
sviluppo culturale di formazioni come l’intelligenza pratica, la percezione e la
memoria30.

La psicologia tradizionale, al cui interno rientrano ancora e pienamen-


te anche le scienze cognitive, è sostanzialmente dualista, nel senso che
separa (per come si forma, oppure per il modo di funzionare) la mente
individuale dalle relazioni che può intrattenere con il suo ambiente (que-
sto vale anche per la teoria della cosiddetta extended mind di Clark31,
che è una mente individuale che viene appunto estesa, che si avventura
all’esterno del cranio; questo è un cognitivismo ammorbidito, ma che
non mette in discussione l’individualismo originario del paradigma). An-
che lo psicologo eliminativista, cioè chi sostiene che il campo del menta-
le in realtà non esiste, distingue un interno – che per lui si identifica con
il cervello – da un esterno, le relazioni fra quel corpo/cervello con il resto
del mondo. In effetti si può essere dualisti anche se al posto dell’anima
incorporea si mette un cervello materiale: è un dualismo che privilegia
l’interno rispetto all’esterno, il dentro rispetto al fuori. La mossa innova-
trice della teoria di Vygotskij, che generalizza la prospettiva di Marx, è
invece di collocare all’inizio la relazione fra corpo/mente e società; qui
nasce la psicologia, questo è il primo e fondamentale elemento di una
teoria effettivamente materialistica della mente umana:

dire che un processo è ‘esterno’ equivale a dire che è ‘sociale’. Ogni fun-
zione psichica superiore è stata esterna perché è stata sociale prima ancora che
interiore e psichica, è stata cioè originariamente un rapporto sociale tra due
persone. Il mezzo per esercitare un’azione su se stessi è inizialmente un mezzo
per esercitare un’azione sugli altri, o un mezzo che gli altri adoperano per eser-
citare un’azione sulla persona32.

Allo stesso tempo è un materialismo che tiene conto dei fenomeni uma-
ni, e parte appunto da ciò che è immediatamente evidente, le concrete azio-

30 Ivi, p. 61.
31 Cfr. A. Clark, Natural-Born Cyborgs. Minds, Technologies, and the Future of Hu-
man Intelligence.
32 L.S. Vygotskij, Istorija razvitija vyssih psihiceskih funktcij, tr. it. cit., p. 200.
F. Cimatti - «L’individuo è l’essere sociale» 263

ni degli esseri umani, come parlare, ricordare, afferrare un oggetto, lavora-


re, prestare attenzione ad un dettaglio visivo, e così via.
È un materialismo che, come ogni materialismo, è tutto alla luce del
sole, che non invoca entità invisibili, che non moltiplica gli enti oltre quelli
assolutamente necessari. Così, invece di immaginare una inaccessibile vita
interiore e originaria, è un materialismo che considera le attività mentali in-
terne come l’uso per sé di prassi un tempo pubbliche33. Lo schema generale
del processo di individuazione, per Vygotskij, è quindi del tutto diverso sia
da quello delle scienze cognitive che da quello del loro antagonista, il com-
portamentismo. Per quest’ultimo la mente umana è originariamente vuota,
e viene riempita dagli stimoli esterni. Qui c’è solo l’esterno, e l’interno non
è che un sottoprodotto dell’esterno. La principale conseguenza teorica di
questo approccio è che per il comportamentismo l’esistenza della mente
individuale è del tutto inspiegabile (se non nel senso impoverito e vuoto di
riflesso interno di uno stimolo esterno). Al contrario, per le scienze cogni-
tive, la mente è piena di contenuti e abilità innate, che poi vengono in parte
trasmessi all’esterno, ad esempio mediante la comunicazione linguistica.
Qui il problema, teoricamente insolubile (perché è una conseguenza neces-
saria del pregiudizio individualistico di questo approccio), è invece l’esi-
stenza delle altre menti: della mia sono certo, ma di quella altrui no, perché
non posso entrare nella loro mente. Vygotskij rifiuta entrambe queste alter-
native: all’inizio c’è la relazione sociale, il rapporto fra esseri umani, ed in
particolare c’è un piccolo della specie Homo sapiens che comincia il suo
percorso di individuazione. All’inizio sono gli adulti, cioè appunto delle
relazioni sociali incarnate, che si prendono cura di lui, lo accudiscono, gli
parlano, gli insegnano – dapprima in modo implicito poi anche in modo
esplicito – come agire, come muovere il corpo, come provare emozioni.
Poi, lentamente, il piccolo della specie umana comincia ad usare su di e
per sé quello che gli altri, prima, avevano fatto con lui: «ogni funzione nel
corso dello sviluppo culturale del bambino fa la sua apparizione due volte,
su due piani diversi, prima su quello sociale, poi su quello psicologico,
dapprima fra le persone, come categoria interpsichica, poi all’interno del
bambino, come categoria intrapsichica»34.

33 Su questa stessa linea cfr. il tentativo di una psicologia superficiale, senza pro-
fondità, in F. Cimatti, Il volto e la parola. Psicologia dell’apparenza, Quodlibet,
Macerata 2007.
34 L.S. Vygotskij, Istorija razvitija vyssih psihiceskih funktcij, tr. it cit., p. 201.
264 Il transindividuale

3. Dal transindividuale all’individuo

Proviamo a seguire questo processo con un esempio determinato, la


storia naturale (che è insieme storia ma anche naturale) del gesto con cui
il bambino impara ad indicare ad un altro qualcosa che ha attirato la sua
attenzione. Si tratta intanto di sgombrare il campo di ogni presupposizione
mentalista. All’inizio c’è una operazione automatica: lo sguardo del bambi-
no è attirato da qualcosa, e quindi, naturalmente, prova ad afferrare ciò che
l’ha interessato: «il gesto dell’indicazione», allora, «rappresenta origina-
riamente un semplice movimento incompiuto volto ad afferrare l’oggetto, e
che sta appunto a indicare l’azione. Il bambino tenta di afferrare un oggetto
che è collocato troppo lontano, le sue mani sono protese verso l’oggetto,
e restano sospese nell’aria, le dita compiono movimenti di presa: tale si-
tuazione è punto di partenza per ogni successivo sviluppo»35. All’inizio –
come vale per ogni materialismo – c’è l’azione. In questo caso un’azione
trainata dalla percezione. Qui non c’è nessuna intenzione comunicativa,
c’è un riflesso scatenato dalla vista di un oggetto interessante. Propriamen-
te, proprio perché si tratta di un riflesso, non c’è nemmeno pensiero. Quel
gesto, però, accade in un contesto transindividuale, perché ci sono delle
persone presenti, anche se il gesto del piccolo umano non era diretto a loro.
Infatti «la madre giunge in aiuto del bambino e concettualizza il suo movi-
mento come un’indicazione»36. L’intenzione, che non è nel gesto del bam-
bino, che in realtà è un atto incompiuto, viene attribuita al bambino dalla
madre. È la madre che vede in quel movimento uno scopo, raggiungere
l’oggetto, e che quindi lo trasforma in azione mirata, in segnale per attira-
re la sua attenzione: così ora «la situazione muta completamente. Il gesto
dell’indicazione» – in realtà ancora soltanto supposta – «diventa un gesto
per gli altri». È allora il contesto transindividuale a trasformare un riflesso
in un gesto, in un segnale comunicativo, in una indicazione. A questo punto
la reazione della madre si riflette sul comportamento del bambino, che ora
scopre che quel movimento può assumere tutt’altro valore. Qui vediamo il
congiungersi della linea di sviluppo naturale – l’oggetto che attira lo sguar-
do e l’immediato tentativo di afferrarlo – con quella culturale, cioè con
l’attribuzione di un valore comunicativo da parte di un altro essere uma-
no: così il suo gesto «viene ricollegato dal bambino con tutta la situazio-
ne oggettiva» e quindi lo stesso bambino «comincia a considerare questo
stesso movimento come un’indicazione. Avviene così una modificazione

35 Ivi, p. 199.
36 Ibidem.
F. Cimatti - «L’individuo è l’essere sociale» 265

della funzione del movimento stesso: da movimento rivolto verso l’oggetto


diventa movimento rivolto verso un’altra persona attraverso un mezzo di
comunicazione: la prensione si trasforma in indicazione»37. Si parte dalla
relazione sociale, a cui in realtà uno dei due partecipanti non sa, ancora,
di partecipare; ne basta uno, purché anche l’altro sia capace di accorgersi
del comportamento altrui. Dal transindividuale emerge l’individuo, perché
alla fine «il bambino giunge […] alla consapevolezza del proprio gesto»38.
Prima allora la relazione ‘interpsichica’, cioè appunto il transindividua-
le, poi quella ‘intrapsichica’, cioè quella mentale individuale. L’operatore
storico-sociale della individuazione, l’operatore che media fra questi due
momenti è la ‘interiorizzazione’, cioè la «ricostruzione interna di una ope-
razione esterna»39e sociale. Fin dall’inizio in questo modello prevale il rap-
porto fra esseri umani, la relazione sociale. È la prima mossa del materiali-
smo di Vygotskij, partire dalla realtà dei fenomeni umani. In effetti se è la
mente umana che si sta studiando, non si vede da quali altri fenomeni biso-
gnerebbe partire. Il curioso materialismo delle scienze cognitive pretende
invece di risalire alle condizioni non umane dell’umanità. Ora, è un ma-
terialismo affatto peculiare, questo, che per studiare un fenomeno umano
comincia collocandosi al di qua dell’umano; a questo materialismo Marx
ribatte mostrando il carattere intrinsecamente paradossale di questa stessa
domanda: «quando tu ti poni la domanda intorno alla creazione dell’uomo
e della natura, fai astrazione dell’uomo e della natura. Tu li poni come
non esistenti, eppure vuoi che te li provi come esistenti»40. Il materialismo
di Vygotskij cerca allora di tenere insieme i due elementi, quello naturale
e quello storico, che il materialismo delle scienze cognitive tiene invece
separati: da un lato c’è il processo per cui «l’uomo è debitore della sua
esistenza anche fisicamente all’uomo»41; dall’altro lato presta però anche
«attenzione al movimento circolare […] in base al quale l’uomo nella ge-
nerazione riproduce se stesso, e l’uomo rimane quindi sempre soggetto»42.
Il materialismo storico consiste in questi due movimenti congiunti. Così
il piccolo umano, che nasce come esemplare della specie animale Homo
sapiens, come esito temporaneo di un lungo e intricato processo di evo-

37 Ibidem.
38 Ivi, p. 200.
39 L.S. Vygotskij, Mind in Society. The Development of Higher Forms of Psycholo-
gical Processes, Harvard University Press, Cambridge MASS. 1978, tr. it. a cura di
M. Cole, Il processo cognitivo, Boringhieri, Torino 1980, p. 86.
40 K. Marx, Manoscritti economico-filosofici, cit., p. 119.
41 Ibidem.
42 Ibidem.
266 Il transindividuale

luzione naturale, diventa umano quando viene accolto in una comunità


umana: qui, introiettando al suo interno le particolari relazioni sociali del
suo ambiente – lingua, tradizioni, prassi collettive, modi di fare, gesti con-
suetudinari ecc. – sviluppa le ‘funzioni psichiche superiori’, che possono
anche essere definite le funzioni storico-sociali della sua mente (questo
processo si riproduce anche a livello cerebrale, ovviamente, perché certe
potenzialità cognitive sono il risultato di una ristrutturazione sociale e sto-
rica delle stesse strutture cerebrali43). L’individuo si forma all’incrocio fra
le potenzialità naturali e le forme storico-sociali che effettivamente incon-
tra durante il suo sviluppo44, così «il risultato principale della storia dello
sviluppo culturale del bambino» è «la sociogenesi delle forme superiori di
comportamento»45.

4. Il ‘pensiero verbale’

Il prototipo di tutte le operazioni di ‘interiorizzazione’ è quella in cui la


lingua del proprio ambiente sociale diventa il principale sostegno cognitivo
del pensiero individuale. All’inizio del processo di individuazione, scrive
Vygotskij, nella mente del bambino, come in quella di ogni altro animale
non umano46, il pensiero (evidentemente non linguistico) e le forme natu-
rali di espressione sono separate, infatti «il pensiero e il linguaggio hanno
radici genetiche completamente diverse»47. Il punto di svolta nell’ontoge-
nesi della mente individuale è quando queste due distinte linee evolutive si
incontrano e danno vita ad un nuovo sistema storico-naturale, quell’intrec-
cio che Vygotskij definisce ‘pensiero verbale’, in cui «il linguaggio diventa
intellettivo e il pensiero diventa verbale»48. Ancora una volta è da ribadire
l’originalità di questa formazione. La discussione sul tema dei rapporti fra
linguaggio e pensiero oscilla fra chi sostiene la priorità e indipendenza del
pensiero dal linguaggio (a lungo la posizione delle scienze cognitive), e

43 Cfr. L Mecacci, Cervello e storia, Editori Riuniti, Roma 1977.


44 L.S. Vygotskij, «Socialisticheskaja peredelka cheloveka», in Varnitso, 3, 1930,
pp. 36-44, tr. ingl. «The Socialist Alteration of Man», in R. Der Veer, J. Valsiner
(eds.), The Vygotsky Reader, Wiley-Blackwell, Oxford Mass. 1994, pp. 175-184
45 L.S. Vygotskij, Istorija razvitija vyssih psihiceskih funktcij, tr. it cit., p. 201.
46 Cfr. F. Cimatti, La mente silenziosa. Come pensano gli animali non umani, Editori
Riuniti, Roma 2002.
47 L.S. Vygotskij, Myšlenie i reč’, Gosudartstvennoe Social’no-Ekonomičeskoe
Izdatel’stvo, Moskva-Leningrad, 1934, tr. it. Pensiero e linguaggio, a cura di L.
Mecacci, Laterza, Roma-Bari 1992, p. 95.
48 Ivi, p. 111.
F. Cimatti - «L’individuo è l’essere sociale» 267

chi invece sostiene la priorità del linguaggio sul pensiero. In questa forma
si tratta di una contrapposizione ormai sterile. Vygotskij sposta la discus-
sione sul piano dello sviluppo ad uno stesso tempo biologico e culturale
dell’animale umano: non si tratta di affermare la priorità dell’uno o dell’al-
tro elemento, bensì di vedere come dal loro incontro si formi una nuova
forma di attività cognitiva. Il ‘pensiero verbale’, infatti, più che un modo
di comunicare è un modo nuovo di organizzare l’esperienza, interna ed
esterna, da parte degli animali della specie biologica Homo sapiens. È una
operazione naturale perché solo la nostra specie è predisposta in modo
innato49 per l’incontro fra pensiero e linguaggio; è una operazione stori-
co-culturale perché questo incontro avviene fra una dotazione biologica
universale e una lingua particolare. Così il ‘pensiero verbale’ è allo stesso
tempo un modo di stabilire relazioni linguistiche con i propri simili ma an-
che se non soprattutto un modo di organizzare il proprio pensiero. La tappa
intermedia dello sviluppo di questa particolare forma di azione linguistica
è il cosiddetto ‘linguaggio egocentrico’, che il bambino usa parlando ad
alta voce in assenza di interlocutori: qui il parlare non ha uno scopo co-
municativo, appunto perché non si parla a nessuno, bensì è la prima forma
di auto-organizzazione del proprio comportamento da parte del bambino.
Fino a quel momento erano stati gli adulti a guidare le sue azioni, ora che
gli adulti non ci sono il bambino comincia ad usare le forme linguistiche
che ha ascoltato da loro per imparare a controllarsi anche da solo: «il lin-
guaggio egocentrico appare sulla base di un percorso sociale, quando il
bambino trasferisce le forme sociali di comportamento, le forme di col-
laborazione collettiva nella sfera delle funzioni psicologiche personali»50.
L’esito finale di questo processo di sviluppo è il ‘linguaggio interno’, cioè
appunto il ‘pensiero verbale’, il pensiero che fa tutt’uno con le parole di
una lingua e che non richiede più di essere espressamente articolato: qui
«il pensiero non si esprime nella parola, ma si realizza nella parola»51. Lo
schema complessivo dello sviluppo individuale delle funzioni psichiche
superiori è quindi, per Vygotskij, «linguaggio sociale – linguaggio egocen-
trico – linguaggio interno»52. Con il ‘linguaggio interno’ diventa possibile
lo sviluppo delle funzioni psichiche superiori, che sono tutte forme diverse

49 T. Deacon, La specie simbolica, tr. it. a cura di S. Ferraresi, Giovanni Fioriti Edi-
tore, Roma 2001.
50 L.S. Vygotskij, Myšlenie i reč’, Gosudartstvennoe Social’no-Ekonomičeskoe
Izdatel’stvo, tr. it. cit., p. 58.
51 Ivi, p. 334.
52 Ivi, p. 59.
268 Il transindividuale

di ‘autocontrollo’, in particolare ‘l’intenzionalità’ e la ‘volontà’53. Qui si


coglie la distanza radicale fra l’impostazione di Vygotskij e anche le forme
più avanzate del cognitivismo contemporaneo. Per Tomasello, ad esempio,
le relazioni culturali sono possibili perché nella mente umana esisterebbe
un dispositivo innato per la joint attention, che permetterebbe di cogliere
le intenzioni altrui. Per Tomasello, allora – e qui svela fino in fondo la sua
fedeltà al paradigma delle scienze cognitive, cioè il suo individualismo co-
gnitivo – esiste nella mente umana la capacità innata degli esseri umani «di
comprendere i conspecifici come esseri simili a loro stessi, con vite inten-
zionali e mentali simili alla propria»54. Il punto di partenza di questa impo-
stazione è una forma di autocoscienza originaria, come appunto pensava il
fondatore moderno del dualismo, Cartesio. Così il piccolo umano – quando
ancora non è capace nemmeno di tenersi in piedi, tantomeno di dire una
parola, in realtà nemmeno di chiudere bene la bocca quando viene imboc-
cato – sarebbe però capace di «mettersi nei ‘panni mentali’ degli altri»55.
Qui Tomasello ci sta implicitamente dicendo che nel mondo naturale esi-
stono, oltre alle carote e ai contratti over the counter, anche le intenzioni, e
che per di più i piccoli umani riescono anche a vederle, forse come i fedeli
vedono le lacrime delle statue della madonna. Ora tutto questo, per Toma-
sello, sarebbe una forma di naturalismo. In realtà qui si mostra chiaramente
il vicolo cieco a cui conduce l’individualismo cognitivo che caratterizza in
modo strutturale il modello delle scienze cognitive. Dovrebbe anche essere
evidente allora la novità della impostazione di Vygotskij, che muovendo
dal transindividuale, dalle relazioni sociali, dalle funzioni ‘interpsichiche’
arriva a quelle ‘intrapsichiche’. La ‘volontà’, in questo processo, non è il
punto di partenza dello sviluppo individuale, al contrario, è l’esito finale di
un processo storico-sociale di progressiva liberazione della mente umana
dai vincoli che il nesso ambiente-percezione esercita sulla mente naturale.
La selezione naturale ha infatti guidato lo sviluppo di un apparato cogniti-
vo prontissimo a reagire agli stimoli ambientali; in questo senso la mente
animale è guidata dalla percezione, il pensiero è subordinato all’azione, il
ricordo all’occasione che lo evoca. Con la nascita del ‘pensiero verbale’,
invece, il piccolo umano rovescia questa situazione: imparando, attraverso
il ‘linguaggio interno’, a controllare il proprio comportamento, impara di
fatto a controllare la propria stessa attenzione. Ora i rapporti fra percezione
e pensiero si ribaltano: non occorre più percepire uno stimolo esterno per

53 Ibidem.
54 M. Tomasello, Le origini culturali della cognizione umana, cit., p. 23.
55 Ivi, p. 24.
F. Cimatti - «L’individuo è l’essere sociale» 269

concentrare su di esso la nostra attenzione. Diventa ora possibile pensare a


ciò che non si percepisce:

grazie all’azione pianificatrice del linguaggio, diretta alla propria attività, il


bambino crea accanto ad una serie di stimoli, che gli provengono dall’ambien-
te, una seconda serie di stimoli ausiliari che si frappongono fra lui e l’ambiente
e dirigono il suo comportamento. Proprio per questa seconda serie di stimoli,
formatasi mediante il linguaggio, il comportamento del bambino si eleva ad
un livello più alto, acquisendo una relativa libertà dalla situazione che attrae
direttamente, e i tentativi impulsivi vengono trasformati in un comportamento
pianificato e organizzato56.

La ‘volontà’, in questa prospettiva, non è affatto – come nelle scienze


cognitive – originaria, non è la premessa nascosta di una cattivo naturali-
smo, che presuppone proprio ciò che più dovrebbe spiegare; non è nem-
meno, però, esclusa, come accade in tutte le impostazione speculari e con-
trarie, cioè in tutte le varie forme di comportamentismo ed eliminativismo.
La mente individuale è il punto di arrivo di un processo di emancipazione
dalle condizioni naturali, ma anche da tutte le relazioni storico-sociali che
si presentano di fronte all’individuo come se fossero naturali57. L’individuo
non è la premessa della relazione, è il suo effetto. Il transindividuale prende
infine forma concreta e storica nell’individuo:

il segno, che si trova al di fuori dell’organismo, ed è, come lo strumento,


separato dalla persona, è sostanzialmente un organo collettivo, o uno strumento
sociale. Potremmo ulteriormente dire che tutte le funzioni superiori non si sono
venute costituendo nell’ambito della biologia, e neppure semplicemente della
sola filogenesi, ma che il meccanismo che sta a loro fondamento è il calco di
quello sociale. Tutte le funzioni psichiche superiori rappresentano delle rela-
zioni sociali interiorizzate, il fondamento della struttura sociale della persona58.

5. Individuazione e transindividuale

Questa immagine dell’umano contiene anche una potenzialità politi-


ca, come peraltro era evidente anche allo stesso Vygotskij. L’individuo è
l’esito finale, ma non definitivo, di un processo di individuazione. Non
definitivo perché il transindividuale, come ci ricorda Simondon, eccede

56 L.S. Vygotskij, A. Lurija, Orudie i znak v razvitii rebënka, tr. it. cit., p. 26.
57 L.S. Vygotskij, «Socialisticheskaja peredelka cheloveka», cit.
58 L.S. Vygotskij, Istorija razvitija vyssih psihiceskih funktcij, tr. it. cit., p. 201.
270 Il transindividuale

sempre l’individuo, perché «il vivente serba in sé una permanente attività


di individuazione»59. Nella teoria di Vygotskij è quindi implicita una carica
dinamica, proprio perché l’individuazione non è mai compiuta una volta
per tutte, perché il transindividuale è sempre più denso e ricco di ogni indi-
viduo, che, al contrario, è come una mancanza che cerca sempre nuove in-
dividuazioni, sempre nuove determinazioni. Si stabilisce così un rapporto
fra la ricchezza sociale e quella individuale, fra le potenzialità sociali – che
peraltro lo stesso individuo contribuisce a creare – e le loro concrete realiz-
zazioni individuali. Il nesso è evidente rispetto alla creatività individuale.
Coerentemente con la sua impostazione generale, che vede sempre l’indi-
viduo come individuazione, come esito di un processo di ‘interiorizzazio-
ne’ delle risorse sociali, per Vygotskij la creatività non è originaria, non
nasce con l’individuo. Al contrario, «l’immaginazione costruisce sempre
con materiali forniti dalla realtà»60. L’individuo ricco – in senso umano – è
l’individuo che ha vissuto esperienze diverse e che ha saputo assimilarle;
è l’individuo che è riuscito a rimanere in contatto con il transindividuale,
cioè con la ricchezza sociale:

l’attività creatrice dell’immaginazione è in diretta dipendenza dalla ricchez-


za e varietà della precedente esperienza dell’individuo, per il fatto che questa
esperienza è quella che fornisce il materiale di cui si compongono le costru-
zioni della fantasia. Quanto più ricca sarà l’esperienza dell’individuo tanto più
abbondante sarà il materiale di cui la sua immaginazione potrà disporre. Ecco
perché nel bambino l’immaginazione è più povera che nell’adulto: la cosa si
spiega con la maggiore povertà della sua esperienza61.

Il tema politico connesso a quello della individuazione psicologica è


allora quello della «dilatazione della sua esperienza»62. Una ‘dilatazione’
che non è un accessorio, un dono capriccioso che ad alcuni individui è con-
cesso e ad altri no. Se l’umano coincide con il processo di individuazione,
di ‘interiorizzazione’ del transindividuale, allora ogni sistema sociale che
blocchi questo processo letteralmente si frappone alla costruzione degli

59 G. Simondon, L’individuation psychique et collective. À la lumiere des notions de


Forme, Information, Potentiel et Métastabilité, Editions Aubier, Paris 1989, tr. it.
a cura di P. Virno, L’individuazione psichica e collettiva, DeriveApprodi, Roma
2001, p. 30.
60 L. S. Vygotskij, 1930, Voobrazenie i tvorcestvo v detskom vozraste, Prosvescenie,
Moskwa, 1967, tr. it. di A. Alberti, Immaginazione e creatività nell’età infantile,
Editori Riuniti, Roma 1972, p. 29.
61 Ivi, pp. 29-30.
62 Ibidem.
F. Cimatti - «L’individuo è l’essere sociale» 271

individui, perché «l’immaginazione si dimostra una condizione assoluta-


mente indispensabile di tutte le attività intellettuali dell’uomo»63. Proprio
perché è transindividuale la ricchezza sociale non può essere proprietà
privata di qualcuno, non può cioè essere sottratta a quell’‘essere sociale’
che è l’essenza umana. Quando qualcuno si appropria del transindividuale
letteralmente si appropria di una potenzialità di esperienza umana; e così
è l’intera essenza umana ad esserne sminuita. Il tema politico che pone la
questione del transindividuale è quindi quello della sua completa accessi-
bilità umana:

soltanto attraverso l’intero svolgimento oggettivo della ricchezza dell’esse-


re umano, viene in parte educata, in parte prodotta la ricchezza della sensibilità
soggettiva dell’uomo, e parimenti un orecchio per la musica, un occhio per la
bellezza della forma, in breve i soli sensi capaci di un godimento umano, quei
sensi che si confermano come forze essenziali dell’uomo. Infatti non solo i
cinque sensi, ma anche i cosiddetti sensi spirituali, i sensi pratici (il volere,
l’amore ecc.), in una parola il senso umano, l’umanità dei sensi, si formano
soltanto attraverso l’esistenza dell’oggetto loro proprio, attraverso la natura
umanizzata. L’educazione dei cinque sensi è un’opera di tutta la storia del mon-
do fino ad oggi […] e così la società già formata produce l’uomo in tutta questa
ricchezza del suo essere, produce l’uomo ricco e profondamente sensibile a
tutto come sua stabile realtà64.

63 Ivi, p. 33.
64 K. Marx, Manoscritti economico-filsoofici, cit., pp. 114-115.
273

PATRICE MANIGLIER
AMBIENTI DI CULTURA:
UN’IPOTESI SULLA COGNIZIONE UMANA1

La dottrina materialista della modificazione delle circostanze e


dell’educazione dimentica che le circostanze sono modificate dagli
uomini e che l’educatore stesso deve essere educato. Essa è costretta
quindi a separare la società in due parti, delle quali l’una è sollevata
al di sopra della società. La coincidenza del variare delle circostanze
e dell’attività umana, o auto-trasformazione, può essere concepita o
compresa razionalmente solo come prassi rivoluzionaria.
Karl Marx, Tesi su Feuerbach.

Che vi sia un rapporto stretto tra la nostra capacità di pensare e la nostra


facoltà di parlare, è un’intuizione condivisa dalla maggior parte di noi ed
al tempo stesso una tesi filosofica che ha ricevuto, nel corso della storia,
numerose formulazioni, spesso largamente conflittuali. È tuttavia verosi-
mile che questo antico approccio non sia stato in alcun modo toccato dalla
comparsa, tra XVIII e XIX secolo, del progetto di rendere il linguaggio
l’oggetto di una scienza empirica positiva? È possibile che l’inevitabile
defamiliarizzazione implicata da una siffatta operazione rispetto ad un og-
getto così consueto quale il linguaggio resti senza conseguenze sul nostro
modo di pensare il pensiero? Si tratterà qui di porre una semplice domanda,
che è tuttavia poco frequentata dalla letteratura scientifica e meno scientifi-
ca sull’argomento in questione: quali problemi filosofici sono posti dal lin-
guaggio, dal momento in cui non lo si considera più come quell’elemento
consueto in cui viviamo, che crediamo, non certo di conoscere, ma almeno
di frequentare, e nei cui usi avvertiamo che qualcosa del nostro pensiero è
messo in gioco – ma anzi cerchiamo di farne l’oggetto di un sapere positi-
vo, di rendercelo quindi estraneo, di metterlo a distanza e di sottometterlo
alle esigenze di una disciplina scientifica moderna con i suoi strumenti
formali e le sue tradizioni di ricerca scientifica? È quindi una deviazione

1 Questo articolo è la versione rielaborata di una conferenza tenuta all’Ecole Nor-


male Supérieure il 30 ottobre 2006 nel quadro dei «Lundis de la Philosophie» il
cui tema era: Linguaggio e cognizione. Ringrazio Francis Wolff per il suo invito e
Etienne Balibar per i suoi generosi commenti e suggerimenti.
274 Il transindividuale

attraverso il campo teorico che vorrei proporre per riformulare la questione


filosofica dei rapporti tra il linguaggio e la mente, e per costruire, a partire
dal linguaggio, una posizione che appartenga di diritto al campo della filo-
sofia della mente.
Questa deviazione mi condurrà a sostenere una tesi e a formulare
un’ipotesi. La tesi è che il linguaggio riguarda la filosofia della mente per
una ragione differente dalle due motivazioni tradizionalmente invocate
dalla filosofia, cioè per una ragione che non concerne né la sua dimensione
semantica, né la sua dimensione sintattica. I veri misteri filosofici a cui
il linguaggio ci confronta non risiedono tanto – contrariamente a ciò che
un’intuizione spontanea tenderebbe a farci credere, e a ciò che i filosofi di
conseguenza sostengono (i filosofi per i quali il linguaggio è innanzitutto
uno strumento) – in questa proprietà un po’ bizzarra che esso ha di rinviare
a qualcos’altro, di ‘significare’, in questa proprietà quindi che si chiama
anche intenzionalità. Ma non risiedono nemmeno nel fatto che esso si pre-
senta come un fenomeno di tipo calcolatorio, sottomesso a regole formali,
indipendenti da ogni contenuto, aspetto cui ci si interessa da tempo, almeno
da Descartes, e che la rivoluzione generativa iniziata da Chomsky ha mes-
so al centro di numerosi dibattiti e problemi. I veri misteri del linguaggio
risiedono in una dimensione il cui carattere problematico è meno immedia-
tamente evidente, e cioè nella sua dimensione fonologica, cioè nei proble-
mi specifici posti dalla percezione del linguaggio. Vorrei in effetti cercar di
difendere questa tesi paradossale: che il linguaggio sia tanto più spirituale
laddove appare più materiale, cioè nella percezione stessa dei segni lingui-
stici. Ciò che mi sembra istruttivo nel linguaggio è il fatto che esso attira
la nostra attenzione su di un tipo di percezione che risulterà essere un tipo
d’invarianza, cosa che rimette in discussione le intuizioni consuete a pro-
posito della natura del ‘sensibile’ in generale.
Ma da questa tesi vorrei anche trarre un’ipotesi: vorrei sostenere la
possibilità di ridefinire la competenza cognitiva in termini di capacità di
entrare in modo attivo nel movimento di costituzione e di ridefinizione
permanente di culture, e che la mente, vista come facoltà di un organismo,
non sia altro che l’insieme dei processi e dei funzionamenti che sosten-
gono l’emergenza di quanto chiamiamo fenomeni culturali2; vorrei anche

2 Questo problema della cognizione culturale è ad un tempo molto antico (in un


certo senso, si può dire che esso fosse l’oggetto della filosofia di Humboldt, prose-
guita nel XX secolo da Cassirer) e molto recente, nel senso per cui la questione dei
fatti culturali, e di una eventuale specificità dei funzionamenti cognitivi all’opera
entro i meccanismi di produzione, trasmissione, funzionamento e variazione dei
fenomeni culturali è stata posta in primo piano nelle ‘ricerche cognitive’ solo in
P. Maniglier - Ambienti di cultura: un’ipotesi sulla cognizione umana 275

sostenere che occorre intendere questa competenza nei termini di una fa-
coltà di generare qualcosa come degli ambienti [milieux], nel senso della
teoria degli ambienti o dell’etologia cognitiva3, in modo tuttavia che sif-
fatti ambienti risultino da, e si mantengano tramite, l’interazione tra agenti
cognitivi che hanno delle particolarità assai singolari e che cercheremo
di precisare. Così, da un lato, daremo ragione a coloro che, tra i filosofi
della mente, sostengono che pensare, per il tipo di creature che noi siamo,
implica sempre il sorgere di sistemi di pensiero che eccedono l’individuo,
e di conseguenza il pensiero è più una realtà che abitiamo e in cui viviamo
che un costituente della nostra interiorità – che la mente, in altri termini, è
‘fuori’, per riprendere una formula di Vincent Descombes, nelle istituzioni,
negli spazi pubblici, nel mondo4. Ma, da un altro lato, ci sforzeremo di for-
nire un’interpretazione naturalista di questo fenomeno, e di mostrare quali
difficoltà si incontrino quando si cerca di comprendere la natura di questa
‘pubblicità’. Mentre i filosofi tendono a credere che occorra limitarsi alle
‘manifestazioni sensibili’, mostreremo che è necessario introdurre alcune
mediazioni supplementari, in grado di ridare alla nozione di cultura tutta
la sua dimensione problematica e dinamica. La cultura apparirà come un
fenomeno rigorosamente transindividuale.
L’insieme di questa costruzione può essere riassunto in una frase: il lin-
guaggio non è un mezzo ma un ambiente [milieu], qualcosa in cui si vive
e non qualcosa di cui ci si serve. Svilupperò questa tesi in tre tempi. In un
primo tempo, caratterizzerò l’idealtipo di ciò che possiamo chiamare l’in-
terpretazione dominante delle relazioni tra pensare e parlare, interpretazio-
ne che ha finito per coincidere con la stessa espressione di ‘cognitivismo’.
Sarebbe in effetti impossibile ricondurla ad un solo autore – neppure nel
caso del suo principale istigatore, Noam Chomsky. Ma ciò che importa qui
è più chiarificare una posizione possibile nel campo filosofico e teorico
contemporaneo che far opera d’esegesi, allo scopo di meglio introdurre
il problema cui mi sembra rinviare necessariamente la meditazione sulla
natura del pensiero informata dalla linguistica. In un secondo tempo, cer-
cherò di mostrare che la generalizzazione dell’idea di sintassi, caratteri-

tempi relativamente recenti: per un esempio di approccio cognitivo al problema


della cultura, cfr. M. Tomasello, Le origini culturali della cognizione umana, tr. it.
a cura di L. Anolli, Il Mulino, Bologna 2005.
3 Penso qui alla tradizione aperta da J. von Uexküll, Ambiente animali e ambienti
umani. Una passeggiata in mondi sconosciuti e invisibili, tr. it. di M. Mazzeo,
Quodlibet, Macerata 2010, proseguita oggi in Francia da D. Lestel, Les origines
animales de la culture, Flammarion, Paris 2001.
4 V. Descombes, La Denrée Mentale, Minuit, Paris 1995.
276 Il transindividuale

stica del cognitivismo classico, sembra non resistere alle osservazioni sul
funzionamento stesso del linguaggio, e che occorre vedere in esso un’atti-
vità di percezione piuttosto che una forma di calcolo mentale. In un terzo
tempo, attirerò l’attenzione sulle difficoltà misconosciute della percezione
del linguaggio e ne dedurrò un problema che mi sembra essere al cuore
stesso della sfida consistente nel fare del linguaggio in particolare, ma delle
culture più in generale, l’oggetto di un sapere positivo. Ciò mi permetterà
di costruire, in un terzo tempo, una posizione che costituirebbe una sorta
di soluzione a tale problema, ed in pari tempo una nuova prospettiva per la
filosofia della mente.

1. L’ipotesi cognitiva: parlare è calcolare

Il cognitivismo in linguistica non può esser definito (come si è talvol-


ta tentato di fare in modo un po’ semplicistico5) attraverso l’idea per cui
il linguaggio dovrebbe essere studiato esclusivamente come un campo
d’esercizio della facoltà di pensare e la linguistica dovrebbe esser ridefinita
come un ramo della psicologia. Si tratterebbe di una tesi così equivoca
da designare a malapena un’idea. Il cognitivismo si definisce piuttosto in
base ad una tesi sulla natura stessa del pensiero che si potrebbe formulare
semplicemente così: pensare, pensare in generale, è sempre conoscere. La
conoscenza è l’essenza del pensiero. Se quindi il linguaggio è un fenomeno
cognitivo, è perché parlare è in un certo senso un modo del conoscere. Oc-
corre comprendere ciò come segue: i soggetti parlanti formerebbero delle
teorie sulla loro lingua, e la linguistica sarebbe quindi una teoria cognitiva
nel senso che essa sarebbe la conoscenza di un campo particolare di co-
struzione delle conoscenze; essa formulerebbe delle teorie su queste teorie
peculiari che sono le lingue. A questo titolo, essa non sarebbe che una tra
le varie discipline che prendono ad oggetto ciascuno degli ambiti entro cui
gli esseri umani si costruiscono delle conoscenze. Il cognitivismo appare
così per ciò che esso è: un paradigma trasversale che offre la prospettiva di
una comprensione integrata delle scienze umane, dato che l’uomo vi è defi-
nito come un animale cognitivo, cioè capace di conoscenza. Occorre certo
precisare questo concetto di conoscenza e perciò entrare immediatamente
negli argomenti a sostegno di questa triplice ridefinizione: della linguistica

5 Cfr. ad esempio H. Gardner, La nuova scienza della mente, tr. it. a cura di L. Sosio,
Feltrinelli, Milano 1988.
P. Maniglier - Ambienti di cultura: un’ipotesi sulla cognizione umana 277

come disciplina cognitiva, del linguaggio come una specie di sapere che
i soggetti avrebbero e dell’attività di parlare come attività di conoscenza.
Primo argomento, che riguarda l’oggetto della linguistica: Chomsky ha
instancabilmente sostenuto la tesi per cui non sono i comportamenti con-
creti, nel senso degli eventi spazio-temporali osservabili, né gli atti comu-
nicativi o espressivi, l’oggetto di studio della linguistica, ma piuttosto i giu-
dizi su tali comportamenti. Così, l’oggetto della linguistica possiede esso
stesso una struttura cognitiva, poiché consta di proposizioni suscettibili di
essere vere o false. Esse hanno una forma del tipo: «la sequenza XYZ
è accettabile (o inaccettabile) nella lingua L». Per riprendere un celebre
esempio, parlare una lingua non può voler dire comprendere la frase: «Co-
lourless green ideas sleep furiously», poiché è appunto incomprensibile,
ma almeno sapere se si tratta di una frase accettabile in inglese, cioè di una
frase possibile dell’inglese6. Così, l’oggetto del linguista è direttamente un
giudizio, suscettibile di essere convalidato o invalidato.
A questa definizione della linguistica è possibile fornire un argomento
epistemologico: una definizione di questo genere ci dà dei criteri di con-
valida delle teorie linguistiche. Il giudizio di accettabilità è ad un tempo
l’oggetto della linguistica e lo strumento del linguista, ciò tramite cui que-
sti verifica il carattere corretto o scorretto delle teorie che costruirà. Se una
teoria predice che dei giudizi di grammaticalità sono accettabili mentre, per
la comunità linguistica che li parla, essi non sono considerati accettabili,
questa teoria può essere detta invalidata. L’intuizione di grammaticalità è
quindi l’‘osservabile’ della linguistica7.
Secondo argomento: non sono solo i fenomeni che il linguista studia
ad avere la struttura di giudizi, sono anche gli apparati che stanno dietro
a tali giudizi ad avere una struttura teorica in un senso molto particolare:
le teorie tramite cui noi valutiamo le performances verbali hanno la forma
di sistemi formali definiti da 1) un certo numero di proposizioni minimali;
2) delle regole di trasformazione su queste proposizioni che permettono
di produrre; 3) un numero indefinito ma determinato di siffatti giudizi di
grammaticalità. Un giudizio di grammaticalità può quindi essere sottopo-
sto ad una procedura di decisione, esattamente come in un sistema formale
si verifica che una sequenza di simboli ben formata è un teorema deduci-
bile dal sistema di assiomi studiato: una frase è dedotta generativamente

6 N. Chomsky, Le strutture della sintassi, tr. it. a cura di F. Antinucci, Laterza, Bari
1970.
7 Cfr. J.-C. Milner, Introduction à une science du langage, Seuil, Paris 1988, pp.
68-90.
278 Il transindividuale

dalla teoria che noi (soggetti parlanti) abbiamo costruito sulla lingua in uso
nella nostra comunità.
L’interesse di questo approccio al linguaggio come sapere inteso in
questo senso preciso risiede nel suggerire che il linguaggio si integra al
fenomeno cognitivo nel suo insieme, e in diverse maniere. Innanzitutto
perché appare come un elemento nel processo globale di costruzione del-
le conoscenze (di conseguenza il sistema percettivo può farne parte), in
altri termini come un modulo di tale processo. È consueto ormai che lo
si concepisca – ritornando con ciò a idee assai tradizionali sulla natura e
la funzione del linguaggio – come un mezzo per mettere in rapporto del-
le rappresentazioni fonetiche con delle rappresentazioni concettuali, cioè
come un modulo tra il modulo percettivo e quello detto ‘concettuale’8.
Tuttavia le relazioni tra i moduli non sono esclusivamente funzionali, ma
anche formali: le lingue appaiono in effetti formalmente omologhe ad altri
sistemi cognitivi che utilizziamo nella vita di tutti i giorni, poiché si trat-
ta di sistemi formali, generati per via sintattica. A questo titolo, le lingue
risultano essere teoricamente implementabili su delle macchine di Turing
(dato che queste sono in grado di eseguire qualunque calcolo): è possibile
allora considerare le lingue come dei software, e gli agenti cognitivi come
degli hardware biologici che, per un certo numero di ragioni dipenden-
ti dalla teoria dell’evoluzione, sono in grado di ricevere e di trattare dei
software che possono essere descritti in modo puramente simbolico, cioè
indipendentemente dall’hardware. Abbiamo dunque una teoria che, con-
temporaneamente, lascia una certa autonomia nell’approccio ai fenomeni
culturali, poiché non si è obbligati a ridurre le lingue al tipo di realtà fisica
– ad esempio il cervello – su cui sono implementate (il linguista non deve
diventare neurofisiologo), e resta compatibile con un progetto radicale di
naturalizzazione al termine del quale i fenomeni culturali non sono più
fenomeni misteriosi, ma dipendono dall’apparizione, nella storia della vita,
di un’entità biologica particolare in grado di implementare una macchina
di Turing, cioè un calcolatore sintattico9.

8 Per una presentazione didattica (e dogmatica) di queste posizioni, cfr. il libro di


J.-Y. Pollock, Langage et Cognition, Introduction au programme minimaliste de
la grammaire générative, PUF, Paris 1997 (in particolare cap. 9).
9 Questo tipo di integrazione della linguistica ad una concezione globale e natura-
lizzata del fenomeno umano è stata difesa ed esposta in particolare da S. Pinker,
L’istinto del linguaggio: come la mente crea il linguaggio, tr. it. a cura di G.
Origgi, Mondatori, Milano 1997, e Come funziona la mente, tr. it. a cura di M.
Parizzi, Mondadori, Milano 2000. Cfr. anche la sua critica da parte di J. Fodor, La
P. Maniglier - Ambienti di cultura: un’ipotesi sulla cognizione umana 279

Tale è quindi, in uno schizzo approssimativo, l’idealtipo di un modello


cognitivo di approccio alla linguistica che è stato forse dominante durante
una cinquantina d’anni nel campo dei rapporti tra il linguaggio e la mente.
Ora, si dà il caso che questo paradigma incontri da qualche anno un certo
numero di difficoltà interne le quali ci inducono a pensare che è forse venu-
to il tempo di ricostruire una filosofia della mente ad un tempo culturalista
e naturalista su basi differenti.

2. Parlare è percepire

Vorrei ora esporre le ragioni in base a cui mi sembra possibile sostenere


che parlare non è calcolare, ma piuttosto percepire. Occorre innanzitutto
osservare che questo modello del calcolatore sintattico si è appoggiato alla
linguistica pur proponendo di integrarla e sussumerla: se la linguistica ge-
nerativa non fosse esistita, il paradigma cognitivo non esisterebbe, poiché è
la prima ad aver fornito i principali argomenti empirici in grado di rendere
credibile l’applicazione della metafora del calcolatore a fenomeni culturali
massicciamente significativi. Il linguaggio si trova quindi in una posizione
critica da ogni punto di vista rispetto all’insieme del paradigma cognitivo.
Credo che le evoluzioni delle scienze empiriche del linguaggio ci mostrino
come quest’ultimo non realizzi veramente il modello di un calcolo sintatti-
co. Si tratta piuttosto di un sistema di percezione.
Nella versione del cognitivismo che ho abbozzato il processo di costru-
zione di una conoscenza presuppone il passaggio per differenti moduli.
Uno stimolo linguistico è innanzitutto trattato da un modulo per diventare
una rappresentazione fonetica, poi da un altro per diventare una rappre-
sentazione fonologica, poi morfologica, poi sintattica, poi semantica, poi
eventualmente pragmatica. Ciascuno di questi moduli è in via di principio
indipendente dagli altri, poiché costituisce un sistema formale. Ora, ci si è
resi conto da tempo che i moduli non sono affatto autonomi: per applicare
una regola di tipo sintattico, ad esempio, è necessario tener conto delle
proprietà semantiche delle frasi. Ciò significa che le diverse dimensioni del
linguaggio – fonologica, sintattica, semantica – non si succedono come su
una catena di montaggio, ma concorrono tutte insieme, e in modo parallelo,
alla determinazione globale di ciò che è detto. Non vi sarebbe dunque un
sistema modulare di trattamento dell’informazione entro il quale una rap-

mente non funziona così: la portata e i limiti della psicologia computazionale, tr.
it. a cura di M. Marraffa, Laterza, Bari 2004.
280 Il transindividuale

presentazione è rielaborata in serie, ma piuttosto un insieme di dimensioni


che permettono di identificare globalmente una performance linguistica,
di attribuirle un’identità, di identificarla, di definirla come una possibili-
tà singolare di discorso. Se le cose stanno così, il linguaggio non è fatto
di rappresentazioni e di calcoli su queste rappresentazioni, ma di identità
percettive globali al cui emergere concorrono più dimensioni eterogenee.
Possiamo prendere l’esempio della trasformazione passiva in francese.
La regola di formazione delle frasi al passivo in francese vuole che, avendo
di fronte una frase come

Le mois de septembre vit le triomphe de la barbarie

sia possibile trasformarla in

*Le triomphe de la barbarie a été vu par le mois de septembre.

È evidente che questa frase è scorretta, e lo è per ragioni semantiche10.


Questo è solo un esempio semplicissimo che mostra come l’applicazione
di una regola sintattica dipenda da un vincolo semantico. Ma si potrebbe
dire altrettanto a proposito di ciascun livello: l’applicazione di una regola
fonologica è analogamente dipendente da regole di tipo morfologico o sin-
tattico e, in fondo, vi sono ben pochi processi assolutamente ‘ciechi’ nella
lingua.
Come è stato risolto questo problema negli ultimi cinquant’anni? Ripen-
sando la separazione tra le regole e gli items lessicali. Si sono lessicalizzate
numerose regole sintattiche. Ad esempio il verbo ‘vedere’, in virtù della
sua semantica, impone un certo numero di vincoli alle trasformazioni che
è in grado di subire – il che spiega perché la trasformazione passiva da noi
tentata è impossibile. Ma spingendoci più in là in questa ipotesi, seguendo
l’esempio di Chomsky negli anni ’70 (in seguito al suo articolo sulle no-

10 Sarebbe possibile obiettare che questa scorrettezza dipende dal fatto che, in realtà,
il ‘mese di settembre’ è solo un soggetto apparente, e non reale, e che, nella ‘strut-
tura profonda’, non occuperebbe la posizione del soggetto; ma le evoluzioni della
grammatica generativa hanno condotto a rinunciare proprio a questa distinzione
tra struttura profonda e struttura di superficie. Si veda, per un argomento simile
a proposito di un problema differente, l’articolo di Chomsky sulle nominalizza-
zioni, che mostra come si possa trattare più facilmente questo genere di fenomeni
integrando dei vincoli alle trasformazioni al livello delle stesse voci lessicali,
anziché supporre una ‘trasformazione’ soggiacente (N. Chomsky, «Remarks on
Nominalization», in Id., Studies on semantics in generative grammar, Mouton,
The Hague 1972, pp. 11-61).
P. Maniglier - Ambienti di cultura: un’ipotesi sulla cognizione umana 281

minalizzazioni), arriviamo quasi impercettibilmente ad un’altra immagine


della lingua rispetto a quella da cui si era partiti: la lingua intesa non più
come sistema di regole, ma come aggregato di termini, determinati cia-
scuno in riferimento agli altri. Questo slittamento di paradigma è tanto più
significativo per il fatto che era proprio quella l’immagine che Chomsky
aveva voluto offrire dello strutturalismo – per confutarlo – nei primi testi
polemici in cui introdusse l’approccio generativo11.
C’è di più. Anche accettando una siffatta lessicalizzazione, risulta che
questi termini non possiedono un’identità univoca. Prendiamo, ad esem-
pio, il verbo mettre. Se tentiamo di inserire nel lessico del verbo mettre un
certo numero di vincoli posti alle trasformazioni, ci troviamo di fronte al
fatto che, mentre il verbo mettre implica normalmente un complemento
oggetto diretto ed uno indiretto, troviamo formule come «mettre la table»,
«mettre sa robe», e anche «se faire mettre», che sono accettabili ma non
molto omogenee quanto ai vincoli che pongono alle trasformazioni. Come
affrontano il problema i linguisti cognitivisti più ortodossi? Semplicemente
affermando che non si tratta dello stesso verbo12. Vi sarebbe dunque pura
omonimia, come se i verbi in «mettre la table» o in «mettre un livre sur la
table» avessero lo stesso tipo di rapporto che esiste tra mer e mère… Sem-
bra dunque che la teoria abbia rinunciato a render conto dei fenomeni per
far sì che i fenomeni rendano conto della teoria…
Dunque, tra i moduli che costituiscono la facoltà del linguaggio, trovia-
mo ogni sorta di sovrapposizione, cosa che fa sì che non si possano pensare
i processi all’opera nel linguaggio come una successione di trattamenti sin-
tattici su rappresentazioni mentali, ma piuttosto come un insieme di vin-
coli agenti all’unisono per dar luogo ad una buona rappresentazione. Ma
il modello del calcolatore sintattico risulta non-valido anche all’interno di
ciascun modulo. Tale è il caso della fonologia. Nella versione canonica pro-
posta da Chomsky e Halle nei loro Principi di fonologia generativa (libro di
cui si è potuto dire che esso segnava il vero atto di morte dello strutturalismo

11 Cfr. N. Chomsky, Current Issues in Linguistic Theory, Mouton, The Hague 1969,
p. 11 e sgg.
12 Così J.-Y. Pollock, Langage et Cognition, Introduction au programme minima-
liste de la grammaire générative, cit.: «Esistono in francese degli usi diadici leciti
di mettre, come in Elle va mettre sa robe rouge o Tu veux bien mettre la table?
È possibile sostenere che si tratti in questi casi di verbi distinti accidentalmente
omofoni del verbo mettre in Pierre mettra le livre sur la table, come suggerisce
fortemente il fatto che i corrispettivi inglesi di questi ultimi due esempi – rispet-
tivamente she’ll wear her red skirt e could you please set/lay the table? – utiliz-
zerebbero i verbi wear, set/lay, distinti dal verbo put usato nella traduzione Peter
will put the book on the table» (pp. 63-64).
282 Il transindividuale

come programma di ricerche vitale in linguistica13), la fonologia si ripro-


poneva di rispondere a domande quali: com’è possibile che la stessa base
fonetica /teləgræf/ sia accentuata in inglese in tre modi differenti? L’accento
cade in effetti sulla prima sillaba in telegraph, sulla terza in telegraphic, e
sulla seconda in telegraphy. Chomsky e Halle scrivevano fiduciosi:

La variazione fonetica di telegraph in certi contesti non è una proprietà idio-


sincratica di questo particolare elemento lessicale, ma dipende da una regola
generale che si applica ugualmente a numerosi altri elementi lessicali […] La
voce lessicale telegraph deve contenere informazioni sufficienti affinché le
regole fonologiche dell’inglese determinino la sua forma fonetica in ciascun
contesto14.

Così, si passerebbe da questa voce lessicale alla sua accentuazione se-


condo una serie di trasformazioni che obbediscono a delle regole applicate
in successione. Ora, sembra appunto che non sia più possibile ormai raffi-
gurarsi il movimento che va da una forma base ad una forma accentuata nei
termini di una successione tranquilla e armoniosa di regole; si tratta di un
vero e proprio calderone di regole, in cui queste si applicano e riapplicano
le une dopo le altre, o piuttosto devono, per applicarsi, fare riferimento ad
uno stato anteriore della derivazione15. È ciò che ha condotto la maggio-
ranza dei fonologi ad abbandonare rapidamente la nozione di regola, e a
tentare dalla fine degli anni ’70 l’uso di diversi modelli alternativi a quello,
canonico, che Chomsky e Halle offrivano nei loro Principi. Entro lo stesso
paradigma generativista, alla nozione di regola che si applica secondo un
certo ordine lineare, è stata progressivamente sostituita quella di vincoli
che si esercitano contemporaneamente – vincoli che, non essendo necessa-
riamente coerenti, sono gerarchizzati o forniti di un peso relativo variabile
in funzione delle lingue. La teoria detta dell’Ottimalità, formulata da Alan
Prince e Paul Smolensky nel 199316, è senza dubbio la forma più compiuta

13 Cfr. J.-C. Milner, Le Périple Structural, Figures et Paradigme, Seuil, Paris 2002,
p. 180.
14 N. Chomsky e M. Halle, Principes de phonologie générative, Seuil, Paris 1973,
pp. 39-40, tr. fr. di P. Encreve della 1 e 4 parte di The sound pattern of English,
Harper & Row, New York 1968.
15 Cfr. B Laks, «Approches cognitives de la phonologie», in V. Rey e N. Nguyen
(eds.), Nouvelles approches en phonétiques et en phonologie, Editions Hermès,
Paris 2005
16 Voir A. Prince e P. Smolensky, Optimality Theory. Constraints interactions in
generative grammar, Ms. Rutgers University, Technical Report, New Brunswick,
New Jersey 1993 (formato libro: Wiley-Blackwell, 2004; disponibile su Internet:
http://roa.rutgers.edu/files/537-0802/537-0802-PRINCE-0-0.PDF ).
P. Maniglier - Ambienti di cultura: un’ipotesi sulla cognizione umana 283

di questa profonda ricostruzione del quadro teorico della linguistica com-


putazionale, e tratta il linguaggio non già come un meccanismo sintattico
che opera su rappresentazioni mentali ma piuttosto come la produzione
di una rappresentazione che appare come la soluzione ottimale tra questi
vincoli contraddittori17.
Non rientra nei miei scopi il giustificare queste evoluzioni, né il giu-
dicare i differenti modelli concorrenti: ciò che voglio è piuttosto fornire
quanto potremmo chiamare una diagnosi concettuale sulla trasformazio-
ne dell’immagine del linguaggio che sembra delinearsi18. In luogo di una
concezione del linguaggio come calcolo mentale su rappresentazioni che
permettono di spostarsi pendolarmente tra stimoli sonori e rappresen-
tazioni concettuali, sembra che si sia giunti ad una concezione del lin-
guaggio come attività di percezione. Conoscere una lingua non significa
poter ridurre una performance verbale ad un insieme di possibili teoremi
di un sistema formale, ma significa esser in grado di percepire una forma
complessa, esser sensibili ad una variazione globale dell’ambiente [envi-
ronnement]. Dati degli stimoli, la questione non è di sapere se l’apparte-
nenza di tale performance ad una data lingua è vera o falsa, ma di sapere
se essi consistano in una forma oppure no. Parlare la stessa lingua vuol
dire: potersi accordare su tali percezioni, potere, insomma, condividerle.
Il linguaggio è una condivisione della sensibilità. Parlare non significa
generare una performance a partire da un sistema formale o verificare
l’appartenenza di una performance all’insieme dei possibili teoremi di
una teoria; significa tentare d’istruire in un dato contesto una variante
costruibile, una salienza percettiva, o, in qualità di recettore, poterla ri-
conoscere.
Vi è in ciò una trasformazione profonda dell’immagine stessa che è pos-
sibile farsi del linguaggio, nella misura in cui si constata che l’efficacia di
un atto di parola non dipende dalla sua capacità di trasmettere informa-
zioni su di un mondo che gli resterebbe esteriore, ma piuttosto di riuscire
a mettere in movimento quell’apparato categoriale e percettivo che è una
lingua alfine di istruirvi una variazione costruibile. Queste stesse parole
non stanno cercando di comunicarvi un’idea che resterebbe esterna, ma di
far consistere una possibilità del vostro universo discorsivo. Si potrebbe

17 Per una storia della fonologia che descrive questo spostamento cfr. in particolare
Bernard Laks, «Approches cognitives de la phonologie», cit. et Jean-Elie Boltan-
ski, Nouvelles directions en phonologie, PUF, Paris 1999.
18 Forse occorre intendere qui il termine immagine del linguaggio un poco nel senso
in cui Deleuze parlava di immagine del pensiero. Cfr. G. Deleuze, Différence et
Répétition, PUF, Paris 1968.
284 Il transindividuale

sospettare in ciò una sorta di idealismo linguistico, e ciò sarebbe giustifi-


cato se non si facesse attenzione al fatto che, da un lato, la lingua è essa
stessa una cosa di questo mondo, che è essa stessa ‘fuori’ (il che costi-
tuisce un ben strano idealismo), da un altro lato che essa è composta da
strati differenti d’esperienza, i quali includono ciò che spesso si rigetta
nella ‘semantica’. Poiché tendiamo a pensare la lingua come un mezzo di
espressione, siamo spontaneamente condotti a pensare che definire l’atto
di linguaggio come la costituzione di una possibilità della lingua significhi
rifiutare ogni rapporto con qualsiasi tipo di realtà. Ma se comprendiamo
che la determinazione stessa dei percetti di lingua contiene degli elementi
semantici, riconosceremo che non vi è motivo di evocare alcun idealismo.
Non si tratta di dire che il senso è determinato dalle lingue, ma che il senso
è costitutivo delle lingue.
Ma quali sono le poste in gioco di una siffatta ‘immagine del linguaggio’
rispetto ad una concezione generale della mente? A quale trasformazione
nell’approccio al problema della mente corrisponderebbe questa mutazione
nell’approccio al linguaggio? Sarebbe forse integrabile in una concezione
generale del pensiero come sembrava esserlo l’immagine del calcolatore
simbolico? Nel quadro della filosofia della mente di ispirazione analitica,
il problema della mente consiste insomma nel sapere se bisogna imputare
agli agenti che imperversano nel nostro ambiente [environnement] fisico
non solo delle determinazioni causali, ma anche dei motivi intenzionali. Ad
esempio, se una donna vuole sposarmi, sono i suoi ormoni che la spingono
a prendere questa decisione oppure agisce in funzione di idee che si fa sul
mondo ed in particolare su di me? Ora, mi sembra che l’osservazione ap-
pena fatta a proposito del linguaggio possa essere estesa a tutti i fenomeni
a riguardo dei quali noi poniamo questo genere di domande. Poiché, così
come abbiamo mostrato che non si dà, nel linguaggio, innanzitutto il com-
portamento osservabile, e poi la sua interpretazione, ma una sola ed unica
questione, quella della salienza percettiva delle forme linguistiche – e il
senso è parte integrante dell’identificazione stessa della forma –, allo stesso
modo non vi è dapprima la percezione «un’entità umana femminile si agita
nel mio ambiente fisico», e poi un tentativo di decodifica di ciò che essa
sta facendo il quale mi conduce alla conclusione: «Ah! Cerca di farmi una
dichiarazione di matrimonio!». Ciò che vi è, è una forma che si delinea, un
pattern, una salienza, in cui l’evento «donna-matrimonio-dichiarare-a-me»
emerge non da una decodifica seriale ma come l’oggetto di una percezione
complessa. Mi sembra che sia possibile generalizzare quanto appena detto
del linguaggio e sostenere che il vero problema della mente è quello di
individuare delle forme a partire dal brusio del mondo. L’atto del pensiero
P. Maniglier - Ambienti di cultura: un’ipotesi sulla cognizione umana 285

non è nient’altro che una continuazione dell’assunzione di forma [prise de


forme], un processo di morfogenesi.
Per rendere tutto ciò più immediato, riprendiamo un esempio tratto da
un classico della filosofia della mente di tradizione analitica. In un articolo
intitolato «Sull’esistenza dei patterns»19, Daniel C. Dennet ci metteva di
fronte a quell’evento complesso che è un match del Super Bowl, la grande
cerimonia del football americano. Egli formulava l’ipotesi della presenza
di marziani che assistono dall’alto del loro disco volante ad un siffatto
match, e, senza trarre le stesse conseguenze che io vorrei trarre, fa almeno
la stessa osservazione: il problema non è che i marziani non conoscano il
codice sociale che permetterebbe loro di identificare ciò che questa gente
fa attraverso un insieme di ragionamenti e di motivazioni più o meno con-
divisibili; il problema è che essi non arrivano nemmeno a percepire ciò che
accade, non hanno alcuna ragione di prestare attenzione al fatto che una
palla passa da un agente ad un altro, attraversa la tal linea, il tale angolo
ecc. Forse non vedono nemmeno quella palla… Per loro, non vi è sempli-
cemente alcun evento da interpretare, se non fanno anzitutto delle ipotesi
su ciò che accade – cioè che delle persone stanno giocando ad un gioco di
pallone, e più precisamente al football americano, e ancor più precisamente
partecipano al Super Bowl. Comprendere un uso culturale significa render-
si immediatamente sensibile a delle forme.
Si tratta qui di osservazioni familiari all’antropologia. Il primo problema
di un etnografo di campo non è di comprendere ciò che fa la gente quando
si dedica alle proprie attività quotidiane o straordinarie, ma di diventare
sensibile a piccoli gesti che inizialmente non percepisce. Quando percepi-
sco quei gesti nervosi che un interlocutore familiare compie dall’altro lato
della tavola, non ho bisogno di interpretarli successivamente: percepirli ed
interpretarli è un tutt’uno. È questa immediatezza che manca nei contesti
di distanza culturale. Per riprendere un altro esempio celebre, questa volta
di Quine, che tratta della traduzione radicale: un indigeno grida davanti a
me «Gavagai» indicando col dito un coniglio che fugge nella brughiera.
Quine cerca di mostrare che è impossibile decidere tra differenti costruzio-
ni possibili della logica di questa espressione20. Ma ciò significa già con-
cedere molto. Perché il vero problema dell’apprendimento di una lingua
straniera è appunto quello di percepire il grido «Gavagai», di percepirvi tre

19 D.C. Dennet, «Real Patterns», in The Journal of Philosophy, vol. LXXXVIII, pp.
27-51.
20 W. Quine, Parola e oggetto, tr. it. di F. Mondadori, Il Saggiatore, Milano 1970,
§12, p. 70 e sgg.
286 Il transindividuale

sillabe composte da suoni almeno approssimativamente simili a quelli che


ho appena scritto, e di riconoscerlo quando è pronunciato da un’anziana
signora, da un giovanotto, da un bambino, con un sussurro ecc.21 Questa
è d’altronde un’evidenza tratta dall’esperienza. Ad esempio, se non si è
appreso il cinese, non sono delle sequenze fonologiche che non si è in
grado di decodificare, ma dei flussi sonori che non si è nemmeno in grado
di segmentare22.
Sembra dunque di poter dire che, in generale, una cultura è l’apprendi-
mento di una forma di sensibilità. Entrare in una cultura significa diventare
sensibili agli stessi dettagli, alle stesse finezze, agli stessi parametri defini-
tori di un mondo, di numerosi nostri simili. Ma allora ci si trova di fronte
ad un problema: se è vero che il linguaggio e, più in generale, ogni attività
cognitiva, consiste in un’attività di riconoscimento di forme, comprendere
il funzionamento del linguaggio significherà restituire gli indici o i para-
metri su cui gli agenti si basano per identificare le forme. Ora, prestando
attenzione alle ricerche empiriche sulle modalità della percezione del lin-
guaggio vediamo che siamo ben lungi dal sapere definire siffatti parametri,
e che un tale compito è verosimilmente impossibile – cosicché il ricono-
scimento delle forme linguistiche sembra essere il luogo di uno strano e
perpetuo miracolo…

21 «A proposito, qui non terrò conto dell’analisi fonematica (§ 18), anche se compare
molto presto nell’impresa del nostro linguista sul campo; essa infatti non concerne
la tesi filosofica che voglio sostenere» (ivi, p. 41). Tuttavia, egli conserva un’ipo-
tesi sulla natura delle norme fonetiche (Parola e oggetto, cit., §18) di cui mostrerò
in seguito perché essa mi appaia insostenibile, e perché io sospetti che tutto ciò
importi in qualche modo alla posizione quiniana… Cfr. per una discussione su
questo tema e sugli sviluppi cui ha dato luogo nella filosofia analitica classica
l’eccellente lavoro di L. Wetzel, «Types and tokens», Stanford Encyclopedia of
Philosophy, http://plato.stanford.edu/entries/types-tokens/, 2006.
22 «Considerata in se stessa, [la catena fonica] non è che una linea, un nastro con-
tinuo in cui l’orecchio non percepisce alcuna divisione sufficiente e precisa; per
questo bisogna fare ricorso alle significazioni. Quando noi ascoltiamo una lingua
sconosciuta, non siamo in grado di dire come la sequenza di suoni deve essere
analizzata; il fatto è che questa analisi è impossibile se si tiene conto soltanto
dell’aspetto fonico del fenomeno linguistico» (F. de Saussure, Cours de lingui-
stique générale, Payot, Paris 1972, p. 145, tr. it. a cura di T. de Mauro, Laterza,
Roma-Bari 1967, 1994, p. 126).
P. Maniglier - Ambienti di cultura: un’ipotesi sulla cognizione umana 287

3. Linguaggi impercettibili?

La filosofia ha sempre presupposto che quanto vi era di autenticamente


enigmatico nel linguaggio dipendesse, non già dal suo aspetto materiale o
percettivo, ma dal fatto di rinviare ad altro, e si è perciò occupata in modo
particolare della natura di questo ‘altro’: si tratta di un puro intelligibile,
come da tradizione platonica, della cosa materiale cui ci si riferisce, o del
comportamento? Oppure bisogna dire, con Wittgenstein o Quine ad esem-
pio, che questo ‘altro’ non esiste affatto e non è che l’ombra di un altro
problema? Questi dibattiti costituiscono il nucleo essenziale della filoso-
fia del linguaggio. Tuttavia, la filosofia sembra esser stata nella sua larga
maggioranza inconsapevole delle peculiari difficoltà presentate dalla stessa
percezione del linguaggio.
Ecco tuttavia un piccolo fatto, interamente negativo, ma nondimeno
istruttivo, e forse il più istruttivo di tutte le scienze della cultura: non sap-
piamo su quali indizi o criteri propriamente fonetici (cioè fisici) del segnale
si basino i soggetti parlanti per percepire quanto vi è di identico in una per-
formance verbale tanto semplice quanto quella tramite cui diciamo «buon-
giorno» tutte le mattine, e per segmentare questa performance separandola
dal suo contesto linguistico, ad esempio «buongiorno» da «come va?».
Possiamo distinguere tre problemi fondamentali posti dallo stimolo lin-
guistico in senso generale.
Il primo concerne ciò che potremmo chiamare l’eterogeneità del lin-
guaggio. Intendo con ciò il fatto che lo stimolo linguistico conosce diffe-
renti piani fisici di realizzazione. È un fenomeno fisico poiché può essere
trattato come una vibrazione. È un fenomeno acustico nel senso per cui è
trattato dall’orecchio umano e dipende dunque da una fisiologia del suono.
Ma è un fenomeno articolatorio che può essere oggetto di una biologia
dell’apparato vocale. Lo stimolo fonetico è quindi esso stesso realizzato
in differenti sostanze fisiche23. Primo problema quindi: qual è il piano che
considereremo come osservabile del linguaggio?
Il secondo problema è senza dubbio più radicale. Poiché, supponendo
che si decida in favore di una di queste sostanze, si scoprirà una variabilità
apparentemente caotica delle categorizzazioni. Precisiamo il senso di que-
sta osservazione. A tal fine, occorre innanzitutto dotarsi di uno strumento

23 Il termine sostanza è stato inizialmente utilizzato da Ferdinand de Saussure come


opposto di forma, non nel senso di forma sintagmatica, ma di struttura posizionale
(F. de Saussure, Cours de Linguistique Générale, cit., p. 169, tr. it. cit., pp. 147-
148), ed è stato generalizzato da L. Hjelmslev in I fondamenti della teoria del
linguaggio (tr. it. di G.C. Lepschy, Einaudi, Torino 1970).
288 Il transindividuale

in grado di registrare e misurare i segnali fisici di cui consistono le realiz-


zazioni fonetiche, e quindi di costituirli in fenomeni osservabili. Possono
essere delle curve di frequenza, delle radiografie della laringe ecc. Ora, si
dà il caso che, quale che sia lo strumento utilizzato, i segnali fisici sono
apparsi esser variabili a tal punto che è impossibile trovare dei criteri per
mettere in relazione bi-univoca la somiglianza tra gli stimoli (misurata se-
condo la metrica imposta al segnale), e le categorizzazioni fonologiche che
ne vengono fatte. Prendiamo l’esempio dell’osservazione del linguaggio
da un punto di vista fisico, cioè in termini di curve di frequenza. Constatia-
mo ad esempio che il fonema /d/ non sarà realizzato da curve di frequenza
simili quando appare in differenti contesti fonetici. Non solo tali realizza-
zioni non hanno esattamente lo stesso profilo acustico, ma è impossibile
trovare una media di queste differenti realizzazioni, poiché le curve sono
qualitativamente differenti. Così, l’«l» francese è, senza che i locutori fran-
cesi se ne rendano conto, ‘liquida’ quando compare ad esempio dopo «i»
(in «il» o «île»), ‘non-liquida’ come consonante iniziale («lamentable»). Si
tratta di due suoni assai differenti, e che apparirebbero tali ad un ascoltatore
russo, ad esempio, ma di cui i parlanti-in-francese non si accorgono nep-
pure. Questa non è un’illustrazione di un fenomeno generale ben noto, che
fu all’origine della costituzione della fonologia come disciplina teorica di-
stinta dalla fonetica24. Questa variabilità dei segnali fonetici dipende anche
da fattori più evidenti, come la variabilità dei dialetti, dei locutori (maschili

24 Cfr. le osservazioni di Trubeckoj sul k tedesco: «Il k del tedesco si pronunica


davanti a consonante in modo diverso che dinanzi a vocale, dinanzi a vocale to-
nica in modo diverso che dinanzi a vocale atonica, persino il suo timbro e la sua
articolazione variano secondo la qualità della vocale immediatamente precedente
o immediatamente seguente. Per ciascuna di queste varianti si possono calcola-
re valori fonometrici medi e la corretta pronuncia tedesca di ciascuna di queste
varianti si ‘aggira’ intorno a quel termine medio secondo la curva degli errori di
Gauss. Ma per il ‘k in generale’ una media simile non si può calcolare. […] la
‘norma’ alla quale si riferiscono i parlanti è ‘k in generale’, e questo non lo si può
trovare con misure o calcoli. […] la lingua è al di fuori di ‘misura e numero’»
(N.S. Trubeckoj, Fondamenti di fonologia, tr. it. a cura di G. Mazzuoli Porru,
Einaudi, Torino 1971, pp. 12-13). Osservazione analoga in Saussure: «Quando,
in una conferenza, si sente ripetere a più riprese la parola Messieurs!, si ha la
sensazione che si tratti ogni volta della stessa espressione, e tuttavia, le variazioni
di cadenza e l’intonazione la presentano, nei diversi passaggi, con differenze fo-
niche assai apprezzabili, tanto apprezzabili quanto quelle che servono in altri casi
a distinguere parole differenti (cfr. pomme e paume, goutte e je goûte, fuir e fouir,
ecc.)» (F. de Saussure, Cours de linguistique générale, cit., p. 151, tr. it. cit., p.
131).
P. Maniglier - Ambienti di cultura: un’ipotesi sulla cognizione umana 289

o femminili, adulti o bambini, ecc.) o della velocità25. Tutti questi fattori


ci obbligano a concludere che la probabilità della categorizzazione non è
una funzione lineare della somiglianza. Tale è peraltro la ragione per cui il
concetto di prototipo26, che si è talvolta cercato di utilizzare per non dover
affrontare queste astrazioni troppo rigorose implicate dalla definizione dei
fonemi come insiemi di tratti distintivi perfettamente ricorrenti, mi sembra
finire in un impasse27.
Ciò ci permette di riformulare il problema dell’acquisizione del linguag-
gio nei termini seguenti: apprendere una lingua significa rendersi capace
di costruire consensi sulle categorizzazioni appoggiandosi ad indizi fisici
che non si assomigliano. Significa quindi sostituire alla somiglianza dei
criteri di classificazione di cui mal si comprende, a questo punto dell’a-
nalisi, come possano essere ritrovati nei segnali. In altri termini, sembra
assai difficile essere empiristi nel linguaggio: non sono i fenomeni fisici del
linguaggio che, a forza di ripetersi, farebbero emergere progressivamente
la loro generalità, come in un profilo à la Galton.
Ma il terzo problema è ancora più radicale: si tratta del problema del
carattere continuo dei segnali. I segnali del linguaggio non sono come le
lettere dell’articolo che state leggendo, accuratamente separate le une dal-
le altre (oltre ad essere normalizzate secondo standard di stampa): sono
continui (oltreché variabili). Certo, questa continuità non impedisce che la
curva di frequenza presenti dei punti di inflessione, ma si dà il caso che tali
singolarità non corrispondano alle discontinuità percepite. Quale che sia il
modo di registrazione del fenomeno osservabile che ci si è dati, quale che

25 Ad esempio Fudge osserva che la parola «extraordinary» in Inglese può avere 6,


5, 3 o anche soltanto 2 sillabe in funzione dello stile della pronuncia. «It ranges for
most British English speakers from the hyper-careful [‘ekstr’ɔ:dɪnrɪ] through the
fairly careful [ɪk’strɔ:dnrɪ] to the very colloquial [‘strɔ:nrɪ]» (apud L. Wetzel,
«Types and tokens», cit.).
26 Il concetto di prototipo è stato elaborato da Eleanor Rosch (cfr. in particolare
«Cognitive Representations of Semantic Categories», in Journal of Experimental
Psychology: General, 104, 1975, n. 3, pp.192-233), e utilizzato successivamente
da George Lakoff (Women, fire and and dangerous things: what categories reveal
about the mind, Chicago University Press, Chicago 1990) e Ronald Langacker
(Foundations of cognitive grammar, Vol. I, Theoretical Prerequisites, Stanford
University Press, Stanford 1987).
27 Devo tuttavia menzionare il fatto che tutta una corrente della fonologia conti-
nua a cercar di definire un approccio che permetta di fare interamente a meno
di ogni ricorso a degli incorporei per render conto di tali categorizzazioni, e di
limitarsi alle realizzazioni fonetiche. Cfr. su questo tema la tesi di R.-J. Lavie,
Le locuteur analogique ou la grammaire mise à sa place, http://www.modyco.
fr/?labmemberinfo=lavie&u_s=2&u_a=22&, 2003.
290 Il transindividuale

sia la sostanza che ci si propone di esaminare, non si vede di primo acchito


su quali indizi i soggetti parlanti si basino per individuare, ad esempio, nel-
la performance verbale «bonjour», due sillabe, o per separarla globalmente
da ciò che la precede o la segue nella stessa frase. Vi sarebbero ancora
ben altre maniere di illustrare questo problema. La più importante è forse
legata a quanto chiamiamo la percezione categoriale. L’esperimento pro-
cede nel modo seguente: ci si dà uno stimolo parametrato in modo che lo
si possa far variare in modo continuo; si chiede ad un soggetto parlante di
identificare il suono. Si constata allora che vi è una discontinuità brusca tra
le categorizzazioni effettuate dai soggetti parlanti, che vanno da /b/ a /p/.
Laddove la natura fisica del segnale varia invece continuamente, i soggetti
non percepiscono tale variazione: il loro campo di percezione è discre-
tizzato. Così, ad una variazione continua nel segnale corrispondono delle
variazioni discontinue nella categorizzazione28.
Nel linguaggio, non vi sono dunque dei fenomeni individuati che poi si
cercherebbe di comparare per estrarne delle categorizzazioni generali. Ciò
che si intende dipende d’emblée da categorizzazioni, cioè da comparazioni
preliminari. Si vede perciò dove sta il problema. Si è innanzitutto concluso
che il linguaggio si basa interamente su identificazioni, ma vediamo ora-
mai che non solo tali identificazioni non si basano sulla somiglianza tra
termine, ma anche che non vi sono termini preesistenti alla comparazione.
L’identità sembra essere una condizione dell’individuazione. O se si prefe-
risce: è perché io riconosco in questa esclamazione gioiosa un «bonjour»
che posso separarlo dagli altri termini e articolarlo in sillabe, e non perché
percepisco una serie di sillabe che posso decodificarla come un «bonjour».
Ma ci si chiederà: com’è possibile categorizzare qualcosa che non si per-
cepisce preliminarmente? Siamo in una situazione che ricorda la disputa
sugli universali: occorre già possedere dei criteri di identificazione tra due
occorrenze per poterle individuare precisamente come occorrenze.
Possiamo, a partire da queste osservazioni, ridefinire il vero problema
dell’apprendimento del linguaggio cui ogni forma di linguistica dovrà im-
perativamente rispondere: si tratta di modellizzare il processo di estrazione
a partire da uno o piuttosto da più continua fisici, di discontinuità o piutto-

28 A. M. Liberman, K. S. Harris, H. S. Hoffman & B. C. Griffith, «The discrimi-


nation of speech sounds within and across phoneme boundaries», in Journal of
Experimental Psychology, 54, 1957, pp. 358–368. Jean Petitot ha ampiamente
trattato di questo fenomeno in due libri importanti: Les Catastrophes de la Parole,
de Roman Jakobson à René Thom, Maloine, Paris 1985, e Morphogenèse du Sens,
PUF, Paris 1985, tr. it. a cura di G. Bonerba e M. P. Pozzati, Bompiani, Milano
1990.
P. Maniglier - Ambienti di cultura: un’ipotesi sulla cognizione umana 291

sto di nuovi tipi di continuità che sono ripartite secondo metriche differenti
da quelle dei segnali fisici.
Arriviamo dunque ad una specie di paradosso. Da un lato, siamo stati
condotti a ridefinire la conoscenza come l’acquisizione di identità prati-
che o culturali; ma, d’altro lato, ci troviamo come costretti a riconoscere
a tali identità un sostrato sovrafisico o incorporeo – come se i parametri
del riconoscimento delle forme non apparissero per nulla legati ai dati os-
servabili del segnale. È appunto la coscienza di questo genere di difficol-
tà che ha permesso a Chomsky di giustificare l’idea di categorie innate e
un’approccio neo-razionalista alla cognizione in generale e al linguaggio
in particolare. Perciò, se vogliamo sostenere che il linguaggio è bensì com-
posto d’identità, occorrerà risolvere il problema del loro rapporto con i dati
dell’ambiente [environnement]. Si tratterà qui di definire il quadro filoso-
fico di ciò che potrebbe essere effettivamente una teoria naturalista della
cultura che non trascuri le difficoltà reali cui ci confrontano i fenomeni cul-
turali, permettendoci, se non di rispondere, almeno di fornire il modello di
una risposta alla domanda: come giunge il soggetto parlante e conoscente a
strutturare i continua del suo ambiente [environnement]?

4. Fisica della cultura e filosofia della mente

Il paradigma cognitivo, abbiamo detto, si caratterizza per una certa de-


finizione del pensiero come conoscenza e della conoscenza come calcolo
simbolico. Ma si tratta invero di una caratterizzazione restrittiva incapace
di render conto della vera trasformazione nel modo di lavorare teoricamen-
te che si può ricondurre alla comparsa delle scienze cognitive. Mi sembra
che un modo più corretto di caratterizzare la problematica cognitiva con-
sisterebbe nell’evidenziare la relazione particolare stabilitasi tra filosofia,
scienze umane e intelligenza artificiale (coinvolgendo più recentemen-
te anche la scienza del cervello e la biologia dell’evoluzione), cioè tra i
tentativi di fornire dei modelli teorici di certi aspetti del comportamento
umano, gli sforzi per simulare tali aspetti, ed il progetto di enuclearne le
poste in gioco concettuali. In questo senso, il tentativo che propongo si
inscrive nella problematica cognitiva. Esso si appoggia su di un insieme di
ricerche restate a lungo un po’ minoritarie, eterodosse, e che sarei tentato
di chiamare alter-cognitive. Vorrei in particolare far riferimento non già al
modello della macchina di Turing, ma ad un’altra famiglia di modelli, detti
‘connessionisti’ o a ‘reti neurali’. Certo, i modelli connessionisti non sono
i soli a trattare il problema dell’apprendimento del linguaggio nel senso da
292 Il transindividuale

noi ridefinito, e certuni diranno sicuramente che questa è una prospettiva


già superata nel campo stesso delle scienze cognitive29. Tuttavia, non si
tratterà qui di argomentare in favore di tali modelli; si tratta piuttosto di
prenderli come terreno di sperimentazione filosofica per meglio analizzare
il problema della determinazione di quel genere peculiare di identità che
ci mostrano le entità linguistiche, e forse tutti i valori culturali in generale.
Senza dubbio le reti neurali non forniscono la risposta definitiva alle que-
stioni poste. Ma almeno forniscono le coordinate del problema con parti-
colare chiarezza.
Cosa sono dunque i modelli connessionisti30? Sono delle macchine per
fare calcoli che sostituiscono alla macchina di Turing – cioè a un modello
lineare del calcolo che fa passare la macchina da uno stato ad un altro
in funzione di regole rigide – un modello parallelo in cui più operazioni
sono eseguite allo stesso tempo per produrre un risultato globale. Pe-
raltro, i modelli connessionisti non separano le regole e i termini su cui
sono applicati: non vi è codificazione (o memoria esplicita) delle regole,
né dei termini. Come funzionano allora? Supponiamo che una macchina
di Turing si trovi nella mia situazione: essa deve scrivere un articolo su
se stessa. Essa utilizzerà un certo numero di rappresentazioni simboli-
che contenute nella sua memoria e calcolerà a partire da queste, facendo
subir loro un certo numero di trasformazioni regolate, la soluzione che

29 Ciò non significa che vi sia stata una sorta di sconfitta dei modelli connessionisti
di fronte ai modelli computazionali più classici, ma piuttosto che il campo di
ricerca da essi aperto ha permesso a modelli diversi di riprendere il loro pro-
gramma. Possiamo menzionare ad esempio gli approcci morfodinamici (cfr. J.
Petitot, Morphogenèse du Sens, cit.) o quelli della vita artificiale (cfr. R. Brooks,
L. Steels (eds.), The artificial life route to artificial intelligence: building embo-
died, situated agents, Lawrence Erlbaum Associates, New Haven 1995).
30 Tra le numerose introduzioni al connessionismo, bisogna citare il testo classico e
sempre utile che ha riaperto l’approccio connessionista: D. Rumelhart, J.L. Mc-
Clelland, Parallel distributed processing: explorations in the microstructure of
cognition, MIT Press, Cambridge 1986, tr. it. di R. Luccio, il Mulino, Bologna
1991. Un’eccellente introduzione, cui devo molto, e che difende un approccio
connessionista nelle scienze del linguaggio è quella di B. Laks, «Langage et Co-
gnition, L’approche connexionniste», cit. Possiamo menzionare anche, per una
contestualizzazione storica, J.-P. Dupuy, Aux origines des sciences cognitives, La
Découverte, Paris 1994, e per una problematizzazione in un quadro più genera-
le, F. Varela, La via di mezzo della conoscenza: le scienze cognitive alla prova
dell’esperienza, tr. it. di I. Blum, Feltrinelli, Milano 1992. Infine, per un approccio
filosofico sotto alcuni aspetti (ma alcuni solamente) abbastanza prossimo a quello
sostenuto qui, cfr. P.M. Churchland, A neurocomputational perspective: the natu-
re of mind and the structure of science, MIT Press, Cambridge Mass. 1989.
P. Maniglier - Ambienti di cultura: un’ipotesi sulla cognizione umana 293

permette di generare l’articolo. Un modello connessionista parte invece


direttamente dallo stimolo: i segnali fisici continui e variabili che costi-
tuiscono (per noi) il colpo di telefono o il messaggio di posta elettronica,
tramite cui un articolo mi è commissionato. Questo stimolo è distribuito
sui neuroni dello ‘strato di entrata’, poi passa di strato neurale in strato
neurale, per essere infine restituito all’‘uscita’ sottoforma di comporta-
mento: la scrittura dell’articolo che state leggendo. Vediamo che i model-
li connessionisti sono dei modelli neo-comportamentisti nel senso per cui
vi è un rapporto diretto tra stimolo e comportamento senza passare per la
costruzione di una rappresentazione mentale interna su cui si opererebbe
successivamente un certo numero di operazioni. Tutto sta nella natura
delle connessioni neurali attraversate dal segnale. La rete sarà capace di
adattarsi per rispondere in modo pertinente ad un segnale nella misura in
cui sarà capace di riconfigurare il suo cablaggio neuronale in seguito ad
un apprendimento per correzione.
Un esempio più tecnico permetterà di precisare le cose. Potremmo quasi
considerarlo come una parabola dell’interesse e del modo di funzionamen-
to delle reti connessioniste. In marina, esiste un personaggio cruciale, in-
caricato di stare all’ascolto degli echi del Sonar e di cercar di distinguervi
i differenti tipi di oggetto che si trovano nelle vicinanze [environnement]
per individuare in particolare i sottomarini, le mine ed altre entità ostili.
Questo membro chiave dell’equipaggio, che risponde al nome fantasioso
di ‘orecchie d’oro’, possiede il raro talento di poter dire, a partire dalle
sequenze sonore acute e apparentemente caotiche (o al contrario per noi
eccessivamente ripetitive) che gli arrivano nel casco: «attenzione, mina
anti-sottomarino!». Ben pochi sono capaci di questa bizzarra prestazione.
Tuttavia, il suo talento ha dei limiti: i nostri ‘orecchie d’oro’ sono del tutto
incapaci di spiegare come essi stessi procedano per distinguere, ad esem-
pio, una mina da uno scoglio, quali parametri utilizzino, in base a quali
indizi essi scoprano il nemico, quali regole mettano all’opera. Lo sanno, ed
è tutto. In termini psicologici non hanno alcun expertise sulla loro propria
competenza cognitiva. Vi è dunque qualcosa come un savoir-faire o una
pratica, che non può essere acquisita se non per abitudine e per ripetizione,
e che non passa per alcun sapere dichiarativo. Perciò, la questione della
modelizzazione si presenta come una sfida: è possibile modellizzare un
sapere che ignora se stesso?
Tuttavia, ciò non è impossibile, se si è riusciti a costruire delle ‘orecchie
d’oro’ meccaniche, dotate di un’efficacia superiore a quella degli esseri
umani. Si tratta appunto di reti connessioniste costruite da Gorman e Sje-
294 Il transindividuale

nowski31. Queste reti sono capaci di discriminare tra gli echi sonar di due
oggetti simili, uno scoglio e un oggetto metallico, ad esempio una mina.
Come funziona la rete? Il segnale è costituito da una curva di frequenza che
corrisponde ad una registrazione dell’eco sonar. Quest’ultimo è codificato
in un primo strato di neuroni nel modo seguente: la rete decompone la
curva di frequenza in altrettante sequenze discontinue quante sono le unità
neuronali di cui dispone; ciascuna sequenza corrisponde ad una sezione di
tempo, e ciascuna di queste sezioni di tempo è dotata di un valore di attiva-
zione relativo all’altezza della curva di frequenza durante questo periodo
(altezza media beninteso). In altri termini, invece di attribuire un valore
globale alla curva, cercando ad esempio una funzione algebrica tale per cui
per ogni x (l’ascissa che rappresenta il tempo) è possibile calcolare y (dove
l’ordinata è la frequenza), la rete sezione la curva: ciò che la interessa non
sarà l’espressione algebrica esatta della curva, ma piuttosto un certo nume-
ro di parametri relativamente estranei alla sua espressione algebrica.
Poi, la rete trasmette i valori di attivazione allo strato nascosto che è
quello dell’ambiente [milieu], ove ciascuna cellula dello strato d’entrata
è legata a tutte le cellule dello strato nascosto, e comunica loro il proprio
valore d’attivazione ponderato dalla ‘forza’ del loro legame ‘sinaptico’.
Questo strato intermedio lo trasmette allo strato superiore. Vediamo che
restano solo due cellule su quest’ultimo: se si ha un’attività molto forte
della cellula ‘mina’ e molto debole della cellula ‘roccia’, ad esempio 0.97
e 0.03, ciò vuol dire che l’oggetto percepito è una mina.
La rete apprende grazie ad una regola di correzione degli errori, chia-
mata delta-regola, o regola di retro-propagazione, tramite la quale la rete
modifica le sue connessioni. Essa si sbaglia inizialmente in modo aleatorio.
Ma, se ciascuna cellula è capace di trasmettere un valore d’attivazione alla
cellula dello strato nascosto, sarà anche capace di modificare questo valore
in funzione del livello di attivazione della cellula vicina, e solo di quella
vicina (il meccanismo funziona per vicinanza immediata). Essa pondererà
quindi i nodi tra questi valori di attivazione in funzione di una regola che
calcola una differenza corrispondente allo scarto tra il risultato atteso e
quello prodotto, e che retropropaga questa differenza modificando i nodi,
cioè le capacità di trasmissione laterale da una cellula all’altra. È appunto
perché la differenza tra il risultato previsto (100, 0), e il risultato ottenuto
ad esempio (48, 52) è numericamente misurabile che la rete può riorganiz-

31 R. Paul Gorman & Terrence J. Sejnowski, «Analysis of Hidden Units in a Layered


Network Trained to Classify Sonar Targets», in Neural Networks, Vol. 1, 1988, pp.
75-89.
P. Maniglier - Ambienti di cultura: un’ipotesi sulla cognizione umana 295

zare in modo fine l’architettura che la fa passare dal pattern d’entrata al


pattern d’uscita.
Si vede allora che la rete di neuroni apprende in tempi brevi a distribuire
in due categorie distinte, ‘mina’ o ‘scoglio’, gli echi sonar, cioè i segnali
dati sottoforma di curve di frequenza, mentre queste ultime non hanno nul-
la in comune. Invece di procedere come i matematici di tipo cartesiano che
cercherebbero una formula comune a tutte le equazioni delle curve globali
che si vogliono identificare come delle ‘mine’, la rete decompone la curva
in altrettanti piccoli valori di attivazione, e misura localmente il rapporto
tra questi valori alfine di trovare un pattern conveniente a queste relazioni.
Si sbaglia, ma grazie alla correzione si approssima progressivamente ai
valori di uscita che deve finir per ottenere. È possibile rappresentare i dif-
ferenti valori di attivazione di ciascuna cellula come altrettante dimensioni
su di un sistema di riferimento dotato di tanti assi quanti sono i valori. È
quindi facile rappresentare la sequenza delle correzioni della rete come
un percorso in un ipercubo. È chiaro che vi sono più cammini possibili
in questo spazio e che ciò che importa non è tanto il percorso particolare
realizzato dall’agente, quanto piuttosto il fatto che esso tende a stabilizzarsi
verso la soluzione ottimale. Differenti cammini sono possibili. L’importan-
te è il punto d’arrivo.
Che cosa ha fatto dunque la rete? È riuscita a riunire in un’unica classe
un insieme di funzioni (curve di frequenza) che non si assomigliano e a
reagire in modo simile a stimoli apparentemente molto dissimili. La rete
ha dunque ridistribuito la carta o la metrica dei fenomeni (intendo qui con
metrica una procedura che permette di misurare le prossimità e le distanze
tra oggetti). È questo l’aspetto che appare più notevole. Imponendo ad un
insieme di stimoli dei criteri che sono loro estranei (imposti dall’esterno
dai risultati attesi), questa macchina si è dimostrata capace di distribuirli
in due categorie differenti. Ha decostruito e ricostruito il campo delle pos-
sibilità, trovato delle identità là dove in apparenza non ve ne erano. È una
certa forma di ponderazione delle trasmissioni di valori d’attivazione tra
le unità che riuscirà a catturare dei patterns di attivazione che a priori non
si assomigliano, a ricondurli a dei valori d’attivazione comuni o vicever-
sa a separare radicalmente delle curve di frequenza che hanno tuttavia un
aspetto assai simile. La rete è sensibile a tutto un insieme di variazioni fini
ripartite sull’insieme del segnale. Lo scarto tra le identità simboliche e i
dati empirici è quindi distribuito tra valori d’attivazione e valori dei ‘pesi’
sinaptici. Questa ponderazione tra le trasmissioni di valori d’attivazione
non deve assomigliare ad una classe di funzioni: voglio dire che non è
necessariamente possibile trovare un’espressione matematica adeguata di
296 Il transindividuale

quanto vi è di comune tra tutte le curve di mina da un lato e tutte le curve


di scoglio dall’altro. È in quanto non tratta la curva globalmente, ma lo-
calmente, regolando il passaggio da un insieme di piccole variazioni locali
(da un’unità di tempo sulla curva di frequenza ad un’altra) ad una grossa
variazione globale (si/no, mina/scoglio), che la rete giunge a categorizzare
l’impercettibile.
Diremo che la macchina ha percepito i tratti che distinguono realmente
gli echi sonar di una mina da quelli di uno scoglio? Insomma, questi tratti
erano già là prima che la rete li isolasse o li estraesse? Se vogliamo. Ma
la realtà è che non esiste assolutamente alcun’altra descrizione possibi-
le di questi tratti o di questi indizi propriamente fisici che permettano di
distinguere un segnale da un altro, se non le configurazioni globali della
rete. Sarebbe assai approssimativo dire che tutti gli echi Sonar delle mine
sono più acuti di quelli degli scogli o che le curve presentano tale o tal altra
caratteristica differenziale. Poiché la differenza non è tra due segnali presi
globalmente, ma in funzione di variazioni fini ripartite sull’insieme di cia-
scuno, e di conseguenza è normale che non sia descritta qualitativamente.
Churchland sembra comprenderlo quando scrive:

La rete è costretta a riconoscere qualche carattere o dominio di caratteri


dall’infinità dei caratteri possibili cui essa può rispondere, e non è un problema
insuperabile che i caratteri in questione siano complessi, sottili, sensibili al
contesto e trascendenti gli stimoli. Con un apprendimento opportuno, la rete
genera ciononostante una loro rappresentazione. Questo non significa che i ca-
ratteri trattati siano magici, o sovrafisici, o al di là dell’ambito della scienza
naturale. Significa soltanto che la loro più semplice definizione o rappresen-
tazione potrebbe benissimo essere l’intera configurazione della rete una volta
addestrata con successo32.

Ma Churchland non trae la conclusione che mi sembra tuttavia impor-


si: questi indizi non sono stati veramente selezionati, ma imposti al dato
dalla rete, che ha come ridistribuito la realtà secondo una griglia di cui
la realtà non aveva alcun uso proprio: lo scoglio è indifferente al fatto di
sapere se risuona come una mina o meno, e questa differenza, vitale per
il sottomarino, è indifferente per la natura e non esprime in nulla l’essere
di queste cose. Di fatto, è stato possibile mostrare che una rete di neuroni
che dispongano di sufficienti strati può categorizzare qualunque differen-
za. Cosa prova questo fatto se non che la differenza ‘colta’ dalla rete è
letteralmente arbitraria nel senso dell’arbitraire du signe, cioè che non vi

32 P. M. Churchland, A Neurocomputational Perspective, cit., p. 133.


P. Maniglier - Ambienti di cultura: un’ipotesi sulla cognizione umana 297

è alcuna ragione di separare (o di accostare) tale o talaltro segnale, se non


la funzione o il significato che vi si associa (eco sonar di mina/eco sonar
di scoglio)? La categorizzazione non è veramente codificata nel segnale
d’entrata, poiché la descrizione del suo fondamento non è indipendente dal
suo trattamento da parte della rete che la ‘riconosce’.
Ritroviamo qui un problema segnalato nell’ambito della teoria degli am-
bienti [milieux], quale è stata proposta da von Uexküll nel suo celebre libro
Ambienti animali e ambienti umani. È noto che von Uexküll caratterizzava
un ambiente attraverso un insieme di parametri fisici: la zecca è sensibile
a tre soli parametri, l’intensità luminosa che capta attraverso la pelle e che
la induce a salire sempre più in alto su rami d’albero o grandi erbe; l’acido
butirrico degli animali a sangue caldo che la induce a lasciarsi cadere; e il
carattere liscio (privo di peli) di una superficie che la induce a piantare le
proprie pinze in ciò che noi descriveremmo come la carne di un animale.
Von Uexküll osserva:

L’intero ricco, mondo che circonda la zecca si contrae su se stesso per ri-
dursi a una struttura elementare, che consiste ormai essenzialmente di tre sole
marche percettive e tre sole marche operative: il suo ambiente33.

Tuttavia, nella conclusione del libro, von Uexküll notava l’impossibilità


di parlare di una ‘natura’ univoca soggiacente che sarebbe per così dire
comune a tutti gli ambienti, e che la natura non può essere concepita che
come il supporto essenzialmente equivoco di tutti gli ambienti:

Il ruolo che svolge la natura nei diversi ambienti è fortemente contradditto-


rio. Se si decidesse di mettere insieme tutte le proprietà oggettive che emergo-
no a contatto con le varie realtà ambientali, non si avrebbe che caos34.

Così, la domanda è: abbiamo ragione di dire che la zecca ha conservato


‘solo’ tre di questi parametri per costruire un mondo infinitamente più po-
vero della natura? E la ‘natura’ stessa, che cos’è se non questa equivocità
fondamentale che risulta dal fatto che alcuni ambienti possono sovrapporsi
parzialmente gli uni agli altri?
Ma questo paragone ci permette di vedere non solo in che senso è pos-
sibile dire che le lingue sono degli ambienti [milieux], riferendo questo
concetto alla teoria degli ambienti, ma anche che genere di ambienti singo-
lari esse siano. Lingue e ambienti hanno in comune il fatto di essere delle

33 J. von Uexküll, Ambienti animali e ambienti umani, cit., p. 51.


34 Ivi, pp. 161-162.
298 Il transindividuale

maniere di costituire degli insiemi di variazioni pertinenti ordinate le une


rispetto alle altre a partire da un ambiente [environnement] in cui esse non
appaiono in quanto tali. A quale titolo sono esse pertinenti? Chiaramente a
titolo del loro significato o del loro rendimento: in quanto sono degli echi
sonar di mina o di scoglio. Ma ciò che definisce la lingua è che siffatte
variazioni non si trovano in un rapporto lineare osservabile rispetto ad al-
cuna proprietà diretta dei parametri fisici (mentre è possibile sapere quale
elemento fisico descrivibile è presente o assente nel mondo della zecca). La
domanda che vorremmo porre è allora molto semplice: questa caratteristica
singolare delle lingue non ci indica forse un altro modo di comprendere il
legame intimo che unisce la nostra capacità di parlare e la nostra capacità
di pensare? Non è forse possibile dire che quanto caratterizza la nostra
capacità di pensare è precisamente il fatto di poter stabilire delle identità e
delle discontinuità che non si basano sulle somiglianze e le singolarità del
segnale stesso? Tale è la tesi che vorremmo avanzare: ciò che l’osservazio-
ne della lingua ci permette di supporre è che un agente cognitivo (nel senso
in cui noi uomini lo siamo) è un agente capace di servirsi di segnali fisici
per redistribuire delle identità e delle differenze o delle prossimità e delle
distanze, secondo criteri che sono estranei ai segnali stessi, ma che restano
nondimeno condivisibili, ripetibili, trasmissibili e stabili.
Per ben comprendere questa tesi, sarà utile fare un contro-esempio.
Certe teorie contemporanee presentano come candidato al titolo di ‘più
semplice sistema cognitivo’ un batterio, il batterio magneto-tattile. Questo
animale è attratto dal polo magnetico. Questa orientazione precisa gli per-
mette di restare in mare ad una profondità alla quale il livello di ossigeno
è sufficientemente debole, malgrado gli spostamenti che esso subisce sotto
l’influsso delle correnti: la sua orientazione verso il Polo Nord lo sprofon-
da infatti verso le profondità marine. Perché questo batterio può ambire
ad essere il tipo del primo sistema cognitivo? Semplicemente perché esso
sembra capace di commettere ciò che noi chiamiamo errore. In effetti, se
tramite qualche crudele esperimento, lo si spostasse nell’Emisfero Sud, il
batterio si sbaglierebbe, risalirebbe verso la superficie dell’Oceano, e mo-
rirebbe35. Esso sembra dunque possedere qualcosa di simile ad un sapere,

35 Fred Dretdske presenta questa ipotesi – per confutarla da un altro punto di vista
rispetto al nostro – nel seguente articolo: «Représentation erronée», in D. Fisette,
P. Poirier (éds.), Philosophie de l’esprit. Problèmes et perspectives, Vrin, Paris
2003. Cfr. in particolare: «Se spostiamo un batterio australe verso l’Atlantico
Settentrionale, si annienterà spostandosi verso l’alto (in direzione del Sud magne-
tico), e quindi verso l’ambiente [environnement] tossico, ricco di ossigeno, delle
acque di superficie» (p. 98).
P. Maniglier - Ambienti di cultura: un’ipotesi sulla cognizione umana 299

certo del tutto ‘naturalizzato’, ma analogo nel suo modo di funzionare a


ciò che noi chiamiamo sapere. Peraltro, esso traduce un interesse vitale,
che concerne il livello di ossigeno nel mare, in un altro parametro, che è
quello della variazione dell’orientazione rispetto al polo magnetico. Esso è
dunque una creatura già semiotica.
Sostengo che in effetti un siffatto animale non è un agente cognitivo, in
ogni caso non nel modo in cui noi stessi lo siamo. Tra lui e noi il rapporto
è in fondo unicamente metaforico. Non già perché esso non disponga di un
atteggiamento intenzionale relativo all’oggetto del suo sapere, ma perché il
batterio non diverrebbe un agente cognitivo se non a condizione di rendersi
capace di estrarre questo parametro per lui importante, il parametro della
quantità d’ossigeno nell’acqua, a partire da un campo di stimoli che non
è correlato in modo lineare a questo tratto pertinente. Se decomponesse e
ricomponesse le variazioni del campo magnetico secondo dei parametri
che non possono apparire nelle variazioni del campo magnetico, si potreb-
be dire che esso impone al proprio ambiente [environnement] i suoi propri
criteri vitali. In altri termini, affinché vi sia cognizione, non basta che vi
sia trasferimento di una risorsa vitale in termini differenti da quelli che per-
mettono di procurarsela (come vorrebbe l’infaticabile paradigma rappre-
sentazionalista), occorre pure che vi sia decomposizione e ricomposizione
dei dati fenomenici al fine di forzare i segnali fisici a mettere in evidenza
delle correlazioni con delle risorse rispetto alle quali essi non sono in una
relazione di causalità lineare – e nemmeno in una relazione causale tout
court… – ma precisamente in una relazione simbolica, nel senso per cui
la relazione è esteriore. Tale è quindi la definizione di agente cognitivo
che proporremo. Un sistema cognitivo è un sistema articolato al suo am-
biente [environnement] in modo tale da essere sensibile a tratti complessi,
variabili e continui. Comprendiamo peraltro il vantaggio evolutivo procu-
rato da questa capacità: sarei volentieri tentato di pensare che, se vi sono
dispositivi semiotici sulla Terra, è perché la vita ha a che fare con risorse
microscopiche ed ha sviluppato perciò dei sensori microscopici. Ad ogni
modo, propongo di definire un agente cognitivo come un agente capace
di imporre al proprio ambiente [environnement] una metrica, un modo di
misurare o di categorizzare il proprio ambiente fisico, in funzione dei suoi
interessi vitali, cioè un agente che è capace di imporre il proprio sistema
di valutazione al mondo decomponendo e ricomponendo di conseguenza i
dati fenomenici. Esso si serve del sensibile, dei segnali fisici, per ottenere
qualcosa che non è dato nel segnale fisico, senza essere tuttavia al di là di
questo segnale. Si tratta di una concezione della cognizione che potremmo
definire nietzscheana: la mente è un dispositivo di valutazione [évaluateur]
300 Il transindividuale

capace di creare i suoi propri sistemi di valutazione, il suo proprio senso


delle prossimità e delle distanze, delle identità e delle differenze. Pensare,
non è rappresentare, è valutare. Pensare non è avere delle vedute sul mon-
do, è costituire dei mondi.
Ma un’osservazione si impone. Nel modello della mina e dello scoglio,
è chiaro che si fa appello ad un teacher, che convalida o invalida le presta-
zioni della macchina. Vi è già qualcuno che sa se si tratta di una mina o di
uno scoglio. La macchina non sa letteralmente quel che fa. Il senso della
differenza è interamente trascendente rispetto alla sua operazione. La rete
è d’altronde dal canto suo perfettamente indifferente al fatto che si tratti di
una mina o di uno scoglio. Potremmo quindi obiettare che vi sarebbe una
grande ironia, o una grande ingenuità, nel qualificare come nietzscheano
un siffatto modello beahaviorista, che in fin dei conti fa di un dressage del
tutto esteriore il motore dell’accesso alla cognizione. Tale sarebbe peraltro
un argomento per mostrare che questo modello è inapplicabile al linguag-
gio, poiché è sempre vero che, nelle lingue, il senso delle differenze (la vita
o la morte? La borsa o la vita? Hai detto «vento» o hai detto «banco»?) è
immanente al sistema stesso. Voglio dire che le differenze semantiche, la
differenza che fa il fatto di mancare il bersaglio, di dire banco al posto di
vento, è essa stessa oggetto di una valutazione dello stesso ordine.
Tuttavia, niente ci impedisce di applicare lo stesso principio al lato ‘se-
mantico’. Voglio dire che la differenza-che-fa il percepire la differenza tra /
pa/ e /ba/ è essa stessa oggetto di una valutazione. Invece di accontentarsi,
come la nostra rete, di tentare di stabilire una differenza tra due categorie
di stimoli, senza sapere perché, un agente cognitivo categorizza anche il
senso della differenza tra la mina e lo scoglio. È vero che in quest’ultimo
caso si tratta di una differenza letteralmente vitale: è una differenza di vita
o di morte. Così si potrà dire che essa lascia anche ben poco margine all’in-
terpretazione; ma, per lo stesso motivo, lascia anche ben poco margine alla
‘correzione’ e all’apprendimento… Come che sia, non vi è alcun ostacolo
teorico a supporre che la complessità caratteristica del linguaggio dipenda
dal fatto che le lingue ci presentano una situazione in cui la rete è correlata
al proprio ambiente in modo da mettere in relazione dei sistemi di differen-
ziazione o di categorizzazione eterogenei.
Ma appare allora una proprietà fondamentale di un siffatto sistema.
Questa possibilità di creare dei parametri sensibili permette in effetti agli
agenti cognitivi di costruire degli ambienti [milieux] che non si fonda-
no su null’altro che sulle convalide reciproche che essi si forniscono gli
uni con gli altri. Io detengo la misura della correttezza di una catego-
rizzazione quanto i miei interlocutori. Tale è esattamente la definizione
P. Maniglier - Ambienti di cultura: un’ipotesi sulla cognizione umana 301

di un sistema culturale (lingua, codice vestimentario ecc.): non solo un


insieme di parametri sensibili estratti dalle variazioni continue e caotiche
dell’ambiente [environnement] (un milieu), non solo in modo tale che
questi parametri intrattengano una relazione non lineare con gli stimoli,
ma, di più, in modo tale da esser sottoposti ad una sorta di circolo entro
il quale sono i loro effetti su altri agenti cognitivi a conservare la perti-
nenza di ciascuno. Un agente cognitivo nel senso in cui l’abbiamo defi-
nito è dunque un agente capace di entrare in una cultura nel senso che è
capace di entrare in un sistema entro il quale apprenderà delle griglie di
categorizzazione fondate unicamente sulla convalida o sull’invalidazione
impostagli da altri agenti cognitivi, senza che alcuno possieda un’autorità
definitiva su queste categorizzazioni. Una cultura è una siffatta metrica
generata e riprodotta dalle conferme reciproche che gli agenti cognitivi si
scambiano. Questi agenti sono capaci di condizionarsi reciprocamente a
reagire in modi molto differenti a segnali in apparenza assai simili, ed in
modi molto simili a segnali in apparenza molto dissimili. Se operiamo le
differenze fonologiche che operiamo, è perché esse generano delle diffe-
renze dette semantiche, esse stesse costituite come tratti complessi, sottili
e distribuiti, e si valutano in particolare attraverso la reazione verbale cui
esse spesso si riducono.
Vi è dunque una dimensione di auto-costituzione nella cultura, che di-
pende da questa doppia proprietà: da un lato il senso delle differenze è lui
stesso l’oggetto di una costruzione o di una valutazione, d’altro lato questa
immanenza del senso permette la costituzione di uno spazio sociale. In
altre parole, è in virtù della stessa ragione che i fenomeni culturali hanno
un senso e sono dei fenomeni sociali. Questa socialità deve essere compre-
sa in un senso rigorosamente transindividuale: essa dipende dal fatto che
ciascun agente è per così dire il teacher dell’altro e che i sistemi simbolici,
senza essere fissati in modo definitivo, sfuggono nondimeno al controllo di
ciascuno dei soggetti parlanti. La lingua è sociale, senza che ciò significhi
che essa è dotata di un’identità collettiva trascendente il gioco delle intera-
zioni: essa emerge da questo gioco, senza potervisi ridurre.
Sembra dunque che, alla fine, vi sia una profonda relazione tra la nostra
capacità di fare ciò che si chiama ‘pensare’ ed il fatto che noi siamo delle
creature che genereranno quasi loro malgrado degli universi transindivi-
duali. È perché siamo sociali che possiamo pensare. Ma, ancora una volta,
non nel senso per cui, seguendo la scia di una certa interpretazione di Witt-
genstein, bisogna vedere nella garanzia trascendente dei segni (il Grande
Altro di Lacan o la coscienza collettiva di Durkheim – due autori peraltro
interpretati in un modo assai discutibile) la condizione di possibilità del
302 Il transindividuale

pensiero36. Al contrario, se la cognizione culturale è sociale, ciò dipende


da una modalità dell’identità che non si riduce né all’invarianza sostanzia-
le che le diverse forme di empirismo hanno sempre cercato (come se dal
contenuto dovessero sorgere le forme e le categorizzazioni), né a ciò che
le diverse forme di idealismo hanno sempre immaginato, cioè delle cate-
gorie astratte che sarebbero proiettate sul sensibile: si tratta di un’identità
che risulta da un meccanismo di strutturazione della realtà sensibile e che
utilizza un livello della realtà (ad esempio le immagini) per strutturarne un
altro (ad esempio il suono) inducendo delle regolarità che si fondano uni-
camente sulle convalide reciproche rinviatesi reciprocamente dagli agenti,
laddove questi ultimi costituiscono insieme il medio [milieu] comune entro
cui essi stessi vivono e che non cessano di trasformare a propria insaputa.
Ma ciò ci permette anche di comprendere perché un sistema culturale
non è né nella mia testa, né nella vostra, ma appunto tra di noi. Se dob-
biamo cercare di descrivere in modo naturalistico il tipo di processi che
permettono ad un agente di entrare in siffatti sistemi, non abbiamo alcuna
ragione di ridurlo ad una particolare configurazione neuronale. Bisogna
distinguere il livello dei processi di trattamento dell’informazione e quello
delle identità e delle differenze che ne risultano. Ferdinand de Saussure
diceva che una parte cospicua delle lingue poteva essere descritta facendo
interamente astrazione dal suono reale, cioè soltanto attraverso la confi-
gurazione delle identità e delle differenze, come sistema o come ‘forma’.
Allo stesso modo, qui, nulla ci obbliga a descrivere le identità linguistiche
nei termini dei patterns di attivazione: possiamo benissimo descriverle in-
dipendentemente dalla nostra conoscenza dei meccanismi che permettono
agli agenti di percepirle e di mantenerle, poiché ciò che ci interessa è in fin
dei conti il numero delle possibilità e le relazioni (di prossimità e di distan-
za) che intrattengono le une rispetto alle altre.
Pensare è quindi esser capaci di entrare in una cultura, impegnarsi in
questi consensi auto-costituiti, sprovvisti di ogni fondamento esterno e
fondamentalmente precari, che funzionano precisamente come degli am-
bienti [milieux]. Ciò che caratterizza insomma l’animale umano è che i
differenti agenti costituenti la specie non smettono mai di produrre gli uni
con gli altri dei nuovi ambienti [milieux]. Questi ambienti sono numerosi,
la lingua è solo uno di essi. Noi passiamo dall’uno all’altro, meglio: noi vi-
viamo in una pluralità di siffatti ambienti contemporaneamente e in perma-

36 Con ciò, questa posizione si distingue radicalmente da quella di Vincent Descom-


bes, che cerca appunto di conservare il ruolo cruciale di una sorta di terzo trascen-
dente garante delle identità di cui consistono, anche per lui, i fatti di cultura.
P. Maniglier - Ambienti di cultura: un’ipotesi sulla cognizione umana 303

nenza, cercando in qualche modo di trovarvi una sorta di coerenza37. Ciò


che importa qui osservare è che pensare non significa utilizzare dei sistemi
di rappresentazioni per produrre una conoscenza del mondo, ma significa
essere capaci di creare siffatti mondi, istruire una sensibilità comune che
determinerà un certo numero di eventi impercettibili ad ogni altra, e di con-
segnarsi così a questi strani universi all’interno dei quali noi diventiamo
dei soggetti e le cose acquistano un senso; significa per così dire sfogliare
la natura con tutti questi strati nuovi e inauditi che determinano altrettan-
te vite possibili, vite che possiamo dire più ricche di quelle della zecca,
non già nel senso per cui la zecca sarebbe sensibile a un minor numero di
parametri reali del mondo, poiché non ha alcun senso il volere che questi
parametri preesistano alla loro messa in opera entro e per la vita, ma nel
senso per cui noi creiamo un maggior numero di mondi, i quali definiscono
a loro volta un maggior numero di possibilità immanenti, e sono abbando-
nati a dei percorsi di divenire più complessi in quanto non si fondano su
altro che queste convalide reciproche che noi ci diamo gli uni con gli altri.
E per quelli che vorrebbero scrivere la nostra storia in termini evolutivi, oc-
correrà vedere come questi ambienti [milieux] siano trascinati in una storia
che sfugge incessantemente a ciascuno di noi, per quanto possiamo riuscire
a coalizzarci. L’uomo, animale creatore di mondi, istitutore di ambienti
[milieux] entro cui circola, consegnato alle loro derive molecolari e che
sfuggono al singolo individuo senza costituirsi in collettivo trascendente –
questa sarebbe allora una teoria cognitiva? Sì, e forse tanto più ancorata ai
rari saperi di cui possiamo disporre a proposito di questa creatura cognitiva
alquanto privilegiata: noi stessi…

[Traduzione dal francese di Andrea Cavazzini]

37 È in una siffatta coerentizzazione che tutta l’antropologia di Claude Lévi-Strauss


ha voluto vedere la funzione di certi fenomeni culturali, e in particolare del mito,
ma anche dello sciamanesimo accostato ai fenomeni psicopatologici. Cfr. in par-
ticolare l’«Introduzione all’opera di Marcel Mauss» (tr. it. in M. Mauss, Teoria
generale della magia e altri saggi, tr. it. di F. Zannino, Einaudi, Torino 1965)
e l’articolo sulla «La struttura dei miti», in Antropologia strutturale, tr. it. di P.
Caruso, Il Saggiatore, Milano 1990, pp. 231-259.
305

GUILLAUME SIBERTIN-BLANC
CONCATENAZIONI COLLETTIVE
D’ENUNCIAZIONE, MODI DI PRODUZIONE
ENUNCIATIVI E SOGGETTIVAZIONE:
DELEUZE E GUATTARI CON ALTHUSSER

La lingua può essere considerata all’interno della società


come un sistema produttivo: essa produce senso, grazie alla sua
composizione che è interamente composizione di significato
e grazie al codice che condiziona questa concatenazione
[agencement]. Essa produce anche indefinitamente delle
enunciazioni grazie a certe regole di trasformazione e di
espansione formali; essa crea dunque delle forme, degli schemi
di formazione; crea degli oggetti linguistici che sono introdotti
nel circuito della comunicazione1.

Identificando a partire dalla metà degli anni Cinquanta ‘l’istanza del


discorso’ come oggetto teorico originale (e sottostimato) della linguistica
post-saussuriana, poi introducendo nel 1970 il concetto di ‘apparato forma-
le dell’enunciazione’, Émile Benveniste sembrava aprire un piano d’analisi
promettente rispetto ai due principali requisiti di un pensiero materialista
del linguaggio: considerare il linguaggio, nelle sue strutture interne e nei
suoi usi differenziati, come una produzione sociale essa stessa articolata
all’insieme complesso dei processi di produzione e riproduzione di una
formazione sociale data; interrogare l’immanenza dei rapporti di potere, di
dominio e di assoggettamento, ed in ultima istanza dei rapporti di classe,
a questa produzione sociale di linguaggio. In effetti, la distinzione di que-
sto piano dell’enunciazione sembrava in grado di risolvere ante litteram
le molteplici difficoltà sollevate dalla distinzione metodologica tra langue
e parole, che, da diversi punti di vista, avrebbero di lì a poco formulato
William Labov in sociolinguistica, Michel Pêcheux nell’ambito dell’anali-
si semantica, o Oswald Ducrot in quello della pragmatica linguistica2: una

1 E. Benveniste, «Structure de la langue et structure de la société», in Id. Problèmes


de linguistique générale II, Gallimard, Paris 19802, pp. 100-101.
2 Cfr. W. Labov, Sociolinguistic patterns, University of Pennsylvania Press, Phila-
delphia 1972; M. Pêcheux, «La sémantique et la coupure saussurienne: langue,
langage, discours», in Id., L’inquiétude du discours, Ed. des Cendres, Paris 1990,
pp. 140-149, 157 e sgg., 168; O. Ducrot, «De Saussure à la philosophie du lan-
306 Il transindividuale

volta affermata l’omogeneità di un codice della lingua (concepito come


sistema di invarianti strutturali o come macchina generativa), e sottrattolo
quindi alle stratificazioni complesse dei rapporti sociali, delle loro differen-
ziazioni e ineguaglianze interne, come evitare di porre la langue come tra-
scendente rispetto al campo sociale? Come quindi evitare di ricondurre la
parola ad un atto soggettivo individuale, e di far rientrare dalla finestra un
individualismo metodologico incentrato su questo «locutore-uditore ide-
ale, appartenente ad una comunità linguistica completamente omogenea,
che conosce perfettamente la sua lingua e che, quando applica in un’esecu-
zione effettiva la sua conoscenza della lingua, non è toccato da condizioni
grammaticalmente irrilevanti, quali i limiti di memoria, le distrazioni, gli
spostamenti dell’attenzione e dell’interesse»3 – locutore ideale che è in-
somma la pura coscienza del linguista stesso, tramite cui la langue ‘in sé’
diviene ‘per sé’? Come rompere infine con ciò che si deve pur chiamare
l’ideologia della linguistica, che fa oscillare il carattere presunto sociale
del linguaggio tra l’universalità astratta di un ‘patrimonio comune’ e l’indi-
vidualità di liberi interlocutori spontaneamente impegnati in una comuni-
cazione intersoggettiva peraltro modellata – quale «una specie di contratto
stipulato tra i membri della comunità» – sulla forma mercantile del diritto
privato4? Il problema è appunto quello di pensare l’immanenza del sociale
al linguaggio pensando il sociale come un insieme di rapporti (e di rappor-
ti di forze) transindividuali, e non come uno spazio d’intersoggettività con-
trattuale o comunicativa in cui il termine sociale «significa semplicemente
‘pluri-individuale’ e non suggerisce nulla dell’interazione sociale nei suoi
aspetti più estesi» (Labov). In un certo senso, l’idea di un apparato di enun-
ciazione che determinerebbe non già il testo dell’enunciato, né il codice che
permette idealmente di formarlo, ma «l’atto stesso del produrre un enun-
ciato», e il programma che ne consegue di individuare le funzioni formali
messe all’opera in una siffatta produzione effettiva, sembrano in grado di
aprire un’altra via liberata dalla rappresentazione idealista di interazioni tra
locutori ideali.
Tuttavia la prospettiva di Benveniste resta ancora profondamente am-
bigua, di un’ambiguità d’altronde prossima a quella che Louis Althusser

gage», Préface à J. Searle, Les actes de langage, tr. fr. di H. Pauchard, Hermann,
Paris 1972, pp. 21-25.
3 N. Chomsky, Aspects of the Theory of Syntax, Mit Press, Cambridge 1965, p. 12.
4 F. de Saussure, Cours de linguistique générale, Payot, Paris 1962, p. 321, edizione
e tr. it. a cura di T. De Mauro, Laterza, Roma-Bari 1967, 1994; cfr. E. Ortigues, Le
Discours et le symbole, Aubier, Paris 1962, p. 59; E. Benveniste, «Structure de la
langue et structure de la société», cit., pp. 100-101.
G. Sibertin-Blanc - Concatenazioni collettive d’enunciazione 307

aveva denunciato nell’Ideologia tedesca. Poiché nello stesso gesto con cui
essa apre la possibilità di articolare i rapporti sociali in cui si struttura que-
sta produzione, essa resta debitrice dei postulati precedenti, e in un certo
senso li rafforza introducendo la concezione trascendente della lingua e
l’individualismo metodologico nella teoria stessa della produzione enun-
ciativa. Che in tal modo essa riattivi un concetto idealista di produzione,
nulla lo mostra meglio della prima funzione formale dell’enunciazione lo-
calizzata da Benveniste, funzione primordiale da cui tutte le altre dipen-
dono, e definita come funzione d’inserzione del locutore, tramite l’atto
di enunciazione, «come parametro nelle condizioni necessarie a [questa]
enunciazione»5. Svolta dal pronome personale della prima persona (e, in
modo derivato, dalla seconda persona – «il rapporto io-tu che non accade
se non entro e mediante l’enunciazione, col termine io a denotare l’indivi-
duo che proferisce l’enunciazione, e il termine tu come l’individuo che vi è
presente come allocutore» – e dai deittici di spazio e di tempo), questa fun-
zione di ‘innesto’ dell’enunciatore nel suo enunciato permette di introdurre
un’operazione intermedia nello schema a due termini: ‘patrimonio comune
della lingua’/uso individuale che ne fa il locutore. Effettuata dall’atto pro-
duttore (enunciazione), questa operazione è in pari tempo obiettivata nel
prodotto che ne risulta (enunciato). Essa non deve dunque essere compresa
come un legame tra due termini esterni l’uno all’altro, ma come un’ope-
razione di ‘appropriazione’ della langue da parte dell’individuo parlante e
di obiettivazione di questo individuo nella lingua che utilizza6. L’apparato
dell’enunciazione funziona così come mediazione tra i due livelli estremi
della langue e della parole: esso dialettizza l’universalità astratta dell’una
(«prima dell’enunciazione, la langue non è altro che la possibilità della
langue») e la singolarità hic et nunc dell’altra («dopo l’enunciazione, la
langue è effettuata in un’istanza di discorso, che emana da un locutore,
forma sonora che colpisce un uditore e suscita un’altra enunciazione in
ritorno»). Ma questa dialettica non è priva di presupposti; e l’ambiguità di

5 E. Benveniste, «L’appareil formel de l’énonciation», in Id., Problèmes de linguis-


tique générale II, cit. p. 81. Sugli indici auto-referenziali, ed il loro ordine fondato
in ragione secondo Benveniste (io; io-tu; spazio-tempo), cfr. «De la subjectivité
dans le langage», in Id., Problèmes de linguistique générale I, Gallimard, Pa-
ris 20002, pp. 258-266, tr. it. di M.V. Giuliani, Il Saggiatore, Milano 1966, pp.
310-320.
6 «In quanto realizzazione individuale, l’enunciazione può esser definita, in rap-
porto alla lingua, come un processo di appropriazione. Il locutore si appropria
l’apparato formale della langue ed enuncia la sua posizione di locutore tramite
indizi specifici» (Ivi, p. 82).
308 Il transindividuale

certe formulazioni di Benveniste rivela l’obiettivo teorico implicitamente


perseguito. Ad esempio quando l’analisi del processo enunciativo si vede
incaricata di mostrare che l’‘attivazione’ [mise en fonctionnement] indivi-
duale della langue è già regolata da un apparato formale che fissa «all’in-
terno della lingua i caratteri formali dell’enunciazione»7. La distinzione
langue/enunciazione diviene una distinzione interna alla langue, si tratta
di interiorizzare alla langue certe variabili extralinguistiche a titolo di fat-
tori invarianti dell’enunciazione, e, così facendo, di far beneficiare queste
variabili dell’omogeneità e dell’universalità presuntive del codice lingui-
stico. È ciò che accade con i commutatori [embrayeurs] autoreferenziali
(indici di persona), che elevano il carattere empiricamente individuale del-
la parola a funzione universale di soggettivazione dell’enunciazione, in cui
quest’ultima troverebbe una condizione necessaria in via di diritto:

L’atto individuale di appropriazione della lingua introduce colui che parla


nella sua propria parola. È, questo, un dato costitutivo dell’enunciazione. La
presenza del locutore alla sua enunciazione fa sì che ciascuna istanza di discor-
so costituisca un centro di riferimento interno. Questa situazione si manifesta
tramite un gioco di forme specifiche la cui funzione è di mettere il locutore in
una relazione costante e necessaria con la sua enunciazione […] EGO, centro
dell’enunciazione8.

Questa pretesa universalità del carattere soggettivo e centrato di ciascuna


enunciazione procede manifestamente da un’universalizzazione indebita
di un carattere empirico non-problematizzato: il processo di produzione
enunciativa è immediatamente schiacciato su di un ‘atto individuale’, cioè in
realtà sulla coscienza soggettiva che il locutore ha rispetto agli enunciati di cui
si riconosce come la causa9. Così c’è motivo di vedere in questo ‘individuo’
un presupposto empirista analogo a quello di cui Althusser ritrovava i sintomi
nell’esitazione implicata da quelle espressioni dell’Ideologia tedesca
quali «forze produttive degli individui», e nel sovrapporsi delle nozioni
di «commercio reciproco» [Verkehr] e di rapporti sociali di produzione:
presupposto secondo cui «gli individui [sono] ancora pensati oscuramente
o esplicitamente come i soggetti costitutivi di tutti i rapporti sociali», o,

7 Ivi, p. 81.
8 Ivi, pp. 82-83; cfr. Anche Problèmes de linguistique générale I, cit., pp. 281-285,
tr. it. cit., pp. 317-319.
9 Ciò appare sintomaticamente nel fatto che l’‘atto individuale’ non è esso stesso
riferito ad altro che ad una realtà psicologica, salvo poi fare dell’ambito analitico
dell’apparato formale dell’enunciazione un sotto-settore dello studio generale del-
la ‘realtà mentale’ («L’appareil formel de l’énonciation», cit., p. 81).
G. Sibertin-Blanc - Concatenazioni collettive d’enunciazione 309

all’inverso, secondo cui il concetto di rapporto sociale aderisca ancora al


«concetto feuerbachiano degli Attributi essenziali o delle Forze essenziali
dell’Essenza Umana, divenuto l’individuo, gli individui»10. È noto che,
togliendo questo presupposto, si apre per Althusser il programma positivo
di uno studio delle forme storiche dell’individualità, variabili secondo
la strutturazione delle istanze o livelli dei rapporti sociali11. Una ripresa
critica della teoria benvenistiana degli apparati di produzione enunciativa
richiede un secondo programma, ad un tempo distinto dal primo e ad esso
legato secondo dei rapporti da determinare: un programma di studio delle
forme storiche di soggettivazione, delle maniere d’essere (costituito come)
soggetto nei processi d’enunciazione, dunque di riflettervisi in un rapporto
a sé tramite cui si forma un ‘soggetto d’enunciazione’ che appare a se stesso
d’emblée come fonte del proprio dire, dunque del ‘proprio’ pensare, delle
‘proprie’ condotte, delle ‘proprie’ volizioni ed azioni.
Questo secondo programma, Deleuze e Guattari l’hanno riaperto alla
loro maniera – e con una grande vicinanza ad Althusser, lo vedremo – to-
gliendo il suo primo ostacolo epistemologico: il presupposto empirista che
insinua ‘sotto’ l’enunciazione un locutore incaricato di operare l’individua-
zione della lingua in una parola singolare hic et nunc.

Non c’è in primo luogo inserimento di enunciati diversamente individuati


né incastro di differenti soggetti d’enunciazione, ma una concatenazione col-
lettiva che determinerà come sua propria conseguenza i processi relativi di sog-
gettivazione, le assegnazioni d’individualità e le loro distribuzioni mobili nel
discorso12.

Sostituendo al concetto di apparato formale dell’enunciazione quello di


«concatenazione collettiva d’enunciazione [agencement collectif d’énon-
ciation]» (d’ora in poi: CCE), Deleuze e Guattari non scommettono su di
un misterioso ventriloquio (non è forse il locutore, questo individuo parlan-
te qui presente, a produrre degli enunciati singolari, attraverso la sua bocca,
la sua volontà di comunicare, i suoi interessi rispetto all’informazione?),
ma unicamente sul rigore di una teoria dell’enunciazione come processo
di produzione, quindi come sistema di rapporti transindividuali il cui ciclo

10 L. Althusser, «La querelle de l’humanisme», in Id., Ecrits philosophiques et poli-


tiques, t. II, Imec, Paris 1997, p. 497 e sgg.
11 Cfr. E. Balibar, «Les concepts fondamentaux du matérialisme historique», in L.
Althusser et alii, Lire le Capital, PUF, Paris 19963, p. 485-493, tr. it. a cura di M.
Turchetto, Mimesis, Milano 2006, pp. 318-323.
12 G. Deleuze, F. Guattari, Mille plateaux, Minuit, Paris 1980, p. 101, tr. it. (legger-
mente modificata) di G. Passerone, t. I, Castelvecchi, Roma 1997, p. 140.
310 Il transindividuale

dinamico non si riduce né a questo o quello tra i suoi ‘prodotti’ (enunciati)


né ad uno tra i suoi fattori materiali che vi si trova messo all’opera (per
quanto indispensabile esso appaia alla coscienza che, presa in questi rap-
porti, vi si ascolta dire: ‘io che parlo’ [moi qui parle]). Da questo punto di
vista, «non ci sono enunciati individuali, ma concatenazioni macchiniche
produttrici di enunciati», e «ognuno di noi è preso in una tale concatena-
zione, ne riproduce l’enunciato quando crede di parlare a nome proprio o
piuttosto parla a nome proprio quando ne produce l’enunciato»13. Nella no-
zione di CCE, collettivo non designa quindi una comunità di condivisione
di uno «strumento di comunicazione » il cui «potere coesivo» regnerebbe
«al di sopra delle classi, dei gruppi e delle attività particolarizzate», costi-
tuendo «una comunità a partire da un aggregato di individui e [creando] la
possibilità stessa della produzione e della sussistenza collettiva»; esso non
qualifica una realtà ‘ad un tempo immanente all’individuo e trascendente
la società’, neutra nella sua ‘realtà sovraindividuale’ e perciò disponibile
alla libera ‘appropriazione’ dell’utilizzatore individuale14. Esso significa al
contrario il carattere transindividuale di un processo produttivo immanente
ai rapporti sociali, quindi ai rapporti di sfruttamento e di dominio. Transin-
dividuale e non ‘immanente all’individuo’; immanente ai rapporti sociali e
non ‘trascendente rispetto alla società’: proprio il contrario di ciò che dice
Benveniste, dunque.
I nuovi presupposti devono essere i seguenti: l’enunciazione (distinta
dalla parola) non è mai individuale; l’enunciazione non è sempre e ne-
cessariamente soggettivata; i processi di soggettivazione nel discorso, e
la ripartizione e la parte che vi assumono i morfemi soggettivi, non sono
governati da una funzione universale e intrinseca ad un’essenza linguisti-
ca, ma da una funzione semiotica particolare surdeterminata dalla struttura
complessa dei rapporti sociali. Ecco perché

non si tratta […] di un’operazione linguistica, poiché un soggetto non può mai
essere condizione di linguaggio o causa di enunciato: non vi è soggetto, vi sono
soltanto concatenazioni collettive di enunciazione; la soggettivazione non è
che una di esse e, in quanto tale, designa una formalizzazione dell’espressione
o un regime di segni, non una condizione interna del linguaggio15.

13 Ivi, p. 50, tr. it. cit., pp. 70-71.


14 Tutte espressioni riprese da Benveniste (se ne trovano di molto simili in Stalin):
«Structure de la langue et structure de la société», cit., pp. 94-95 e 98.
15 G. Deleuze, F. Guattari, Mille plateaux, cit., p. 163, tr. it. cit., p. 229.
G. Sibertin-Blanc - Concatenazioni collettive d’enunciazione 311

Vi sono delle enunciazioni non soggettive e delle distribuzioni di sog-


getti costantemente fluttuanti nelle formazioni discorsive. Perché certe
produzioni enunciative hanno bisogno di questa funzione di soggettiva-
zione? Come la mobilitano materialmente? Secondo quale regime segnico
specifico? Quali tipi di soggettività ne risultano in ciascun caso? Come
render conto del fatto che in un dato campo socio-storico certi enunciati
siano oggetto di un investimento soggettivo che non preesisteva? Simili
domande non dipendono né da una teoria intralinguistica dell’enunciazio-
ne, né da una nozione storicista della soggettività. Esse impongono una
determinazione della categoria di soggetto e del suo funzionamento per
mezzo di una formalizzazione di un regime collettivo di segni specifico16,
ma anche uno studio delle condizioni in cui delle concatenazioni transin-
dividuali variabili d’enunciazione sono determinate a scatenare e a realiz-
zare la ‘dominanza’ di questo regime semiotico nel tal contesto o nella tal
congiuntura17. Ora, il fatto è che Deleuze e Guattari, quando affrontano
questi problemi, si riferiscono esplicitamente all’analisi althusseriana del
meccanismo dell’interpellazione ideologica18. Vi è in ciò un gesto teorico
complesso, di cui è possibile seguire gli effetti su più livelli simultanea-
mente: a) rispetto all’analisi althusseriana, esso passa per la riformulazione
dell’interpellazione a partire dalle categorie del ‘cogito linguistico’ benve-
nistiano (innesto, soggetto d’enunciazione, soggetto d’enunciato); b) dal
punto di vista della teoria delle CCE, esso richiede una delucidazione del
funzionamento delle CCE di soggettivazione nella riproduzione dei rap-
porti sociali di produzione; c) riguardo allo studio della filosofia deleuziana
in quanto tale, esso impone di riconsiderare l’importanza del concetto di
modo di produzione (e in particolare della sua interpretazione strutturale in
Althusser) nella teoria delle CCE.

a) Prendiamo la famosa scenetta teorica che mette schematicamente in


scena il funzionamento dell’interpellazione, quella del poliziotto che chia-

16 Cfr. l’esposizione delle quattro semiotiche, «significante», «pre-significante»,


«post-significante» (o di soggettivazione) e «contro-significante» in G. Deleuze,
F. Guattari, Mille plateaux, plateau 5.
17 Cfr. G. Deleuze, F. Guattari, Mille plateaux, cit., p. 149, tr. it. cit., p. 211.
18 E quanto avviene all’indomani dell’uscita de L’Anti-Œdipe quando, in un corso a
Vincennes (5 maggio 1973), Deleuze introduce una distinzione, appena abbozzata
nell’opera del 1972, tra semiotica di significanza e semiotica di soggettivazione,
quest’ultima implicitamente riferita alla scenetta dell’interpellazione poliziesca. È
soprattutto nel plateau intitolato «Sur quelques régimes de signes», in cui questa
distinzione è affinata, che il riferimento althusseriano passa in primo piano: cfr.
Mille plateaux, cit., p. 162 e sgg., tr. it. cit., p. 228 e sgg.
312 Il transindividuale

ma un individuo qualsiasi per strada – «Ehi, Lei, laggiù!» –, individuo che


cessa di essere qualsiasi non appena si volta – «Io? Ah sì, ero proprio io a
venir chiamato» – e si riconosce quindi come il termine-soggetto dell’in-
terpellazione19. Così raffigurato, il meccanismo grazie a cui un sistema so-
ciale, per mezzo di rituali e di codici assai diversi, costituisce gli individui
in soggetti, risiede in un’operazione di identificazione cui il soggetto non
preesiste ma al contrario da cui risulta (lezione freudiana), e da cui risulta
sotto la modalità generale – illustrata dal movimento stesso di rotazione
del corpo che si volta verso la fonte sonora – del riconoscimento (lezione
lacaniana). L’individuo è soggettivato nel movimento di rivolgersi ad un
appello – in generale ad un segno determinabile come operatore di innesto
(ancora vuoto) – che non è propriamente rivolto al soggetto prima che que-
sto si volti, ma che lo diviene retroattivamente (ero io che venivo chiama-
to) precisamente nel momento in cui l’individuo, voltandosi, e in virtù di
questo stesso voltarsi, è costituito/si costituisce come soggetto identificato/
che si identifica al bersaglio dell’ingiunzione. Ora, in questa operazione
di sdoppiamento-raddoppiamento speculare del soggetto chiamato (o piut-
tosto dell’individuo x chiamato a divenire soggetto) e del soggetto che si
riconosce chiamato (che si identifica come colui che è il Chiamato, l’Elet-
to più o meno beato… del controllo poliziesco), il primo termine forma
un soggetto d’enunciato nella misura in cui è predeterminato in una CCE
relativa (nel caso specifico) a ‘l’ordine pubblico’, sistema di produzione
enunciativa in cui sono distribuite, attorno a dei significanti fluttuanti del
tipo di ‘ordine’, ‘sicurezza’ (pubblica, delle persone, della proprietà priva-
ta, stradale, sanitaria…), delle immagini sociali che fissano altrettante po-
sizioni soggettive potenziali. Il raddoppiamento speculare consiste allora
precisamente nella costituzione circolare del soggetto che, ‘credendo-so-
spettando-sapendo che si tratti di lui’, anticipa la sua posizione soggettiva
nel valore performativo di un’enunciazione di cui esso è innanzitutto l’og-
getto, ma di cui cessa (crede di cessare) di essere l’oggetto rispondendovi
(la risposta è il voltarsi di 180°, e un oggetto, ad eccezione del feticcio, non
si volta mai…). Nel momento stesso in cui la funzione di innesto è ridefi-
nita, l’ordine delle ragioni del processo di soggettivazione identificato da
Benveniste si trova dunque modificato. Il Tu («Ehi! Laggiù!») non designa
in effetti soltanto la persona a cui ‘io’ mi rivolgo, ma innanzitutto l’opera-
tore d’innesto dell’interpellazione (ciò che Deleuze e Guattari chiamano

19 L. Althusser, Idéologie et appareils idéologiques d’Etat (Notes pour une re-


cherche), ora in Id., Sur la reproduction, PUF, Paris 1995, p. 305, tr. it. di C.
Mancina, in Id., Freud e Lacan, Editori Riuniti, Roma 1981, p. 111.
G. Sibertin-Blanc - Concatenazioni collettive d’enunciazione 313

un punto di soggettivazione, variabile secondo le diverse CCE) a partire


da cui si raddoppiano un soggetto d’enunciato (che indica «uno stato cui si
potrebbe sempre sostituire un Egli», cioè un deittico semplice che non può
divenire autoreferenziale se non tramite la sua conversione attuale o possi-
bile in un Tu o in un Io [Je]), ed un soggetto d’enunciazione (che appunto
opera tale conversione) che ‘trova’ e ‘riconosce’ nel soggetto d’enunciato
le ‘impronte del suo stesso processo’ (ero proprio io) e se ne riconosce
come autore e causa:

Il soggetto d’enunciazione si ripiega sul soggetto d’enunciato, sempre che


quest’ultimo fornisca a sua volta un soggetto d’enunciazione per un nuovo
processo. Il soggetto dell’enunciato non fa più che ‘rispondere’ al soggetto
dell’enunciazione, in una specie di ecolalia riduttrice, in un rapporto biunivo-
co20.

b) A volersi fermare qui – e quale che sia l’insistenza di Deleuze e Guattari


nell’affermare che siffatti operatori d’interpellazione, che possono prendere
forme assai variabili, né si riducono ai pronomi personali (o ai marcatori
semantici e sintattici che vi si rapportano), né sono necessariamente formati
linguisticamente, ma dipendono piuttosto da uno studio delle concatenazio-
ni socio-semiotiche che, in una data società o in una data situazione locale,
attualizzano questa assunzione soggettiva – non troveremmo altro che una
traduzione linguistica del meccanismo ideologico esposto da Althusser. O
piuttosto, non avremmo che una sofisticazione semplicemente tecnica della
prima descrizione althusseriana dell’interpellazione che, a partire dal 1966,
si colloca nel quadro di una discussione programmatica di uno studio dei
tipi differenti di effetti-soggetto prodotti da delle strutture di discorso speci-
fiche, e più esattamente di quattro: discorso scientifico, inconscio, estetico,
e ideologico, quest’ultimo specificato dal fatto di produrre un effetto-sog-
getto centrato. Ma già a quest’epoca, questo effetto di centramento trova
per Althusser la sua necessità nel fatto di permettere ad un posto funzionale
qualunque e impersonale (Träger), fissato dalla divisione sociotecnica del
lavoro, di «funzionare trasformandolo in funzione-soggetto»21. In altri ter-
mini, concependo il meccanismo dell’ideologico come una struttura speci-
fica di formalizzazione discorsiva [mise en discours] – si potrebbe dire di

20 G. Deleuze, F. Guattari, Mille plateaux, cit., p. 162, tr. it. cit. (leggermente modi-
ficata), pp. 227-228.
21 L. Althusser, «Trois notes sur la théorie des discours», in Id., Ecrits sur la psy-
chanalyse, t. II, Imec/Stock, Paris 1995, pp. 131-139, tr. it. di G. Piana, Raffaello
Cortina, Milano 1994, pp. 121-127.
314 Il transindividuale

semiotizzazione – dei rapporti sociali di produzione, il suo effetto principale


(il suo effetto-soggetto specifico) è di trasformare una funzione anonima e
obiettivamente predeterminata dalla configurazione del processo di produ-
zione, in una funzione da assumere soggettivamente, cioè da riconoscere
come un compito ed una responsabilità personale, e ciò riconoscendo se
stessi, quindi indentificandovisi, come collocati in questo posto, come la
causa libera o l’agente responsabile di questa funzione. Abbiamo qui una
prima formulazione di ciò che si troverà al cuore dell’articolo del 1970
Idéologie et appareils idéologiques d’État, cioè il modo in cui l’ideologia
si realizza nei rapporti sociali di produzione, e, realizzandovisi, realizza la
loro riproduzione negli agenti stessi che vi sono presi. Per interrogare il
senso che può acquisire dal punto di vista di Deleuze e Guattari – che cono-
scessero o meno il testo del 1966 – il passaggio dall’esame delle strutture
di discorso a quello degli apparati, è opportuno innanzitutto e in particolar
modo sottolineare che la riformulazione del meccanismo dell’interpella-
zione nelle categorie della ‘personologia linguistica’ di Benveniste, lungi
dall’eliminare semplicemente l’armatura teorica che ne aveva sostenuto
l’esposizione althusseriana (come è il caso ad esempio in letture più recenti
datene da Judith Butler o Slavoj Žižek, in cui la teoria degli AIS scompare
semplicemente), ne ripropone, nei due autori, il problema fondamentale:
quello della riproduzione dei modi di produzione, dunque della riproduzio-
ne delle loro condizioni, quindi, in primo luogo, della riproduzione dei loro
rapporti di produzione caratteristici. Di fatto, quando i due autori scrivono
che, individuo o gruppo, siamo sempre costituiti in una molteplicità di ope-
ratori di innesto di interpellazione – facendo sì che i processi di soggettiva-
zione corrispondenti si sovrappongano, si intersechino, entrino in tensione
o si scontrino a tutti i livelli del sistema sociale in cui circolano dei soggetti
inevitabilmente contraddittori, se non frammentati22, in breve, che non si
sia interpellati allo stesso modo, cioè che letteralmente non si sia lo stesso
soggetto di giorno sul posto di lavoro e la sera in famiglia o davanti alla
TV, in un’assemblea sindacale o la notte in qualche spezzone di sogno –,
è per aggiungere subito che «il capitale è un punto di soggettivazione per
eccellenza»23, il che è un’altra maniera di dire che i rapporti di produzione
e le cesure di classe distribuiscono degli operatori inaggirabili, secondo le
assunzioni soggettive dei rapporti sociali in cui siamo presi come pazienti
e agenti.

22 G. Deleuze, F. Guattari, Mille plateaux, cit., pp. 161-162, tr. it. cit., pp. 227-228;
L. Althusser, Sur la reproduction, cit.
23 G. Deleuze, F. Guattari, Mille plateaux, cit., p. 163, tr. it. cit., p. 229.
G. Sibertin-Blanc - Concatenazioni collettive d’enunciazione 315

c) Da questo punto di vista, lo si voglia o no, Deleuze e Guattari in-


scrivono chiaramente la loro teoria delle CCE di soggettivazione entro le
coordinate del modo di produzione capitalistico e della storia delle forma-
zioni sociali che passano sotto il suo dominio. E ciò che occorre spiegare è
precisamente questa affinità tra il processo di soggettivazione ed il capitale
stesso come punto di soggettivazione ‘per eccellenza’, cosa che implica di
ritorno la necessità di porre ad Althusser la domanda relativa alle condi-
zioni reali (quindi ai limiti) di verità pratica del meccanismo dell’interpel-
lazione ideologica messo materialmente all’opera negli AIS. Inoltre, vor-
remmo suggerire che questo problema, nella misura in cui esso può venir
formulato entro l’epistemologia strutturale di Althusser – come avviene nel
momento in cui Deleuze e Guattari analizzano la concatenazione collettiva
d’enunciazione edipica – è suscettibile di produrre degli effetti di intelligi-
bilità reali sulla teoria degli AIS. Proseguendo la loro prospettiva, in effetti,
sembriamo condotti a concludere che siffatti AIS, senza essere del tutto
assenti dai modi di produzione precapitalistici, vi esisterebbero soltanto
in forma embrionale, nella misura in cui la produzione di soggettività vi
sarebbe meno necessaria, e ciò per ragioni che restano da determinare24.
Questa domanda non è estranea allo spostamento della teoria dell’inter-
pellazione ideologica, dal 1966 al 1970, da un’analisi delle strutture di-
scorsive ad una teoria degli apparati di Stato, spostamento che suggerisce
quantomeno il luogo in cui queste ragioni devono essere cercate: nelle tra-
sformazioni strutturali dei rapporti di causalità, di autonomia relativa e di
dominanza tra le differenti istanze del sistema sociale. In effetti la presa in
carico materiale dell’ideologia da parte di apparati di Stato (indipendente-
mente dalla loro qualificazione giuridica come pubblici o privati) esprime
innanzitutto questo fatto caratteristico del modo di produzione capitalisti-
co: l’esteriorizzazione delle funzioni di riproduzione della forza-lavoro,
dunque della sua realizzazione al di fuori del processo di produzione, entro
concatenazioni distinte (apparati scolastico, familiare, sindacale, culturale,
mediatico…)25. Ma si pone allora il problema di sapere quale sia la spe-
cificità di questa ‘esteriorità’; quale forma specifica di esteriorità devono
avere gli AIS rispetto al processo di produzione, affinché questa esteriorità
sia in pari tempo la condizione necessaria a che l’ideologia si realizzi mate-

24 Il problema ci sembra abbozzato nei manoscritti di Althusser, ma bloccato da una


formulazione sociologica che descrive il fenomeno di moltiplicazione degli AIS
nelle formazioni capitalistiche in termini di semplice differenziazione funzionale:
cfr. L. Althusser, Sur la reproduction, cit., p. 171, tr. it. di M.T. Ricci, Editori
Riuniti, Roma 1997, p. 143.
25 Cfr. L. Althusser, Idéologie et AIE, cit., p. 273 e sgg., tr. it. cit., p. 81.
316 Il transindividuale

rialmente nei rapporti di produzione e vi realizzi la loro riproduzione (negli


stessi agenti che vi sono presi)? L’analisi dell’enunciazione edipica formu-
lata da Deleuze e Guattari nel 1972 (la sola analisi sviluppata, di fatto, da
parte loro di una CCE), ci sembra appunto in grado di mostrare lo stretto
legame tra questi due problemi:
– Perché il modo di produzione capitalistico funziona essenzialmente a
soggettivazione ideologica? (o: perché ‘l’ideologia’ si materializza nella
produzione di soggetti?)
– Qual è la specificità dell’ʻesteriorità’ degli AIS (nel caso esemplare,
l’AIS famigliare) rispetto al processo di produzione? (o: quale deve es-
sere il rapporto tra un AIS ed il processo di produzione affinché il primo
realizzi l’interpellazione come produzione ideologica di soggetti?)
Ripartiamo da questo punto preciso dell’argomentazione dell’Anti-Edi-
po: quando, dopo aver descritto per se stessa la concatenazione collettiva di
enunciazione edipica (è l’oggetto del capitolo II), Deleuze e Guattari sol-
levano la questione ‘delle forze reali’ capaci di render conto del montaggio
di questa CCE e delle ‘cause reali’ della sua effettuazione, lo strumento di
analisi convocato è immediatamente strutturale26. Occorre, spiegano, che
si operi una rottura tra la «forma della produzione sociale e la forma della
produzione umana», cioè che quest’ultima (la famiglia) smetta di essere
una prassi determinante nella riproduzione sociale per divenire un sempli-
ce mezzo di riproduzione umana come forza lavoro indifferenziata, flusso
astratto di capitale variabile o disponibilità nominale per la produzione. È
precisamente, come mostravano gli autori di Leggere il Capitale, ciò che
non può accadere nelle formazioni precapitalistiche, in cui la produzione
sociale dei soggetti non dipende direttamente dal loro inserimento negli
apparati di produzione, di circolazione e di consumo, ma indirettamente,
attraverso codici non economici determinati ad occupare il posto della de-
terminazione in ultima istanza (regole della parentela, dell’alleanza o della
territorialità residenziale, codici religiosi, politici o giuridici). Emmanuel
Terray lo ha mostrato a riguardo delle società cosiddette primitive27: in
formazioni sociali in cui il principale fattore della produzione è la forza
di lavoro umana, i fattori non economici della parentela sono ‘determinati

26 Cfr. G. Deleuze, F. Guattari, L’Anti-Œdipe, Minuit, Paris 1972, p. 134, tr. it. a cura
di A. Fontana, Einaudi, Torino 1975, p. 111: introdotto nel cap. II, il problema
è trattato alla fine del cap. III, cioè alla fine della teoria dei tipi di formazioni o
‘macchine sociali’ e del loro divenire storici attraverso il processo di accumula-
zione primitiva del capitale (ivi, p. 313-324, tr. it. cit. pp. 299-310).
27 Cfr. E. Terray, Le marxisme devant les sociétés primitives, Maspero, Paris 1969,
pp. 134-172.
G. Sibertin-Blanc - Concatenazioni collettive d’enunciazione 317

ad essere dominanti’ nella stessa organizzazione socioeconomica, di modo


che il posto assegnato a ciascuno è direttamente determinato dalla sua in-
scrizione nei rapporti dell’alleanza e della filiazione, che determinano da
se stesse le forme sociali dell’individualità. Diciamo altrimenti, per ben
marcare la differenza che occorre qui stabilire tra il problema delle forme
dell’individualità sociale ed il problema della produzione di soggetti28, che
le funzioni-Träger determinate dalla divisione sociale-tecnica del lavoro
non hanno bisogno qui di essere trasformate in funzione-soggetto precisa-
mente in quanto esse sono sempre-già determinate dai codici non economi-
ci dell’alleanza, della parentela e della residenzialità: non è in virtù di una
soggettivazione sotto la forma di un io responsabile, di un soggetto di enun-
ciazione che risponde ‘a suo nome [en son nom propre]’ come causa libera
apparente, che le funzioni vengono assunte, ma in virtù della posizione
differenziale del membro sociale nei rapporti sociali (non economici) che
lo individualizzano (come membro del tal lignaggio, del tal clan, del tale
rango nel lignaggio, fratello maggiore o minore ecc.)29. In queste condizio-
ni, è equivalente dire che la codificazione genealogica della riproduzione
umana interviene direttamente nella forma economica della riproduzione
sociale, e dire che questa codificazione genealogica non può costituire una
concatenazione di enunciazione soggettivante. Dal punto di vista libidina-
le, ciò significa che l’investimento desiderante della formazione sociale in
funzione di cui un io trova le proprie condizioni di costruzione, può tanto
meno essere incastonato nelle sole coordinate simboliche ed immaginarie
della famiglia ristretta in quanto i significanti della filiazione sono imme-
diatamente implicati nei codici dell’alleanza e della residenzialità, quindi
anche nelle strategie economiche e politiche del gruppo allargato:

Le famiglie selvagge formano una prassi, una politica, una strategia di al-
leanze e di filiazioni; esse sono formalmente gli elementi motori della ripro-
duzione sociale e non han nulla a che vedere con un microcosmo espressivo;
il padre, la madre, la sorella vi funzionano sempre come qualcos’altro oltre al
padre, la madre o la sorella30.

28 Questo problema resta implicito in Althusser: cfr. Sur la reproduction, cit.


29 Converrebbe riprendere in questa prospettiva le analisi di Claude Lévi-Strauss
sull’uso del nome proprio nei sistemi di appellativi delle società primitive, e sulla
sua funzione simultaneamente classificatrice e individualizzante, se si intende con
ciò un rapporto di sé a sé ‘al di là’ o indipendente da ogni codice sociale di cate-
gorizzazione degli individui; cfr. La Pensée sauvage, 1962, ch. VI et VII.
30 G. Deleuze, F. Guattari, L’Anti-Œdipe, cit., p. 196, tr. it. cit., p. 186.
318 Il transindividuale

Lungi dal poter essere investiti per se stessi, i significanti genealogici


e le imago identificatorie corrispondenti funzionano qui come vettori di
investimento libidinale dell’insieme del campo sociale (indipendentemente
da ogni meccanismo psichico di spostamento, proiezione o sublimazione).
Insomma, gli investimenti desideranti sono tanto meno familisti (e ego è
tanto meno soggetto d’enunciazione edipico) quanto meno l’istituzione fa-
miliare è in presa diretta ed attiva nella produzione e riproduzione sociali
(dunque né ‘ambiente’ chiuso né ‘apparato’ separato)
Le condizioni di una soggettivazione edipica nel MPC appaiono a
contrario31: il familismo trova la possibilità di stabilirsi come una CCE
soggettivante quando la famiglia, al limite, non ha più alcuna impor-
tanza dal punto di vista della riproduzione sociale, quando essa è come
‘disinvestita’, ‘messa fuori-campo’. Certo, quando la codificazione ge-
nealogica della riproduzione umana cessa di essere determinante nel
meccanismo di riproduzione dei rapporti sociali, la famiglia non smette
di costituire la forma della riproduzione umana; ma la sua messa fuori
campo significa che essa smette di conferire la propria forma sociale alla
riproduzione economica: essa diviene forma privata di riproduzione di
un materiale umano indifferenziato, laddove la riproduzione sociale pas-
sa sempre di più per il processo del capitale come forma sociale di ripro-
duzione autonomizzatasi rispetto agli antichi codici dell’alleanza e della
filiazione. La forma familiare-privata della riproduzione umana può così
fornire alla riproduzione sociale degli esseri umani di cui essa stessa non
determina il posto (donde l’eguaglianza astratta degli uomini), ma il cui
posto sarà determinato dalle esigenze interne dell’accumulazione e della
valorizzazione del capitale, il problema essendo piuttosto quello di far sì
che ciascun individuo (qualunque) sia legato al ‘suo’ posto (qualunque),
e ciò secondo un modo soggettivo che raccoglie per così dire il testimone
dei codici non economici dislocati dell’individualizzazione sociale (ac-
cumulazione primitiva – in quanto essa non smette di essere compiuta
di nuovo ogni giorno)32. Occorre allora riprendere il problema dischiuso

31 I differenti punti che seguono sono stati studiati per se stessi in S. Legrand e
G. Sibertin-Blanc, «Capitalisme et psychanalyse: l’agencement de subjectivation
familialiste», in J.-C. Goddard, N. Cornibert (dir.), Ateliers L’Anti-Œdipe, Mime-
sis / MétisPresses, Milano / Genève 2008, pp. 83-122.
32 Rinviamo qui all’ipotesi generale, avanzata dal Groupe de Recherches Matéria-
listes (EuroPhilosophie/CIEPFC), di un rapporto (tendenziale) di proporzionalità
inversa tra i codici dell’individualizzazione sociale e le concatenazioni di sogget-
tivazione innescati negli AIS, che fa dei secondi delle compensazioni della distru-
zione delle prime causata dalla tendenza del MPC all’astrazione reale: cfr. GRM
G. Sibertin-Blanc - Concatenazioni collettive d’enunciazione 319

da Althusser: se la riproduzione sociale non passa più per la forma del-


la riproduzione umana (famiglia) ma per la forma autonomizzatasi del
capitale, essa ha necessariamente bisogno di realizzare la propria ripro-
duzione entro la riproduzione umana, di realizzare la riproduzione dei
rapporti sociali nella riproduzione della forza lavoro. Se la concatenazio-
ne d’enunciazione familista risponde praticamente a questo problema, è
perché, nel suo esser messa fuori campo, nell’impotenza specifica che per
essa da ciò risulta, la famiglia cambia ad un tempo di forma e di funzione
nel processo d’insieme della riproduzione sociale. Essa cessa di essere
un codice ‘implicato’ nella determinazione in ultima istanza per prendere
la forma di un ambiente chiuso su cui si applicano i rapporti sociali che
essa si contenta di esprimere nel suo ordine specifico separato, in virtù
dell’autonomia apparente che le conferisce il suo ‘depotenziamento’ [im-
puissantation] reale. Ed essa può allora funzionare come un vacuolo in
cui vengono ad accumularsi gli enunciati collettivi come i destini della
psiche individuale. Sotto questi due aspetti, formale e funzionale, essa
costituisce pertanto un apparato transindividuale di produzione enuncia-
tiva (i cui ‘enunciati’-prodotti possono essere molto variegati: rappresen-
tazioni inconsce o consce, formazioni fantasmatiche, oniriche, enunciati
formati linguisticamente, comportamenti individuali, condotte colletti-
ve), apparato in cui tutte le problematiche sociali, economiche e politiche
saranno sistematicamente ‘tradotte’ come espressioni di una soggettività
identificata (ed identificante se stessa) attraverso ed entro le coordinate
della famiglia ristretta privata. I significanti genealogici, nel momento in
cui perdono ogni funzione motrice nella riproduzione dei rapporti sociali,
cessano di essere dei vettori dell’investimento diretto del campo sociale
da parte del desiderio inconscio. Al contrario, sono tutte le figure sociali,
tutti gli agenti collettivi ed i rapporti sociali ad apparire attualmente come
dei derivati, degli spostamenti o dei sostituti delle figure e delle relazioni
intrafamiliari, nonostante il fatto che i significanti della filiazione diven-
gano i mezzi primari di formazione e di espressione di ciò che bisognerà
chiamare un soggetto d’enunciazione edipico, cioè un soggetto che, a tut-
ti i livelli del campo sociale ed in ogni circostanza, ritrova papà-mamma
ed il suo corteo di richiesta d’amore, ambivalenza edipica e angoscia di
castrazione come le ‘impronte del suo proprio processo’:

– 15/12/2007: Idéologie II: Recentrement (subjectivité, discours, appareils idéo-


logiques d’Etat) (http://www.europhilosophie.eu/recherche/spip.php?article167).
320 Il transindividuale

La famiglia diventa il sottoinsieme cui s’applica l’insieme del campo socia-


le. Siccome ciascuno ha un padre e una madre a titolo privato, un sottoinsieme
distributivo simula per ciascuno l’insieme collettivo delle persone sociali, ne
chiude il campo e ne confonde le immagini. Tutto si piega sul triangolo padre-
madre-bambino, che risuona rispondendo ‘papà-mamma’ ogni volta che lo si
stimola con le immagini del capitale […] Nell’insieme di partenza c’è il prin-
cipale, il capo, il parroco, il poliziotto, l’esattore, il soldato, il lavoratore, tutte
le macchine e territorialità, tutte le immagini sociali della nostra società; ma,
nell’insieme d’arrivo, al limite, non c’è più che papà, mamma ed io… 33.

Possiamo allora riprendere il problema lasciato in sospeso precedente-


mente, quello della forma specifica d’esteriorità dell’apparato ideologico
familiare rispetto al processo di produzione, problema che deve esser lega-
to al raddoppiamento soggetto d’enunciato/soggetto d’enunciazione (e alla
loro identificazione speculare) procedente dal capitale come ‘punto di sog-
gettivazione per eccellenza’. Questo rapporto di esteriorità è evidentemente
asimmetrico ed ineguale: le congiunzioni del capitale e del lavoro tagliano
in modo evidentemente determinante i rapporti intrafamiliari34; ma questi
rapporti non possono che esprimere i rapporti sociali, dal punto di vista del
soggetto d’enunciazione edipico che non può, a sua volta, se non schiac-
ciare sistematicamente le figure sociali e le cesure [coupure] di classe sulle
coordinate del triangolo familiare. L’esteriorità dell’apparato ideologico
familiare è quindi un’esteriorità per così dire piegata, come la membrana
di una sacca che isola un ambiente interno il cui rapporto espressivo all’in-
sieme sociale – che lo attraversa tuttavia da ogni lato – consiste in ciò, che
tutte le figure sociali determinate vi sono immediatamente rappresentate
come altrettanti soggetti di enunciati. Quanto al soggetto d’enunciazione
che ne occupa il centro, bisogna dire che esso ‘si esprime’ tanto più quanto
più esso è fatto apposta per questo, ma anche che la sua materia espressiva
è indefinita, in quanto tutti gli agenti collettivi obiettivamente determinati
dalle congiunzioni del capitale e del lavoro sono infine riducibili a dei sog-
getti d’enunciato in cui esso può riconoscere interminabilmente le tracce
del suo desiderio edipizzato (nelle modalità sostitutive messe in luce dal-
la psicologia psicoanalitica che, in questo stadio terminale, conserva tutta
la sua pertinenza descrittiva: spostamento, condensazione, sublimazione,

33 G. Deleuze, F. Guattari, L’Anti-Œdipe, cit., pp. 315-316, tr. it. cit., p. 302.
34 «La forma della riproduzione sociale economica ha già preformato la forma del
materiale per generare là dove occorre il capitalista come funzione derivata del
capitale, il lavoratore come funzione derivata della forza-lavoro ecc., cosicché la
famiglia si trova in anticipo attraversata dall’ordine delle classi» (ivi, p. 314, tr. it.
cit., p. 301).
G. Sibertin-Blanc - Concatenazioni collettive d’enunciazione 321

proiezione…). Da questo punto di vista, l’esteriorità dell’AIS familiare si


confonde con la forma stessa del privato, che surdetermina le altre forme di
divisione (in particolare quella giuridica) del pubblico e del privato senza
confondersi con alcuna, poiché si tratta di una forma illimitata, di un pri-
vato senza esterno; e la concatenazione d’enunciazione edipica procede in
questo senso ad una vasta privatizzazione del campo sociale.
Che ne risulti una profonda vulnerabilità della soggettività in tal modo
prodotta, incapace di affrontare i propri problemi altrimenti che sotto
la forma nevrotica e nevrotizzante dello spostamento e della rappresen-
tazione sostitutiva, è ciò che fa di questa concatenazione enunciativa
edipica un apparato adeguato alla vulnerabilità oggettiva imposta dal-
la riproduzione allargata del capitale e dalla mutazione congiunturale o
strutturale dei rapporti sociali che essa richiede. Ma la sua efficacia può
essere anche valutata sul terreno stesso della lotta ideologica. Althusser
notava che, con lo sviluppo storico delle formazioni sociali capitalisti-
che, si osserva uno scarto crescente tra il carattere necessariamente cen-
tralizzato dell’apparato repressivo di Stato e la moltiplicazione di AIS
sempre più differenziati, «distinti [e] relativamente autonomi»35, il che
moltiplica immediatamente i conflitti attuali o potenziali di cui essi sono
simultaneamente il luogo e l’oggetto. Spostando le lotte ideologiche (che
sono già in se stesse delle forme di spostamento della lotta di classe)
su di un’‘altra scena’ che le omogeneizza in un solo e identico codice
(il triangolo edipico), l’AIS familiare concorre ad inibire questo effet-
to cruciale della moltiplicazione degli altri apparati ideologici, il quale
effetto non accresce gli appigli offerti alla lotta ideologica della classe
dominante senza moltiplicare simultaneamente gli antagonismi e le linee
di conflittualità in favore della lotta ideologica delle stesse classi do-
minate. Rendendo la soggettività disponibile ad entrare docilmente non
solo nel ‘suo’ posto entro il processo di produzione, ma anche in tutti i
processi di interpellazione degli AIS in cui essa sarà indotta a circolare,
conferendole infine questa ammirevole elasticità delle vertebre che le
consente di voltarsi in occasione di tutte le interpellazioni cui sarà sotto-
posta, l’apparato familista appare, non già come un AIS tra gli altri, ma
come l’AIS di base36, innanzitutto in quanto esso opera su di una materia

35 L. Althusser, Sur la reproduction, cit., pp. 170-171, tr. it. cit., p. 142.
36 E quanto già suggerisce, proprio in Althusser, il fatto che la tesi (che riecheggia
evidentemente i fatti di Maggio ’68) di un trasferimento di dominanza in seno agli
AIS, dall’AIS religioso verso l’AIS scolastico, sia presentata come un passaggio
da un couplage Chiesa-Famiglia ad uno Famiglia-Scuola (L. Althusser, Sur la
reproduction, cit., pp. 172-177, 189-190, tr. it. cit., pp. 144-149, 159-161).
322 Il transindividuale

umana allo stadio nativo (e persino, come osserva Althusser dopo Freud
e Lacan, allo stadio prenatale!), e inoltre perché non smette di funzionare
attraverso tutti gli altri – almeno, se è vero che la maestra nell’AIS sco-
lastico è ancora la mamma, il responsabile di sezione nell’AIS sindacale
è di nuovo il fratello maggiore, il segretario di partito nell’AIS politico
è sempre papà ecc.
Aggiungiamo per finire che, se il concetto guattaro-deleuziano di
concatenazione collettiva d’enunciazione apre, come noi crediamo, il
programma dello studio storico delle concatenazioni sociosemiotiche
che attualizzano l’assunzione soggettiva dell’interpellazione, e la cui
individuazione circostanziata sarebbe una parte indispensabile di un’analisi
concreta degli apparati ideologici di Stato, un siffatto programma trarrebbe
profitto dall’esser messo in opera ai bordi delle formazioni sociali
capitalistiche (passate e presenti), intendiamo nelle zone in cui la divisione
pubblico/privato vacilla, e quindi in cui i dispositivi di interpellazione che
contribuiscono a confermare questa divisione sarebbero forse in grado di
esibire paradossalmente le linee di antagonismo che celano. L’Anti-Edipo
aveva riaperto questo cantiere, nella tradizione dei lavori di un Frantz Fanon o
di un Robert Jaulin sull’‘etnocidio’, sull’indissociabilità della colonizzazione
politico-economica e dell’imposizione di forme di soggettività specifiche,
e sulle resistenze variegate a questa doppia colonizzazione oggettiva e
soggettiva37. È soprattutto nella rifondazione deleuziana di un concetto di
minorità che questa prospettiva di ricerca troverebbe senza dubbio le sue
linee di sviluppo più ambiziose, una delle prime determinazioni che se
ne danno essendo appunto il mettere in questione la distinzione soggetto
d’enunciato/soggetto d’enunciazione, in condizioni in cui l’isolamento di
una sfera privata si rivela, oggettivamente e soggettivamente, altamente
problematica (il che non significa che una siffatta vacuolizzazione non
possa darsi, ma che le forme di soggettivazione che risultano debbano
essere particolarmente contraddittorie e conflittuali)38. Bisogna infine
ricordare che la teoria deleuziana delle minorità si iscriveva esplicitamente
nell’orizzonte di una rielaborazione teorica dei processi di proletarizzazione

37 Cfr. esemplarmente R. Jaulin, La paix blanche. Introduction à l’ethnocide, Seuil,


Paris 1970, pp. 391-400.
38 Cfr. G. Deleuze, Kafka Pour une littérature mineure, Minuit, Paris 1975, pp. 30-
33, e pp. 149-150, in cui Deleuze e Guattari stabiliscono, nelle condizioni di una
macchina di scrittura minore, la correlazione: nessuna enunciazione che possa
essere schiacciata su di un io che si prende per la causa autonoma dei propri enun-
ciati; nessun enunciato che non coinvolga immediatamente l’insieme del campo
sociale.
G. Sibertin-Blanc - Concatenazioni collettive d’enunciazione 323

contemporanei, e, tramite questa, di una ridefinizione delle condizioni


attuali della lotta di classe. Sarebbe una ragione di più per leggere finalmente
Deleuze nel marxismo del suo tempo – in particolare, diciamo per comodità,
l’althusserismo – per giungere rapidamente a misurare i suoi effetti possibili
nel nostro.

[Traduzione dal francese di Andrea Cavazzini]


325

FRANCISCO NAISHTAT
AZIONE, EVENTO E STORIA.
ONTOLOGIE DELL’ACCADUTO

1. Introduzione

A chi appartiene l’accaduto?1 L’antica opposizione tra natura e cultura


che caratterizzava la Methodenstreit2, per cui i fatti possono essere distinti
in due grandi classi – il tipo causal-esplicativo dei processi naturali (ossia
di catene causali prive di senso intenzionale) e il tipo storico-ermeneutico
dei processi intenzionali (le interazioni umane dotate di senso) – si è andata
stemperando per effetto di due tendenze distinte. Da un lato, la comparsa
delle Annales e della storia sociale ha reso familiare lo studio storico dei
processi di lunga durata, comprendenti le analisi statistiche dell’andamento
dei prezzi, dei tassi di sviluppo demografico, l’incidenza delle malattie e
così via. Lo storico di oggi assume questi processi, e le brusche variazioni
che subiscono, come dati storici di rilievo equivalente alle gesta volontarie
e alle vicende eroiche a cui ci avevano abituato le cronache e la narrativa
della storiografia tradizionale3. D’altra parte, l’accelerazione dei processi
naturali e le loro ricadute fattuali (uragani, pandemie, mutamenti climati-
ci), cui ci ha abituato il nuovo secolo, sono permeati dagli effetti dell’atti-
vità umana e tendono dunque a modificare in misura significativa il nostro
contesto culturale e le modalità della nostra interazione sociale, così da
risultare significativi da un punto di vista storiografico.
Da tempo gli storici non accettano più di ridurre il piano della significa-
tività storica al solo momento delle azioni umane volontarie. Per quanto lo
schema interpretativo dei processi naturali differisca da quello dei processi
intenzionali (dacché i primi vengono sussunti sotto leggi causal-deterministe
o regolarità statistiche, mentre ai secondi appartiene un surplus di senso in-

1 Prendo a prestito l’espressione dall’ingegnoso titolo di un libro di Manuel Cruz


¿A quién pertenece lo ocurrido?, Taurus, Madrid 1995.
2 Sulla Methodenstreit cfr. l’introduzione di P. Rossi a M. Weber, Il metodo delle
scienze storico-sociali, Giulio Einaudi, Torino 1958, pp. 9-43, e R. Aron, Intro-
duction à la philosophie de l’histoire, Gallimard, Paris 1986.
3 Cfr. J. Le Goff (éd.), La Nouvelle Histoire, Éd. Complexe, Paris 2006.
326 Il transindividuale

terpretativo secondo uno schema intenzionale e teleologico), sappiamo oggi


che anche i processi naturali di interazione con l’ambiente – si pensi al ri-
scaldamento globale – debbono essere considerati dal punto di vista ideo-
grafico, nella loro singolarità. All’estremo opposto, anche i fatti storici mag-
giormente soggetti a interpretazione, i più ricchi di senso narrativo, risultano
sfuggenti e non riducibili al senso esplicitamente attribuitogli da coloro che
ne sono storicamente gli attori. Le rivoluzioni, le guerre, le crisi economiche
hanno sicuramente degli attori, ma non è possibile ridurle a un gruppo nomi-
nativo e identificabile di agenti, o soggetti, che ne siano gli artefici, come se
la storia fosse nelle mani di alcuni grandi demiurghi o cospiratori4. Il senso
narrativo dell’evento è insomma ben diverso dal senso psicologico o menta-
le delle azioni che lo producono, e va risolto entro un quadro interpretativo
di tipo storico assai più che entro gli schemi della psicologia sociale.
Tuttavia, da qualche decennio l’azione umana è tornata a essere un tema di
rilievo per le scienze sociali, politologiche e storiografiche. Al di là della di-
sillusione e, per così dire, della ferita narcisistica inflitta dallo strutturalismo e
dalle teorie della lunga durata alla sensibilità epica della storiografia classica,
l’azione è ritornata sul proscenio della storiografia. Una tale evoluzione può
essere spiegata attraverso vari fattori. In primo luogo, le strutture si sono ri-
velate vulnerabili alle contingenze e all’agire umano, individuale e collettivo.
Lo stesso strutturalismo linguistico aveva mostrato con chiarezza, attraverso
i termini saussuriani langue e parole, come la struttura del linguaggio s’in-
carni continuamente in un’effettualità diacronica in grado di produrre novità,
storicità e indeterminatezza5. In secondo luogo, la perdita di fiducia nelle leg-
gi generali della storia e nell’idea di un immanente progresso teleologico ha
condotto lo storico a guardare al piano microstorico e particolare, attribuendo
una marcata importanza agli aspetti etici dell’accadere. Donde un rinnovato
interesse per la responsabilità delle azioni umane, la critica della violenza e
la condanna dei crimini storici di massa6, e una nuova inquietudine degli sto-
rici nei confronti della responsabilità collettiva, vista come il concetto-limite
mediante cui prendere in considerazione gli eventi del passato7. Infine, si as-
siste a un ritorno in storiografia non solamente dell’evento e dell’azione, ma

4 Cfr. H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, tr. it. di S. Finzi, Bompiani,
Milano 2000.
5 F. Saussure, Cours de linguistique générale, Payot, Paris 1916.
6 Sulla storiografia e le catastrofi del Novecento, E. Traverso, Le passé, modes
d’emploi. Histoire, mémoire, politique, La Fabrique, Paris 2005; H. Wieviorka,
L’ère du témoin, Plon, Paris 1998.
7 Cfr. F. Hartog, Régimes d’historicité. Présentisme et expériences du temps, Seuil,
Paris 2003.
F. Naishtat - Azione, evento e storia 327

della stessa narrazione, secondo le forme più tipiche della svolta linguistica
in storiografia: memoria e identità narrativa8, narrativizzazione del passato9,
costruzione tropologica del senso evenemenziale10 ecc. Da questo punto di
vista, l’intento di questo saggio è di affrontare la dialettica tra azione, evento
e storia dal punto di vista dell’ontologia dell’accaduto.

2. Il ritorno dell’azione

L’azione umana è da sempre al centro di narrazioni e studi storici. Lo


si osserva in maniera inequivoca nel mondo classico – a cominciare da
Erodoto e Tucidide, che vedevano nella storia una ‘maestra di vita’, un
racconto esemplare rivolto ai propri contemporanei in cui l’azione è per
eccellenza principio di singolarizzazione storica. Questa tradizione storio-
grafica, già messa in crisi nell’Ottocento dalla nascita della storia sociale,
subisce una rottura radicale con la storiografia delle Annales, che sposta
la ricerca storica dall’asse portante tradizionale, in cui nazione, politica
e Stato si saldavano in gallerie di eroi e di grandi battaglie, privilegiando
invece processi anonimi, meno visibili e spettacolari ma più significativi
sul piano della lunga durata. Le mentalità, la vita quotidiana, le relazioni
di potere entrano in tal modo, nella storiografia novecentesca, a definire i
nuovi compiti della disciplina storiografica, in cui una temporalità codifi-
cata in grandi unità spazio-temporali storicamente discontinue prende il
posto della continuità temporale che sta alla base della storiografia classica.
Questa rivoluzione concettuale ha condotto a una duplice disaffezione
nei confronti dell’azione. Da un lato la centralità storica dell’azione eroi-
ca e dei ‘notabili’ è andata perduta a tutto vantaggio di una storia degli
‘uomini comuni’. Ciò che era sempre rimasto al di fuori della storia acqui-
sisce ora diritto di cittadinanza scientifica: gli istituti domestici, le relazioni
di genere, i manicomi, i tassi di suicidio e di mortalità infantile, le carceri,
il lavoro e il commercio, la povertà, l’ozio, i sistemi educativi… Se gli eroi
non scompaiono del tutto dalla scena narrativa, sono in generale narratori

8 P. Ricœur, Temps et récit. Vol. 1, L’intrigue et le récit historique, Seuil, Paris 1983,
tr. it. di G. Grampa, Jaka Book, Milano 1986; sulla nozione di «identità narrativa»
P. Ricoeur, Soi-même comme un autre, Seuil, Paris 1990, tr. it. di D. Iannotta, Jaca
Book, Milano 1993, pp. 201-262.
9 A. Danto, Filosofia analitica della storia, tr. it. di P.A. Rovatti, Il Mulino, Bologna
1971.
10 H. White, Retorica e storia, tr. it. di P. Vitulano, Guida, Napoli 1978, e Id., Storia
e narrazione, tr. it. di D. Carpi, Longo, Ravenna 1999.
328 Il transindividuale

ed eruditi a farli rivivere, non gli storici di professione. Così, a fianco della
storiografia strutturale, il Novecento conosce tutta una fioritura di storie
romanzate che intendono preservare almeno in parte l’aura delle grandi
figure. D’altra parte, l’idea romantica della storia come soggetto, secondo
cui si dà non già un soggetto nella storia quanto un soggetto della storia,
considerata teleologicamente come progressivo affermarsi della ragione,
della libertà e dell’umanità dell’uomo, risulta una mera figura (Gestalt) ti-
pica di un determinato periodo culturale. Come osserva significativamente
Paul Veyne, lo storico di oggi non si preoccupa tanto della direzione del
treno, quanto di ciò che accade all’interno dei vagoni11.
Questa disaffezione nei confronti dell’azione eroica e della storia come
soggetto non deve però indurci a pensare che l’azione intenzionale sia
stata espulsa dalla storia e sostituita dalla nuova enfasi posta sulle forme
di condotta, sui processi subcoscienti o sulle ferree strutture latenti della
vita sociale. È un errore di metodo sostituire al fascino di una concezione
eroica della storia il fascino per strutture sociali trasformate in istanze rei-
ficate della vita di una società. È vero che per buona parte del Novecento
l’impronta del modello nomologico-causale delle scienze positive e della
spiegazione funzionale e/o strutturale delle scienze sociali ha condotto a
trascurare puramente e semplicemente l’azione intenzionale e la contin-
genza storica, dimenticando il peso dell’attività umana e delle scelte dei
singoli attori dello svolgersi storico. Le strutture e i processi di lunga du-
rata acquistano interesse storico proprio in quanto considerano l’attività
umana come luogo e origine del suo stesso riprodursi: è questo riferimento
ultimo all’interazione umana a giustificare l’immanenza storica dei proces-
si sociali, anche dei più ferrei. È su questo punto che ha insistito anche uno
dei fondatori delle Annales, lo storico Marc Bloch:

Dietro i tratti concreti del paesaggio, dietro gli scritti che sembrano più fred-
di, dietro le istituzioni in apparenza più distaccate da coloro che le hanno create
e le fanno vivere, sono gli uomini che la storia vuol afferrare. Colui che non
si spinge fin qui, non sarà mai altro, nel migliore dei casi, che un manovale
dell’erudizione. Il bravo storico, invece, somiglia all’orco della fiaba. Egli sa
che là dove fiuta carne umana, là è la sua preda12.

11 P. Veyne, Comment on écrit l’histoire, Seuil, Paris 1979, p. 30.


12 M. Bloch, Apologia della storia o Mestiere di storico, tr. it. di G. Gouthier, Ei-
naudi, Torino 2009, p. 184. È naturalmente possibile concepire una storia della
Terra – Buffon ne scrive una nel 1749 – o una storia naturale del Cielo, come
quella che scrive Kant nel 1755. Ma in questi casi occorre distinguere tra storie
naturali e storia tout court, ove i processi non intenzionali formano soltanto il
contesto dell’attività sociale e in generale delle interazioni umane. Il che non ci
F. Naishtat - Azione, evento e storia 329

In ultima istanza, le relazioni tra storia e azione attengono sempre


all’ambito della teoria e della filosofia della storia. Smentendo ogni dia-
gnosi di azzeramento dell’intervento intenzionale umano, gli eventi della
fine del secolo scorso, tra cui il crollo del muro di Berlino, hanno prodotto
un duplice effetto. Da un lato essi hanno smantellato quanto restava della
metafisica idealista della storia, con la sua idea di progresso ineluttabile e
di un senso finale della storia universale. E d’altra parte hanno accentuato il
senso di radicale contingenza e incertezza della storia, rafforzando una pro-
spettiva incentrata sull’azione. L’azione umana è quindi ricomparsa in seno
alla teoria sociale e storica come soglia di resistenza alla reificazione delle
relazioni e delle strutture. Sul piano epistemologico poi l’enfasi sulle pecu-
liarità del linguaggio della storiografia ha ristabilito il racconto vero come
forma caratteristica della produzione storiografica, restituendo all’azione
umana e alla drammaticità del suo svolgersi un ruolo centrale nella com-
prensione storica. Di certo il modo in cui questa risorgenza dell’azione
entra in relazione con la storia non può più essere lo stesso dell’impianto
classico, dovendo passare attraverso il complesso filtro delle controversie
ontologico-linguistiche ed epistemologiche – un campo di relazioni non
sempre chiare e univoche, e non esente da aporie e difficoltà teoriche che si
intrecciano su piani differenti. È questo asse teorico che ci proponiamo di
affrontare qui, esaminando le connessioni tra una filosofia della storia e una
filosofia dell’azione informate della svolta linguistica degli ultimi decenni.

3. Dall’ontologia dell’azione all’ontologia dell’evento

Esistono almeno due modi di affrontare l’ambito problematico di storia


e azione. Anzitutto, l’approccio ontologico, già al centro dell’antica con-
troversia metafisica tra libertà e determinismo. Qui, il tema in esame ci
pone di fronte a:
(1) l’esistenza e la portata delle azioni umane;
(2) l’intreccio tra libertà e causalità, tipico dell’azione;

impedisce di osservare la tendenza, ispirata dalle scienze statistiche e influenzata


dalla scienza empirica, a una sorta di naturalizzazione della storia, in cui il fascino
della descrizione statistica e di altri arnesi della scienza positiva genera l’illusione
di una storiografia priva sia di attori che di azione umana. Di fatto però questi stru-
menti assumono rilievo storiografico solo in quanto agevolano una comprensione
che poggia in ultima istanza su dinamiche intenzionali.
330 Il transindividuale

(3) il corrispondente problema del ruolo dell’iniziativa nella storia, ov-


vero del limite e del controllo che ogni attore esercita nei confronti della
propria azione;
(4) la relazione tra azione ed eventi di vasta portata;
(5) la parte di responsabilità storica di un attore, ossia la relazione tra
l’iniziativa individuale e le successive descrizioni e interpretazioni genera-
te dall’insieme degli effetti previsti e imprevisti dell’azione. Si tratta della
relazione tra il senso esplicitamente attribuito all’azione (ciò che la moti-
va) e il senso storico o narrativo (storiografico) di essa, che affiora nel mo-
mento in cui l’evento viene preso di mira e pone in forma acuta il problema
della paternità dell’azione e della sua collocazione storica, in particolare
per quanto riguarda le azioni collettive.
Sul piano epistemologico o metastorico ricompare invece la vecchia
opposizione tra metodologia storica e struttura delle scienze nomologico-
causali. Si tratta di:
(6) stabilire come rendere ragione dei fatti storici, e se tali spiegazioni
siano di tipo nomologico-deduttivo e se alcune versioni di esse si avvicini-
no maggiormente alla storicità;
(7) stabilire se il comprendere (Verstehen) è un’operazione complemen-
tare rispetto allo spiegare (Erklären), o incompatibile con esso;
(8) stabilire lo status del racconto o della narrazione rispetto all’opera-
zione di spiegare e/o comprendere.

Dato che il secondo nucleo di problemi forma parte dei temi epistemo-
logici più familiari e più classici della metateoria storica13, e visti i limiti
di spazio di questo articolo, ci concentreremo sul primo gruppo di proble-

13 La controversia epistemologica fondamentale della metodologia storica ha riguar-


dato per decenni lo status della spiegazione storica, in seguito alla comparsa, nel
1942, dell’articolo di Hempel «The Function of General Laws in History», in
The Journal of Philosophy, 39, 1942, pp. 35-48. La pubblicazione, qualche anno
dopo, di Idea of History di Collingwood dette il via alla polemica, che si svilup-
pò tra i due poli delle tesi nomologiche di Hempel e delle idee comprensiviste
di Collingwood, in dialogo con la tradizione ermeneutica tedesca dei primi del
Novecento. Si veda in proposito R.G. Collingwood, The Idea of History, Oxford
University Press, Oxford 1946. William Dray, Raymond Aron, Rex Martin, Georg
Henrik von Wright, per citare solo alcuni di coloro che presero parte al dibattito,
hanno sviluppato in seguito il punto di vista dell’intenzionalità intrinseca nelle
spiegazioni storiografiche e dell’impossibilità di derivarle da leggi generali. Al
riguardo, si veda R. Martin, Historical Explanation, Cornell University Press,
Ithaca 1977, e anche M. Cruz, «Comprensión histórica, acción e identidad», in
Anales del Seminario de Metafísica, 28, 1994.
F. Naishtat - Azione, evento e storia 331

mi. La nostra analisi si svolgerà quindi sull’intricato terreno dell’ontolo-


gia dell’azione in rapporto alla storia, pur muovendoci sempre sul piano
del linguaggio, il filo di Arianna che ci eviterà di restare intrappolati nel
reticolo delle aporie metafisiche. Da questa prospettiva, e in funzione delle
difficoltà concettuali che si presenteranno, daremo spazio ai topici episte-
mologici della storia, privilegiandone i più direttamente legati alla proble-
matica dell’azione.

3.1. Ontologia dell’azione, linguaggio e storia

Ammettere che la problematica dell’azione storica possa essere trattata


sul piano ontologico non significa riproporre l’impianto della metafisica
classica. Si tratta invece di valutare se si possa rendere ragione della pre-
senza di azioni intenzionali in condizioni determinabili mediante sistemi
di relazioni causali. È noto come Kant, postosi il problema, l’abbia risolto
attraverso la teoria dei due mondi – il mondo naturale, chiuso in un deter-
minismo causale, e il mondo della libertà, aperto su di una libera causalità
e iniziativa. La forza della soluzione critica stava nel porre la possibilità
dell’azione volontaria in termini di prospettiva, considerandola il prisma
attraverso cui valutare la condotta umana e liberando il problema della
libertà umana dalla necessità di risalire alla conoscenza delle cause prime,
come richiedeva invece la metafisica dogmatica della tradizione aristoteli-
ca. Kant cercava in tal modo di risolvere il problema dell’azione mediante
un come se (als ob): dato che non ci è dato raggiungere alcuna conoscenza
ultima del mondo, e che di conseguenza il sapere empirico lascia aperta
la possibilità di una causalità libera, allora la ragione morale ci impone
di dare un contenuto pratico a questa mera possibilità, facendo come se la
nostra condotta fosse sempre il risultato del nostro essere liberi, ossia come
se dal fatto che dobbiamo fare A, allora possiamo farlo14.
Un tale dualismo prospettivista funziona sul piano a priori dell’interio-
rità morale, ove in linea di principio è possibile separare i due mondi e pu-
rificare i precetti che ci guidano, separandoli dall’orientamento empirico.
Ma sul terreno della storia effettiva e a posteriori, ove il problema non è
isolare un procedere libero, ma è dato dall’intreccio di libertà e necessità,
la soluzione kantiana non risolve del tutto il problema. Kant stesso ne era
perfettamente consapevole, considerando la questione della storia come

14 La legge morale è così la ratio cognoscendi della libertà, che a sua volta è la ratio
essendi della legge morale. Si veda I. Kant, Critica della ragion pratica, tr. it. di
F. Capra, riveduta da E. Garin, Laterza, Bari-Roma 1989, p. 4.
332 Il transindividuale

radicalmente problematico. Di fatto, Kant si è trovato ad affrontare questa


problematica quasi nello stesso momento in cui elaborava i principi della
filosofia pratica, nel 1784. Ma la soluzione che egli delinea per pensare
il problema della libertà nella storia non raggiunge il grado di radicalità
critica della sua teoria dei fondamenti della morale: è noto come egli ripro-
ponga una visione teleologica della storia, appoggiandosi su di un punto di
vista (Standpunkt) morale che lo conduce a interpretare la causalità stori-
ca come una saggezza della natura, come se le inclinazioni che muovono
l’agire umano risultassero a loro volta da un’astuzia della natura15, e ve-
dendo nel gioco di queste inclinazioni naturali la realizzazione inconsape-
vole del progredire della libertà nel mondo16. Ma Kant non spiega come sia
possibile l’intervento libero e consapevole degli uomini all’interno della
storia, ossia come l’azione libera si intrecci consapevolmente con la neces-
sità. Il problema non gli sfuggiva di certo, e lo dimostra l’idea dell’Illumi-
nismo come uscita (Ausgang) dallo stato di minorità, ove viene postulata
una realtà storica che avanza non solo in virtù di impulsi umani naturali e
incanalati dall’astuzia della natura, ma soprattutto grazie al libero e delibe-
rato intervento umano. Tuttavia, gli esiti cui giunge la sua filosofia critica
nei vent’anni che seguono l’Idea di una storia universale dal punto di vi-
sta cosmopolitico (1784) rafforzano la prospettiva di un finalismo storico
poggiante sulla teoria del giudizio teleologico, senza affrontare lo scoglio
ontologico dell’intreccio tra libertà e necessità.
Lo stesso problema viene riassunto da Marx in una celebre formula del
18 Brumaio di Luigi Bonaparte:

Gli uomini fanno la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in


circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che essi trovano imme-
diatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalla tradizione17.

In termini di filosofia dell’azione, si tratta della possibilità dell’azione


umana all’interno di un mondo empirico che ammette condizioni causali
indipendenti dall’agente. E forse è proprio in questi termini che possiamo

15 È stato Eric Weil a introdurre l’idea che nella filosofia della storia di Kant operi
una «astuzia della natura» («ruse de la nature»), che Weil distingue dal concetto
hegeliano di «astuzia della ragione», che rimanda a un soggetto della storia inesi-
stente in Kant. Si veda E. Weil, Problèmes kantiens, Vrin, Paris 19902, p. 118.
16 I. Kant, «Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico», in Id.,
Scritti di storia, politica e diritto, tr. it. di F. Gonnelli, Laterza, Roma-Bari 1995,
pp. 29-44.
17 K. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, tr. it. di P. Togliatti, Editori Riuniti,
Roma 1991, p. 7.
F. Naishtat - Azione, evento e storia 333

cercare di delineare una soluzione. Affrontando la stessa questione, Paul


Ricoeur rimanda a una raffinata idea di Georg Henrik von Wright. Questi
proponeva un parallelo con la situazione di un intervento umano su di un
sistema cibernetico semichiuso, isolato secondo determinate condizioni
causali ma in cui si dà un certo gioco nelle condizioni iniziali, in modo da
lasciare uno spazio per l’iniziativa esterna. In questo modello semplifica-
to all’estremo, possiamo renderci conto di cosa significhi agire secondo
determinati condizionamenti causali. Per von Wright, agire è intervenire,
ossia: a) si dà un’indeterminatezza iniziale; b) una volta messo in moto il
meccanismo per mezzo di una nostra iniziativa, il sistema funziona secon-
do regole proprie. È chiaro che il modello di von Wright si limita semplice-
mente a suffragare l’idea che non vi è contraddizione tra causalità e libertà.
Da qui in poi, vi è uno iato radicale tra la situazione storica e il sistema
cibernetico: l’azione storica non si svolge mai in condizioni di isolamento
ambientale, e non può venire rappresentata con lo stesso grado di forma-
lizzazione discreta ed esaustiva del modello cibernetico. Anche laddove la
storia ammetta condizionamenti e regolarità causali estemporanee rispetto
all’agente, esiste una contingenza densa tra l’intervento umano e gli effetti
prevedibili di esso, per cui ogni ramificazione che li rappresenti ex ante
avrà un grado di imprecisione e di errore che aumenta mano a mano che gli
effetti rappresentati si allontanano dal primo movimento, finendo per di-
ventare del tutto oscura a partire da un momento sufficientemente distante
nel tempo18.
Il pregio del modello di von Wright è tuttavia l’idea – invero familiare
al senso comune – che l’azione intenzionale è un intervento, un’iniziativa
in un ambiente indipendente e soggetto a propri condizionamenti causali.
Per quanto banale ci appaia questo modello, possiamo trarne quindi alcu-
ne conseguenze di rilievo per un’ontologia dell’azione storica. In primo
luogo, l’azione ha la duplice caratteristica di scaturire dall’iniziativa di un
agente e di fissarsi nel mondo mediante una connessione causale empirica,
potenzialmente aperta ed empiricamente indipendente rispetto alla serie
dei propri effetti. Portando all’estremo la situazione, Donald Davidson
ha sostenuto che tutto ciò che noi agenti umani facciamo direttamente è

18 Il punto di vista di G.H. von Wright si trova nel classico Spiegazione e compren-
sione, tr. it. di G. Di Bernardo, Il Mulino, Bologna 1977. Per il commento di
Paul Ricoeur, si veda P. Ricoeur, «Dall’azione all’agente», in Id., Se stesso come
un altro, cit., pp. 173-200. Circa l’impossibilità di una rappresentazione discreta
ex ante, si veda H. Bergson, Essai sur les données immédiates de la conscience,
Presses Univ. de France, Paris 1991, p. 133 e sgg, tr. it. di V. Mathieu, Paravia,
Torino 1951, p. 147 e sgg.
334 Il transindividuale

muovere il nostro corpo e che il resto è «up to nature»19. Senza aderire


al suo naturalismo, che àncora l’azione al movimento corporeo (come se
tale movimento non fosse a sua volta attraversato da mediazioni simboli-
che e culturali in grado di determinare anche i movimenti apparentemente
più naturali del corpo), possiamo convenire con Arthur Danto che agire è
sempre esercitare una capacità basica – un’azione basica nel linguaggio
di Danto – che non richiede alcuna azione intermedia e che abbiamo ap-
preso a controllare senza bisogno di alcuna osservazione, ossia senza che
vi siano margini di incertezza empirica tra il movimento e il risultato di
esso. Qualunque sia quest’azione basica, se un movimento naturale del
corpo nello spazio o un movimento di esso preinterpretato simbolicamente
– come pronunciare una parola, salutare o fare una smorfia – resta il fatto
che per compiere determinate azioni ne compiamo direttamente altre per le
quali non ravvisiamo alcuna azione intermedia. In questo senso preciso, il
movimento del proprio corpo è certamente una tra le nostre più originarie
capacità basiche, ma non è né indefettibile, né la sola di cui disponiamo20.
Una volta ammesso questo concetto, possiamo ammettere che in ulti-
ma istanza l’azione (non basica, complessa) è ciò che viene attuato me-
diante serie di azioni basiche. Aprire la porta è un’azione complessa che
compiamo per mezzo di azioni basiche quali allungare il braccio, afferrare
la maniglia, girare il polso e spingere. Tuttavia, mentre i movimenti del
braccio e del polso non richiedono alcun tentativo preliminare, né l’agente
ha bisogno di osservarli per essere consapevole di compierli21, l’apertura
della porta potrebbe riservarci una sorpresa se, ad esempio, la trovassimo
bloccata da una forza contraria esercitata dal lato opposto al nostro. Qui
avrebbe senso dire che il nostro tentativo di aprire la porta non ha prodotto
il risultato sperato. La distinzione tra il tentativo e l’azione ha perciò senso
solo in riferimento all’azione complessa, ove cioè si dia un momento in-
termedio tra il movimento corporeo e il risultato di quest’ultimo. Non pos-

19 D. Davidson, Essays on Actions and Events, Oxford Clarendon Press, Oxford


1980, p. 59.
20 Sulla nozione di azione basica, cfr. A.C. Danto, Arthur, «Basic Actions», in N.S.
Care, C. Landesman (ed. by), Readings in the Theory of Action, Indiana University
Press, Bloomington & London 1968, pp. 93-112. Sulla relatività di questa nozione
rispetto alle nostre capacità acquisite ed ereditate, si veda J. Searle, Intentionality.
An essay in the Philosophy of Mind, Cambridge Univ. Press, Cambridge, Mas-
sachusetts 1989, p. 100, e i miei commenti in F. Naishtat, Problemas filosóficos en
la acción individual y colectiva. Una perspectiva pragmática, Prometeo, Buenos
Aires 2005, p. 109 e sgg.
21 Sulla nozione di «conoscenza senza osservazione», cfr. G.E.M. Anscombe, Inten-
tion, Basic Blakwell, Oxford 1979.
F. Naishtat - Azione, evento e storia 335

siamo parlare di tentativo di alzare il braccio o di tentativo di dire «ciao»,


a meno di immaginare situazioni artificiali in cui il movimento del braccio
o la possibilità di pronunciare una parola risultino azioni complesse (ad
esempio il caso di una persona a cui è stato appena tolto il gesso e tenta di
alzare un braccio aiutandosi con l’altra mano, o di una persona presa dal
panico che non riesce a spiccicare parola).
Potremmo anche immaginare che, dopo aver aperto la porta, una cor-
rente di vento gelido ci paralizzi dal freddo. In questo caso, l’azione pro-
duce il risultato sperato (aprire la porta), ma gli effetti di questo risultato
ci riservano una sorpresa. Possiamo moltiplicare all’infinito i casi di effetti
indesiderati o imprevisti di un’azione così semplice: l’importante è che,
al fissarsi nel mondo, l’azione entra nel terreno degli effetti probabili e
diviene soggetta, proporzionalmente alla propria parte di imprevedibilità, a
un margine di rischio e di incertezza che costituisce precisamente la condi-
zione ontologica dell’agire.
E così, quel che l’agente fa nel momento in cui agisce sfugge in parte al
suo controllo. La filosofia dell’azione, sotto l’influsso della svolta linguisti-
ca della filosofia contemporanea, ha fatto ricorso alla distinzione fregeana
tra descrizione definita e riferimento per impostare il problema dell’inde-
terminatezza dell’azione (e quindi della mai completa conoscenza di essa)
nei termini di una teoria delle descrizioni definite: una medesima azione
A ricade sotto un ventaglio indeterminato di descrizioni definite D1, D2,…,
Dn, Dn+1,… Alcune di queste descrizioni corrispondono al risultato atte-
so, ossia al risultato intenzionale dell’azione; altre rimandano a un effetto
indesiderato o comunque involontario di essa. Tutte però rimandano alla
stessa azione in quanto traggono origine dalla medesima causalità-agen-
te22. Prendiamo l’esempio di Amleto che, credendo di uccidere una spia,
uccide senza volere il padre di Ofelia. In questo caso la medesima azione
ammette due descrizioni vere:
D1: Amleto uccide uno sconosciuto nella stanza di Gertrude;
D2: Amleto uccide Polonio.
In D1 l’azione è intenzionale, in D2 non lo è. Nel primo caso, infatti,
Amleto attua quel contenuto proposizionale come qualcosa che intendeva
compiere; in D2 lo attua senza esserne consapevole. La differenza rimanda
al tema complesso del dolo e agli intricati distinguo tra dolo e responsa-
bilità. Amleto è responsabile della morte di Polonio dacché, essendo con-

22 G.E.M. Anscombe, Intention, cit. Sull’‘effetto fisarmonica’ rispetto alle descrizio-


ni dell’azione, cfr. J. Feinberg, «Action and Responsibility», in M. Black (ed. by),
Philosophy in America, Cornell University Press, Ithaca 1965, pp. 134-160.
336 Il transindividuale

sapevole di uccidere uno sconosciuto, poteva immaginare che si trattasse


di un cavaliere di palazzo o addirittura del padre di Ofelia. Ma Amleto
non è colpevole nel senso di avere intenzionalmente, dolosamente, ucciso
Polonio. Il diritto penale distingue qui tra omicidio doloso (con intenzione)
e omicidio colposo (accidentale), e riconosce tutta una serie di casi inter-
medi, come il dolo eventuale, a seconda del maggiore o minore grado di
prevedibilità dell’effetto indesiderato da parte dell’agente.

Possiamo dunque tener fermi tre principi.


a) un’azione A può venire osservata, individuata o considerata soltanto se-
condo una determinata descrizione D(A). In altri termini, non è possibile
avere accesso ad A se non mediante una descrizione D(A);
b) esiste almeno una descrizione Di(A) in cui A è intenzionale, ossia tale
che l’enunciato Di(A) descrive ciò che fa l’agente come qualcosa che
questi intende fare;
c) esiste un effetto fisarmonica nelle descrizioni di A, per cui l’arco di
queste può essere arbitrariamente esteso lungo la linea degli effetti e
contrarsi di nuovo intorno a qualche descrizione basica (donde l’effetto
fisarmonica). In tal modo, A è intenzionale secondo alcune di tali descri-
zioni mentre non lo è secondo altre.
L’articolazione di questi principi ci conduce a considerare un aspetto
decisivo dell’azione storica, ossia che i motivi e il risultato atteso di una
qualunque azione A producono al più, qualora l’azione produca l’esito spe-
rato, una descrizione vera D0(A): e tuttavia la stessa azione A, una volta
aperto il vaso di Pandora della sua interazione con altre azioni umane e con
l’insieme di circostanze fortuite che formano la sfera empirica, acquista
una serie di significati indipendenti dal senso originariamente attribuitole
dall’agente (in termini sartriani, è il fenomeno della controfinalità), ossia
ammette una catena di descrizioni o significati Dn(A), Dn+1(A), distinti dai
motivi originali.
Abbiamo fatto ricorso a una teoria delle descrizioni per illustrare
quest’aspetto dell’azione, già messo in evidenza da Hannah Arendt e Paul
Ricoeur23. Ma non c’è alcuna difficoltà a integrarlo in un’interpretazione
dell’azione, dal momento che al ventaglio delle descrizioni corrisponde
a fortiori un ventaglio di possibili interpretazioni e significati, a seconda
degli aspetti dell’azione che vengono più o meno messi in evidenza nel

23 Arendt e Ricoeur attraverso il significato ermeneutico, Sartre come controfinalità.


F. Naishtat - Azione, evento e storia 337

corso del tempo. Già Frege24 avverte che a ogni descrizione corrisponde
un senso (Sinn) distinto dalla denotazione o riferimento (Bedeutung). In
questo modo la filosofia linguistica dell’azione ci pone di fronte all’arduo
problema storiografico-ermeneutico della natura del significato mediante
cui è possibile comprendere (verstehen) un’azione umana, ossia all’alter-
nativa tra:
(a) il cogliere il significato originale che costituisce il motivo di un agente;
(b) la determinazione del significato indipendentemente dall’agente, a
partire dalle interpretazioni dell’impatto storico di esso e sulla scorta
del denso reticolo di interazioni che la incardina nel mondo storico-
sociale.
Laddove Weber e la tradizione diltheyana del Verstehen insistono sul
senso esplicitamente attribuito all’azione, assegnando allo storico il com-
pito di far rivivere (nacherleben), la più recente prospettiva narrativista,
immettendosi in una tradizione di matrice hegeliana, pensa il significato
storico dell’azione come indipendente dai suoi motivi originari. In questa
seconda accezione si insiste sul fatto che gli eventi storici possono trascen-
dere i motivi individuali, i quali vengono oltrepassati dalle interpretazioni
che lo storico è chiamato a dare dell’azione.
Consideriamo gli eventi del dicembre 2001 in Argentina. Per quanto
sia ancora presto per avventurarsi in interpretazioni storiografiche, si può
tuttavia ritenere, sulla scorta di cronache giornalistiche e indagini sociolo-
giche, che questi fatti abbiano avuto in principio motivazioni relativamente
limitate, come il rifiuto del corralito financiero o l’inquietudine sociale
suscitata dagli episodi di saccheggio verificatisi nella cintura urbana at-
torno alla capitale (interpretazione debole). È d’altra parte verosimile, vi-
sto il modo in cui le numerose narrazioni storiografiche e politologiche
hanno sottolineato l’impatto di questi eventi sulla vita politica nazionale,
che la storiografia attribuirà a tali fatti un significato assai più ampio delle
motivazioni dei risparmiatori all’origine della sollevazione popolare, in-
terpretandoli invece nei termini di una frattura politica senza precedenti
nella storia democratica del paese (interpretazione forte). E non sarebbe
corretto liquidare come erronee le interpretazioni forti, argomentando che
i motivi scatenanti furono assai più modesti di quanto richieda una frattura
politica. Di fatto, la drammatica svolta della vita politica nazionale iniziata
nel 2001, e l’inedita proliferazione di attività e mobilitazioni assembleari
che ebbe luogo nel corso del 2002, autorizzano ad attribuire alla rivolta

24 G. Frege, «Senso e significato», in Id., Logica e aritmetica, tr. it. di C. Mangione,


Boringhieri, Torino 1965, pp. 374-404.
338 Il transindividuale

del dicembre 2001 un significato storico estraneo alla mens dei suoi attori.
L’azione si sdoppia così in un senso esplicitamente inteso e in un sen-
so narrativo – entrambi rilevanti per la storiografia. Il primo rimanda alla
soggettività degli attori che hanno dato luogo ai fatti. Il senso narrativo
invece rimanda all’interpretazione degli stessi eventi secondo la sequenza
temporale entro la quale vengono presi in esame dallo storico. In termini di
filosofia dell’azione, il senso narrativo poggia sull’effetto fisarmonica delle
ridescrizioni dell’azione, senza che gli attori riconoscano necessariamente
in queste descrizioni i motivi che in origine ispirarono le loro azioni.

3.2. Collettività, azione ed evento

L’effetto fisarmonica che caratterizza le descrizioni dell’azione rivela un


primo contrasto radicale tra il ‘chi’ dell’azione e i suoi ‘che cosa’. Mentre
questi ultimi si moltiplicano e ridescrivono l’azione secondo la serie in-
determinata delle conseguenze che questa produce, il ‘chi’ ne è in primo
luogo il punto di ancoraggio, operando come una sorta di nome proprio,
di designatore rigido dell’azione che si mantiene invariato lungo la serie
dei ‘che cosa’. Questa è perlomeno l’interpretazione ‘ufficiale’ dell’effetto
fisarmonica, che troviamo nelle trattazioni standard di teoria dell’azione.
Eccone l’esempio tipico: Gavrilo Prinzip muove un dito, preme il grillet-
to, spara un colpo, sposta (involontariamente) molecole di ossigeno verso
il Polo Nord, ferisce l’arciduca Ferdinando, assesta un colpo all’Austria,
vendica la Serbia, rovina le vacanze di Lord Grey, fa infuriare Guglielmo
II, scatena la Prima Guerra Mondiale etc.25 Fintanto che si tratta di mostrare
l’indice di separabilità delle descrizioni rispetto all’agente l’esempio, per
quanto caricaturale, si presta all’uopo.
Questa stessa catena di ridescrizioni mette nondimeno in luce i limiti di
un’ascrizione invariabile: è infatti possibile ascrivere l’azione a Gavrilo
Prinzip in ragione delle prime descrizioni, ma non è possibile ascriverla a
lui solo in ragione delle ultime descrizioni. Lo scoppio della Prima Guerra
Mondiale è lontanissimo dall’essere il risultato o l’effetto di un unico atto
originario, quand’anche si consideri quest’ultimo come un mero detona-
tore. Il trattamento ‘a fisarmonica’ della Prima Guerra Mondiale appare
dunque come ingenuamente lineare e, quanto più la serie delle ridescrizio-
ni affonda nella densità storica, perde ogni verosimiglianza ed efficacia:
a differenza dell’attentato compiuto dal terrorista serbo, la Prima Guerra
Mondiale non può essere ricondotta a un singolo autore.

25 J. Searle, Intentionality. An essay in the Philosophy of Mind, cit., p. 91.


F. Naishtat - Azione, evento e storia 339

I filosofi analitici dell’azione, tuttavia, avrebbero a disposizione un sal-


vacondotto per uscire da questa difficoltà. Dato che l’azione è qualcosa
secondo alcune descrizioni e altro secondo altre descrizioni, è possibile al-
lentare la pretesa individualistica o mono-attributiva della teoria (l’idea di
un unico agente che attraversa l’intera fisarmonica) e ammettere che secon-
do alcune descrizioni l’azione ha un certo artefice (Gavrilo Prinzip) mentre
secondo altre descrizioni ha altri artefici (in questo caso, le nazioni coin-
volte nella tragedia). In tal modo, secondo alcune descrizioni la medesima
azione è individuale; secondo altre, collettiva. Avremmo così a che fare con
un fenomeno simile alla scissione che risulta dallo svolgersi dell’azione nel
mondo: l’azione S cambia non solo natura, ma anche ‘titolare’.
Ma in tal caso, cosa ci autorizza a parlare di una medesima azione? Se
l’agente non è lo stesso, su cosa si fonda l’unitarietà della fisarmonica delle
descrizioni, ossia l’unità referenziale e denotativa che, analogamente alla te-
oria delle descrizioni definite di Frege e Russell, dava consistenza all’‘effetto
fisarmonica’? D’altra parte, la soluzione analitica occulta un salto tra i risulta-
ti dell’azione, unità singolarmente ascrivibili a persone o gruppi, e l’evento in
quanto sintesi o concetto collettivo di vaste dimensioni. Questo iato è sfuggito
all’analisi standard della filosofia analitica dell’azione. Di fatto, nella narra-
zione storica non è possibile concepire il ‘Chi’ dell’azione e la corrispondente
operazione di ascrizione allo stesso modo che nell’azione individuale, poiché
sul piano macroscopico del racconto storiografico non è possibile individuare
singoli ‘autori’ di eventi quali una guerra, una sommossa o una rivoluzione.
Chi sono gli ‘autori’ della Rivoluzione francese? Per tentare di rispondere a
questa domanda, gli storici seguono due procedure complementari:
a) sequenziano l’evento complesso A secondo la cosiddetta spiegazione
genetica, in modo che esso appaia come une successione di eventi di
minore portata E1, E2,…,En, connessi tra loro mediante un nesso cau-
sale e tali da potersi descrivere come risultati di azioni individuali o di
gruppo. In questo modo, ogni evento complesso viene a essere come un
dramma in vari atti, i quali formano a loro volta la base che permette di
ascrivere l’evento nella sua globalità.
b) costruiscono ideal-tipi storici26 (ad esempio: «l’élite illuminata di Parigi e
la borghesia commerciale in ascesa, che si aggiunge a strati contadini spinti
verso la città dalla bancarotta economica»), che costituiscono la sintesi o il
tipo ideale degli attori coinvolti in ciascuno degli atti minori del dramma.

26 Sulla nozione di idealtipo, cfr. M. Weber, «L’‘oggettività’ conoscitiva della scien-


za sociale e della politica sociale», in Id., Il metodo delle scienze storico-sociali,
cit., pp. 53-141.
340 Il transindividuale

Ora, l’evento generale continua a essere privo di autore. Anche se il


dramma complessivo può venire scomposto in una serie di atti, ciascuno
dei quali ascrivibile a un’intenzionalità definita, la sequenza globale non
è infatti contenuta in alcuno di questi atti e non può in alcun modo venire
predetta dai propri contemporanei, anche quando indizi di plausibilità
si offrano ex post allo storico27. Non esiste alcun atto che consenta ai
contemporanei di calcolare o di rappresentarsi la totalità della sequenza,
la quale dunque non è mai il risultato di un’azione volutamente delibe-
rata, come lo è invece un fatto di ordine microstorico28. Il linguaggio
teatrale svela così in maniera incontestabile i propri limiti per la descri-
zione storica, dacché l’opera drammatica possiede in generale un autore
in grado di rappresentarsi il dramma nel suo insieme, mentre si è visto
che gli attori storici agiscono in assenza di copione. Essi sono privi sia
di copione che di autore ma, in quanto attori, formano la carne viva dello
sviluppo storico, la materia soggettiva che il Verstehen, come l’orco della
favola di Marc Bloch, cerca di catturare, di far rivivere o anche soltanto
di capire, per spiegare gli atti del dramma e stabilirne le condizioni di
possibilità.
Per il Verstehen, infatti, a ciascun ideal-tipo corrispondono alcu-
ni individui che soddisfano i criteri dell’azione intenzionale e del reticolo
concettuale motivo-scelta-decisione. Per ognuno di tali tipi generali si dan-
no individui che perseguono una finalità e si muovono teleologicamente
secondo motivi, calcoli, norme e aspettative sociali di ogni genere. Tutta-
via, con l’espressione Rivoluzione francese si indica un’individualità sto-
rica di vasta portata che, in quanto Rivoluzione francese e secondo quella
descrizione, non è affatto il risultato consapevole di un intervento delibe-
rato dei singoli individui coinvolti in essa, come invece lo sono proclamò
l’insurrezione, prese la parola all’Assemblea Nazionale, arrestarono Luigi
XVI a Varennes, tracciò il piano di difesa del fianco nord della capitale,
chiusero chiese e università e cosi via. Riuscire a distinguere i singoli attori
e le loro gesta entro un evento o un processo di vasta portata ci consente di

27 Paul Veyne sviluppa la tesi secondo cui: a) qualunque processo o evento di grandi
dimensioni può essere scomposto in una sequenza di eventi intermedi, ognuno dei
quali ammette una propria spiegazione: è la nota spiegazione genetica in storia; b)
l’evento globale non può essere predetto a partire da alcuno dei mini-eventi che lo
compongono, per cui nessuno può preformarsi una rappresentazione di esso: ciò
in virtù della contingenza ontologica propria dello sviluppo storico, che genera
catene causali multiple la cui complessità è irriducibile a un’arborescenza discreta
e conchiusa. Cfr. P. Veyne, Comment on écrit l’histoire, cit., p. 70.
28 M. Cruz, «Comprensión histórica, acción e identidad», cit.
F. Naishtat - Azione, evento e storia 341

de-essenzializzare la totalità storica e cogliere le soggettività coinvolte in


essa, in modo da spiegare l’evento storico in maniera adeguata e compren-
siva. D’altra parte, occorre riconoscere nell’evento storico di vasta portata
un dramma privo sia di autore che di un disegno deliberato e prevedibile,
così da evitare una visione ingenuamente cospirativa della storia e riuscire
a rendere ragione della complessa molteplicità delle concatenazioni causali
della storia. L’effetto paradossale di questo contrasto è stato distintamente
percepito da Hannah Arendt, che lo riassume affermando che i drammi
della storia hanno certamente degli attori individuali, che rispondono alla
logica dell’azione individuale, ma non hanno autori, differenziandosi così
ab imis da un’opera dello spirito o da un crimine passionale29.
È in questo senso che la logica individualista dell’effetto fisarmonica
risulta troppo angusta. Entro questo modello è ancora valida l’analogia
con il testo letterario proposta da Paul Ricœur. Secondo Ricœur30, quando
S compone uno scritto si fa autore di un testo in cui viene intrappolata
una pluralità di sensi che ne costituisce una dotazione, un fondo illimita-
tamente disponibile: a partire da questo momento, questi sensi vengono
separati dai motivi originari di S, in modo da ammettere una panoplia in-
determinata e aperta di possibili interpretazioni da parte del lavorio sem-
pre inconcluso della critica letteraria. Allo stesso modo, l’azione ‘fissa’
nel mondo un atto originario, un intervento il cui senso viene intrappolato
entro la serie dei suoi effetti e della sua interrelazione sociale, aprendo
così a una sequenza indeterminata e illimitata di possibili interpretazio-
ni secondo un’ermeneutica storica, sociale, politica, giuridica etc. e in
ultima istanza indipendenti dalle motivazioni del suo autore. L’analogia
è suggestiva. Ma come si è detto, trova il proprio limite nel passaggio
dalla vita quotidiana al piano degli eventi storici: a differenza di singole
azioni come mosse il dito e sparò un colpo, la descrizione Rivoluzione
francese non ammette autori. L’analogia di Ricœur tra azione e teoria
del testo letterario s’infrange sullo stesso scoglio del modello ‘ufficiale’
della fisarmonica.
Giungiamo così alla celebre controversia tra individualismo metodolo-
gico ed olismo metodologico. Dell’olismo esistono molte versioni: quella
che ci interessa afferma l’esistenza di formazioni collettive, ad esempio

29 Sulla differenza tra autore e attore, nel quadro della distinzione arendtiana tra
opera e azione, cfr. H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, tr. it. di S. Finzi,
Bompiani, Milano 2000, pp. 97-182.
30 P. Ricoeur, Dal testo all’azione. Saggi di ermeneutica, Jaca Book, Milano 1989,
p. 184 e sgg, e M. Cruz, Filosofía de la historia, Paidós, Barcelona 1996, pp.
151-164.
342 Il transindividuale

popoli o classi sociali, che non possono venire ridotti alle loro singole com-
ponenti ma che, al contrario, sono il frutto di un salto di piano caratteristico
dell’ontologia dell’evento storico. Secondo questa posizione, gli individui
non sono del tutto consapevoli di alimentare, attraverso le proprie azioni,
azioni ed eventi collettivi di più vasta portata, i quali invece possono essere
compresi solo gestalticamente attraverso la figura di una totalità irriducibi-
le, che forma il quadro storico entro cui solo è possibile cogliere l’azione
o l’evento storicamente rilevante. È qui all’opera una sorta di mano invi-
sibile: i singoli attori interpretano, senza esserne consapevoli, un’azione
di più vasta portata, la cui logica risponde alla struttura di una collettività
indivisibile che lo storico ha identificato come una singolarità operante
storicamente. È facile riconoscere qui un impianto di matrice hegeliana:
Hegel considerava le azioni individuali come inestricabili dalla realtà sto-
rica dei popoli, secondo lui gli autentici motori, e quindi l’unico explanans,
dell’evento di vasta portata. Naturalmente Hegel assegnava una funzio-
ne mediatrice tra individui comuni e popoli agli individui straordinari o
grand’uomini, cioè ai grandi leader della storia: ma anche questi non sono
che un mero strumento dei popoli, che alla fine restano i veri e concreti
agenti della storia31.
A differenza delle interpretazioni teleologiche dell’azione individuale,
l’olismo mostra qui un’affinità tanto con un’interpretazione di tipo strut-
turale, per cui la struttura latente è causa dell’azione manifesta, quanto
con un’interpretazione di matrice funzionalista, tale cioè che l’azione in-
dividuale (manifesta) è lo strumento funzionale al servizio di una totalità
latente. In ogni caso, l’evento di vasta portata è considerato irriducibile
all’azione individuale, ed esige di conseguenza che si passi a un’ontologia
sui generis, di natura macroscopica od olistica, ove fanno la loro comparsa
i popoli, le classi, le culture, le nazioni etc. Ora, senza volere negare l’esi-
stenza di un piano macroscopico degli eventi storici, e senza ridurre questi
ultimi al risultato o alla responsabilità di un certo numero di azioni inten-
zionali singolarmente identificabili, è tuttavia possibile ammettere che die-
tro ogni evento macroscopico si trovi non tanto un’ontologia irriducibile
ed essenzializzata delle collettività, quanto una sintesi storiografica operata
dallo storico a partire da una serie illimitata di azioni e fatti di minore por-
tata (individuali e/o di gruppo).

31 G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, tr. it. di G. Calogero e C. Fatta,
La Nuova Italia, Firenze 1981, pp. 65- 103. Circa la nozione hegeliana di figura
(Gestalt), cfr. D. Brauer, «La filosofía idealista de la historia», in M. Reyes Mate
(ed.), Filosofía de la historia, EIAF, Trotta, Madrid 1993, p. 115.
F. Naishtat - Azione, evento e storia 343

Secondo questo punto di vista, un evento macroscopico come Rivo-


luzione francese costituisce una sintesi storica singolare che non risulta
né dall’essenzializzazione di una collettività, né dall’agire deliberato di
un’agency intenzionale, ossia di un ristretto numero di agenti guidati con-
sapevolmente ex ante dall’obiettivo esplicito e dichiarato di scatenare una
rivoluzione. In questo senso l’evento di vasta portata non ha né autore né
autori: il che non significa che i suoi autori siano di natura collettiva, ma
piuttosto che l’evento è una sintesi ex post facto di cui non si dà alcuna
rappresentazione consapevole previa o contemporanea all’azione, come se
fosse un risultato deliberatamente ricercato. Ma, funzionando come una
sintesi o un ideal-tipo, l’evento si struttura sempre attorno ad alcuni attori
che fanno certe cose e interagiscono fra di loro – sebbene ciò che fanno non
sia fatto secondo la descrizione dell’evento macroscopico, che è invece una
sintesi ex post dello storico. In definitiva, tra azione individuale ed evento
storico c’è un vero e proprio salto di piano: ma l’evento non è frutto di un
dislivello ontologico tra individualità e collettività, quanto di uno scarto
interpretativo tra l’interazione individuale, caratterizzata in senso teleo-
logico, e l’interpretazione storiografica che ne viene data attraverso una
trama narrativa.

4. Ontologia dell’evento

In altri termini, l’evento storico, pur sottendendo sempre un insieme di


individui che interagiscono, e pertanto una soggettività che costituisce il
traguardo ultimo della nostra comprensione, non ha né la forma di un’azio-
ne singola (del tipo «S fa A»), né quella di un’azione collettiva del tipo
«S1, S2,…, Sk fanno A». L’evento non può mai essere situato su di un piano
teleologicamente determinato, né ascritto a un responsabile individuale o
collettivo. D’altro canto, non è nostra intenzione fare appello a un’onto-
logia essenzialista dell’evento, che consideri quest’ultimo come una tota-
lità sostanziale, obiettiva e sovraindividuale, affrancata dalle azioni che si
svolgono sul piano microstorico, quasi fosse il prodotto di uno spirito o di
una figura collettiva irriducibile a una qualunque soggettività individuale.
Come descrivere allora la relazione sui generis tra l’evento e le azioni inten-
zionali? Ne abbiamo dato una prima caratterizzazione ut supra, affermando
che ogni evento è una catena causale multipla, o genetica, composta da una
miriade di azioni individuali ma irriducibile ad esse. Questa relazione di
dipendere da… senza però ridursi a… rimanda senz’altro alla relazione di
sopravvenienza, mediante la quale, in un contesto diametralmente opposto
344 Il transindividuale

a quello della filosofia della storia, Richard Hare32 ha cercato di tracciare la


differenza di piano tra valori morali e atti intenzionali: così, la bontà di una
persona S è irriducibile a un qualsivoglia insieme di suoi atti intenzionali
e, tuttavia, qualsiasi alterazione nella valutazione che diamo di S suppone
per Hare che ci sia stata una variazione entro l’insieme considerato di atti
intenzionali di S – e reciprocamente, se si constata una variazione rilevante
degli atti intenzionali di S, allora saremo condotti a rivedere a fondo la
nostra valutazione morale di S. In una parola, la valutazione morale di una
persona non è slegata dalle sue pratiche concrete, sebbene non vi sia nessun
insieme di tali pratiche che serva da definiens della valutazione morale.
Richard Hare ha proposto di chiamare ‘sopravvenienza’ questa relazione,
affermando che le proprietà morali sopravvengono nelle proprietà fattuali
dell’azione, senza peraltro ridursi a un tipo particolare di proprietà fattuali.
Analogamente, si potrebbe sostenere che, sebbene l’evento macrosco-
pico non sia riducibile alla responsabilità individuale di alcuni singoli, né
a un numero determinato di azioni individuali, tuttavia esso sopravviene
nelle azioni e interazioni fra individui, nel senso che qualsiasi modifica-
zione nella caratterizzazione dell’evento comporta una revisione della base
empirica e pratica di esso, e quindi della catena di azioni che lo formano: e,
reciprocamente, qualora si dia una modificazione (significativa) della sua
base empirica e delle azioni che lo costituiscono, allora occorre rivedere il
carattere dell’evento in quanto tale. In questo modo, si riescono a salvare
allo stesso tempo sia le azioni intenzionali che l’irriducibilità dell’evento,
respingendo così sia la tentazione dell’essenzialismo che quella del ridu-
zionismo.33

32 Si dice che una proprietà P sopravviene in una classe di proprietà Q se e solo se:
1) se (∃x) tale che P(x), allora (∀z), tale che z è indiscernibile da x rispetto a Q,
si dà P(z); 2) x non può variare rispetto a P, cessare di essere P o diventare più (o
meno) di P senza mutare rispetto a un qualche membro di Q. A partire dal 1970
Davidson prese da Richard Hare il termine sopravvenienza (Hare lo utilizzava nel
contesto di una discussione relativa ai termini di valore, come bello o buono, e
alla relazione tra questi e le proprietà fattuali) per pensare la relazione tra concetti
mentali e concetti fisici, allo stesso modo in cui in Hare i concetti di valore soprav-
vengono nei concetti fattuali senza ridursi ad essi. Si veda R. Hare, The Language
of Morals, Clarendon Press, Oxford 1952, pp. 80-88. Per Davidson sono i concetti
mentali che sopravvengono nei concetti fisici senza ridursi ad essi (cfr. «Mental
Events» in D. Davidson, Essays on Actions and Events, cit., pp. 207-225). Per una
discussione generale sull’idea di sopravvenienza, si veda J. Kim, Supervenience
and Mind, Cambridge Univ. Press, Cambridge 1993.
33 D. Brauer, «Rememoración y verdad en la narración historiográfica», in M. Cruz,
D. Brauer (ed.), La comprensión del pasado. Escritos sobre filosofía de la histo-
ria, Herder, Barcelona 2005.
F. Naishtat - Azione, evento e storia 345

La relazione di sopravvenienza ci mette di fronte alla necessità, da parte


degli storici e dei sociologi, di diradare concetti generali quali Rivoluzione
francese per scoprire le interazioni concrete tra gli attori storici e rendere
ragione dell’evento in modo adeguato dal punto di vista della comprensio-
ne, ossia cogliere la soggettività impegnata nell’azione. Da una lato, occor-
re evitare prese di posizione ingenuamente teleologico-individualiste, che
condurrebbero a pensare cospirativamente l’evento storico come impresa
associativa di pochi agenti che si mettono d’accordo per fare la rivoluzione
come farebbero per costruire un museo o un ponte. D’altra parte però non
si può concepire l’evento come del tutto autonomo rispetto alle interazioni
tra individui, che intrecciandosi in processi di minore portata e secondo
complessi rapporti di causalità forniscono la materia prima dello svolgersi
storico. Occorre naturalmente scongiurare il pericolo di una visione in-
genuamente empiristica della sopravvenienza in ambito storico, per cui,
una volta determinati i fatti umani di minore portata, l’evento più vasto
risulterebbe fissato una volta per tutte, come se ci fosse una corrispondenza
biunivoca tra accadimenti su scala minore ed eventi macroscopici. In real-
tà, tra gli accadimenti definiti dalle azioni nel quadro di condizioni strut-
turali specifiche e l’evento storico propriamente detto si frappone il qua-
dro interpretativo formato dal contesto e dall’orizzonte entro cui avviene
quell’estrapolazione di senso che caratterizza l’evento. Non è vero che, una
volta dati i fatti sul piano microstorico, l’evento macrostorico risulta defi-
nito, dato che i medesimi fatti possono dare luogo, a seconda del quadro
interpretativo e del contesto adottato nel processo di comprensione, a even-
ti diversi, analogamente al modo in cui nella meccanica quantistica l’osser-
vazione e il contesto del laboratorio possono alterare il comportamento del
fenomeno osservato34. Non si tratta solamente del fatto che il passato si tra-
sforma nella narrazione storica a seconda dell’ampiezza temporale presa in
considerazione – un fenomeno percepito distintamente dal narrativismo, a
cominciare da Arthur Danto, e che ci insegna come il passato sia altrettanto
aperto del futuro. Si tratta anche del fatto che il contesto interpretativo
entro il quale vengono considerati i fatti svolge un ruolo costitutivo nella
conformazione ontologica dell’evento interpretato. La notte del 14 luglio
1789, presa in due contesti interpretativi sensibilmente diversi, definisce
eventi diversi. È noto come nel proprio diario personale Luigi XVI avesse

34 Sull’‘apertura del passato’ come condizione storiografica propria della narrazione


e legata al carattere aperto del futuro, cfr. A. Danto, Filosofia analitica della sto-
ria, cit. Devo a una conversazione con Oscar Nudler l’idea di collegare la nozio-
ne di sopravvenienza a quella di contesto interpretativo, che permette di evitare
l’idea di una sopravvenienza ingenuamente empirista.
346 Il transindividuale

scritto, in corrispondenza di quel giorno, Rien, nulla. Luigi XVI non era uno
storico, e neppure un politico particolarmente perspicace: era un monarca
passabilmente miope, talmente moderato da sconfinare nell’immobilismo.
Tuttavia, il Rien segnato quel giorno sul diario reale non ha nulla di ecce-
zionale e illustra il fenomeno su cui vogliamo insistere: ossia, che gli even-
ti sopravvengono nei fatti e nelle azioni di minore portata, ma sempre entro
un quadro interpretativo, carico non soltanto dell’ampiezza con cui viene
trascelto il passato ma anche di valori e di una pre-interpretazione della
realtà, di modo che solo muovendosi entro il medesimo quadro è legittimo
procedere dall’invariabilità dei microfatti all’invariabilità dell’evento. La
relazione tra evento e azione non poggia su una qualunque relazione di
sopravvenienza, ma su di una sopravvenienza ermeneuticamente condizio-
nata dal contesto interpretativo.

[Traduzione dallo spagnolo di Luca Scarantino]


347

B. KARSENTI
IL TOTEMISMO RIVISITATO

Alla memoria di Michel Cartry

L’interrogativo che sottende, nella tradizione sociologica francese, l’esa-


me del totemismo, concerne lo statuto di quelle ‘cose sociali’ di cui Dur-
kheim fa l’oggetto specifico della scienza che intende fondare. Nella prima
delle Regole del metodo sociologico, quella che esige di «trattare dei fatti
sociali come delle cose», Durkheim non si era affatto limitato ad enunciare
una proposta di metodo. Aveva anche posto le basi di un certo realismo,
alla cui coerenza non avrebbe mai smesso di lavorare, fino alle Forme ele-
mentari della vita religiosa, sua ultima opera. La seconda prefazione alle
Regole indicava il problema con una frase di cui non sarà difficile in segui-
to sottolineare l’ambiguità, o addirittura l’incoerenza: «Noi non diciamo
che i fatti sociali sono cose materiali, bensì che essi sono cose allo stesso
titolo in cui lo sono le cose materiali, per quanto in un’altra maniera»1. Tra
il ‘titolo’ e la ‘maniera’, come distinguere? A voler risolvere la consistenza
delle cose sociali in una realtà puramente rappresentativa, cioè mentale, si
è ricondotti ad un idealismo di principio che mal si accorda con il metodo
empirico destinato a restituire ai fatti sociali il loro peso specifico, e soprat-
tutto la loro dimensione di esteriorità irriducibile. Per Lévi-Strauss2, come
d’altronde per Merleau-Ponty quando ne segue i passi3, questo è il cattivo
Durkheim, prigioniero di un’antinomia insolubile, dedito a conciliare l’in-
conciliabile, cioè le cose e le rappresentazioni. Gli si preferirà quello – del

1 E. Durkheim, Les règles de la méthode sociologique, PUF, Paris 1987, p. 12, tr.
it. a cura di A. Negri, Sansoni, Firenze 1970, p.10.
2 Cfr. Cl. Lévi-Strauss, «La sociologie française», in G. Gurvitch (dir.), La socio-
logie au XXème siècle, II, PUF, Paris 1948; Id., «Introduction à l’œuvre de Marcel
Mauss», in M. Mauss, Sociologie et anthropologie, PUF, Paris 1966, tr. it. di F.
Zannino, in M. Mauss, Teoria generale della magia e altri saggi, Einaudi, Torino
1965, pp. XV-LIV.
3 Cfr. M. Merleau-Ponty, De Mauss à Lévi-Strauss, Signes, Gallimard, Paris 1960,
tr. it. di G. Alfieri, cura di A. Bonomi, il Saggiatore, Milano 1967.
348 Il transindividuale

resto, collaboratore di Mauss – delle Forme primitive di classificazione4,


ove un intellettualismo sociologico molto più schietto è condotto ad af-
fermarsi, segno che la categoria di ‘cosa sociale’ deve essere gettata alle
ortiche. Con essa è anche l’interpretazione durkheimiana del totemismo
che può essere congedata: quest’ultima si ridurrebbe alla proiezione di una
realtà sociale sostanzializzata a priori, visione sommaria del simbolismo
che lo riconduce all’emblema e lascia sfuggire la sua logica specifica.
Il fatto che la prospettiva strutturale si sia costruita in larga parte contro
questa forma di realismo non rende tuttavia quest’ultimo ipso facto privo di
pertinenza. Vorremmo mostrare qui che a riguardo del totemismo la teoria
durkheimiana conteneva molto di più, e talvolta tutt’altro, rispetto a ciò
che Lévi-Strauss gli fa dire e a ciò che la storia dell’antropologia ha voluto
serbare dopo di lui. La posta in gioco non è semplicemente la riabilitazione
di un classico o la riparazione di un’ingiustizia. È, più fondamentalmente,
la riattivazione del tipo di interrogativo operante nelle Forme, interroga-
tivo che in compenso illumina dall’interno, e anche disloca, questa pro-
spettiva strutturale che pretendeva superarlo. È possibile riassumere in una
parola il cuore del problema: ciò che è in gioco nell’analisi del totemismo
non è tanto il modo in cui il sociale è proiettato, quanto il modo in cui le
cose sociali si fabbricano attraverso lo stesso movimento di costituzione
del gruppo. La condanna da parte di Lévi-Strauss, che oppone alla teoria
dell’origine sociale del simbolismo una teoria simbolica della società, si
rivela a tal proposito riduttiva, troppo presto incline a individuare una di-
namica di proiezione e a vedervi il segno di una generalizzazione abusiva,
fondata su di una problematica sociologica che si dà a priori la soluzione
del problema che intenderebbe risolvere. Difenderemo qui un diverso pun-
to di vista, fondato sulla constatazione per cui Durkheim avrebbe condotto,
confrontato all’etnografia australiana, una forma di generalizzazione di cui
l’antropologia strutturale resta in effetti debitrice, e che getta su quest’ul-
tima una luce suscettibile di modificarne il volto, di problematizzarla e di
rilanciarla in una direzione inattesa. Per dirlo in altri termini, le cose sociali
che Durkheim si è sforzato di portare alla luce, sottoforma di totem, non
erano presupposte dalla sua teoria sociale, ma sono state in larga misura
scoperte nei lavori di Spencer e Gillen, in Strehlow e Howitt5. Ed è questo

4 E. Durkheim, M. Mauss, «De quelques formes primitives de classification», in


Année sociologique, 6, 1901-02, pp. 1-72, tr. it. di A. Macchioro, in E. Durkheim,
H. Hubert, M. Mauss, Le origini dei poteri magici, Einaudi, Torino 1951, pp. 17-92.
5 B. Spencer, F.-J. Gillen, The native tribes of Central Australia, Macmillan, Lon-
don 1899; The Northern tribes of Central Australia, Macmillan, London 1904; C.
Strehlow, Die Aranda und Loritja Stämme in Zentral Australien, Joseph Baer &
B. Karsenti - Il totemismo rivisitato 349

lavoro di generalizzazione dei fatti etnografici che gli ha permesso di dare


inizio ad un’interrogazione inedita che Lévi-Strauss ha chiuso troppo pre-
sto dichiarandola sorpassata.

1. La cosa churinga

In risposta ad un attacco che, in un contesto politico assai teso, lo ac-


cusava di germanizzare il pensiero francese, Durkheim aveva ricordato la
‘rivelazione’ costituita per lui dalla lettura di Robertson Smith, punto di par-
tenza dell’elaborazione della sua teoria del sacro6. Ma quando si tratta di
caratterizzare le cose sacre che illustrano questa intuizione, e farne altra cosa
che un’idea evanescente, è al churinga degli Arunta d’Australia che occorre
piuttosto rinviare, ed alla descrizione canonica che ne forniscono Spencer
e Gillen. I churinga sono dei pezzi di legno o di pietra di forme variabili
di cui ogni gruppo possiede una collezione. Alcuni recano un ornamento
che li singolarizza, un’incisione o un disegno. Conservati religiosamente
in luoghi speciali (l’ertnatulunga), utilizzati in certi rituali importanti, essi
figurano tra «le cose più eminentemente sacre», come indica la parola che
serve a designarli – in forma aggettivale, essa significa precisamente ‘sa-
cro’, ed interviene come qualificativo generale degli atti rituali – cosi come
i divieti che hanno ad oggetto la loro manipolazione e il loro contatto con
agenti profani, quali le donne o i giovani non-iniziati. Durkheim ha dunque
delle ragioni per proporre la seguente definizione: «Il churinga, usato come
sostantivo, è dunque la cosa che ha come caratteristica essenziale quella
di essere sacra»7. Appoggiandosi sulla cosa che è il churinga, il problema
è quindi quello di sapere quale rapporto può venir concepito tra il gruppo,
queste cose particolari e gli altri esseri del mondo, tra i quali si trovano gli
animali o le piante cui rinvia la logica totemica di cui il churinga è, secondo
Durkheim, l’operatore. Per rispondere, è opportuno attenersi al churinga

co., Frankfurt a.M. 1907-1921. Spencer era zoologo, Gillen amministratore civile
e Strehlow missionario luterano. I loro lavori servono come base di un’etnografia
professionale che conobbe un grande impulso tra le due guerre, in particolare con
i lavori di Strehlow, linguista cresciuto tra gli Aranda, e G. Roheim. Questi lavori
fondatori sono stati ripresi recentemente da Marika Moisseeff, che reinscrive l’in-
sieme dei dati in una prospettiva centrata sul problema dell’individualizzazione:
Un long chemin semé d’objets cultuels, Editions de l’EHESS, Paris 1995.
6 Cfr. E. Durkheim, Textes I, Minuit, Paris 1975, p. 404.
7 E. Durkheim, Les formes élémentaires de la vie religieuse (1912), PUF, Paris
1990, p. 169, tr. it. (leggermente modificata) di C. Cividali, con Introduzione di R.
Cantoni, Edizioni di Comunità, Milano 1971, p. 128 (da ora FEVR).
350 Il transindividuale

osservando ciò che, in lui, lo rende sacro. L’unico elemento distintivo che
Durkheim vuole prendere in considerazione è quello del ‘contrassegno to-
temico’, disegnato o inciso sulla cosa. A questo proposito, egli astrae inte-
ramente da una distinzione decisiva per gli etnografi: quella tra i churinga
‘nudi’, privi di decorazioni – cui è attribuibile un’identità collettiva e che si
possono a questo titolo qualificare come ‘churinga totemici’ – e i churinga
decorati, che incarnano gli ‘spiriti-bambini’ personalizzati cui è legato spe-
cificamente ciascun membro del gruppo8. Durkheim assume su questo pun-
to un’accentuazione particolare delle descrizioni di Spencer e Gillen, come
peraltro di Strehlow. Laddove questi insistevano sul racconto mitico che fa
del churinga il luogo di residenza dell’anima dell’antenato, o addirittura
un’immagine o una parte del suo corpo reale – interpretazione che Frazer,
dal canto suo, mobilitava in appoggio alla sua teoria della reincarnazione
per frequentazione del sito totemico durante il concepimento del bambino
– Durkheim vi vede solo una giustificazione après coup di un sentimento di
rispetto fondato su altro. Il mito, nel caso specifico, non spiega nulla, poiché
si limita a mettere in rapporto un essere sacro con un altro essere sacro,
lasciando inoltre nell’ombra il fenomeno principale della fabbricazione arti-
ficiale, nota a tutti, di certi churinga che, conservati allo stesso modo e dotati
dell’identica efficacia rituale, non sono meno sacri degli altri.
Dal punto di vista parziale di Durkheim, restare il più dappresso possi-
bile alla cosa significa dunque fissare il segno che essa reca come un segno
fatto dagli uomini. Questa dimensione di fabbricazione, a sua volta, non
deve trarre in inganno. Se essa incita invero a vedere nel processo di sa-
cralizzazione un’operazione puramente convenzionale, non vincolata dalla
natura dell’oggetto che serve da supporto all’incisione o al disegno, sotto-
pone tuttavia la convenzione ad un vincolo specifico di rappresentazione,
in cui si trova implicitamente esigita una corrispondenza del disegno al suo
referente esterno, come a un essere del mondo che il primo non farebbe
altro che raffigurare più o meno adeguatamente. Ora, a ben vedere, qui sta
precisamente lo slittamento che Durkheim cerca, costi quel che costi, di
serbare. Concentrarsi sul disegno non significa in primo luogo chiedersi
cosa rappresenti, ma il modo in cui rappresenta – cioè, insomma, cosa vo-
glia dire esattamente rappresentare in questo caso singolare9.

8 Per questa distinzione centrale cfr. M. Moisseeff, Un long chemin semé d’objets
cultuels, cit., p. 83 e sgg.
9 Come nota M. Moisseeff, il carattere non figurativo delle incisioni e dei disegni
deve esser compreso come il tracciato di traiettorie percorse dagli esseri cui i chu-
ringa rinviano. «Se rappresentano qualcosa, non è l’aspetto esteriore, ma la trac-
cia che i loro percorsi ed i loro atti concomitanti possono lasciare sulla superficie
B. Karsenti - Il totemismo rivisitato 351

A questo riguardo, non è certo che la facilità di osservazione offerta dal-


le forme secondarie di totemismo, più elaborate graficamente, si sia rivela-
ta una fortuna. In America, i blasoni o i vasi sacri richiedono delle tecniche
imitative di un livello nettamente superiore ai disegni australiani. Ma forse
la tecnica è qui troppo certa, al punto di far credere che l’intenzione sia re-
almente imitativa e che lo sia allo stesso modo nei casi primitivi in cui essa
è meno facilmente discernibile. Ritroviamo l’obiezione segnalata all’ini-
zio: il metodo comparativo, applicato troppo presto, è fonte di illusioni. Ed
è al contrario la situazione primitiva che deve essere privilegiata, in quanto
essa rivela una procedura di contrassegno [marquage] che obbedisce ad
un principio rappresentativo di un genere affatto specifico, che conviene
analizzare in se stesso diffidando di ogni preconcetto:

Benché l’Australiano possa mostrarsi abbastanza capace di imitare, almeno


in modo rudimentale, le forme delle cose, le decorazioni sacre sembrano il più
delle volte estranee a qualsiasi preoccupazione di questo genere: esse consi-
stono soprattutto in disegni geometrici eseguiti sui churinga o sul corpo degli
uomini. Sono linee diritte o curve, dipinte in modo diverso, ed il cui insieme ha
e non può avere che un senso convenzionale […] Il significato delle figure che
si ottengono con questi procedimenti è poi talmente arbitrario che uno stesso
disegno può avere due significati diversi per le genti di due totem e rappresen-
tare in un caso un certo animale, e nell’altro un altro animale o una pianta. […]
Questi fatti provano che, se l’Australiano è fortemente incline a rappresentare
il suo totem, non è per averne sotto gli occhi un ritratto che ne rinnovi perpe-
tuamente la sensazione, ma semplicemente perché sente il bisogno di rappre-
sentarsi l’idea che se ne fa per mezzo di un segno materiale esterno, quale che
possa essere questo segno10.

Vi sarebbe dunque, alla radice del totemismo, un bisogno particolare:


quello di rappresentarsi l’idea che ci si fa del totem, rappresentazione che
passa necessariamente per un segno. Ciò significa che, se ci si fa un’idea
del totem, questa idea non basta però a se stessa. Un bisogno di rappresenta-
zione si fa sentire, rappresentazione che è essenzialmente rappresentazione
dell’idea, e non rappresentazione di una realtà esteriore. Ciò che questa ve-
duta lascia però in sospeso, è il fatto che possa nondimeno instaurarsi una
dinamica di rinvio a certe cose del mondo, percepite nell’esistenza empirica
ordinaria del soggetto percipiente, che si tratti di animali o piante. Tale è il
senso dell’insistenza sull’arbitrarietà della rappresentazione. Avremmo in-

del suolo» (ivi, p. 90). I disegni sono in questo senso ad un tempo non-figurativi e
non-astratti.
10 FEVR, pp. 178-179, tr. it. cit., pp. 135-136.
352 Il transindividuale

somma a che fare con un processo in due tempi: il segno totemico si impone
in virtù di una mancanza [manque] del pensiero – il fatto che l’idea debba
esser rappresentata tramite un segno – e, ma solo secondariamente, ciò che
viene a colmare questa mancanza si rapporta effettivamente a certe cose del
mondo. Linee, curve, figure, punti, sono quindi delle cose ‘allo stesso titolo’
delle altre cose fisiche, ‘sebbene in un altra maniera’. Ci troviamo qui più
vicini che mai alla distinzione che Durkheim si era sforzato di introdurre
nella seconda prefazione alle Regole. La maniera in cui queste cose esistono
e che le distingue consisterebbe precisamente nel legame che esse intreccia-
no con certe cose del mondo, restando inteso che questo legame è secondo
rispetto alla loro istituzione come cose sacre, dato che si sottrae ad una logica
imitativa.

2. Il simbolismo dell’emblema

Che tipo di contributo Durkheim ha realmente fornito ad una teoria della


funzione simbolica? A questa domanda assai dibattuta – in cui si gioca in
gran parte, non solo la storia, ma la valutazione concettuale delle premesse
dello strutturalismo in antropologia – le risposte variano secondo l’accento
posto sul suo ‘sociomorfismo’, il credito attribuito all’ipotesi di una co-
scienza collettiva, o anche la sua riduzione del simbolo ad emblema. Se la
sua interpretazione del churinga merita tuttavia un’attenzione particolare,
è perché, a differenza di esposizioni più dottrinali, essa consiste soprattutto
nell’aprire uno spazio problematico, nel porre in modo adeguato il proble-
ma, piuttosto che nell’affrettarsi a risolverlo. Presa alla lettera, essa sug-
gerisce che l’esperienza di una mancanza [manque] psichica è all’origine
dell’esperienza decentrata che il gruppo fa di se stesso, in certe cose che si
impongono ad esso. Gli individui che appartengono al clan si fanno certo
un’idea del totem, ma essa, non potendo esser loro mentalmente accessi-
bile, non può esserlo che realmente. Poiché non possono rappresentarsela
direttamente, nell’interiorità, essi devono fabbricare l’oggetto in cui pren-
deranno coscienza di ciò che essa è, e di ciò che essi stessi sono in rapporto
ad essa. Se è possibile parlare di coscienza collettiva a questo livello, non
è dunque sotto la forma piena, riflessiva, della presenza a sé del gruppo. A
ben vedere, sembra che il totem, nella sua materialità, funga qui da sostitu-
to della coscienza – non tanto un pensiero fattosi cosa, tramite un processo
lineare di qualificazione della realtà, quanto un ‘pensiero-cosa’, un pen-
siero all’opera in una cosa. Parlare di coscienza sembra quindi improprio,
poco adeguato al tipo di esperienza che si intende descrivere.
B. Karsenti - Il totemismo rivisitato 353

Che si tratti in termini propri di un’esperienza, è appunto quanto si trova


messo in questione, proprio nel rifiuto dell’imitazione come motore del-
la rappresentazione. Così si trova spezzata ogni derivazione che andrebbe
dalla percezione di certe cose del mondo alla percezione specifica di quelle
cose sociali che sono le entità totemiche. Rivolgendosi al segno o al con-
trassegno, insistendo sul suo carattere arbitrario, è questa specificità che
Durkheim vuole cogliere: il segno non è un’immagine che rappresenta,
secondo una modalità imitativa, uno stato del mondo, è una rappresenta-
zione correlata ad un’idea. Avendo in mente la definizione saussuriana, si
è tentati di tradurre: un’immagine combinata ad un concetto. Ma occorre
resistere a questa tentazione, perché Durkheim parla espressamente di rap-
presentazione – e non di ‘combinazione’ –, e lo fa per una ragione che non
può essere trascurata: per lui, il segno totemico resta un’immagine, non è
un rapporto tra immagine e idea. Ma è un’immagine che resta in una sorta
di sospensione: essa non ha il proprio referente rappresentativo nel mondo
delle cose percepite secondo l’esperienza ordinaria, ma nello spirito – alla
maniera di un problema che si pone allo spirito, come se lo spirito avesse
in se stesso un’idea che, costitutivamente, eccede le sue capacità rappre-
sentative. Per Durkheim, in definitiva, sembra che il segno totemico sia
soprattutto una risposta a questo eccesso – la soddisfazione di un bisogno
mentale in questo senso, che nasce dal momento in cui gli uomini vivono
e pensano in gruppo.
È questa la ragione per cui la sua teoria del simbolismo si fonda sull’em-
blema preso come centro di raccoglimento destinato, non tanto a rendere
«più chiaro il sentimento che la società ha di sé», come se essa ne dispo-
nesse già, ma piuttosto a «produrre questo sentimento», a fabbricarlo e a
ripercuoterlo in ciascuna coscienza sottoforma di sentimento del sacro. A
tal proposito, la giustificazione durkheimiana è, bisogna dirlo, molto imba-
razzata. Sottolineando che le coscienze individuali sono per natura «chiuse
le une rispetto alle altre», si afferma che il loro «commercio» non può
condurre ad una «comunione» se non tramite l’intercessione di segni che
li manifestano, fusi in un’«unica risultante»11. Insomma, è a causa del fatto
che la socialità non può essere generata a partire dalla sola interazione
delle coscienze – e che il sociale non procede senza soluzione di continuità
dall’interindividuale – che si richiede un passaggio al limite: è necessario
che la realtà sociale come tale sia posta in certi segni, chiamati emblemi,
e che il suo effetto si ripercuota di ritorno nelle coscienze, affinché l’in-
terazione si dia come un’esperienza sociale. Ma la genesi degli emblemi

11 FEVR, p. 329-330, tr. it. cit., p. 253.


354 Il transindividuale

può veramente esser spiegata senza presupporre l’interazione di cui è detto


peraltro che è lei a condizionarla? Si dà, nelle Forme, una circolarità del ra-
gionamento che sembra tracciare i limiti di ciò che Lévi-Strauss chiamerà
‘teoria sociale del simbolismo’. Si vede, alla luce delle analisi precedenti,
dove si radichi la difficoltà: Durkheim si accanisce a cercare cosa il segno
possa mai rappresentare, mentre, spezzando ogni derivazione imitativa, ha
già deliberatamente messo in causa il fatto che esso rappresenti qualcosa
del mondo, almeno nel senso dell’esperienza percettiva ordinaria che i sog-
getti ne compiono. Gli è perciò necessario – è la soluzione a cui egli ricorre
più di frequente – postulare che esistano all’esterno certe cose che non
sono percepite dagli individui nella stessa maniera delle altre cose che si
offrono naturalmente alla loro percezione. In una parola, c’è del sociale – il
sociologismo durkheimiano può, a questo livello, ridursi a questo postulato
– ed esso è percepito in un modo inedito, che lo distingue da ogni altro dato
naturale. Esso è percepito attraverso la categoria del sacro, unico indizio di
questo eccesso inerente all’esperienza umana. Facciamo un passo più in là:
la sua percezione si risolve nell’eccesso stesso tramite cui esso si attesta. In
questo senso, esso si riduce in effetti ad un eco affettivo, l’effetto nel sen-
timento di questa rottura a partire da cui l’esperienza umana si configura
come esperienza specificamente sociale.
Donde il ripiegamento apparente su di una certa determinazione dell’af-
fettività allo scopo di pensare il sacro. Resta da stabilire se le interpretazioni
relative al churinga debbano essere ricondotte a questa tesi. La sacralità
del churinga, presa alla lettera, non chiedeva di meglio. Essa sottolineava
un punto fondamentale: che le immagini, nel totemismo, sono «più sacre
dell’essere stesso»12, e che esse costituiscono in ciò un registro dell’espe-
rienza che conviene considerare nella sua autonomia. Con ciò, ci si allonta-
nava da ogni forma di deduzione del totemismo a partire dalla zoolatria, e
più generalmente da qualunque culto degli esseri naturali. La posta in gioco,
a questo livello, era quindi il segnare una rottura: la percezione delle cose
sacre non può essere ricondotta alla percezione che il soggetto è suscettibile
di avere in terra profana, nella sua esperienza sensibile comune. Ora, quan-
do si tratta di chiarire questo aspetto della sua dimostrazione, Durkheim fa
un’osservazione la cui importanza non può essere minimizzata, anche se
neppure lui ne trae tutte le conseguenze. Egli sottolinea che il totemismo
implica una concezione dell’universo intero, un ‘sistema cosmologico’, e
che è tramite ciò che esso costituisce un piano d’esperienza autonoma, di-
stinto dall’esperienza profana. Il totem, separandosi dalle cose del mondo,

12 FEVR, p. 181, tr. it. cit., p. 143.


B. Karsenti - Il totemismo rivisitato 355

apre su di un altro mondo. Esso non si limita a delimitare una piccola parte
empirica per restrizione. Tutt’al contrario: non solo esso totalizza le cose
che comprende nella sua sistematica, ma si sforza tramite ciò di integrare,
riqualificandoli nei suoi quadri, «tutti gli esseri conosciuti»13.
A partire dalla sacralità superiore dell’emblema, è l’universalità delle
cose a venir abbracciata dal gruppo. Ma essa lo è esattamente entro un
orizzonte di conoscenza, e non sotto la forma di una serie di percezioni
disgiunte, di cui ciascun essere è oggetto come ‘un per uno’. Riprendendo
i risultati del suo saggio, scritto in collaborazione con Mauss, sulle Forme
primitive di classificazione, Durkheim ne precisa anche la portata: se le
nozioni di genere e di classe hanno effettivamente la loro origine in questo
modo di pensiero religioso che il totemismo fa toccare con mano, ciò signi-
fica soprattutto che la natura propria delle cose sociali è di darsi un quadro
il quale è d’emblée quello di una conoscenza del mondo, disgiunta rispetto
alla percezione sensibile immediata di ciascun individuo preso a parte. Da
questa visuale, la rottura supposta dall’esperienza del sacro acquista un
nuovo senso: essa non è tanto una determinazione dell’affetto quanto una
manifestazione dell’esercizio del pensiero umano, nella sua capacità di ele-
varsi dalla percezione sensibile, o dall’immagine generica, fino al concetto
in senso proprio.
Che tale esperienza non possa non essere sociale, che essa presupponga
l’esistenza del gruppo [groupe] come totalità, è ciò che prova il totemismo
articolando gruppi [groupements] umani e gruppi [groupements] reali, e
integrandoli in un unico sistema in cui i loro rapporti vengono regolati.
Ma affinché questo sistema sia possibile, non ci si può risolvere a postu-
lare – contrariamente a ciò che certe formulazioni di Durkheim lasciano
intendere – che il raggruppamento umano sia posto dall’inizio, e che la
classificazione delle cose si generi a partire da questa forma primaria. Cer-
to, lo «spettacolo della vita collettiva»14 ha dovuto rendersi necessario. Ma,
ed è qui tutta la difficoltà, è stato necessario che questo spettacolo fosse
d’emblée quello di una vita comune degli uomini e delle cose, di un gruppo
di uomini determinato associato ad un gruppo di cose. ‘Lasciare un posto’
alle cose tra gli uomini significa tanto integrare le cose agli uomini quan-
to l’inverso, poiché i due livelli di classificazione non possono apparire
se non congiuntamente e reggendosi l’uno con l’altro. Il ‘sociomorfismo’
durkheimiano rischia da questo punto di vista di essere un abbaglio, se
lo si riconduce ad una proiezione sul mondo di quadri sociali costituiti

13 FEVR, p. 201, tr. it. cit., p. 154.


14 FEVR, p. 209, tr. it. cit., p. 160.
356 Il transindividuale

indipendentemente nel gruppo – come se questo fosse capace di un’apper-


cezione soggettiva delle sue proprie strutture, mentre si è visto che è nelle
cose che questa appercezione, da subito, viene spostata, e prende l’aspetto
di un pensiero classificatorio, in cui dei quadri concettuali, e non più delle
immagini, sono effettivamente messi all’opera. È lavorando su questa dif-
ficoltà che Radcliffe-Brown ha cercato, in un testo del 1929, di ampliare la
concezione durkheimiana facendo del totemismo una sottospecie di rela-
zioni rituali la cui funzione generale sarebbe quella di garantire un doppio
processo d’integrazione, del mondo naturale alla società e della società al
suo mondo. Ma egli non ha fatto altro che riportare la difficoltà un gradino
più sopra, ed è stato condotto a ricorrere all’idea di ‘ordine sociale’ per
fondare questo doppio processo.

3. Un’‘aura di impersonalità’

È quindi la teoria sociale del simbolismo, declinata come teoria sociale


della conoscenza, ad essere di nuovo in gioco. Si noterà tuttavia che essa si
basa, nelle Forme elementari, su di una certa caratterizzazione del pensie-
ro – quella che, appunto, autorizza l’esame dei fatti totemici. Tra le specie
naturali ed i clan, è costruita una parentela, una forma specifica di relazio-
ne che, letteralmente, rende possibile il pensiero. Ma di quale pensiero si
tratta?
Lo si è detto, si tratta di un pensiero propriamente concettuale. Con ciò
Durkheim intende quanto segue: un pensiero che non procede per somi-
glianza tra immagini, ma per generalizzazione, intesa come accesso al ge-
nerico. Ciò che il totemismo rivelerebbe dunque è la differenza esistente
tra, da un lato, un pensiero che procede solo per immagini, legandole tutt’al
più secondo dei rapporti di somiglianza, per poi estendere questi rapporti
formando degli aggregati dai contorni fluidi detti ‘immagini generiche’,
e, dall’altro lato, le totalità comprensive che sono i generi. Lasciato a se
stesso, preso come soggetto dell’esperienza sensibile individuale, l’indi-
viduo è destinato a restare fermo al primo livello: esso ha la sensazione
delle somiglianze e dei contrasti, fonti di immagini vaghe e fluttuanti che
restano dipendenti dalla percezione attuale degli esseri che hanno contri-
buito a formarle. È solo nell’esistenza collettiva che l’individuo accede a
delle ‘forme definite’ suscettibili di applicarsi «a un numero determinato di
cose, percepite o meno, attuali o possibili»15. Questa apertura al possibile è

15 FEVR, p. 209, tr. it. cit., p. 160.


B. Karsenti - Il totemismo rivisitato 357

evidentemente decisiva quanto alla definizione del genere, nel suo affran-
camento costitutivo rispetto all’‘attualmente percepito’. Vi è pensiero solo
se la presenza alla cosa stessa, presa nella sua immediatezza, è spezzata, e
ricostituita su di un altro piano che è quello dello sviluppo del suo signi-
ficato concettuale. Ora, ciò che suppone Durkheim è che questo sviluppo
inerente al concetto non sia esso stesso possibile se non in un orizzonte di
universalità16. L’importanza del sistema totemico deriva da ciò. Poiché è ad
esso che spetta in primo luogo il dispiegamento di questo orizzonte che rie-
sce, tramite il legame specifico di parentela che esso istituisce tra gli esseri,
ad abbracciare in uno stesso quadro tutte le cose conosciute dal gruppo.
Occorre quindi intraprendere la qualificazione di questo legame di pa-
rentela. Ciò che impegna ad interrogarsi sul modo di formazione dello
spazio totemico, precisamente come specie. Che cos’è che le cose sacre
condividono, e la cui condivisione è allo stesso tempo costitutiva per loro
stesse e per il gruppo che si rapporta ad esse? E che legame vi è tra questa
condivisione ed il pensiero concettuale di cui il gruppo si rivela simul-
taneamente capace? La risposta a queste questioni risiede nel ruolo che
Durkheim assegna al mana melanesiano, eretto qui a ‘principio totemico’.
Qui, non è più l’etnografia australiana a sostenere l’analisi, almeno non di-
rettamente. I fatti invocati appartengono piuttosto all’ambito melanesiano,
e, sussidiariamente, all’America del Nord-Ovest (il wakan sioux e l’oren-
da irochese). Resta il fatto che non ci si allontana da quanto lo studio del
churinga aveva potuto mettere in luce – se è vero che quest’ultimo, come
precisano Spencer e Gillen, si applica «altrettanto bene a un oggetto, che
alla qualità che esso possiede»17. Ciò che importa, è in effetti il grado di
astrazione conferito ad una certa qualità, indipendentemente dal suo sup-
porto particolare. Che tale qualità si dica propriamente in una categoria
precisa, come avviene nelle società più complesse di quelle australiane,
non fa che mostrare un carattere centrale delle religioni totemiche quanto
al tipo di correlazione che esse giungono a stabilire:

Ciò che noi troviamo all’origine e alla base del pensiero religioso non sono
oggetti o esseri determinati e distinti, che posseggano da soli un carattere sa-
cro; ma sono poteri indefiniti, forze anonime, più o meno numerose secondo
le società, talvolta anche ridotte all’unità, e la cui impersonalità è strettamente

16 Questo aspetto del pensiero durkheimiano trova un notevole proseguimento in


Edmond Ortigues, che gli attribuisce un andamento più nettamente hegeliano,
senza dubbio in dialogo tacito con Kojève. Cfr. Le discours et le symbole, Aubier,
Paris 1962, p. 53 e sgg.
17 Citato in FEVR, p. 283, nota 1, tr. it. cit., p. 218, nota 4.
358 Il transindividuale

comparabile a quella delle forze fisiche delle quali le scienze della natura stu-
diano le manifestazioni. Le cose sacre particolari non sono che forme indivi-
dualizzate di questo principio essenziale […] Non vi è forse una sola religione
in cui il mana originario, sia unico che plurimo, si sia risolto interamente in
un numero definito di esseri discreti e incomunicabili tra loro; ognuno di essi
conserva sempre un’aura di impersonalità che lo rende atto a entrare in nuove
combinazioni, e ciò non per una semplice sopravvivenza, ma perché è proprio
della natura delle forze religiose non potersi individualizzare completamente18.

Il punto di vista primitivo mostra che la credenza, nel suo principio, con-
cerne l’impersonale, intendendo con ciò innanzitutto la sua dimensione di
rottura con l’esperienza delle cose date nella percezione. Come interpretare
questo fatto? Secondo Durkheim, le cose sono sacre alla sola condizione
di eccedere la loro dimensione di cose particolarizzate, date una ad una
nell’esperienza come altrettante entità discrete, separate le une dalle altre
e rinchiuse nella loro individualità. Si vede allora come l’impersonalità
non debba essere vista come un deficit di determinazione delle cose, ma
piuttosto come la potenza che le investe permettendo loro di legarsi le une
alle altre, di uscire dal loro modo di datità empirica per comporre tra loro
dei rapporti che spetta poi al pensiero determinare. Solo così può spiegarsi
la continuità stabilita tra il pensiero religioso e il pensiero logico. L’‘aura
d’impersonalità’ che avvolge le cose sacre e che contrassegna in generale il
loro carattere contagioso, deve essere concepito come una fonte di relazio-
ni e non come un fattore di indistinzione.
Non è così, tuttavia, che la tesi relativa alla contagiosità del sacro, di
cui l’ipotesi del mana è il fulcro, è stata in genere letta. Parlare di conta-
giosità contiene infatti un’ambiguità. Grande è allora la tentazione di fare
del sacro una sostanza specifica che, per emanazione, si comunicherebbe
ad altre cose per assicurare il loro legame, e di subordinare in fin dei conti
il pensiero causale stesso ad un principio mistico di partecipazione. Non
è forse in questo modo che la concezione durkheimiana deve esser com-
presa, nella misura in cui essa riconduce espressamente l’idea di causa a
quella di forza, di cui solo l’esperienza affettiva del sacro può spiegare
l’emergenza? Ma allora non si comprende più la sua insistenza, altrettanto
manifesta, sull’idea di impersonalità. Se Durkheim ha messo tanto impe-
gno nel prender le distanze dalle tesi di Lévy-Bruhl, è perché credeva di
gettare sul pensiero logico una luce che il prelogico, incentrato sul concetto
di partecipazione, non offriva. Il mana, interpretato non come un fluido
sostanziale, ma come un’aura d’impersonalità, è per lui un operatore logico

18 FEVR, pp. 286-287, tr. it. cit., pp. 220-221.


B. Karsenti - Il totemismo rivisitato 359

nel senso forte del termine, poiché designa in tutta la sua precisione il pun-
to di rottura senza di cui nessun pensiero generico può svilupparsi: la rot-
tura con la personalità degli esseri, presi nella loro particolarità sensibile,
in quanto cose date ad un individuo isolato. Ricondotto analiticamente al
suo principio attivo, è questo punto ciò che il totemismo avrebbe il merito
di rendere visibile. In ciò esso è il primo capitolo dimenticato, non sempli-
cemente della sociologia delle religioni, ma anche e soprattutto della teoria
della conoscenza.

4. L’intichiuma

Giunti a questo punto l’essenziale resta ancora da dimostrare: come


comprendere che un nembo d’impersonalità possa effettivamente giocare
il ruolo di fonte logica di correlazione? Da questa dimostrazione dipende
la possibilità di un’articolazione positiva del concetto di sacro, rispetto alla
sua qualificazione in termini di sentimento o affetto. Da essa dipende anche
l’interpretazione che è possibile dare, in antropologia, di fenomeni, religio-
si o magici, iscritti sotto la rubrica del contagio.
La tesi della contagiosità del sacro, tratta da Robertson Smith, ha eser-
citato una vasta influenza tanto sull’antropologia inglese che sul pensie-
ro durkheimiano. Essa si basa sull’idea che la loro separazione rispetto
al profano ha l’effetto di caricare le cose sacre di una potenza specifica di
espansione, comunicata per contatto, e che può essere distruttrice o salvi-
fica secondo il modo in cui è manipolata. Da cui deriva un’‘ambivalen-
za’ manifesta, che non concerne soltanto i valori contraddittori assegnati
a queste forze, ma al loro modo di emergenza: il separato, istituendosi,
tende a trasgredire le proprie frontiere, e quindi ad abolirsi tramite lo stesso
movimento da cui è istituito. La separazione e la confusione attingono alla
stessa sorgente. E il sistema rituale, preso dal lato negativo, si comprende
allora come il fatto di tener separato ciò che deve esserlo, cioè di consoli-
dare la separazione in parte anche contro se stessa, almeno per ciò che è
delle sue conseguenze espansive.
Ciò che distingue Durkheim da Robertson Smith su questo punto riguar-
da la spiegazione data al contagio:

Se le forze religiose non hanno mai una sede propria, la loro mobilità può
essere facilmente spiegata. Poiché nulla le unisce alle cose in cui le localiz-
ziamo, è naturale che al minimo contatto esse ne fuggano, per così dire loro
malgrado, e si propaghino più lontano […] Il contagio non è dunque un proce-
dimento secondario in virtù del quale il carattere sacro, una volta acquisito, si
360 Il transindividuale

propaga; ma è il procedimento stesso con il quale si acquisisce. È per contagio


che esso si fissa; non ci si può meravigliare che si trasmetta contagiosamente19.

Vediamo che è l’impersonalità delle qualità in questione, la loro indi-


pendenza rispetto al substrato, a spiegare il contagio. Il che significa che
il contagio non deriva dalle proprietà intrinseche di una sostanza, ma sol-
tanto dalla rottura con ogni particolarità sostanziale, in cui si innesca un
movimento positivo di impersonalizzazione. La rottura si attualizza solo
nei legami che permette e tramite il piano di esperienza specifico che questi
legami giungono a strutturare. In questo senso, il contagio è esattamente la
relazione tramite cui il sacro si fa. È il suo modo di fabbricazione. Lungi
dall’essere una scappatoia che rende il sacro inafferrabile e sfuggente, esso
è paradossalmente la sua procedura di fissaggio – il modo in cui esso si
fissa e si determina, in quanto la sua determinazione non è da nessun’altra
parte che nelle relazioni rese possibili dalla procedura tra esseri che, senza
di essa, resterebbero rinchiusi nella notte dell’esperienza sensibile.
Fintantoché ci si attiene ai riti negativi, solo il divieto come salvaguardia
di una separazione che rischia di essere trasgredita offre, in negativo, un ac-
cesso al contagio. Ma si capisce che se il contagio è proprio il procedimen-
to che pensiamo, se la sua funzione reale è innanzitutto quella di «collegare
le cose che la sensazione lascia le une al di fuori delle altre»20, non bisogna
fermarsi qui. Bisogna passare per l’esame dei riti positivi, in cui il conta-
gio è assai meno subito che controllato e attivato, cioè percepito come ciò
che apre un certo regime di relazione entro il quale i soggetti sociali sono
attivamente impegnati. L’elemento di ‘rispetto’, sul versante negativo del
rituale, in realtà indicava già questo fatto: l’individuo trae dai suoi doveri
nei confronti delle cose sacre, paradossalmente, un principio di elevazione
di se medesimo. Questo principio si afferma più direttamente nei rapporti
positivi alle cose sacre che esso deve intrattenere secondo una certa moda-
lità e seguendo certe regole. Con ciò è l’introduzione dell’azione sociale
nelle cose rispetto alle quali essa si configura propriamente come azione
sociale a venir presa ad oggetto dell’analisi. O anche: è il procedimento
di fabbricazione di queste cose, inteso appunto come procedimento – e di
conseguenza al di qua del postulato del sacro – che si vorrebbe affrontare.

19 FEVR, pp. 462-463, tr. it. cit., pp. 353-354. Occorre notare che Durkheim è con-
dotto qui a rifiutare una separazione netta tra magia e religione – contrariamente
alla distinzione che aveva dovuto inizialmente operare, riconducendo la religione
ai due concetti di sacro e di Chiesa.
20 FEVR, p. 464, tr. it. cit., p. 355.
B. Karsenti - Il totemismo rivisitato 361

Il che è, di nuovo, reso possibile dall’etnografia australiana. Il qua-


dro generale dei rituali positivi è fornito dall’intichiuma degli Arunta, in
cui Durkheim vede una modificazione decisiva delle concezioni relative
all’istituzione sacrificale. Il punto è decisivo, poiché è qui che la dimo-
strazione di Lévi-Strauss, nel Pensiero selvaggio, manifesterà il suo disac-
cordo e esporrà la propria interpretazione del totemismo, in opposizione
a quella delle Forme elementari. Prima di entrare nel cuore del dibattito,
ricordiamo brevemente le sue premesse empiriche.
L’intichiuma è un rituale che interviene verso la fine della stagione delle
pioggie, quando le specie naturali, fauna e flora, sono in espansione. L’et-
nografia australiana lo definisce generalmente «rito di moltiplicazione»21.
L’interpretazione che ne dà Durkheim, sulla base di Spencer e Gillen, lo
scompone in due tempi nettamente contrassegnati. Nel primo, si tratta di
scatenare o di coadiuvare lo scatenamento della moltiplicazione della spe-
cie totemica. Con ciò, gli individui partecipano all’opera fecondatrice della
natura, nel particolare settore con cui essi intrattengono un legame di pa-
rentela. Si diffonde allora la potenza del churinga sfregandolo su di una
pietra del luogo in cui è conservato, in modo da estrarne una polvere che si
spande tutt’intorno. O ancora, per certi clan, si praticano dei versamenti di
sangue su di una roccia servendosi del sangue in cui è ritenuto trovarsi lo
stesso «germe di vita»22, al fine di assicurare la riproduzione regolare della
specie totemica. A proposito di questa prima fase, è interessante notare che
la credenza da essa tradotta non è esposta ad una procedura di confutazione
fattuale. Se l’intichiuma non è stato ancora celebrato, e la moltiplicazione
è già visibile qui ed ora, si suppone un’azione sotterranea degli antenati
per rendere conto del fenomeno. E se le speranze sono deluse, è all’azione
contraria di spiriti malefici che si imputa l’ostacolo. L’essenziale risiede
quindi nel contributo effettivo che il gruppo pensa di recare ad un processo
naturale che lo richiede imperativamente.
Il secondo tempo del rituale distinto da Durkheim comprende esso stes-
so due parti. Si assiste innanzitutto ad un rafforzamento dei divieti ordinari
di cui gli esseri sacri sono oggetto. Le proibizioni alimentari si fanno più ri-
gorose, i contatti sono del tutto proibiti, come rischiassero in quel momento

21 Per un’analisi più recente, cfr. A. Testart, Le communisme primitif, I, Ed. de la


Maison des sciences de l’homme, Paris 1985, p. 275 e sgg.
22 FEVR, p. 472, tr. it. cit., p. 377. E Spencer e Gillen, Native tribes, cit., p. 206.
L’analisi di M. Moisseeff, Un long chemin semé d’objets cultuels, cit., permette di
precisare che si tratta nel caso specifico dei churinga totemici, mentre i churinga
individuali intervengono in modo analogo nei riti di fertilità umana di tipo quaba-
ra (p.190 e sgg).
362 Il transindividuale

di neutralizzare la crescita che è stata scatenata. Poi, nel punto culminante


di questo inasprimento del sistema di divieti, ha luogo una cerimonia che vi
mette un termine e in cui, secondo Durkheim, è possibile vedere il sacrifi-
cio in senso proprio: i membri del clan raccolgono o cacciano la specie che
si è moltiplicata e organizzano una consumazione rituale. Le condizioni di
questa consumazione variano secondo i clan, ma attestano generalmente un
consumo collettivo, in proporzioni e secondo modalità differenti a seconda
che si abbia a che fare col personaggio centrale del rituale – l’alatunja –
degli uomini, delle donne o dei non-iniziati. A dispetto di queste differenze,
si tratta sempre di una forma di pasto in comune, di comunione nella com-
mensalità. Da cui si può trarre, pare, una conferma, attraverso l’etnografia
delle ‘società più primitive attualmente conosciute’, di ciò che Durkheim
considera come ‘l’intuizione di genio’ di Robertson Smith, pietra angolare
dell’interpretazione moderna dell’istituzione sacrificale.
Ad esser rigorosi ciò significherebbe tuttavia commettere un errore.
Leggendo in Spencer e Gillen – appena rettificati da Strehlow23 – solo una
semplice conferma dell’ipotesi di Smith, si manca la vera posta in gioco
del rituale intichiuma preso nel suo insieme. Del resto, l’apporto di Smith
alla riflessione antropologica sul sacrificio consisté più nell’aver spostato
l’angolo di approccio al problema che nell’averne elucidato il significa-
to generale. La tesi classica di Tylor – che partiva dal tributo primitivo
agli dei a compensazione dei benefici da essi prodigati, per passare poi
all’omaggio senza speranza di compensazione e culminare nel sacrificio di
sé del sacrificante – diventava insostenibile dal momento in cui si faceva
posto alla scena inaugurale del pasto in comune tra i fedeli e il loro dio. Lo
schema evolutivo risultava pertanto rovesciato. E Smith si sforzava, contro
Tylor, di dedurre i sacrifici propiziatori ed espiatori a partire dal sacrificio
all’interno di un’esperienza primitiva di commensalità.
Ma la fragilità di questa nuova catena deduttiva non era inferiore all’an-
tica. Il Saggio sulla natura e la funzione del sacrificio di Hubert e Mauss lo
sottolinea già nel 1899, e Durkheim non contesta ciò che avevano stabilito
i suoi discepoli. La conclusione cui giunge l’ipotesi di Smith è che da una
commensalità primaria è possibile arrivare ad una distruzione totale del-

23 Cfr. la nota di Durkheim su Strehlow, FEVR, p. 479. Segnaliamo che per un etno-
logo contemporaneo come A. Testart, questa lettura dell’intichiuma, dipendente
dall’ipotesi di Smith sul pasto totemico, è un ‘fantasma Occidentale’ senza inte-
resse: «È fin troppo evidente che il successo di cui ha goduto l’idea del pasto to-
temico proviene dal fatto che questa idea evocava la comunione cristiana tramite
cui i fedeli consumano il corpo e il sangue del Cristo» (Le communisme primitif,
cit., p. 276).
B. Karsenti - Il totemismo rivisitato 363

la vittima nei riti piaculari, ad esclusione di qualsiasi forma di consumo.


Ecco perché la dimostrazione dei durkheimiani insisterà su di un processo
di eliminazione del carattere sacro, processo che costituisce ai loro occhi
«un momento primordiale del sacrificio, altrettanto primordiale e irriduci-
bile della comunione»24. In questa analisi – che, ad immagine di quella di
Smith, si basa più sull’esegesi dei testi sacri che sull’etnografia, nel caso
specifico sui testi vedici e biblici – il sacrificio è pensato come l’apertura
di un passaggio tra due mondi posti come irriducibili, e come instaurazione
di mediazioni che il rituale percorre alternativamente nei due sensi. La de-
finizione che viene mantenuta, ancora dominante in Lévi-Strauss25, ha un
valore di paradigma nell’antropologia del sacrificio: quest’ultimo si ricon-
duce ad un procedimento che consiste nello stabilire una comunicazione
tra il mondo sacro e il mondo profano grazie all’intermediazione di una
vittima, cioè di una cosa consacrata distrutta nel corso della cerimonia26.
Lo scarto decisivo rispetto a Smith non consiste soltanto nel sottolineare
il doppio radicamento del sacrificio, nell’oblazione e nella comunione, ma
anche nell’indicare l’importanza della consacrazione, prova che la vittima
non interviene già provvista della sua natura religiosa, ma l’acquisisce nel
corso di un’operazione che è costitutiva del sacrificio stesso.
Pur integrando queste obiezioni, Durkheim ritorna tuttavia all’ipotesi
della commensalità quale attestazione di un’origine comune. Egli vuole
vedervi l’indizio di una rigenerazione interna del principio totemico, in
ciascuno dei membri assegnati alla partecipazione al pasto. Che il totem
possa così essere in ciascuno, e costituirsi in quanto corpo degli individui,
certi elementi del totemismo lo lasciavano già intravedere – in particolare,
si è detto, l’importanza attribuita ai tatuaggi e alle incisioni corporee. Il
caso dell’ingestione permette tuttavia di chiarire un aspetto del processo
che restava in precedenza nell’ombra: il fatto che l’individuo consumi una
parte dell’animale o della pianta totemica e che questa consumazione par-
ziale valga come ritorno del principio nella propria integralità. In breve, la
consacrazione dell’alimento che comanda l’ingestione presuppone che la
parte sia presa per il tutto.
Questa evidenziazione del principio pars pro toto soggiacente all’espe-
rienza della commensalità riveste un interesse euristico centrale: essa per-
mette di porre in termini rinnovati il problema della relazione tra la cosa

24 M. Mauss, Œuvres, I, cit., Minuit, Paris 1968, p. 198.


25 Sull’impatto del saggio sul sacrificio perfino nella problematica strutturale e sulle
difficoltà che racchiude il paradigma, cfr. L. de Heusch, Le sacrifice en Afrique
noire, Gallimard, Paris 1986, cap. I.
26 M. Mauss, Œuvres, I, cit., p. 302.
364 Il transindividuale

sociale – nel caso specifico, la cosa consacrata che è l’alimento – e l’ani-


male o la pianta reali, che esistono a titolo di cose del mondo di cui ciascun
individuo può fare ordinariamente esperienza, indipendentemente da ogni
procedimento di consacrazione. Ritroviamo qui, da un altro punto di vista,
il problema del carattere rappresentativo del disegno o dell’incisione tote-
mici. Che la rappresentazione non si riduca ad una imitazione è ciò che il
principio pars pro toto permette ora di chiarire in modo nuovo. Il fatto che
la cosa sacra possa essere tutta intera in ciascuna delle sue parti non è spie-
gato in modo sufficiente da una qualità di espressività interna, motore di
una simbolizzazione in tal senso. Perché occorrerebbe ancora render conto
di una siffatta qualità e della sua formazione. Ora, è appunto questo che
Durkheim riesce a fare, secondo una modalità puramente logica, fondan-
dosi esclusivamente sull’indipendenza della proprietà della cosa sociale
rispetto alle proprietà della cosa materiale che le serve da sostrato:

Tale concezione sarebbe inesplicabile se il carattere sacro dipendesse dalle


proprietà costitutive della cosa che gli serve da substrato; perché allora dovreb-
be variare come questa cosa, crescere e decrescere con essa. Ma se le virtù che
si ritiene che essa possieda non le sono intrinseche, se le provengono da certi
sentimenti che essa richiama e simbolizza, benché abbiano la loro origine al di
fuori, non avendo bisogno – per adempiere a questa funzione evocatrice – di
possedere dimensioni determinate, essa avrà lo stesso valore intera o meno27.

L’indipendenza del valore relativamente all’integrità fisica del sostrato


precisa ciò che conviene intendere per proprietà simbolica, presa come
tratto distintivo di una cosa propriamente sociale. Ci si ricorderà della
formula durkheimiana: ‘allo stesso titolo’ delle cose materiali, le cose so-
ciali esistono bensì, ma in un’‘altra maniera’. Ora, è questa ‘altra manie-
ra’ che qui arriviamo a toccare, seguendo la forma d’alterazione percetti-
va che i procedimenti di sacralizzazione sembrano implicare. Insomma,
è in deroga alla proprietà fisica fondamentale della divisibilità spaziale,
secondo la quale la parte è diseguale ed inferiore al tutto, che si traduce
essenzialmente l’autonomia simbolica, affermazione dell’irriducibilità
della cosa sociale al sostrato. In tal senso, il principio pars pro toto ha
un senso logico e non fisico. Piuttosto che interpretarlo come una qualità
sovrannaturale che riguarderebbe certi tipi di esseri, conviene considerar-
lo dal punto di vista di un’esigenza d’intelligibilità. Attraverso di lui, la
cosa sociale si manifesta nella sua stessa irriducibilità e richiede di essere
pensata in quanto tale. Di modo che la pietra angolare del principio è

27 FEVR, p. 328, tr. it. cit., pp. 252-253.


B. Karsenti - Il totemismo rivisitato 365

altrove rispetto al luogo in cui si è portati a vederla: dire che, nell’ambito


delle cose sociali, la parte vale il tutto, non significa dire che il tutto si
trovi effettivamente in ciascuna delle sue parti, che vi sia fisicamente
collocato, ma significa dire solamente che il modo in cui il tutto si dà non
si lascia ricondurre al modo in cui si danno le parti in cui ogni cosa fisi-
ca si decompone. Significa quindi esprimere lo svincolamento percettivo
imposto dal modo di darsi del sacro, nel momento stesso in cui esso non
esiste se non sottoforma incarnata, cosificata. In breve, senza cessar di
essere delle cose, le cose sacre oltrepassano i requisiti della percezione
delle cose nella loro materialità in senso stretto. Lontano mille leghe da
ogni derivazione imitativa, è ancora il processo di impersonalizzazione
inscritto alla radice della contagiosità ad affermarsi, segno del fatto che
la realtà sociale forma un piano di esperienza autonoma, suscettibile di
un approccio esso stesso indipendente.

5. Comunione e oblazione

Se l’intichiuma è parso a Durkheim costituire una conferma dell’ipo-


tesi di Smith sul sacrificio, non bisogna omettere di aggiungere che esso
gli sembrava fornire i mezzi per uscire dall’impasse in cui si trovava il
suo autore. A considerare solo il pasto in comune, l’ipotesi – ripetiamolo
– resta banale. Essa non riesce a render conto dell’oblazione, dimensio-
ne tuttavia costitutiva del fenomeno. Di fatto, Smith si abbandona a tal
proposito a delle contorsioni che non sono sfuggite ai durkheimiani: gli è
necessario postulare il carattere tardivo e secondario dei doni e delle offer-
te, che sono potuti apparire solo allorché la parentela originaria tra uomini
ed animali ha cessato di essere intelligibile. Ciò che secondo Smith si è
potuto verificare solo attraverso l’intervento di una causa esterna al pro-
cesso – nella fattispecie l’idea laica di proprietà, che trasforma la vittima
in tributo umano offerto agli dei, i quali allora tendono a venir concepiti
come ‘re della terra’. Così, a causa di un’aggiunta non-religiosa, la logica
sacrificale si trova sottratta al suo percorso naturale e ridotta ad una tran-
sazione. Ma l’artificiosità della costruzione non fa che tradire la circolarità
con cui Smith è alle prese sin dall’inizio: se l’oblazione non svolge alcun
ruolo all’interno del suo dispositivo, è perché non è possibile concepire
che la divinità sia principio primitivo di vita, votata perciò ad assicurare
agli uomini i loro alimenti, e al tempo stesso che questi stessi uomini siano
tenuti a darle ciò che essa dà loro. In una parola, perché gli dei dovrebbero
attendere dall’uomo ciò che essi stessi gli danno? «Perché mai avrebbero
366 Il transindividuale

bisogno del suo concorso per prelevare la giusta parte sulle cose che egli
riceve dalle loro mani»28?
L’interesse che presenta l’intichiuma non concerne tanto il fatto che esso
conferma l’ipotesi di Smith, quanto piuttosto che esso rende manifesto que-
sto circolo in cui tale ipotesi ha finito per chiudersi. Il totem è ciò che dona
vita all’uomo, ma, affinché ciò avvenga, occorre che l’uomo lo aiuti. Pren-
dendo il partito di interpretare il sacrificio come riattivazione di una parente-
la naturale primaria tra l’uomo e l’animale o la pianta, e scartando perciò le
spiegazioni artificialiste che scommettono sulla costruzione di un rapporto
tra le due istanze, Smith è stato condotto a disgiungere comunione e oblazio-
ne. Ora, se l’intichiuma ha bensì un valore di esperimento cruciale, occorre
però prenderlo in tutto lo svolgimento del suo ciclo. A questo proposito,
s’impone la constatazione del fatto che la prima parte del rituale, aggiunta
alla seconda, pone direttamente il problema di ciò che Durkheim chiama il
‘circolo’ di Smith. Comprendere in modo adeguato l’intichiuma significa
dunque accettare la seguente sfida: in che modo la comunione e l’oblazione
si combinano e si articolano? Quale rapporto c’è tra le due dimensioni della
pratica sacrificale? Porre di nuovo la questione nel 1912, cioè tredici anni
dopo il saggio di Hubert e Mauss, significa suggerire che questi ultimi non
avessero dato una vera risposta. Immediatamente, siamo condotti anche a
chiederci se le Forme elementari non contengano per caso un altro rifiuto
della tesi di Smith, differente da quello ispirato dai due discepoli.
Del sistema sacrificale Durkheim fornisce infatti due spiegazioni, incor-
porate al medesimo testo. La loro compatibilità non è nulla di ovvio, anche
se non vengono presentate come alternative.
La prima cerca di mostrare che l’oblazione è in effetti un dono che i
soggetti fanno alla loro stessa natura di esseri sociali, obiettivata nel totem.
Il senso del gesto è allora quello di sottolineare che gli dei sono mortali e
la fase di aiuto alla fecondità dell’intichiuma indica più o meno implici-
tamente ch’essi morirebbero se il culto non fosse reso loro. E Durkheim,
prolungando tale idea, si sforza di sottolineare il fatto che la loro esistenza
dipende dalla loro rigenerazione nel pensiero, cioè dall’operazione di sim-
bolizzazione stessa, presa come transfert mentale effettuato nelle cose:

Ciò che il fedele dà realmente al suo dio non sono gli alimenti che posa
sull’altare, né il sangue che lascia scorrere dalle sue vene; è il suo pensiero.
Rimane però che tra la divinità e i suoi adoratori c’è uno scambio di buoni uffici
che si condizionano reciprocamente. La regola del do ut des, con cui talvolta si
è definito il principio del sacrificio, non è un’invenzione tardiva dei teorici uti-

28 FEVR, p. 486, tr. it. cit., p. 373.


B. Karsenti - Il totemismo rivisitato 367

litaristici: essa non fa che tradurre in forma esplicita il meccanismo stesso del
sistema sacrificale, e più generalmente di ogni culto positivo. Il circolo additato
da Smith è dunque ben reale; ma non ha nulla di umiliante per la ragione. Esso
deriva dal fatto che gli esseri sacri, pur essendo superiori agli uomini, possono
vivere soltanto nelle coscienze umane29.

Vediamo bene tuttavia che questa insistenza sul pensiero, e ancor più sul
‘dato di pensiero’, non fa che ingrandire l’enigma che i critici di Durkheim,
primo tra i quali Lévi-Strauss, non hanno mai smesso di additare. Se le
cose sociali si fabbricano in questo modo, come descrivere il loro processo
di costituzione in termini indissociabilmente ‘mentali’ e ‘cosali’? Ricadia-
mo nella lancinante domanda: invocando nuovamente la doppia faccia del-
la cosa sociale, sostenendo che essa afferra gli individui solo nella misura
in cui è afferrata da loro, postulando una coappartenenza tra gli uomini e la
società oggettivata, e sottolineando il carattere mentale di questa, non ab-
biamo spezzato il circolo di Smith, non l’abbiamo nemmeno reso intelligi-
bile, ma lo si è semplicemente illustrato. E le difficoltà legate all’ipotesi di
una pura proiezione – in cui quanto si trova all’esterno sarebbe già-sempre
costituito all’interno – ritornano inevitabilmente ad affacciarsi.
Ora, Durkheim non si è per nulla limitato a questa prima spiegazione.
Studiando approfonditamente la prima parte del rituale, la sua fase di mol-
tiplicazione, egli giunge a svelare un altro aspetto, più fecondo, del suo
stesso pensiero. Questo sforzo si concentra, lo vedremo più avanti, nella
sua analisi di questa particolare categoria di riti positivi che costituiscono
ai suoi occhi i riti mimetici, dal punto di vista dei quali l’intichiuma deve
essere, in ultima istanza, valutato.

6. Totemismo o sacrificio

Allo scopo di far emergere l’originalità della concezione durkheimiana,


ci appoggeremo alla sua confutazione più netta: quella proposta da Lévi-
Strauss nel Pensiero selvaggio, in riferimento all’eterogeneità che introdu-
ce tra le logiche totemica e sacrificale. Insomma, sarebbe stato un errore
sull’intichiuma. Le società australiane, praticando questo rituale, segnala-
no da un’angolatura particolare la loro adesione alla logica totemica, e per
nulla affatto la pratica di un sacrificio in senso stretto, di cui Lévi-Strauss
accetta globalmente la caratterizzazione fornita da Hubert e Mauss, cioè

29 FEVR, p. 495, tr. it. cit., p. 379.


368 Il transindividuale

l’instaurazione di una comunicazione tra l’umano e il divino tramite l’in-


termediazione di una vittima.
Dire che le due logiche sono eterogenee non significa dirle rigorosamen-
te esclusive l’una dell’altra, ma solo che esse corrispondono a due aspetti
distinti del pensiero selvaggio che si avrebbe torto di confondere. Quando
delle società totemiche praticano il sacrificio, quest’ultimo, significativa-
mente, non ha come vittime degli animali totemici. Il sacrificio del cane
presso gli Irochesi ne è una buona esemplificazione. Esso rende manifesta
la coesistenza di due principi, che tuttavia non interferiscono. Nondimeno,
questa eterogeneità è resa visibile a partire da una definizione del totemi-
smo che non è quella di Durkheim. Laddove l’emblema, in virtù della sua
struttura, supponeva un couplage tra due termini, e dunque si limitava ad
un rapporto tra pari, il totemismo è ricondotto com’è noto da Lévi-Strauss
ad un’omologia tra serie. Se dunque il totemismo funziona sì per somi-
glianze, queste non concernono altro che le differenze, cioè gli scarti tra
i termini di ciascuna serie, naturale e sociale. Esse si realizzano al livello
delle serie complete, riguardano dei modi di discontinuità, e contengono un
carattere formale nel senso che non riguardano direttamente il contenuto
dei termini messi in rapporto.
Da ciò l’importanza, nell’ottica di Lévi-Strauss, di considerare a parte
il sacrificio. Poiché sembra al contrario che quest’ultimo sia destinato a
utilizzare delle contiguità integrandole in una procedura costruttiva. Par-
leremo quindi di sequenza e non di serie sacrificale. Sequenza stabilita per
sostituzione graduale di un essere ad un altro, lungo una linea continua che
lega l’uomo al divino. Si tratta di costruire, per identificazioni successive,
un rapporto che non è già dato. Al contrario, nel totemismo, il rapporto non
è per nulla costruito progressivamente, ma dato ‘tutto d’un sol colpo’, nella
doppia posizione delle serie. Il che significa che le strutture non si generano
gradualmente, ma si danno d’emblée come un fenomeno d’ordine.
Ma allora, come interpretare l’intichiuma? Ciò che vi si manifesta, se-
condo Lévi-Strauss, è solo il fatto che, al livello di ciascun accoppiamento,
un’identità è posta temporaneamente – entro l’evento del pasto – di conse-
guenza la struttura giunge a confermarsi localmente nel suo ordine globale.
È come se il mettere in rapporto delle serie avesse bisogno, per ravvivarsi,
di produrre periodicamente un’esperienza di identità – che sia ben chiaro
ciò che differisce quando «c’è della differenza [ça diffère]», che ciascuno
sappia bene chi è quando gioca il proprio ruolo nella struttura. La relazione
simmetrica e inversa tra produzione e consumo – che fa sì che i gruppi
sottomessi ai divieti totemici si distinguano ed entrino in un rapporto re-
golato producendo ciò che essi stessi non producono, ma che è prodotto
B. Karsenti - Il totemismo rivisitato 369

da altri – trova quindi in questi rituali contemporaneamente un punto di


annullamento e di ritorno:

La funzione dell’intichiuma è dunque quella di ristabilire, periodicamente


e momentaneamente, la contiguità tra produzione e consumo come se i gruppi
umani e le specie naturali avessero bisogno, di tanto in tanto, di contarsi a due
a due e per coppie di affini, prima di assumere ciascuna il posto che le compete
nel gioco: le specie, di nutrire quegli uomini che non le ‘producono’, gli uomi-
ni, di ‘produrre’ quelle specie che si fanno divieto di consumare. Nell’intichiu-
ma, di conseguenza, gli uomini realizzano momentaneamente la loro identità
sostanziale con le loro rispettive specie totemiche, per la doppia ragione che
ogni gruppo produce ciò che consuma e consuma ciò che produce, e che questo
è identico per ognuno e differente per tutti; per cui, il gioco normale di recipro-
cità non rischierà più di creare confusioni tra le definizioni fondamentali che
devono essere periodicamente ripetute30.

Se vi è instaurazione di contiguità è quindi solo al fine di permettere una


comparazione il cui scopo è di confermare le differenze, ma in nessun caso
di abolirle. Si può dunque parlare di ‘compromesso tra somiglianza e con-
tiguità’ e non di sostituzione, che la si faccia funzionare per somiglianza o
per contiguità. Ne segue che non si potrà più confondere il totemismo, di
cui l’intichiuma è un aspetto, con un processo sacrificale. Quest’ultimo, in
effetti, mette all’opera una logica di identificazione del tutto diversa: esso
effettua il passaggio da una specie ad un’altra specie, e si dispiega dunque
entro le serie, e non tra di esse. Questo passaggio, osserviamo, si compie
sempre in un senso determinato. Esso è orientato in modo tale da sfociare,
al termine della costruzione della sequenza, in un atto di distruzione che
gioca il ruolo di innesco di un meccanismo di beneficio [octroi]:

Una volta che mediante la sacralizzazione della vittima il rapporto tra l’uo-
mo e la divinità è stato assicurato, questo viene poi spezzato dal sacrificio con
la distruzione della vittima stessa. Ha luogo così una soluzione di continuità
ad opera dell’uomo; ma siccome egli aveva precedentemente istituito una co-
municazione tra il serbatoio umano e il serbatoio divino, quest’ultima dovrà
automaticamente riempire il vuoto, elargendo lo sperato beneficio31.

Una discontinuità s’inscrive nella continuità, nella misura in cui questa


è stata stabilita in vista del raggiungimento del suo punto di rottura. Ecco
perché la continuità della sequenza sacrificale comporta un’irreversibili-

30 Cl. Lévi-Strauss, La pensée sauvage, Plon, Paris 1962, pp. 299-300, tr. it., legger-
mente modificata, di P. Caruso, Il Saggiatore, Milano 1971, p. 247.
31 Ivi, p. 298, tr. it. cit., leggermente modificata, p. 246.
370 Il transindividuale

tà. Per riprendere il famoso esempio di Evans-Pritchard, i Nuer possono


sostituire, in un determinato contesto rituale, un bue con un cocomero nel
ruolo di vittima, ma la sostituzione inversa sarebbe un’assurdità. L’opera-
zione, nel suo dispiegamento completo, mira a produrre in fine un’azione
nella natura, ed ecco perché non può trattarsi di fare il cammino inverso.
Si tratta di immaginare una continuità, poi di romperla, affinché qualcosa
di nuovo si produca nel corso della sua reinstaurazione. A ciò si oppone la
discontinuità messa in opera nel totemismo, che si basa interamente sullo
scarto differenziale tra i termini, ed impedisce di confonderli proprio men-
tre si istituiscono delle equivalenze, e quindi delle relazioni reversibili, tra
di essi. Lavorando sulla somiglianza tra differenze, e non sulla contiguità
come vettore di sostituzione, il totemismo si singolarizza a titolo di moda-
lità del pensiero selvaggio.
Resta il fatto che questa interpretazione non dice in che modo si debba
considerare l’identificazione propria all’intichiuma, se è vero che quest’ul-
timo appartiene alla logica totemica, e non alla logica sacrificale. L’argo-
mento consistente nell’affermare che la dinamica comparativa ha bisogno
di tornare ad un’identità per ridispiegarsi lascia in sospeso la questione
relativa a ciò che ne è dell’identificazione prodotta in ciò che essa ha di
specifico – e in particolare di ciò che la distingue da questo altro tipo di
identificazione all’opera nel sacrificio. È possibile che vi sia in ciò di che
lavorare ad una rivalutazione della tesi durkheimiana, nella sua volontà di
conservare una qualche correlazione tra totemismo e sacrificio. Precisia-
mo: il problema è, più profondamente, quello di sapere se, in un processo
sacrificale, si tratti veramente soltanto di contiguità (o, per parlare come
Lévi-Strauss, di metonimia). La posta in gioco è importante perché con-
duce, parallelamente, a chiedersi se sia opportuno schiacciare d’emblée e
integralmente il totemismo sulla sua costituzione in sistema di relazioni,
come esigerebbe la prospettiva levi-straussiana. Una risposta negativa è
stata data recentemente da Philippe Descola, che ha potuto mostrare – ri-
prendendo in particolare le analisi di Brandenstein sulle denominazioni to-
temiche – che il totemismo merita di essere riconsiderato come un regime
di continuità tra l’uomo e certe entità naturali, governato da un processo
di identificazione particolare tra interiorità e fisicalità32. Secondo un’ottica
del tutto differente, Alfred Adler aveva stabilito altri limiti alla riduzione
compiuta da Lévi-Strauss: senza negare l’eterogeneità tra totemismo e sa-
crificio, appoggiandosi su di una rilettura di Evans-Pritchard e di Leenhardt
(sui Nuer e i Dinka), egli aveva chiarito la loro compatibilità, individuabile

32 Ph. Descola, Par-delà la nature et la culture, Gallimard, Paris 2005, p. 203 e sgg.
B. Karsenti - Il totemismo rivisitato 371

quantomeno nella figura di una «procedura sacrificale esigita dallo spirito


totemico o dalla divinità clanica»33. Nella lettura qui proposta si arriva in-
somma per altre vie a toccare gli stessi limiti: la costruzione durkheimiana
permette di porre la domanda seguente – non c’è forse ragione di sospettare
(persistendo, con Durkheim, ad interrogare l’intichiuma senza smarrire i
risultati di un’interrogazione incentrata sul sacrificio) l’esistenza di un’al-
tra modalità di somiglianza in quanto operazione primitiva del pensiero,
diversa dalla modalità della somiglianza tra serie omologhe? E l’interesse
dell’analisi di Durkheim, a dispetto delle obiezioni che l’etnologia doveva
legittimamente far valere contro di lui, non deve esser cercato in questa
direzione?

7. Mimetismo

Si noterà un fatto: la lettura che propone Lévi-Strauss dell’intichiuma è


centrata sulla seconda fase del rituale, cioè sulla famosa figura del pasto. E,
quando egli menziona la fase di moltiplicazione, è solo in vista del consu-
mo: ciascuno produce ciò che consuma e consuma ciò che produce. Questa
accentuazione è certo comprensibile: essa si pone nell’orbita di Robertson
Smith, anche se per confutarla depurando il fenomeno da ogni dimensione
sacrificale. Ora, è interessante, tornando a Durkheim, constatare che que-
sti abbandona del pari l’interpretazione di Smith, ma passando per un’al-
tra porta d’uscita. Egli si concentra al contrario sulla moltiplicazione, che
considera nel quadro di ciò che chiama i ‘rituali mimetici’. Ed è a questo
livello che fa emergere un concetto di somiglianza cui Lévi-Strauss non
presta attenzione.
Come si assiste la specie totemica di cui si vuole favorire la crescita?
Nell’intichiuma non si tratta solo di oblazioni, ma anche di imitazioni di
grida e movimenti degli animali della specie totemica. Il fatto merita tan-
to più di essere osservato nella prospettiva di Durkheim per il fatto che
quest’ultimo, lo si è visto, ha iniziato dal rifiuto dell’idea che un processo
imitativo sia alla base della sacralizzazione dei totem. Di che si tratta, al-
lora?
La domanda va in effetti posta nell’altro senso: se l’imitazione, nella fat-
tispecie, non è riproduzione di un dato esteriore, come può corrispondere
ad una produzione concepita come moltiplicazione della specie? O ancora:

33 A. Adler, «Totémismes», in Systèmes de pensée en Afrique Noire, 15, 1998, pp.


44-45.
372 Il transindividuale

come è possibile moltiplicare senza riprodurre, ma producendo, e quindi


introducendo nella realtà qualcosa di nuovo?
La scuola antropologica inglese ha ben visto il problema ed ha tentato
di risolverlo tramite la figura della magia simpatica. In un quadro chiara-
mente evoluzionista, Frazer ne aveva fatto l’origine dei rituali religiosi.
Ma si trattava allora di spiegare un fenomeno di riproduzione a partire
dall’idea confusa che consiste nel «prendere come identiche delle cose che
si somigliano». Nel caso che ci interessa qui, nella misura in cui non si può
ricorrere ad una siffatta derivazione a partire da un animale preso come
referente oggettivo – nella misura in cui, ricordiamolo, la rappresentazione
è primaria, non derivata – tale non può essere il caso. Ed è al contrario
verso il totem stesso che occorre rivolgerci per comprendere che il rituale
mimetico può essere realmente produttore:

Gli uomini che si riuniscono in occasione di questi riti credono realmente


di essere animali o piante della specie di cui recano il nome. Essi si sentono di
una natura vegetale o animale, ed essa costituisce ai loro occhi ciò che vi è di
più essenziale e di più eccellente in loro […] Il totem è il loro segno di raccolta:
per questo motivo – come si è visto – essi se lo disegnano sul corpo; ma non
è meno naturale che cerchino di assomigliargli con i gesti, le grida, l’atteg-
giamento. Essendo emù o canguri, essi si comporteranno come animali dello
stesso nome. Con questo mezzo essi si testimoniano reciprocamente di appar-
tenere alla stessa comunità morale, ed assumono coscienza della parentela che
li unisce. Il rito non si limita ad esprimere questa parentela. La fa o la rifà34.

In breve, il rito mimetico è più fabbricatore che espressivo. Esso pro-


duce della parentela. Così, possiamo dire che il principio qui invocato da
Durkheim, secondo cui ‘il simile produce il simile’, deve essere preso
alla lettera: esso non mira ad un meccanismo di riproduzione imitativa,
ma piuttosto alla generazione di una parentela interiormente vissuta dai
soggetti del rituale – rituale che bisognerebbe soprattutto vedere come un
processo di autoaffezione mentale, condizione di una parentela costruita.
Viversi come canguro o emù, in queste condizioni, non significa vivere
come il canguro o l’emù reali. Significa produrre in se stessi un’apparte-
nenza al gruppo del canguro o dell’emù. La somiglianza, in questo caso,
giocherebbe ad un livello che non è né somiglianza tra identità disgiunte,
né somiglianza tra differenze: essa sarebbe piuttosto il vettore di un’altera-
zione interna al soggetto tramite la quale si produrrebbe la sua appartenen-
za ad un collettivo. Così si spiega la centralità dei rituali mimetici. Con ciò,

34 FEVR, p. 511, tr. it. cit., pp. 390-391.


B. Karsenti - Il totemismo rivisitato 373

essi mettono in luce, secondo Durkheim, un motore segreto di qualunque


tipo di condotta religiosa, ivi compresa quella moderna, che non è fatta va-
cillare dagli argomenti razionalisti che contestano a buon diritto l’oggetto
della fede. Il fatto è che – e non si può evitare di leggere in ciò degli accenti
autobiografici, come ha suggerito Arnaldo Momigliano, accostando i clan
australiani delle Forme alle piccole comunità ebraiche d’Alsazia-Lorena
da cui Durkheim proveniva – le pratiche rituali valgono innanzitutto per il
modo «in cui esse influiscono sul nostro livello mentale»35, e ciò che merita
dunque il nome di fede deve essere riferito a questa modificazione psichica
che il mimetismo rituale rende visibile. Indipendentemente dalle operazio-
ni razionali che si elaborano sulla base dell’esperienza percettiva, la fede
rinvia ad un’esperienza mentale distinta. Così Durkheim può meglio evi-
denziare la propria opposizione alle tesi di Lévy-Bruhl. L’impermeabilità
del pensiero primitivo all’esperienza, lungi dall’essere il segno della sua
refrattarietà al pensiero logico, è il segno di un oltrepassamento dell’espe-
rienza che opera tanto presso i primitivi che presso i civilizzati. Ora, è a
questo oltrepassamento che il pensiero logico attinge in permanenza, ovun-
que esso si produca. Da questo punto di vista, l’intichiuma sarà stato il
punto di partenza di una ricerca innovativa sulle condizioni del pensiero.
Ricerca che, nel caso in esame, procede da un’interrogazione a pro-
posito del pensiero causale. E se ne comprende facilmente il perché. Di
fatto, ciò che si gioca nella questione mimetica rovesciata – quella che
prende a principio ‘il simile produce il simile’, e non ‘il simile riprodu-
ce il proprio modello’ – si riduce ad un enunciato concreto della legge di
causalità. Insomma, non vi sarebbe causalità senza una sorta di fede – non
credenza fondata sull’abitudine, secondo la tesi empirista, ma costituzione
di un livello mentale in cui l’oltrepassamento dell’esperienza si elabora
logicamente. Qual è esattamente questo nucleo logico, collocato al cuo-
re dei rituali mimetici? Nella causalità, si noterà innanzitutto che si trova
implicata una teoria del cambiamento reale. Una cosa agisce su di un’altra
cosa, e questa azione vi produce un effetto. Ma donde viene quest’idea
che una cosa possa agire? Una risposta classica è stata fornita da Comte,
tramite la categoria di feticismo, la quale, come ha mostrato Canguilhem,
deriva dal pensiero anglo-scozzese, in particolare da Hume e da Smith. Se
il feticismo poteva apparire come il primo stadio del pensiero umano, era in
quanto esso configurava l’ipotesi originaria di un’azione delle cose analoga
alla nostra, per proiezione del sentimento che il soggetto prova di essere la
fonte delle proprie azioni. In contrasto a ciò, si comprende allora in cosa

35 FEVR, p. 514, tr. it. cit., p. 393.


374 Il transindividuale

consiste lo spostamento totemico messo in opera da Durkheim: sotto il


totem – e nella misura in cui appunto quest’ultimo non è l’animale o la
pianta totemica, a titolo di cosa del mondo – una forza è posta nelle cose,
forza che non si trova in alcuna di esse, e che può collegarle solo in ragione
di questa estrazione – in breve, una forza che si caratterizza essenzialmente
per la sua impersonalità. Di conseguenza è possibile dire che è esattamente
attraverso lo stesso movimento che si è pensata l’azione nella realtà, la
forza nel mondo e la sua impersonalità. Poiché quest’ultima è ciò che per-
mette alla realtà di collegarsi, di manifestarsi al soggetto come collegata in
se stessa, in virtù di rapporti che, se non possiedono ancora la leggibilità
di rapporti di causazione controllabili, nondimeno sono comunque già dei
rapporti, mentalmente concepibili secondo questo protorapporto causale
che si enuncia con ‘il simile produce il simile’.
È noto che uno degli obiettivi centrali delle Forme è quello di fornire
una soluzione sociologica al dibattito filosofico sull’origine delle categorie
– cosa che suppone, nelle intenzioni dell’autore, di opporre e di criticare
tanto l’opzione empirista che quella trascendentalista. Ciò che ora vediamo
è che questo rifiuto passa in effetti per la delucidazione dei rituali mimetici
manifestati nell’intichiuma. E si è infine ricondotti alla dimensione dell’im-
personalità intesa come risorsa propriamente intellettuale, logica piuttosto
che affettiva. Occorre tuttavia sottolineare che solo una concezione assai
curiosa del mimetismo autorizza infine una tale conclusione. In effetti, lun-
gi dal riferire lo spirito alla realtà tramite una riproduzione, il mimetismo
è considerato qui come un processo di alterazione mentale in cui si intesse
un legame di parentela che serve da punto d’appoggio ad un’operazione
di oltrepassamento nel pensiero – intendendo con ciò in effetti il fatto che
il soggetto pervenga a collocarsi su di un piano che non è quello della sua
esperienza di soggetto individuale percipiente certe cose del mondo. Di
questo oltrepassamento, è significativo che un certo concetto di somiglian-
za se ne riveli l’operatore. Questo concetto non si confonde con quello che
Lévi-Strauss invoca nella sua propria spiegazione del totemismo, cioè il
concetto di una somiglianza ricondotta ad un’omologia tra serie. Qui, la
somiglianza gioca innanzitutto all’interno delle serie, e non tra esse. Coin-
volta in una dinamica di moltiplicazione, essa conserva un carattere sostan-
ziale, e non si risolve in una procedura formale di comparazione. Essa sot-
tende l’operazione mimetica, in ciascun soggetto di ciascun clan, nell’atto
in virtù del quale esso si vive come il totem del suo clan, partecipa alla sua
crescita tramite questo atto rituale – in breve, entra in questo rituale di mol-
tiplicazione che è appunto, in primo luogo, l’intichiuma. Dunque, ciò che
attesta il mimetismo, per poco che lo si voglia distinguere dall’imitazione
B. Karsenti - Il totemismo rivisitato 375

della copia rispetto al modello, è la costituzione nel soggetto di un piano


d’esistenza distinto da ciò che implica la sua pura individualità.
Questo piano occorre qualificarlo congiuntamente come sociale e indi-
viduale. Quella ‘socio-logica’ che è la sociologia, per parlare ancora come
Lévi-Strauss, proverebbe con ciò la propria completa validità. Ma solo a
condizione di seguire un’altra via rispetto a quella aperta da questi. Nello
specifico, si tratta di concedere che del senso si costruisca in un ordine
propriamente rituale e che questa costruzione sfrutti un tipo di somiglianza
che il ritaglio strutturale non coglie, in quanto si limita ad opporre con-
tiguità materiale e somiglianza formale, identificazione e comparazione,
sacrificio e totemismo. In una prospettiva che resta rigorosamente intel-
lettualistica, il pensiero durkheimiano esige al contrario che ciascuna di
queste coppie sia riarticolata. Solo allora la sua concezione del simbolismo
manifesta il proprio specifico rigore e mostra in piena luce il proprio obiet-
tivo: imboccare le vie tortuose della pratica religiosa per chiarire, non già
una fase remota del pensiero logico, ma la sua vitalità più essenziale e più
duratura, cioè la sua non-derivazione dall’esperienza sensibile.

[Traduzione dal francese di Andrea Cavazzini]


377

GLI AUTORI

ETIENNE BALIBAR è professore emerito (Philosophie politique et morale) presso


l’Università di Paris-X Nanterre e Anniversary Chair in Philosophy alla Kingston
University di Londra. È autore tra l’altro di Lire le Capital (in collaborazione con
L. Althusser, P. Macherey, J. Rancière, R. Establet), Editions François Maspéro,
Paris 1965; Race, Nation, Classe. Les identités ambiguës (in collaborazione con I.
Wallerstein), Editions La Découverte, Paris 1997; La crainte des masses. Politique
et philosophie avant et après Marx, Editions Galilée, Paris 1998; Nous, citoyens
d’Europe? Les frontières, l’Etat, le peuple, Editions La Découverte, Paris 2002;
Spinoza. Il transindividuale, Edizioni Ghibli, Milano 2001; La proposition de
l’égaliberté. Essais politiques 1989-2009, PUF, Paris 2011; Citoyen-Sujet et autres
essais d’anthropologie philosophique, PUF, Paris 2012; Saeculum. Culture, religion,
idéologie, Galilée, Paris 2013.

ANDREA CAVAZZINI lavora presso l’Università di Liegi. È membro del Groupe de


Recherches Matérialistes (GRM) e dell’associazione ‘Louis Althusser’. Dirige con
Maria Turchetto e Enrico Castelli Gattinara la collana «Epistemologia» (edizioni
Mimesis). Tra le sue pubblicazioni, oltre a diversi articoli e numerose traduzioni
di Gaston Bachelard, Georges Canguilhem, Alexandre Koyré e Gilles Chatelet,
ricordiamo la direzione dei volumi collettivi Scienze, epistemologia, società
(Mimesis, Milano 2010), L’epistemologia francese e il problema del trascendentale
storico (con Alberto Gualandi, Quodlibet, Macerata 2006) e Logiche del vivente
(con A. Gualandi, Quodlibet, Macerata 2006) e le monografie Il vivente, l’analogia,
le scienze (Mimesis, Milano 2007), Signes, formes, gestes (Hermann, Paris 2012),
Le sujet et l’étude. Idéologie et savoir dans le discours maoiste (Le Clou dans le
Fer, Paris 2010) e Enquête ouvrière et théorie critique (Presses Universitaires de
Liège, Liège 2013).

FELICE CIMATTI insegna Filosofia del linguaggio all’Università della Calabria.


Fra le sue pubblicazioni Naturalmente comunisti (Bruno Mondadori, Milano
2011), La vita che verrà. Biopolitica per ‘Homo sapiens’ (Ombrecorte, Verona
2011), Filosofia dell’animalità (Laterza, Bari-Roma 2013). Ha curato, insieme
a Silvia Vizzardelli, Filosofia della psicoanalisi. Un’introduzione in ventuno
passi (Quodlibet, Macerata 2012), e con Alberto Luchetti Corpo, linguaggio e
psicoanalisi (Quodlibet, Macerata 2013).
378 Il transindividuale

MURIEL COMBES vive in Bretagna dove ormai pratica la filosofia sotto forma
di shiatsu, una pratica terapeutica manuale. È autrice, oltre che dell’opera su
Simondon ripubblicata ora presso le edizioni Dittmar (Paris) dal titolo Simondon,
Une philosophie du transindividuel, di La vie inséparée. Vie et sujet au temps de
la biopolitique, apparsa nel 2011 presso lo stesso editore, e di un pezzo sonoro
sull’amore ed il comunismo intitolato «A coeurs vaillants», che può essere ascoltato
on line sul sito laviemanifeste.com.

MARIANA GAINZA è laureata in Sociologia (Università di Buenos Aires) ed è


dottore in Filosofia (Università di São Paulo). Ricercatrice del CONICET (Argentina),
è docente nel corso di Scienze politiche presso la UBA. È autrice del libro Espinosa.
Uma filosofia materialista do infinito positivo (Edusp, São Paulo 2011).

AUGUSTO ILLUMINATI ha insegnato Storia della filosofia presso l’Università di Urbino.


Collabora ad Alfabeta2 e DinamoPress. Fra le sue pubblicazioni: Società e progresso
nell’illuminismo francese (Quattroventi, Urbino 1972), J.-J. Rousseau e la fondazione
dei valori borghesi (Il Saggiatore, Milano 1977, rist. come Rousseau, solitudine e
comunità, Manifestolibri, Roma 2002), Gli inganni di Sarastro (Einaudi, Torino
1980), Completa beatitudo: l’intelletto felice in tre opuscoli averroisti (L’orecchio
di Van Gogh, Chiaravalle 2000), Del comune (Manifestolibri, Roma 2003), Spinoza
atlantico (Ghibli, Milano 2008), Tumulti (con T. Rispoli, Derive Approdi, Roma
2011) e Teologia dei quattro elementi (Mimesis, Milano 2012).

BRUNO KARSENTI insegna filosofia presso l’EHESS di Paris. Ha pubblicato


numerose opere sul pensiero sociologico e antropologico (in particolare su Mauss,
Comte, Durkheim, Tarde...), considerato da un punto di vista insieme storico e
politico. Più recentemente è impegnato in una ricostruzione genealogica del
concetto di popolo, facendo leva sul paradigma freudiano (Moïse et l’idée de
peuple. La vérité historique selon Freud, Le Cerf, Paris 2012), e nello spostamento
della pratica filosofica nella direzione della scienze sociali (D’une philosophie à
l’autre. Les sciences sociales et la politique des modernes, Gallimard, Paris 2013).

FRÉDÉRIC LORDON è direttore di ricerca in Filosofia al CNRS, membro del CESSP


(Université Paris-1 La Sorbonne, EHESS). Lavora allo sviluppo di un programma
di ricerche spinoziste in scienze sociali ed in particolare ad un’‘economia politica
spinozista’. Ha pubblicato recentemente L’Intérêt souverain. Essai d’anthropologie
économique spinoziste (La Découverte, Paris 2006), Capitalisme, désir et
servitude. Marx et Spinoza (La Fabrique, Paris 2010), La société des affects. Pour
un structuralisme des passions (Seuil, Paris 2013).

PATRICE MANIGLIER è maître de conférences presso il Dipartimento di filosofia


dell’Università di Paris Ouest Nanterre La Défense. È autore di La Vie énigmatique
des signes: Saussure et la naissance du structuralisme, Léo Scheer, Paris 2006,
Foucault va au cinéma (con D Zabunyan), Bayard, Paris 2010, e ha diretto Le
Moment philosophique des années soixante en France, PUF, Paris 2011.
Gli autori 379

WARREN MONTAG è Brown Family Professor of Literature presso l’Occidental


College di Los Angeles. È autore di libri su Spinoza e Althusser, il più recente
dei quail è Althusser and His Contemporaries: Philosophy’s Perpetual War (Duke
University Press, Durham London 2013). È direttore di Décalages: a Journal of
Althusser Studies.

VITTORIO MORFINO è ricercatore di Storia della filosofia presso l’Università


di Milano-Bicocca ed è stato visiting professor presso la USP di São Paulo e
l’Université de Paris 1 Panthéon-Sorbonne; tra le sue pubblicazioni più recenti
Spinoza e il non contemporaneo (Ombrecorte, Verona 2009), Le temps de la
multitude (Amsterdam, Paris 2010) e Le temps et l’occasion. La rencontre Spinoza
Machiavel (Garnier, Paris 2012). È redattore di Quaderni materialisti e Décalages.

FRANCISCO NAISHTAT, laureato in Filosofia alla Sorbona, è Dottore in Filosofia


(Università di Buenos Aires) ed ha conseguito l’Habilité à Diriger des Recherches
presso l’Università di Paris 8. Insegna Filosofia contemporanea presso le
Università di La Plata e di Buenos Aires. È stato Directeur de Programme presso il
Collège International de Philosopphie (Paris, 2004-2010). Dal 2003 è ricercatore
in Filosofia contemporanea presso CONICET (Argentina) con particolare riguardo
per la filosofia della storia e della prassi. È autore di Action et langage. Des niveaux
linguistiques de l’action aux forces illocutionnaires de la protestation (Harmattan,
Paris 2010).

JASON READ è Associate Professor in Filosofia presso l’Università del Southern


Maine. È autore di The Micro-Politics of Capital: Marx and the Prehistory of
the Present (SUNY, Albani 2003), Relations of Production: Transindividuality
between Economics and Politics (in corso di pubblicazione per la collana
ʻHistorical Materialismʼ presso Brill, Leiden Boston) e di numerosi articoli su
Spinoza, Althusser, Negri e Deleuze.

GUILLAUME SIBERTIN-BLANC è Maître de conférence in Filosofia contemporanea


presso L’Università Toulouse 2-Le Mirail. Si occupa della filosofia francese del
XX secolo, del pensiero politico contemporaneo e dei rapporti tra filosofia e
scienze umane. Le ultime pubblicazioni sono Politique et Etat chez Deleuze et
Guattari (PUF, Paris 2013), «De l’hégémonie sans classe à la politique comme
représentation. Sur la ‘construction du peuple’ selon Laclau» (Tumultes, 40, 2013),
«Du simulacre démocratique à la fabulation du peuple: le populisme minoritaire»
(Actuel Marx, 54, 2013).
ETEROTOPIE
Collana diretta da Pierre Dalla Vigna e Salvo Vaccaro

1. Nerozzi Bellman Patrizia (a cura di), Internet e le muse. La rivoluzione digitale


nella cultura umanistica
2. Vaccaro Salvo (a cura di), Il secolo deleuziano
3. Berni Stefano, Soggetti al potere. Per una genealogia del pensiero di Michel Fou-
cault
4. Carbone Paola (a cura di), Congenialità e traduzione
5. Marzocca Ottavio, Transizioni senza meta. Oltremarxismo e antieconomia
6. Carbone Paola (a cura di), Le comunità virtuali
7. Fadini Ubaldo, Principio metamorfosi. Verso un’antropologia dell’artificiale
8. Mello Patrizia (a cura di), Spazi della patologia, patologia degli spazi
9. Petrilli Susan, Ponzio Augusto, Fuori campo. I segni del corpo tra rappresenta-
zione ed eccedenza
10. Carmagnola Fulvio, La specie poetica. Teorie della mente e intelligenza sociale
11. Deleuze Gilles, La passione dell’immaginazione. L’idea della genesi nell’estetica
di Kant
12. De Michele Girolamo, Tiri Mancini. Walter Benjamin e la critica italiana
13. Riccio Franco, Vaccaro Salvo (a cura di), Nietzsche in lingua minore
14. Carbone Paola, Patchwork Theory. Dalla letteratura postmoderna all’ipertesto
15. Ferri Paolo, La rivoluzione digitale. Comunità, individuo e testo nell’era di Internet
16. Foucault Michel, Spazi altri. I luoghi delle eterotopie
17. Bataille Georges, La condizione del peccato
18. Carbone Paola (a cura di), eLiterature in ePublishing
19. Dal Bo Federico, Società e discorso. L’etica della comunicazione in Karl Otto
Apel e Jacques Derrida
20. Deleuze Gilles, Istinti e istituzioni
21. Paquot Thierry, L’utopia ovvero un ideale equivoco
22. Pirrone Marco Antonio, Approdi e scogli. Le migrazioni internazionali nel Medi-
terraneo
23. Ponzio Augusto, Individuo umano, linguaggio e globalizzazione nella filosofia di
Adam Schaff
24. Simone Anna, Divenire sans papiers. Sociologia dei dissensi metropolitani
25. Vaccaro Salvo (a cura di), La censura infinita. Informazione in guerra, guerra
all’informazione
26. Artaud Antonin, CsO. Il corpo senz’Organi
27. Moulian Tomás, Una rivoluzione capitalista. Il Cile, primo laboratorio mondiale
del neoliberismo
28. Thea Paolo, Il vero cioè il falso. Invenzione, riconoscimento e rivelazione nell’arte
29. Amato Pierandrea (a cura di), La biopolitica. Il potere e la costituzione della sog-
gettività
30. Bertuccioli Manolo, Carlos Castaneda e i navigatori dell’infinito
31. Bonaiuti Gianluca, Simoncini Alessandro (a cura di), La catastrofe e il parassita.
Scenari della transizione globale
32. Buchbinder David, Sii uomo! Studio sulle identità maschili
33. Cozzo Andrea, Conflittualità nonviolenta. Filosofia e pratiche di lotta comunicativa
34. Deleuze Gilles, Fuori dai cardini del tempo, Lezioni su Kant
35. Galluzzi Francesco, Roba di cui sono fatti i sogni. Arte e scrittura nella modernità
36. Leghissa Giovanni, Il gioco dell’identità. Differenza, alterità, rappresentazione
37. Maistrini Maria, Il figurale in J.-F. Lyotard
38. Montanari Moreno, Il Tao di Nietzsche
39. Vaccaro Salvo, Globalizzazione e diritti umani. Filosofia e politica della modernità
40. Bazzanella Emiliano, Il ritornello. La questione del senso in Deleuze-Guattari
41. Fabbri Lorenzo, L’addomesticamento di Derrida. Pragmatismo/ Decostruzione
42. Marcenò Serena, Le tecnologie politiche dell’acqua. Governance e conflitti in Pa-
lestina
43. Piana Gabriele, Conoscenza e riconoscimento del corpo
44. Prebisch Raul, La crisi dello sviluppo argentino. Dalla frustrazione alla crescita
vigorosa
45. Scopelliti Paolo, Psicanalisi surrealista. L’influenza del surrealismo su Hesnard,
Lacan, Deleuze e Guattari
46. Vaccaro Salvo, Biopolitica e disciplina. Michel Foucault e l’esperienza del GIP
(Group d’Information sur les prisons)
47. Vercelloni Luca, Viaggio intorno al gusto. L’odissea della sensibilità occidentale
dalla società di corte all’edonismo di massa
48. Caronia Antonio, Livraghi Enrico, Pezzano Simona, L’arte nell’era della produ-
cibilità digitale
49. Dino Alessandra (a cura di), La violenza tollerata. Mafia, poteri, disobbedienza
50. Rodda Fabio, Cioran, l’antiprofeta. Fisionomia di un fallimento
51. Scolari Raffaele, Paesaggi senza spettatori. Territori e luoghi del presente
52. Pastore Luigi, Limnatis G. Nectarios (a cura di), Prospettive del postmoderno
Vol.1. Profili epistemici
53. Poidimani Nicoletta, Oltre le monocolture del genere
54. Pastore Luigi, Limnatis G. Nectarios (a cura di), Prospettive del postmoderno
Vol.2. Profili epistemici
55. Bellini Paolo, Cyberfilosofia del potere. Immaginari, ideologie e conflitti della ci-
viltà
56. Bazzanella Emiliano, Etica del tardocapitalismo
57. Cuttita Paolo, Segnali di confine. Il controllo dell’immigrazione nel mondo-fron-
tiera
58. De Conciliis Eleonora (a cura di), Dopo Foucault. Genealogie del postmoderno
59. Di Benedetto Giovanni, Il naufragio e la notte. La questione migrante tra acco-
glienza, indiffernza ed ostilità
60. Pagliani Piero, Naxalbari-India. L’insurrezione nella futura “terza potenza mon-
diale”
61. Vaccaro Giovanbattista, Per la critica della società della merce
62. Vinale Adriano (a cura di), Biopolitica e democrazia
63. Demichelis Lelio, Leghissa Giovanni (a cura di), Biopolitiche del lavoro
64. Corradi Luca, Perocco Fabio (a cura di), Sociologia e globalizzazione
65. Bellini Paolo (a cura di), La rete e il labirinto. Tecnologia, identità e simbolica
politica
66. Dalla Vigna Pierre, A partire da Merleau-Ponty. L’evoluzione delle concezioni
estetiche merleau-pontyane nella filosofia francese e negli stili dell’età contem-
poranea
67. Riccioni Ilaria (a cura di), Comunicazione, cultura, territorio. Contributi della
sociologia contemporanea,
68. Pasquino Monica, Plastina Sandra (a cura di), Fare e disfare. Otto saggi a partire
da Judith Butler
69. Bertoldo Roberto, Anarchismo senza anarchia. Idee per una democrazia anar-
chica
70. Del Bono Serena, Foucault, pensare l’infinito. Dall’età della rappresentazione
all’età del simulacro
71. Dino Alessandro e Licia A. Callari (a cura di), Coscienza e potere. Narrazioni
attraverso il mito
72. Farci Manolo, Pezzano Simona (a cura di), Blue lit stage. Realtà e rappresentazio-
ne mediatica della tortura
73. La Grassa Gianfranco, Tutto torna ma diverso. Capitalismo o capitalismi?
74. Dalla Vigna Pierre, La Pattumiera della storia. Beni culturali e società dello spet-
tacolo
75. Palumbo Antonino, Vaccaro Salvo (a cura di), Governance e democrazia. Tecni-
che del potere e legittimità dei processi di globalizzazione
76. Vaccaro Giovanbattista (a cura di), Al di là dell’economico. Per una critica filo-
sofica dell’economia
77. Meattini Valerio, Pastore Luigi (a cura di), Identità, individuo, soggetto tra mo-
derno e postmoderno
78. Dino Alessandra (a cura di), Criminalità dei potenti e metodo mafioso
79. Scolari Raffaele, Filosofi e del mastodontico. Figure contemporanee del sublime
della grande dimensione
80. Trasatti Filippo, Leggere Deleuze attraverso Millepiani
81. Manicardi Enrico, Liberi dalla civiltà. Spunti per una critica radicale ai fonda-
menti della civilizzazione: dominio, cultura, paura, economia, tecnologia
82. Vaccaro Gianbattista, Antropologia e utopia. Saggio su Herbert Marcuse
83. Trasatti Filippo, Filippi Massimo (a cura di), Nell’albergo di Adamo. Gli animali,
la questione animale e la filosofia
84. Franck Giorgio, Il feticcio e la rovina. Società dello spettacolo e destino dell’arte
85. Marzocca Ottavio (a cura di), Governare líambiente? La crisi ecologica tra poteri,
saperi e conflitti
86. Grossmann Henryk, Il crollo del capitalismo. La legge dell’accumulazione e del
crollo del sistema capitalista
87. Pullia Francesco, Dimenticare Cartesio. Ecosofia per la compresenza
88. Bazzanella Emiliano, Religio I. Senso e fede nel tardocapitalismo
89. Foucault Michel, La società disciplinare
90. Palano Damiano, Volti della paura. Figure del disordine all’alba dell’era biopo-
litica
91. Simone Anna, I corpi del reato. Sessualità e sicurezza nelle società del rischio
92. De Gaspari Mario, Malacittà. La finanza immobiliare contro la società civile
93. Ruta Carlo, Guerre solo ingiuste. La legittimazione dei conflitti e l’America dal-
l’Vietnam all’Afghanistan
94. Frazzetto Giuseppe, Molte vite in multiversi. Nuovi media e arte quotidiana
95. Bazzanella Emiliano, Religio II. La religione del soggetto
96. Brindisi Gianvito, de Conciliis Eleonora (a cura di), Lavoro, merce, desiderio
97. Casiccia Alessandro, I paradossi della società competitiva
98. Castanò Ermanno, Ecologia e potere. Un saggio su Murray Bookchin
99. d’Errico Stefano, Il socialismo libertario ed umanista oggi fra politica ed anti-
politica
100. Tursi Antonio, Politica 2.0. Blog, Facebook, YouTube, WikiLeaks: ripensare la
sfera pubblica
101. Lombardi Chiara, Mondi nuovi a teatro. L’immagine del mondo sulle scene euro-
pee di Cinquecento e Seicento: spazi, economia, società
102. Petrillo Antonello (a cura di), Società civile in Iraq. Retoriche sullo “scontro di
civiltà” nella terra tra i due fiumi
103. Paolo Bellini, Mitopie tecnopolitiche. Stato, nazione, impero e globalizzazione
104. Palumbo Antonino, Segreto Viviana (a cura di), Globalizzazione e governance
delle società multiculturali
105. Bertoldo Roberto, Nullismo e letteratura. Al di là del nichilismo e del postmoder-
no debole. Saggio sulla scientificità dell’opera letteraria
106. Ruggero D’Alessandro, La comunità possibile. La democrazia consiliare in Rosa
Luxemburg e Hannah Arendt,
107. Tessari Alessandro (a cura di), Sindrome giapponese. La catastrofe nucleare da
Chernobyl a Fukushima
108. Bonazzi Matteo, Carmagnola Fulvio, Il fantasma della libertà. Inconscio e politi-
ca al tempo di Berlusconi, 2011
109. Mario De Gaspari, La Bolla immobiliare. Le conseguenze economiche delle poli-
tiche urbane speculative, 2011
110. Bruni Sara Elena Anna, Colavero Paolo, Nettuno Antonio (a cura di), L’animale
di gruppo. Etologia e psiconalisi di gruppo. Riflessioni gruppali da un seminario
urbinate, 2011
111. Segreto Viviana, «Il padre di tutte le cose» Appunti per una pedagogia del con-
flitto, 2011
112. Alessandra Dino (a cura di), Poteri criminali e crisi della democrazia, 2011
113. Serena Marcenò, Biopolitica e sovranità. Concetti e pratiche di governo alle so-
glie della modernità
114. Cosimo Degli Atti, Soggetto e verità. Michel Foucault e l’Etica della cura di sé
115. Pascal Boniface, Verso la quarta guerra mondiale
116. Guido Dalla Casa, L’ecologia profonda. Lineamenti per una nuova visione del
mondo
117. Il clown. Il meglio di Wikileaks sull’anomalia italiana, introduzione di Marco
Marsili
118. Carlo Grassi, Sociologia della cultura tra critica e clinica. Battaile, Barthes, Lyotard
119. Friedrich Georg Jünger, Ernst Jünger, Guerra e guerrieri. Discorso
120. Emma Palese, Benvenuti a Gattaca. Corpo liquido, pedicopolitica, genetocrazia
121. Anna Simone (a cura di), Sessismo democratico. L’uso strumentale delle donne
nel neo liberismo
122. Matthew Calarco, Zoografie. La questione dell’animale da Heidegger a Derrida
123. Luigi Vergallo, Economia reale ed economia sommersa nel riminese in prospettiva
storica
124. Salvo Vaccaro (a cura di), L’onda araba. I documento delle rivolte
125. Valeria Nuzzo, L’immagine per il paesaggio e l’architettura. Percorsi didattici
per la scuola
126. Félix Guattari, Una tomba per Edipo. Introduzione di Gilles Deleuze
127. Raffaele Federici, Sociologie del segreto
128. Luca Taddio, Global revolution. Da Occupy Wall Street a una nuova democrazia
129. Enrique Dussel, Indignados
130. James Tobin, Tobin Tax
131. Jean-François Lyotard, Istruzioni pagane
132. Delfo Cecchi, Cibo, corpo, narrazione. Sondaggi estetici
133. Mario Giorgetti Fumel, Federico Chicchi (a cura di), Il tempo della precarietà
Sofferenza soggettiva e disagio della postmodernità
134. Spartaco Pupo, Robert Nisbet e il conservatorismo sociale
135. Giuseppina Tumminelli, Strategie di ri-produzione. Aziende agricole e strutture
familiari nella Sicilia centro-occidentale
136. Iris Gavazzi, Il vampiresco. Percorsi nel brutto
137. Ferruccio Capelli, Indignarsi è giusto
138. Enrico Manicardi, L’ultima era. Comparsa, decorso, effetti di quella patologia
sociale ed ecologica chiamata civiltà
139. Manuele Bellini, Corpo e rivoluzione. Sulla filosofia di Luciano Parinetto
140. Giovan Battista Vaccaro, Le idee degli anni Sessanta
141. Milena Meo, Il corpo politico. Biopotere, generazione e produzione di soggettività
femminili
142. Massimiliano Vaghi, L’idea dell’India nell’Europa moderna (secoli XVII-XX)
143. Gianluca Cuozzo, Mr. Steve Jobs. Sognatore di computer
144. Paolo Cuttitta, Lo spettacolo del confine. Lampedusa tra produzione e messa in
scena della frontiera
145. Emiliano Bazzanella, Religio III. Logica e follia
146. Emma Palese, La filosofia politica di Zygmut Bauman. Individuo, società, potere,
etica, religione nella liquidità del nostro tempo
147. Emma Palese, Mostri, draghi e vampiri. Dal meraviglioso totalizzante alla natu-
ralizzazione delle differenze
148. Matteo Bonazzi, Lacan e le politiche dell’inconscio. Clinica dell’immaginario
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151. Fulvio Carmagnola, Clinamen. Lo spazio estetico nell’immaginario contemporaneo
152. Francesco Pullia, Al punto di arrivo comune. Per una critica della filosofia del
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153. Maurizio Soldini, Hume e la bioetica
154. Gianluca Cuozzo, Gioco d’azzardo. La società dello spreco e i suoi miti
155. Andrea Gilardoni, Distruzioni. Potere & Dominio I
156. Andrea Gilardoni, (Dis)obbedienza. Meccanismi, strategie, argomenti. Potere &
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157. Nicoletta Vallorani, Millennium London, Of Other Spaces and the Metropolis
158. Giuseppe Armocida, Gaetana S. Rigo (a cura di), Dove mi ammalavo. La geogra-
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160. Tindaro Bellinvia, Xenofobia, sicurezze, resistenza. L’ordine pubblico in una città
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165. Stefano Cardini (a cura di), Piazza Fontana. 43 anni dopo. Le verità di cui abbia-
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166. Isacco Turina, Chiesa e biopolitica. Il discorso cattolico su famiglia, sessualità e
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167. Felice Papparo, Perdere tempo
168. Ugo Maria Olivieri, Il dono della servitù. étienne de La Boétie tra Machiavelli e
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169. Giovanna D’Amia, Milano e Parigi. Sguardi incrociati.
170. Vittorio Morfino (a cura di) Machiavelli: tempo e conflitto
171. Andrea Gilardoni, Potere potenziale
172. Laura Sanò, Donne e violenza
173. Marilena Parlati, Oltre il moderno. Orrori e tesori del lungo Ottocento inglese
174. Damiano Palano, La democrazia e il nemico
175. Andrea Rabbito, Il moderno e la crepa
176. Pierre Dalla Vigna, Estetica e ideologia
177. Paola Gandolfi, Rivolte in atto
178. Chiara Simonigh (a cura di) Pensare la complessità. Per un umanesimo planetario
179. Carmelo Buscema, L’epocalisse finanziaria. Rivelazioni (e rivoluzione) nel mondo
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180. Lidia Lo schiavo, Governance Globale, Governamentalità, Democrazia
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182. Francesco Saverio Festa, Un’altra “teologia politica”?
183. Daniela Calabrò, L’ora meridiana. Il pensiero inoperoso di Jean-Luc Nancy tra
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184. Mimmo Pesare, Comunicare Lacan. Attualità del pensiero lacaniano per le scien-
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187. Marta Sironi, Ridere dell’arte. L’arte moderna nella grafica satirica europea tra
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188. Gianpaolo Di Costanzo, Assi mediani. Per una topografia sociale della provincia
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190. Francesca Nicoli, Giù le mani dalla modernità
191. Leonardo Vittorio Arena, La durata infinita del non suono
192. Anselm Jappe, Contro il denaro
193. Giovanni Comboni, Marco Frusca, Andrea Tornago (a cura di), L’abitare e lo
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194. Gianluca Cuozzo, Regno senza grazia. Oikos e natura nell’era della tecnica
195. Elisa Virgili, Ermafroditi
196. Flavia Conte (a cura di), Conversazioni sul postmoderno. Letture critiche del no-
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197. Alessandra MR D’Agostino, Sesso mutante. I transgender si raccontano
198. Gianfranco La Grassa, L’altra strada. Per uscire dall’impasse teorica
199. Paolo Mottana (a cura di), Spacco tutto! Violenza e educazione
200. Licia Michelangeli e Vittorio Ugo Vicari (a cura di), Mode società e cultura nella
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201. Roberto Bertoldo, Istinto e logica della mente. Una prospettiva oltre la fenome-
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203. Furio Semerari (a cura di), Etica ed estetica del volto
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205. Laura Bazzicalupo, Dispositivi e soggettivazione
206. Oscar Ricci, Celebrità 2.0. Sociologia delle star nell’epoca dei new media
207. Rosanna Castorina, Gabriele Roccheggiani, Paradossi della fragilità. Critica del-
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208. Antonio Tursi, Non solo cyber. Frammenti di un discorso mediologico
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210. Fiammetta Ricci e Giuseppe Sorgi (a cura di), Miti del potere. Potere senza miti.
Simbolica e critica della politica tra modernità e postmodernità
211. Viola Carofalo, Un pensiero dannato. Frantz Fanon e la politica del riconosci-
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212. Gary Snyder, Nel mondo poroso. Saggi e interviste su Luogo, Mente e Wilderness,
a cura di Giuseppe Moretti
213. Luisella Feroldi, Tutta la realtà che possiamo. Immaginazione e simbolo nelle
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214. Giovanni De Zorzi, Con i dervisci. Otto incontri sul campo
215. Raffaele Ariano, Vittorio Azzoni, Michele Maglio (a cura di), Che cos’è un sog-
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216. Letizia Bianchi, Le mamme vengono prima. Il lavoro e gli affetti delle educatrici
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217. Luisa Muraro, Il lavoro della creatura piccola. Continuare il lavoro della madre
218. Massimiliano Fratter, Biglietto di andata. Autocoscienza maschile, a cura di Mar-
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219. Anna Sica, La Drammatica metodo italiano. Trattati normativi, trattati teorici
220. Andrea De Benedittis, Iconografie dell’aldilà
221. Antonio Tucci (a cura di), Disaggregazioni. Forme e spazi di governance
222. Didier Alessio Contadini, Il compimento dell’umano. Saggio sul pensiero di Wal-
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223. Didier Alessio Contadini, Scioccanti verità. La critica della modernità in Poe e
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224. Delio Salottolo, Una vita radicalmente altra
225. Roberto Miraglia, Intenzionalità, regole, funzioni. I fondamenti delle scienze so-
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226. Pietro Piro, Nuovo Ordine Carnevale. Conferenze, saggi, recensioni, esercizi di
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227. Cosetta Saba, Archivio, cinema, arte
228. Paolo Sensini, Divide et Impera. Strategie del caos per il XXI secolo nel Vicino e
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229. Antonella Penati (a cura di), È il design una narrazione? Design e narrazioni
230. Antonella Penati (a cura di), Il design costruisce mondi. Design e narrazioni
231. Antonella Penati (a cura di), Il design vive di oggetti-discorso. Design e narrazioni
232. Fulvio Chimento, Arte italiana del terzo millennio. I protagonisti raccontano la
scena artistica in Italia dei primi anni 2000
233. Emanuela Mancino, Farsi tramite. Tracce e intrighi delle relazioni eductive, con
scritti di Emanuele Fusi, Benedetta Gambacorti, Federica Jorio, Stefano Landonio,
Davide Rizzitelli e Chiara Nicole Zuffrano
234. Paolo Biscottini, Giovanni Ferrario, La radura dell’arte. Conversazioni sull’im-
magine
235. Andrea Pitto, Jung e Reich. Freud e i suoi discepoli. L’eresia, il misticismo, l’e-
nergia, il nazismo
236. Angelo Romeo, Socialmente Pericolosi. Le storie di vita dei giovani nei Quartieri
Spagnoli di Napoli, Prefazione di Franco Ferrarotti
237. Gildo De Stefano, Una storia sociale del jazz. Dai canti della schiavitù al jazz
liquido, Prefazione di Zygmunt Bauman
238. Fabio Vander, Posizione e movimento. Pensiero strategico e politico della Grande
Guerra
Finito di stampare
nel mese di gennaio 2014
da Digital Team, Fano (PU)

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