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N. 239
COMITATO SCIENTIFICO
MIMESIS
Eterotopie
Il volume è stato pubblicato con il contributo del Dipartimento di Scienze Umane
per la Formazione ʻRiccardo Massaʼ dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca.
Muriel Combes
LA RELAZIONE TRANSINDIVIDUALE 49
1. L’individuazione psichica e collettiva:
una o più individuazioni? 49
2. Affettività ed emotività, la vita più che individuale 55
3. Il paradosso del transindividuale 58
4. Un dominio di passaggio (il transindividuale soggettivo) 64
5. Il collettivo come processo 68
6. L’essere-psichico del collettivo
(il transindividuale oggettivo) 71
Augusto Illuminati
L’INTELLETTO MATERIALE UNICO 79
Mariana de Gainza
IL LIMITE E LA PARTE: I CONFINI DELL’INTERIORITÀ
NELLA FILOSOFIA SPINOZIANA 89
1. L’alternativa Hegel-Deleuze 89
2. Il limite (o della determinazione positiva
delle cose finite) 93
3. Le parti o della modulazione infinita della natura 99
4. La natura conflittuale dell’esistenza
(o della complessità della determinazione) 102
Warren Montag
‘COMBINAZIONI TUMULTUOSE’.
TRANSINDIVIDUALITÀ IN ADAM SMITH E SPINOZA 107
Frédéric Lordon
L’IMPERIO DELLE ISTITUZIONI 121
1. Istituzioni, norme, sovranità: sotto il principio
della ‘potenza della moltitudine’ 123
2. Potenza e auto-affezione della moltitudine 125
3. Catture e auto-affezioni mediate 130
4. La vita passionale nei rapporti istituzionali 135
5. Rapporti sociali e interazioni istituzionali 136
6. L’istituzione prodotta ad ogni istante 138
7. Contemporaneità e diacronia: memoria e isteresi
degli affetti 139
8. I meccanismi affettivi della sedizione o le dinamiche
passionali della crisi istituzionale 141
Etienne Balibar
DALL’ANTROPOLOGIA FILOSOFICA ALL’ONTOLOGIA SOCIALE E RITORNO:
CHE FARE CON LA SESTA TESI DI MARX SU FEUERBACH? 147
1. La proposizione negativa: «l’essenza umana
non è un’astrazione inerente a ogni singolo individuo» 153
2. La proposizione positiva: «Nella sua realtà
è l’insieme delle relazioni sociali» 158
3. La biforcazione: ‘ontologie’ e ‘antropologie’ rivali 168
Vittorio Morfino
L’ENJEU MARX FREUD. IL TRANSINDIVIDUALE
TRA GOLDMANN E ALTHUSSER 179
1. Lo strutturalismo genetico e il transindividuale 179
2. L’ontologia del transindividuale 183
3. La critica di Goldmann ad Althusser 187
4. L’analisi di Althusser della sesta tesi 190
5. Uno o due transindividuali? 192
6. Una critica della ‘genesi’ 194
7. Il tempo, i tempi 197
8. Il soggetto, i soggetti 199
9. Marx, Freud e Darwin 204
Jason Read
LA PRODUZIONE DELLA SOGGETTIVITÀ.
DAL TRANSINDIVIDUALE AL COMUNE 207
1. Dal Gattungswesen al transindividuale 209
2. Dal transindividuale al comune 215
Andrea Cavazzini
CELLULE, ORGANISMI, COMUNITÀ.
IL TRANSINDIVIDUALE NELLE SCIENZE
DELLA VITA CONTEMPORANEE 231
1. L’individuazione nelle scienze biologiche 231
2. La disgiunzione tra il vivente e il senso 248
Felice Cimatti
«L’INDIVIDUO È L’ESSERE SOCIALE».
MARX E VYGOTSKIJ SUL TRANSINDIVIDUALE 253
1. «La coscienza è un rapporto sociale» 253
2. Vygotskij e la relazione individuo-società 259
3. Dal transindividuale all’individuo 264
4. Il ‘pensiero verbale’ 266
5. Individuazione e transindividuale 269
Patrice Maniglier
AMBIENTI DI CULTURA. UN’IPOTESI SULLA COGNIZIONE UMANA 273
1. L’ipotesi cognitiva: parlare è calcolare 276
2. Parlare è percepire 279
3. Linguaggi impercettibili? 287
4. Fisica della cultura e filosofia della mente 291
Guillaume Sibertin-Blanc
CONCATENAZIONE COLLETTIVE D’ENUNCIAZIONE, MODI DI PRODUZIONE
ENUNCIATIVI E SOGGETTIVAZIONE: DELEUZE E GUATTARI
CON ALTHUSSER 305
Francisco Naishtat
AZIONE, EVENTO E STORIA. ONTOLOGIE DELL’ACCADUTO 325
1. Introduzione 325
2. Il ritorno dell’azione 327
3. Dall’ontologia dell’azione all’ontologia dell’evento 329
3.1. Ontologia dell’azione, linguaggio e storia 331
3.2. Collettività, azione ed evento 338
4. Ontologia dell’evento 343
Bruno Karsenti
IL TOTEMISMO RIVISITATO 347
1. La cosa churinga 349
2. Il simbolismo dell’emblema 352
3. Un’‘aura di impersonalità’ 356
4. L’intichiuma 359
5. Comunione e oblazione 365
6. Totemismo o sacrificio 367
7. Mimetismo 371
[si tratta di] un ambizioso tentativo di definire una struttura delle scienze
umane attraverso la critica [delle] dottrine metafisiche dell’individualità, che
conducono al classico dualismo di interno ed esterno, di conoscenza a priori
L’individuo figurerebbe, allora, come una realtà relativa, come una fase
dell’essere che presuppone una realtà preindividuale. Anche dopo l’indivi-
duazione, l’individuo non esiste in totale isolamento, perché l’individuazione
non esaurisce i potenziali della realtà preindividuale e, per altro verso, perché
l’individuazione non produce soltanto l’individuo, ma la coppia individuo-
ambiente. L’individuo è quindi relativo in un duplice senso: perché non è tutto
l’essere, e perché deriva da uno stato dell’essere in cui non esisteva né come
individuo, né come principio di individuazione6.
Se dunque l’individuo viene pensato non come un dato di cui rende ra-
gione il suo doppio concettuale, il principio, bensì come il risultato di un
processo, appare in primo piano la duplice relazione che esso intrattiene
con il preindividuale e con l’ambiente. Un tale rovesciamento di prospetti-
7 G. Simondon, L’individuation psychique et collective, cit., pp. 13-14, tr. it. cit., p.
28.
8 Ivi, p. 16, tr. it. cit., p. 30.
9 Ivi, p. 17, tr. it. cit., p. 31.
E. Balibar, V. Morfino - Introduzione 13
Il metodo consiste nel non tentare di delineare l’essenza di una realtà per
mezzo di una relazione concettuale tra due termini estremi preesistenti, ma
nell’attribuire a ogni autentica relazione il rango di essere. La relazione è una
modalità dell’essere; essa è simultanea rispetto ai termini di cui garantisce l’esi-
stenza. Una relazione va intesa come relazione nell’essere, relazione dell’esse-
re, modo di essere; non già come mero rapporto tra due termini che, disponen-
do di una preliminare esistenza separata, sono conoscibili adeguatamente per
mezzo di concetti. I termini sono concepiti come sostanze perché la relazione
è rapporto tra termini; e l’essere è suddiviso in termini perché lo si concepisce
già subito come sostanza, prima di ogni disanima dell’individuazione. Là dove
la sostanza cessi di costituire il modello dell’essere, è possibile concepire la
Questa nuova logica non più fondata sulla sostanza, ma sulla relazione,
permette di pensare il rapporto individuo-società non in termini di primato
di un elemento o dell’altro. Il transindividuale non è altro che la catego-
ria ontologica imposta da questa logica relazionale, è il nome del sistema
metastabile che dà luogo alle individuazioni psichica e collettiva, trama di
relazioni che attraversa e costituisce gli individui e la società, interdicendo
metodologicamente la sostanzializzazione degli uni o dell’altra:
Dal punto di vista della storia del pensiero ritrovare il problema del
transindividuale nell’epoca dell’immagine del mondo, nell’epoca in cui si
costituisce con Cartesio (ma assai più con Locke, nonostante la vulgata
heideggeriana) e con Leibniz la metafisica del soggetto e dello spazio di
interiorità a partire da cui sarà costruito il modello della intersoggettività
(per esempio Husserl nel costruire l’intersoggettività trascendentale pro-
pone una prima fase cartesiana ed una seconda monadologica-leibniziana),
[…] gli uomini nascono ignari delle cause delle cose, mentre tutti deside-
rano la ricerca del proprio utile, del che sono conscii [sunt conscii]. Da questa
condizione segue in primo luogo che gli uomini si ritengono liberi, perché sono
consci [sunt conscii] delle proprie volizioni e del proprio desiderio, mentre
delle cause, dalle quali sono indotti a desiderare e a volere, neppure si sognano,
perché ne sono ignari. In secondo luogo, segue che gli uomini fanno tutto in
vista di un fine, e cioè in vista dell’utile che desiderano; per cui avviene che
aspirano sempre a conoscere soltanto le cause finali17.
22 Per il tentativo di tracciare una differente genealogia che abbozza una tradizione
Lucrezio, Machiavelli, Spinoza cfr. V. Morfino, «Lucrezio e la corrente sotterranea
del materialismo», in F. Del Lucchese, V. Morfino, G. Mormino (a cura di),
Lucrezio e la modernità. I secoli XV-XVII, Bibliopolis, Napoli 2011, pp. 35-60.
23 Infra, p. 84.
24 Averroè e l’intelletto pubblico, Manifestolibri, Roma 1996, p. 58.
E. Balibar, V. Morfino - Introduzione 19
scompare ogni comando diretto o superiorità gerarchica della mente sul corpo,
come nel rapporto platonico pilota-nave o in quello aristotelico forma-materia
organata o nell’assunto di una sostanza originaria e autoevidente in quanto
creata da Dio25.
Proprio agli albori dell’epoca moderna, epoca dominata dalla figura te-
orica del soggetto, Spinoza afferma che il pensiero non è l’attributo essen-
ziale di una sostanza individuale (il cogito), ma un reticolo di passioni e
idee che attraversa e costituisce gli individui come grumi temporanei. La
modernità filosofica è semplicemente rifiutata: la mente non è soggetto,
l’idea non è rappresentazione, la coscienza, lungi dall’essere la luce inte-
riore della verità, è il terreno opaco in cui si radica il pregiudizio finalisti-
co. Leibniz aveva fiutato in una nota agli Opera posthuma tracce di aver-
roismo, intuizione che Illuminati rilancia, proponendo una vera e propria
lettura avveroista di Spinoza e individuando il luogo teorico dell’intelletto
comune: il modo infinito mediato dell’attributo pensiero, cui Spinoza non
dà un nome a differenza del modo infinito mediato dell’estensione, la pri-
ma facies totius universi. L’intelletto comune è la facies totarum mentium
che tuttavia non rimane, come in Averroé, separato dalla materia, ma è ben-
sì incarnato in un corpo comune, non chiuso e identitario come il popolo
hobbesiano, ma plurale e attraversato dal conflitto: la multitudo.
Mariana Gainza insiste espressamente sul concetto di transindividuale
in relazione al pensiero spinoziano attraverso la definizione della specifi-
cità del concetto di modo e della tracciabilità del confine tra interiorità ed
esteriorità in una tale problematica. Sono presi in esame a questo scopo due
luoghi salienti della produzione teorica spinoziana: la lettera 12 sull’infi-
26 Infra, p. 98.
E. Balibar, V. Morfino - Introduzione 21
ogni relazione esteriore sia fondata in una proprietà della monade, sia uno
stato interno della monade (ed ogni stato è infinitamente complesso perché
deve esprimere tutto l’interindividuale a livello intraindividuale), mentre in
Spinoza ogni determinazione intrinseca è in realtà fondata su un complesso
gioco di determinazioni estrinseche (senza peraltro che le determinazioni
estrinseche possano contenere in anticipo la determinazione intrinseca),
ossia ogni proprietà di un individuo è prodotta dal complesso gioco di rela-
zioni che ha costituito la sua individualità.
Data questa lettura del limite e della parte è possibile infine prendere
le distanze da una interpretazione essenzialistica del conatus spinoziano.
Questo non è un’interiorità data una volta per tutte, un interno reso traspa-
rente se non dalla coscienza di sé, quantomeno da una essenza intima, una
delle tante metamorfosi – cioè – del soggetto moderno, ma un intreccio di
relazioni di cui interno ed esterno non sono che l’effetto permanentemente
variabile:
27 Infra, p. 105.
28 Infra, p. 108.
22 Il transindividuale
l’imitazione degli affetti non sarebbe altro che un atto di proiezione che richie-
de solo che io immagini che l’altro senta piacere o dolore affinché io imiti ciò
che immagino sia il sentimento altrui. Questa è precisamente la definizione
di simpatia data da Adam Smith nella prima parte della Teoria dei sentimenti
morali, al capitolo I. Per Smith non vi è attraversamento del confine che separa
me dagli altri; io non posso mai sapere cosa prova un altro uomo o se prova
qualcosa. La simpatia rimane interna a ciò che Smith chiama lo ‘spettatore’:
costui immagina ciò che egli stesso proverebbe o ha provato in circostanze
simili all’altro. La simpatia per Smith non richiede, a rigore, nemmeno l’esi-
stenza dell’altro. È possibile per me provare pietà per il morto, dato che non
vi è comunicazione o trasferimento di sentimento o affetto attraverso l’infinita
distanza che mi separa dagli altri, ma solamente una proiezione di me stesso29.
30 Ivi, p. 77.
31 Infra, p. 130
32 Infra, p. 132.
24 Il transindividuale
Potremmo essere quasi tentati di dire che l’istituzione non ha alcun momen-
to di inerzia, nel senso particolare in cui il suo destino si gioca sempre in una
contemporaneità assoluta. Se in effetti ad un istante dato l’affetto istituzionale
cade al di sotto della soglia critica, allora costitutivamente, ne segue che il bi-
lancio affettivo netto determini ora gli individui a muoversi al di fuori di questi
rapporti specifici34.
33 Infra, p. 138.
34 Infra, p. 139.
35 Infra, p. 144.
E. Balibar, V. Morfino - Introduzione 25
[…] l’essenza umana non è qualcosa di astratto che sia immanente all’indi-
viduo singolo. Nella sua realtà essa è l’insieme dei rapporti sociali36.
38 Infra, p. 167.
39 Infra, p. 177.
E. Balibar, V. Morfino - Introduzione 27
40 Infra, p. 186.
28 Il transindividuale
Althusser insiste sul fatto che non si deve pensare in termini di genesi, di
filiazione dell’inconscio dall’ideologico, ma in termini di articolazione diffe-
renziale. Si tratta: 1) di constatare l’esistenza di un effetto inconscio che costi-
tuisce una struttura autonoma, 2) di pensare l’articolazione di questa struttura
sulla struttura ideologica, evitando sia sociologismo che psicologismo, i quali
ricercano appunto la ‘genesi’41.
41 Infra, p. 201.
42 Infra, p. 207.
E. Balibar, V. Morfino - Introduzione 29
43 Infra, p. 208.
44 Ibidem.
45 Ibidem.
46 Ibidem.
47 Infra, p. 209.
30 Il transindividuale
48 Ibidem.
49 Ibidem.
50 Infra, p. 210.
E. Balibar, V. Morfino - Introduzione 31
delle condizioni collettive della soggettività si trovano nel capitolo del Capitale
dedicato alla cooperazione. Come Marx osserva, quando un gran numero di
persone sono riunite in un luogo come un’officina, la somma totale della loro
attività produttiva eccede quella dei lavori singoli dello stesso numero di indi-
vidui, ma isolati. […] Lo sfruttamento non riguarda l’individuo, l’alienazione
di ciò che è unico e proprio all’individuo, ma piuttosto ciò che è im-proprio
all’individuo, e che esiste solo in relazione51.
51 Infra, p. 211.
52 Cfr. P. Virno, «Postfazione» a G. Simondon, L’individuazione psichica e colletti-
va, cit., pp. 231-241.
53 Infra, p. 216.
32 Il transindividuale
dall’altro lato, c’è una tendenza a trasformare ogni cosa, ogni relazione sociale,
in qualcosa che può essere scambiato come merce54.
Questa teoria del divenir soggetto della sostanza passa per la lettura ope-
raistica del celebre Frammento sulle macchine marxiano al cui centro sta
il concetto di general intellect. Che sia possibile una tale politicizzazione
del transindividuale in termini di comune, è la scommessa teorica proposta
da Read.
Una seconda sezione del libro è dedicata alla questione del ‘transindivi-
duale’ nelle scienze biologiche e umane. In particolare in queste ultime il
tema emerge come un sintomo dell’insufficienza e delle aporie prodotte dal
modello dell’intersoggettività in esse dominante. Il primo saggio, quello di
Andrea Cavazzini, riprende la questione dell’individuazione e del transin-
dividuale nella biologia contemporanea con un approccio che allo stesso
tempo ci fornisce la profondità del campo storico e una presa di posizione
nel dibattito contemporaneo. Cavazzini mostra come il concetto di transin-
dividuale, che emerge nelle scienze biologiche a partire dalla problema-
54 Infra, p. 218.
55 Ibidem.
E. Balibar, V. Morfino - Introduzione 33
Quali sono infatti gli individui con cui ha a che fare la biologia? I suoi
elementi primi, i suoi ‘atomi’ costituenti? Come è noto, ne sono stati proposti
diversi – per citarne solo tre: specie, organismi, geni –, nessuno dei quali si è
poi rivelato così ‘elementare’; anzi, tutte le entità proposte per occupare questo
ruolo si sono scoperte poi caratterizzate da una coerenza interna quantome-
no problematica, risultato di combinazioni aleatorie, processi di formazione
dall’andamento contingente – o più semplicemente ci si è accorti che né la
struttura né la funzione delle entità in questione erano compiutamente indivi-
duabili e determinabili senza ricorrere ad un contesto più ampio, a relazioni e
processi più globali56.
[…] nel corso del tempo – scrive Darwin – le forze finiscono col bilanciarsi
così perfettamente che il volto della natura si mantiene inalterato per lunghi
periodi, benché sia indubitabile che la causa più insignificante potrebbe assi-
curare la vittoria di un essere organizzato su di un altro. La nostra ignoranza,
però, è così profonda, e così grande è la nostra presunzione che ci meraviglia-
mo quando sentiamo parlare della estinzione di una specie e, non ravvisandone
le cause, pensiamo a cataclismi distruttori del mondo e inventiamo leggi sulla
durata delle forme viventi58.
56 Infra, p. 231.
57 Infra, p. 232.
58 Ch. Darwin, The origin of species by means of natural selection, in The Works
of Charles Darwin, vol. 16, William Pickering, London 1988, p. 59, tr. it. di L.
Fratini, Bollati Boringhieri, Torino 1967, p. 141.
34 Il transindividuale
L’ordine naturale, nella sua necessità (il suo perpetrarsi) e nella sua con-
tingenza (i cataclismi distruttori delle specie), non è che un’immaginaria
semplificazione di una complessità che ci sfugge, ulteriore metamorfosi
della volontà di Dio come asylum ignorantiae.
Ma, se la specie o il tipo non possono essere considerati come costituenti
ultimi della realtà, nemmeno l’organismo, le cellule o i geni possono essere
individuati come atomi originari. L’organismo infatti si rivela essere un
processo di unificazione, esso
59 Infra, p. 236.
60 Infra, p. 238.
61 Ibidem.
62 Infra, p. 241.
E. Balibar, V. Morfino - Introduzione 35
63 Infra, p. 246.
64 R.C. Lewontin, Gene, organismo e ambiente. I rapporti causa-effetto in biologia,
tr. it. di B. Tortorella, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 14.
36 Il transindividuale
65 Infra, p. 251.
66 Infra, p. 257.
E. Balibar, V. Morfino - Introduzione 37
Come dice Vygotskij, ogni funzione nel corso dello sviluppo del bambi-
no fa la sua apparizione due volte, su due piani diversi: la prima volta sul
piano sociale come categoria interpsichica, poi sul piano psicologico come
categoria intrapsichica. Dal transindividuale emerge dunque l’individuo:
vraschvanie è il neologismo che Vygotskij forgia per definire questo movi-
mento, termine che è stato tradotto con ‘interiorizzazione’ o ‘internalizza-
zione’ ma che indica in realtà una sorta di ‘crescita’ o di ‘trasformazione’
di qualcosa che dall’esterno diventa interno, e sottolinea al tempo stesso il
carattere di sviluppo dinamico di questo processo. Per esempio, nel tenta-
tivo del bambino di prendere un oggetto, è la madre che vede l’intenzione
dell’indicare, interiorizzando nel bambino stesso il gesto dell’indicare. Ma
il prototipo di tutte le interiorizzazioni è quella in cui «la lingua del pro-
prio ambiente sociale diventa il principale sostegno cognitivo del pensiero
individuale».
L’originalità di Vygotskij rispetto al panorama della discussione dei
rapporti tra pensiero e linguaggio consiste nel pensare questi secondo due
distinte linee evolutive che si incontrano in quell’intreccio che Vygotskij
chiama ‘pensiero verbale’:
67 Infra, p. 263.
38 Il transindividuale
68 Infra, p. 267.
69 Infra, p. 274.
E. Balibar, V. Morfino - Introduzione 39
in una forma oppure no. Parlare la stessa lingua vuol dire: potersi accordare su
tali percezioni, potere, insomma, condividerle. Il linguaggio è una condivisione
della sensibilità. Parlare non significa generare una performance a partire da un
sistema formale o verificare l’appartenenza di una performance all’insieme dei
possibili teoremi di una teoria; significa tentare d’istruire in un dato contesto
una variante costruibile, una salienza percettiva, o, in qualità di recettore, po-
terla riconoscere70.
Sembra dunque che, alla fine, vi sia una profonda relazione tra la nostra ca-
pacità di fare ciò che si chiama ‘pensare’ ed il fatto che noi siamo delle creature
che genereranno quasi nostro malgrado degli universi transindividuali. È per-
ché siamo sociali che possiamo pensare. Ma, ancora una volta, non nel senso
per cui, seguendo la scia di una certa interpretazione di Wittgenstein, bisogna
vedere nella garanzia trascendente dei segni (il Grande Altro di Lacan o la co-
scienza collettiva di Durkheim […]) la condizione di possibilità del pensiero.
Al contrario, se la cognizione culturale è sociale, ciò dipende da una modalità
dell’identità che non si riduce né all’invarianza sostanziale che le diverse forme
di empirismo hanno sempre cercato (come se dal contenuto dovessero sorgere
le forme e le categorizzazioni), né a ciò che le diverse forme di idealismo hanno
sempre immaginato, cioè delle categorie astratte che sarebbero proiettate sul
sensibile: si tratta di un’identità che risulta da un meccanismo di strutturazione
della realtà sensibile e che utilizza un livello della realtà (ad esempio le imma-
gini) per strutturarne un altro (ad esempio il suono) inducendo delle regolarità
che si fondano unicamente sulle convalide reciproche rinviatesi reciprocamen-
te dagli agenti, laddove questi ultimi costituiscono insieme il medio [milieu]
comune entro cui essi stessi vivono e che non cessano di trasformare a propria
insaputa72.
Per questa ragione un ‘sistema culturale’ non esiste nella testa di questo
o di quell’individuo, ma tra gli individui: «pensare significa essere capaci
di creare siffatti mondi, istruire una sensibilità comune che determinerà un
certo numero di eventi impercettibili ad ogni altra, e di consegnarsi così a
70 Infra, p. 283.
71 Infra, p. 274.
72 Infra, pp. 301-302.
40 Il transindividuale
questi strani universi all’interno dei quali noi diventiamo dei soggetti e le
cose acquistano un senso»73.
La questione del rapporto tra linguaggio e potere, ai margini del testo
di Maniglier, è centrale invece nell’articolo di Sibertin Blanc. Questi de-
finisce il linguaggio «come una produzione sociale essa stessa articolata
all’insieme complesso dei processi di produzione e riproduzione di una
formazione sociale data», cui sono immanenti «rapporti di potere, di do-
minio e di assoggettamento, ed in ultima istanza dei rapporti di classe». In
questo senso l’introduzione da parte di Benveniste del concetto di ‘appara-
to fomale di enunciazione’ permette di pensare
73 Infra, p. 303.
74 Infra, p. 306.
75 Infra, p. 308.
76 Infra, p. 309.
E. Balibar, V. Morfino - Introduzione 41
77 Riprendiamo qui il contenuto di uno scambio epistolare con Sibertin Blanc sulle
possibili traduzioni del termine agencement.
78 Infra, p. 310.
42 Il transindividuale
79 Infra, p. 311.
80 Infra, p. 319.
81 Infra, p. 318.
E. Balibar, V. Morfino - Introduzione 43
sostituire al fascino di una concezione eroica della storia il fascino per strutture
sociali trasformate in istanze reificate della vita di una società. È vero che per
buona parte del Novecento l’impronta del modello nomologico-causale delle
scienze positive e della spiegazione funzionale e/o strutturale delle scienze so-
ciali ha condotto a trascurare puramente e semplicemente l’azione intenzionale
e la contingenza storica, dimenticando il peso dell’attività umana e delle scelte
dei singoli attori dello svolgersi storico. Le strutture e i processi di lunga dura-
ta acquistano interesse storico proprio in quanto considerano l’attività umana
come luogo e origine del suo stesso riprodursi: è questo riferimento ultimo
all’interazione umana a giustificare l’immanenza storica dei processi sociali,
anche dei più ferrei84.
Naishtat ritiene che l’azione umana sia «ricomparsa in seno alla teoria
sociale e storica come soglia di resistenza alla reificazione delle relazioni
e delle strutture»85. Certo il modo in cui l’azione entra in relazione con la
storia non può ricalcare il modello dell’impianto classico, ma deve attra-
versare «il complesso filtro delle controversie ontologico-linguistiche ed
epistemologiche»86 interne al linguistic turn.
In questa prospettiva Naishtat propone una ontologia dell’azione a parti-
re da un modello cibernetico proposto da von Wright, il cui pregio consiste
nell’idea,
82 Infra, p. 319.
83 Infra, p. 327.
84 Infra, p. 328.
85 Infra, p. 329.
86 Ibidem.
44 Il transindividuale
87 Infra, p. 333.
88 Infra, p. 336.
89 Infra, p. 337.
90 Infra, p. 338.
91 Infra, p. 339.
E. Balibar, V. Morfino - Introduzione 45
gli individui non sono del tutto consapevoli di alimentare, attraverso le proprie
azioni, azioni ed eventi collettivi di più vasta portata, i quali invece possono
essere compresi solo gestalticamente attraverso la figura di una totalità irridu-
cibile, che forma il quadro storico entro cui solo è possibile cogliere l’azione
o l’evento storicamente rilevante. È qui all’opera una sorta di mano invisibile:
i singoli attori interpretano, senza esserne consapevoli, un’azione di più vasta
portata, la cui logica risponde alla struttura di una collettività indivisibile che lo
storico ha identificato come una singolarità operante storicamente92.
92 Infra, p. 342.
93 Infra, pp. 342-343.
46 Il transindividuale
L’evento storico non può essere pensato dunque né nella forma di un’a-
zione singola, né in quella di un’azione collettiva: precisamente per descri-
vere la forma transindividuale del tradursi dell’azione in evento storico,
Naishtat fa appello al concetto di ‘sopravvenienza’ riadattato al campo del-
la teoria della storia:
[…] si potrebbe sostenere che, sebbene l’evento macroscopico non sia ridu-
cibile alla responsabilità individuale di alcuni singoli, né a un numero deter-
minato di azioni individuali, tuttavia esso sopravviene nelle azioni e interazio-
ni fra individui, nel senso che qualsiasi modificazione nella caratterizzazione
dell’evento comporta una revisione della base empirica e pratica di esso, e
quindi della catena di azioni che lo formano: e, reciprocamente, qualora si dia
una modificazione (significativa) della sua base empirica e delle azioni che lo
costituiscono, allora occorre rivedere il carattere dell’evento in quanto tale. In
questo modo, si riescono a salvare allo stesso tempo sia le azioni intenzionali
che l’irriducibilità dell’evento, respingendo così sia la tentazione dell’essenzia-
lismo che quella del riduzionismo94.
94 Infra, p. 344.
95 Infra, p. 348.
96 Ibidem.
E. Balibar, V. Morfino - Introduzione 47
È questa la ragione per cui la sua teoria del simbolismo si fonda sull’em-
blema preso come centro di raccoglimento destinato, non tanto a rendere «più
chiaro il sentimento che la società ha di sé», come se essa ne disponesse già,
ma piuttosto a «produrre questo sentimento», a fabbricarlo e a ripercuoterlo in
ciascuna coscienza sottoforma di sentimento del sacro99.
Il punto di vista primitivo mostra che la credenza, nel suo principio, concer-
ne l’impersonale, intendendo con ciò innanzitutto la sua dimensione di rottura
con l’esperienza delle cose date nella percezione. Come interpretare questo
fatto? Secondo Durkheim, le cose sono sacre alla sola condizione di eccedere
la loro dimensione di cose particolarizzate, date una ad una nell’esperienza
come altrettante entità discrete, separate le une dalle altre e rinchiuse nella loro
97 Infra, p. 352.
98 Infra, p. 353.
99 Ibidem.
48 Il transindividuale
individualità. Si vede allora come l’impersonalità non debba essere vista come
un deficit di determinazione delle cose, ma piuttosto come la potenza che le
investe permettendo loro di legarsi le une alle altre, di uscire dal loro modo
di datità empirica per comporre tra loro dei rapporti che spetta poi al pensiero
determinare. Solo così può spiegarsi la continuità stabilita tra il pensiero reli-
gioso e il pensiero logico. L’‘aura d’impersonalità’ che avvolge le cose sacre, e
che contrassegna in generale il loro carattere contagioso, deve essere concepito
come una fonte di relazioni e non come un fattore di indistinzione100.
MURIEL COMBES
LA RELAZIONE TRANSINDIVIDUALE
tica». In che può consistere una tale unità? Nella misura in cui l’inizio di
questo stesso capoverso designa le due individuazioni come «la relazione
interna ed esterna all’individuo», il transindividuale appare innanzitutto
come ciò che unifica non l’individuo e la società, ma una relazione interna
all’individuo (quella che definisce il suo psichismo) e una esterna (quella
che definisce il collettivo): l’unità transindividuale delle due relazioni è
dunque una relazione di relazioni.
L’individuazione psichica e collettiva è dunque l’unità di due indivi-
duazioni reciproche, l’individuazione psichica e l’individuazione colletti-
va. Sembra però che non ci si possa fermare a questa risposta. Non appena
la si osserva più da vicino, in effetti, l’individuazione psichica si rivela essa
stessa composita, perché l’emozione e la percezione costituiscono le «due
individuazioni psichiche che prolungano l’individuazione del vivente»2. Se
l’individuazione psichica è composta, però, non siamo più di fronte a due
individuazioni (psichica e collettiva), ma a una molteplicità di individua-
zioni. Ma quante individuazioni ci sono, di preciso, e come possono queste
individuazioni molteplici unificarsi in una singola individuazione psichica
e collettiva?
Per rispondere a questo interrogativo è necessario ricordare che l’intero
progetto di una filosofia dell’individuazione è diretto da una mira anti-so-
stanzialista, e quindi dall’idea che lo psichismo non è una sostanza. Si trat-
ta infatti di giungere a pensare lo psichismo e il collettivo «senza chiamare
in causa nuove sostanze»3, quali ‘l’anima’ o ‘la società’, che sarebbero
nuove in rapporto a quelle già indicate nello studio condotto ne L’individu
et sa genèse physico-biologique, vale a dire l’individuo e l’essere vivente.
I due pericoli che incombono su un tale progetto sono chiari: si chiamano
‘psicologismo’ e ‘sociologismo’, i due sostanzialismi contro cui rischia di
andare a sbattere ogni pensiero della realtà ‘psico-sociale’.
Pensare la realtà dello psichico e del collettivo senza fare appello a delle
nuove sostanze significa allora mostrare che l’individuazione psichica e
quella collettiva prolungano l’individuazione vitale, ne sono la continua-
zione. In quanto esseri individuati i viventi sorgono da una prima indi-
viduazione, l’individuazione biologica. Come abbiamo già cominciato a
vedere, però, gli esseri viventi si mantengono nell’esistenza solo a con-
dizione di perpetuare questa prima individuazione, da cui sono emersi,
attraverso una serie di individuazioni individualizzanti. È proprio questa
continuazione della prima individuazione che si chiama individualizzazio-
nel mondo (che è oggetto della percezione, base dell’azione e garante delle
qualità sensibili), nella misura in cui compie in se stesso una individualiz-
zazione progressiva attraverso salti successivi»13. Lo psichismo, si è visto,
si riassume anche per Simondon in una simile individualizzazione progres-
siva interna all’individuo, ed è per questa stessa ragione che non può essere
compreso come una sostanza: il fatto che sia detto una ‘relazione interna’
non significa che esso sia un’interiorità.
Né foro interiore né pura esteriorità senza consistenza, lo psichismo si
costituisce all’incrocio di una doppia polarità, tra la relazione al mondo e la
relazione a sé (senza che si sappia ancora troppo bene in cosa consista que-
sto ‘Sé’ oramai desostanzializzato). La sua realtà è trasduttiva, è quella di
una relazione che collega due legami. Questa relazione, si è visto, si compie
nell’individuo come individualizzazione; essa è determinata dall’affettività
e dall’emotività, che definiscono lo «strato relazionale costituente il centro
dell’individualità»14. Situando il nucleo dell’individualità nell’affettività e
nell’emotività Simondon prende le distanze dalla maggior parte delle con-
cezioni dell’individualità psichica, fondate su una teoria della coscienza o
sull’ipotesi dell’inconscio. Il vero centro dell’individualità, non puntuale, è
dell’ordine del subcosciente: vedendo nell’inconscio un concetto costruito
sul modello – pur capovolto – della coscienza, e proprio per questo ancora
troppo sostanzialistico, Simondon è costretto a cercare altrove un fattore
capace di tenere insieme la relazione a sé e la relazione al mondo, e questa
ricerca porta alla luce quello strato affettivo-emotivo, dominio delle in-
tensità, che solo permette di comprendere come all’interno degli individui
possano operarsi delle riconfigurazioni psichiche globali mediante un at-
traversamento di soglie.
Su questo punto l’autore de L’individuazione psichica e collettiva è
molto vicino alla concezione spinoziana del soggetto come luogo di una
continua variazione della potenza di agire, in funzione della sua capacità
di affettare gli altri soggetti (di essere la causa di affetti che aumentano o
diminuiscono la loro potenza di agire) e di essere affetto da essi (vale a dire
di provare gli effetti delle loro azioni nella forma di affetti che aumentano
o diminuiscono la propria potenza). Nella misura in cui la differenza etica
che esiste tra ciò che libera e ciò che asservisce si riconduce a quella tra gli
affetti che aumentano la nostra potenza di agire e quelli che la diminuisco-
no, si può dire che la capacità di affettare e di essere affetti costituisce il
centro della teoria spinoziana del soggetto. Al punto che la coscienza, lungi
29 Ibidem.
30 Ivi, p. 156, tr. it. cit., 152.
31 Ivi, p. 156, tr. it. cit., p. 153.
62 Il transindividuale
parole della tribù» nel loro uso quotidiano − che assegna a ciascuno il suo
posto all’interno dello spazio sociale.
connessa alla natura trasduttiva del soggetto psicologico, che sembra non
poter avere un rapporto con se stesso (o con un ‘dentro’) senza rivolgersi al
tempo stesso verso il fuori.
Riguardo alla distinzione già segnalata tra individuazione psichica e
transindividuale soggettivo e oggettivo ci si può allora domandare in cosa
essa consista e in che modo, inoltre, il transindividuale soggettivo diffe-
risca dall’individuazione psichica. A questa domanda è possibile rispon-
dere che la problematica psichica presenta tutta una serie di aspetti che
non riguardano la transindividualità: anche se viene riconfigurata dalla sua
iscrizione nel collettivo (nel quale i punti di vista diventano delle possibili
emozioni), una funzione psichica come la percezione non riguarda esclu-
sivamente il collettivo, ma innanzitutto la modalità attraverso la quale un
vivente si inscrive nel mondo.
Senza dubbio l’individualità psicologica deve essere compresa non
come il prodotto sostanziale dell’individuazione psichica, ma come il risul-
tato processuale, in progress, di ciò che questa individuazione orienta verso
l’apertura del collettivo. L’individualità psicologica si costituisce necessa-
riamente come il focolaio della costituzione del collettivo, chiarendo per-
ché «il dominio dell’individualità psicologica non ha uno spazio proprio,
ma esiste soltanto come una sovrimpressione in rapporto al dominio fisico
e a quello biologico»37. L’individualità psicologica si costituisce come rela-
zione del mondo fisico e del mondo biologico, «relazione del mondo e del
Sé», perché essa è intrinsecamente rivolta verso il collettivo: è in questo
senso che non esiste un «mondo psicologico» separato, ma già da sempre
un «universo transindividuale»38. L’individualità psicologica rivela così la
propria natura essenzialmente transizionale, tale da abbracciare l’insieme
di processi specifici che organizzano il passaggio dal livello dell’individua-
zione fisica o biologica, popolato da individui fisici e da esseri viventi, al
livello del collettivo, che come vedremo deriva da un ultimo sfasamento
dell’essere. Si spiega così perché non esiste agli occhi di Simondon niente
di simile a una realtà psicologica costituita (qualcosa come un ‘individuo
psicologico’) suscettibile di costituire l’oggetto di una scienza psicologica.
Alla luce del postulato della natura transizionale dell’individualità psi-
chica possiamo allora chiarire il senso della differenza tra il transindividua-
le soggettivo e quello oggettivo. Enunciata sorprendentemente sulla base
di una divisione che tutta la filosofia dell’individuazione mira a rimettere in
questione, questa distinzione mostra di non avere altra funzione che quella
da ciò che nel soggetto non è il nucleo individuale costituito: «in ogni istante
dell’autocostituzione il rapporto tra l’individuo e il transindividuale si defi-
nisce come ciò che SUPERA L’INDIVIDUO PROLUNGANDOLO». Con
questa inusuale scrittura in maiuscolo l’autore richiama l’attenzione sulla
paradossale topologia del transindividuale, che «non è esterno all’individuo
e ciononostante si distacca in una qualche misura dall’individuo»39. Propria-
mente parlando, infatti, il transindividuale non è né interno né esterno all’in-
dividuo, ma si costituisce «al limite tra esteriorità e interiorità», in quella zona
non individuale che è per il soggetto come un esterno interno, e che «non
costituisce per l’individuo una dimensione esteriore, ma un superamento»40.
Nella misura in cui affonda le sue radici in questa zona di noi stessi
esterna all’individuo, il transindividuale sorge in noi come dal di fuori.
La struttura del soggetto proposta da Simondon è più simile a un processo
di soggettivazione che a un soggetto concepito come sostanza pensante
o come struttura derivata (come il soggetto althusseriano che risponde al
richiamo dell’ideologia), un soggetto sprovvisto di interiorità perché do-
tato «di un dentro che è soltanto una piega del fuori, come se la nave non
fosse che un’increspatura del mare»41. Questo dentro che presenta la più
grande relatività − cosa c’è di più relativo che l’interno di una piega, che
un nonnulla basta a disfare? − riecheggia la relazione tra esteriorità e in-
teriorità nella quale secondo Simondon si costituisce il punto di partenza
della transindividualità. Da questo punto di vista la figura della deleuziana
piega non sembra estranea al modello di elaborazione soggettiva proposto
dal pensatore della transindividualità, anche se questa elaborazione viene
descritta nei termini di una doppia dialettica, «l’una che interiorizza l’ester-
no, l’altra che esteriorizza l’interno»42. Questa duplice dialettica, lungi dal
modello logico hegeliano che l’intero pensiero simondoniano ricusa, è in
realtà senza mediazione né sintesi. In modo che il «dominio della trasdut-
tività», vale a dire il soggetto stesso, ne guadagnerebbe ad essere descritto
− con le parole che Deleuze prende in prestito da Foucault43 − nei termini
di un ripiegarsi [plissements] «‘dell’esterno verso l’interno e viceversa’».
e fuori nel dominio del vivente per proporre un modello alla topologia a pieghe
che vede all’opera in Foucault.
44 G. Simondon, L’Individuation psychique et collective, cit., p. 195, tr. it. cit., p.
411.
45 Ivi, p. 182, tr. it. cit., p. 177.
M. Combes - La relazione transindividuale 69
65 Ibidem.
66 Ivi, p. 197, tr. it. cit., p. 190.
67 Ibidem.
74 Il transindividuale
81 G. Simondon, L’Individuation psychique et collective, cit., p. 193, tr. it. cit, p. 187.
82 Ivi, p. 195, tr. it. cit, p. 189.
83 Antonio Negri, Exil, Éd. Mille et une nuits, Paris 1998, p. 12.
79
AUGUSTO ILLUMINATI
L’INTELLETTO MATERIALE UNICO
Credere che il pensiero sia una proprietà personale (e in genere che l’Io
sia così importante) è abbastanza recente nella storia della filosofia. Certo,
lo si imputa a una persona, come nella placida metafora aristotelica in cui
la digestione diventa il meccanismo cui per analogia si riportano sensazio-
ne e intellezione: un attore soggettivo assorbente, una materia adatta da
ingerire per il nutrimento, una trasformazione assimilante grazie al calore
esterno e interno. Un processo che passa per un soggetto e un oggetto e si
conclude con una qualche forma di identificazione, che significa crescita
fisica, sensoriale o intellettuale, uscita in atto della facoltà interessata. Il
rovescio è che un essere perfetto non può conoscere il particolare, perché
l’identificazione con l’imperfetto conosciuto lo farebbe decadere da quella
perfezione. Un bel problema non tanto per il Motore Immobile, che è noûs
noéseos, pensiero di pensiero, autointellezione, ma per il Dio monoteisti-
co che gli succede e dovrebbe pur sapere chi aiutare, chi premiare e chi
punire e per quali pie o meschine azioni. Da entrambi i lati la coscienza è
qualcosa di imbarazzante, un sottoprodotto appercettivo della conoscen-
za della realtà esterna, l’irresistibile sonnolenza di una riuscita digestione.
Perfino Platone idealizza la verità in ipostasi senza dotarsi necessariamente
di una coscienza solipsistica; è piuttosto il neoplatonismo a introdurre una
dialettica esplicita di degradazione e salvezza, emanazione e risalita, in cui
interiorità e derelizione vanno a braccetto. Chi è prigioniero della carne si
diletta a fare graffiti sui muri della cella. Solo con una robusta iniezione di
creazionismo (la processione del molteplice dall’Uno evidentemente non
bastava) è possibile fare del mondo e della storia l’allegoria del sacro – pri-
mo fu forse Filone d’Alessandria, reinterpretando anagogicamente il detto
eracliteo sulla natura che ama nascondersi – e così inaugurare una diversa
tradizione. Il Logos, che ancora in Eraclito era il momento diurno comune
dell’intelletto umano contrapposto al privato del sogno, nel Vangelo plato-
nizzante di Giovanni diventa un principio trascendente di individuazione
e redenzione, laddove anteriormente era semplice capacità astrattiva e ri-
sultato di un’individuazione materiale conseguita grazie all’elaborazione
80 Il transindividuale
intellectus existens in nobis habet duas actiones [...] quarum una est de ge-
nere passionis (et est intelligere), et alia de genere actionis (et est extrahere for-
mas et denudare eas a materiis, quod nichil est aliud nisi facere eas intellectas
in actu postquam erant in potentia)1.
3 CMDA, p. 501.
86 Il transindividuale
Poiché la potenza del pensiero umano non può essere integralmente e simul-
taneamente attualizzata da un solo uomo o da una sola comunità particolare,
è necessario che vi sia nel genere umano una moltitudine attraverso la quale
la potenza sia tutta attuata, come è necessario che vi sia una moltitudine di
cose generabili affinché tutta la potenza della materia prima stia sempre sotto
l’atto e non vi sia una potenza separata dall’atto, come afferma Averroè nel
suo commento al De anima [...] La potenza intellettuale di cui parlo non si
indirizza solo alle forme universali e alle specie ma in una certa misura anche
a quelle particolari: per questo suole dirsi che l’intelletto speculativo diventa
per estensione pratico, il cui fine è agire e fare: trattare cioè prudentemente gli
4 CMDA, III, 5.
A. Illuminati - L’intelletto materiale unico 87
affari civili e fare con arte le cose meccaniche [...] Il compito del genere uma-
no, preso nella sua totalità, è quello di attuare incessantemente tutta la potenza
dell’intelletto possibile, in primo luogo in vista della contemplazione e, conse-
guentemente, in vista dell’agire5.
MARIANA DE GAINZA
IL LIMITE E LA PARTE:
I CONFINI DELL’INTERIORITÀ
NELLA FILOSOFIA SPINOZIANA
1. L’alternativa Hegel-Deleuze
dell’essere, ha celebrato una frase spinoziana estratta dalla lettera 50 a Jarig Jelles:
Determinatio negatio est. Generalizzando un’affermazione che si riferiva in senso
stretto alla concezione della figura come determinazione esterna di un corpo, ha
riconosciuto in Spinoza un dialettico ‘quasi’ perfetto per aver saputo comprendere
il principio fondamentale che presiederebbe alla costituzione di ogni esistenza:
ogni determinazione è una negazione. Però nello spinozismo ogni determinazione
è una negazione e niente di più che una negazione, di fronte alla sostanza come
unica e assoluta positività esistente, affermazione di un’essenza infinita. Il negati-
vo è l’opposto del positivo e non può conciliarsi con esso. La negazione si rivela
così astratta ed esteriore e la realtà che determina, esclusa dal sostanziale, è per
questa ragione condannata a svanire. La diagnosi hegeliana insiste sul fatto che la
determinazione come semplice negazione non può dar conto dell’essere essenzia-
le dell’individuale. Questo obbiettivo sarà raggiunto solo attraverso la «assoluta
determinatezza o alla negatività, ch’è la forma assoluta [...] negazione della nega-
zione e quindi vera affermazione» (G.W.F. Hegel, Lezioni di storia della filosofia,
tr. it. di E. Codignola e G. Sanna, vol. 3.1, La Nuova Italia, Firenze 1981, p. 140).
3 L’espressione, secondo Deleuze, riguarda direttamente l’indagine sopra la natura
dell’infinito positivo spinoziano; cioè: l’espressione è ciò che determina la relazio-
ne tra la sostanza assolutamente infinita e l’infinità degli attributi che costituiscono
la sua essenza infinita. La relazione tra la sostanza che si esprime, gli attributi che
sono sue espressioni e l’essenza espressa da essi si comprende in quanto l’essenza
si distingue dalla sostanza attraverso gli attributi, la sostanza si distingue dagli
attribuiti attraverso l’essenza, e gli attributi si distinguono dall’essenza attraverso
la sostanza. L’assolutamente infinito si esprime dunque distinguendosi. E nel farlo
produce altrettante espressioni distinte, gli infiniti modi esistenti, in modo che
è anche l’espressione produttiva di questa potenza diversamente qualificata che
esplica l’esistenza dei modi singolari. L’espressione e la distinzione sarebbero,
quindi, le chiavi concettuali del processo di differenziazione immanente che espli-
ca la costituzione multipla e multiforme della realtà (Cfr. G. Deleuze, Spinoza et
le problème de l’expression, Minuit, Paris 1968, tr. it. di S. Ansaldi, Quodlibet,
Macerata 1999).
M. de Gainza - Il limite e la parte: i confini dell’interiorità nella filosofia spinoziana 91
Nella lettera 12, per illustrare la nozione di qualcosa di limitato che tut-
tavia comprende una infinità che non può essere numericamente determi-
nata, Spinoza fornisce il famoso esempio dei due cerchi non concentrici:
[…] tutte le ineguaglianze dello spazio interposto tra due cerchi, AB e CD,
e tutte le variazioni, a cui va soggetta la materia che in esso si muove, sono
superiori a ogni numero. E ciò non si conclude in base alla eccessiva grandezza
dello spazio interposto, perché se ne prendiamo una porzione anche piccolissi-
ma, le ineguaglianze in essa contenute sono superiori a ogni numero. E neppure
si arriva a tale conclusione, come avviene altre volte, per il fatto che ci manchi
il massimo e il minimo di quella grandezza, perché nell’esempio fatto li pos-
sediamo entrambi, e cioè il massimo AB e il minimo CD. Ma a essa si arriva
soltanto perché la natura dello spazio interposto tra due cerchi non ammette
una tale possibilità6.
E per sua propria natura, dunque, che lo spazio interposto tra i due cerchi
non concentrici e di diametro differente, il minore inscritto nel maggiore,
pur essendo uno spazio limitato (cioè avendo un massimo e un minimo),
non è numericamente determinabile, dato che le diseguaglianza delle di-
stanze contenute in questo spazio e le variazioni del movimento che do-
vrebbe subire la materia che si muovesse nel suddetto spazio superano ogni
numero. Ma ciò che voglio mettere qui in evidenza e considerare in detta-
glio (più che l’inadeguatezza del numero al fine di concepire tanto l’infinito
quanto il finito, che è il tema della lettera) è che, grazie all’ipotesi che i
cerchi non coincidano nel loro centro, le ‘parti’ che costituiscono questa
certa ‘interiorità’ delimitata non sono parti discrete, ma parti differenziali
(diseguaglianze o relazioni tra distanze, ossia passaggi); che, per questo,
non essendoci tra di esse discontinuità ma una variazione continua, ciò che
accade all’interno di questo spazio finito deve essere concepito in termini di
movimento; e che, correlativamente, vi è un’altra nozione di limite in gioco,
che non è quel limite stabilito da una circoscrizione fissa di uno spazio.
Precisiamo meglio. Come molti interpreti dell’opera spinoziana hanno
sottolineato7, non si tratta dell’impossibilità di attribuire un numero all’in-
sieme (infinito) delle distanze disuguali comprese tra i due cerchi, bensì
– cosa che in linea di principio non sembrerebbe nulla più che una sottile
differenza nell’enunciazione – dell’impossibilità di enumerare le disegua-
6 B. Spinoza, Epistolario, tr. it. a cura di A. Droetto, Einaudi, Torino 1951, pp.
82-83.
7 Rinvio in particolare a Gueroult, Deleuze e Macherey.
94 Il transindividuale
10 In questo senso vi è una necessaria relazione tra questo essere finito o limitato del-
le cose e il limite inerente alla nostra propria percezione – anch’essa finita. Così è
proprio la nozione di limite che ci permette di spiegare l’operazione di astrazione:
al di là di un certo limite, infatti, non possiamo immaginare distintamente le cose,
e per questo, grazie a certi tratti che astraiamo da una complessità attuale, pos-
siamo abbracciarle, anche se non distintamente, per lo meno in modo unificato e
organizzato.
96 Il transindividuale
È per questo insieme di tratti che, come abbiamo detto, l’esempio geo-
metrico della lettera 12 era convocato per illustrare l’esistenza delle cose
finite nella sua coincidenza con l’essenza stessa di queste cose. L’esisten-
za di qualcosa che può essere determinato astrattamente ad libitum13, non
ammette tuttavia una determinazione di questo genere se è considerata se-
condo la sua natura: deve essere vista come effetto necessario della causa
che la produce, come una continuazione indefinita nell’esistenza. In quanto
l’esistenza finita è nell’infinito, dalla potenza di questa causa infinita pro-
viene la forza propria nel perseverare nell’esistenza che fa dell’esistenza
delle cose particolari, essenzialmente, una esistenza continua ed indefinita.
La reversibilità tra essenza ed esistenza caratteristica dello spinozismo (che
pertiene a pieno titolo, in linea di principio, solo alla causa sui) è compro-
vata qui nel caso delle cose finite: l’essenza si definisce come potenza o
sforzo («che non implica un tempo finito, ma indefinito») nel perseverare
nell’esistenza; l’esistenza è la durata continua che risulta o coincide con
l’affermazione di questa essenza come sforzo nel perseverare. In questo
modo l’esempio geometrico illustra la forma in cui l’esistenza di una cosa
limitata coincide con l’essere attuale di una essenza, poiché questa consiste
nello sforzo variabile ma continuo per permanere durando, ossia esistendo.
La materia, nell’esempio, continua indefinitamente il proprio movimento,
attraversando gli infiniti stadi che la fanno essere ciò che è, in una esisten-
za infinitamente variabile che tuttavia si trova compresa entro certe soglie
dell’estensione, che definiscono la sua natura (un massimo e un minimo),
associate a loro volta a ciò che questo spazio materiale è in virtù della de-
terminazione esterna dei suoi limiti.
modo fisso così come è impossibile supporre che la prateria determini esterna-
mente il bosco definendo i suoi contorni. Il bosco è il risultato della sua propria
potenza espansiva, e il suo termine è dove la sua azione si arresta e dove la sua
esistenza si mescola con l’esistenza della prateria (Lezione di Deleuze su Spinoza
del 17/2/1981). L’essenza di ogni cosa finita è, quindi, come quella del bosco,
l’affermazione di una potenza di attuare che si estende tanto quanto la natura
attualmente determinata della cosa lo permette; e per questo, il limite cessa di
essere qualcosa di astratto e statico, e riguadagna il dinamismo richiesto da una
considerazione realista delle cose.
13 È ciò che dice Spinoza nella lettera 12 a proposito dell’esistenza dei modi che
può essere considerata maggiore o minore, oppure divisa in parti, senza distrug-
gere il suo concetto. In relazione a ciò l’esempio geometrico offre possibilità di
determinazione simili: «Nell’intero spazio compreso tra due cerchi aventi centri
diversi noi concepiamo una moltitudine di parti due volte maggiore che nella sua
metà; e tuttavia il numero delle parti, tanto dell’intero quanto del mezzo spazio,
è maggiore di ogni numero pensabile» (Spinoza a Tschirnhaus, epistola 81, in B.
Spinoza, Epistolario, cit., p. 309).
M. de Gainza - Il limite e la parte: i confini dell’interiorità nella filosofia spinoziana 99
Esempio: quando i movimenti delle particelle della linfa, del chilo ecc. si
adattano gli uni agli altri nella grandezza e nella figura, così da conformarsi in
tutto vicendevolmente e costituire tutti insieme un unico fluido, allora soltanto
il chilo, la linfa ecc. sono considerati come parti del sangue14.
Se supponiamo, infatti, che all’infuori del sangue non sussista altra causa
la quale imprima al sangue stesso nuovi movimenti, e che all’infuori del san-
gue non si dia altro spazio né altri corpi in cui le particelle del sangue possano
trasferire il proprio movimento, è certo che il sangue continuerebbe a mante-
nersi nel proprio stato e che le sue particelle non subirebbero altre variazioni
fuori di quelle che si possono concepire da un dato rapporto del movimento
del sangue […], e così il sangue si dovrebbe sempre considerare come un
tutto e non mai come una parte. Ma siccome si danno molte altre cause dalle
quali sono regolate le leggi naturali del sangue, e queste a loro volta da quel-
le, di qui avviene che sorgano nel sangue altri movimenti e altre variazioni, le
quali derivano non dalla sola natura del movimento reciproco di quelle parti,
bensì insieme dalla natura del movimento del sangue e delle cause esterne17.
allo stesso tempo, supporre che queste leggi del sangue funzionino in
modo puro, costituirebbe un’altra operazione di astrazione che isolerebbe
il sangue dalle relazioni con altre cose che «modificano le leggi della sua
natura», producendo in essa movimenti e variazioni che procedono, così,
non dal movimento delle sue parti, ma, appunto, da queste cause esterne.
In questo modo, il «movimento reciproco tra le parti» di una cosa e «il
movimento tra [questa cosa] e le cause esterne» sono a tal punto intima-
mente connessi che ‘totalizzare’ nel senso di considerare le cose come se
fossero figure opposte (o ‘parti totali’) significa snaturarle. Per questo,
possiamo dire che con questo tipo di esempi Spinoza si riferisce alla na-
tura assolutamente relazionale dell’esistenza, cosa che fa della parte e del
tutto, in un senso preciso, ‘enti di ragione’.
18 Ivi, p. 170.
102 Il transindividuale
24 Ibidem.
107
WARREN MONTAG
‘COMBINAZIONI TUMULTUOSE’
TRANSINDIVIDUALITÀ
IN ADAM SMITH E SPINOZA
1 D. Hume, A Treatise on Human Nature, ed. by D.F. Norton and M.J. Norton, Ox-
ford University Press, Oxford 2000, tr. it. di A. Carlini et alii, Laterza, Bari-Roma
1992, libro 2, parte 1, sezione 11.
2 E. Balibar, «Individualité et transindividualité chez Spinoza», in P.-F. Moreau
(éd.), Architectures de la raison: Mélanges offerts à Alexandre Matheron, ENS
Éditions, Fontenay/Saint-Cloud 1996; Cfr. A Matheron, Individu et communauté
chez Spinoza, Éditions de Minuit, Paris 1969, pp. 150-190.
3 W. Montag, «Who’s Afraid of the Multitude: Spinoza Between the Individual and
the State», in South Atlantic Quarterly, 104, 2005, 4, pp. 655-673, tr. it. di L. Di
Martino, in Quaderni materialisti, 2, 2003, pp. 63-79.
108 Il transindividuale
Per quanto egoista si possa ritenere l’uomo, sono chiaramente presenti nella
sua natura alcuni principi che lo rendono partecipe delle fortune altrui, e che
rendono per lui necessaria l’altrui felicità, nonostante da essa non ottenga altro
che il piacere di contemplarla5.
5 A.Smith, The Theory of Moral Sentiments, ed. D.D. Raphael and A.L. Macfie,
Liberty Fund, Indianapolis 1976, p. 9, tr. it. di S. Di Pietro, BUR, Milano 1995, p.
81.
6 Hobbes inizialmente definisce la gloria «la gioia che deriva dall’immaginare il
proprio potere e la propria abilità» (T. Hobbes, Leviathan, Pelican, London 1968,
pp.124-125, tr. it a cura di A. Pacchi, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 47). Nel Capi-
tolo 13, comunque, Hobbes definirà la Gloria come il desiderio di ciascun uomo
che «il suo compagno nutra per lui la stessa stima che egli nutre per se stesso», un
desiderio che, se disapprovato, può condurre gli individui a tentare di ‘estorcere’
tale stima dagli altri anche con la violenza.
110 Il transindividuale
Dal momento che non abbiamo esperienza diretta di ciò che gli altri uomini
provano, non possiamo formarci alcuna idea della maniera in cui essi vengono
colpiti in altro modo che col concepire ciò che noi stessi proveremmo nella loro
stessa situazione8.
posa la mano sul corpo di un altro uomo, o di un qualsiasi altro animale, seb-
bene egli sappia, o possa sapere, che essi sentono la pressione della sua mano
come egli sente quella del loro corpo, tuttavia, dato che questa sensazione gli è
completamente estranea, spesso non ci fa caso9.
9 A. Smith, «Of the External Senses», in Id., Essays in Philosohical Subjects, Lib-
erty Fund, Indianapolis 1980, p. 136, tr. it. a cura di P. Berlanda, Saggi filosofici,
Franco Angeli, Milano 1984, p. 141.
10 A. Smith, «Of the External Senses», cit., p.151, tr. it. cit., p.156.
11 A. Smith, The Theory of Moral Sentiments, cit., p. 9, tr. it. cit., p.81.
12 Ibidem.
112 Il transindividuale
Il ‘come se’ è cruciale qui: Smith consente al lettore che abbia familia-
rità con il lessico della simpatia di iniziare a tradurre il transindividuale
nell’intraindividuale, a capire che il senso di espressioni quali ‘entrare nei’
o ‘condividere i’ sentimenti altrui, esperienze che ha appena escluso in
quanto impossibili, può ora esser compreso come esprimente atti dell’im-
maginazione grazie ai quali consideriamo ciò che noi stessi abbiamo sen-
tito – o più problematicamente potremmo sentire, qualora non lo avessimo
mai sperimentato in una situazione analoga –, il che in nessun modo im-
plica un contatto con il mondo interiore di un altro. L’atto dell’immagina-
zione di cui siamo allo stesso tempo soggetto e oggetto, e che solo in via
subordinata connette ciò che cominciamo in tal modo a sentire a ciò che
sappiamo, o possiamo sapere, circa un’altra persona è, certamente, tutto
fuorché qualcosa di immediato o spontaneo. Infatti, la simpatia, intesa ora
come atto della volontà con il quale concepiamo ciò che noi stessi po-
tremmo provare in una data situazione, significa che persino la vista di
nostro fratello sotto tortura «comincerà infine a far soffrire anche noi» solo
quando i tormenti che egli ci sembra stia soffrendo «li abbiamo ricondotti
a noi»15. Le passioni che «in alcune occasioni possono sembrare trasfuse
da un uomo a un altro istantaneamente, e prima di qualsiasi conoscenza
di ciò che le ha suscitate nella persona principalmente interessata»16, non
possono, in realtà, mai passare da uno all’altro e nemmeno oltrepassare il
limite della persona stessa.
rifugio interno nel quale possiamo, con il corretto esercizio della volontà,
fuggire; non vi è alcun porto sicuro all’interno, al di là della violenza delle
tempeste politiche e sociali che infuriano attorno a noi; non vi è alcuna
possibilità che la mente non abbia a patire per la più piccola degradazione
inflitta al corpo.
Infatti, la specificità dell’essere umano, secondo il ragionamento di Spi-
noza, ci rende in misura maggiore e non minore preda del gioco di forze nel
quale siamo immersi. Diversamente dalle altre cose, noi siamo ‘cose’ affet-
te da affetti, compresi gli affetti che colpiscono cose simili a noi. Quanto
alle cose a noi simili, non solo non vi è nulla che renderebbe i loro senti-
menti inaccessibili a noi o i nostri a loro, ma, soprattutto, non vi è nulla che
ci protegga dai loro affetti. Questi ultimi trascorrono da individuo a indivi-
duo con la facilità di un virus trasportato da un costante flusso di immagini,
esso stesso conseguenza del fatto che siamo una cosa che interagisce con
altre cose che non possiamo né fuggire né sperare di controllare. Questo
esser affetti dagli affetti altrui, trasportato dalle immagini alle quali siamo
costantemente soggetti, Spinoza lo chiama ‘imitazione’. Il termine, usato
anche da Malebranche, deriva probabilmente dall’argomento di Descartes
secondo cui gli animali si mostrano capaci di imitare gli esseri umani, pur
non essendo altro che macchine: le macchine di Descartes imitano altre
macchine17. Perché ‘imitazione’ piuttosto che ‘trasmissione’ o ‘comunica-
zione’ di affetti, quando vi si dà chiaramente una replica dell’affetto altrui?
L’uso del termine imitazione da parte di Spinoza suggerisce la natura fisica
ed esterna del nostro assumere l’affetto altrui: non ci limitiamo a ‘sentirlo’,
ma ne veniamo alterati così nel corpo come nella mente.
Per sottolineare il fatto che l’imitazione degli affetti non è atto della
volontà, Spinoza insiste nell’affermare che anche se in precedenza non ab-
biamo sentito nulla da o per questa cosa, automaticamente (eo ipso) saremo
affetti da un affetto simile. L’imitazione qui fa riferimento ad un automati-
co e involontario mimetismo, anche a ciò che Malebranche chiamava ‘un
contagio’ di affetti, rispetto al quale né colui che causa l’affezione né colui
che la subisce hanno necessariamente qualche conoscenza o controllo. Noi
imitiamo gli affetti altrui senza sapere perché o che cosa imitiamo e, in
molti casi, senza nemmeno sapere che imitiamo i loro affetti. L’immagine
della tristezza degli altri ci rattrista, mentre l’immagine della gioia altrui ci
17 Descartes discute dell’imitazione messa in atto dagli animali (che sono per lui
macchine priva volontà) in una lettera al Marchese di Newcastle, 23 novembre
1646, in R. Descartes, Tutte le lettere, tr. it. a cura di G. Belgioioso, con la colla-
borazione di I. Agostini et alii, Bompiani, Milano 2005, pp. 2347-2353.
116 Il transindividuale
18 B. Spinoza, Ethica IV, pr. 50 (la tr. it. dell’Etica utilizzata è quella di E. Giancotti,
Editori Riuniti, Roma 1988).
19 B. Spinoza, Ethica III, pr. 27, schol. [per non rompere la continuità citazione-
commento, ho preferito modificare la traduzione del termine latino cupiditas, reso
da Giancotti con cupidità, preferendo utilizzare il termine desiderio, assai più
prossimo all’inglese desire, proposto dall’autore; n.d.T].
W. Montag - ‘Combinazioni tumultuose’ 117
FRÉDÉRIC LORDON
L’IMPERIO DELLE ISTITUZIONI
1 B. Spinoza, Ethica IV, pr. 14 (la tr. it. dell’Etica utilizzata è quella di E. Giancotti,
Editori Riuniti, Roma 1988).
2 Ibidem.
3 Cfr. R. Boyer, Théorie de la régulation. Une analyse critique, coll. «Agalma», La
Découverte, Paris 1986 e R. Boyer, Y. Saillard, Théorie de la régulation. L’état
des savoirs, 2ème édition, coll. «Recherches», La Découverte, Paris 2002.
122 Il transindividuale
far rientrare nel proprio corpus e nelle proprie fonti altro che il sistema
dei testi accademici e dei loro rinvii bibliografici, altro, come, per esem-
pio, quella scena della Corazzata Potëmkin in cui il plotone d’esecuzione
riunito sul ponte per fucilare degli ammutinati si paralizza all’ordine di
aprire il fuoco, momento di sospensione straordinario in cui il comando
non è come d’abitudine seguito dal suo effetto, in cui i fucili non sono
tenuti puntati ma oscillano ad immagine dell’anima dei fucilieri, in cui
l’ufficiale schiuma di rabbia per il fatto di non essere obbedito ed in cui
sorge d’improvviso una formidabile indeterminazione in cui tutto è in bi-
lico. È l’atto di rottura di uno dei marinai, spettatore disgustato della sce-
na, che catalizza l’oscillazione, e chiamando i suoi commilitoni a gettare
le loro armi, scatena la ribellione collettiva. Il corpo dei marinai riunito
si ribella contro l’iniquità degli ufficiali e, nel giro di qualche istante,
è niente di meno che l’autorità militare che crolla fragorosamente – la
morte di una istituzione.
Potremmo allora riunire sotto la denominazione di ‘sindrome Po-
tëmkin’ questi momenti al di fuori della normalità istituzionale in cui un
signore ordina e ‘non si obbedisce più’ – che il signore sia comandan-
te, padrone, professore, ma soprattutto più ampiamente qualsiasi forma
d’autorità istituita/istituzionalizzata. Vi è qui una situazione tipicamente
regolazionista, forse quella più tipicamente regolazionista, nella misura
in cui è interamente l’espressione del fondo del suo metodo, cioè l’eu-
ristica della crisi4 : cogliere in modo paradossale i meccanismi dell’or-
dine attraverso i momenti privilegiati della sua decomposizione. Ma vi
è qui del pari una questione propriamente foucaltiana, la questione della
governamentalità, a patto che la si intenda in modo sufficientemente lar-
go come la questione dell’efficacia delle norme. Entrare nella sindrome
Potëmkin, metterne in luce gli ingranaggi generali non è d’altra parte
solamente una questione foucoltiana in sé; per il suo contenuto è del pari
la maniera foucoltiana di porre la questione delle istituzioni, o, più pre-
cisamente, la questione del potere delle istituzioni, col porre non una
questione d’essenza – «che cos’è il potere?» – bensì una questione di
modalità di funzionamento: «come funziona il potere delle istituzioni?
Attraverso quali meccanismi funziona?».
il primo enunciato di una teoria spinozista delle istituzioni sociali: c’è una
potenza delle istituzioni.
Costitutivamente, l’istituzione affetta simultaneamente e identicamen-
te un gran numero di individui – tutti quelli che si trovano nell’ambito
della propria competenza. In altre parole essa produce un affetto comune
su grande scala. ‘Comune’ e ‘su grande scala’: sono le due caratteristiche
dell’affetto istituzionale. Se l’istituzione affetta su grande scala, è perché la
sua potenza è grande comparata alla potenza di uno solo. Certe istituzioni
hanno perfino il potere di affettare tutti (o quasi, e a regime): per esempio la
lingua, lo Stato, la moneta. Da questi enunciati di base segue una domanda
ovvia: questa potenza di cui dispongono le istituzioni, da dove viene loro?
La risposta spinoziana si trova nel Trattato politico ed è la seguente: la po-
tenza capace di affettare la moltitudine viene dalla moltitudine. Potremmo
prima di tutto vedervi intuitivamente un argomento di scala o, per dirla al
modo dei fisici, d’omogeneità degli ordini di grandezza8.
Vi è soprattutto nel fatto che solo la moltitudine possa affettare la molti-
tudine il tema centrale della filosofia politica di Spinoza, di fatto l’enuncia-
zione stessa della tesi fondamentale dell’immanenza. Che gli uomini, per il
fatto stesso della loro potenza, si affettino gli uni gli altri reciprocamente,
è vero su scala individuale o più esattamente interindividuale – gli uomini
si incontrano e si affettano, gioiosamente o tristemente, a seconda dei casi
–, ma è vero del pari su scala collettiva: gli uomini presi globalmente si
affettano essi stessi, la totalità degli uomini si auto-affetta. Si può dunque
dire che il mondo sociale è il campo delle affezioni reciproche degli uomini
– tra l’altro vi sarebbe con ciò una maniera di definire una scienza sociale
spinozista come scienza delle autoaffezioni del corpo sociale. Dicendo al-
lora che tutto ciò che capita agli uomini9 è fatto da altri uomini cogliamo
8 Certo, si potrebbe obiettare che vi sono situazioni nelle quali una causa molto
piccola produce un effetto molto grande – come il calcolo renale di Cromwell di
cui Pascal dice che ha salvato «la cristianità e la famiglia reale» (Pensées, 750, in
Id., Œuvres complètes, présentation et notes de L. Lafuma, coll. L’intégrale, Seuil,
Paris 2002, p. 597, tr. it. di A. Bausola, Rusconi, Milano 1993, p. 137). Ma questa
sproporzione manifesta di causa e effetto non può prodursi che nei punti critici,
quelli di cui la teoria delle catastrofi dice che sono le singolarità della struttura e di
cui essa mostra che vi si esprime tutta la struttura (R. Thom, Modelli matematici
della morfogenesi, tr. it. di S. Costantini, Einaudi, Torino 1985) – la proporzione
è così ristabilita grazie a questo argomento.
9 O, diciamo, la parte maggiore di ciò che capita agli uomini, poiché vi sono anche
delle affezioni che provengono loro da cose esteriori non sociali: eventi climatici
o naturali (benché questi producano raramente i loro effetti senza passare attraver-
so o senza combinarsi con qualche mediazione sociale).
F. Lordon - L’imperio delle istituzioni 125
10 Per una prima esposizione di questa tesi di lettura cfr. F. Lordon, «La légitimité
n’existe pas. Eléments pour une théorie des institutions», in Cahiers d’Economie
Politique, 53, 2007, pp. 135-164, e Id., «Derrière la légitimité, la puissance de la
multitude. Le Traité politique comme théorie générale des institutions sociales»,
in C. Jaquet, P. Sévérac et A. Suhamy (dir.) La Multitude libre. Nouvelles lectures
du Traité politique, Edition Amsterdam, Paris 2008, pp. 105-129.
126 Il transindividuale
dendo avvio dalla situazione più semplice e pura possibile, a rischio che
sia fittizia, ma di una forma di finzione ammissibile sia perché lascia vede-
re i meccanismi più fondamentali e sia perché è oltrepassabile servendosi
di una procedura costruttiva che permetta, per complicazioni crescenti, di
raggiungere progressivamente dei gradi più soddisfacenti di realismo. Ora,
la situazione più semplice, quella che, conformemente al metodo abituale
della filosofia politica classica, Spinoza considera nel Trattato politico, è
quella dello stato di natura. Seguendo Alexandre Matheron lo stato di natu-
ra può essere definito come uno stato pre-istituzionale, in qualche modo la
fase informe della moltitudine. In questa scena primitiva gli individui non
sono formalmente obbligati da nulla. Tuttavia le loro possibilità d’azione
sono limitate dai rapporti di forza che caratterizzano ciascuno dei loro in-
contri accidentali. Non c’è bisogno di dire che questo stato di natura in cui
regnano le affermazioni di potenza (conatus) senz’altra regolamentazione
al di fuori dei rapporti di forza locali è uno stato di grande violenza e di
grande instabilità. Ogni individuo non fa in esso null’altro che affermare il
suo proprio desiderio di espansione e la concezione del bene che è legata
ad esso – dato che il bene per ciascuno non è altro che ciò che a lui pare
buono11. I conflitti che nascono inevitabilmente dallo scontro reciproco di
queste asserzioni eterogenee mettono in moto dinamiche collettive di po-
sizionamento e di alleanza, governate da quel meccanismo che Spinoza
considera tra i più importanti della vita passionale, cioè l’emulazione degli
affetti12. Allo scoppiare di un conflitto gli individui collaterali prendono
partito secondo un principio di imitazione per similitudine. Questa dina-
mica che unisce riunioni mimetiche degli uni e competizioni di potenze
degli altri produce, attraverso tappe successive, la formazioni di coalizioni
sempre più grandi e sempre meno numerose, fino al punto in cui il gruppo
non si sia interamente congiunto e si ritrovi unito attorno ad una medesi-
ma concezione del bene e del male: tutti ormai approvano e disapprovano
le stesse cose, rispettivamente dichiarate lecite e illecite, il cui rispetto o
sanzione sono con ciò rimessi alla sorveglianza del gruppo così costituito-
si, ben presto dotato di strumenti coercitivi capaci di rendere queste (sue)
norme esecutive. La convergenza mimetico-agonistica funziona così come
11 «Chiamiamo bene o male ciò che giova o è d’ostacolo alla conservazione del
nostro essere» scrive Spinoza in Ethica IV, pr. 8, dem., «in quanto percepiamo che
una certa cosa produca in noi un affetto di gioia o di tristezza, la chiamiamo buona
o cattiva».
12 « Se immaginiamo che una cosa a noi simile, e verso la quale non abbiamo nutrito
nessun affetto, è affetta da un qualche affetto, per ciò stesso veniamo affetti da un
affetto simile» (B. Spinoza, Ethica III, pr. 27).
F. Lordon - L’imperio delle istituzioni 127
genesi storica. Per questa ragione sarebbe probabilmente più adeguato par-
lare di ‘stati di natura qualificati’ allo scopo di sottolineare il carattere in-
tenzionalmente artificiale della loro costruzione, giustificato dalla specifica
finalità di isolare, per così dire, ‘nel laboratorio mentale’ dei meccanismi
elementari che nondimeno sono in funzione nelle realtà effettuali storiche
prese in considerazione. Scartando tutte le letture antropologico-storiche
realiste della genesi concettuale, Adré Orlean ci offre il vero senso ‘del-
lo stato di natura qualificato’ affermando che consiste nella ‘realtà meno
l’istituzione che si desidera generare’. Il metodo di Matheron è decisamen-
te molto vicino a quello di Durkheim, che precisa la natura del suo proprio
esercizio in questi termini:
16 E. Durkheim, Les Formes élémentaires de la vie religieuse, cit., p. 11, tr. it. cit., p.
11 (corsivo mio).
17 Cfr. a questo proposito la discussione sull’imitazione in E. Durkheim, Le Sui-
cide, Quadrige PUF, Paris 1985, pp. 108-115, tr. it. di M.J. Tosi, UTET, Torino
1977, pp. 155-180. Cfr. anche B. Karsenti, «L’imitation. Retour sur le débat entre
Durkheim et Tarde», capitolo 8 di Id., La société en personnes, coll. «Etudes
sociologiques», Economica, Paris 2006, pp. 162-182.
F. Lordon - L’imperio delle istituzioni 129
Nelle menti vengono a formarsi delle immagini esprimenti […] le varie ma-
nifestazioni emanate dai vari punti della folla. Una volta risvegliate nella mia
coscienza, queste varie rappresentazioni giungono a combinarsi tra loro con
quella che costituisce il mio proprio sentimento. In questo modo si forma un
nuovo stato che non è più mio al medesimo grado del precedente […]. Più stati
di coscienza simili si richiamano gli uni gli altri in virtù della loro somiglianza,
poi si fondono e si confondono in una risultante che li assorbe e ne differisce.
[…] è lo stato collettivo19.
18 Su questo tema della risonanza affettiva cfr. Y. Citton, L’envers de la liberté. L’in-
vention d’un imaginaire spinoziste dans la France des Lumières, coll. «Caute!»,
Editions Amsterdam, Paris 2006 e Id., «Esquisse d’une économie politique des
affects », in Y. Citton et F. Lordon (dir.), Spinoza et les sciences sociales. De la
puissance de la multitude à l’économie des affects, cit., pp. 45-123.
19 E. Durkheim , Le Suicide, cit., pp. 110-111, tr. it. cit., pp. 158-159.
20 Ivi, p. 114-115, tr. it. cit., p. 252 (corsivo mio).
21 Ibidem (corsivo mio).
130 Il transindividuale
22 Per un’applicazione dello schema dell’affetto comune alla produzione della co-
munità monetaria cfr F. Lordon, A. Orlean, «Genèse de l’Etat et genèse de la
monnaie: le modèle de la potentia multitudinis», cit.
23 Cfr. F. Lordon, «Les multitudes de l’art», in X. Douroux (dir.), Les Nouveaux
commanditaires, Les Presses du réel, Paris (in corso di pubblicazione).
24 B. Spinoza, Trattato politico, VI, 1 (la tr. it. utilizzata è quella di P. Cristofolini,
ETS, Pisa 1999).
F. Lordon - L’imperio delle istituzioni 131
che non l’ha deliberatamente ricercata. Ne risulta tuttavia per questi uno
straordinario accrescimento di potenza che Durkheim, parlando dell’orato-
re che si rivolge ad una folla, descrive così:
25 E. Durkheim, Les Formes élémentaires de la vie religieuse, cit., p. 301, tr. it. cit.,
p. 268.
26 Cfr. F. Lordon, «Le spinozisme de Durkheim», document CSE, 2009.
27 B. Spinoza, Ethica III, def. 3.
132 Il transindividuale
L’uomo che parla alla folla […] sente in sé come una pletora anormale di
forze che lo sovrastano e che tendono a diffondersi fuori di lui; egli ha talvolta
perfino l’impressione di essere dominato da una potenza morale che lo trascen-
de e di cui è solamente l’interprete30.
Ma, che cos’è questa ‘potenza morale’ di cui non è che il ricettacolo se
non la potenza della moltitudine, e non si potrebbe forse meglio dire che il
potere in apparenza detenuto dall’uomo di potere non è che l’effetto di una
potenza che non è la sua e che gli viene da un investimento della sua per-
sona di cui l’origine gli rimane esteriore? Pascal avverte di questo i grandi
che potrebbero essere tentati di dimenticare la vera origine – estrinseca –
della loro grandezza:
la sua buona sorte. Accolse tutti gli onori che gli vollero rendere e si lasciò
trattare da re31.
Certo, non tutte le sovranità sono fortuite e certi uomini avranno una
viva coscienza della forza immensa trasportata dalla potentia multitudinis
e dell’incommensurabile surplus di potenza che essi potranno aggiungere
alla loro potenza individuale propria. Essi, uomini di potere nel senso pieno
del termine, cioè imprenditori della cattura, cercheranno deliberatamente di
porsi nella corrente della potentia multitudinis, di farsi investire da essa, di
farla passare attraverso di loro, per mobilitarne ai propri fini tutti gli effetti.
E probabilmente pensando a questi specialisti della cattura intenzionale
[praticiens délibérés de la capture], non sorpresi dall’investimento della
loro persona attraverso l’affetto comune, ma tutti indaffarati ad ottenerlo,
che Matheron chiarisce la distinzione concettuale tra potenza e potere, di
cui fornisce una formulazione lapidaria: «Il potere politico è la confisca
operata dai governanti della potenza collettiva dei loro sudditi»32. Il potere
è la cattura di una potenza che, in ultima analisi, è quella della moltitudine.
Spinoza lo dice alla sua maniera, ma è forse uno degli enunciati centrali
del Trattato politico:
31 B. Pascal, «Premier discours», Trois discours sur la condition des grands, in Id.,
Œuvres complètes, coll. L’intégrale, Seuil, Paris 2002, p. 366, tr. it. a cura di G.
Preti, in Id., Opuscoli e scritti vari, Laterza, Bari 1959, p. 108.
32 A. Matheron, Individu et communauté chez Spinoza, cit., passim.
33 B. Spinoza, Trattato politico, II, 17.
134 Il transindividuale
34 M. Aglietta, A. Orlean (sous la dir. de), La monnaie souveraine, Odile Jacob, Paris
1998.
F. Lordon - L’imperio delle istituzioni 135
seguito di farci fare qualcosa, la potenza delle istituzioni intesa come una
certa cattura della potenza della moltitudine.
Dire che a immagine del rapporto salariale l’affetto comune esprime
l’istituzione nel suo strato più ‘profondo’, cioè il rapporto sociale che essa
effettua, non deve far perdere di vista gli effetti specifici del suo strato
superficiale, poiché questa effettuazione non è neutra o indifferente. Così,
oltre alla potenza normante del rapporto che essa effettua, l’interazione
istituzionale locale aggiunge il suo supplemento di determinazione affetti-
va idiosincratica. Quando sono di fronte ad un datore di lavoro o ad un uf-
ficiale, sono di fronte ad un rapporto sociale, ma ad un rapporto sociale in-
carnato, per così dire ad un rapporto sociale in persona, cioè: sono di fronte
a questo datore di lavoro o a questo ufficiale, qui e ora, e questo mi affetta
in modo supplementare e specifico. Poiché questo datore di lavoro in se
stesso aggiunge un surplus di determinazione affettiva, gioiosa o triste, e
fa giocare e fa funzionare il meccanismo reattivo del conatus in un senso o
in un altro. Per questa ragione per tutte le istituzioni è meglio ‘governare’
o se si vuole: ʻregnareʼ attraverso gli affetti gioiosi piuttosto che attraverso
gli affetti tristi, in virtù dell’amore piuttosto che in virtù dell’odio. Chi
regna attraverso la paura deve vincere i desideri reattivi d’affrancamento
necessariamente indotti dagli affetti tristi – «quanto maggiore è la tristezza,
con tanto maggiore potenza di agire l’uomo si sforzerà di allontanare la
tristezza»39. La paura istituzionale induce da se stessa il desiderio di sba-
razzarsi dell’istituzione o almeno di sottrarsi alla norma, laddove l’amore
istituzionale induce un desiderio di farla durare. Perché è dunque meglio
regnare in virtù dell’amore piuttosto che dell’odio? Molto semplicemente
perché i bilanci affettivi netti sono ben più favorevoli all’imperium istitu-
zionale. Come ha sottolineato Charles Ramond40, vi è un quantitativismo
della potenza e delle intensità affettive in Spinoza, la cui formula è for-
nita in Etica IV, pr. 7: «un affetto non può essere né ostacolato, né essere
tolto se non per mezzo di un affetto contrario e più forte dell’affetto da
reprimere»41, enunciazione-tipo di un’algebra degli affetti di cui si ritrove-
rà la traccia nelle proposizione 9-18 della parte quarta dell’Etica, nella sua
determinazione delle risultanti dell’affetto sintetico istituzionale.
[…] il valore di un titolo di nobiltà, come di uno di borsa, sale con la doman-
da e scende con l’offerta. Tutto quel che ci pare imperituro tende alla distruzio-
ne; una condizione mondana, come qualsiasi altra cosa, non è creata una volta
per tutte, ma, come la potenza di un impero, si rifà a ogni istante con una specie
di creazione perpetua [par une sorte de création perpétuellement continue].
[…]. La creazione del mondo non è accaduta in principio, avviene ogni giorno
[La création du monde n’a pas lieu du début, elle a lieu tous les jours]43.
42 B. Spinoza, Epistolario, tr. it. a cura di A. Droetto, Einaudi, Torino 1952, p. 225
[la tr. it. è stata modificata per non rompere la continuità testo commento; n.d.T].
43 M. Proust, La fuggitiva, tr. it. di F. Fortini, Einaudi, Torino 1978, p. 269.
F. Lordon - L’imperio delle istituzioni 139
Potremmo essere quasi tentati di dire che l’istituzione non ha alcun mo-
mento di inerzia, nel senso particolare in cui il suo destino si gioca sempre
in una contemporaneità assoluta. Se in effetti ad un istante dato l’affetto
istituzionale cade al di sotto della soglia critica, allora costitutivamente ne
segue che il bilancio affettivo netto determini ora gli individui a muoversi
al di fuori di questi rapporti specifici. Come una sorta di richiamo a ciò che
la prima sociologia francese deve in termini di ispirazione larvata a Spino-
za44, si troverà in Fauconnet e Mauss (1901) uno stupefacente condensato
di una veduta delle istituzioni come effetti di potenze e di affetti e della loro
sovranità come mantenimento di una determinata intensità affettiva:
Tuttavia, dire che l’istituzione deve essere prodotta ad ogni istante non
significa in alcun modo dire che essa non avrebbe alcuna profondità diacro-
nica. E, a rischio di dare come prima impressione di cadere in una perfetta
contraddizione, bisogna anche aggiungere che le norme istituzionali fun-
zionano principalmente in virtù della memoria.
La contraddizione non è che un paradosso e il paradosso non è che ap-
parente, poiché si tratta di dire qui che gli affetti istituzionali sono in larga
parte la riattivazione contemporanea di affetti provati dagli individui nel
La mente potrà […] contemplare come se fossero presenti i corpi esterni dai
quali il corpo umano è stato affetto una volta, sebbene non esistano, né siano
presenti47.
Se il corpo umano sia stato affetto una volta da due o più corpi simultane-
amente, quando in seguito la mente immaginerà uno, subito si ricorderà degli
altri48.
46 Si tratta di un’espressione giuridica che indica che l’erede entra in possesso im-
mediatamente dei beni del defunto.
47 B. Spinoza, Ethica II, pr. 17, cor.
48 B. Spinoza, Ethica II, pr. 18.
F. Lordon - L’imperio delle istituzioni 141
[…] non c’è da meravigliarsi che assolutamente tutti gli atti che per consue-
tudine si chiamano cattivi siano seguiti da tristezza e quelli che si dicono retti
da gioia. Infatti […] questo dipende soprattutto dall’educazione. Senza dubbio
i genitori, biasimando quelli e rimproverando spesso i figli a causa di essi e,
viceversa, suggerendo e lodando questi hanno fatto sì che a quelli si unissero
emozioni di tristezza e a questi di gioia49.
Che sia per effetto dell’isteresi affettiva che sostiene la norma del rappor-
to istituzionale, salariale per esempio, o attraverso gli affetti contemporanei
idiosincratici dell’interazione istituzionale che rende effettiva concretamente
questo rapporto hic et nunc, l’istituzione mantiene gli individui sotto il suo
imperio solo se ad ogni istante il suo bilancio affettivo netto resta favorevole.
Per il fatto stesso di essere sintetico, cioè composito, l’affetto istituzionale è
i sudditi non godono del loro diritto, ma sono sottoposti al diritto della città,
nella misura in cui ne temono la potenza, cioè le minacce, o anche nella misura
in cui amano la società civile51.
50 Si potrebbe obiettare – a ragione – che l’ultima reazione del conatus, quella che
comprende assolutamente il ‘tutto’ del «tutto piuttosto che questo» è il suicidio.
51 B. Spinoza, Trattato politico, III, 8
F. Lordon - L’imperio delle istituzioni 143
non sono di pertinenza delle leggi della Città tutte quelle azioni che nessuno
può essere indotto a compiere, né con premi né con minacce [ossia non fanno
parte delle cose che l’istituzione ha il potere di far fare]. Ad esempio, nessuno
può cedere la sua facoltà di giudizio. Con quali premi o minacce, infatti, si può
costringere qualcuno a credere che il tutto non sia maggiore di una sua parte, o
che Dio non esista, o che il corpo, che vedo finito, sia un ente infinito? A crede-
re, in generale, in qualcosa che è contrario a ciò che sente o pensa?52
Si deve considerare che una norma che provoca l’indignazione della mag-
gioranza ha poco a che fare con il diritto della Città. È infatti certo che gli
uomini, per impulso naturale, sono condotti ad unirsi per una speranza o timore
comune, o per il desiderio di vendicare qualche offesa fatta a tutti53.
52 Ivi, III, 8
53 Ivi, III, 9.
144 Il transindividuale
Una città [una istituzione] pecca dunque quando compie o permette che si
compiano azioni che possono causare la sua rovina54.
[…] e poiché il diritto della città è definito dalla potenza della moltitudine,
è certo che la potenza e il diritto della città diminuiscono nella misura esatta in
cui essa offre ad un gran numero di sudditi ragioni di unirsi55.
54 Ivi, IV, 4.
55 Ivi, III, 9.
F. Lordon - L’imperio delle istituzioni 145
Se pure diciamo che gli uomini non godono del loro diritto, ma sono sog-
getti al diritto della città, ciò non significa che hanno cessato di essere uomini
per acquisire un’altra natura, e che quindi la società abbia il diritto di far sì
che gli uomini volino, oppure, cosa altrettanto impossibile, che riguardino con
tutti gli onori cose che provocano il riso o la nausea. Vogliamo dire invece che
si danno alcune circostanze, poste le quali si danno il rispetto e il timore dei
sudditi verso la città, e tolte la quali svaniscono il rispetto e il timore, e con essi
la città stessa57.
56 B. Pascal, Pensées, 797, in Id., Œuvres complètes, cit., p. 601, tr. it. cit., p. 147.
57 B. Spinoza, Trattato politico, IV, 4.
147
ETIENNE BALIBAR
DALL’ANTROPOLOGIA FILOSOFICA
ALL’ONTOLOGIA SOCIALE E RITORNO: CHE
FARE CON LA SESTA TESI
DI MARX SU FEUERBACH?1
te ka;i ei\nai»3, «Worüber man nicht sprechen kann, darüber muss man
schweigen»4, ma anche lo spinoziano «ordo et connexio idearum idem est
ac ordo et connexio rerum»5 il kantiano «Gedanken ohne Inhalt sind leer,
Anschauungen ohne Begriffe sind blind»6 etc.
In tali condizioni è ovviamente allo stesso tempo estremamente allettan-
te e imprudente avventurarsi in un nuovo commento. Ma è anche inevita-
bile far ritorno alla lettera delle Tesi, esaminando la nostra comprensione
della loro terminologia e proposizioni, nel momento in cui decidiamo di
valutare il posto occupato da Marx (e di una interpretazione di Marx) nei
nostri dibattiti contemporanei. È ciò che vorrei fare – almeno in parte – in
questo testo, con riferimento ad una discussione in corso sul significato
e gli usi della categoria di ‘relation’ e ‘relationship’ (entrambi possibili
equivalenti del tedesco Verhältnis), le cui implicazioni vanno dalla logica
all’etica, ma in particolare implicano una sottile – forse decisiva – sfuma-
tura che separa un’‘antropologia filosofica’ da un’‘ontologia sociale’ (o,
una ontologia dell’‘essere sociale’, come Lukács, tra altri, direbbe). Questo
scopo conduce in modo del tutto naturale a sottolineare l’importanza della
Tesi 6, che recita (nella versione originale di Marx):
Feuerbach löst das religiöse Wesen in das menschliche Wesen auf. Aber
das menschliche Wesen ist kein dem einzelnen Individuum inwohnendes Ab-
straktum. In seiner Wirklichkeit ist es das ensemble der gesellschaftlichen
Verhältnisse.
Feuerbach, der auf die Kritik dieses wirklichen Wesens nicht eingeht, ist daher
gezwungen: 1. von dem geschichtlichen Verlauf zu abstrahieren und das religiöse
Gemüt für sich zu fixieren, und ein abstrakt – isoliert – menschliches Individuum
vorauszusetzen. 2. Das Wesen kann daher nur als ‘Gattung’, als innere, stumme,
die vielen Individuen natürlich verbindende Allgemeinheit gefaßt werden.
7 Per Ernst Bloch, cfr. Das Prinzip Hoffnung, vol. I (Suhrkamp Edition, Frankfurt
a. M. 1959, tr. it. di T. Cavallo, Garzanti, Milano 1994), e anche: «Keim und
Grundlinie. Zu den Elf Thesen von Marx über Feuerbach», in Deutsche Zeit-
schrift zur Philosophie, 1, 1953, 2, p. 237 e sgg. Per Althusser cfr. Pour Marx,
capitolo, «Marxisme et humanisme» (tr. it. a cura di M. Turchetto, Mimesis,
Milano 2008). Althusser è ritornato sull’interpretazione delle Tesi su Feuerbach
in un modo assai più critico in un testo postumo (datato 1982) «Sur la pensée
marxiste», pubblicato in Futur Antérieur, numero speciale «Sur Althusser. Pas-
sages», 8, 1993, tr. it. a cura di V. Morfino e L. Pinzolo, in Sul materialismo
aleatorio, Mimesis, Milano 20062.
8 Il Principio speranza è stato scritto durante il periodo bellico quando Bloch era in
esilio in USA, ma fu pubblicato solo dopo il suo ritorno nella Germania Occiden-
tale tra il 1954 e il 1957.
150 Il transindividuale
nominalista alla Stirner, per cui una nozione generale o idea (per es., quella
di specie o genere, come Genere Umano, Umanità) è solo un’astrazione, e
rigettare come altrettanto ‘astratta’ la nozione di individui isolati (come sono
immaginati dalla teoria politica ed economica borghese, con l’aiuto della
metafisica): poiché sia l’essenza collettiva che l’individuo singolo ‘egoistico’
sono astrazioni quando sono ‘isolati’ dalla Wirklichkeit, che è molto più che
‘realtà (cioè un’esistenza de facto, un ‘esserci’ sensibile), è un’operazione
(Wirklichkeit viene da Werk, wirken, l’equivalente tedesco di opus, operari),
un processo di farsi reale: ciò che Hegel ha definito come Spirito, e Marx
stesso identificherà con un insieme di processi storici di trasformazione che
concernono relazioni sociali. Perciò Marx mantiene il rifiuto simultaneo di
Hegel delle ‘essenze’ antitetiche, che sono tutte le più astratte nella misura
in cui pretendono di rappresentare la negazione dell’astrazione, ma sta anche
radicalmente sovvertendo la ‘logica’ di questo rifiuto nei termini di un’ope-
razione ‘spirituale’. Quanto radicalmente, questo è il problema. Ma prima di
considerare la sua definizione di un processo che è tanto ‘effettuale’ quanto
lo Spirito, pur non essendo lo Spirito, dobbiamo aggiungere una riflessione
su un altro termine usato da Marx che non è stato finora discusso.
Si tratta della formula (negativa): «…kein dem einzelnen Individuum
inwohnendes Abstractum». Fino ad ora, seguendo la più parte dei commen-
tatori, abbiamo focalizzato l’attenzione sui termini antitetici: Individuum
o Abstractum, l’individuo e l’astrazione (semplicemente identificato con
un’idea, o una ‘idea universale’). Ma abbiamo tralasciato di discutere il
verbo (participio presente) inwohnend, che le traduzioni invalse rendono
con ‘inerente a’. È stato leggermente modificato da Engels, trasformato in
innewohnend, un termine moderno il cui uso principale fa riferimento all’i-
dea di ‘possessione’, ‘essere posseduto’ (da qualche forza magica, un dio,
un diavolo ecc.), ma anche etimologicamente vicino al termine Einwohner,
che significa ‘abitante’ (o residente, abitatore) di un territorio, un luogo o
una casa ecc. A dire il vero l’originale inwohnend (con la stessa etimolo-
gia) esiste in tedesco, ma è una forma arcaica che si può trovare in contesti
teologici (per esempio in Meister Eckart, da cui passa a Jacob Böhme)13:
corrisponde al latino (ecclesiastico) inhabitare, inhabitatio (che Tommaso
d’Aquino distingue dal semplice habitatio, habitare)14. Ritornare a questo
13 Jacob Böhme, Von der Menschwerdung Jesu Christi (1620) (edizione online a
cura di Gerhard Wehr, Google ebook), 3-1.5 e 3-7.4.
14 È comune nella tradizione filosofica e teologica spiegare metaforicamente il fatto
che l’anima ‘abita’ (habitat) il corpo, o che il corpo forma una ‘casa’ per l’anima.
Inhabitare/inwohnen indicherebbe una relazione più intima e più intensa, come
quella della ‘presenza’ di Dio nell’anima del fedele. Il suo uso è spesso associato
E. Balibar - Dall’antropologia filosofica all’ontologia sociale e ritorno 155
con sviluppi della dottrina trinitaria (cfr. K. Lehmkuhler, Inhabitatio: Die Ein-
wohnung Goottes Im Menschen, Vandenhoek & Ruprecht, Göttingen 2004).
15 Questo discorso è fortemente indebitato con il lavoro di Alain de Libera sulla ge-
nealogia del ‘soggetto’ tra scolastica e modernità: cfr. il suo contributo alla nostra
voce comune «Soggetto» del Vocabulaire Européen des Philosophies a cura di
Barbara Cassin (2004), e i due volumi della sua Archéologie du Sujet, Librairie
Vrin, Paris 2007/2008.
156 Il transindividuale
Questo è una lettura assai acuta della logica dell’‘ontologia’ che possiamo
chiamare, dopo C.B. MacPherson, ‘individualismo possessivo’. Cfr. il mio sag-
gio «My Self, my Own. Variations sur Locke», in Id., Citoyen Sujet, cit., pp.
121-154.
20 È naturalmente affascinante cercare degli echi tra le marxiane Tesi su Feuerbach e
le Tesi sul concetto di storia (1941) di Benjamin, che consapevolmente cerca di se-
guirne la traccia (dunque propone un’interpretazione che è una trasformazione!).
21 È anche su questo punto che i testi quasi-contemporanei, in particolare la Sacra
famiglia, pagano un esplicito tributo a Hegel.
E. Balibar - Dall’antropologia filosofica all’ontologia sociale e ritorno 159
22 Questo aforisma è particolarmente insistente nel saggio di Marx del 1844 (pubbli-
cato nei Deutsch-Französische Jahrbücher), «Un’introduzione alla Critica della
filosofia del diritto hegeliana», in cui das Proletariat è usato per la prima volta
per nominare il ‘soggetto’ rivoluzionario (cfr. il mio saggio: «Le moment mes-
sianique de Marx», in Id., Citoyen Sujet, cit., pp. 243-264). È interessante notare
che, prendendo a prestito nuovamente dalla tradizione teologica che abita come
uno spettro le Tesi, le due nozioni di Verwirklichung (realizzazione) e Verweltli-
chung (secolarizzazione, letteralmente divenire-mondo) sono usate da Marx come
quasi-sinonimi.
23 Questo è un punto importante a cui sono state dedicate molte discussioni. For-
nisco qui una sola indicazione: P. Macherey, «Aux sources des rapports sociaux»,
in Genèse, n° 9, octobre 1992. Macherey evidenzia l’importanza dell’opera di
Louis de Bonald (un conservatore), François Guizot (un liberale) e del conte Clau-
de de Saint-Simon (un socialista la cui influenza sulla formazione intellettuale di
Marx può difficilmente essere sottovalutata).
160 Il transindividuale
Sarebbe una traccia utile discutere ogni singolo uso delle parole ‘umano’
e ‘sociale’ nelle Tesi. Per brevità mi concentrerò sulle implicazioni della
Tesi 10 nella sua relazione con la questione antropologica:
Il punto di vista del vecchio materialismo è la società borghese (die bürgerliche
Gesellschaft); il punto di vista del nuovo è la società umana (die menschliche Ge-
sellschaft) o l’umanità sociale (die gesellschaftliche Menschheit).
lizzazione sta avendo luogo nella storia in modo che emergano le condizio-
ni in cui è possibile trasformare la ‘natura umana’ in un modo rivoluziona-
rio. Ma questa ridistribuzione dei lati storico ed etico della due categorie
tra i regni complementari di ‘fini’ e ‘significati’ ha anche il risultato di
immettere nelle formulazioni marxiane una ‘ontologia sociale’ che non vi
è necessariamente (o non è letteralmente presente). E, come conseguenza,
nel ridurre l’indeterminazione delle affermazioni di Marx, riduce le loro
potenzialità26. Possiamo trovare una conferma che questa riduzione abbia
avuto luogo se esaminiamo l’altro effetto stilistico enigmatico in questa
parte di Tesi 6, vale a dire l’uso della parola francese ensemble.
Sostengo che non possiamo semplicemente spiegarlo in un modo ‘de-
bole’, facendo riferimento a circostanze e condizioni di scrittura: il fat-
to che Marx (che comunque scriveva e parlava correntemente francese)
stava vivendo a Parigi al tempo, e inserisse in modo abbastanza natura-
le delle parole francesi nelle sue note personali quando gli venivano in
mente più rapidamente dei concetti tedeschi (ha fatto la stessa cosa più
tardi con l’inglese). Questo può essere vero, ma offusca il fatto che cer-
te opposizioni semantiche cruciali sono qui in gioco. In effetti ensemble,
un termine provocatoriamente ‘neutrale’ o ‘minimale’, ha senso se lo ve-
diamo come un’alternativa a nozioni speculative , che sono centrali nella
dialettica hegeliana (ma anche nel discorso ‘sociologico’ emergente, con la
sua ossessione di ‘organicità), come das Ganze, die Ganzheit (o Totalität),
o die gesamten (gesellschaftlichen Verhältnisse), cioè il tutto, la totalità
(organica delle relazioni sociali). Ciò che Marx sta qui evitando con cura è
26 Ciò che permette a Engels (prima di molti marxisti) di fare questa rettifica è na-
turalmente il fatto che è divenuto familiare con il più tardo ‘materialismo storico’
e le analisi delle relazioni di produzione con le loro contraddizioni interne, come
spiegate nel Capitale: dato che è lì che Marx descriverebbe la struttura della
produzione materiale (incluso lo sfruttamento e la dominazione di classe) come
una matrice che genera trasformazioni nel carattere storico della specie umana, e
afferma che il capitalismo fa assegnamento su un più alto grado di ‘socializzazio-
ne’ (Vergesellschaftung) del processo lavorativo (cooperazione, industrializza-
zione, educazione politecnica) che deve essere incompatibile con le norme della
proprietà privata. Un’interessante formulazione intermedia è offerta nell’Ideo-
logia tedesca dove Marx afferma con forza la funzione determinante del lavoro
nel ‘produrre’ la ‘natura’ umana, mettendo sullo stesso piano lo sviluppo delle
forze produttive con una successione di modalità nella divisione del lavoro che
genera prima la proprietà privata, poi il comunismo (definito, come è noto, come
«il movimento reale che abolisce/supera – aufhebt – lo stato di cose esistente»),
ma non usa il termine tecnico ‘relazioni di produzione’ e ‘modi di produzione’.
Invece fa un ampio uso dei termini: Verkehr e Verkehrsformen: commercio e le
sue forme.
166 Il transindividuale
una categoria che indichi completezza, proprio nel momento in cui sembra
seguire esattamente il movimento hegeliano che privilegia la ‘concreta uni-
versalità’ contro l’‘astrazione’ (dato che il concreto e il completo in Hegel
sono sinonimi)27. Dunque si sta allontanando da Hegel nel momento in cui
gli si avvicina di più. Per mettere la cosa in modo più provocatorio, è come
se Marx stesse capovolgendo la scelta hegeliana per il «buon (o reale) infi-
nito» (che significa un infinito che è integrato nella forma di una totalità) in
favore del «cattivo infinito» (un infinito che è solo indefinito, identico con
una mera addizione o successione di termini, che rimane aperto). Questa
ipotesi è supportata da una singola sintomatica parola, ma ha il grande in-
teresse di rendere possibile combinare tutti gli elementi logici, ontologici e
anche onto-teologici in una singola operazione.
Io credo che possano essere attribuite tre connotazioni positive all’appa-
rentemente negativa preferenza per das ensemble al posto di das Ganze, in
altre parole l’uso di un Fremdwort che performativamente decostruisce l’ef-
fetto-totalizzazione o (per prendere a prestito per un momento il linguaggio
di Sartre) indica che la ‘nuova’ categoria di essere/essenza (Wesen) funziona
solo come una ‘totalità detotalizzata’ (o forse persino come una ‘totalità
auto-de-totalizzante’). La prima è una connotazione di orizzontalità: le ‘re-
lazioni sociali’ interagiscono o interferiscono l’una con l’altra, ma non de-
vono venire gerarchizzate verticalmente (con alcune relazioni che sono più
decisive, o più essenzialmente umane, ed un tipo di relazione che determina
le altre ‘in ultima istanza’)28. La seconda è una connotazione di indefini-
tezza o serialità, che significa che le relazioni sociali che sono costitutive
dell’umano formano una rete che rimane aperta, e che per esse non c’è né
una chiusura concettuale (dunque non una demarcazione a priori o empirica
tra ciò che è umano e ciò che non lo è), né una chiusura storica (dunque non
ascrive limiti allo sviluppo delle relazioni/attività sociali che aprono nuove
30 Vi sono alcune importanti affinità tra questa formulazione e ciò che Maurice
Blanchot, in un noto saggio molto sintetico, non senza relazione con la sua quasi
contemporanea meditazione sulle «parole di Marx», chiama le rapport du troi-
sième genre («il rapporto di terzo genere/tipo») (in L’entretien infini, Gallimard,
Paris 1969, pp. 94-105), in cui si trova l’equazione: «L’homme, c’est-à-dire les
hommes» (l’uomo, cioè gli uomini). Ritornerò altrove su questa comparazione.
170 Il transindividuale
e di forze, o in uno sforzo decisivo (forse solo una deviazione) dei soggetti
che li costituisce in creatori delle loro proprie relazioni33. Questa a dire il
vero è una discussione molta antica in filosofia. Ciò che qui ci interessa
sono le ragioni per cui tali aporie che sembrano rinviarci alla ‘metafisica’
non cessano mai di ritornare all’interno di un discorso ‘dialettico’ che, in
principio, ha esposto il loro carattere puramente ‘astratto’ (prima, in Hegel,
ma anche in Marx). Molti brillanti discorsi ‘marxisti’ sono stati elaborati
per risolvere filosoficamente il dilemma dell’esternalità versus l’internalità,
per trasporre su un piano differente la nozione hegeliana di soggettivazione
come interiorizzazione dialettica delle relazioni interne. Basti pensare sem-
plicemente (in direzioni opposte) alla nozione ultra-hegeliana di Lukács
del Proletariato come un ‘soggetto-oggetto’ della storia, la cui coscienza di
classe implica la negazione della ‘totalità’ delle relazioni sociali già trasfor-
mate dal capitalismo in relazioni mercantili, dunque un capovolgimento
attivo e immanente di queste stesse relazioni ‘reificate’.34 O la proposta
‘spinozista’ di Althusser (e radicalmente anti-hegeliana) che lo stesso pro-
cesso storico ‘surdeterminato’ potrebbe essere analizzato nei termini delle
sue condizioni ‘esterne’ oggettive e necessarie così come nei termini delle
sue azioni o capacità di agire intrinseci ‘aleatori’ e transindividuali (che
egli chiama ‘incontri’) 35. In questa notazione conclusiva voglio solo de-
scrivere come l’anfibolia affiori nel ‘momento’ delle Tesi (e dell’Ideologia
tedesca, in breve nel 1845).
Io credo che le aporie nel testo di Marx siano interessanti non solo come
oggetto per i ‘marxologi’ ma perché formano un episodio tutto nuovo della
antica controversia sulla possibilità (o impossibilità) delle ‘relazioni inter-
ne’, che in un certo senso (da Platone a Russell…) raddoppia la controversia
tra nominalisti e realisti a proposito degli ‘universali’. Hegel, a dire il vero,
è un esempio privilegiato di un filosofo che non solo difende l’idea che le
‘relazioni interne’ (cioè le relazioni che non stanno solo legando in un modo
contingente, o dall’esterno, ‘termini’ come individui o sostanze che riman-
33 Prendo la categoria di «anfibolia» nel senso stretto in cui è usata da Kant in quella
che è forse la più notevole elaborazione della Critica della ragion pura, l’«Anfi-
bolia dei concetti della riflessione», ma presuppongo che si possa applicare non
solo ai casi elencati da Kant (unità contro diversità, adeguazione contro inadegua-
zione, materia contro forma), ma anche ad altri, che contano in special modo in
domini pratici: attività contro passività, soggettivo contro oggettivo ecc.
34 G. Lukács, Storia e coscienza di classe (1923).
35 Condenso indicazioni dal ‘primo’ e dal ‘secondo’ Althusser, che certamente non
sono completamente incompatibili: cfr. E. de Ipola, Althusser, el infinito adiós, Si-
glo XXI, Buenos Aires 2007, e W. Montag, Philosophy’s Perpetual War. Althusser
and His Contemporaries, Duke University Press, Durham and London 2012.
172 Il transindividuale
39 K. Marx, Il Capitale, libro III, capitol 47, sulla «Genesi della rendita fondiaria
capitalistica».
E. Balibar - Dall’antropologia filosofica all’ontologia sociale e ritorno 175
obiezione di Marx contro Feuerbach nelle Tesi e che quella sua concezione
di materialità/sensibilità (Sinnlichkeit) resta ‘astratta’ o ‘inattiva’ (cosa che
curiosamente significa allo stesso tempo che manca allo stesso tempo una
dimensione ‘soggettiva’ e ‘oggettiva’: cfr. Tesi 1). Di conseguenza Feuer-
bach starebbe sussumendo singoli esseri umani sotto un’essenza umana
che è solo un’idea, per quanto fosse proclamata ‘concreta’ o ‘empirica’.
Al contrario, il materialismo proprio a Marx identifica le relazioni sociali
con l’attività (Tätigkeit), ma questa attività diventerebbe omnicomprensiva
quando (nel passo successivo) fosse definita come un continuo processo
collettivo che è sia poivhsi" che pra`xi$, che varia dalle attività produttive
elementari alle insurrezioni rivoluzionarie e fa del lavoratore collettivo qua
lavoratore/produttore un potenziale rivoluzionario (e per converso, il sog-
getto rivoluzionario un conscio, organizzato e indomito lavoratore) Questa
è la base della grande narrazione comunista. Ma è una lettura corretta di
Feuerbach? Nient’affatto e per una buona ragione: non si potrebbe dire sen-
za qualificazione che il concetto di Feuerbach di essenza umana si riferisce
solo ad una «astratta nozione di genere» in cui la dimensione relazionale
è assente (e che per questa ragione immagina che il genere separatamen-
te ‘abiti’ ogni individuo, conferendogli una qualità ‘umana’ nella stessa
maniera). Il genere (Gattung) di Feuerbach è esso stesso profondamente
relazionale, perché è concepito nei termini di un ‘dialogo’ tra soggetti di-
stinti come ‘Io’ e ‘Tu’. Ciò che resta problematico naturalmente è se il tipo
di ‘relazionalità’ dialogica che, secondo Feuerbach, è inerente all’essenza
umana, possa essere chiamata ‘sociale’. Probabilmente è esistenziale più
che sociale. Ma, a sua volta, non vi è un rischio che la negazione di Marx
che ciò che Feuerbach chiama una ‘relazione’ (una Beziehung più che una
Verhältnis) abbia un carattere ‘sociale’ nasca dalla sua arbitraria decisione
di identificare certe relazioni e pratiche (connesse alla produzione ed al la-
voro) come relazioni sociali e pratiche socializzanti a spese di tutte le altre?
Più in specifico. La Tesi 4 è una buona guida qui: nell’Essenza del cristia-
nesimo Feuerbach ‘demistifica’ i misteri della teologia riducendo le nozioni
teologiche (per cominciare, il concetto di Dio) a nozioni antropologiche e a
«realtà umane». Ma più precisamente è alle prese con una interpretazione del
dogma cristiano della Trinità nei termini di una duplice trasposizione: una
trasposizione dell’istituzione ‘terrena’ della famiglia nell’immagine ideale
della ‘Sacra Famiglia’, seguita da una trasposizione della Sacra Famiglia
stessa (come una comunità immaginaria) in una più speculativa comunica-
zione delle ‘persone’ divine (hypostases) che si ipotizza siano Una in Tre
(cioè pienamente ‘riconciliate’) – il Padre, il Figlio (il Verbo incarnato) e lo
Spirito, al posto del Padre, del Figlio e della (vergine) Madre. Da qui non è
176 Il transindividuale
lunga la via per spiegare che il ‘segreto’ della teologia cristiana è una proie-
zione delle relazioni sessuali tra gli uomini (segnata dal desiderio, dall’amo-
re imperfetto, dal piacere dei sensi) in un ideale amore perfetto (che celebri
passaggi della Bibbia identificano schiettamente con ‘Dio’)40. Con questa
dottrina noi vediamo un’altra possibilità di interpretare un’affermazione qua-
le «L’essenza umana non è un’astrazione … nella sua realtà è l’insieme delle
relazioni (sociali)», che non sarebbe diretta contro Feuerbach, ma piuttosto
sosterrebbe la sua posizione: suggerirebbe che ciò che ‘abita’ gli individui e li
rende ‘umani’ è la relazione sessuale con le sue dimensioni affettive (amore)
e le sue realizzazioni istituzionali (famiglia). Perciò essi sono costituiti nelle
e dalle relazioni. Questo è anche un modo di enfatizzare un Verkehr (nel
senso di ‘commercio’) come struttura produttiva-riproduttiva dell’umano41.
Cosa potrebbe obiettare Marx a questa possibile difesa feuerbachiana?
Probabilmente ciò che è latente nella Tesi 4 e leggermente più sviluppato
nell’Ideologia tedesca, vale a dire che la visione di Feuerbach della ‘fami-
glia terrena’ non è essa stessa molto ‘reale’, perché rimuove le contraddi-
zioni attraverso la sua enfasi (romantica) sull’‘amore’, anche se cerca ciò
nondimeno di collocare la fonte dell’‘alienazione’ nell’imperfezione o nella
finitudine della sessualità umana. Nell’Ideologia tedesca Marx (ed Engels)
spiegherà che la differenza sessuale (come una differenza di ‘tipi’ umani)
risulta da «una divisione sessuale del lavoro» (sic) tra uomini e donne. E nel
Manifesto del partito comunista (1847), prendendo l’argomento a prestito
dal criticismo ‘femminista’ saintsimoniano, spiegheranno che il matrimonio
e la famiglia borghese è una forma di «prostituzione legalizzata» (in perfetto
accordo con l’affermazione della Tesi 4 che la «contraddizione» inerente
alla «base» terrena della religione può essere risolta solo attraverso l’«anni-
chilazione teoretica e pratica della famiglia»). Questo è un argomento po-
tente che vale a spiegare che le nozioni ‘metafisiche’ dell’essenza umana
VITTORIO MORFINO
L’ENJEU MARX FREUD
IL TRANSINDIVIDUALE TRA GOLDMANN
E ALTHUSSER
ta con Hegel e Marx, vede una sua seconda tappa fondamentale in Freud,
«prima elaborazione rigorosa di uno strutturalismo genetico nel campo della
psicologia individuale»3. Tuttavia Freud non ha condotto sino in fondo la sua
rivoluzione metodologica, poiché, spiegando ogni stato presente a partire da
uno stato passato, ha rinunciato ad introdurre «nella sua visione una dimen-
sione essenziale per ogni strutturalismo genetico: quella dell’avvenire»4.
Questo strutturalismo rifiuta il dualismo individuo-società:
[…] non c’è società al di fuori degli individui che la costituiscono, né in-
dividui estranei ad ogni forma di vita sociale, ma l’ipotesi fondamentale dello
strutturalismo genetico esige [implique] che ogni fenomeno appartenga ad un
numero più o meno grande di strutture di livelli differenti, o, per utilizzare un
termine che preferisco, di totalità relative, e che ha, all’interno di ognuna di
queste totalità, un significato particolare5.
sarebbe […] più esatto dire che la realtà sociale e storica in un momento dato si
presenta sempre come una mescolanza estremamente complessa [une mélange
extrêmement enchevêtré] non di strutture, ma di processi di strutturazione e
destrutturazione il cui studio non avrà un carattere scientifico che il giorno in
cui i principali tra questi processi saranno stati colti con sufficiente rigore7.
nato dalla necessità di conciliare l’affermazione secondo cui è l’uomo che co-
struisce il mondo e soprattutto le categorie che strutturano la percezione ed il
pensiero scientifico con il fatto che l’io empirico non ha con ogni evidenza co-
struito né il mondo che ha di fronte a lui né le categorie scientifiche e percettive
attraverso cui lo coglie. Si giunge così a questo mostro che si suppone crei le
strutture della conoscenza con l’aiuto delle quali il soggetto coglie un mondo
che gli è estraneo e opposto. Se sostituiamo il soggetto empirico con i soggetti
collettivi, questa costruzione diventa inutile: sono in effetti i gruppi umani em-
pirici che hanno realmente costruito le case, tracciato le strade, sviluppato le
La vera opposizione non è, come pensava Freud, tra le pulsioni dell’Es, sog-
getto individuale a predominanza inconscia e biologica, e le pulsioni dell’Io,
soggetto individuale anch’esso ma a predominanza cosciente e socializzata.
Essa è situata invece tra le pulsioni dell’Es e quelle che strutturano la coscienza
di un essere che, pur restando biologicamente un individuo, rappresenta solo,
in quanto essere cosciente e socializzato, un elemento parziale di un soggetto
che lo trascende13.
10 Ivi, p. 334.
11 L. Goldmann, «Critique et dogmatisme dans la création littéraire», ivi, p. 39.
12 L. Goldmann, «Pouvoir et humanisme», ivi, p. 328.
13 L. Goldmann, «Le sujet de la création culturelle», ivi, p. 103.
V. Morfino - L’enjeu Marx Freud 183
Se […] io sollevo un tavolo molto pesante con il mio amico Jean, non sono
io che sollevo il tavolo e non è nemmeno Jean. Il soggetto di questa azione,
nel senso più rigoroso della parola, è costituito da Jean e da me (e, ben inte-
so, per altre azioni dovremmo aggiungere altri individui in numero molto più
ampio), ed è per questo che le relazioni tra Jean e me non sono delle relazioni
di soggetto-oggetto, come nel campo della libido, né delle relazioni intersog-
gettive, come pensano i filosofi individualisti che prendono gli individui per
dei soggetti assoluti, ma ciò che io proporrei di designare attraverso un neolo-
gismo, delle relazioni intrasoggettive […]. Ma, perché si possa sollevare il ta-
volo insieme, è necessario che lo si possa designare e designare tutta una serie
d’altre cose; è necessario dunque che vi sia un pensiero teorico. E anche tutto
ciò che sarà detto sul piano della teoria sarà, nella misura in cui resta legato al
comportamento che prende come oggetto il mondo ambiente naturale o altri
gruppi umani, un campo in cui il soggetto sarà transindividuale, e in cui ogni
comunicazione tra Jean e me riguardo al tavolo che stiamo sollevando resta una
comunicazione all’interno del soggetto, una comunicazione, abbiamo appena
detto, intra-soggettiva21.
[…] mentre Marx critica Feuerbach da un punto di vista dialettico come trop-
po materialista e troppo meccanicista, Althusser, che rappresenta egli stesso una
delle forme più estreme di meccanicismo che abbia mai preso un pensiero che
si richiamava a Marx, rimprovera al contrario a Feuerbach d’aver conservato le
idee di soggetto e di significato [signification] e di essere in questo modo, mal-
grado ciò che Marx chiamava il suo meccanicismo, ancora troppo vicino non
solamente a Hegel e all’idealismo, ma anche a ciò che Marx o Lukács avrebbero
chiamato la dialettica. In breve, per Marx Feuerbach coll’aver demistificato le il-
lusioni del cristianesimo, ha tentato di ridurre il pensiero religioso alle aspirazioni
e ai significati profani dell’uomo nella sua vita quotidiana ma, facendo questo,
ha completamente eliminato dalla sua concezione dell’uomo reale le dimensioni
più importanti della sua esistenza empirica: la praxis e il carattere collettivo del
pensiero e dell’azione. Per Feuerbach il pensiero teologico non è che una for-
ma mistificata del pensiero profano e più precisamente della sensibilità, questa
essendo tuttavia il prodotto dell’azione delle circostanze esteriori su un essere
passivo che ha lo statuto non di un attore ma di uno spettatore. È ciò che Marx
chiama materialismo vecchio e contemplativo, e che noi chiamiamo il materiali-
smo meccanicistico e non dialettico. Al contrario per Althusser, Feuerbach non è
andato sufficientemente lontano nella direzione di questo materialismo poiché ha
conservato al suo individuo reale l’idea di una coscienza o di una sensibilità rela-
tivamente passive, ma pregne di significato [signifiantes]. Non si tratta secondo
lui di ridurre un soggetto e un senso alienati ed erronei a un soggetto ed un senso
veri, ma di abbandonare il soggetto e il senso che sono, come tali, dei concetti
ideologici, a vantaggio del loro modo di produzione29.
les notions de sujet collectif et de lien étroit entre toute praxis (théorique, pratique
ou politique) et la conscience collective» (ivi, p. 168).
30 Ivi, p. 171.
31 Ivi, pp. 173-174.
32 Ivi, p. 176.
33 Ivi, p. 179.
190 Il transindividuale
semplicemente che anche sul piano teorico non vi sono né per Marx, né nella
realtà, rapporti di produzione che non siano rapporti tra gli uomini, ideologia
che non sia una forma di pensiero degli uomini, forze produttive che non siano
o delle qualità degli uomini (come per esempio la qualificazione professionale
della classe operaia) o dei prodotti dell’attività degli uomini come il capitale
costante (macchine, materie prime ecc.) che esistono d’altra parte in quanto
forze produttive solo nella misura in cui sono maneggiate e utilizzate dagli uo-
mini. […] Certo, si può sul piano della scienza contestare questa affermazione
e pensare come Althusser che l’uomo non abbia alcuno spazio nello studio del-
le strutture economiche, sociali, politiche o ideologiche […]. Ciò che ci sembra
contestabile è di richiamarsi a Marx, che con ogni evidenza ha sempre pensato
e affermato il contrario36.
Chi dice genesi dice: ricostituzione del processo attraverso il quale un fe-
nomeno A è stato effettivamente generato. Questa ricostituzione è essa stessa
un processo di conoscenza: non ha senso (di conoscenza) che se riproduce
(ricostituisce) il processo reale che ha generato il fenomeno A. Si vede imme-
diatamente che chi dice genesi dice dall’inizio che il processo di conoscenza
è identico in tutte le sue parti, e nel loro ordine e nella loro successione, al
processo di generazione reale. Ciò vuol dire, per parlare un linguaggio meno
astratto, che chi fa la genesi di un fenomeno A può seguire à la trace, in tutte
le sue fasi, fin dalla sua origine, il processo di generazione reale, senza alcu-
na interruzione, cioè senza alcuna discontinuità, lacuna o rottura […]. Questo
recupero immediato e integrale, senza alcuna interruzione, del processo reale
attraverso il processo di conoscenza, implica l’idea, che sembra ovvia, che il
soggetto del processo reale è un solo e stesso soggetto, identificabile dall’origi-
ne del processo fino alla fine44.
Ogni pensiero genetico è ossessionato dalla ricerca della ‘nascita’, con tutto
ciò che comporta in termini di ambiguità questa parola, che presuppone, tra
altre tentazioni ideologiche, l’idea (il più delle volte implicita e misconosciuta)
che ciò che deve essere osservato nella sua nascita ha già il suo nome, possiede
già la sua identità, è già identificabile, dunque in una certa misura esiste già
prima della sua nascita per poter nascere!46
46 Ivi, p. 86.
47 Ivi, p. 88.
48 Ibidem.
49 Ivi, p. 89.
196 Il transindividuale
che) è esso stesso, in quanto tale, un prodotto, un effetto. Ciò che è importante
nella dimostrazione di Marx è che questi tre elementi non sono i prodotti con-
temporanei di una sola ed unica situazione: non è, detto altrimenti, il modo di
produzione feudale che da sé solo e per una finalità provvidenziale, genera allo
stesso tempo i tre elementi necessari perché ‘faccia presa’ la nuova struttura.
Ognuno di questi elementi ha la sua propria ‘storia’ o la sua propria genealogia
(per riprendere un concetto felicemente usato da Balibar a questo proposito): le
tre genealogie sono relativamente indipendenti. Si vede anche Marx mostrare
che uno stesso elemento (le forze lavoro ‘libere’) può essere prodotto come ri-
sultato da genealogie del tutto differenti. Dunque le genealogie dei tre elementi
sono indipendenti le une dalle altre, e indipendenti (nella loro co-esistenza,
nella co-esistenza del loro rispettivo risultato) dalla struttura esistente (il modo
di produzione feudale). Cosa che esclude ogni rinascita [résurgence] del mito
della genesi: il modo di produzione feudale non è il ‘padre’ del modo di produ-
zione capitalistico nel senso in cui il secondo sarebbe stato contenuto ‘in ger-
me’ nel primo. 3) Ciò detto restano da concepire i tipi di causalità che possono,
a proposito di questi elementi (e a proposito della genealogia di ogni elemento)
intervenire per rendere conto della produzione di questi elementi come ele-
menti che entrano nella congiunzione che farà ‘presa’ in una struttura nuova.
Si deve qui, mi sembra, distinguere due tipi distinti di causalità: a) la causalità
strutturale: un elemento può essere prodotto come effetto strutturale. La causa-
lità strutturale è la causalità ultima di ogni effetto [la causalité dernière de tout
effet]. […] b) questa legge sembra essere generale. Ma la causalità strutturale
definisce in quanto strutturale, dunque come effetto strutturale, delle zone o
delle sequenze rigorosamente definite e limitate, in cui la causalità strutturale
si compie nella forma della causalità lineare. […]50.
7. Il tempo, i tempi
è un tutto la cui unità, lungi dall’essere l’unità espressiva o ‘spirituale’ del tutto
di Leibniz e Hegel, è costituita da un certo tipo di complessità, l’unità di un
tutto strutturato, che comporta dei livelli o istanze distinti e ‘relativamente au-
tonomi’, che coesistono in questa unità strutturale complessa articolandosi gli
52 L. Althusser, «L’objet du Capital», in Lire le Capital, PUF, Paris 19963, p. 280, tr.
it. a cura di R. Rinaldi e V. Oskian, Feltrinelli, Milano 19762, p. 104.
198 Il transindividuale
uni con gli altri a seconda dei modi di determinazione specifici, fissati in ultima
istanza dal livello o istanza dell’economia53.
Il tutto per Marx è ‘un tutto organico gerarchizzato’, tutto che decide
appunto della gerarchia, del grado e dell’indice di efficacia tra i diversi
livelli della società, la cui temporalità non può essere pensata attraverso la
categoria hegeliana di contemporaneità:
8. Il soggetto, i soggetti
59 Nella seconda nota Althusser insiste sul fatto che la libido è un effetto del dicorso
dell’inconscio, precisando che «l’effet libido n’est pas plus extérieur au discours/
inconscient que la libido (comme cause) ne lui est extérieure et antérieure», in
altre parole «l’effet n’est rien d’autre que le discours même» (L. Althusser, «Trois
notes sur la théorie des discours», in Id., Ecrits sur la psychanalyse, éd. par O.
Corpet e F. Matheron, Imec/Stock, Paris 1993, p. 158).
60 Ivi, p. 131.
61 Ivi, pp. 132-133.
V. Morfino - L’enjeu Marx Freud 201
Che cosa significa questa espressione? Designa il fatto della ripetizione degli
effetti dell’inconscio in ‘situazioni’ in cui l’inconscio produce i suoi effetti, cioè
esiste in formazioni tipiche (sintomi ecc.). Queste formazioni sono osservabili e
definibili. La caratteristica propria di queste ‘situazioni’ è quella di fare corpo con
le formazioni dell’inconscio che sono realizzate in esse. Detto altrimenti consta-
tiamo che l’inconscio esiste nel ‘vissuto’ oggettivo-soggettivo (utilizzo provvi-
soriamente questi termini), e vi realizza alcune di queste formazioni. […] Ora,
cos’è una ‘situazione’? È un formazione dell’ideologico, formazione singolare,
in cui il ‘vissuto’ è informato dalla struttura (e le modalità specifiche) dell’ideolo-
gico, è questa struttura stessa nella forma dell’interpellazione ricevuta65.
L’Io che dice ‘io’ è evidentemente molto vicino al ‘soggetto’ del discorso
ideologico: il ‘Super Io’ è molto vicino al Soggetto che interpella sotto forma
di soggetto ogni soggetto ideologico. […] il grande Altro che parla nel discorso
dell’inconscio, sarebbe allora non il soggetto del discorso dell’ideologico, Dio,
il Soggetto ecc., ma il discorso dell’ideologico stesso instaurato come soggetto
del discorso dell’inconscio, cioè come effetto di questo discorso, presente nel
significante di questo discorso come assente per rappresentazione in un signifi-
cante (presente-assente per ‘luogo-tenenza’)68.
Credo che non si possa porre questo problema sotto forma di un problema,
ma solamente disporre gli elementi in presenza che ‘presiedono’ alla congiun-
zione che ‘fa presa’ sotto forma di inconscio ; si deve però utilizzare il ter-
mine ‘presiedono’ nel senso della funzione di presidenza, che si esercita per
definizione sempre a distanza. […] Ora, questi elementi in presenza esistono
67 Ivi, p. 144.
68 Ivi, pp. 144-145.
69 Ivi, p. 146.
70 Ibidem.
204 Il transindividuale
71 Ivi, p. 147.
72 L. Goldmann, «L’esthétique du jeune Lukács», in Id., Marxisme et sciences hu-
maines, cit., p. 233.
V. Morfino - L’enjeu Marx Freud 205
Ciò che in esse appare irrilevante [untergeordnet], p. es. organi senza fun-
zioni, diventa chiaro solo mediante le organizzazioni superiori, in cui si ricono-
sce il posto che ciò occupa74.
JASON READ
LA PRODUZIONE DELLA SOGGETTIVITÀ.
DAL TRANSINDIVIDUALE AL COMUNE
3 Entrambi questi punti sono maggiormente sviluppati nel mio The Micro-Politics
of Capital: Marx and the Prehistory of the Present, SUNY, Albany 2003.
4 K. Marx, Il Capitale, tr. it. di D. Cantimori, vol. I, Editori Riuniti, Roma 1980, p.
800.
J. Read - La produzione della soggettività. Dal transindividuale al comune 209
L’uomo è nel senso più letterale del termine uno ζῶν πολιτικόν, non solo
un animale sociale, bensì un animale che può isolarsi solo nella società6.
sen). Tuttavia, per ragioni più storiche che filosofiche, Marx considerava
questa essenza generica essenzialmente come costituita dal lavoro, e dal
lavoro inteso specificamente come la produzione di cose per mezzo del
corpo e delle mani. Il lavoro è inevitabilmente collettivo, in parte perché
ingloba le basi biologiche della soggettività; esso è correlato alla nostra
condizione comune di necessità biologica. Il lavoro non è solo una costan-
te antropologica che definisce la relazione metabolica dell’uomo con la
natura: esso comporta abilità, strumenti e conoscenze, tutti prodotti dalla
storia e dalle relazioni sociali. Il lavoro è l’inevitabile relazione dell’uma-
nità con la natura, e la costituzione di una seconda natura inorganica. Il la-
voro è costituito da, e costituisce, habitus, pratiche e schemi operativi che
attraversano gli individui, creando una relazione sociale ed un patrimonio
condiviso di conoscenze. Il lavoro non è solo una condizione passivamente
condivisa, quella del bisogno, ma ci pone attivamente in una relazione di
reciprocità: lavorare è sempre lavorare in relazione ad altri. Le afferma-
zioni più chiare di Marx a proposito dello sfruttamento capitalistico delle
condizioni collettive della soggettività si trovano nel capitolo del Capitale
dedicato alla cooperazione. Come Marx osserva, quando un gran numero
di persone sono riunite in un luogo come un’officina, la somma totale della
loro attività produttiva eccede quella dei lavori singoli dello stesso numero
di individui, ma isolati. Marx scrive: «Nella cooperazione pianificata con
altri l’operaio si spoglia dei suoi limiti individuali e sviluppa le facoltà del-
la sua specie»7. Lo sfruttamento non riguarda l’individuo, l’alienazione di
ciò che è unico e proprio all’individuo, ma piuttosto ciò che è im-proprio
all’individuo, e che esiste solo in relazione.
Malgrado il fatto che Marx collochi questo sfruttamento delle condizio-
ni collettive della soggettività al centro stesso del Capitale, non analizza
teoreticamente queste condizioni. Marx è da molti punti di vista alquanto
nominalista rispetto alle cause di questo surplus sociale, che è la ragione
per cui un gruppo che lavora insieme è necessariamente più della somma
delle proprie parti. Marx scrive:
8 Ibidem.
9 K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, tr. it. di G. Della Volpe, in
Marx Engels Opere, vol. 3, Editori Riuniti, Roma 1976, pp. 328-329.
10 F. Fischbach, La production des hommes: Marx avec Spinoza, PUF, Paris 2005, p.
56.
11 K. Marx, Il Capitale, cit., p. 284.
J. Read - La produzione della soggettività. Dal transindividuale al comune 213
che Marx designa tramite concetti presi a prestito quali ‘essenza generica’ e
‘corpo inorganico’. Il termine è tratto dall’opera di Gilbert Simondon, che
interroga il privilegio attribuito dal pensiero Occidentale al principio di in-
dividuazione12. Per Simondon l’individuazione deve essere colta come un
processo di cui l’individuo non è né il fine ultimo né l’inizio assoluto, ma
l’effetto continuo di un’attività. Vi sono multiple e successive individuazio-
ni, fisiche, biologiche, psichiche e collettive, ciascuna delle quali risolve il
problema posto dalle altre, e trasforma i termini fondamentali della relazio-
ne. Alla base delle idee di Simondon vi è un fatto fondamentale dell’esisten-
za, che Marx indica (e Virno sottolinea): ciò che forma il nucleo stesso e la
stessa base della nostra individualità, la nostra soggettività, le sensazioni,
il linguaggio e gli habitus, non può esserci esclusivo in quanto individui13.
Questi elementi possono essere descritti solo come pre-individuali, come
precondizioni della soggettività. In un certo senso essi neppure esistono,
almeno in qualità di cose individualizzate; essi rappresentano piuttosto una
condizione metastabile, un flusso di possibilità. Virno, seguendo le orme di
Simondon, delinea tre livelli differenti di singolarità preindividuale: le sen-
sazioni e le pulsioni che costituiscono la base biologica della soggettività; il
linguaggio che ne costituisce le relazioni psichiche e collettive; e le relazioni
produttive, che costituiscono l’articolazione storica del pre-individuale14.
L’esempio più chiaro della posta in gioco della scelta di connotare que-
ste diverse relazioni e attività come pre-individuali può essere osservato
riferendosi all’esempio specifico del linguaggio. Il linguaggio è transindi-
viduale; non esiste, è abbastanza noto, qualcosa come un linguaggio priva-
to. Ma esso è anche fondamentalmente pre-individuale: il linguaggio non è
composto di cose individuali, come le parole, ma di relazioni differenziali.
Virno segue Saussure nel definire il linguaggio come un sistema di rela-
zioni, ma accentua il fatto che ciò dovrebbe essere visto come l’insostan-
zialità fondamentale del linguaggio, la sua metastabilità, piuttosto che la
sua struttura15. Il linguaggio non è l’enunciato o il sistema, ma il sistema
metastabile di relazioni tra i due: ogni enunciazione presuppone un sistema
di differenze come condizione della sua articolazione, ma ogni sistema è
dato, un dato insieme di habitus o una cultura, è esso stesso l’effetto sto-
rico e contingente di varie trasformazioni, ma questa storia non cambia
il fatto che linguaggio, habitus e relazioni di produzione sono costitutive
dell’umanità come tale20. La produzione della soggettività, e i suoi corollari
concettuali quali transindividuale e preindividuale, implicano non solo di
ripensare l’antinomia di individuale e collettivo, ma di elaborare una nuova
ontologia e una nuova logica del pensiero su questa materia. Il soggetto è
un ‘individuo sociale’, non solo nel senso per cui esso vive entro la società,
ma nel senso che l’individualità può essere articolata, può essere prodotta,
solo all’interno della società21.
Solo nel XVIII secolo, nella ‘società civile’ le differenti forme dei nessi so-
ciali si presentano al singolo come un puro mezzo per i suoi fini privati, come
una necessità esteriore. Ma l’epoca che crea questo modo di vedere, il modo
di vedere del singolo isolato, è proprio quella dei rapporti sociali (generali per
questo modo di vedere) finora più sviluppati25.
29 A. Negri, Kairos, Alma Venus, Multitudo, Manifestolibri, Roma 2000, pp. 110-111.
J. Read - La produzione della soggettività. Dal transindividuale al comune 219
politica e del pensiero politico liberale, essa finisce però nella strada senza
uscita dell’opposizione individuo/società. Cioè a dire che essa ingenera
l’impressione che si possa semplicemente scegliere l’‘individuo’ o la ‘col-
lettività’ come un valore etico dell’individualismo o della solidarietà. Tut-
tavia, le cose non sono così semplici. Non è sufficiente opporre il collettivo
all’individuo, come le buone alle cattive forme della soggettivazione. In
primo luogo perché, come già osservato, ontologicamente, l’individuo, il
soggetto, non è altro che una modificazione delle condizioni preindividuali
e delle relazioni transindividuali. Come Marx afferma nei Grundrisse, è
necessario pensare l’individuo ‘isolato’ come sociale, come il prodotto e la
condizione di una società determinata: non vi è opposizione tra l’individuo
e il collettivo, solo differenti articolazioni della transindividualità, diffe-
renti produzioni della soggettività. Vi è una seconda e più complessa obie-
zione a questa opposizione: identificare il transindividuale al collettivo, ad
un qualche ideale di solidarietà, significa assumerlo come suscettibile di
rappresentazione. La precoce critica marxiana dello Stato nell’Ideologia
tedesca articolava uno iato tra le condizioni produttive della soggettività
e la rappresentazione di queste condizioni. Lo Stato è una «comunità ap-
parente» basata sui legami reali della carne e del sangue, del linguaggio e
della divisione del lavoro30. Questa fenditura che separa le condizioni pro-
duttive di soggettività e la rappresentazione di queste condizioni è fondata
sulla connessione tra transindividuale e soggettività. Le relazioni che costi-
tuiscono il transindividuale non sono che condizioni preindividuali meta-
stabili, un flusso simultaneamente prodotto e produttore (come ad esempio
quando diciamo che ‘un linguaggio’, nel momento in cui esso è la condi-
zione di ogni articolazione e di ogni stile, è al tempo stesso trasformato dai
vari gerghi e dialetti). Per questa via Simondon opera una distinzione tra
società e comunità: una società è metastabile, attraversata da individuazio-
ni, laddove una comunità è chiusa, statica31.
Una comunità fa delle proprie specifiche condizioni di appartenenza, dei
suoi specifici valori o norme, le condizioni dell’appartenenza come tale. La
rappresentazione del transindividuale, in quanto fa di specifici attributi o
qualità – un linguaggio, delle pratiche culturali o dei valori – i rappresen-
tanti della collettività in quanto tale, finisce per chiudere quest’ultima, ne
fa una comunità e non una società.
30 K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, tr. it. di F. Codino, Editori Riuniti, Roma
1975, p. 60.
31 G. Simondon, L’individuation psychique et collective, cit., pp. 104-111, tr. it. cit.,
pp. 91-96.
220 Il transindividuale
pieno determinato come socius. Può essere il corpo della terra, o il corpo dispo-
tico, oppure il capitale. Di questo Marx dice: non è il prodotto del lavoro, ma
appare come il suo presupposto naturale o divino. Non si accontenta infatti di
opporsi alle forze produttive in se stesse, ma ripiega su [il se rabat sur] tutta la
produzione, costituisce una superficie ove si distribuiscono le forze e gli agenti
di produzione, cosicché si appropria il plusprodotto e si attribuisce l’insieme
e le parti del processo che sembrano emanare da lui come una quasi causa39.
39 G. Deleuze, F. Guattari, Anti-Edipo, tr. it. di A. Fontana, Einaudi, Torino 1972, pp.
11-12.
40 G. Deleuze, Differenza e ripetizione, Cortina, Milano 1997, p. 269.
224 Il transindividuale
distinzione tra codici e assiomi. I codici instaurano una relazione tra azioni
e desideri, azioni e percezioni, ‘relazioni tra flussi’, nei termini deleuzo-
guattariani. In riferimento all’ontologia sociale che stiamo qui sviluppan-
do, potremmo dire che i codici sono un’articolazione particolare delle con-
dizioni preindividuali della soggettività, un’organizzazione particolare del
transindividuale che delimita una comunità. Il punto essenziale è che que-
sti codici, innestandosi su un corpo particolare, assegnano un significato
specifico a queste pratiche particolari, situandole entro una religione, una
nazione, una cultura, un modo di vita. Possiamo considerare i codici come
una tradizione o come delle prescrizioni e regole che riguardano la produ-
zione e la distribuzione di beni, prestigio e desiderio. In quanto tali, essi
sono inseparabili da una relazione specifica al passato – una relazione di
ripetizione. In ciò, essi sono distinti dagli assiomi. Gli assiomi non hanno
‘senso’, stabiliscono soltanto relazioni tra flussi differenziali, tra quantità
puramente astratte, tra cui le più importanti sono i flussi di denaro e di
potenziale soggettivo astratto, altrimenti noto come forza-lavoro. Scrivono
Deleuze e Guattari: «il tuo capitale o la tua forza lavoro, il resto non ha im-
portanza […]»43. Gli assiomi non ripetono né venerano il passato, ma sono
essenzialmente flessibili; è sempre possibile aggiungere nuovi assiomi al
sistema, per aprire nuovi mercati. La posta in gioco della distinzione trac-
ciata da Deleuze e Guattari tra codici e assiomi è la duplicità dei modi pos-
sibili per comprendere la costituzione delle relazioni sociali. I codici costi-
tuiscono una totalità di senso, una comunità, laddove gli assiomi sono più
funzionali che sensati, e costituiscono una società governata da astrazioni.
In un caso e nell’altro, codici o assiomi, i poteri produttivi dell’umanità,
il transindividuale, sono feticizzati, trasformati negli attributi di un ogget-
to. Tuttavia, vi è una differenza fondamentale: l’oggetto pre-capitalista, il
corpo pieno soggetto al dominio di un codice, è più restrittivo, poiché lega
il transindividuale ad una condizione particolare di appartenenza – una tra-
dizione, una tribù, una nazione; mentre il corpo pieno del capitale è fon-
damentalmente aperto: il potere produttivo delle relazioni sociali appare,
ma appare come l’attributo di un oggetto paradossalmente astratto, denaro
o capitale.
Il modo di Deleuze e Guattari d’intendere codici e assiomi (e dell’onto-
logia sociale relazionale che essi implicano) ci riconduce nelle vicinanze
della tesi dialettica fondamentale di Marx rispetto al capitalismo: cioè, alla
tesi per cui le potenze produttive fondamentali dell’umanità, della transin-
dividualità, si avvicinano all’apparire in quanto tali. Il capitale dissolve
44 K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista, tr. it. di E. Cantimori Mez-
zomonti, Einaudi, Torino 1970, p. 104.
45 A. Badiou, Manifesto per la filosofica, tr. it. di F. Elefante, Feltrinelli, Milano
1991, p. 43.
46 G. Deleuze, F. Guattari, Anti-Edipo, cit., p. 37.
J. Read - La produzione della soggettività. Dal transindividuale al comune 227
e gli ideali che occupano lo spazio comune del mercato. Come dice Peter
Sloterdijk illustrando la materializzazione di questa indifferenza:
47 P. Sloterdijk, Critica della ragion cinica, tr. it. di A. Ermano e M. Perniola, Gar-
zanti, Milano 1992.
48 G. Deleuze, F. Guattari, Anti-Edipo, cit., p. 301.
49 P. Virno, Grammatica della moltitudine, cit., p. 32.
228 Il transindividuale
ANDREA CAVAZZINI
CELLULE, ORGANISMI, COMUNITÀ.
IL TRANSINDIVIDUALE NELLE SCIENZE
DELLA VITA CONTEMPORANEE
1 Questo articolo fa parte di una ricerca d’insieme sulla struttura concettuale delle
attuali scienze della vita che ho condotto in diversi luoghi, in particolare nel nu-
mero dedicato a Darwin sul numero 6 di Quaderni materialisti, nell’intervento al
colloquio veneziano del 28-29-30 ottobre dedicato all’epistemologia storica e alle
scienze attuali e organizzato con Maria Turchetto (cfr. i relativi Atti nei Quaderni
di Althusseriana presso Mimesis), e nel fascicolo Logiche del vivente della rivista
Discipline filosofiche, co-diretto con Alberto Gualandi, Quodlibet, Macerata 2009.
232 Il transindividuale
2 Cfr. A. Connes/J.-P. Changeux, Matière à pensée, Odile Jacob, Paris 2000: «Esiste
indipendentemente dall’uomo una realtà matematica grezza» (p. 48); e ancora:
«La realtà matematica, in virtù della propria struttura, della propria armonia inter-
na, è una riserva inesauribile di organizzazione» (p. 168).
A. Cavazzini - Cellule, organismi, comunità 233
Poiché non vi sono nuove specie; poiché il simile produce sempre il simile;
poiché in ogni specie un’unità presiede all’ordine, dobbiamo necessariamente
attribuire questa unità […] a un Essere Onnipotente e Onnisciente5.
Esiste una relazione specifica tra ciascun animale e il suo nutrimento, che
esclude le interferenze […] generatrici di disordine […] Dio ha creato un tutto,
sono in genere riscontrate nelle specie che presentano […] delle variazioni
morfologiche clinali che seguono i gradienti geografici dei parametri ambienta-
li. Queste variazioni sono reversibili e non costituiscono un fenomeno evoluti-
vo, ma soltanto un adattamento fine ad un ambiente fluttuante. L’altra reazione
delle specie ai cambiamenti continui dell’ambiente è l’evoluzione graduale la
cui irreversibilità ne fa un fenomeno evolutivo11.
noi siamo delle società cellulari nessuna delle cui componenti […] può soprav-
vivere sola. Il destino di ciascuna delle nostre cellule dipende in permanenza
dalla qualità dei legami provvisori che essa è in grado di tessere con il proprio
ambiente […] la presenza della collettività è necessaria alla sopravvivenza di
ciascuna cellula24.
Si vede bene qui all’opera l’analogia con una tesi ‘sociologica’ per cui
ciascun individuo necessita per mantenersi in esistenza della cooperazione
del tutto cui lo legano i processi comunicazionali. Sono questi processi a
far sorgere e perire le differenti entità cellulari di cui l’organismo consta:
Dai primi giorni che seguono il nostro concepimento […] il suicidio cellula-
re gioca un ruolo essenziale nel nostro corpo in corso di costruzione, scolpendo
le metamorfosi successive della nostra forma in divenire, nei dialoghi che si
stabiliscono tra le differenti famiglie di cellule in corso di nascita, il linguaggio
determina la vita e la morte25.
23 Ivi, p. 51.
24 J.-Cl. Ameisen, La sculpture du vivant, Seuil, Paris 2003, pp. 15-16.
25 Ivi, p. 16
240 Il transindividuale
Sembra in effetti che ogni cellula esibisca sulla propria superficie un segna-
le. Questo segnale di vita avrebbe l’effetto di permettere ad ogni cellula vivente
di impedire, in ogni istante, che una cellula-becchino non le si leghi, alla ricer-
ca di segnali di morte. E sembra che ogni cellula che abbia imboccato la via
dell’autodistruzione cominci, prima ancora di esibire la segnatura dei morti, a
smettere di esibire la segnatura dei viventi […] Per una cellula, cadere verso
la morte, significa forse semplicemente smettere […] di affermare la propria
appartenenza alla comunità dei viventi28.
ne […] è sufficiente che le cellule scambino non dei segnali ma delle risorse
perché esse si organizzino senza rinunciare al loro interesse individuale
[…] le cellule si trovano a competere per un segnale di proliferazione»29.
La sostituzione di un modello mutuato da un’ecologia ultradarwiniana a
quello semiologico ci fa cadere in un nuovo antropomorfismo, che ha in
comune col primo la tendenza a pensare le cellule come preesistenti ai
loro rapporti, presupponendo così ciò che si tratta di spiegare: se infatti la
nozione di segnale rimanda ad un codice convenzionale stabilito tra par-
lanti preesistenti alla loro interazione comunicativa, secondo un modello
classico di comunicazione intersoggettiva (e non transindividuale), la no-
zione di risorsa, e ancor più quella di competizione, rinviano ad un modello
smithiano in cui di nuovo gli elementi entrano in contatto solo successi-
vamente alla loro costituzione. Dunque, il darwinismo esteso di Kupiec
e Sonigo è ancora troppo ‘individualista’ per pensare l’individuazione sul
piano cellulare, che pure per i due autori fa (correttamente) problema. Per
loro, si tratta di negare ogni gerarchia o differenza presupposta a qualunque
livello dell’organismo, e ricavare invece la fissazione di strutture specifiche
da un processo di differenziazione e di interazione:
32 Ivi, p. 176.
33 Ivi, p. 180.
34 Ivi, p. 219. La funzione dello spessore temporale è qui cruciale; tra i meccani-
smi dell’individuazione del significato, Buhler dà un posto di rilievo all’anafora
(«rinvio all’indietro […] a quanto già detto nel corso dell’eloquio») e alla catafora
(«rinvio in avanti, a quel che si deve ancora dire o che ci si attende dal discorso»,
p. 220).
35 Per questo problema, si vedano i testi raccolti nel ricco sito «Biosemiotics», http://
www.ento.vt.edu/~sharov/biosem/.
36 Sul rapporto struttura-funzione, A. Cavazzini, «La storia, le tracce, la vita», cit.,
e Id., «Il concetto e la vita tra filosofia e scienze», in A. Cavazzini-A. Gualandi,
Logiche del vivente, cit.
A. Cavazzini - Cellule, organismi, comunità 243
Più in particolare,
misura in cui gli scambi fisici e chimici sono subordinati ad una causalità
formale che organizza il loro svolgimento. Sembra ovvio far risalire questa
causalità formale ai geni, cui è stato attribuito il potere di trasmettere la
forma specifica da un individuo ai suoi discendenti, e dunque in un certo
senso di operare la morfogenesi. Vediamo dunque il rapporto tra questo
potere e il tema dell’individuazione.
I geni. I geni costituiscono un banco di prova per tale tematica, cui sem-
brano di primo acchito essere irrimediabilmente riottosi. Il concetto di gene
resta lungi dall’ideale della chiarezza e della distinzione: prodotto di una
stratificazione storica largamente aleatoria, si compone di elementi dalla
provenienza disparata. Nei lavori di Mendel, i geni «sono dei rappresen-
tanti convenzionali dei caratteri che permettono di operare dei calcoli sul-
le somiglianze ereditarie»40. L’entità mendeliana è quindi eminentemente
astratta, non presuppone alcun dispositivo causale e nemmeno in fondo una
struttura materiale. Ma questa entità, per svolgere il suo ruolo nel calcolo
delle somiglianze, deve possedere un carattere discreto e ‘atomistico’: se i
geni non sono unità discrete, individuate e univoche alla stessa stregua dei
caratteri dei piselli su cui Mendel ha condotto gli esperimenti, il calcolo non
funziona. Questa entità astratta verrà successivamente identificata con del-
le ‘cose’ reali e con un meccanismo causale di formazione dell’organismo
e trasmissione ereditaria, principalmente grazie ad August Weismann41. I
geni (o meglio, il ‘plasma germinale’) appaiono allora come ‘atomi di vi-
vente’, che, conservando la loro identità da un organismo all’altro, confe-
riscono al discendente la forma del genitore, restando essi stessi immutati.
Un’entità di questo tipo sfugge al processo di individuazione: essa è pensa-
ta come sempre-già individuata, ed in grado perciò di trasmettersi identica
a se stessa nel corso delle generazioni. Pre-individuale, perché attraversa
intatto organismi e generazioni, il gene non è però trans-individuale, per-
ché esso è d’emblée un’entità compiuta e definita, su cui non agisce alcun
processo causale proveniente dall’organismo. Questa inaccessibilità all’in-
dividuazione è associata del resto ad un potere individuante autonomo:
il gene opera l’individuazione dell’organismo, ma non viceversa. Erwin
Schrödinger aggiungerà questo elemento ulteriore all’ibridazione tra gli
atomi astratti mendeliani e quelli fisici weismanniani: i geni contengono
In primo luogo, dobbiamo identificare tutti i geni, […] o almeno le parti co-
dificanti del DNA che vi corrispondono. Ma ciò non significa sapere ciò che fa
ciascun gene e ciò che rappresenta funzionalmente […] Secondariamente, sap-
piamo che vi sono molte più proteine che geni. Cosa determina quale proteina
debba essere prodotta e quando? […] Vi è un’interazione complessa tra i geni e
il loro ambiente – l’ambiente della cellula […] l’ambiente dell’organismo entro
cui si trovano i geni […] infine […] possiamo sapere tutto della composizione
in acidi aminati di tal proteina, e tuttavia avere grandi difficoltà a determinare
la sua struttura tridimensionale, e la funzione chimica che essa garantisce46.
Gran parte di ciò che fanno le proteine non dipende per nulla dalle istruzioni
dei geni. Ciò appartiene all’ambito della chimica dei sistemi complessi auto-
44 Ciò ha condotto alcuni autori (A. Pichot, Kupiec-Sonigo) a proporre di mettere tra
parentesi la nozione di gene, resa inutilizzabile dal suo carattere bricolé e dall’in-
capacità di dare confini precisi al ruolo specifico dei geni nell’ontogenesi. Questa
soluzione massimalista lascia perplessi: in biologia, quasi tutti i concetti hanno
un’origine ‘impura’, una storia aleatoria e dei confini incerti. Tuttavia, o perciò, è
molto difficile che una nozione biologica scompaia definitivamente: la conoscenza
della vita è una divoratrice di modelli e concetti, che continua a rifunzionalizza-
re e a riciclare (un buon esempio dell’exaptation di cui parla S.J. Gould. Cfr. A.
Cavazzini, «La storia, le tracce, la vita», cit.). Nel caso dei geni, le stesse ricerche
evo-devo, che hanno scosso un determinismo genetico rigido, sembrano difficili
da pensare senza ricorrere al gene, non solo come dispositivo causale coinvolto
nella costruzione del Bauplan, ma soprattutto come strumento per individuare e
‘marcare’ delle sequenze processuali specifiche, o dei ‘moduli’ processuali, entro
la rete dei rapporti di regolazione. Il gene è quindi indispensabile per localizzare
e differenziare degli ordini determinati all’interno di un’interazione contestuale
complessiva (ciò che permette al tempo stesso di intervenire in essa tecnicamente).
Il che significa: la scala di pertinenza dei geni è irriducibile a quella organismica, e
non solo viceversa. Il non-riduzionismo funziona nei due sensi.
45 D. Noble, La musica della vita, tr. it. di S. Ravaioli, Bollati Boringhieri, Torino
2009, p. 51.
46 Ivi, p. 66.
A. Cavazzini - Cellule, organismi, comunità 247
organizzatori […] non vi sono geni per le proprietà dell’acqua, dei grassi o dei
lipidi che costituiscono le membrane cellulari. Peggio ancora, non vi sono geni
[…] per le interazioni. Tutta questa informazione è implicita nelle proprietà
stesse dell’ambiente in cui operano i geni47.
Il DNA non agisce mai fuori del contesto di una cellula. Noi ereditiamo
ben più che il nostro DNA. Ereditiamo l’ovulo di nostra madre e tutto il mac-
chinario, compresi i mitocondri, i ribosomi e altri componenti citoplasmatici
[…] ereditiamo anche un mondo. La chimica dell’acqua, dei lipidi e di altre
molecole di cui né la forma né la proprietà sono codificate dal DNA – tutto ciò
è semplicemente dato48.
Gli individui non si succedono, fanno parte di un sistema che ‘oscilla’ […]
Gli umani […] sono un’emergenza periodica di fenomeni cellulari collettivi
[…] Si tratta di concepire un fenomeno di crescita dell’insieme madre-bambi-
no, seguito da una scissione lungo un asse […] Il risultato è la produzione di
due umani a partire da un curioso fenomeno di crescita e di divisione asimme-
triche […] Il bambino si sviluppa a partire dalla madre per crescita e separazio-
ne, come una cellula o un ramo d’albero. Ciò differisce dall’idea abituale della
produzione di un uovo che porta un piano di costruzione. Nel quadro classico,
la discontinuità definita a priori tra due individui […] imponeva di ricreare un
legame informazionale tra i due. Era il ruolo del gene. Questo legame è inutile
47 Ivi, p. 68.
48 Ivi, p. 77.
248 Il transindividuale
Uomini e animali hanno costituito nel corso dei secoli una diversità sorpren-
dente di comunità miste, interspecifiche […] queste associazioni sono fondate
su interessi reciproci e scambi mutui […] e costituiscono delle comunità ibri-
de51.
51 Ivi, p. 93.
52 D. Lestel, L’animal singulier, Seuil, Paris 2004, pp. 21-24. Si veda tutto questo
interessantissimo libro.
53 Ivi, pp. 29-30
54 Lo stesso vale per gli animali che realizzano nuove possibilità di comportamento
e soggettivazione grazie alla loro convivenza con gli uomini.
250 Il transindividuale
rale. Homo sapiens ha certo una struttura biologica determinata, e ciò che
può fare non è senza rapporto con la taglia del cervello, la maturità tardiva
o la bipedia. Ma l’ominazione non è solo la somma dei tratti biologici di
un primate. D’altronde, essa non si dà nemmeno solo come elaborazione
culturale. Essa va vista piuttosto come un processo di individuazione in-
terspecifico al livello delle condotte e delle comunicazioni; si tratta quindi
di un processo eminentemente contingente, poiché esso presuppone una
pluralità di comportamenti e di ‘soggetti’55 reciprocamente irriducibili, nel
cui intreccio stabilire un gioco di rinvii tra fascinazione e repulsione, vici-
nanza e distanza, alleanza e antagonismo. In ogni caso, a causa di questa
molteplicità irriducibile di condotte reciprocamente inassimilabili, l’opaci-
tà è ineliminabile da questo spazio di individuazione, il che significa che
l’individuazione stessa dell’uomo è sempre provvisoria, problematica, in-
certa, attraversata da punti ciechi e ambiguità, poiché dipende strettamente
dalla contingenza degli incontri dell’uomo con una pluralità di significati,
affetti, gesti, la cui estraneità è mobile ma non superabile. La coscienza, o
la cultura, dell’uomo non può quindi essere il luogo di un’identificazione
simpatetica e responsabilizzante nei confronti della totalità della biosfera,
come vorrebbe un umanesimo ecologista ingenuo: certo la civiltà umana
può tematizzare l’intera realtà vivente, ma non può rendersela totalmente
familiare e ‘propria’, al punto da includere la responsabilità verso ogni
sua componente nei criteri stessi dell’ominazione. E questo perché l’omi-
nazione dipende da rapporti conflittuali e aleatori in cui il ruolo struttura-
le dell’impensato, del rimosso, del fantasmatico rendono impossibile che
l’Uomo diventi la cartina di tornasole, il perno di una totalizzazione in cui
tutti i prodotti del grande processo dell’individuazione sarebbero disposti
armoniosamente ed il processo giungerebbe a pensare se stesso. Dopotutto,
ad ogni livello di analisi abbiamo incontrato la tendenza a trovare un di-
spositivo per cui la vita potesse riflettersi in se stessa, totalizzare il proprio
divenire come il Concetto hegeliano ritrova la propria unità autodifferen-
ziantesi nell’esteriorità provvisoria delle proprie differenziazioni: una tale
funzione è stata via via attribuita all’armonia della Catena degli Esseri,
alla struggle for life degli organismi, all’omeostasi, ai geni, allo spirito
umano. In tutti questi dispositivi si cerca di trovare un punto di inversione
da cui la natura vivente possa reinteriorizzare e autoriferire il movimento e
FELICE CIMATTI
«L’INDIVIDUO È L’ESSERE SOCIALE»1
MARX E VYGOTSKIJ SUL TRANSINDIVIDUALE
3 Ibidem.
4 Ibidem.
F. Cimatti - «L’individuo è l’essere sociale» 255
La produzione della vita [umana], tanto della propria nel lavoro quanto
dell’altrui nella procreazione, appare già in pari tempo come un duplice rappor-
to: naturale da una parte, sociale dall’altra, sociale nel senso che si attribuisce
a una cooperazione di più individui [...]. Solo a questo punto [...] troviamo che
l’uomo ha anche una ‘coscienza’. Ma anche questa non esiste fin dall’inizio,
come ‘pura’ coscienza. Fin dall’inizio lo ‘spirito’ porta in sé la maledizione
di essere ‘infetto’ dalla materia, che si presenta qui sotto forma di strati d’aria
agitati, di suoni, e insomma di linguaggio. Il linguaggio è antico quanto la
coscienza, il linguaggio è la coscienza reale, pratica, che esiste anche per altri
uomini e che dunque è la sola esistente anche per me stesso, e il linguaggio,
come la coscienza, sorge soltanto dal bisogno, dalla necessità di rapporti con
altri uomini. Là dove un rapporto esiste, esso esiste per me [...]. La coscienza
è dunque fin dall’inizio un rapporto sociale e tale resta fintanto che in genere
esistono uomini9.
crea il ‘me’ che viene reso pubblico nel mondo sociale […] [ed] è sempre lui
che mi rende capace di condividere la mia vita mentale con gli amici e mi con-
9 K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, tr. it. di F. Codino, Editori Riuniti, Roma
1975, pp. 20-21.
10 Cfr. ad esempio A. Clark, Natural-Born Cyborgs. Minds, Technologies, and the
Future of Human Intelligence, Oxford University Press, New York 2003.
11 Una analisi molto chiara e informata della ‘crisi’ delle scienze cognitive contem-
poranee, che sempre più con difficoltà riescono a distinguere il proprio punto di
vista da quello della neurologia, cioè da un progetto scientifico che di fatto non ha
più bisogno della nozione di ‘mente’, si trova in M. Marraffa, La mente in bilico.
Le basi filosofiche della scienza cognitiva, Carocci, Roma 2008.
12 Cfr. L. Barsalou, «Grounded Cognition», in Annual Review of Psychology, 59,
2008, pp. 617-645.
13 G. Botterill, P. Carruthers, Filosofia della psicologia, tr. it. di A. Tissoni, Il Sag-
giatore, Milano 2001, p. 17.
F. Cimatti - «L’individuo è l’essere sociale» 257
sente, in tal modo, di creare qualcosa più grande di qualunque cosa saremmo
in grado di fare da soli14.
14 C. Frith, Inventare la mente. Come il cervello crea la nostra vita mentale, tr. it. di
E. Paulesu, Raffaello Cortina, Milano 2009, p. XXVII.
15 J. Tooby, L. Cosmides, «On the Universality of Human Nature and the Unique-
ness of the Individual: The Role of Genetics and Adaptation», in Journal of Per-
sonality, 58, 1990, 1, pp. 17-67.
16 H. Gardner, La nuova Scienza della mente. Storia della rivoluzione cognitiva, tr.
it. di L. Sosio, Feltrinelli, Milano 1994, p. 18.
17 Ibidem.
258 Il transindividuale
di mettere fra parentesi certi fattori che possono essere importanti per il funzio-
namento cognitivo ma la cui discussione complicherebbe oggi senza necessità
l’impresa della scienza cognitiva. Questi fattori comprendono l’influenza di
fattori emotivi o emozionali, il contributo di fattori storici e culturali e il ruolo
del contesto generale in cui particolari azioni e pensieri si verificano18.
18 Ibidem.
19 K. Marx, Manoscritti economico-filosofici, cit., p. 115.
F. Cimatti - «L’individuo è l’essere sociale» 259
nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti
determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produ-
zione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze
produttive materiali. L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la
struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una
sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate
della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona,
in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscien-
za degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere
sociale che determina la loro coscienza22.
20 Ivi, p. 116.
21 Per una ricostruzione complessiva della sua figura cfr. M.S. Veggetti, Lev
Semenovič Vygotskij. Psicologia, cultura, storia, Giunti Lisciani Editori, Firenze
1994, e H. Daniels, M. Cole, J. Wertsch (eds.), The Cambridge Companion to
Vygotsky, Cambridge University Press, New York 2007.
22 K. Marx, Per la critica dell’economia politica, tr. it. di E. Cantimori Mezzomonti,
Editori Riuniti, Roma 1974, p. 5.
260 Il transindividuale
Questo celebre passo non sostiene che la coscienza individuale non esi-
sta, sostiene che la coscienza – oggigiorno si preferisce parlare di mente,
o di cervello se si vuole essere dei naturalisti integrali – non è il punto di
partenza del percorso di sviluppo individuale; all’inizio ci sono i ‘rapporti di
produzione’, in cui gli esseri umani vivono e pensano, ossia ‘forme determi-
nate della coscienza sociale’; quindi, su questa base, che è insieme materiale
e trascendentale, si forma la ‘loro coscienza’, la loro individualità.
L’originale psicologia materialista di Vygotskij, che è materialista senza
essere eliminativista (senza cioè fare a meno della mente individuale), ma
anche senza essere internalista (cioè privilegiando la mente individuale e
innata rispetto alle relazioni sociali), è tutta intorno a questo schema ge-
nerale: prima la relazione storico-sociale (prima in senso trascendentale),
poi il processo di individuazione: «le relazioni fra [le] funzioni psichiche
superiori» della mente individuale, la sua coscienza, «sono state un tempo
relazioni fra persone»23, cioè appunto transindividuali.
All’inizio di questo processo c’è, naturalmente, un corpo di una specie
animale, la specie Homo sapiens, che ha la potenzialità biologica di riceve-
re il ‘trapianto’ delle relazioni sociali esterne. Un corpo di un animale della
specie Castor fiber non ha questa predisposizione. Ma appunto, si tratta di
una predisposizione, che di per sé non predetermina lo sviluppo successi-
vo. Tutto il modello basato sulla nozione di transindividuale esclude che
esista qualcosa come una essenza interna che debba poi soltanto maturare
e riversarsi all’esterno. La precondizione per lo sviluppo di una indivi-
dualità umana è allora «la presenza degli organi e delle funzioni peculiari
dell’uomo. L’acquisizione dei valori della civiltà da parte del bambino è
condizionata alla maturazione delle funzioni e degli apparati corrisponden-
ti. A un determinato stadio del suo sviluppo biologico il bambino apprende
l’uso della lingua, se il suo cervello e l’apparato fonatorio si sviluppano
normalmente»24. Sulla biologia dell’animale umano Vygotskij non si con-
centra ulteriormente, proprio perché quella biologia – di per sé – è una
condizione necessaria ma non sufficiente a formare un individuo umano:
come nel processo dello sviluppo storico l’uomo modifica non i propri orga-
ni naturali, ma i propri strumenti, così nel processo dello sviluppo psicologico
l’uomo perfeziona il funzionamento del suo intelletto principalmente mediante
lo sviluppo di particolari ‘mezzi ausiliari’ tecnici di pensiero e di comporta-
mento. La storia della memoria umana non può essere compresa senza la storia
della scrittura, così come la storia del pensiero umano senza la storia del lin-
23 L.S. Vygotskij, Istorija razvitija vyssih psihiceskih funktcij, tr. it. cit., p. 197.
24 Ivi, p. 75.
F. Cimatti - «L’individuo è l’essere sociale» 261
guaggio. Basta solo ricordare la natura e l’origine sociali di qualsiasi segno cul-
turale per capire che lo sviluppo psicologico, esaminato da questo punto di vi-
sta, è essenzialmente sociale, condizionato dall’ambiente. Esso entra a far parte
del contesto di tutto lo sviluppo sociale e si rivela come sua parte organica25.
vengono inclusi nel sistema delle relazioni psichiche superiori come equiva-
lenti a tutti gli altri processi psichici superiori. Tendiamo a considerarli anzi-
tutto come forme particolari di comportamento, che si costituiscono durante
lo sviluppo socio-culturale del bambino e rappresentano una linea esterna di
sviluppo dell’attività simbolica, accanto alla linea interna che rappresenta lo
sviluppo culturale di formazioni come l’intelligenza pratica, la percezione e la
memoria30.
dire che un processo è ‘esterno’ equivale a dire che è ‘sociale’. Ogni fun-
zione psichica superiore è stata esterna perché è stata sociale prima ancora che
interiore e psichica, è stata cioè originariamente un rapporto sociale tra due
persone. Il mezzo per esercitare un’azione su se stessi è inizialmente un mezzo
per esercitare un’azione sugli altri, o un mezzo che gli altri adoperano per eser-
citare un’azione sulla persona32.
Allo stesso tempo è un materialismo che tiene conto dei fenomeni uma-
ni, e parte appunto da ciò che è immediatamente evidente, le concrete azio-
30 Ivi, p. 61.
31 Cfr. A. Clark, Natural-Born Cyborgs. Minds, Technologies, and the Future of Hu-
man Intelligence.
32 L.S. Vygotskij, Istorija razvitija vyssih psihiceskih funktcij, tr. it. cit., p. 200.
F. Cimatti - «L’individuo è l’essere sociale» 263
33 Su questa stessa linea cfr. il tentativo di una psicologia superficiale, senza pro-
fondità, in F. Cimatti, Il volto e la parola. Psicologia dell’apparenza, Quodlibet,
Macerata 2007.
34 L.S. Vygotskij, Istorija razvitija vyssih psihiceskih funktcij, tr. it cit., p. 201.
264 Il transindividuale
35 Ivi, p. 199.
36 Ibidem.
F. Cimatti - «L’individuo è l’essere sociale» 265
37 Ibidem.
38 Ivi, p. 200.
39 L.S. Vygotskij, Mind in Society. The Development of Higher Forms of Psycholo-
gical Processes, Harvard University Press, Cambridge MASS. 1978, tr. it. a cura di
M. Cole, Il processo cognitivo, Boringhieri, Torino 1980, p. 86.
40 K. Marx, Manoscritti economico-filosofici, cit., p. 119.
41 Ibidem.
42 Ibidem.
266 Il transindividuale
4. Il ‘pensiero verbale’
chi invece sostiene la priorità del linguaggio sul pensiero. In questa forma
si tratta di una contrapposizione ormai sterile. Vygotskij sposta la discus-
sione sul piano dello sviluppo ad uno stesso tempo biologico e culturale
dell’animale umano: non si tratta di affermare la priorità dell’uno o dell’al-
tro elemento, bensì di vedere come dal loro incontro si formi una nuova
forma di attività cognitiva. Il ‘pensiero verbale’, infatti, più che un modo
di comunicare è un modo nuovo di organizzare l’esperienza, interna ed
esterna, da parte degli animali della specie biologica Homo sapiens. È una
operazione naturale perché solo la nostra specie è predisposta in modo
innato49 per l’incontro fra pensiero e linguaggio; è una operazione stori-
co-culturale perché questo incontro avviene fra una dotazione biologica
universale e una lingua particolare. Così il ‘pensiero verbale’ è allo stesso
tempo un modo di stabilire relazioni linguistiche con i propri simili ma an-
che se non soprattutto un modo di organizzare il proprio pensiero. La tappa
intermedia dello sviluppo di questa particolare forma di azione linguistica
è il cosiddetto ‘linguaggio egocentrico’, che il bambino usa parlando ad
alta voce in assenza di interlocutori: qui il parlare non ha uno scopo co-
municativo, appunto perché non si parla a nessuno, bensì è la prima forma
di auto-organizzazione del proprio comportamento da parte del bambino.
Fino a quel momento erano stati gli adulti a guidare le sue azioni, ora che
gli adulti non ci sono il bambino comincia ad usare le forme linguistiche
che ha ascoltato da loro per imparare a controllarsi anche da solo: «il lin-
guaggio egocentrico appare sulla base di un percorso sociale, quando il
bambino trasferisce le forme sociali di comportamento, le forme di col-
laborazione collettiva nella sfera delle funzioni psicologiche personali»50.
L’esito finale di questo processo di sviluppo è il ‘linguaggio interno’, cioè
appunto il ‘pensiero verbale’, il pensiero che fa tutt’uno con le parole di
una lingua e che non richiede più di essere espressamente articolato: qui
«il pensiero non si esprime nella parola, ma si realizza nella parola»51. Lo
schema complessivo dello sviluppo individuale delle funzioni psichiche
superiori è quindi, per Vygotskij, «linguaggio sociale – linguaggio egocen-
trico – linguaggio interno»52. Con il ‘linguaggio interno’ diventa possibile
lo sviluppo delle funzioni psichiche superiori, che sono tutte forme diverse
49 T. Deacon, La specie simbolica, tr. it. a cura di S. Ferraresi, Giovanni Fioriti Edi-
tore, Roma 2001.
50 L.S. Vygotskij, Myšlenie i reč’, Gosudartstvennoe Social’no-Ekonomičeskoe
Izdatel’stvo, tr. it. cit., p. 58.
51 Ivi, p. 334.
52 Ivi, p. 59.
268 Il transindividuale
53 Ibidem.
54 M. Tomasello, Le origini culturali della cognizione umana, cit., p. 23.
55 Ivi, p. 24.
F. Cimatti - «L’individuo è l’essere sociale» 269
5. Individuazione e transindividuale
56 L.S. Vygotskij, A. Lurija, Orudie i znak v razvitii rebënka, tr. it. cit., p. 26.
57 L.S. Vygotskij, «Socialisticheskaja peredelka cheloveka», cit.
58 L.S. Vygotskij, Istorija razvitija vyssih psihiceskih funktcij, tr. it. cit., p. 201.
270 Il transindividuale
63 Ivi, p. 33.
64 K. Marx, Manoscritti economico-filsoofici, cit., pp. 114-115.
273
PATRICE MANIGLIER
AMBIENTI DI CULTURA:
UN’IPOTESI SULLA COGNIZIONE UMANA1
sostenere che occorre intendere questa competenza nei termini di una fa-
coltà di generare qualcosa come degli ambienti [milieux], nel senso della
teoria degli ambienti o dell’etologia cognitiva3, in modo tuttavia che sif-
fatti ambienti risultino da, e si mantengano tramite, l’interazione tra agenti
cognitivi che hanno delle particolarità assai singolari e che cercheremo
di precisare. Così, da un lato, daremo ragione a coloro che, tra i filosofi
della mente, sostengono che pensare, per il tipo di creature che noi siamo,
implica sempre il sorgere di sistemi di pensiero che eccedono l’individuo,
e di conseguenza il pensiero è più una realtà che abitiamo e in cui viviamo
che un costituente della nostra interiorità – che la mente, in altri termini, è
‘fuori’, per riprendere una formula di Vincent Descombes, nelle istituzioni,
negli spazi pubblici, nel mondo4. Ma, da un altro lato, ci sforzeremo di for-
nire un’interpretazione naturalista di questo fenomeno, e di mostrare quali
difficoltà si incontrino quando si cerca di comprendere la natura di questa
‘pubblicità’. Mentre i filosofi tendono a credere che occorra limitarsi alle
‘manifestazioni sensibili’, mostreremo che è necessario introdurre alcune
mediazioni supplementari, in grado di ridare alla nozione di cultura tutta
la sua dimensione problematica e dinamica. La cultura apparirà come un
fenomeno rigorosamente transindividuale.
L’insieme di questa costruzione può essere riassunto in una frase: il lin-
guaggio non è un mezzo ma un ambiente [milieu], qualcosa in cui si vive
e non qualcosa di cui ci si serve. Svilupperò questa tesi in tre tempi. In un
primo tempo, caratterizzerò l’idealtipo di ciò che possiamo chiamare l’in-
terpretazione dominante delle relazioni tra pensare e parlare, interpretazio-
ne che ha finito per coincidere con la stessa espressione di ‘cognitivismo’.
Sarebbe in effetti impossibile ricondurla ad un solo autore – neppure nel
caso del suo principale istigatore, Noam Chomsky. Ma ciò che importa qui
è più chiarificare una posizione possibile nel campo filosofico e teorico
contemporaneo che far opera d’esegesi, allo scopo di meglio introdurre
il problema cui mi sembra rinviare necessariamente la meditazione sulla
natura del pensiero informata dalla linguistica. In un secondo tempo, cer-
cherò di mostrare che la generalizzazione dell’idea di sintassi, caratteri-
stica del cognitivismo classico, sembra non resistere alle osservazioni sul
funzionamento stesso del linguaggio, e che occorre vedere in esso un’atti-
vità di percezione piuttosto che una forma di calcolo mentale. In un terzo
tempo, attirerò l’attenzione sulle difficoltà misconosciute della percezione
del linguaggio e ne dedurrò un problema che mi sembra essere al cuore
stesso della sfida consistente nel fare del linguaggio in particolare, ma delle
culture più in generale, l’oggetto di un sapere positivo. Ciò mi permetterà
di costruire, in un terzo tempo, una posizione che costituirebbe una sorta
di soluzione a tale problema, ed in pari tempo una nuova prospettiva per la
filosofia della mente.
5 Cfr. ad esempio H. Gardner, La nuova scienza della mente, tr. it. a cura di L. Sosio,
Feltrinelli, Milano 1988.
P. Maniglier - Ambienti di cultura: un’ipotesi sulla cognizione umana 277
come disciplina cognitiva, del linguaggio come una specie di sapere che
i soggetti avrebbero e dell’attività di parlare come attività di conoscenza.
Primo argomento, che riguarda l’oggetto della linguistica: Chomsky ha
instancabilmente sostenuto la tesi per cui non sono i comportamenti con-
creti, nel senso degli eventi spazio-temporali osservabili, né gli atti comu-
nicativi o espressivi, l’oggetto di studio della linguistica, ma piuttosto i giu-
dizi su tali comportamenti. Così, l’oggetto della linguistica possiede esso
stesso una struttura cognitiva, poiché consta di proposizioni suscettibili di
essere vere o false. Esse hanno una forma del tipo: «la sequenza XYZ
è accettabile (o inaccettabile) nella lingua L». Per riprendere un celebre
esempio, parlare una lingua non può voler dire comprendere la frase: «Co-
lourless green ideas sleep furiously», poiché è appunto incomprensibile,
ma almeno sapere se si tratta di una frase accettabile in inglese, cioè di una
frase possibile dell’inglese6. Così, l’oggetto del linguista è direttamente un
giudizio, suscettibile di essere convalidato o invalidato.
A questa definizione della linguistica è possibile fornire un argomento
epistemologico: una definizione di questo genere ci dà dei criteri di con-
valida delle teorie linguistiche. Il giudizio di accettabilità è ad un tempo
l’oggetto della linguistica e lo strumento del linguista, ciò tramite cui que-
sti verifica il carattere corretto o scorretto delle teorie che costruirà. Se una
teoria predice che dei giudizi di grammaticalità sono accettabili mentre, per
la comunità linguistica che li parla, essi non sono considerati accettabili,
questa teoria può essere detta invalidata. L’intuizione di grammaticalità è
quindi l’‘osservabile’ della linguistica7.
Secondo argomento: non sono solo i fenomeni che il linguista studia
ad avere la struttura di giudizi, sono anche gli apparati che stanno dietro
a tali giudizi ad avere una struttura teorica in un senso molto particolare:
le teorie tramite cui noi valutiamo le performances verbali hanno la forma
di sistemi formali definiti da 1) un certo numero di proposizioni minimali;
2) delle regole di trasformazione su queste proposizioni che permettono
di produrre; 3) un numero indefinito ma determinato di siffatti giudizi di
grammaticalità. Un giudizio di grammaticalità può quindi essere sottopo-
sto ad una procedura di decisione, esattamente come in un sistema formale
si verifica che una sequenza di simboli ben formata è un teorema deduci-
bile dal sistema di assiomi studiato: una frase è dedotta generativamente
6 N. Chomsky, Le strutture della sintassi, tr. it. a cura di F. Antinucci, Laterza, Bari
1970.
7 Cfr. J.-C. Milner, Introduction à une science du langage, Seuil, Paris 1988, pp.
68-90.
278 Il transindividuale
dalla teoria che noi (soggetti parlanti) abbiamo costruito sulla lingua in uso
nella nostra comunità.
L’interesse di questo approccio al linguaggio come sapere inteso in
questo senso preciso risiede nel suggerire che il linguaggio si integra al
fenomeno cognitivo nel suo insieme, e in diverse maniere. Innanzitutto
perché appare come un elemento nel processo globale di costruzione del-
le conoscenze (di conseguenza il sistema percettivo può farne parte), in
altri termini come un modulo di tale processo. È consueto ormai che lo
si concepisca – ritornando con ciò a idee assai tradizionali sulla natura e
la funzione del linguaggio – come un mezzo per mettere in rapporto del-
le rappresentazioni fonetiche con delle rappresentazioni concettuali, cioè
come un modulo tra il modulo percettivo e quello detto ‘concettuale’8.
Tuttavia le relazioni tra i moduli non sono esclusivamente funzionali, ma
anche formali: le lingue appaiono in effetti formalmente omologhe ad altri
sistemi cognitivi che utilizziamo nella vita di tutti i giorni, poiché si trat-
ta di sistemi formali, generati per via sintattica. A questo titolo, le lingue
risultano essere teoricamente implementabili su delle macchine di Turing
(dato che queste sono in grado di eseguire qualunque calcolo): è possibile
allora considerare le lingue come dei software, e gli agenti cognitivi come
degli hardware biologici che, per un certo numero di ragioni dipenden-
ti dalla teoria dell’evoluzione, sono in grado di ricevere e di trattare dei
software che possono essere descritti in modo puramente simbolico, cioè
indipendentemente dall’hardware. Abbiamo dunque una teoria che, con-
temporaneamente, lascia una certa autonomia nell’approccio ai fenomeni
culturali, poiché non si è obbligati a ridurre le lingue al tipo di realtà fisica
– ad esempio il cervello – su cui sono implementate (il linguista non deve
diventare neurofisiologo), e resta compatibile con un progetto radicale di
naturalizzazione al termine del quale i fenomeni culturali non sono più
fenomeni misteriosi, ma dipendono dall’apparizione, nella storia della vita,
di un’entità biologica particolare in grado di implementare una macchina
di Turing, cioè un calcolatore sintattico9.
2. Parlare è percepire
mente non funziona così: la portata e i limiti della psicologia computazionale, tr.
it. a cura di M. Marraffa, Laterza, Bari 2004.
280 Il transindividuale
10 Sarebbe possibile obiettare che questa scorrettezza dipende dal fatto che, in realtà,
il ‘mese di settembre’ è solo un soggetto apparente, e non reale, e che, nella ‘strut-
tura profonda’, non occuperebbe la posizione del soggetto; ma le evoluzioni della
grammatica generativa hanno condotto a rinunciare proprio a questa distinzione
tra struttura profonda e struttura di superficie. Si veda, per un argomento simile
a proposito di un problema differente, l’articolo di Chomsky sulle nominalizza-
zioni, che mostra come si possa trattare più facilmente questo genere di fenomeni
integrando dei vincoli alle trasformazioni al livello delle stesse voci lessicali,
anziché supporre una ‘trasformazione’ soggiacente (N. Chomsky, «Remarks on
Nominalization», in Id., Studies on semantics in generative grammar, Mouton,
The Hague 1972, pp. 11-61).
P. Maniglier - Ambienti di cultura: un’ipotesi sulla cognizione umana 281
11 Cfr. N. Chomsky, Current Issues in Linguistic Theory, Mouton, The Hague 1969,
p. 11 e sgg.
12 Così J.-Y. Pollock, Langage et Cognition, Introduction au programme minima-
liste de la grammaire générative, cit.: «Esistono in francese degli usi diadici leciti
di mettre, come in Elle va mettre sa robe rouge o Tu veux bien mettre la table?
È possibile sostenere che si tratti in questi casi di verbi distinti accidentalmente
omofoni del verbo mettre in Pierre mettra le livre sur la table, come suggerisce
fortemente il fatto che i corrispettivi inglesi di questi ultimi due esempi – rispet-
tivamente she’ll wear her red skirt e could you please set/lay the table? – utiliz-
zerebbero i verbi wear, set/lay, distinti dal verbo put usato nella traduzione Peter
will put the book on the table» (pp. 63-64).
282 Il transindividuale
13 Cfr. J.-C. Milner, Le Périple Structural, Figures et Paradigme, Seuil, Paris 2002,
p. 180.
14 N. Chomsky e M. Halle, Principes de phonologie générative, Seuil, Paris 1973,
pp. 39-40, tr. fr. di P. Encreve della 1 e 4 parte di The sound pattern of English,
Harper & Row, New York 1968.
15 Cfr. B Laks, «Approches cognitives de la phonologie», in V. Rey e N. Nguyen
(eds.), Nouvelles approches en phonétiques et en phonologie, Editions Hermès,
Paris 2005
16 Voir A. Prince e P. Smolensky, Optimality Theory. Constraints interactions in
generative grammar, Ms. Rutgers University, Technical Report, New Brunswick,
New Jersey 1993 (formato libro: Wiley-Blackwell, 2004; disponibile su Internet:
http://roa.rutgers.edu/files/537-0802/537-0802-PRINCE-0-0.PDF ).
P. Maniglier - Ambienti di cultura: un’ipotesi sulla cognizione umana 283
17 Per una storia della fonologia che descrive questo spostamento cfr. in particolare
Bernard Laks, «Approches cognitives de la phonologie», cit. et Jean-Elie Boltan-
ski, Nouvelles directions en phonologie, PUF, Paris 1999.
18 Forse occorre intendere qui il termine immagine del linguaggio un poco nel senso
in cui Deleuze parlava di immagine del pensiero. Cfr. G. Deleuze, Différence et
Répétition, PUF, Paris 1968.
284 Il transindividuale
19 D.C. Dennet, «Real Patterns», in The Journal of Philosophy, vol. LXXXVIII, pp.
27-51.
20 W. Quine, Parola e oggetto, tr. it. di F. Mondadori, Il Saggiatore, Milano 1970,
§12, p. 70 e sgg.
286 Il transindividuale
21 «A proposito, qui non terrò conto dell’analisi fonematica (§ 18), anche se compare
molto presto nell’impresa del nostro linguista sul campo; essa infatti non concerne
la tesi filosofica che voglio sostenere» (ivi, p. 41). Tuttavia, egli conserva un’ipo-
tesi sulla natura delle norme fonetiche (Parola e oggetto, cit., §18) di cui mostrerò
in seguito perché essa mi appaia insostenibile, e perché io sospetti che tutto ciò
importi in qualche modo alla posizione quiniana… Cfr. per una discussione su
questo tema e sugli sviluppi cui ha dato luogo nella filosofia analitica classica
l’eccellente lavoro di L. Wetzel, «Types and tokens», Stanford Encyclopedia of
Philosophy, http://plato.stanford.edu/entries/types-tokens/, 2006.
22 «Considerata in se stessa, [la catena fonica] non è che una linea, un nastro con-
tinuo in cui l’orecchio non percepisce alcuna divisione sufficiente e precisa; per
questo bisogna fare ricorso alle significazioni. Quando noi ascoltiamo una lingua
sconosciuta, non siamo in grado di dire come la sequenza di suoni deve essere
analizzata; il fatto è che questa analisi è impossibile se si tiene conto soltanto
dell’aspetto fonico del fenomeno linguistico» (F. de Saussure, Cours de lingui-
stique générale, Payot, Paris 1972, p. 145, tr. it. a cura di T. de Mauro, Laterza,
Roma-Bari 1967, 1994, p. 126).
P. Maniglier - Ambienti di cultura: un’ipotesi sulla cognizione umana 287
3. Linguaggi impercettibili?
sto di nuovi tipi di continuità che sono ripartite secondo metriche differenti
da quelle dei segnali fisici.
Arriviamo dunque ad una specie di paradosso. Da un lato, siamo stati
condotti a ridefinire la conoscenza come l’acquisizione di identità prati-
che o culturali; ma, d’altro lato, ci troviamo come costretti a riconoscere
a tali identità un sostrato sovrafisico o incorporeo – come se i parametri
del riconoscimento delle forme non apparissero per nulla legati ai dati os-
servabili del segnale. È appunto la coscienza di questo genere di difficol-
tà che ha permesso a Chomsky di giustificare l’idea di categorie innate e
un’approccio neo-razionalista alla cognizione in generale e al linguaggio
in particolare. Perciò, se vogliamo sostenere che il linguaggio è bensì com-
posto d’identità, occorrerà risolvere il problema del loro rapporto con i dati
dell’ambiente [environnement]. Si tratterà qui di definire il quadro filoso-
fico di ciò che potrebbe essere effettivamente una teoria naturalista della
cultura che non trascuri le difficoltà reali cui ci confrontano i fenomeni cul-
turali, permettendoci, se non di rispondere, almeno di fornire il modello di
una risposta alla domanda: come giunge il soggetto parlante e conoscente a
strutturare i continua del suo ambiente [environnement]?
29 Ciò non significa che vi sia stata una sorta di sconfitta dei modelli connessionisti
di fronte ai modelli computazionali più classici, ma piuttosto che il campo di
ricerca da essi aperto ha permesso a modelli diversi di riprendere il loro pro-
gramma. Possiamo menzionare ad esempio gli approcci morfodinamici (cfr. J.
Petitot, Morphogenèse du Sens, cit.) o quelli della vita artificiale (cfr. R. Brooks,
L. Steels (eds.), The artificial life route to artificial intelligence: building embo-
died, situated agents, Lawrence Erlbaum Associates, New Haven 1995).
30 Tra le numerose introduzioni al connessionismo, bisogna citare il testo classico e
sempre utile che ha riaperto l’approccio connessionista: D. Rumelhart, J.L. Mc-
Clelland, Parallel distributed processing: explorations in the microstructure of
cognition, MIT Press, Cambridge 1986, tr. it. di R. Luccio, il Mulino, Bologna
1991. Un’eccellente introduzione, cui devo molto, e che difende un approccio
connessionista nelle scienze del linguaggio è quella di B. Laks, «Langage et Co-
gnition, L’approche connexionniste», cit. Possiamo menzionare anche, per una
contestualizzazione storica, J.-P. Dupuy, Aux origines des sciences cognitives, La
Découverte, Paris 1994, e per una problematizzazione in un quadro più genera-
le, F. Varela, La via di mezzo della conoscenza: le scienze cognitive alla prova
dell’esperienza, tr. it. di I. Blum, Feltrinelli, Milano 1992. Infine, per un approccio
filosofico sotto alcuni aspetti (ma alcuni solamente) abbastanza prossimo a quello
sostenuto qui, cfr. P.M. Churchland, A neurocomputational perspective: the natu-
re of mind and the structure of science, MIT Press, Cambridge Mass. 1989.
P. Maniglier - Ambienti di cultura: un’ipotesi sulla cognizione umana 293
nowski31. Queste reti sono capaci di discriminare tra gli echi sonar di due
oggetti simili, uno scoglio e un oggetto metallico, ad esempio una mina.
Come funziona la rete? Il segnale è costituito da una curva di frequenza che
corrisponde ad una registrazione dell’eco sonar. Quest’ultimo è codificato
in un primo strato di neuroni nel modo seguente: la rete decompone la
curva di frequenza in altrettante sequenze discontinue quante sono le unità
neuronali di cui dispone; ciascuna sequenza corrisponde ad una sezione di
tempo, e ciascuna di queste sezioni di tempo è dotata di un valore di attiva-
zione relativo all’altezza della curva di frequenza durante questo periodo
(altezza media beninteso). In altri termini, invece di attribuire un valore
globale alla curva, cercando ad esempio una funzione algebrica tale per cui
per ogni x (l’ascissa che rappresenta il tempo) è possibile calcolare y (dove
l’ordinata è la frequenza), la rete sezione la curva: ciò che la interessa non
sarà l’espressione algebrica esatta della curva, ma piuttosto un certo nume-
ro di parametri relativamente estranei alla sua espressione algebrica.
Poi, la rete trasmette i valori di attivazione allo strato nascosto che è
quello dell’ambiente [milieu], ove ciascuna cellula dello strato d’entrata
è legata a tutte le cellule dello strato nascosto, e comunica loro il proprio
valore d’attivazione ponderato dalla ‘forza’ del loro legame ‘sinaptico’.
Questo strato intermedio lo trasmette allo strato superiore. Vediamo che
restano solo due cellule su quest’ultimo: se si ha un’attività molto forte
della cellula ‘mina’ e molto debole della cellula ‘roccia’, ad esempio 0.97
e 0.03, ciò vuol dire che l’oggetto percepito è una mina.
La rete apprende grazie ad una regola di correzione degli errori, chia-
mata delta-regola, o regola di retro-propagazione, tramite la quale la rete
modifica le sue connessioni. Essa si sbaglia inizialmente in modo aleatorio.
Ma, se ciascuna cellula è capace di trasmettere un valore d’attivazione alla
cellula dello strato nascosto, sarà anche capace di modificare questo valore
in funzione del livello di attivazione della cellula vicina, e solo di quella
vicina (il meccanismo funziona per vicinanza immediata). Essa pondererà
quindi i nodi tra questi valori di attivazione in funzione di una regola che
calcola una differenza corrispondente allo scarto tra il risultato atteso e
quello prodotto, e che retropropaga questa differenza modificando i nodi,
cioè le capacità di trasmissione laterale da una cellula all’altra. È appunto
perché la differenza tra il risultato previsto (100, 0), e il risultato ottenuto
ad esempio (48, 52) è numericamente misurabile che la rete può riorganiz-
L’intero ricco, mondo che circonda la zecca si contrae su se stesso per ri-
dursi a una struttura elementare, che consiste ormai essenzialmente di tre sole
marche percettive e tre sole marche operative: il suo ambiente33.
35 Fred Dretdske presenta questa ipotesi – per confutarla da un altro punto di vista
rispetto al nostro – nel seguente articolo: «Représentation erronée», in D. Fisette,
P. Poirier (éds.), Philosophie de l’esprit. Problèmes et perspectives, Vrin, Paris
2003. Cfr. in particolare: «Se spostiamo un batterio australe verso l’Atlantico
Settentrionale, si annienterà spostandosi verso l’alto (in direzione del Sud magne-
tico), e quindi verso l’ambiente [environnement] tossico, ricco di ossigeno, delle
acque di superficie» (p. 98).
P. Maniglier - Ambienti di cultura: un’ipotesi sulla cognizione umana 299
GUILLAUME SIBERTIN-BLANC
CONCATENAZIONI COLLETTIVE
D’ENUNCIAZIONE, MODI DI PRODUZIONE
ENUNCIATIVI E SOGGETTIVAZIONE:
DELEUZE E GUATTARI CON ALTHUSSER
gage», Préface à J. Searle, Les actes de langage, tr. fr. di H. Pauchard, Hermann,
Paris 1972, pp. 21-25.
3 N. Chomsky, Aspects of the Theory of Syntax, Mit Press, Cambridge 1965, p. 12.
4 F. de Saussure, Cours de linguistique générale, Payot, Paris 1962, p. 321, edizione
e tr. it. a cura di T. De Mauro, Laterza, Roma-Bari 1967, 1994; cfr. E. Ortigues, Le
Discours et le symbole, Aubier, Paris 1962, p. 59; E. Benveniste, «Structure de la
langue et structure de la société», cit., pp. 100-101.
G. Sibertin-Blanc - Concatenazioni collettive d’enunciazione 307
aveva denunciato nell’Ideologia tedesca. Poiché nello stesso gesto con cui
essa apre la possibilità di articolare i rapporti sociali in cui si struttura que-
sta produzione, essa resta debitrice dei postulati precedenti, e in un certo
senso li rafforza introducendo la concezione trascendente della lingua e
l’individualismo metodologico nella teoria stessa della produzione enun-
ciativa. Che in tal modo essa riattivi un concetto idealista di produzione,
nulla lo mostra meglio della prima funzione formale dell’enunciazione lo-
calizzata da Benveniste, funzione primordiale da cui tutte le altre dipen-
dono, e definita come funzione d’inserzione del locutore, tramite l’atto
di enunciazione, «come parametro nelle condizioni necessarie a [questa]
enunciazione»5. Svolta dal pronome personale della prima persona (e, in
modo derivato, dalla seconda persona – «il rapporto io-tu che non accade
se non entro e mediante l’enunciazione, col termine io a denotare l’indivi-
duo che proferisce l’enunciazione, e il termine tu come l’individuo che vi è
presente come allocutore» – e dai deittici di spazio e di tempo), questa fun-
zione di ‘innesto’ dell’enunciatore nel suo enunciato permette di introdurre
un’operazione intermedia nello schema a due termini: ‘patrimonio comune
della lingua’/uso individuale che ne fa il locutore. Effettuata dall’atto pro-
duttore (enunciazione), questa operazione è in pari tempo obiettivata nel
prodotto che ne risulta (enunciato). Essa non deve dunque essere compresa
come un legame tra due termini esterni l’uno all’altro, ma come un’ope-
razione di ‘appropriazione’ della langue da parte dell’individuo parlante e
di obiettivazione di questo individuo nella lingua che utilizza6. L’apparato
dell’enunciazione funziona così come mediazione tra i due livelli estremi
della langue e della parole: esso dialettizza l’universalità astratta dell’una
(«prima dell’enunciazione, la langue non è altro che la possibilità della
langue») e la singolarità hic et nunc dell’altra («dopo l’enunciazione, la
langue è effettuata in un’istanza di discorso, che emana da un locutore,
forma sonora che colpisce un uditore e suscita un’altra enunciazione in
ritorno»). Ma questa dialettica non è priva di presupposti; e l’ambiguità di
7 Ivi, p. 81.
8 Ivi, pp. 82-83; cfr. Anche Problèmes de linguistique générale I, cit., pp. 281-285,
tr. it. cit., pp. 317-319.
9 Ciò appare sintomaticamente nel fatto che l’‘atto individuale’ non è esso stesso
riferito ad altro che ad una realtà psicologica, salvo poi fare dell’ambito analitico
dell’apparato formale dell’enunciazione un sotto-settore dello studio generale del-
la ‘realtà mentale’ («L’appareil formel de l’énonciation», cit., p. 81).
G. Sibertin-Blanc - Concatenazioni collettive d’enunciazione 309
non si tratta […] di un’operazione linguistica, poiché un soggetto non può mai
essere condizione di linguaggio o causa di enunciato: non vi è soggetto, vi sono
soltanto concatenazioni collettive di enunciazione; la soggettivazione non è
che una di esse e, in quanto tale, designa una formalizzazione dell’espressione
o un regime di segni, non una condizione interna del linguaggio15.
20 G. Deleuze, F. Guattari, Mille plateaux, cit., p. 162, tr. it. cit. (leggermente modi-
ficata), pp. 227-228.
21 L. Althusser, «Trois notes sur la théorie des discours», in Id., Ecrits sur la psy-
chanalyse, t. II, Imec/Stock, Paris 1995, pp. 131-139, tr. it. di G. Piana, Raffaello
Cortina, Milano 1994, pp. 121-127.
314 Il transindividuale
22 G. Deleuze, F. Guattari, Mille plateaux, cit., pp. 161-162, tr. it. cit., pp. 227-228;
L. Althusser, Sur la reproduction, cit.
23 G. Deleuze, F. Guattari, Mille plateaux, cit., p. 163, tr. it. cit., p. 229.
G. Sibertin-Blanc - Concatenazioni collettive d’enunciazione 315
26 Cfr. G. Deleuze, F. Guattari, L’Anti-Œdipe, Minuit, Paris 1972, p. 134, tr. it. a cura
di A. Fontana, Einaudi, Torino 1975, p. 111: introdotto nel cap. II, il problema
è trattato alla fine del cap. III, cioè alla fine della teoria dei tipi di formazioni o
‘macchine sociali’ e del loro divenire storici attraverso il processo di accumula-
zione primitiva del capitale (ivi, p. 313-324, tr. it. cit. pp. 299-310).
27 Cfr. E. Terray, Le marxisme devant les sociétés primitives, Maspero, Paris 1969,
pp. 134-172.
G. Sibertin-Blanc - Concatenazioni collettive d’enunciazione 317
Le famiglie selvagge formano una prassi, una politica, una strategia di al-
leanze e di filiazioni; esse sono formalmente gli elementi motori della ripro-
duzione sociale e non han nulla a che vedere con un microcosmo espressivo;
il padre, la madre, la sorella vi funzionano sempre come qualcos’altro oltre al
padre, la madre o la sorella30.
31 I differenti punti che seguono sono stati studiati per se stessi in S. Legrand e
G. Sibertin-Blanc, «Capitalisme et psychanalyse: l’agencement de subjectivation
familialiste», in J.-C. Goddard, N. Cornibert (dir.), Ateliers L’Anti-Œdipe, Mime-
sis / MétisPresses, Milano / Genève 2008, pp. 83-122.
32 Rinviamo qui all’ipotesi generale, avanzata dal Groupe de Recherches Matéria-
listes (EuroPhilosophie/CIEPFC), di un rapporto (tendenziale) di proporzionalità
inversa tra i codici dell’individualizzazione sociale e le concatenazioni di sogget-
tivazione innescati negli AIS, che fa dei secondi delle compensazioni della distru-
zione delle prime causata dalla tendenza del MPC all’astrazione reale: cfr. GRM
G. Sibertin-Blanc - Concatenazioni collettive d’enunciazione 319
33 G. Deleuze, F. Guattari, L’Anti-Œdipe, cit., pp. 315-316, tr. it. cit., p. 302.
34 «La forma della riproduzione sociale economica ha già preformato la forma del
materiale per generare là dove occorre il capitalista come funzione derivata del
capitale, il lavoratore come funzione derivata della forza-lavoro ecc., cosicché la
famiglia si trova in anticipo attraversata dall’ordine delle classi» (ivi, p. 314, tr. it.
cit., p. 301).
G. Sibertin-Blanc - Concatenazioni collettive d’enunciazione 321
35 L. Althusser, Sur la reproduction, cit., pp. 170-171, tr. it. cit., p. 142.
36 E quanto già suggerisce, proprio in Althusser, il fatto che la tesi (che riecheggia
evidentemente i fatti di Maggio ’68) di un trasferimento di dominanza in seno agli
AIS, dall’AIS religioso verso l’AIS scolastico, sia presentata come un passaggio
da un couplage Chiesa-Famiglia ad uno Famiglia-Scuola (L. Althusser, Sur la
reproduction, cit., pp. 172-177, 189-190, tr. it. cit., pp. 144-149, 159-161).
322 Il transindividuale
umana allo stadio nativo (e persino, come osserva Althusser dopo Freud
e Lacan, allo stadio prenatale!), e inoltre perché non smette di funzionare
attraverso tutti gli altri – almeno, se è vero che la maestra nell’AIS sco-
lastico è ancora la mamma, il responsabile di sezione nell’AIS sindacale
è di nuovo il fratello maggiore, il segretario di partito nell’AIS politico
è sempre papà ecc.
Aggiungiamo per finire che, se il concetto guattaro-deleuziano di
concatenazione collettiva d’enunciazione apre, come noi crediamo, il
programma dello studio storico delle concatenazioni sociosemiotiche
che attualizzano l’assunzione soggettiva dell’interpellazione, e la cui
individuazione circostanziata sarebbe una parte indispensabile di un’analisi
concreta degli apparati ideologici di Stato, un siffatto programma trarrebbe
profitto dall’esser messo in opera ai bordi delle formazioni sociali
capitalistiche (passate e presenti), intendiamo nelle zone in cui la divisione
pubblico/privato vacilla, e quindi in cui i dispositivi di interpellazione che
contribuiscono a confermare questa divisione sarebbero forse in grado di
esibire paradossalmente le linee di antagonismo che celano. L’Anti-Edipo
aveva riaperto questo cantiere, nella tradizione dei lavori di un Frantz Fanon o
di un Robert Jaulin sull’‘etnocidio’, sull’indissociabilità della colonizzazione
politico-economica e dell’imposizione di forme di soggettività specifiche,
e sulle resistenze variegate a questa doppia colonizzazione oggettiva e
soggettiva37. È soprattutto nella rifondazione deleuziana di un concetto di
minorità che questa prospettiva di ricerca troverebbe senza dubbio le sue
linee di sviluppo più ambiziose, una delle prime determinazioni che se
ne danno essendo appunto il mettere in questione la distinzione soggetto
d’enunciato/soggetto d’enunciazione, in condizioni in cui l’isolamento di
una sfera privata si rivela, oggettivamente e soggettivamente, altamente
problematica (il che non significa che una siffatta vacuolizzazione non
possa darsi, ma che le forme di soggettivazione che risultano debbano
essere particolarmente contraddittorie e conflittuali)38. Bisogna infine
ricordare che la teoria deleuziana delle minorità si iscriveva esplicitamente
nell’orizzonte di una rielaborazione teorica dei processi di proletarizzazione
FRANCISCO NAISHTAT
AZIONE, EVENTO E STORIA.
ONTOLOGIE DELL’ACCADUTO
1. Introduzione
4 Cfr. H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, tr. it. di S. Finzi, Bompiani,
Milano 2000.
5 F. Saussure, Cours de linguistique générale, Payot, Paris 1916.
6 Sulla storiografia e le catastrofi del Novecento, E. Traverso, Le passé, modes
d’emploi. Histoire, mémoire, politique, La Fabrique, Paris 2005; H. Wieviorka,
L’ère du témoin, Plon, Paris 1998.
7 Cfr. F. Hartog, Régimes d’historicité. Présentisme et expériences du temps, Seuil,
Paris 2003.
F. Naishtat - Azione, evento e storia 327
della stessa narrazione, secondo le forme più tipiche della svolta linguistica
in storiografia: memoria e identità narrativa8, narrativizzazione del passato9,
costruzione tropologica del senso evenemenziale10 ecc. Da questo punto di
vista, l’intento di questo saggio è di affrontare la dialettica tra azione, evento
e storia dal punto di vista dell’ontologia dell’accaduto.
2. Il ritorno dell’azione
8 P. Ricœur, Temps et récit. Vol. 1, L’intrigue et le récit historique, Seuil, Paris 1983,
tr. it. di G. Grampa, Jaka Book, Milano 1986; sulla nozione di «identità narrativa»
P. Ricoeur, Soi-même comme un autre, Seuil, Paris 1990, tr. it. di D. Iannotta, Jaca
Book, Milano 1993, pp. 201-262.
9 A. Danto, Filosofia analitica della storia, tr. it. di P.A. Rovatti, Il Mulino, Bologna
1971.
10 H. White, Retorica e storia, tr. it. di P. Vitulano, Guida, Napoli 1978, e Id., Storia
e narrazione, tr. it. di D. Carpi, Longo, Ravenna 1999.
328 Il transindividuale
ed eruditi a farli rivivere, non gli storici di professione. Così, a fianco della
storiografia strutturale, il Novecento conosce tutta una fioritura di storie
romanzate che intendono preservare almeno in parte l’aura delle grandi
figure. D’altra parte, l’idea romantica della storia come soggetto, secondo
cui si dà non già un soggetto nella storia quanto un soggetto della storia,
considerata teleologicamente come progressivo affermarsi della ragione,
della libertà e dell’umanità dell’uomo, risulta una mera figura (Gestalt) ti-
pica di un determinato periodo culturale. Come osserva significativamente
Paul Veyne, lo storico di oggi non si preoccupa tanto della direzione del
treno, quanto di ciò che accade all’interno dei vagoni11.
Questa disaffezione nei confronti dell’azione eroica e della storia come
soggetto non deve però indurci a pensare che l’azione intenzionale sia
stata espulsa dalla storia e sostituita dalla nuova enfasi posta sulle forme
di condotta, sui processi subcoscienti o sulle ferree strutture latenti della
vita sociale. È un errore di metodo sostituire al fascino di una concezione
eroica della storia il fascino per strutture sociali trasformate in istanze rei-
ficate della vita di una società. È vero che per buona parte del Novecento
l’impronta del modello nomologico-causale delle scienze positive e della
spiegazione funzionale e/o strutturale delle scienze sociali ha condotto a
trascurare puramente e semplicemente l’azione intenzionale e la contin-
genza storica, dimenticando il peso dell’attività umana e delle scelte dei
singoli attori dello svolgersi storico. Le strutture e i processi di lunga du-
rata acquistano interesse storico proprio in quanto considerano l’attività
umana come luogo e origine del suo stesso riprodursi: è questo riferimento
ultimo all’interazione umana a giustificare l’immanenza storica dei proces-
si sociali, anche dei più ferrei. È su questo punto che ha insistito anche uno
dei fondatori delle Annales, lo storico Marc Bloch:
Dietro i tratti concreti del paesaggio, dietro gli scritti che sembrano più fred-
di, dietro le istituzioni in apparenza più distaccate da coloro che le hanno create
e le fanno vivere, sono gli uomini che la storia vuol afferrare. Colui che non
si spinge fin qui, non sarà mai altro, nel migliore dei casi, che un manovale
dell’erudizione. Il bravo storico, invece, somiglia all’orco della fiaba. Egli sa
che là dove fiuta carne umana, là è la sua preda12.
Dato che il secondo nucleo di problemi forma parte dei temi epistemo-
logici più familiari e più classici della metateoria storica13, e visti i limiti
di spazio di questo articolo, ci concentreremo sul primo gruppo di proble-
14 La legge morale è così la ratio cognoscendi della libertà, che a sua volta è la ratio
essendi della legge morale. Si veda I. Kant, Critica della ragion pratica, tr. it. di
F. Capra, riveduta da E. Garin, Laterza, Bari-Roma 1989, p. 4.
332 Il transindividuale
15 È stato Eric Weil a introdurre l’idea che nella filosofia della storia di Kant operi
una «astuzia della natura» («ruse de la nature»), che Weil distingue dal concetto
hegeliano di «astuzia della ragione», che rimanda a un soggetto della storia inesi-
stente in Kant. Si veda E. Weil, Problèmes kantiens, Vrin, Paris 19902, p. 118.
16 I. Kant, «Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico», in Id.,
Scritti di storia, politica e diritto, tr. it. di F. Gonnelli, Laterza, Roma-Bari 1995,
pp. 29-44.
17 K. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, tr. it. di P. Togliatti, Editori Riuniti,
Roma 1991, p. 7.
F. Naishtat - Azione, evento e storia 333
18 Il punto di vista di G.H. von Wright si trova nel classico Spiegazione e compren-
sione, tr. it. di G. Di Bernardo, Il Mulino, Bologna 1977. Per il commento di
Paul Ricoeur, si veda P. Ricoeur, «Dall’azione all’agente», in Id., Se stesso come
un altro, cit., pp. 173-200. Circa l’impossibilità di una rappresentazione discreta
ex ante, si veda H. Bergson, Essai sur les données immédiates de la conscience,
Presses Univ. de France, Paris 1991, p. 133 e sgg, tr. it. di V. Mathieu, Paravia,
Torino 1951, p. 147 e sgg.
334 Il transindividuale
corso del tempo. Già Frege24 avverte che a ogni descrizione corrisponde
un senso (Sinn) distinto dalla denotazione o riferimento (Bedeutung). In
questo modo la filosofia linguistica dell’azione ci pone di fronte all’arduo
problema storiografico-ermeneutico della natura del significato mediante
cui è possibile comprendere (verstehen) un’azione umana, ossia all’alter-
nativa tra:
(a) il cogliere il significato originale che costituisce il motivo di un agente;
(b) la determinazione del significato indipendentemente dall’agente, a
partire dalle interpretazioni dell’impatto storico di esso e sulla scorta
del denso reticolo di interazioni che la incardina nel mondo storico-
sociale.
Laddove Weber e la tradizione diltheyana del Verstehen insistono sul
senso esplicitamente attribuito all’azione, assegnando allo storico il com-
pito di far rivivere (nacherleben), la più recente prospettiva narrativista,
immettendosi in una tradizione di matrice hegeliana, pensa il significato
storico dell’azione come indipendente dai suoi motivi originari. In questa
seconda accezione si insiste sul fatto che gli eventi storici possono trascen-
dere i motivi individuali, i quali vengono oltrepassati dalle interpretazioni
che lo storico è chiamato a dare dell’azione.
Consideriamo gli eventi del dicembre 2001 in Argentina. Per quanto
sia ancora presto per avventurarsi in interpretazioni storiografiche, si può
tuttavia ritenere, sulla scorta di cronache giornalistiche e indagini sociolo-
giche, che questi fatti abbiano avuto in principio motivazioni relativamente
limitate, come il rifiuto del corralito financiero o l’inquietudine sociale
suscitata dagli episodi di saccheggio verificatisi nella cintura urbana at-
torno alla capitale (interpretazione debole). È d’altra parte verosimile, vi-
sto il modo in cui le numerose narrazioni storiografiche e politologiche
hanno sottolineato l’impatto di questi eventi sulla vita politica nazionale,
che la storiografia attribuirà a tali fatti un significato assai più ampio delle
motivazioni dei risparmiatori all’origine della sollevazione popolare, in-
terpretandoli invece nei termini di una frattura politica senza precedenti
nella storia democratica del paese (interpretazione forte). E non sarebbe
corretto liquidare come erronee le interpretazioni forti, argomentando che
i motivi scatenanti furono assai più modesti di quanto richieda una frattura
politica. Di fatto, la drammatica svolta della vita politica nazionale iniziata
nel 2001, e l’inedita proliferazione di attività e mobilitazioni assembleari
che ebbe luogo nel corso del 2002, autorizzano ad attribuire alla rivolta
del dicembre 2001 un significato storico estraneo alla mens dei suoi attori.
L’azione si sdoppia così in un senso esplicitamente inteso e in un sen-
so narrativo – entrambi rilevanti per la storiografia. Il primo rimanda alla
soggettività degli attori che hanno dato luogo ai fatti. Il senso narrativo
invece rimanda all’interpretazione degli stessi eventi secondo la sequenza
temporale entro la quale vengono presi in esame dallo storico. In termini di
filosofia dell’azione, il senso narrativo poggia sull’effetto fisarmonica delle
ridescrizioni dell’azione, senza che gli attori riconoscano necessariamente
in queste descrizioni i motivi che in origine ispirarono le loro azioni.
27 Paul Veyne sviluppa la tesi secondo cui: a) qualunque processo o evento di grandi
dimensioni può essere scomposto in una sequenza di eventi intermedi, ognuno dei
quali ammette una propria spiegazione: è la nota spiegazione genetica in storia; b)
l’evento globale non può essere predetto a partire da alcuno dei mini-eventi che lo
compongono, per cui nessuno può preformarsi una rappresentazione di esso: ciò
in virtù della contingenza ontologica propria dello sviluppo storico, che genera
catene causali multiple la cui complessità è irriducibile a un’arborescenza discreta
e conchiusa. Cfr. P. Veyne, Comment on écrit l’histoire, cit., p. 70.
28 M. Cruz, «Comprensión histórica, acción e identidad», cit.
F. Naishtat - Azione, evento e storia 341
29 Sulla differenza tra autore e attore, nel quadro della distinzione arendtiana tra
opera e azione, cfr. H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, tr. it. di S. Finzi,
Bompiani, Milano 2000, pp. 97-182.
30 P. Ricoeur, Dal testo all’azione. Saggi di ermeneutica, Jaca Book, Milano 1989,
p. 184 e sgg, e M. Cruz, Filosofía de la historia, Paidós, Barcelona 1996, pp.
151-164.
342 Il transindividuale
popoli o classi sociali, che non possono venire ridotti alle loro singole com-
ponenti ma che, al contrario, sono il frutto di un salto di piano caratteristico
dell’ontologia dell’evento storico. Secondo questa posizione, gli individui
non sono del tutto consapevoli di alimentare, attraverso le proprie azioni,
azioni ed eventi collettivi di più vasta portata, i quali invece possono essere
compresi solo gestalticamente attraverso la figura di una totalità irriducibi-
le, che forma il quadro storico entro cui solo è possibile cogliere l’azione
o l’evento storicamente rilevante. È qui all’opera una sorta di mano invi-
sibile: i singoli attori interpretano, senza esserne consapevoli, un’azione
di più vasta portata, la cui logica risponde alla struttura di una collettività
indivisibile che lo storico ha identificato come una singolarità operante
storicamente. È facile riconoscere qui un impianto di matrice hegeliana:
Hegel considerava le azioni individuali come inestricabili dalla realtà sto-
rica dei popoli, secondo lui gli autentici motori, e quindi l’unico explanans,
dell’evento di vasta portata. Naturalmente Hegel assegnava una funzio-
ne mediatrice tra individui comuni e popoli agli individui straordinari o
grand’uomini, cioè ai grandi leader della storia: ma anche questi non sono
che un mero strumento dei popoli, che alla fine restano i veri e concreti
agenti della storia31.
A differenza delle interpretazioni teleologiche dell’azione individuale,
l’olismo mostra qui un’affinità tanto con un’interpretazione di tipo strut-
turale, per cui la struttura latente è causa dell’azione manifesta, quanto
con un’interpretazione di matrice funzionalista, tale cioè che l’azione in-
dividuale (manifesta) è lo strumento funzionale al servizio di una totalità
latente. In ogni caso, l’evento di vasta portata è considerato irriducibile
all’azione individuale, ed esige di conseguenza che si passi a un’ontologia
sui generis, di natura macroscopica od olistica, ove fanno la loro comparsa
i popoli, le classi, le culture, le nazioni etc. Ora, senza volere negare l’esi-
stenza di un piano macroscopico degli eventi storici, e senza ridurre questi
ultimi al risultato o alla responsabilità di un certo numero di azioni inten-
zionali singolarmente identificabili, è tuttavia possibile ammettere che die-
tro ogni evento macroscopico si trovi non tanto un’ontologia irriducibile
ed essenzializzata delle collettività, quanto una sintesi storiografica operata
dallo storico a partire da una serie illimitata di azioni e fatti di minore por-
tata (individuali e/o di gruppo).
31 G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, tr. it. di G. Calogero e C. Fatta,
La Nuova Italia, Firenze 1981, pp. 65- 103. Circa la nozione hegeliana di figura
(Gestalt), cfr. D. Brauer, «La filosofía idealista de la historia», in M. Reyes Mate
(ed.), Filosofía de la historia, EIAF, Trotta, Madrid 1993, p. 115.
F. Naishtat - Azione, evento e storia 343
4. Ontologia dell’evento
32 Si dice che una proprietà P sopravviene in una classe di proprietà Q se e solo se:
1) se (∃x) tale che P(x), allora (∀z), tale che z è indiscernibile da x rispetto a Q,
si dà P(z); 2) x non può variare rispetto a P, cessare di essere P o diventare più (o
meno) di P senza mutare rispetto a un qualche membro di Q. A partire dal 1970
Davidson prese da Richard Hare il termine sopravvenienza (Hare lo utilizzava nel
contesto di una discussione relativa ai termini di valore, come bello o buono, e
alla relazione tra questi e le proprietà fattuali) per pensare la relazione tra concetti
mentali e concetti fisici, allo stesso modo in cui in Hare i concetti di valore soprav-
vengono nei concetti fattuali senza ridursi ad essi. Si veda R. Hare, The Language
of Morals, Clarendon Press, Oxford 1952, pp. 80-88. Per Davidson sono i concetti
mentali che sopravvengono nei concetti fisici senza ridursi ad essi (cfr. «Mental
Events» in D. Davidson, Essays on Actions and Events, cit., pp. 207-225). Per una
discussione generale sull’idea di sopravvenienza, si veda J. Kim, Supervenience
and Mind, Cambridge Univ. Press, Cambridge 1993.
33 D. Brauer, «Rememoración y verdad en la narración historiográfica», in M. Cruz,
D. Brauer (ed.), La comprensión del pasado. Escritos sobre filosofía de la histo-
ria, Herder, Barcelona 2005.
F. Naishtat - Azione, evento e storia 345
scritto, in corrispondenza di quel giorno, Rien, nulla. Luigi XVI non era uno
storico, e neppure un politico particolarmente perspicace: era un monarca
passabilmente miope, talmente moderato da sconfinare nell’immobilismo.
Tuttavia, il Rien segnato quel giorno sul diario reale non ha nulla di ecce-
zionale e illustra il fenomeno su cui vogliamo insistere: ossia, che gli even-
ti sopravvengono nei fatti e nelle azioni di minore portata, ma sempre entro
un quadro interpretativo, carico non soltanto dell’ampiezza con cui viene
trascelto il passato ma anche di valori e di una pre-interpretazione della
realtà, di modo che solo muovendosi entro il medesimo quadro è legittimo
procedere dall’invariabilità dei microfatti all’invariabilità dell’evento. La
relazione tra evento e azione non poggia su una qualunque relazione di
sopravvenienza, ma su di una sopravvenienza ermeneuticamente condizio-
nata dal contesto interpretativo.
B. KARSENTI
IL TOTEMISMO RIVISITATO
1 E. Durkheim, Les règles de la méthode sociologique, PUF, Paris 1987, p. 12, tr.
it. a cura di A. Negri, Sansoni, Firenze 1970, p.10.
2 Cfr. Cl. Lévi-Strauss, «La sociologie française», in G. Gurvitch (dir.), La socio-
logie au XXème siècle, II, PUF, Paris 1948; Id., «Introduction à l’œuvre de Marcel
Mauss», in M. Mauss, Sociologie et anthropologie, PUF, Paris 1966, tr. it. di F.
Zannino, in M. Mauss, Teoria generale della magia e altri saggi, Einaudi, Torino
1965, pp. XV-LIV.
3 Cfr. M. Merleau-Ponty, De Mauss à Lévi-Strauss, Signes, Gallimard, Paris 1960,
tr. it. di G. Alfieri, cura di A. Bonomi, il Saggiatore, Milano 1967.
348 Il transindividuale
1. La cosa churinga
co., Frankfurt a.M. 1907-1921. Spencer era zoologo, Gillen amministratore civile
e Strehlow missionario luterano. I loro lavori servono come base di un’etnografia
professionale che conobbe un grande impulso tra le due guerre, in particolare con
i lavori di Strehlow, linguista cresciuto tra gli Aranda, e G. Roheim. Questi lavori
fondatori sono stati ripresi recentemente da Marika Moisseeff, che reinscrive l’in-
sieme dei dati in una prospettiva centrata sul problema dell’individualizzazione:
Un long chemin semé d’objets cultuels, Editions de l’EHESS, Paris 1995.
6 Cfr. E. Durkheim, Textes I, Minuit, Paris 1975, p. 404.
7 E. Durkheim, Les formes élémentaires de la vie religieuse (1912), PUF, Paris
1990, p. 169, tr. it. (leggermente modificata) di C. Cividali, con Introduzione di R.
Cantoni, Edizioni di Comunità, Milano 1971, p. 128 (da ora FEVR).
350 Il transindividuale
osservando ciò che, in lui, lo rende sacro. L’unico elemento distintivo che
Durkheim vuole prendere in considerazione è quello del ‘contrassegno to-
temico’, disegnato o inciso sulla cosa. A questo proposito, egli astrae inte-
ramente da una distinzione decisiva per gli etnografi: quella tra i churinga
‘nudi’, privi di decorazioni – cui è attribuibile un’identità collettiva e che si
possono a questo titolo qualificare come ‘churinga totemici’ – e i churinga
decorati, che incarnano gli ‘spiriti-bambini’ personalizzati cui è legato spe-
cificamente ciascun membro del gruppo8. Durkheim assume su questo pun-
to un’accentuazione particolare delle descrizioni di Spencer e Gillen, come
peraltro di Strehlow. Laddove questi insistevano sul racconto mitico che fa
del churinga il luogo di residenza dell’anima dell’antenato, o addirittura
un’immagine o una parte del suo corpo reale – interpretazione che Frazer,
dal canto suo, mobilitava in appoggio alla sua teoria della reincarnazione
per frequentazione del sito totemico durante il concepimento del bambino
– Durkheim vi vede solo una giustificazione après coup di un sentimento di
rispetto fondato su altro. Il mito, nel caso specifico, non spiega nulla, poiché
si limita a mettere in rapporto un essere sacro con un altro essere sacro,
lasciando inoltre nell’ombra il fenomeno principale della fabbricazione arti-
ficiale, nota a tutti, di certi churinga che, conservati allo stesso modo e dotati
dell’identica efficacia rituale, non sono meno sacri degli altri.
Dal punto di vista parziale di Durkheim, restare il più dappresso possi-
bile alla cosa significa dunque fissare il segno che essa reca come un segno
fatto dagli uomini. Questa dimensione di fabbricazione, a sua volta, non
deve trarre in inganno. Se essa incita invero a vedere nel processo di sa-
cralizzazione un’operazione puramente convenzionale, non vincolata dalla
natura dell’oggetto che serve da supporto all’incisione o al disegno, sotto-
pone tuttavia la convenzione ad un vincolo specifico di rappresentazione,
in cui si trova implicitamente esigita una corrispondenza del disegno al suo
referente esterno, come a un essere del mondo che il primo non farebbe
altro che raffigurare più o meno adeguatamente. Ora, a ben vedere, qui sta
precisamente lo slittamento che Durkheim cerca, costi quel che costi, di
serbare. Concentrarsi sul disegno non significa in primo luogo chiedersi
cosa rappresenti, ma il modo in cui rappresenta – cioè, insomma, cosa vo-
glia dire esattamente rappresentare in questo caso singolare9.
8 Per questa distinzione centrale cfr. M. Moisseeff, Un long chemin semé d’objets
cultuels, cit., p. 83 e sgg.
9 Come nota M. Moisseeff, il carattere non figurativo delle incisioni e dei disegni
deve esser compreso come il tracciato di traiettorie percorse dagli esseri cui i chu-
ringa rinviano. «Se rappresentano qualcosa, non è l’aspetto esteriore, ma la trac-
cia che i loro percorsi ed i loro atti concomitanti possono lasciare sulla superficie
B. Karsenti - Il totemismo rivisitato 351
del suolo» (ivi, p. 90). I disegni sono in questo senso ad un tempo non-figurativi e
non-astratti.
10 FEVR, pp. 178-179, tr. it. cit., pp. 135-136.
352 Il transindividuale
somma a che fare con un processo in due tempi: il segno totemico si impone
in virtù di una mancanza [manque] del pensiero – il fatto che l’idea debba
esser rappresentata tramite un segno – e, ma solo secondariamente, ciò che
viene a colmare questa mancanza si rapporta effettivamente a certe cose del
mondo. Linee, curve, figure, punti, sono quindi delle cose ‘allo stesso titolo’
delle altre cose fisiche, ‘sebbene in un altra maniera’. Ci troviamo qui più
vicini che mai alla distinzione che Durkheim si era sforzato di introdurre
nella seconda prefazione alle Regole. La maniera in cui queste cose esistono
e che le distingue consisterebbe precisamente nel legame che esse intreccia-
no con certe cose del mondo, restando inteso che questo legame è secondo
rispetto alla loro istituzione come cose sacre, dato che si sottrae ad una logica
imitativa.
2. Il simbolismo dell’emblema
apre su di un altro mondo. Esso non si limita a delimitare una piccola parte
empirica per restrizione. Tutt’al contrario: non solo esso totalizza le cose
che comprende nella sua sistematica, ma si sforza tramite ciò di integrare,
riqualificandoli nei suoi quadri, «tutti gli esseri conosciuti»13.
A partire dalla sacralità superiore dell’emblema, è l’universalità delle
cose a venir abbracciata dal gruppo. Ma essa lo è esattamente entro un
orizzonte di conoscenza, e non sotto la forma di una serie di percezioni
disgiunte, di cui ciascun essere è oggetto come ‘un per uno’. Riprendendo
i risultati del suo saggio, scritto in collaborazione con Mauss, sulle Forme
primitive di classificazione, Durkheim ne precisa anche la portata: se le
nozioni di genere e di classe hanno effettivamente la loro origine in questo
modo di pensiero religioso che il totemismo fa toccare con mano, ciò signi-
fica soprattutto che la natura propria delle cose sociali è di darsi un quadro
il quale è d’emblée quello di una conoscenza del mondo, disgiunta rispetto
alla percezione sensibile immediata di ciascun individuo preso a parte. Da
questa visuale, la rottura supposta dall’esperienza del sacro acquista un
nuovo senso: essa non è tanto una determinazione dell’affetto quanto una
manifestazione dell’esercizio del pensiero umano, nella sua capacità di ele-
varsi dalla percezione sensibile, o dall’immagine generica, fino al concetto
in senso proprio.
Che tale esperienza non possa non essere sociale, che essa presupponga
l’esistenza del gruppo [groupe] come totalità, è ciò che prova il totemismo
articolando gruppi [groupements] umani e gruppi [groupements] reali, e
integrandoli in un unico sistema in cui i loro rapporti vengono regolati.
Ma affinché questo sistema sia possibile, non ci si può risolvere a postu-
lare – contrariamente a ciò che certe formulazioni di Durkheim lasciano
intendere – che il raggruppamento umano sia posto dall’inizio, e che la
classificazione delle cose si generi a partire da questa forma primaria. Cer-
to, lo «spettacolo della vita collettiva»14 ha dovuto rendersi necessario. Ma,
ed è qui tutta la difficoltà, è stato necessario che questo spettacolo fosse
d’emblée quello di una vita comune degli uomini e delle cose, di un gruppo
di uomini determinato associato ad un gruppo di cose. ‘Lasciare un posto’
alle cose tra gli uomini significa tanto integrare le cose agli uomini quan-
to l’inverso, poiché i due livelli di classificazione non possono apparire
se non congiuntamente e reggendosi l’uno con l’altro. Il ‘sociomorfismo’
durkheimiano rischia da questo punto di vista di essere un abbaglio, se
lo si riconduce ad una proiezione sul mondo di quadri sociali costituiti
3. Un’‘aura di impersonalità’
evidentemente decisiva quanto alla definizione del genere, nel suo affran-
camento costitutivo rispetto all’‘attualmente percepito’. Vi è pensiero solo
se la presenza alla cosa stessa, presa nella sua immediatezza, è spezzata, e
ricostituita su di un altro piano che è quello dello sviluppo del suo signi-
ficato concettuale. Ora, ciò che suppone Durkheim è che questo sviluppo
inerente al concetto non sia esso stesso possibile se non in un orizzonte di
universalità16. L’importanza del sistema totemico deriva da ciò. Poiché è ad
esso che spetta in primo luogo il dispiegamento di questo orizzonte che rie-
sce, tramite il legame specifico di parentela che esso istituisce tra gli esseri,
ad abbracciare in uno stesso quadro tutte le cose conosciute dal gruppo.
Occorre quindi intraprendere la qualificazione di questo legame di pa-
rentela. Ciò che impegna ad interrogarsi sul modo di formazione dello
spazio totemico, precisamente come specie. Che cos’è che le cose sacre
condividono, e la cui condivisione è allo stesso tempo costitutiva per loro
stesse e per il gruppo che si rapporta ad esse? E che legame vi è tra questa
condivisione ed il pensiero concettuale di cui il gruppo si rivela simul-
taneamente capace? La risposta a queste questioni risiede nel ruolo che
Durkheim assegna al mana melanesiano, eretto qui a ‘principio totemico’.
Qui, non è più l’etnografia australiana a sostenere l’analisi, almeno non di-
rettamente. I fatti invocati appartengono piuttosto all’ambito melanesiano,
e, sussidiariamente, all’America del Nord-Ovest (il wakan sioux e l’oren-
da irochese). Resta il fatto che non ci si allontana da quanto lo studio del
churinga aveva potuto mettere in luce – se è vero che quest’ultimo, come
precisano Spencer e Gillen, si applica «altrettanto bene a un oggetto, che
alla qualità che esso possiede»17. Ciò che importa, è in effetti il grado di
astrazione conferito ad una certa qualità, indipendentemente dal suo sup-
porto particolare. Che tale qualità si dica propriamente in una categoria
precisa, come avviene nelle società più complesse di quelle australiane,
non fa che mostrare un carattere centrale delle religioni totemiche quanto
al tipo di correlazione che esse giungono a stabilire:
Ciò che noi troviamo all’origine e alla base del pensiero religioso non sono
oggetti o esseri determinati e distinti, che posseggano da soli un carattere sa-
cro; ma sono poteri indefiniti, forze anonime, più o meno numerose secondo
le società, talvolta anche ridotte all’unità, e la cui impersonalità è strettamente
comparabile a quella delle forze fisiche delle quali le scienze della natura stu-
diano le manifestazioni. Le cose sacre particolari non sono che forme indivi-
dualizzate di questo principio essenziale […] Non vi è forse una sola religione
in cui il mana originario, sia unico che plurimo, si sia risolto interamente in
un numero definito di esseri discreti e incomunicabili tra loro; ognuno di essi
conserva sempre un’aura di impersonalità che lo rende atto a entrare in nuove
combinazioni, e ciò non per una semplice sopravvivenza, ma perché è proprio
della natura delle forze religiose non potersi individualizzare completamente18.
Il punto di vista primitivo mostra che la credenza, nel suo principio, con-
cerne l’impersonale, intendendo con ciò innanzitutto la sua dimensione di
rottura con l’esperienza delle cose date nella percezione. Come interpretare
questo fatto? Secondo Durkheim, le cose sono sacre alla sola condizione
di eccedere la loro dimensione di cose particolarizzate, date una ad una
nell’esperienza come altrettante entità discrete, separate le une dalle altre
e rinchiuse nella loro individualità. Si vede allora come l’impersonalità
non debba essere vista come un deficit di determinazione delle cose, ma
piuttosto come la potenza che le investe permettendo loro di legarsi le une
alle altre, di uscire dal loro modo di datità empirica per comporre tra loro
dei rapporti che spetta poi al pensiero determinare. Solo così può spiegarsi
la continuità stabilita tra il pensiero religioso e il pensiero logico. L’‘aura
d’impersonalità’ che avvolge le cose sacre e che contrassegna in generale il
loro carattere contagioso, deve essere concepito come una fonte di relazio-
ni e non come un fattore di indistinzione.
Non è così, tuttavia, che la tesi relativa alla contagiosità del sacro, di
cui l’ipotesi del mana è il fulcro, è stata in genere letta. Parlare di conta-
giosità contiene infatti un’ambiguità. Grande è allora la tentazione di fare
del sacro una sostanza specifica che, per emanazione, si comunicherebbe
ad altre cose per assicurare il loro legame, e di subordinare in fin dei conti
il pensiero causale stesso ad un principio mistico di partecipazione. Non
è forse in questo modo che la concezione durkheimiana deve esser com-
presa, nella misura in cui essa riconduce espressamente l’idea di causa a
quella di forza, di cui solo l’esperienza affettiva del sacro può spiegare
l’emergenza? Ma allora non si comprende più la sua insistenza, altrettanto
manifesta, sull’idea di impersonalità. Se Durkheim ha messo tanto impe-
gno nel prender le distanze dalle tesi di Lévy-Bruhl, è perché credeva di
gettare sul pensiero logico una luce che il prelogico, incentrato sul concetto
di partecipazione, non offriva. Il mana, interpretato non come un fluido
sostanziale, ma come un’aura d’impersonalità, è per lui un operatore logico
nel senso forte del termine, poiché designa in tutta la sua precisione il pun-
to di rottura senza di cui nessun pensiero generico può svilupparsi: la rot-
tura con la personalità degli esseri, presi nella loro particolarità sensibile,
in quanto cose date ad un individuo isolato. Ricondotto analiticamente al
suo principio attivo, è questo punto ciò che il totemismo avrebbe il merito
di rendere visibile. In ciò esso è il primo capitolo dimenticato, non sempli-
cemente della sociologia delle religioni, ma anche e soprattutto della teoria
della conoscenza.
4. L’intichiuma
Se le forze religiose non hanno mai una sede propria, la loro mobilità può
essere facilmente spiegata. Poiché nulla le unisce alle cose in cui le localiz-
ziamo, è naturale che al minimo contatto esse ne fuggano, per così dire loro
malgrado, e si propaghino più lontano […] Il contagio non è dunque un proce-
dimento secondario in virtù del quale il carattere sacro, una volta acquisito, si
360 Il transindividuale
19 FEVR, pp. 462-463, tr. it. cit., pp. 353-354. Occorre notare che Durkheim è con-
dotto qui a rifiutare una separazione netta tra magia e religione – contrariamente
alla distinzione che aveva dovuto inizialmente operare, riconducendo la religione
ai due concetti di sacro e di Chiesa.
20 FEVR, p. 464, tr. it. cit., p. 355.
B. Karsenti - Il totemismo rivisitato 361
23 Cfr. la nota di Durkheim su Strehlow, FEVR, p. 479. Segnaliamo che per un etno-
logo contemporaneo come A. Testart, questa lettura dell’intichiuma, dipendente
dall’ipotesi di Smith sul pasto totemico, è un ‘fantasma Occidentale’ senza inte-
resse: «È fin troppo evidente che il successo di cui ha goduto l’idea del pasto to-
temico proviene dal fatto che questa idea evocava la comunione cristiana tramite
cui i fedeli consumano il corpo e il sangue del Cristo» (Le communisme primitif,
cit., p. 276).
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5. Comunione e oblazione
bisogno del suo concorso per prelevare la giusta parte sulle cose che egli
riceve dalle loro mani»28?
L’interesse che presenta l’intichiuma non concerne tanto il fatto che esso
conferma l’ipotesi di Smith, quanto piuttosto che esso rende manifesto que-
sto circolo in cui tale ipotesi ha finito per chiudersi. Il totem è ciò che dona
vita all’uomo, ma, affinché ciò avvenga, occorre che l’uomo lo aiuti. Pren-
dendo il partito di interpretare il sacrificio come riattivazione di una parente-
la naturale primaria tra l’uomo e l’animale o la pianta, e scartando perciò le
spiegazioni artificialiste che scommettono sulla costruzione di un rapporto
tra le due istanze, Smith è stato condotto a disgiungere comunione e oblazio-
ne. Ora, se l’intichiuma ha bensì un valore di esperimento cruciale, occorre
però prenderlo in tutto lo svolgimento del suo ciclo. A questo proposito,
s’impone la constatazione del fatto che la prima parte del rituale, aggiunta
alla seconda, pone direttamente il problema di ciò che Durkheim chiama il
‘circolo’ di Smith. Comprendere in modo adeguato l’intichiuma significa
dunque accettare la seguente sfida: in che modo la comunione e l’oblazione
si combinano e si articolano? Quale rapporto c’è tra le due dimensioni della
pratica sacrificale? Porre di nuovo la questione nel 1912, cioè tredici anni
dopo il saggio di Hubert e Mauss, significa suggerire che questi ultimi non
avessero dato una vera risposta. Immediatamente, siamo condotti anche a
chiederci se le Forme elementari non contengano per caso un altro rifiuto
della tesi di Smith, differente da quello ispirato dai due discepoli.
Del sistema sacrificale Durkheim fornisce infatti due spiegazioni, incor-
porate al medesimo testo. La loro compatibilità non è nulla di ovvio, anche
se non vengono presentate come alternative.
La prima cerca di mostrare che l’oblazione è in effetti un dono che i
soggetti fanno alla loro stessa natura di esseri sociali, obiettivata nel totem.
Il senso del gesto è allora quello di sottolineare che gli dei sono mortali e
la fase di aiuto alla fecondità dell’intichiuma indica più o meno implici-
tamente ch’essi morirebbero se il culto non fosse reso loro. E Durkheim,
prolungando tale idea, si sforza di sottolineare il fatto che la loro esistenza
dipende dalla loro rigenerazione nel pensiero, cioè dall’operazione di sim-
bolizzazione stessa, presa come transfert mentale effettuato nelle cose:
Ciò che il fedele dà realmente al suo dio non sono gli alimenti che posa
sull’altare, né il sangue che lascia scorrere dalle sue vene; è il suo pensiero.
Rimane però che tra la divinità e i suoi adoratori c’è uno scambio di buoni uffici
che si condizionano reciprocamente. La regola del do ut des, con cui talvolta si
è definito il principio del sacrificio, non è un’invenzione tardiva dei teorici uti-
litaristici: essa non fa che tradurre in forma esplicita il meccanismo stesso del
sistema sacrificale, e più generalmente di ogni culto positivo. Il circolo additato
da Smith è dunque ben reale; ma non ha nulla di umiliante per la ragione. Esso
deriva dal fatto che gli esseri sacri, pur essendo superiori agli uomini, possono
vivere soltanto nelle coscienze umane29.
Vediamo bene tuttavia che questa insistenza sul pensiero, e ancor più sul
‘dato di pensiero’, non fa che ingrandire l’enigma che i critici di Durkheim,
primo tra i quali Lévi-Strauss, non hanno mai smesso di additare. Se le
cose sociali si fabbricano in questo modo, come descrivere il loro processo
di costituzione in termini indissociabilmente ‘mentali’ e ‘cosali’? Ricadia-
mo nella lancinante domanda: invocando nuovamente la doppia faccia del-
la cosa sociale, sostenendo che essa afferra gli individui solo nella misura
in cui è afferrata da loro, postulando una coappartenenza tra gli uomini e la
società oggettivata, e sottolineando il carattere mentale di questa, non ab-
biamo spezzato il circolo di Smith, non l’abbiamo nemmeno reso intelligi-
bile, ma lo si è semplicemente illustrato. E le difficoltà legate all’ipotesi di
una pura proiezione – in cui quanto si trova all’esterno sarebbe già-sempre
costituito all’interno – ritornano inevitabilmente ad affacciarsi.
Ora, Durkheim non si è per nulla limitato a questa prima spiegazione.
Studiando approfonditamente la prima parte del rituale, la sua fase di mol-
tiplicazione, egli giunge a svelare un altro aspetto, più fecondo, del suo
stesso pensiero. Questo sforzo si concentra, lo vedremo più avanti, nella
sua analisi di questa particolare categoria di riti positivi che costituiscono
ai suoi occhi i riti mimetici, dal punto di vista dei quali l’intichiuma deve
essere, in ultima istanza, valutato.
6. Totemismo o sacrificio
Una volta che mediante la sacralizzazione della vittima il rapporto tra l’uo-
mo e la divinità è stato assicurato, questo viene poi spezzato dal sacrificio con
la distruzione della vittima stessa. Ha luogo così una soluzione di continuità
ad opera dell’uomo; ma siccome egli aveva precedentemente istituito una co-
municazione tra il serbatoio umano e il serbatoio divino, quest’ultima dovrà
automaticamente riempire il vuoto, elargendo lo sperato beneficio31.
30 Cl. Lévi-Strauss, La pensée sauvage, Plon, Paris 1962, pp. 299-300, tr. it., legger-
mente modificata, di P. Caruso, Il Saggiatore, Milano 1971, p. 247.
31 Ivi, p. 298, tr. it. cit., leggermente modificata, p. 246.
370 Il transindividuale
32 Ph. Descola, Par-delà la nature et la culture, Gallimard, Paris 2005, p. 203 e sgg.
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7. Mimetismo
GLI AUTORI
MURIEL COMBES vive in Bretagna dove ormai pratica la filosofia sotto forma
di shiatsu, una pratica terapeutica manuale. È autrice, oltre che dell’opera su
Simondon ripubblicata ora presso le edizioni Dittmar (Paris) dal titolo Simondon,
Une philosophie du transindividuel, di La vie inséparée. Vie et sujet au temps de
la biopolitique, apparsa nel 2011 presso lo stesso editore, e di un pezzo sonoro
sull’amore ed il comunismo intitolato «A coeurs vaillants», che può essere ascoltato
on line sul sito laviemanifeste.com.