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Il senso (del) religioso

«Rabbi, papa, lama, imam, bibbia, dharma, sura, torah, pane, vino, kosher, hallal, yom kippur,
quaresima, ramadan».
Più o meno note, più o meno già sentite, queste parole sono tutte chiaramente identificabili come
elementi che caratterizzano una certa religione o una certa spiritualità. Ministri e rappresentanti,
scritture e libri sacri, oggetti e alimenti, giorni e festività… In diversi ambiti e con diversi
significati, questi termini ci raccontano di pratiche, riti e modi di vivere dallo stretto carattere
religioso (cristiano, islamico, ebraico o quale che sia).
A un orecchio attento, tuttavia, questa precisa successione non indica esclusivamente
un’accozzaglia disordinata di “cose religiose”. Essa piuttosto è il ritornello di una canzone piuttosto
recente, composta dal rapper italiano Michele Salvemini, in arte Caparezza. È suo il brano dal titolo
Confusianesimo, uscito nel 2017 nell’album Prisoner 709, e che inizia proprio con questa carrellata
di immagini.
È quantomai nota la distanza tra Caparezza e il mondo religioso. Non può, quindi, non suscitare
interesse e curiosità il brano così come si presente. Il contesto nel quale la canzone, e più in
generale l’intero album, è stata composta, appare rilevante. L’immagine della prigione, infatti,
rimanda a una temporanea chiusura del cantautore nella propria dimensione interiore, una vera e
propria crisi, determinata, tra l’altro, dal problema dell’acufene, che ha colpito Caparezza nel 2015
e ne ha segnato, inevitabilmente, la produzione musicale.
Ebbene, è proprio in queste situazioni di difficoltà, di crisi e di smarrimento, che la religione da
sempre può essere una riva, un’ultima spiaggia su cui cercare conforto e riparo. Nel caso di
Caparezza, al contrario, si è rivelata (insieme ad altre esperienze) un fallimento totale. È da qui che
nasce il brano Confusianesimo, un titolo che evoca il nome di una religione in cui, tuttavia,
l’eventuale “divinità” non è altro che la confusione, il caos, che ci rimbalza da un gesto a un altro,
da un rito a un altro, senza però portarci a una vera e propria soluzione per cui decidersi.
Racchiuso sotto questo titolo, andando a leggere con attenzione il testo, ci si offre un interessante
percorso riflessivo, una sorta di fenomenologia della religione, una lettura ragionata dei fenomeni
propri del mondo religioso (elementi, dinamiche, schemi ricorrenti) che, secondo Caparezza (e
prima di lui secondo molti altri) in realtà non liberano, non danno conforto, ma semplicemente
imprigionano l’essere umano. Così infatti recita il finale della canzone: «C’è una scienza dietro le
religioni. / Il testo epico, l’impianto scenico. / Nuove barriere, nuove prigioni. /Non mi
immedesimo, Confusianesimo». Emblematica ed efficace. Ci sono elementi ricorrenti, “impianti”
ben precisi che costituiscono una religione. «Il testo epico», ovvero un libro sacro, della scritture;
«l’impianto scenico», una liturgia, dei riti, delle celebrazioni. Tutto questo però aiuta solo a
costruire «nuove prigioni», non porta alla pace e alla comunione ma a nuove divisioni (possiamo
davvero dargli torto?). Alla fine, non resta che una cosa da fare: rimanere fedeli a se stessi, non
immedesimarsi con gli altri e seguire il proprio “credo”, il confusianesimo.
Un’analisi certo interessante; potremmo però chiederci, a questo punto: quale esperienza, quale
visione della religione può portare a una simile conclusione, invero abbastanza radicale? Da dove
prende le mosse il nostro cantautore? In primo luogo, il brano ci riporta il motivo, per così dire, che
ha spinto l’autore a interessarsi dell’argomento: «Forse sarà l’età, / ma voglio un culto da osservare
per essere libero di privarmi della mia libertà, / che poi dicono, “Vivi male, vivi male. / Per te ci
vuole un ministero dell’interno, non quello del Viminale, Viminale”. / Vorrei passare per un tipo
spirituale, come fare? / (Seguo tutte le religioni, tutte le religioni)». Ecco, in sintesi, la domanda e
l’offerta. A fronte di un problema, emerge la necessità (almeno apparente) di cercare un culto, una
chiave d’accesso alla mia interiorità, qualcosa a cui vincolare la mia libertà e che in cambio mi
assicura (o almeno dovrebbe) una vita buona, evitando così di “vivere male”.
Da qui, inizia un mosaico, un susseguirsi di immagini, esempi, rimandi più o meno sarcastici e
ironici, al mondo delle religioni, nessuna esclusa. Si va dal classico: «Col divino in simbiosi /
cambio il vino in cirrosi […] con il gregge di Pietro / mi percuoto con i chiodi», al più originale:
«Poi Buddha dice che l’inferno è dentro, / sarà vero, deve avergli fatto effetto l’Habanero». E
ancora: «Al muro del pianto col volume sulla mano / oscillo come Guetta con la mano sul volume
dell’impianto», senza dimenticare: «Sotto il minareto faccia a tappeto, Apollo Creed. / In Jamaica
credo, mi faccio un dreadlock, rollo weed». Dal cristianesimo all’ebraismo, dall’islam ai culti
orientali, tutti sono chiamati in causa e nessuno sembra offrire quello che promette o, per lo meno,
quello che “servirebbe”.
Se questa, tuttavia, è la parte legata al “fenomeno”, quale logica è possibile riconoscervi? Qual è il
senso che emerge da questo brano? Come una canzone ironica, quasi di denuncia e di derisione,
verso la religione, può offrire qualcosa di istruttivo proprio in chiave religiosa, e magari persino
cristiana? Dal nostro punto di vista, il fulcro sta proprio in questo: Caparezza ha ragione. Se la
religione viene intesa in questo modo, essa effettivamente non serve a nessuno. Ministeri, oggetti,
cose, tempi non sono in grado, in sé e per sé, di offrire all’essere umano quel senso, quel
compimento che pure egli da sempre ricerca e a cui sempre anela. Qual è, allora, l’anello mancante?
Il coinvolgimento personale. Il senso della religione emerge solo laddove essa custodisce nei suoi
riti, nei suoi scritti, in ogni suo aspetto, una verità, una realtà che dice qualcosa della mia vita, che
mi chiama in causa in prima persona affinché io mi affidi ad essa e trovi così il senso, il significato
del mio esistere. È vero, ogni religione porta con sé qualcosa di concreto, forse troppo concreto, e
che tuttavia è indispensabile perché solo nella storia, nell’atto, nella realtà noi possiamo trovare
accesso (simbolico) a quella verità pratica che custodisce e dà origine alla nostra umanità. Noi
siamo corpo, siamo storia, e solo così, come corpi e come storia, possiamo realizzarci. Per questo
parliamo di una verità pratica, perché solo nella prassi possiamo riconoscerla, accoglierla e viverla.
Non sono il pane e il vino, in sé, a comunicare il dono d’amore che è l’esistenza stessa di Gesù; non
è il partecipare passivamente alla “recita eucaristica” che mi comunica “quasi magicamente”
l’amore di Dio per la mia vita. L’eucaristia (così come ogni altro sacramento cristiano, ma così
come l’accoglienza dell’alleanza di Dio da parte del popolo ebraico) ha senso solo se in essa, in
quel gesto, riconosco il manifestarsi (simbolico) del senso della mia vita, che mi invita e mi
interpella affinché ne viva ogni giorno. Allora sì che potrà dirmi e forse anche darmi qualcosa.
«Privarmi della mia libertà», dicevamo in apertura. È vero, la religione offre una forma che vincola
la mia libertà, ma proprio perché quella verità che la religione vuole aiutarmi a vivere non dipende
da me, non è a mia immagine e somiglianza, non è frutto del mio desiderio e delle mie necessità. Il
rito strutturato, la Scrittura canonica, i tempi stabiliti, i luoghi sacri delimitati mi dicono che lì si dà
una verità che non dipende da me, che lì mi è offerto un senso, una salvezza che necessita del mio
riconoscimento, della mia accoglienza ma che mi è radicalmente indisponibile. Per vivere del bene
che nasce dal miracolo, è indispensabile riconoscerlo come tale (e non, ad esempio, come un gesto
demoniaco) ma la sua origine non dipende da me, io posso solo accoglierlo, crederci e viverne.
D’altro canto, non voleva dire forse questo Gesù quando affermava che il sabato è stato fatto per
l’uomo e non l’uomo per il sabato? Il fine, infatti, non è avere un fedele rispettoso della forma (il
sabato come simbolo di una religiosità istituita), ma una forma vissuta dal fedele come ciò che solo
gli può dare accesso concreto, esperienziale, alla verità sempre sorprendente della propria vita.

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