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Cosa si intende invece per “cibo mortale”?

quello che tocchiamo con mano tutti i giorni, quello che è


nutrimento, energia, vita, bisogno e istinto di sopravvivenza, ma anche piacere, coccola, desiderio,
e cultura, immagine (anche arte in fondo, la dimensione estetica del cibo è diventata preponderante),
rito, memoria (pensiamo alla madeleine di Proust…), convivialità, condivisione, sensorialità.

Tutti questi aspetti, dai significati simbolici del cibo all’etica della cura, sono secondo me ben
rappresentati in un film pluripremiato del 1987, Il pranzo di Babette, di Gabriel Axel, tratto da un
racconto di Karen Blixen. Ambientato alla fine dell’800 in un villaggio freddo e desolato dello Jutland, il
film descrive una serie di personaggi sospesi e in balia del tempo che passa. Tutti sono reduci da storie
di sogni infranti e desideri negati, come ben descrive il rigido clima religioso, di stampo luterano. La
protagonista, Babette, governante delle due anziane e religiose sorelle Martina e Filippa, è anch’essa
sospesa e ferita dalla vita, fuggita da una Parigi in preda alla guerra civile, una famiglia uccisa alle
spalle. Splendido personaggio femminile circonfuso di grazia e forza mascherata da umiltà. Il clima
(atmosferico e sociale) che contraddistingue il luogo è di tristezza e paura, i colori sono smorti. La
rassegnazione sembra vincere. Una sorta di “comunità anoressica”, che respinge le relazioni e nega
il desiderio, che si accontenta di vivere in modo parco, al limite dell’ascesi religiosa.
Ma poi, complice la fortuna, irrompe la cura e con essa la vita. La cura è il cibo cucinato da
Babette in un sontuoso pranzo (“un vero pranzo francese”) offerto in occasione di una vincita di denaro
alla lotteria a tutti i notabili del villaggio. Babette in veste di sacerdotessa e terapeuta, si riappropria del
proprio ruolo (a Parigi era la celebre chef di uno dei migliori ristoranti della città) e attraverso il cibo
rianima i cuori congelati dei commensali.
Il cibo come terapia allora, che stuzzica e risveglia tutti i sensi in un silenzio irreale, che strappa
gemiti di piacere, che risveglia i sogni sepolti e i desideri, che riporta la vita in un paesaggio
(esterno e interno) congelato. I commensali gustano in silenzio ogni strabiliante portata (come
non ricordare il brodo di tartaruga e le cailles en sarcophage, firma della celebre chef ?) e attraverso
esse riconoscono la vera identità di Babette, ma soprattutto attraverso esse vivono una
trasformazione interiore. I visi e le lingue si sciolgono, dalla rigidità iniziale pian piano fiorisce
una calorosa convivialità (complici anche i pregiati vini), i dissapori e i rancori reciproci si
stemperano, ci si viene incontro, ci si perdona, si vince la paura, si riscopre la gioia. E alla fine
una memorabile scena di danza / girotondo nella sera e nella neve con tutti i commensali che si
tengono per mano, suggella la guarigione delle anime, la riscoperta dei sensi, l’apertura alla vita.
Così attraverso i passaggi di una cena viene simbolicamente rappresentata quella che dovrebbe
essere una cura efficace. E Babette risulta una terapeuta imbevuta di etica e valori, che non ha
paura dei sensi, sa scegliere e accogliere la grazia, raggiunge un delicato equilibrio fra amore di
sé e amore per gli altri (laddove cucinare dovrebbe essere sempre un atto d’amore), quando risponde
alle due anziane sorelle che le rimproverano di aver speso tutti i soldi della vincita per amor loro: “non
era solo per amor vostro”. Il terapeuta che cresce e matura nel corso della terapia, aiutando i pazienti
e imparando qualcosa da ciascuno di loro.
Questo film è l’unico, per il messaggio etico che porta, ad essere entrato a far parte del Magistero di un
Papa, da quando Francesco l’ha citato nell’esortazione apostolica Amoris Laetitia del 2016 come
esempio di incontro a tavola fra “misericordia e verità”. Che dovrebbero poi essere due fra i principali
ingredienti di una buona (in senso etico) ed efficace terapia, se intendiamo la “misericordia” come
compassione e quindi in senso lato vi includiamo anche il significato di empatia, e la “verità” come
presenza piena, sincera (intellettualmente onesta) e coerente del terapeuta all’interno del setting
terapeutico.
Ma la “verità” è anche quella del soggetto sofferente e dei suoi sintomi, del senso che nascondono. E
infine la più antica delle verità: il nostro essere fatti di anima e corpo, parti che vanno entrambe
nutrite; e allora il cibo in senso lato ha un unico fine: percepire la vita come risveglio di tutti i sensi.
Regia di Gabriel Axel, Danimarca 1987.
Il pranzo di Babette: è cura del cibo o cibo che cura… il singolo e la comunità?
In uno sperduto paesino della
Danimarca, in riva al mare nella zona
dello Jutland, alla fine dell’ottocento,
vivono due attempate signorine, le
sorelle Martina e Philippa. Le due
sorelle, ci spiega la voce narrante
femminile che ci accompagna lungo il
film, hanno speso la vita e quasi tutta
la loro modesta rendita in opere di
bene. Il loro padre era stato Decano e
Profeta e aveva fondato a suo tempo
una setta religiosa, di cui restano
ancora pochi, anziani ma fedeli
seguaci.
Il Decano è morto da tempo, ma le
sorelle ancora radunano i residui
seguaci a ‘leggere e interpretare il Verbo e onorare la memoria del Maestro’ nella loro modesta casa.
Martina e Philippa hanno anche una domestica francese, Babette, cosa molto sorprendente dato il
rigore della loro vita puritana, ma la spiegazione di ciò è parte della storia che il film racconta e...
‘deve essere ricercata nel profondo segreto del cuore’…
Così inizia “Il pranzo di Babette” di Gabriel Axel premiato con l’Oscar come miglior film straniero
nel 1987, tratto dal racconto omonimo di Karen Blixen. L'apertura induce lo spettatore ad
interrogarsi per scoprire quale segreto si celi dietro questa presenza stra-ordinaria... la quale
rivelerà la sua identità divenendo l'artefice di un pranzo altrettanto straordinario da
trasformare la vita di tutta la comunità. Ma per scoprire il motivo profondo da cui ha origine la
vicenda occorre seguire la via del cuore. Ed è in tale direzione che dobbiamo muoverci per
comprendere il significato della storia che il film narra. Un film sul “gusto di vivere”.
“Si deve risalire alla giovinezza delle due, quando le figlie del Decano erano dotate di grande
bellezza... simile a quella degli alberi in fiore, ma esse erano completamente dedite al padre e ad
aiutarlo nella sua vocazione... L'amore terreno e il matrimonio  erano considerati argomenti futili,
mere illusioni...”
Tutta la prima parte del film descrive la corrispondenza alle attese di un padre giusto e
venerato, ma che impone uno stile di vita comunitario rigidamente orientato alle “cose dello
spirito”, le uniche che hanno “valore”; il desiderio di non dispiacerlo ha obbligato, più o meno
consapevolmente, le due giovani donne ad una dolorosa scissione rinunciando, insieme  alle
gioie dell'amore, ad ogni altra soddisfazione  dei sensi. I sensi, il nostro sentire, la porta di
accesso alla vita, attraverso la quale si forma il legame con il mondo e si sviluppano i
sentimenti, gli affetti che nutrono la nostra vita psichica, sono negati.
“Le vie del Signore passano per le montagne innevate...” ma non si tuffano nelle valli, a contatto
con l'humus, con quel terreno fecondo dove nasce e cresce la vita, con l'umiltà del nostro essere
umani...
Tutto è puro, elevato, metafisico... Freddo. Non c'è caduta, dolore, smarrimento in questo mondo
di perfezione in cui il sentire è bandito dalla tavola quotidiana. (E quanti di noi si rifugiano in
ideali quanto impossibili mondi...).
Ma un comportamento “distaccato”, mentre ci pone “al di sopra” delle miserie e sofferenze
umane, ci esclude dal partecipare al contatto con la vita, del calore che da questo contatto o
contaminazione ne deriva.                                     
La distanza emozionale, che ci impedisce di sentire il calore della vita, crea quel vuoto incolmabile,
quella fame impossibile da soddisfare che nessun cibo è in grado di nutrire.
Martina e Philippa, considerate dal padre, “la sua mano destra e la sua mano sinistra” come diretta
e imprescindibile emanazione della sua volontà, “hanno speso tutta la loro vita in opere di bene” ma
la loro vita è stata svuotata di quel bene prezioso che è l'autonomia. L'adesione/identificazione con
il rigoroso Io-ideale ereditato dal paterno ha impedito al loro sentire di esprimersi, di dare
forma al loro mondo interiore, sostanzialmente di crearsi una vita propria. Creare… diventando
l'artefice del proprio mondo.
La scelta radicale di una vita in obbedienza ad un Dio-Padre che non riconosce i beni della terra e
nega l'origine dell'uomo, mortificando il corpo, costringe i figli (quelli naturali così come i
discepoli) ad una mutilazione di se stessi, la cui inconsapevole perdita genera un malessere che non
può non ripercuotersi sul singolo come sull'intera comunità generando quell'astio, quel senso di
insoddisfazione e soffocamento che fatalmente finisce per “avvelenare” le stesse relazioni.
Questo accade ai discepoli del decano così attenti a separare nella vita quotidiana ciò che riguarda
il corpo da ciò che riguarda lo spirito, disprezzando il primo ed innalzando il secondo: lo
scompenso prodotto dalla scissione, le privazioni e l'ignorare il corpo li ha fatalmente portati
all'aridità e alla freddezza, alla rabbia, ai rancori, ai litigi...
Ecco allora che alla rarefazione del tempo e all'estrema diluizione degli spazi nell'ottocentesco
paesino dello Jutland spazzato dai venti e dalle maree, consegue quel doloroso ripiegarsi dell'anima
entro le anguste coordinate dei propri egoismi e delle proprie rinunce.
Poi, in una tarda sera di settembre, prima che arrivi definitivamente la “fredda” stagione
invernale, qualcuno-qualcosa bussa alla porta... E' un dono (la cui preziosità si scoprirà in
seguito) a cui non si può dire di no... Una donna straniera, disperata, che ha perso tutto... che chiede
ospitalità in cambio di un servizio, quello di prendersi cura delle due donne, delle loro persone; una
governante, una madre buona, un femminile attento ai bisogni delle persone a lei affidate, che
nella casa porterà ricchezza. “Da quando c'è Babette siamo più ricche di prima”, osserveranno le
sorelle.
Babette, figura di sintesi, che ricucirà l'antica scissione ricongiungendo le parti separate,
diventa metafora del prendersi cura di sé, scoprendo insospettabili ricchezze, sentendo la vita
risorgere... Il latte, il nutrimento amoroso torna a nutrire l'esistenza delle due donne. Non a
caso la creatività di questa donna “alchimista” capace di trasformare gli animi, si esprime
attraverso il linguaggio del cibo, attraverso il quale restituirà alla comunità il “gusto” di
vivere…                  
Così in un pranzo, preparato con cura-attenzione-abilità-conoscenza, con gesti che comunicano
un'intenzione dietro ad ogni piatto, dove si assapora l'amore che diventa arte-passione creativa
(o dove si esprime l'arte dell'amore), il trionfo del gusto a poco a poco si insinua nei puri ma
aridi mondi praticati dai commensali. Il calore scioglie le loro rigidità; gli anziani
timidamente si lasciano andare... i ricordi (la parola ricordo dal latino è “rimettere nel
cuore”) affiorano. In una vita magra di felicità, quel poco di bello che c'è stato, viene evocato...
con gli occhi lucidi dal piacere che ha invaso il corpo e lo spirito.  
Attraverso “il gusto”, i commensali ritrovano memoria di sé, di un sé integro che della vita
gusta, assapora la bellezza, che dalla vita trae nutrimento e gioia.
E' in questa direzione, del ritrovamento del senso, del gusto di vivere, che spesso ci si muove in
analisi, quando tutto appare insipido e insensato, in quella specie di “nebbia” che tutto avvolge, che
attutisce i suoni, che fa perdere i contatti e i contorni del mondo, che annulla colori, ricordi, odori e
sentimenti, dentro un'opaca infelicità che rende impossibile la trasparenza delle emozioni, che
trattiene dall'esserci fino in fondo nella vita a contatto con le emozioni. Volti grigi, chiusi, rassegnati
o rancorosi....  
Inevitabile pensare alla depressione come stato dell'animo in cui regna l'assenza di voglia di vivere,
del piacere di vivere, come intorpidimento dei sensi e dei sentimenti, come incapacità di nutrirsi
nella perdita dell'appetito, della voglia di fare, vedere, sentire, di ogni forza o risorsa, come guscio
vuoto... alla ricerca di un amore che colmi, che    nutra, un amore che non basta mai.
La caligine, nebbia cupa che non si scioglie, che incatena all'angoscia del mondo, somiglia alle
brume della comunità in cui è finita Babette: il freddo dentro, le saracche insapori, fino al momento
della fortunata (ri)vincita che consente l'espressione del proprio talento, all'impossibilità di
trattenere l'urgenza creativa.
Non per ingenua generosità Babette impegna tutti suoi averi nel magnifico pranzo, nel dono
memorabile che trasforma la comunità accidiosa (potere assoluto dell'arte), ma perchè non
può farne a meno, per vivere, per sé, per non finire lei stessa saracca... L'uscita dalla caligine,
da una vita spenta, fredda è una metafora con cui avviare un confronto che rimanda alla ripresa del
gusto di “cucinare”, di sperimentare vita, sapori, incontri…
“Un artista non sarà ma povero”... risponde Babette alle due signorine che stupite apprendono
come la donna abbia impiegato totalmente la somma vinta nella preparazione del pranzo.
Il gusto della vita passa attraverso il riconoscimento del nostro essere creativi scoprendo
inaspettate ricchezze, attraverso la capacità di dare fondo alle nostre risorse affinché si
trasformino in cibo di “nuova vita”. Solo nel darsi senza risparmio, senza la paura di restare
poveri, derubati o deprivati dei nostri beni, sostanzialmente nell'abbandono di vecchi schemi,
baluardi difensivi contro le paure che ci impediscono di sentire e darci alla vita, il panorama si apre
verso un'altra dimensione.
Ecco che nel film si coniugano parole come cibo-amore-creatività-piacere di vivere... per
concludere questa favola onirica con l'immagine del gruppo che esce fuori, un ballo intorno al
pozzo, sorgente di vita… un girotondo che annuncia una nuova stagione: quella del prendere/si per
mano... unendo e non separando...
 

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