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Le Dipendenze

UNA CREATURA CHE TI LOGORA DENTRO


Valentina Spinelli | 10/02/2021
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INDICE

INTRODUZIONE alle dipendenze 1

CAPITOLO 1 ............................................................................................. 4
1. La Storia di San Patrignano 4
1.2 I vari tipi di dipendenze 7
1.3 Testimonianza di un tossicodipendente 9

CAPITOLO 2 ........................................................................................... 11
2. Le nuove dipendenze 11
2.1 Testimonianze 14

CONCLUSIONE ..................................................................................... 19
Bibliografia e Sitografia 19

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LA DIPENDENZA

Cos’è una dipendenza?


La dipendenza è una malattia e si presenta come un gesto di cui non si può fare a meno e nel tempo
provoca una perdita della libertà individuale. Quando si parla di dipendenze si fa riferimento a una
condizione patologica in cui il soggetto non è più capace di gestire e controllare l’abitudine, per cui
si ha un’alterazione del comportamento, che ha come risultante una ricerca spasmodica. La
dipendenza rappresenta una condizione patologica, correlata ad un’alterazione del sistema della
gratificazione e ad una coartazione delle modalità con le quali il soggetto si procura piacere. Essa
può essere suddivisa in fisica e psicologica, anche se nei casi più complessi sono entrambe presenti.

Nel 1973 l’OMS ha definito la dipendenza fisica come: “abitudine o assuefazione a una droga, che
si manifesta con la comparsa di disturbi fisici violenti allorché l’auto somministrazione è interrotta.
Questi sintomi, chiamati ‘sindrome di astinenza’ o ‘di privazione’, costituiscono un insieme
specifico di sintomi psichici e fisici che variano per ciascun tipo di droga”. A volte i sintomi
possono portare anche al decesso.

La dipendenza psichica è stata definita come: “situazione nella quale una droga produce sensazioni
di benessere e una pulsione psichica (spinta incontrollabile) a consumarla in maniera periodica o
continua, al fine di ottenere un piacere o di prevenire sensazioni spiacevoli”.

Oggi si parla moltissimo di “nuove dipendenze”. Esse rappresentano delle “forme di dipendenza
codificate come patogene, in cui non sono implicate le sostanze, ma comportamenti o attività lecite,
socialmente accettate, integrate nella vita quotidiana”, comportamenti caratterizzati da patogenicità
in quanto “si ripetono con maggiore frequenza e con minore possibilità di controllo, tali da divenire
punto focale di ogni azione e pensiero, creando disagi nel lavoro e nella vita quotidiana”.

In breve, vi sono vari tipi di dipendenze che si suddividono in:


 Dipendenza da sostanze, come l’alcolismo e la tossicodipendenza da droghe;
 Dipendenze alimentari (la food addiction costituisce una nuova ipotesi per spiegare il
fenomeno dell’obesità, soprattutto per quanto riguarda i cibi raffinati che possono essere
considerati come una droga)
 Dipendenze comportamentali come il gioco d’azzardo compulsivo, la dipendenza dal
lavoro (workaholism) e lo shopping compulsivo;
 Dipendenze relazionali come la dipendenza affettiva;
 Dipendenze sessuali come la pornodipendenza o il cyber-sex addiction;
 Dipendenze tecnologiche come la dipendenza da internet, dai social network e dai
videogiochi (Internet gaming disorder).
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La dipendenza da videogame “Internet Gaming Disorder” è stata inscritta nella sezione III del
DSM-5 come una condizione richiedente maggiore ricerca clinica ed esperienza prima di essere
considerata per l’inclusione nel manuale, come disturbo formale.

Cosa si può fare?


La dipendenza patologica rappresenta una condizione molto complessa che spesso evolve verso la
cronicità. Sfortunatamente l’approccio utilizzato nella maggior parte dei casi mira alla risoluzione
sintomatologica, ovvero alla cessazione delle condotte di addiction e al recupero delle condizioni
fisiche quando possibile. Tuttavia tale modalità di intervento non sempre è efficace, in quanto non
vengano presi in considerazione gli obiettivi psico-sociali. Il trattamento delle dipendenze necessita
di un intervento psicoterapico e farmacologico. Spesso è fondamentale indagare la motivazione al
trattamento del paziente, infatti essa rappresenta la componente essenziale per la cessazione dei
comportamenti correlati alle dipendenze. La motivazione andrà rivalutata per tutto il corso del
trattamento, in quanto indicatore basilare della possibilità di cambiamento.

I serD:
I SerD sono servizi pubblici per le dipendenze patologiche, indipendenti dai Centri di salute
Mentale. Si occupano della prevenzione primaria, della cura delle dipendenze patologiche, del
reinserimento lavorativo dei pazienti afferenti ad esso e della prevenzione della riabilitazione delle
patologie correlate. Sono generalmente composti da un’equipe multidisciplinare formata da medici
tossicologi, psicologi, infermieri, educatori, assistenti sociali e amministrativi. L’accesso a tale
servizio è completamente gratuito e viene consigliato per qualsiasi condizione di uso e abuso. Gli
operatori sono vincolati al segreto professionale, ad eccezione dell’accesso per pazienti minorenni,
per cui è vincolante il consenso dei genitori per erogare servizi.
L’accesso ai servizi è previsto anche per i familiari, al fine di garantire una presa in carico globale e
fornire indicazioni utili per la gestione della problematica. I serD lavorano sinergicamente con le
comunità terapeutiche dislocate sul territorio e forniscono prestazioni di vario genere finalizzate al
recupero del paziente tossicodipendente. Un esempio di serD è la comunità di San Patrignano.

Le comunità terapeutiche:
Le comunità terapeutiche sono nate in Italia intorno agli anni ’70 da gruppi di volontari e religiosi,
ma hanno avuto il loro massimo sviluppo negli anni ’90. All’inizio l’idea era quella di aiutare il
tossicodipendente orientandolo verso una maturazione e crescita psicologica (l’aiuto è di tipo
psicologico e non medico). Il tossicodipendente doveva mirare a diventare un “adulto”, capace di
fronteggiare i problemi senza l’aiuto delle sostanze.
Solo recentemente si è rivalutata la necessità di introdurre plurimi interventi professionali, oltre a
quelli educativi.
Si accede alle comunità terapeutiche per mezzo di un invio da un servizio pubblico che richiede la
presa in carico del paziente, formulando un progetto di cura ad hoc. A quel punto la comunità
terapeutica, formata quasi sempre da un’equipe multidisciplinare, valuta l’ammissibilità del
soggetto.
L’equipe è generalmente composta da un responsabile, uno psicologo/psicoterapeuta, uno
psichiatra, un tossicologo, educatori e un infermiere.
All’interno della comunità vi sono pazienti con dipendenze patologiche di vario genere. Possono
essere: miste (uomini donne), per minori, per mamme tossicodipendenti con figli.
Il percorso riabilitativo prevede un lavoro orientato sia al miglioramento del disagio, che alla
valorizzazione delle risorse. Nella prima fase del percorso è prevista una fase in cui il paziente
sperimenterà una fase di distacco dall’ambiente precedente e impara ad adottare uno stile di vita
differente, in cui il confronto di gruppo con gli altri avviene attraverso varie attività (gruppi,
confronti, incontri periodici).

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CAPITOLO 1 - La storia di San Patrignano -

La storia di San Patrignano


Un cammino di rinascita
Non voglio che qualcuno comperi un oggetto realizzato a San Patrignano solo perché “lo hanno
fatto i drogati”, così come si comperano oggetti per fare beneficenza. No, voglio che acquistino i
nostri prodotti perché sono buoni, belli e di qualità. Ed è proprio questa ricerca della qualità che
deve stare alla base del nostro programma, a dimostrazione del successo di un cammino di
rinascita e alla quale deve essere commisurato tutto il nostro impegno.
Vincenzo Muccioli

San Patrignano è una Comunità di vita, che accoglie


tossicodipendenti ed emarginati affinché ritrovino la
propria strada attraverso un cammino di recupero. È
nuova vita per le famiglie di chi soffre, che trovano
conforto e sostegno nella guida esperta e affidabile della
Comunità e dei volontari. È impegno per una società
migliore attraverso i molti progetti di prevenzione.
La comunità di San Patrignano è una comunità di
recupero di tossicodipendenti d’Italia. Fu fondata nel
1978 da Vincenzo Muccioli e prese il nome dalla strada
del comune di Coriano in provincia di Rimini dove ha
sede.
Nell’Italia degli anni Settanta questo voleva dire soprattutto tossicodipendenza, un problema di
fronte al quale non esistevano all’epoca risposte concrete ed efficaci. Nel 1978 viene costituita la
cooperativa di San Patrignano che aveva
come obiettivo principale quello di fornire
assistenza gratuita ai tossicodipendenti e agli
emarginati. Lo scopo era di creare un luogo
dove la qualità del rapporto e delle relazioni
fra le persone riproducesse la profondità e
l’intensità di un vero nucleo familiare. Quella
di San Patrignano è però una storia costellata
di delitti. Nel corso della sua vita, Vincenzo
Muccioli ha dovuto affrontare due processi.
Il primo ebbe inizio col rinvio a giudizio nel
dicembre del 1983 e terminò con la condanna
nel febbraio di 1985, per sequestro di persona
e maltrattamenti per avere incatenato alcuni giovani della comunità. Nello stesso anno la Comunità
acquista una grande visibilità in Italia e all’estero. Si consolida una rete di associazioni di
volontariato antidroga sul territorio. Nel 1990 San Patrignano è riconosciuta come Fondazione ed
Ente Morale dallo Stato italiano, in seguito all’atto di donazione con cui Muccioli e la sua famiglia
cedono in donazione tutti i propri beni immobiliari alla Comunità. Nel 1994 Muccioli viene
condannato a otto mesi di carcere per favoreggiamento e per l’assassinio di Roberto Maranzano.
Furono scoperti alcuni suicidi, come quelli di Natalia Berla e Gabriele De Paola e di Fioralba
Petrucci. Tutte e tre le persone si sono suicidate mentre si trovavano in clausura punitiva all’interno
della comunità, gettandosi dalle finestre delle stanze in cui erano chiuse. Nel 1995 Vincenzo
Muccioli muore e la Comunità chiede al figlio Andrea di succedergli. Nel 1996 nasce l’associazione
internazionale “Rainbow – international movement against drugs”.
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Nel 1997 San Patrignano è accreditata come organizzazione non governativa (NGO) presso le
Nazioni Unite con lo status di “Consulente speciale presso il Consiglio economico e sociale
dell’Onu”. Dal 2002 la comunità organizza interventi di prevenzione a livello nazionale e nelle
scuole con format teatrali di peer to peer education e prosegue l’accoglienza di gruppi di studenti da
tutta Italia per visite di conoscenza e approfondimento.
Oggi San Patrignano non è più quella degli
anni Settanta, grazie anche alle innovazioni
tecnologiche e gli studi riguardo a questa
patologia. La comunità offre ai ragazzi di
imparare una professione e attraverso il
lavoro quotidiano ogni persona può mettersi
in gioco affrontando i propri limiti e
scoprendo o ritrovando le proprie
potenzialità. Ogni anno si svolgono a San
Patrignano campionati interni di calcio, di
basket e di volley, per un totale di circa 100
partite e 190 ore di allenamento per
disciplina. La comunità presenta una squadra di calcio che partecipa al campionato di seconda
categoria, una di basket che prende parte alla prima divisione e una di pallavolo che partecipa al
torneo Csi.

IL METODO DI RECUPERO
L’accoglienza in comunità
Per essere accolti in Comunità si possono seguire tre diverse modalità: tramite le associazioni di
volontariato legate a San Patrignano e presenti in gran parte del territorio nazionale, contattando
direttamente l’ufficio accoglienza della Comunità. Per far fronte a situazioni di criticità che non
consentono l’ingresso immediato, San Patrignano ha attivato a Botticella un centro di prima
accoglienza, incentrato sulla terapia comportamentale, che riconduca l’individuo alla propria
autonomia dove le persone passano un periodo iniziale di circa un mese con l’obiettivo di
sperimentare la vita comunitaria.

Un percorso educativo
Il percorso terapeutico è essenzialmente educativo e riabilitativo. La persona non viene considerata
affetta da una “malattia” e non vengono utilizzati trattamenti farmacologici per la dipendenza. Sono
invece attuati interventi psicoterapeutici se necessario.

Programma individuale
Il programma di recupero è personalizzato e varia a seconda delle diverse caratteristiche e necessità
di ogni singolo individuo. Non esistono quindi step terapeutici definiti. Tuttavia, considerate le
problematiche e la necessità viene sviluppato un programma di recupero a lungo termine. La durata
minima è di tre anni.

L’importanza del gruppo


Quando un ragazzo entra in comunità, viene inserito in uno dei settori di formazione in cui San
Patrignano è suddivisa. Qui è affidato a un ragazzo che diventa suo tutor e che nel primo anno di
comunità (tempo variabile da ragazzo a ragazzo) lo segue costantemente nel suo percorso. Il
ragazzo vive in stanza assieme al tutor e ad altri ragazzi. Ogni stanza ha un suo responsabile, così
come ogni settore ha uno o più educatori di riferimento.

Le tappe del percorso

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La crescita della persona avviene attraverso il confronto quotidiano con i compagni e i responsabili
di settore (educatori professionali). Attraverso il confronto emergono le criticità e le fragilità
dell’individuo, che vengono di volta in volta analizzate ed affrontate. Ad ogni ragazzo, durante il
percorso, sono affidate col tempo maggiori responsabilità (attività sportive, artistiche, culturali).
Col passare del tempo egli stesso diviene tutor di un’altra persona. In questo modo gli ospiti della
comunità recuperano, giorno dopo giorno, il piacere di sentirsi utili a sé stessi e agli altri,
sperimentando nuove forme di gratificazione, opposte a quelle illusorie offerte dalle droghe. Come
in ogni gruppo che si rispetti, anche in questa comunità sono presenti delle norme per una
civile convivenza, nel rispetto di sé stessi, degli altri e dell’ambiente.

Formazione e studio
San Patrignano presenta oltre 50 settori di vita e formazione, dove i ragazzi vengono inseriti in base
alla disponibilità di persone che possano affiancare il nuovo entrato e in base alla sua propensione.
Imparare al meglio una professione consente ad ogni ragazzo di crescere nell’autostima e nei
rapporti interpersonali. È inoltre una chiave d’accesso per reinserirsi a pieno nella società.
Parallelamente ad ogni ragazzo viene data la possibilità di riprendere gli studi abbandonati in
passato ad ogni livello e grado scolastico.

Rapporto con la famiglia


Durante il percorso si cerca anche di ricostruire il rapporto fra il ragazzo e la sua famiglia.
Inizialmente è previsto un distacco, ad eccezione di una corrispondenza epistolare. Alla famiglia è
consigliato di seguire un percorso parallelo a quello del figlio frequentando una
delle associazioni presenti in tutta Italia legate a San Patrignano. Dopo circa un anno (dipende dal
ragazzo) la famiglia può fare la prima visita in comunità. Incontri che poi diventano tre o quattro
all’anno. Dopo i primi tre anni circa il ragazzo tornerà per la prima volta a casa per circa dieci
giorni.

Riflessione personale
Il gruppo di San Patrignano può essere definito come un gruppo secondario extrafamiliare,
fondamentale per i ragazzi che entrano in comunità. Infatti per il tossicodipendente può diventare
una seconda famiglia. San Patrignano è l’esempio di quanto un gruppo coeso possa salvare la vita
di una persona. Come dimostra Kurt Lewin, un gruppo è una tonalità dinamica, cioè un insieme
che rappresenta qualcosa di più della semplice somma degli individui che lo compongono, con lo
scopo di conquistare o mantenere l’equilibrio. Inoltre in un gruppo la confidenza, il rispetto e
il supporto reciproco non devono mancare mai e il desiderio dev'essere comune come anche
gli interessi. Questo è quanto ho appreso, dopo una approfondita ricerca inerente alla storia di
San Patrignano. Ovviamente, come ogni tipo di gruppo anche quello della comunità ha un risvolto
della medaglia, il cosiddetto “lato oscuro dei gruppi”, che può sfociare nella violenza. Questi tipi
di violenza sono stati resi noti anche grazie a una docuserie di Netflix intitolata “Sanpa” nella
quale il fondatore Vincenzo Muccioli, un uomo controverso accusato di aver violentato, ucciso e
distrutto la vita di molti ragazzi. Sicuramente egli fu una figura complessa che ha sbagliato molto
ma ha anche salvato migliaia di persone. In fin dei conti solo chi ha vissuto quel dramma, chi ha
visto figli e amici logorati da questa “malattia” può guardare questa serie con occhi oggettivi
perché il fine a volte può giustificare i mezzi.

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- I vari tipi di dipendenze -

Le dipendenze da sostanze
Il tabacco

Il tabacco arrivò in Europa in seguito alle esplorazioni di Colombo. Le prime informazioni sul fumo
di tabacco si trovano nella “Storia generale delle Indie” di Bartolomeo della Casas. Per i Maya e i
pellirossa il tabacco aveva un valore religioso, in quanto arderlo significava rendere omaggio al Dio
Balan. Nel 1700 si arrivò ad attribuire al fumo di tabacco capacità medicinali: era considerato utile
per combattere la peste, le ulcere gastriche e le polmoniti e sulle carie dentarie. Fu tra le guerre
mondiali che quello che era solo un vizio divenne una vera e propria piaga sociale. Il fumo può
essere passivo, il quale viene involontariamente respirato in ambienti in cui sono presenti persone
che fumano e volontario. Quest’ultimo è sicuramente il più rischioso e riguarda volontariamente chi
fa uso in prima persona del fumo.

Il tabagismo
Il tabagismo è l’atto di bruciare le foglie secche
della pianta del tabacco inalarne i fumi derivanti
crea piacere e dipendenza. Il consumo eccessivo
del tabacco è la prima causa di morte nel mondo e
prima causa di morte evitabile (sempre nel
mondo). Vi sono varie modalità di consumo del
tabacco. Ad esempio, la sigaretta, il sigaro, la pipa
e il narghilè. La sigaretta è un prodotto
confezionato ricavato dalle foglie del tabacco che
vengono tagliate in striscioline sottili e in seguito
arrotolate e compresse in un rivestimento di carta.
Una sigaretta contiene più di 4000 elementi chimici, 60 di questi aumentano in mondo
statisticamente rilevabile il rischio di contrarre gravi malattie. Il sigaro è un fascio stretto di foglie
di tabacco secche e fermentate. A differenza della sigaretta, il sigaro non viene aspirato, ma
comunque rimane una pratica con dannose conseguenze. La pipa è composta dalla camera dove
avviene la combustione (il fornello), da un sottile stelo forato (il cannello) e da una parte terminale
chiamata bocchino che si inserisce nel cannello tramite un perno. Il narghilè è un particolare tipo di

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pipa ad acqua. Confrontato con il fumo di sigaretta, quello di narghilè ha effetti meno dannosi,
tuttavia il suo uso prolungato può creare notevoli disturbi all’apparato respiratorio.

L’Alcool
Il termine alcool è usato per identificare tutte le
sostanze che contengono etanolo. È preparato da
secoli facendo fermentare o distillare carboidrati:
attraverso la loro fermentazione si ottengono
bevande dalla gradazione alcolica non superiore al
15%. L’abuso di alcool è la causa del 50% degli
incidenti stradali, infatti è sufficiente una piccola
quantità di questa sostanza per ridurre riflessi,
annebbiare la vista e provocare colpi di sonno al
guidatore. Le conseguenze dirette dell’abuso di
alcool causano tumori al fegato, allo stomaco, all’esofago, all’intestino, al pancreas, alle disfunzioni
circolatorie, patologie gravi alla corteccia celebrali, delirio cronico di gelosia, disturbi mentali e
comportamentali. Mentre le conseguenze indirette sono la causa dei suicidi, depressione, traumi o
morte ed invalidità permanenti a seguito di incidenti.

Le droghe
La Conferenza di Vienna del 1971 ha definito
come “droga” o “sostanza stupefacente” qualsiasi
sostanza naturale o sintetica capace di modificare
l’attività psichica. Rispetto all’origine le droghe
vengono classificate in: naturali, semisintetiche e
sintetiche. Le droghe naturali sono ricavate
direttamente dalle piante come l’oppio, marijuana
e hashish. Le droghe semisintetiche sono ottenute
in laboratorio partendo da una sostanza
originariamente naturali come la morfina e la
cocaina ed infine le droghe sintetiche ricavate esclusivamente da processi chimici come le
anfetamine. In base agli effetti delle droghe, queste vengono classificate in:
Neurodeprimenti, cioè sostanze che deprimono il sistema nervoso centrale (S.N.C.) con effetto
rilassante come l’oppio e derivati, barbiturici, benzodiazepine, alcool etilico. Gli psicostimolanti,
cioè sostanze che danno un effetto iniziale di eccitazione e stimolo eccessivo sul S.N.C sono la
cocaina e l’anfetamina. Gli allucinogeni, che distorcono la realtà con alterazione del senso, del
tempo e dello spazio, perdita di capacità di giudizio e alterazione della percezione del suono e del
calore come L.S.D., derivati della cannabis e derivati delle anfetamine.

La dipendenza e l’astinenza
La dipendenza si ha quando chi fa uso di droga non può smettere di usarla. La droga porta
lentamente all’assuefazione, cioè al bisogno di dosi sempre maggiori per ottenere lo stesso “senso
di benessere”, fino ad arrivare all’overdose, cioè al massimo dosaggio di droga, che in molti casi
provoca la morte. Quando si interrompe il consumo di droga, in seguito a una dipendenza fisica, si
verifica una crisi di astinenza con vomito, tremore, sudorazione, insonnia e convulsioni. Quando
una persona con una dipendenza psicologica da droga non ne assume, entra in uno stato di disagio
che si manifesta con vari sintomi psichici: cattivo umore, nervosismo, ansia, tremore, malessere
generale e tanti altri sintomi.

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Testimonianza di una ragazza dipendente dalle droghe
San Patrignano, la storia di Annalisa che ha chiuso con l'eroina

L'emergenza droga, in Italia, è un fenomeno in aumento


anche tra le donne. Sono sempre più giovani quelle che
vivono esperienze di tossicodipendenza. Annalisa ha
iniziato a 14 anni e si è salvata grazie a San Patrignano.
Ci ha raccontato la sua storia. Quando ha fumato la
prima canna aveva 14 anni, dopo qualche mese è passata
alla prima tirata di eroina. Parla spedita Annalisa, che
oggi ha 26 anni e vive all’interno della comunità di San
Patrignano, mentre ripercorre gli anni della sua
tossicodipendenza, un brutto film di cui è riuscita a
cambiare il finale.

«Anche se è stata durissima, soprattutto superare


l’astinenza. Ogni giorno speravo fosse l’ultimo».

Prima di arrivare a San Patrignano Annalisa ha smesso


di andare a scuola, è scappata di casa, ha trascorso diversi mesi in strada, poi il suo corpo le ha detto che
non ce la faceva più a smaltire tutta quella droga ed è finita in ospedale.

«Me la ricordo la prima tirata di eroina, ero in macchina con dei ragazzi più grandi di me, mi erano
passati a prendere da casa mia a Città di Castello la sera tardi. Mia mamma si era addormentata e
sono uscita senza che se ne accorgesse. Non sapevo che stessimo andando a Perugia per comprare la
droga, l’ho capito quando ci siamo fermati in un parcheggio e l’ho provata».
È iniziata quella notte la sua dipendenza. «Mi avevano detto che era solo un assaggino, perché ero una
ragazza, poi invece tutte le sere da quel momento in poi le ho passate con loro e non ho più smesso. La
sensazione che ho provato tirando l’ho bene in mente ma non so esprimerla a parole, mi sentivo forte,
una in gamba. In realtà ero solo stupida».

A casa, in quella famiglia che Annalisa descrive come tranquilla, anche se suo padre aveva problemi di
vario genere e sua madre stava affrontando una dura malattia, i suoi genitori si erano accorti di tutto.

«Mia madre sapeva ma non voleva vedere, sperava che quel momento finisse. Io invece cercavo sempre
più adrenalina, volevo fare sempre qualcosa in più. Mio padre aveva capito cosa stava accadendo ma
non sapeva come aiutarmi. Per dirmi che sbagliavo mi picchiava».

In Italia, il ritorno dell’eroina e la diffusione delle droghe sintetiche è un fenomeno in grave aumento.  In
questo panorama il dramma della tossicodipendenza ha interessato un numero crescente di donne,
l’abuso di droghe al femminile è oggi un fenomeno senza precedenti. Sono sempre di più, infatti, le
studentesse delle scuole secondarie superiori che sperimentano sostanze psicoattive illegali (30 per
cento), con un aumento considerevole nel consumo di sostanze definibile «ad alto rischio», come la
poli-assunzione o l’uso quotidiano.

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«Dopo alcuni mesi dall’inizio del consumo di droghe ho deciso di andare a lavorare. La vita da tossico
è costosa e volevo essere indipendente. Ho lavorato in fabbrica per tutta l’estate ma quando mi sono
accorta che fare l’operaia era molto faticoso ho chiesto di tornare a scuola. Ho iniziato a lavorare la
sera come cameriera mentre il giorno studiavo. Quando non avevo abbastanza soldi per comprarmi la
droga rubavo».

La prima volta Annalisa ha sottratto soldi in casa, poi ha preso l’oro a sua madre.

«Ero sempre meno lucida, sono iniziati così i primi furti a persone fuori casa, la polizia mi cercava, la
mia vita era diventata una corsa contro il tempo e contro tutti».

È stato quando è scappata di casa che la situazione è precipitata.

«Avevo venduto il mio cellulare, chiamavo mia madre ogni tanto da una cabina telefonica per dirle che
ero viva. Poi un giorno sono svenuta in mezzo a un parco, era caldissimo. Mi sono risvegliata dopo
alcune ore e mi sentivo le gambe paralizzate. Ho pensato fosse l’astinenza quindi sono andata a farmi
ancora ma la situazione non è migliorata. Ho iniziato a vomitare, solo la bile perché non  avevo cibo
in corpo, ero magrissima. Per paura ho chiesto a un ragazzo di prendermi in spalla e portarmi in
ospedale».

Così è iniziata la rinascita di Annalisa, che non aveva ancora nemmeno 20 anni.

«Facevo dentro e fuori dall’ospedale, mi rimettevano in piedi, io tornavo a drogarmi e stavo male di
nuovo. Poi un giudice in tribunale mi diede un numero di telefono e mi disse di chiamare.  Era San
Patrignano».

Entrare in comunità non è stato facile.

«Una mattina ho chiesto a mia mamma di portarmi lì, ho fatto la valigia e siamo partite. Davanti al
cancello, ho suonato e detto che volevo avere informazioni, che volevo entrare ma mi hanno spiegato
che serviva un appuntamento».

Così è iniziato il percorso di pre-accoglienza di Annalisa, fatto di tante telefonate e una lunga attesa.

«Volevano vedere se ero davvero motivata, dopo alcune settimane ho avuto un colloquio con il
direttore, eravamo in un bar. Al termine della nostra chiacchierata mi ha detto che potevo iniziare».
Da subito Annalisa è stata sottoposta allo scalaggio del metadone e di tutti i farmaci che assumeva.
«L’astinenza è stata terribile. Dopo diversi giorni mi hanno detto che ero pronta per entrare e ho
iniziato a sorridere».

Oggi Annalisa è al termine del suo percorso.

«Sono trascorsi quattro anni e cinque mesi, un periodo in cui ho affrontato un lungo percorso
psicologico e fisico che mi ha portata ad essere una persona nuova. Ho superato l’anoressia ma
soprattutto la paura di affrontare i problemi. Continuo a vivere in comunità perché voglio rendermi
utile e restituire quello che mi è stato dato. Qui mi hanno salvato la vita, ci resto ancora un po’, poi
vado».

Grazie a una borsa-lavoro oggi Annalisa lavora in sartoria, controlla la produzione e assiste le sue
compagne.

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«Sono impegnata anche nel sociale, tutte le sere c’è qualcuno che è triste, che vorrebbe tornare a casa,
io cerco di stargli vicino. Non abbasso mai la guardia, so che i problemi arrivano tutti i giorni ma
adesso ho imparato a vedere subito la soluzione».

La comunità di San Patrignano accoglie da 40 anni ragazzi e ragazze con gravi problemi di droga in
maniera completamente gratuita e senza richiedere alcun contributo alle loro famiglie né rette allo Stato.
Dalla sua apertura ha aiutato oltre 3400 donne di tutte le età, dai 13 ai 52 anni.

CAPITOLO 2 - Le nuove dipendenze -

Le nuove tendenze tra i giovani

Negli ultimi decenni, tra la nuova generazione, si sono ideati nuovi fenomeni estremi come
eyeballing, noto anche come “l’ultimo sballo, il choking, il balconing e il binge drinking.
Eyeballing è un fenomeno che prevede di versare i superalcolici come se fossero gocce di collirio
negli occhi per raggiungere in pochi minuti lo "sballo“. Gli occhi si spalancano, si fa aderire il collo
della bottiglia o il bordo del bicchiere pieni di alcol e si versa. Spesso i giovani non sanno i rischi
cui vanno incontro perché, se ubriacarsi fa malissimo, assorbire superalcolici dagli occhi, può
rendere ciechi in modo definitivo. Se si mette il collo della bottiglia sul bulbo oculare e si applica
una pressione, l'occhio risulta immediatamente danneggiato sia per un danno meccanico diretto alla
cornea, sia attraverso una ischemia dovuta allo scarso afflusso del sangue a causa della
compressione. Mentre il choking consiste nel soffocarsi impedendo all’ossigeno di arrivare al
cervello. Il mancato afflusso di ossigeno al cervello provoca danni irreparabili ai neuroni e può
generare asfissia e la morte del soggetto. Il balconing è un'attività che consiste nel saltare da un
balcone o da una finestra posti a un piano elevato direttamente all'interno di una piscina o di un
altro balcone mentre si è ripresi da una telecamera. Tale attività viene solitamente effettuata sotto
l'effetto di alcool e droghe e, a causa della sua elevata pericolosità, causa molti morti e feriti tra chi
la pratica. Il binge drinking è l’assunzione di più bevande alcoliche in un intervallo di tempo
brevissimo. L’obiettivo è quello di raggiungere l’ubriacatura immediata e la perdita del controllo.
Durante queste bevute compulsive, i partecipanti consumano un minimo di 5 o 6 bicchieri di
sostanze molto alcoliche che vengono assunti in modo quasi consecutivo ed estremamente rapido.

Le nuove dipendenze
Le nuove dipendenze comprendono tutte quelle nuove forme di dipendenza in cui non è implicato
l’uso di alcuna sostanza chimica. Le nuove dipendenze si manifestano attraverso le esperienze
tecnologiche virtuali (internet, giochi di ruolo ecc.) in cui l’individuo si sente potente di poter fare
tutto negli spettacolari scenari dei videogiochi, mentre nella vita reale si sente a disagio e incapace
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di agire come vorrebbe. Gli elementi comuni tra nuove e vecchie dipendenze sono: l’impossibilità a
resistere all’impulso di mettere in atto il comportamento, la sensazione crescente di tensione che
precede l’inizio del comportamento (craving), il piacere durante la messa in atto del
comportamento, la percezione di perdita di controllo e la persistenza del comportamento nonostante
la sua associazione a conseguenze negative. Le nuove dipendenze sono ad esempio: le dipendenze
da telefonino, dal gioco d’azzardo online, da videogiochi e da internet o social network.

Le dipendenze dallo smartphone


Nel ventunesimo secolo, successivamente
all’invenzione dello smartphone ha reso le
persone: dipendenti da SMS, ovvero il continuo
bisogno di inviare e ricevere messaggi. I
dipendenti dall’ultimo modello di smartphone,
ovvero coloro che cambiano in continuazione
modello del cellulare acquistando quelli più
accessoriati e innovativi. I cosiddetti “esibizionisti
del cellulare” che scelgono con accuratezza
design, colore e prezzo del loro cellulare. Un’altra
categoria denominata “Game Players” trasformano il loro telefonino in una “consolle”,
riempiendolo di giochi. Poi ci sono quelli affetti da “SCA” cioè i soggetti colpiti dalla “sindrome da
cellulare acceso” e hanno il terrore che il telefonino si spenga e perciò sono spesso attrezzati con
batterie cariche di scorta.

Le dipendenza da videogiochi
In questo tipo di dipendenza il soggetto tende ad
identificarsi con il personaggio-eroe del gioco
elettronico, alimentando una sorta di confusione
tra la realtà e il mondo virtuale. L’uso eccessivo di
questi dispositivi può causare all’individuo dei
problemi sia fisici che psicologici. La dipendenza
è particolarmente frequente tra gli adolescenti.

Le dipendenza da relazioni virtuali


Si definisce come il bisogno di instaurare relazioni
di amicizia o amorose con persone incontrate on-
line. Le applicazioni maggiormente utilizzate sono
i social network. Progressivamente le relazioni
virtuali divengono più importanti di quelle reali e
il soggetto tende ad isolarsi. Alcuni segni clinici
per riconoscere la dipendenza sono: il bisogno di
passare molto tempo in rete per instaurare
relazioni, la perdita di interesse nei confronti delle
relazioni reali e l’isolamento dalla realtà.

La dipendenza da gioco d’azzardo online

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Gli aspetti caratteristici della dipendenza da gioco
d'azzardo online sono: l’accessibilità offerta da
internet e all’aumento di casinò virtuali e siti di
giochi online, infatti il giocatore online, potendo
collegarsi da casa, in tal modo il soggetto può
progettare la sua privacy e collegarsi in modo
anonimato.

La dipendenza dallo shopping compulsivo


Il disturbo da shopping compulsivo, è
caratterizzato dal ripetersi di episodi nei quali la
persona sperimenta un impulso irrefrenabile a fare
acquisti inutili o eccessivi ma che non riescono ad
essere evitati. Le persone più a rischio sono le
donne in un’età compresa tra i 20 e i 30 anni,
ovvero l’età in cui si conquista un’indipendenza
economica. Inoltre, lo shopping compulsivo è
frequente in persone affette anche da altre
patologie, in particolare disturbi dell’umore, ansia,
disturbi del controllo degli impulsi e disturbi da
uso di sostanze.
La dipendenza affettiva
La dipendenza in una relazione di per sé non è
patologica. Anzi, è normale, soprattutto durante la
fase dell’innamoramento. Il desiderio di
dipendenza dovrebbe diminuire con lo stabilizzarsi
del rapporto lasciando nella coppia una piacevole
percezione di autonomia. Invece quando
la dipendenza è affettiva e disfunzionale è
definibile come uno stato patologico in cui la
relazione  di coppia è vissuta come condizione
unica, indispensabile e necessaria per la propria esistenza. Diventa così un’importante da annullare
sé stessi. Tale meccanismo viene perpetuato per evitare di affrontare la paura più grande: la rottura
della relazione. È una condizione relazionale negativa che tende a creare malessere psicologico e
fisico.
La dipendenza sessuale

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La dipendenza sessuale, nota come ipersessualità,
riguarda un insieme di condizioni
psicopatologiche caratterizzate da fantasie
sessuali associate a perdita di controllo sui
comportamenti sessuali. Tali comportamenti
sessuali infine creano disagio a tal punto da
interferire con il funzionamento sociale,
lavorativo e relazionale. Il soggetto mette in atto una serie di comportamenti al fine di ridurre la
dipendenza sessuale ma non vi riesce, comportando così forti sentimenti di colpa e vergogna a
seguito della perdita di controllo sugli stessi.
La dipendenza da farmaci
La dipendenza da farmaci può essere solo psichica
o psichica e fisica insieme. Essa è di solito
associata al fenomeno della tolleranza. La
Dipendenza da Farmaci è una seria forma di
dipendenza psico-fisica provocata e tenuta attiva
dall'assunzione ripetuta ed eccessiva dei farmaci
stessi.

Testimonianza di Francesca, un ex dipendente dal gioco d’azzardo


Quando la costanza della ragione vince sul demone
Francesca, 34 anni, ha rilasciato questa intervista alla fine del suo programma terapeutico, durato un
anno e mezzo, per un problema di gioco d’azzardo patologico. L’inizio lei lo descrive così:

È difficile per me individuare con esattezza il momento in cui mi sono avvicinata al gioco d’azzardo.
Senz’altro, il gioco d’azzardo, seppure in forma non patologica, è sempre stato presente nella mia vita.
Quando ero piccola, mia mamma gestiva una pizzeria assieme a suo fratello e il sabato, per non
lasciarmi sola, mio papà mi portava con sé a casa dei suoi amici, dove trascorrevano lunghe ore a
giocare a poker. Era un’atmosfera affascinante: non giocavano grosse somme, era un hobby del fine-
settimana, nulla di più, però era intrigante vedere questi uomini che aprivano la gara con un rituale
ben preciso, ognuno con le sue piccole scaramanzie, il silenzio quasi religioso, che accompagnava
questi momenti e il gergo fatto di parole quali passo, chip, buio, ecc. con il quale comunicavano tra
loro. Erano molto signorili nelle loro partite, era difficile vedere qualcuno che si lasciasse andare a
qualcosa di più volgare, che non fosse il buttare le carte sul tavolo, deluso, quando il gioco a cui
miravano non aveva avuto seguito. E poi, quando papà vinceva, una parte dei soldi finiva a me, il che
non mi pareva assolutamente deprecabile. Io iniziai a giocare a carte verso i 18 anni, ma non mi dava
la stessa sensazione che mi aveva dato vedere giocare mio padre: l’ambiente era diverso ed i miei
compagni di gioco non possedevano la stessa signorilità di quelli di mio padre. Ed infatti, dopo alcuni
anni, le mie giocate si diradarono fino a cessare del tutto. Nel frattempo, avevo incontrato il mio futuro
marito, con il quale mi sposai all’età di venticinque anni. Eravamo un bella coppia, economicamente
stabile. Grazie all’aiuto dei miei, io ero riuscita ad acquistare un negozio di abbigliamento che
funzionava molto bene, mentre lui, ingegnere, aveva un lavoro che lo gratificava molto da tutti i punti
di vista, sebbene lo costringesse a lunghe assenze da casa. Non mancava nulla. Figli per il momento
non ne volevamo, ed eravamo visti come una coppia fortunata.

Il mio primo approccio con il casinò avvenne cinque anni dopo: avevamo deciso di seguire alcuni
nostri amici che vi avevano programmato una gita. Per me, fu l’inizio di un’esperienza drammatica, ai

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limiti della sopportabilità umana. Mio marito quella sera, si dedicò alla roulette ma, razionale com’è
sempre stato, credo che non avesse puntato più di cento mila lire. A me, invece, quel gioco non piaceva.
Non mi piaceva la calca di gente attorno a quel tavolo, né l’esultanza eccessiva di chi aveva vinto.
Provai con le slot machine. Mi incollai davanti ad una macchinetta, e non mi mossi più, fino a quando
non venne mio marito a dirmi che tornavamo a casa. Non me n’ero accorta, ma ero rimasta a quella
maledetta macchina per oltre quattro ore, ed avevo speso tutto il budget previsto per quella serata. Ero
rimasta folgorata. Ricordo che, sulla strada del ritorno, mio marito mi prese bonariamente in giro
dicendo che se non mi staccava da lì, ero capace di giocarmi anche il negozio. Purtroppo in
quell’occasione, mio marito fu un buon profeta. Nei giorni seguenti, ripresi la monotonia del lavoro,
con mio marito di nuovo in trasferta per tre settimane, il mio pensiero tornava spesso alle slot machine.
No, non m’interessava assolutamente vincere: a me piaceva ricordare quel tempo trascorso davanti
alla macchina, per il modo in cui ero riuscita a distrarmi dal solito tran tran quotidiano, per il modo in
cui ero riuscita a dimenticarmi di tutte le preoccupazioni. E decisi di tornarci, da sola. Due sabati dopo
la mia apparizione in un casinò, vi tornai da sola. Mi dicevo che, in fondo, era solo un modo per
trascorrere la serata, in cui altrimenti non avrei avuto niente da fare. Però non lo dissi a mio marito.
Quella sera, in otto ore davanti alla macchinetta, senza alzarmi nemmeno per andare in bagno, persi
oltre un milione. Tornando a casa mi dissi che forse era un passatempo un po’ troppo costoso, ma in
fondo, di soldi ne avevo più che a sufficienza, e non mi procurai eccessivi sensi di colpa. Purtroppo, da
quel momento in poi, le mie uscite in solitaria al casinò divennero via via più frequenti. All’inizio con
scadenza settimanale, poi ogni due o tre giorni. E perdevo sempre e sempre di più. Dopo sei mesi,
iniziai ad avvertire i primi problemi di tipo economico. Il negozio rendeva ancora bene, ma le uscite
erano eccessive. Iniziai ad incolpare di questo fatto il mio ignaro marito, sostenevo tra me e me che se
lui avesse trascorso più tempo in casa, io non sarei stata costretta ad andare a giocare, però quando lui
non era costretto ad assentarsi per lavoro, mi dava fastidio che io non potessi andare al casinò. Mio
marito scoprì tutto in un colpo. Avevo imparato a non portare con me il bancomat o la carta di credito,
quando andavo a giocare. Lo avevo fatto alcune volte, ed avevo veramente perso troppo. Così una sera
uscii per andare al casinò. Non avevo abbastanza benzina per fare andata e ritorno, e mi ero
ripromessa di fare rifornimento all’andata. Ma la voglia di raggiungere la mia meta era troppa e decisi
quindi di fermarmi al ritorno. Come succedeva ormai da parecchio, anche quella sera persi tutto quello
che avevo con me. Tentai lo stesso di raggiungere casa, ma ad un certo punto la macchina si rifiutò di
continuare. Ero sola, senza soldi, in mezzo ad una strada di montagna (non avevo potuto prendere
l’autostrada perché non avrei avuto modo di pagarla), così non mi rimase altra alternativa che
chiamare una mia amica col cellulare, alle quattro del mattino, chiedendole di venirmi a prendere.
Dovetti per forza di cose, spiegarle come erano andate le cose. Due giorni dopo, mio marito era al
corrente dell’accaduto e vi fu una violenta litigata. Volle vedere tutti i conti del negozio. Io, dapprima
rifiutai poi, di fronte alla sua fermezza, acconsentii. Lui fu preso da un sussulto. Mancavano all’appello
67 milioni! Dopo la sua sfuriata, gli chiesi di aiutarmi, di starmi accanto e promisi che non avrei mai
più giocato. Fui convincente ed effettivamente, per un periodo di due mesi, non misi più piede al casinò.
Un’altra lunga assenza da mio marito, però, fu la scusante che riuscii a trovare con me stessa per
tornare a giocare e da quel momento riprese tutto come e peggio di prima. Il negozio non funzionava
più come prima: io la mattina marcavo sempre visita, non m’interessavo più dei rapporti con i fornitori
ed iniziai a lasciare insolute alcune fatture. Tre mesi dopo, in seguito alla telefonata di un creditore,
mio marito venne a conoscenza della mia reale situazione. Questa volta, gli dissi che i soldi erano miei,
che ne facevo quel che volevo e che comunque, se giocavo, era solo colpa sua. Il nostro rapporto
s’incrinò notevolmente. Io giocavo, perdevo e lui era spesso assente. Passarono altri sei mesi e lui
decise di separarsi. Nel frattempo, io avevo impegnato il negozio. Ormai, non perdevo meno di un
milione e mezzo a sera, ma a volte andavo anche oltre. Ad un certo punto, fui costretta a vendere il
negozio, per fare fronte ai debiti. Mi ritrovai sola, disperata ed iniziai a pensare seriamente al suicidio.

Il 2 dicembre del 1996, dopo aver collegato un tubo alla marmitta della mia automobile ed averne
inserito un’estremità nell’abitacolo, mi sedetti al posto di guida, decisa a farla finita per sempre. È solo
per un colpo di fortuna se oggi sono ancora viva. Una mia amica aveva deciso di farmi
un’improvvisata e fu attratta dal rumore del motore che veniva dal garage. Fu lei a chiamare i vigili
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del fuoco ed ambulanza, che mi salvarono la vita. Mentre ero ancora ricoverata nel reparto di
psichiatria dell’ospedale, mio marito, tramite un suo collega di lavoro, era venuto a conoscenza di un
centro di recupero per giocatori patologici a Bolzano. Mi propose di andarci assieme, di aiutarmi. Io
accettai, più per inerzia che per convinzione. Fu un ritorno alla vita. Il fatto di essere considerata una
donna ammalata, e non viziosa, di non essere giudicata, di poter buttare fuori tutto quello che avevo
dentro, di essere sottoposta ad un controllo economico, di aver conosciuto altre persone come me,
ebbene, tutto questo mi fece capire che avrei potuto farcela. Non è stato facile per niente. Ci sono stati
dei momenti in cui la voglia di giocare era tremenda, assillante e solo la vicinanza di queste persone mi
ha impedito di ricadere. Ho seguito scrupolosamente tutto il programma terapeutico accompagnata da
mio marito. Oggi, so che non potrò recuperare quanto ho perso, il negozio se ne è andato per sempre,
ed io mi sono adattata a fare la commessa. Però, so anche che ho un futuro davanti a me, che non c’è
più il buio tremendo della disperazione, che è sparita l’ombra del cupo suicidio. Il gioco mi ha riempito
tanti momenti vuoti della mia vita, mi ha tolto le responsabilità, che non volevo prendermi, mi ha dato
stati di eccitazione, che altre persone forse non riusciranno mai a provare in vita loro. Ma nulla di più.

Il gioco mi ha tolto cinque anni di vita, mi ha tolto mio marito. Sì, mi ha tolto anche un mucchio di
soldi, ma quei soldi, oggi rispetto al resto, sembrano niente. Il gioco mi stava togliendo anche la vita, è
solo un caso se non c’è riuscito. Io oggi odio il gioco, lo detesto profondamente. E mi arrabbio
moltissimo, quando penso che nessuno fa niente per le persone come me, se si esclude il centro di
Bolzano. Ci hanno dato in mano un giocattolo pericoloso, dicendoci che era innocuo, senza avvertirci,
che poteva esplodere. E quando questo esplode, si voltano tutti dall’altra parte. Ma bisogna dirlo, che
può essere pericoloso, che bisogna stare attenti.

Quanti suicidi e quante tragedie bisogna ancora aspettare, prima che la gente capisca queste cose?
Francesca, dopo essere entrata in trattamento non ha mai più giocato. Oggi, vive la sua vita con maggior
libertà e con una forza straordinaria. Due mesi dopo aver rilasciato questa intervista, Francesca e suo
marito hanno deciso di tornare a vivere insieme.
Testimonianza di Maria, un ex dipendente dal cibo

Maria pesava 206 kg, dopo l'ennesima umiliazione ha


deciso di non vergognarsi più del suo corpo. E ci è
riuscita

«L’ennesima sedia rotta, al matrimonio di una cara


amica. Era un bellissimo momento, terminate le
formalità della cerimonia si era rimasti tra amici. Le
risate vennero interrotte dal tonfo della caduta dei
miei 206 kg. Avrei dovuto essere abituata a quel
momento, mi era capitato in situazioni più
imbarazzanti, nelle quali ero sempre riuscita a
trovare una chiave ironica e un modo “dignitoso”
con il quale rialzarmi. Quella volta non ci riuscii».

Maria Ferrari ha 35 anni e un passato da ex obesa alle


spalle.

Fino a tre anni fa ha convissuto con un corpo troppo


pesante, di cui si vergognava ma che è stato il suo per tutta la prima parte della vita.

«Il cibo era un rifugio per cui sono stata presa in giro per anni. A scuola ho vissuto episodi di bullismo
quotidiani, come l’esclusione dai giochi a prescindere, la presa in giro per come ero vestita, così come
ogni volta in cui aprivo la bocca per mangiare qualcosa».

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In Italia le persone che soffrono di obesità sono sei milioni, in occasione dell’European Obesity Day che
quest’anno si celebra il 20 maggio, vi raccontiamo la storia di Maria perché l’obesità perché, come mi
racconta,

«se ce l’ho fatta io, può farcela chiunque, in questo credo più di tutto».

Non era la prima volta che a Maria capitava di trovarsi in situazioni imbarazzanti come restare incastrata
in una sedia all’università o romperla com’era accaduto al matrimonio dei suoi amici. Quel giorno però
decise che non sarebbe successo un’altra volta.

«Ho sentito il peso delle umiliazioni subite fino a quel momento, degli inutili sensi di colpa che mi
accompagnavano da troppo tempo, il peso del silenzio dei miei amici che non sapevano cosa fare.
Rialzarmi da terra quel giorno è stata una vera impresa».

Un’impresa iniziata entrando in una palestra.

«Ho chiesto di un personal trainer, sapevo di averne bisogno. Ho incontrato Gianluca, che pur
osservando attentamente il mio corpo non mi ha mai guardata come un mostro. Sono partita da piccole
aspettative, recuperare mobilità, avevo serie difficoltà nelle azioni quotidiane, lavarmi, vestirmi,
allacciarmi le scarpe. Avevo la sfrontatezza di andare a tutti i concerti che mi piacevano, ma non avevo
il corpo per poter saltare ogni volta che ne avevo voglia».

Così è cominciato per Maria un lungo lavoro di educazione alimentare e recupero del suo corpo, durato
due anni, e che continua oggi con l’allenamento quotidiano.

«Ho cominciato a ridurre progressivamente i miei eccessi alimentari, in poco tempo l’allenamento e
l’alimentazione hanno cominciato a prendersi per mano, il mio corpo mi parlava durante
l’allenamento, mi rimproverava quando mangiavo male e mi faceva i complimenti quando invece
facevo bene. E tutt’oggi è così. Ho fatto finta di non conoscere il mio peso iniziale, ho lasciato che fosse
Gianluca a monitorare e fare i conti della mia discesa, non solo del peso ma anche delle circonferenze
del mio corpo».

Oggi Maria indossa una taglia 46 e giorno dopo giorno si prende piccole e grandi rivincite sul passato.

«Capita sul lavoro dove oggi il mio pensiero viene tenuto in considerazione, così come nello sport dove
spesso vinco sfide con persone più allenate di me. Infine con i ragazzi, che prima mi schifavano e oggi
mi corteggiano».

Sono tante le tappe fondamentale e le persone che hanno contribuito alla rinascita di Maria:
dall’incontro con Marina, presidente dell’Associazione Amici Obesi, alla disponibilità del suo docente
di Art Direction e Copywriting, Facoltà del Design del Politecnico di Milano, dove oggi Maria progetta
una campagna di comunicazione sull’obesità per l’associazione.

«Emanuel, uno psicologo che da anni ha a cuore chi lotta contro i problemi di peso, con il quale siamo
impegnati in un tavolo di lavoro per formare dei personal trainer che siano in grado di trattare
l’obesità».

E i suoi genitori che le sono sempre rimasti accanto.

«Oggi mi alleno alla Heracles Gymnasium in viale Padova a Milano, che oltre ad essere un centro di
preparazione atletica è anche un luogo di ricerca interdisciplinare. Non sono ancora soddisfatta
dell’estetica del mio corpo. La mia forte muscolatura è in gran parte ricoperta da eccessi di pelle che
questo importante dimagrimento ha provocato. Mi attendono ancora alcuni interventi di chirurgia
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ricostruttiva. Per fortuna il SSN, troppo spesso facilmente criticato, riconosce l’importanza di questi
esiti di obesità sovvenzionando gli interventi che altrimenti sarebbero inaccessibili per le mie tasche».

Testimonianza di Marika: una ex dipendente dall’amore


La strada dell’amore verso me stessa
Ho sempre amato leggere: i libri sono stati
il leitmotiv* della mia vita, mi hanno fatto compagnia fin
da quando ero piccola, creando mondi dove potevo
rifugiarmi e vivere altre vite, più stimolanti ed elettrizzanti
della mia.

A volte io sceglievo i libri da leggere, ma la maggior parte


delle volte erano i libri a scegliere me, proprio nel momento
in cui ero pronta ad affrontarne il contenuto. Uno di loro, e
precisamente “La manipolazione affettiva” mi ha
avvicinata ad un mondo che credevo nuovo, invece ho
scoperto essere il mondo dove io vivevo. E così, dopo quel
libro, ne ho letti altri che trattavano lo stesso argomento e
ne ero così attratta perché parlavano di me.

“Talvolta il problema di essere una donna che ama troppo


è stato quello di sacrificare tutto in nome di amori che
avrebbero dovuto riempirmi, rendermi felice e soddisfatta
e aiutarmi a realizzare me stessa”.

Invece, nelle storie d’amore vissute, anziché sentirmi arricchita e arricchente mi sentivo dipendente,
impoverita, debole e infelice. Ho sempre sognato amori che colmassero l’immenso vuoto che mi
pervadeva, il vuoto causato dalla mancanza di amore verso me stessa, la persona più importante,
perché quella con cui avrei dovuto trascorrere l’intera esistenza.

Ma nessuno al mondo avrebbe mai potuto amarmi come io avrei amato me stessa se ne fossi stata
capace, quindi il vuoto restava. Il mio era un bisogno d’amore eccessivo, a volte compulsivo e
insaziabile, l’antitesi dell’amore verso sé stessi. Facilmente preda della passione, spesso non ero
innamorata di qualcuno, ma dell’immagine distorta, irreale e idealizzata che avevo di quella persona.
Ero come un secchio bucato che smaniava dalla voglia di riempirsi, mi sentivo viva solo quando
fluttuavo sopra le nuvole e spesso mi innamoravo per cercare di sentirmi meno sola, accontentandomi
delle briciole di amore che l’uomo che avevo a fianco poteva darmi.

Come tutte le dipendenti affettive non mi amavo a sufficienza, quindi cercavo in un’altra persona la
sicurezza che mi mancava. L’errore era quello di cercare amore in persone che non sapevano darmelo,
quello di mettere nelle loro mani la mia vita, senza possibilità di scegliere ciò che era giusto per me.
Delegavo all’altro qualsiasi scelta o decisione, rimanendo in perenne attesa che qualcosa di speciale
prima o poi sarebbe accaduto.

Sono sempre stata attratta dai narcisisti: personaggi all’apparenza forti, brillanti, realizzati; persone
che sembravano possedere le caratteristiche per farmi sentire amata e protetta. Invece questi uomini,
quasi sempre poco o per niente empatici, sono incapaci di amare chiunque più di sé stessi e di donarsi
completamente a una sola persona, perché necessitano di continue conferme e ammirazione da parte di
chiunque possa dargliene. Uomini che mi catturavano e mi tenevano intrappolata, senza lasciarmi
vivere una vita né con loro, né senza di loro. Delle sanguisughe psico-emotive che prendevano ciò di
cui necessitavano, lasciandomi priva di energie. Succhiavano il buono che potevo dare loro, ma non ne
metabolizzavano il valore, perché la cosa avrebbe implicato andare troppo a fondo e il narcisista non
ne è capace.
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Il brutto è che quando vivi una vita di questo tipo è difficile allontanarsene e tendi a trovare partner
simili, che ti fanno soffrire per amore e ti permettono di reiterare lo schema affettivo già vissuto in
precedenza. La relazione che si instaurava tra me, la dipendente affettiva, e lui, il manipolatore
affettivo, era un circolo vizioso, che può essere interrotto solo quando la dipendente affettiva recupera
autostima, inizia ad ascoltare le proprie emozioni e soprattutto impara a sentirsi una persona degna di
essere amata, che quindi non ha bisogno di elemosinare amore.

Io, dopo un anno di psicoterapia individuale e dieci sedute di incontri di gruppo a tema  Dipendiamo:
“Donne che amano troppo” ho deciso di intraprendere la strada dell’amore verso me stessa. Non
voglio più essere l’altra metà di qualcuno, né dipendere da una presenza o da una relazione.

Sono stanca di fare solo ciò che fa piacere agli altri, dimenticando di avere desideri, preferenze e
bisogni.

Sono finalmente pronta a rinunciare al senso di colpa, alla vergogna e alla paura dell’abbandono,
caratteristiche che in passato mi hanno svigorita, rendendomi fragile e riducendo ai minimi termini
l’idea e il valore che avevo di me stessa. Dei vampiri di energia che mi hanno indebolita e portata a
cercare continua approvazione nella persona che avevo a fianco. Voglio rinunciarvi a favore della
conquista della mia autonomia e voglio modificare gli schemi affettivi che porto avanti dall’infanzia,
per vivere una vita nuova: più sana ed equilibrata.

Per questa mia rinascita devo ringraziare le “mie” psicologhe, donne speciali che mi hanno aiutata a
riscoprire me stessa e il mio valore, ma ringrazio anche le donne del gruppo DipendiAmo, che mi
hanno affiancata aiutandomi all’inizio di questo percorso di riscoperta della meravigliosa persona che
sono, nonostante i miei difetti. Grazie a tutte voi.

*Nonostante sia un termine che nasce in ambito musicale, per estensione, con il termine leitmotiv
indichiamo un tema ricorrente, ovvero l’elemento caratterizzante di qualcosa. (es. l. della mia vita
vuole indicare il senso di essa).
Bibliografia e Sitografia
Bibliografia
Candola G., Tutto in un abbraccio. La storia di San Patrignano e dei 26 mila ragazzi tornati alla
vita, Torino, Panorama, 2020

Sitografia
https://legacy.atsbrescia.it/media/documenti/comunicazione/ATS/convegni%202017/salute
%20mentale/7_FAZZI_ZANETTI_ALLIBRIO.pdf
https://www.aslal.it/allegati/presentazione Bartoletti.pdf
https://scienzepolitiche.unical.it/bacheca/archivio/materiale/26579/DIPENDENZA.DA
SOSTANZE-convertito.pdf
https://www.sanpatrignano.org/
https://www.centromoses.it/psicologia-clinica/disagi-trattati/dipendenze/dipendenza-da-sostanze/
https://www.topdoctors.it/dizionario-medico/dipendenza-da-droga
https://psicologi-online.it/dipendenze-tipologie-manifestazioni-e-terapie/
https://www.treccani.it/vocabolario/dipendenza/
https://www.iss.it/dipendenze
https://www.my-personaltrainer.it/benessere/dipendenza.html
https://www.stateofmind.it/tag/dipendenza-affettiva/
https://www.ipsico.it/sintomi-cura/dipendenza-affettiva/
https://www.siipac.it/gioco-dazzardo-patologico-testimonianza-francesca/
https://www.vanityfair.it/news/storie-news/2017/05/16/giornata-obesita-maria-ferrari-storia
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https://www.dipendiamo.blog/2017/11/08/la-strada-dell-amore-verso-me-stessa/
https://www.vanityfair.it/news/storie-news/2018/03/22/san-patrignano-tossicodipendenza-droga-
storia

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