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Ernesto Riva

I GRANDI FILOSOFI
Lezioni di storia della filosofia per i licei

Edizioni Lulu on line


© Copyright by Ernesto Riva 2016

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INDICE

Pag. 5 Prefazione
7 Che cos'è la filosofia?
12 Alle origini del pensiero greco
19 La morale omerica e classica. La tragedia
30 I primi filosofi
42 I sofisti
48 Socrate
56 Platone
66 Aristotele
80 Epicuro
85 Gli Stoici
91 Plotino
96 Il cristianesimo e la filosofia
102 Agostino
108 Abelardo
115 Anselmo e l’argomento ontologico
117 Tommaso d’Aquino
123 Guglielmo di Ockham
129 Alcuni pensatori rinascimentali
136 Giordano Bruno
140 La nascita della scienza moderna
153 Thomas Hobbes
158 René Descartes
165 Blaise Pascal
171 Baruch Spinoza
178 G.W. Leibniz
184 John Locke
191 David Hume

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197 Gian Battista Vico
202 Jean-Jacques Rousseau
208 Immanuel Kant
236 Hegel e l’idealismo tedesco
249 La sinistra hegeliana e Feuerbach
256 Arthur Schopenhauer
267 Soeren Kierkegaard
274 Karl Marx
290 Friedrich Nietzsche
310 Sigmund Freud
326 Auguste Comte
333 John Stuart Mill
339 Henri Bergson
349 Croce e Gentile
361 Martin Heidegger
370 Jean-Paul Sartre
380 Ludwig Wittgenstein
390 Karl R. Popper
397 Filosofi ebrei contemporanei
417 Tre filosofe del Novecento
442 Edgar Morin

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Prefazione

Queste lezioni di storia della filosofia delineano sinteticamente le maggiori


filosofie dalle origini ai giorni nostri. Le ho scritte in uno stile il più possibile
chiaro e scorrevole, in modo da poter essere lette da chiunque, anche da chi si
avvicina per la prima volta alle tematiche filosofiche.
Mi sono riferito soprattutto a quegli autori che è importante conoscere se
si vuole avere una prima "infarinatura" dei pensatori occidentali. E' un testo che
può essere sia adottato a scuola sia letto per "puro diletto dello spirito".
Buona lettura e/o buono studio da

Ernesto Riva

Torino, autunno 2016

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CHE COS'E' LA FILOSOFIA?

Che cos’è la filosofia?


Filosofia (=amo la sapienza): un termine ed una materia che può
incutere forse rispetto ma anche un po' di paura o sospetto o
diffidenza per chi non l'ha mai affrontata prima, e dunque da tenere a
debita distanza. Perché una simile reazione? Perché ognuno di noi ha
paura di ciò che non conosce e quindi sta all'erta ed è pronto a
difendere le cose che ritiene più importanti, per la sua vita e per la vita
degli altri.
Una delle principali caratteristiche della filosofia è quella per
cui essa cerca di far superare all'uomo le sue paure e di condurlo per
una strada che lo porti alla libertà, in modo che possa giungere alla
meta più ambita della filosofia stessa: la verità.
Possiamo quindi definire la filosofia, già da subito, come la
ricerca disinteressata della verità. Sottolineerei l'aggettivo "disinteressata".
Non esiste nessun'altra attività o forma di sapere che sia altrettanto
"disinteressata" come la filosofia, giacché essa non ha alcun altro
scopo se non la conoscenza per "amore della conoscenza stessa".
Non per nulla, la parola "filosofia" vuol dire in greco "amore per la
sapienza".
Il filosofo è dunque colui che ama e desidera conoscere la
verità per amore della verità stessa, nel senso più alto e disinteressato
del termine. A lui non interessa la verità per strumentalizzarla ad un
fine qualunque (denaro, potere, felicità, immortalità ecc.) bensì per la
sola ed esclusiva esigenza di verità e sete di conoscenza. Con ciò
intendo ribadire che essa non è tanto la ricerca dell’ultimo o del primo
fondamento, non è tanto la ricerca della essenza profonda delle cose,
non è tanto la ricerca del mistero dell’essere o della conoscenza
assoluta e simili. Essa può anche riguardare quelle cose se nel suo
cammino si imbatte in esse ma non è affatto detto che essa debba per
forza scoprire chissà che o tendere ad una scienza esoterica. La ricerca
della verità è nello stesso tempo più ampia e più umile : non pretende
nulla e non inizia il suo cammino sapendo già dove vuole arrivare; al
contrario, non sa proprio dove la porterà la sua ricerca .

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La filosofia, essendo una ricerca disinteressata, potrebbe fare,
come dicevo all'inizio, paura a molti. In primo luogo, a tutte quelle
persone che hanno o seguono ideologie o credenze assolutistiche o
totalitaristiche, perché esse vogliono imporre la loro visione del
mondo a scapito di tutte le altre. Mentre la ricerca libera e
disinteressata non esclude le altre prospettive ma si confronta con
esse nel cammino comune verso il valore ideale della verità.
In secondo luogo, la filosofia può fare paura ed essere rifiutata
da tutti coloro che si ostinano nelle loro credenze ritenendo di avere
la verità in tasca e non ammettendo di potersi sbagliare. La filosofia
può invece insegnare loro che il cammino verso la verità è lungo e
difficile, che bisogna avere il coraggio e la forza di decentrarci, di
uscire da noi stessi, di porci in ascolto degli altri (la filosofia è una
scuola di tolleranza), in modo di non considerarci l'Assoluto ma di
ritenere la propria prospettiva una delle tante e non l'unica completa e
vera.
La filosofia, in altri termini, implica il riconoscimento dei
propri limiti, l'accettazione del nostro essere uomini e dunque soggetti
a sbagliare, ma anche l'accettazione che lo sforzo comune nella ricerca
della libertà e della verità è fondamentale per la sua realizzazione.
In terzo luogo, la filosofia può far paura a tutti coloro i quali
rifiutano di "conoscere se stessi", di porsi i problemi fondamentali e
di dare loro una risposta (chiedersi: che cos'è l'uomo? c'è Dio? c'è
qualcosa dopo la morte? cos'è il bene e il male? ecc.) per adagiarsi in
un menefreghismo superficiale facendo finta di nulla. Purtroppo,
però, nelle situazioni-limite dell'esistenza, che toccano prima o poi
ogni essere umano, quelle domande ritornano incessanti e non
riusciamo a sfuggirle. Quando si è soli, quando si è tristi, quando
muore qualche persona cara ci dobbiamo necessariamente
confrontare col nostro io più profondo, ed allora sarà quasi con
terrore che riconosceremo di aver sprecato molto del nostro tempo,
cercando di imbottirci la testa con pregiudizi e teorie già confezionate,
risposte pronte ma che non abbiamo mai realmente sottoposte ad
esame e fatte realmente nostre poiché non le abbiamo praticamente
mai vissute. La filosofia può aiutare a liberarci dal modo inautentico in
cui abbiamo fino a quel momento vissuto per farci cominciare da
capo, per farci voltare pagina, per iniziare una vita nuova, più sincera,
per cominciare l'avventura della conoscenza verso la nostra più
autentica e vissuta verità.

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Essa ci chiederà, per prima cosa, di fare piazza pulita di tutto
quello che credevamo di sapere. Ci libera dallo stupido orgoglio di
crederci chissà chi, - una strada che ci condurrà verso la realizzazione
della nostra essenza più profonda, verso quell'esigenza - presente nel
cuore di ogni uomo - di felicità, bontà, bellezza, verità, insomma di
ogni valore positivo. Vi è certo nel mondo la presenza del negativo,
del male, ma la filosofia può contribuire a sconfiggerlo, affinché esso
non prevalga nell'animo umano e l'ultima parola sia data comunque al
Bene.
La storia della filosofia, come vorrei proporvela io, è la storia
affascinante delle risposte che l'uomo ha dato, nel corso di più di due
millenni di storia, a tutti gli interrogativi che la mente umana si è posta
ed a cui ha tentato di rispondere. Partiremo dalle origini in Grecia fino
ad arrivare ai nostri giorni. Vedremo molti filosofi, conosceremo le
loro idee e ci stupiremo forse della loro verità. Ma non ci deve colpire
tanto la diversità fra le loro teorie quanto piuttosto il fatto che siano
riusciti ad elaborare sistemi di pensiero così diversificati. Ma vi
rendete conto? Non è bello riconoscere la varietà delle alternative?
Ammettere la molteplicità delle risposte ad uno stesso problema non
è forse un arricchimento? Ciò non rivela forse che le mille e più
prospettive elaborate dagli uomini non riusciranno comunque mai a
colmare l'abisso della Verità, che rimarrà il valore ideale a cui tendere
sempre? Non dovremmo dunque essere né scoraggiati né dimostrare
scetticismo nei confronti della varietà delle filosofie umane ma anzi
considerarla una ricchezza enorme. Il fatto che il nostro bisogno della
Risposta assoluta sia destinato a non essere mai del tutto soddisfatto,
non rivela paradossalmente il fallimento della ricerca ma al contrario
la vita stessa della filosofia: altrimenti la ricerca cesserebbe e la nostra
conoscenza finirebbe. Ma ciò non è appunto possibile ed è questo il
bello della filosofia: continuare incessantemente a porsi domande,
ricercare instancabilmente, liberamente, senza paura di affrontare
questioni difficili o assurde o proibite, per quanto possano apparire
tali. Non aver paura di pensare, osare conoscere, partendo dalla
accettazione dei nostri limiti umani.
Ad alcuni potrà sembrare inutile questo continuo interrogarsi
senza accontentarsi di quello che è già stato ottenuto, dei risultati già
raggiunti ma, direi, è solo grazie a quel non accontentarsi mai che
l'uomo ha potuto progredire e non si è fermato all'età della pietra. Si
dirà che il sapere ha prodotto cose molto brutte come la bomba
atomica. Però non è la ricerca e la conoscenza della verità in sé ma è

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stato l'uso sbagliato che ne ha fatto a volte l'uomo che ha provocato
degli effetti disastrosi. La conoscenza può essere usata per il bene e
per il male: spetta all'uomo, alla sua terribile libertà, decidere quale
strada intraprendere.
Filosofare vuol dire, ancora, assumere un atteggiamento di
meraviglia nei confronti di quello che c'è e ci è dato. In altre parole, la
filosofia vuole cogliere l'esistenza come tale. Si meraviglia, si stupisce
che le cose esistano: insomma, è meravigliarsi perché qualcosa c'è
mentre potrebbe non esserci nulla. E' un rapporto dunque sui generis,
fatto di stupore e di gratuità, nei confronti dell'essere delle cose e del
mondo. La realtà è "meravigliosa", le cose hanno bisogno di una
spiegazione e ciò spinge l'uomo alla ricerca e stimola la sua riflessione.
In fondo, la filosofia è solo questo: ragionare correttamente su quello
che esiste.
La filosofia comincia quindi dall'esperienza della meraviglia,
dal chiedersi perché le cose esistono, e procede, con l'astrazione, fino
ad arrivare a formulare delle risposte a quei perché.
La filosofia e la scienza (o meglio le scienze) hanno entrambe
come scopo la conoscenza, però la filosofia si distingue dalla scienza
perché vuole essere lo studio della realtà nella sua totalità mentre le
scienze studiano ambiti particolari della realtà. il che ci porta a dire
che la filosofia è essenzialmente metafisica, cioè ricerca del senso
profondo delle cose e del significato della nostra stessa esistenza.
Infatti nella totalità - oggetto di studio della filosofia - ci sono dentro
anch'io e perciò provare a risolvere il problema del Tutto vuol dire
cercare di rispondere problema dell'uomo, del valore della vita, della
mia vita. Ecco perché è inevitabile porsi, in quanto esseri umani, i
problemi metafisici fondamentali: perché esistiamo? per quale fine noi
e il mondo esistiamo? ecc.
Il problema del senso della vita ognuno di noi deve risolverlo.
Lo risolve già per il fatto di vivere in un determinato modo piuttosto
che in un altro. Anche chi vive, in apparenza, al di fuori di ogni
interesse filosofico e pensa soltanto al quotidiano e sensibile nel senso
più gretto del termine (oppure al lavoro o alla carriera o al piacere o al
sesso o allo sport o al divertimento o al potere ecc.), ha
implicitamente una filosofia perché considera la vita sensibile o il
potere ecc. come l'assoluto, la cosa per lui più importante, che viene
prima di ogni altra e dunque ha risposto, seppure in modo
superficiale, ai problemi metafisici che citavo prima.

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Mi avvio a concludere chiedendovi di riflettere su questo:
pensate agli ideali della vita e provate a chiedervi: qual è il modo
migliore di vivere? Come posso essere felice? Non posso sapere già
adesso, in questa vita, al di là di conoscere astrattamente la verità, qual
è il modo di vivere pienamente un'esistenza felice nonostante i
momenti di sofferenza?
Certo non è una cosa facile e certe domande esigono risposte
scomode, mentre è forse più comodo far finta di nulla. Ma il filosofo
è quel "rompiscatole" che vuole andare a fondo, a tutti i costi, e non si
accontenta di mezze risposte, di ovvietà, di banalità.
La filosofia, oggi come sempre, può mantenere vivo un clima
di libertà intellettuale, di discussione, di apertura verso il nuovo. Essa
può favorire la creatività, la fantasia, la riflessione, sviluppare una
maggiore intelligenza critica ed autonoma; in una parola, può
insegnare ad essere un po' più liberi e felici. Ecco che cos’è, oggi
come sempre, la filosofia.

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ALLE ORIGINI DEL PENSIERO GRECO

Le origini greche
Partiamo anzitutto dal nome stesso. Secondo una tradizione
riportata, tra gli altri, da Diogene Laerzio, Pitagora (sì, proprio quello
del teorema!) per primo avrebbe usato la parola filosofia in un
significato specifico. “Era solito dire che la vita è simile ad una panegiria:
come infatti alcuni partecipano a questa per lottare, altri per commerciare, altri
ancora - e sono i migliori - per assistervi, così nella vita, diceva, alcuni ancora
nascono schiavi della gloria e cacciatori di guadagno, altri filosofi avidi della
verità”(Vite dei filosofi, VIII, 8). La filosofia fu dunque vista come una
attività disinteressata volta alla ricerca della verità. In altri termini, la
conoscenza fu per i Greci il massimo valore della vita. E allora,
accennando alla sapienza e alla saggezza (filosofia = amore per la
sapienza) non ci si può non soffermare sulla figura del sapiente, che
era così importante nell'antichità. Pensate che Platone stesso, che è
alle origini della filosofia occidentale, ebbene, egli stesso guardava già
al passato con venerazione perché riteneva che i veri sapienti fossero
esistiti molto tempo prima di lui; non per nulla egli si definiva “filo-
sofo” (cioè amante della sapienza) e non “-sofo”, sapiente. La sua
ricerca viene da lui chiamata “filosofia” per una forma di rispetto
verso i sapienti del passato, mentre lui era un ricercatore e non un
possessore della sapienza.

Il sapiente
Come era visto, allora, il sapiente? Il sapiente era colui che
gettava luce nell'oscurità, colui che scioglieva gli enigmi, colui che
manifestava l'ignoto e precisava l'incerto. Solo colui che scioglie
l'enigma può salvare se stesso: la conoscenza è l'istanza ultima,
rispetto alla quale si combatte la lotta suprema da parte dell'uomo.
L'arma decisiva è la sapienza. E la lotta è mortale. Si pensi al mito
della Sfinge: essa, mostro in forma di leonessa alata col volto da
donna, proponeva a tutti un enigma e uccideva chi non fosse riuscito
a rispondere esattamente. L'enigma diceva: “C'è sulla terra un animale

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che può avere quattro,due o anche tre gambe ed è sempre chiamato
con lo stesso nome”. Solo Edipo riuscì a risolverlo: è l'uomo, che
nell'infanzia va a carponi e nella vecchiaia usa una terza gamba, il
bastone. La Sfinge allora si uccise ed Edipo fu acclamato il salvatore
di Tebe. Che cosa indica tutto questo? Indica che il sapiente è colui
che riesce a capire qualche cosa che appartiene in genere all'ambito
del divino, del misterioso, qualcosa che è nascosto agli uomini. La
verità, in altri termini, appartiene all'ambito del divino e non è data agli uomini se
non in momenti o in luoghi particolari. Si pensi agli oracoli dell'antichità.

Gli oracoli
Nell’epoca classica Apollo rappresenta per antonomasia
l’aspetto legale della religione. Egli comunica i suoi consigli attraverso
gli oracoli a Delfi e ad Atene e Sparta mediante i suoi exegetai; questi
ultimi trasmettono, spiegandole, le decisioni del dio a proposito delle
liturgie dei templi e, soprattutto, delle purificazioni che si sono rese
necessarie a causa di omicidi. Infatti Apollo è diventato il dio che
tiene lontano i mali e il purificatore per eccellenza. Ogni crimine di
omicidio produceva una lordura malefica, forza di natura quasi fisica,
il miasma, flagello terribile che minacciava comunità intere. Apollo ha
contribuito a rendere più umane le antiche usanze relative
all’omicidio: la consuetudine voleva che l’autore, anche involontario,
di un delitto, fosse ucciso dalla famiglia dell’ucciso. Il codice di
Dracone introdusse l’autorità statale al posto delle vendette: spettava
al tribunale cittadino giudicare il crimine e consegnare poi il colpevole
alla famiglia della vittima.
L'oracolo di Delfi, forse il più famoso della Grecia, quando
era interrogato dagli uomini, non diceva tutto apertamente ma
neppure nascondeva del tutto: parlava accennando. L'oscurità del
responso dell'oracolo alludeva al divario enorme che vi è tra la sfera
dell'umano e quella del divino. Gli dèi, a quanto pare, amano gli
enigmi e all'uomo non rimane altro che stare al gioco e cercare di
svelarli. Gli dèi accennano all'uomo di stare in guardia quando vuole
conoscere la verità, giacché la sfera divina è sconfinata, insondabile,
terribile per l'uomo, e l'unica manifestazione sopportabile per l'uomo
è data dalla parola, parola che però, per essere appunto accettabile da
parte dell'uomo, è necessariamente enigmatica e densa di un
significato nascosto. Inoltre la manifestazione della parola nel mondo
umano non può che essere una norma di invito alla moderazione, al

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controllo, al limite, giacché la parola è il punto in cui la misteriosa e
distaccata sfera divina entra in comunicazione con la sfera umana e si
manifesta nella udibilità, cioè in una condizione sensibile, adatta
all'uomo. Il sapiente è allora colui che riesce a cogliere la parola divina, colui che
riesce a cogliere la sua verità e cerca di trasmetterla agli altri uomini. Ecco
perché i sapienti parlavano poco e quando parlavano si esprimevano
sinteticamente in detti che venivano poi trasmessi alle generazioni
future, come ad es. “Ottima è la misura” (di Cleobulo), “Conosci te stesso”
(attribuito a Talete, si trova sul frontone del tempio di Delfi, e Socrate
la farà sua), “Sappi cogliere l'opportunità” (Pittaco) ecc.
Per noi, oggi, le parole non contano poi molto: parliamo
spesso e volentieri a vanvera, diciamo una cosa e poco dopo la
smentiamo, senza preoccuparci se abbiamo ferito o no una persona
con quello che abbiamo detto. Nei tempi antichi non era così: la
parola era “densa” di significato, era “qualcosa”, aveva quasi una
realtà a sé. Tale pienezza verrà a poco a poco impoverita (lo vedremo
con i Sofisti) e solo la filosofia cercherà di ricordare l'importanza della
parola. La filosofia nascerà come attività a sé quando diventerà quella
parola che poggia esclusivamente su di sé, e che quindi non ha
bisogno di fondarsi sulla autorità di chi parla (gli dèi o l'oracolo come
nel pensiero mitico-religioso-sacro) e neppure sulla forza persuasiva
della retorica che, con la deduzione, riesce a riscuotere dei consensi(lo
vedremo quando parleremo dei Sofisti e di Socrate). In altri termini, la
filosofia vorrà essere l'imporsi di ciò che si manifesta così come si
manifesta, cioè della a-letheia, della verità. In greco a-letheia è il non-
nascosto, quindi ciò che si mostra e, proprio perché si mostra, si
impone a tutti, è da tutti riconosciuto come vero . La verità filosofica
non sarà, d'ora in poi, una semplice descrizione, come nella
narrazione mitica, ma un sapere fondato e incontrovertibile, cioè tale che
nessuna divinità e nessun uomo, per quanto grande sia la loro potenza o la
quantità delle loro argomentazioni, potrà mai confutarlo.

La religione greca
Ma vi è ancora qualcos'altro alle origini della filosofia.
Ricordiamo anzitutto la visione religiosa greca. Zeus non assomiglia
per nulla ai vecchi dèi indoeuropei del cielo: non solo non è il creatore
o l'ordinatore dell’universo, ma non appartiene neppure al gruppo
delle divinità greche primordiali. Infatti, secondo Esiodo, in principio
esisteva soltanto il Caos (Abisso), da cui sorsero Gaia (Terra) ed Eros.

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Poi Gaia generò Urano (Cielo). Dall’unione di Urano e Gaia venne al
mondo una seconda generazione divina, quella degli Uranidi: i sei
Titani (tra cui Crono) e le sue Titanici, i tre Ciclopi e i tre Ecatonchiri.
Ma Urano, poiché odiava i propri figli, li nascose nel corpo di Gaia.
Il trionfo di Zeus sui Titani equivale a una nuova
organizzazione dell’universo. Egli distribuisce la sovranità sulle tre
zone cosmiche. L’Oceano toccò a Poseidone, il Mondo sotterraneo a
Ade e il Cielo a Zeus; la terra e l’Olimpo in comune a tutti e tre
insieme. Zeus si dedica poi a una lunga serie di matrimoni. Il
significato di questi numerosi matrimoni e delle molte avventure
erotiche è allo stesso tempo religioso e politico. Con l’appropriarsi
delle dee locali pre-elleniche, venerate da tempi immemorabili, Zeus le
sostituisce e, così facendo, avvia il processo di simbiosi e di
unificazione che fornirà alla religione il suo carattere specifico. Il
trionfo di Zeus e degli dèi olimpici non coincide con la scomparsa
delle divinità e dei culti arcaici, alcuni di origine pre-ellenica. Al
contrario una parte dell’eredità antica finì per essere integrata nel
sistema religioso olimpico. Il problema dell’antropogonia (cioè della
genesi, della origine dell'umanità) non sembra invece aver
preoccupato troppo i Greci, i quali erano piuttosto interessati
all’origine di un determinato gruppo etnico, di una città, di una
dinastia.
Per ragioni che ignoriamo, gli dèi e gli uomini decisero di
separarsi amichevolmente a Mecone (cfr. Teogonia, 535). Gli uomini
offrirono il loro primo sacrificio, allo scopo di fissare in modo
definitivo i loro rapporti con gli dèi. E fu proprio questa la prima
occasione in cui intervenne Prometeo. Il mito lo conosciamo. Irato,
Zeus decise di punire sia gli uomini sia il loro protettore. E se
Prometeo venne incatenato, agli uomini invece Zeus inviò la donna,
questa “bella calamità”(come si dice in Teogonia, 585), sotto la forma
specifica di Pandora. Prometeo insomma, ben lungi dall’essere un
benefattore dell’umanità, sarebbe il responsabile della sua attuale
decadenza. A Mecone egli provocò la definitiva separazione fra gli dèi
e gli uomini. In seguito, rubando il fuoco, esasperò Zeus e causò così
l’intervento di Pandora, vale a dire la comparsa della donna, e quindi
la propagazione di ogni sorta di affanni, tribolazioni e sventure. Per
Esiodo, il mito di Prometeo spiega l’irruzione del male nel mondo:
esso, in fin dei conti, rappresenta la vendetta di Zeus.
Questa visione pessimistica della storia umana non si affermò
tuttavia in modo definitivo. Per il grande tragediografo Eschilo, il

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quale sostituisce al mito della primordiale età dell’oro il tema del
progresso, Prometeo è invece il più grande tra gli eroi apportatori di
civiltà perché donò agli uomini il fuoco e li liberò dalla paura della
morte (cfr. Prometeo incatenato, 248). Anzi nella Atene del V secolo a.C.,
Prometeo aveva già la sua festa annuale ed era inoltre associato ad
Efesto e ad Atena.
Il problema della giustizia divina, insieme col suo corollario
del destino umano, appassionava il pensiero greco posteriore ad
Omero. Vista in una prospettiva più moderna, la religione greca
sembra costruirsi all’insegna del pessimismo: l’esistenza umana è per
definizione effimera e carica di affanni. Teognide (cfr. 425-428),
Pindaro (cfr. fr. 157) e Sofocle (cfr. Edipo a Colono, 1219 ss.)
affermano che la sorte migliore per gli uomini sarebbe non essere mai
nati, oppure, una volta nati, di morire il più in fretta possibile. La
morte però non risolve nulla perché non determina la totale e
definitiva estinzione. Per i contemporanei di Omero la morte
consisteva in una sorta di post-esistenza ridotta e umiliante nelle
tenebre sotterranee dell’Ade, popolate da pallide ombre, prive di ogni
forza e memoria. D’altra parte, il bene compiuto sulla terra non era
ricompensato e, viceversa, il male non veniva punito. Questa
concezione pessimistica si impose fatalmente quando il greco prese
coscienza della precarietà della condizione umana. Da un lato l’uomo
non è, in senso stretto, la creatura di una divinità (come nei tre
monoteismi) per cui non osa sperare che le sue preghiere potranno
stabilire una certa ‘intimità’ con gli dèi. Dall’altro l’uomo sa che la sua
vita è già decisa dal destino, la moira o l’aisa, la sorte o porzione che gli
fu attribuita, vale a dire, insomma, il tempo assegnatogli fino alla
morte. La morte veniva quindi decisa al momento della nascita. Di
norma Zeus avrebbe potuto modificare il destino ma un gesto simile
avrebbe avuto l’effetto di annullare le leggi dell’universo, cioè della
giustizia (dike). Questo ci dice che lo stesso Zeus riconosce la
supremazia della giustizia; d’altra parte dike non è che la
manifestazione concreta, nella società umana, dell’ordine universale,
detto anche Legge divina (themis). Il primo dovere dell’uomo è quello
di essere giusto e di dare prova di onore (timè) nei confronti degli dèi,
in particolare offrendo loro dei sacrifici.
Più tardi, nell’Iliade possiamo già riconoscere in Zeus il
protettore della dike, dal momento che egli è il garante dei giuramenti
e protegge gli stranieri, gli ospiti e i supplici. Gli dèi, insomma, non
colpiscono senza ragione i mortali, finché essi non trasgrediscono i

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limiti della loro natura umana. È però difficile non trasgredire i limiti
imposti, perché l’ideale dell’uomo è l’eccellere (areté). Un successo
eccessivo rischia però di suscitare un orgoglio smisurato e l’insolenza
o tracotanza (hybris).L’hybris suscita una follia momentanea (ate) che
acceca la vittima e la porta alla rovina. Ciò significa che l’hybris e il suo
risultato, l’ate, sono i mezzi attraverso cui si realizza, in certi casi (eroi,
re, avventurieri ecc.), la moira, la porzione di vita concessa alla nascita
a questi mortali troppo ambiziosi o semplicemente allettati dall’ideale
della eccellenza. L’uomo dispone, in definitiva, solo dei propri limiti,
assegnati dalla sua condizione umana e, in particolare, dalla sua moira.
La saggezza incomincia con la coscienza della finitezza e della
precarietà della vita umana. Si tratta, dunque, di approfittare di tutto
ciò che ci può offrire il presente: giovinezza, salute, gioie fisiche od
occasioni di mettere in pratica le virtù. È questa la lezione di Omero:
vivere totalmente, ma nobilmente, nel presente. Lungi dall’inibire le
forze creatrici del genio religioso greco, questa visione tragica ha
condotto ad una paradossale rivalutazione della condizione umana.
Dal momento che gli dèi l’hanno costretto a non oltrepassare i propri
limiti, l’uomo ha finito per realizzare la perfezione e, pertanto, la
sacralità della condizione umana. In altre parole, egli ha riscoperto e
perfezionato il senso religioso della ‘gioia di vivere’, il valore
sacramentale dell’esperienza erotica e della bellezza del corpo umano,
la funzione religiosa di ogni festeggiamento organizzato
collettivamente – processioni, giochi, danze, canti, competizioni
sportive, spettacoli, banchetti ecc. Il senso religioso della perfezione
del corpo umano – la bellezza fisica, l’armonia dei movimenti, la
calma, la serenità – valse ad ispirare il canone artistico.
L’antropomorfismo degli dèi greci, quale lo possiamo cogliere nei miti
e che sarà più tardi aspramente rimproverato dai filosofi, ritrova il suo
significato religioso nella statuaria divina. Paradossalmente, una
religione che proclamava la distanza irriducibile tra il mondo divino e
quello dei mortali, considera la perfezione del corpo umano come la
rappresentazione più adeguata degli dèi.
L’elemento che più mi preme sottolineare è però la
valorizzazione religiosa del presente; il semplice fatto di esistere, di
vivere nel tempo, comporta già una dimensione religiosa. La gioia di
vivere scoperta dai Greci non è però un godimento di tipo profano:
rivela la beatitudine di esistere, di partecipare – anche in modo
fuggevole – alla spontaneità della vita e alla grandiosità del mondo.
Come tanti altri prima e dopo di loro, i Greci hanno appreso che il

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mezzo più sicuro di sfuggire al tempo è quello di sfruttare fino in
fondo la ricchezza, a prima vista insospettabile, dell’attimo fuggente.

BIBLIOGRAFIA
Blumenberg, Il riso della donna di Tracia, Il Mulino
Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, ed. Einaudi
Vegetti, L'etica degli antichi, Laterza
Vernant, Mito e pensiero presso i Greci, Einaudi
Vernant-Vidal Naquet, Mito e tragedia nell'antica Grecia, ed.
Einaudi

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LA MORALE OMERICA E CLASSICA.
LA TRAGEDIA

La morale omerica e classica


Il primo documento della cultura greca che sia giunto fino a
noi è un corpo di narrazioni epiche raccolto in due opere di altissimo
valore letterario, l’Iliade e l’Odissea. Per esse ci è stato tramandato il
nome di Omero, ma non abbia notizie sicure che sia stato il loro
autore. D’altra parte si ricordi che per i greci l’artista o l’artigiano,
quando producono un’opera, non ne sono gli autori nel nostro senso
del termine: essi non creano nulla ma la loro funzione è solamente
quella di incarnare nella materia una forma preesistente, indipendente
e superiore alla loro techné (arte, tecnica). L’opera insomma possiede
più perfezione dell’artefice: l’uomo è molto più piccolo del suo
compito. Comunque, queste opere (circa 6° sec. a.C.) per un lungo
periodo circolarono oralmente, tramandate dagli aedi, i poeti-cantori
dell’età arcaica. Essi svolgevano una funzione estremamente
importante: erano la memoria vivente del popolo, i maestri e
annunciatori di una visione religiosa del mondo. I poeti conoscono le
antiche narrazioni e possono dunque fornire all’uomo greco una
molteplicità di esempi che lo guidino in ogni situazione. Sono in
grado di offrire modelli di comportamento a cui adeguarsi, supremi
esempi di valore. Non per nulla Omero fu definito da Senofane come
“l’uomo da cui tutto il mondo ha imparato sin dai primordi”.
I poemi omerici rispecchiano i valori della società greca agli
inizi dell’età arcaica. Gli avvenimenti narrati, però, si collocano in un
passato ormai lontano, nella età degli eroi (verso la fine del 2°
millennio a.C.). ed è proprio la figura dell’eroe che riveste molta
importanza per la morale omerica.
L’eroe della società omerica è una figura legata ad uno status
particolare, quello di una aristocrazia regale e militare; è il capo di una
casata che detiene la sovranità su una comunità e sul suo territorio.
L’eroe è per eccellenza agathos, che significa buono, nobile, ma anche
buono a, capace di, come noi diciamo di un “buon guerriero” o di un
“buon strumento”. L’insieme delle prestazioni eccellenti di cui l’eroe è
capace costituiscono la sua aretè, la sua virtus alla latina, appunto la sua

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eccellenza, il suo valore, che non si riferisce tanto alla vita morale
quanto piuttosto indica nobiltà, capacità, successo, imponenza. Si
tratta in Omero di una virtuosità che si esprime nella capacità di far
prevalere la propria forza sui nemici e rivali.
L’etica eroica è un’etica dell’onore (timé) e della gloria, un’etica
estremamente aristocratica e individualistica. L’ideale per l’uomo è
l’eccellere, la aretè. Fin dalla sua fanciullezza il giovane viene esortato a
preoccuparsi del suo buon nome: deve far sì che gli altri lo avvicinino
col dovuto rispetto. L’onore è perciò ancora più importante della vita;
per la gloria e per l’onore il giovane nobile mette in gioco la vita
stessa. Sommo bene è, in Omero, sentir parlare bene di sé, sommo
male è sentirsi dileggiare dalla propria società a seguito
rispettivamente dei successi o delle sconfitte che quella società
massimamente considera. In altre parole, la società omerica è una
civiltà che si fonda sul sentimento della vergogna. Non è tanto la
colpa oppure il peccato ma la vergogna a sancire il decadimento
dell’eccellenza dell’eroe, la perdita della sua condizione di esemplarità.
Una buona reputazione (eukleia) in questo mondo è la sola cosa che
importa. Perciò in questa vita l’uomo deve cercare di assicurare a se
stesso l’elemento più duraturo in un mondo dove tutto cambia: deve
assicurare una posizione di fama e di rispetto di sé e per la propria
famiglia, una buona reputazione che rimarrà dopo la morte. La gloria
è, per il greco antico, quella forma di immortalità che è concessa
anche ai mortali. Niente altro può importare altrettanto. Questo è
dunque l’atteggiamento normale in quell’epoca a noi così lontana!
Abbiamo visto che l’eroe omerico è il depositario della aretè, la
virtù propria del nobile. Orbene, gli eroi, che sono i più forti e più
coraggiosi tra gli uomini, combattono ed operano in un contesto non
solo umano ma divino, perché gli dèi – si pensi a quanto è descritto
nell’Iliade e nell’Odissea – li proteggono o li ostacolano, li guidano e li
combattono. A questo proposito si consideri che uno dei tratti di
maggiore genialità dell’Iliade e dell’Odissea è proprio la completa
antropomorfizzazione degli dèi, nel senso di una radicale liberazione
degli uomini da un divino concepito nelle figure arcaiche dell’ignoto,
del terribile, del radicalmente altro.
Tornando alla figura dell’eroe, si pensi ad esempio ad Achille:
l’Iliade non è forse la gigantesca storia di una passione travolgente, la
famosissima ira di Achille? Nel mondo omerico, l’eccesso passionale e
sentimentale è una cosa normale, e costituisce la dimensione stessa
dell’eccellenza (aretè) di un eroe. Nei poemi omerici è descritto più

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volte un tale conflitto tra le passioni che convivono nel nostro animo.
Se siamo in preda all’odio, all’amore, alla sete di gloria ecc. è come se
il nostro io fosse sì parte in causa ma anche spettatore di un evento
che accade davanti ai suoi occhi interiori. Le passioni, infatti, giunte al
loro culmine, non possono essere facilmente tenute a freno e il nostro
io ne è quasi prigioniero. In Omero manca ancora una chiara
consapevolezza della padronanza dell’uomo su se stesso e della sua
libertà, pur nel quadro di una complessa rete di influenze che
agiscono oggettivamente dall’esterno (come l’ambiente, la società, le
situazioni ecc.). Ma c’è di più: possiamo dire che la morale dei greci è
proprio priva di un concetto-cardine dell’etica moderna, e cioè il
concetto di obbligo e di responsabilità morale, nel senso che non si tiene
conto delle intenzioni ma solo dell’esito delle azioni e, visto che
nessuno, quando fa qualcosa, ha l’intenzione di non riuscire, quel che
conta è il successo o l’insuccesso dell’azione. Le qualità competitive,
in altre parole, e cioè l’ingegno e il coraggio, sono più importanti di
altre qualità come ad es. l’agire in modo giusto. Esse sole permettono
di conseguire il successo e la fama e di evitare l’insuccesso e l’infamia.
Quando ad es. Ulisse non sa cosa fare in una determinata azione ( cfr.
per es. Iliade, 11, 404-410), per risolvere i suoi dubbi basta che pensi di
appartenere ad una data categoria e di dover adempiere la virtù che le
è propria. Egli non si richiama ad un bene più o meno astratto, bensì
alla cerchia a cui sa di appartenere. È come se un ufficiale dicesse:
“come ufficiale devo agire in questo o quel modo”, e si richiamasse
così alle solide concezioni dell’onore della sua categoria.
Ma non basta. Nel primo libro dell’Iliade, quando Achille
vuole, nella sua ira, affrontare Agamennone con la spada, la dea Atena
lo trattiene e lo ammonisce: “Io vengo dal cielo a calmare il tuo menos
(ira); se tu mi obbedisci… poni fine al litigio e non brandire la spada”
(vv. 207-210).
Già nell’antichità si sono interpretate queste parole come un
ammonimento alla moderazione. Atena invita Achille a frenare il suo
impulso; si presenta qui, in germe, un fenomeno che possiamo
chiamare freno morale, e che Omero, in più luoghi, definisce come
moderazione o anche raffrenamento. Parlando così di freno, egli
mostra di concepire l’emotività come qualcosa di selvaggio, di
bestiale, e quindi la facoltà di trattenerla è veramente qualcosa che
eleva l’uomo al di sopra degli animali. Così, ogni volta che una
passione viene raffrenata, è male l’azione positiva, ed è bene invece
l’astenersi da essa. A queste situazioni si riferiscono, nell’antichità, i

21
comandamenti o meglio, i divieti “non uccidere”, “non rubare”, “non
commettere adulterio”. Essi erano espressi in forma negativa, ma si
riferivano a situazioni molto concrete, ed era quello l’importante per
l’uomo antico: non tanto il riferimento alla astrattezza di un bene
quanto la concretezza di un’azione. Interviene qui un altro
sentimento, altrettanto forte nell’etica arcaica: è lo aidòs, il rispetto o
soggezione. In origine fu il sentimento che si provava nei confronti
del sacro, in seguito significò il rispetto per i propri pari, e poiché
l’onore ha così tanta importanza in quella società, il rispetto di
quell’onore, l’aidos, fu il sentimento a sostegno della autorità e della
gerarchia nella società primitiva e fu il mezzo più potente per porre un
freno all’uomo. Non per nulla, tornando all’esempio che citavo, Atena
ammonisce Achille di non abbandonarsi al suo impeto selvaggio, a
non offendere il pio sentimento del rispetto.
Vi è poi in Omero (e questo rimarrà a lungo nella cultura
greca, fino all’età classica) la concezione di una duplice natura
dell’uomo: da un lato egli si sente in balìa di forze che lo sovrastano,
dall’altro però non smarrisce il senso della propria forza e del proprio
carattere. Tipica è, a questo riguardo, la situazione dell’uomo rispetto
al destino. La vita umana è concepita entro i confini segnati dagli dèi e
dal destino (Moira), a cui tutti devono sottostare (cfr. ad es. l’ottavo
libro dell’Iliade, 1-52). Nella vita non si può sapere qual è il fato di una
persona e non si può pretendere di agire a dispetto di esso. Nella vita,
la fede nella Moira serve solo a indicare che quanto è Moira deve
accadere. Il bene e il male, d’altra parte, non sono pensati come valori
morali, come concetti astratti o come caratteri propri delle cose: il
bene e il male sono forze oggettive, potenze che convivono
nell’universo e tra esse Zeus pone equilibrio. Felice dunque l’uomo a
cui Zeus manda il bene; infelice l’uomo a cui Zeus manda i mali. Vi è
nell’uomo, profondamente radicata, la speranza che il bene venga
premiato e il male punito ma poiché è evidente che non sempre ciò
avviene in questo mondo, la risposta dei Greci, dopo parecchi sforzi
speculativi, fu la seguente: se il malfattore riesce a sottrarsi alla
punizione in questa vita, la subiranno i suoi discendenti. Gli dèi
puniscono prima o poi l’azione malvagia ma gli uomini non se ne
accorgono perché non sempre gli dèi eseguono la condanna al tempo
in cui viene commessa l’offesa: possono trascorrere più generazioni
prima che sia eseguita la punizione. Se un uomo è ingiusto e prospera,
i suoi discendenti hanno la certezza di soffrire; se egli non prospera,
ciò è solo quanto si è meritato; se è giusto e prospera, si merita di

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prosperare; se è è giusto e non prospera, sta semplicemente
scontando i misfatti di qualche antenato.
La saggezza, per l’uomo greco, comincerà infatti dalla
coscienza della finitezza e della precarietà della vita umana, ed è
questa la lezione fondamentale di Omero: vivere totalmente ma
nobilmente nel presente. Dal momento che gli dèi hanno costretto
l’uomo a non oltrepassare i propri limiti (si pensi alle massime come
“Ottima è la misura”, “Nulla di troppo” ecc.), egli ha allora finito per
cercare la perfezione e pertanto, la sacralità, nella e della vita umana.
In altri termini, l’uomo greco ha riscoperto e perfezionato il senso
religioso della gioia di vivere, il valore sacramentale della esperienza
erotica e della bellezza del corpo umano, la funzione religiosa di ogni
festeggiamento organizzato collettivamente (processioni, giochi,
danze, canti, competizioni sportive, spettacoli, banchetti ecc.). La
gioia di vivere scoperta dai Greci non fu un godimento di tipo
profano: rivela la beatitudine di esistere, di partecipare, anche in modo
fuggevole, alla spontaneità della vita e alla grandiosità del mondo. I
Greci hanno appreso che il mezzo più sicuro per sfuggire al tempo è
quello di sfruttare sino in fondo la ricchezza – a prima vista
insospettabile – dell’attimo fuggente. Il carpe diem latino è l'invito a
cogliere il meglio che l'oggi ti offre, è vivere bene il tempo concesso, è
saper sfruttare al meglio le opportunità che ti offre il presente.

La tragedia greca
I Greci si ponevano di fronte al teatro in modo assai diverso
dai moderni: il nostro “andare a teatro” è espressione di una scelta
individuale, legata a obbiettivi di svago e a interessi di ordine culturale
e collocata nella sfera del tempo libero; i Greci, invece, assistevano
alla rappresentazione teatrale nel corso di una solenne festa religiosa,
programmata e organizzata dallo Stato. Per l’ateniese del 5° secolo
a.C., nel teatro aveva luogo una esperienza politica-religiosa di grande
importanza.
Le prime notizie relativamente attendibili circa l’evoluzione
della tragedia risalgono agli anni della 61° Olimpiade (535-533 a.C.),
quando il tiranno Pisistrato introdusse nella città i primi concorsi
tragici, all’interno delle feste riservate al culto di Dioniso, “le Grandi
Dionisie” (all’inizio della primavera); ciò avvenne nello spirito di una
politica culturale finalizzata a consolidare il legame tra Stato e popolo,
un obbiettivo caratteristico della tirannide dei Pisistratidi. Col

23
passaggio alla democrazia, all’inizio del quinto secolo a.C., l’arte
tragica conosce un rigoglioso sviluppo e si inserisce sempre più
organicamente nel tessuto della vita cittadina. Il pubblico della
tragedia non è costituito da una élite di cultura o di censo, ma da tutta
la polis: la rappresentazione tragica costituisce dunque un momento
della vita sociale democratica.
L’arconte eponimo (il magistrato che dava il nome all’anno in
cui era in carica) doveva, in primo luogo, selezionare gli spettacoli da
rappresentare: ciascun poeta, infatti, presentava una trilogia (gruppo
di tre tragedie, non necessariamente omogenee nel tema) più un
dramma satiresco. Tra le varie trilogie proposte, l’arconte ne sceglieva
tre, quindi nominava, per ogni poeta, un corego, cioè un cittadino che
finanziasse l’allestimento dell’opera. I giudici venivano scelti
all’interno di un elenco di nomi stilato da ciascuna delle dieci tribù in
cui era suddivisa la popolazione ateniese. La celebrazione delle Grandi
Dionisie durava sette giorni ed era caratterizzata da grande solennità.
Il teatro (capace di 10-20.000 posti) si affollava di cittadini di ogni
classe sociale, di meteci(stranieri con privilegi giuridici ma non
politici) e dei molti stranieri che la primavera portava ad Atene. Le
rappresentazioni duravano dall’alba al tramonto. Nella sua forma
definitiva, la tragedia prevedeva l’intervento di tre attori e di dodici
coreuti (uno dei quali impersonava il corifeo, che dialogava con gli
attori a nome del coro). Gli attori erano mascherati, riccamente
abbigliati e indossavano alti calzari (coturni). Ciascun attore
impersonava più parti, cambiando la maschera; le parti femminili
erano interpretate da attori maschi. Alla fine veniva reso noto il
verdetto: il poeta e il corego vincitore erano incornati e i loro nomi
inseriti in appositi elenchi ufficiali.
Il pubblico aveva, nel teatro, l’occasione di compiere
un’intensa esperienza emotiva e conoscitiva. La realtà di cui il
cittadino ateniese fa esperienza nel teatro è altrettanto concreta e
presente di quella della sua esistenza quotidiana. Tuttavia non si
identifica con quest’ultima: lo spettatore viene in qualche modo,
strappato alla vita di tutti i giorni e proiettato in una situazione capace
di rivelare significati nuovi e più alti. È la tradizione mitico-religiosa,
non la storia vicina o contemporanea (con l’unica eccezione dei
Persiani di Eschilo), né l’invenzione del poeta ad offrire alla tragedia
dei suoi temi.
Occorre però chiarire meglio quale rapporto con la tradizione
mitico-religiosa si instauri nella tragedia. Quando quest’ultima si

24
afferma e istituzionalizza in Atene, il mondo del mito è già percepito
come distante, ma non per questo esso è vissuto come estraneo o
insignificante. I Greci, almeno per tutta la prima metà del quinto
secolo a.C., continuano a guardare al mito come ad un elemento
costitutivo della loro identità collettiva, un passato in cui il presente
affonda le sue radici. Ciò rende possibile, nella tragedia, la
riattualizzazione del mito stesso e dei suoi significati. Gli eventi rappresentati
sulla scena sono vissuti come contemporanei da chi li interpreta e da
chi li contempla. Certamente, nella tragedia, il rapporto col mito ha
carattere problematico: è una sorta di filtro attraverso il quale lo
spettatore è chiamato a riflettere e a interrogarsi su valori, credenze,
istituzioni, sulla sua stessa esistenza. È di grande importanza, in
questo senso, la figura dell’eroe mitico, di cui nella tragedia si fanno
rivivere le peripezie e le sofferenze. L’eroe mitico è in se stesso
problematico: vivono in lui qualità opposte: coraggio, fermezza,
capacità di soffrire, ma anche violenza, follia, orgogliosa tracotanza
(hybris). Protagonista di un mondo arcaico, che non ha nulla più a che
vedere con quello della polis, l’eroe offre tuttavia allo spettatore un
emblema paradigmatico della condizione umana.
La situazione tragica è dunque una situazione fortemente
dinamica, in cui la vita dell’uomo viene problematizzata in modo
radicale: l’eroe tragico è posto in una situazione-limite, in cui tutto
viene messo in gioco, dove l’impegno è totale, dove quindi il fondo
delle cose e la loro verità possono venire alla luce. La grandezza
dell’eroe tragico consiste appunto nel modo in cui esso è alle prese
con la verità. Due elementi caratterizzano l’esperienza del tragico che
viene rappresentata sulla scena: il conflitto e l’enigma. Il conflitto si rivela
in ogni ambito della realtà, ma esso avviene sempre in rapporto ad un
uomo che ne fa esperienza: la tragicità appartiene in modo essenziale
alla condizione umana. Nel conflitto, anche la verità appare
contraddittoria: essa non è mai una, certa, data una volta per tutte, ma
molteplice e mutevole. Il rapporto dell’uomo con la conoscenza si
rivela ambiguo, oscuro: un doppio volto emerge di continuo nelle
cose. La tragedia rivela dunque la contraddittorietà e la non
trasparenza della realtà e del rapporto dell’uomo con essa, e pone lo
spettatore di fronte a questa scoperta.
Conflitto ed enigma contrassegnano tutti i grandi temi della
situazione tragica. Al centro sta il rapporto tra l’uomo e ciò che lo
trascende, tra umano e divino. Nel divino dobbiamo comprendere
non solo i vari dèi ma anche e soprattutto il complesso di quelle forze

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della cui ineluttabilità e imperscrutabilità l’eroe tragico fa esperienza e
che sono nominate come destino. In ogni momento l’eroe tragico si
scontra con l’impossibilità di determinare autonomamente il corso
degli eventi, di rendere totalmente trasparente il mistero in cui si trova
immerso. In ogni sua azione egli si scopre collaboratore di una
volontà superiore, strumento di attuazione di un destino che non può
controllare. Progetti, intenzioni mostrano la loro fragilità di fronte
all’imprevisto, rovesciandosi in effetti contrari a quelli voluti.
In questa luce, vanno considerati altri due temi fondamentali,
che riguardano specificamente l’ambito etico, e cioè quello della
decisione e della colpa tragica. “Che cosa farò?”, si chiedono spesso
angosciosamente i personaggi sulla scena. Di fronte al dilemma, la
scelta è forzata e insieme oscura. Ethos, il carattere singolo, e daimon, la
potenza divina: questi sono dunque i due ordini di realtà in cui si
radica in genere la decisione tragica. Poiché l’origine dell’azione si
colloca insieme nell’uomo e fuori di lui, lo stesso personaggio appare
ora agente, causa e fonte dei suoi atti, ora elemento passivo, immerso
in una forza che lo supera e lo trascina. Causalità umana e causalità
divina, se si mescolano così nell’azione tragica, non per questo sono
confuse. I due piani sono distinti, talvolta antitetici. Si tratta di due
aspetti contrari e indissociabili che le medesime azioni rivestono, in
funzione del punto di vista da cui ci si pone. Qual è allora il significato
di questa tensione costantemente mantenuta dai tragici tra l’agito e il
subito, l’intenzionale e il costretto, la spontaneità interna dell’eroe e il
destino fissato in anticipo dagli dèi? In quale misura il protagonista del
dramma è veramente la fonte delle sue azioni? La loro vera portata
non gli resta forse ignota fino all’ultimo?
Per la nostra cultura, la responsabilità personale è sempre
associata alla consapevolezza, ad una scelta compiuta con libero
arbitrio. Nella cultura greca arcaica, al contrario, si può essere
colpevoli di atti compiuti senza consapevolezza, come mostra la
figura dell’Edipo re di Sofocle che, senza saperlo, in forza della
maledizione che grava sulla sua stirpe, uccide il padre e sposa la
madre. Nella tragedia ne risulta una riflessione sulla ambiguità del
concetto di colpa: l’eroe tragico è colpevole e innocente insieme.
Ripensiamo ad Edipo: due crimini terribili, parricidio ed incesto, sono
stati commessi. Essi non possono venire cancellati, esigono
riparazione. Questo è il fatto, di fronte al quale non si può concepire
che nessuno sia colpevole. Colpevole è allora Edipo, che porta la
responsabilità del suo destino. Ma proprio qui la tragedia solleva il

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problema: in quanto ha agito inconsapevolmente, Edipo non è forse
innocente? La tragicità della sua figura – che apre un interrogativo
sull’agire dell’uomo – è nella ambiguità di questa contraddizione.
Operando ad un duplice livello, decisione e responsabilità rivestono
nella tragedia un carattere ambiguo, enigmatico. Si presentano come
problemi che restano continuamente aperti perché non comportano
una risposta fissa e univoca. La consapevolezza tragica si costituisce
così in un confronto costante tra l’antica concezione della colpa come
macchia legata a tutta una stirpe, che si trasmette inesorabilmente di
generazione in generazione sotto forma di una ate, una follia inviata
dagli dèi, e la Moira, concezione in cui il colpevole si definisce come
un individuo che, senza esservi costretto. Ha scelto deliberatamente di
commettere un delitto, giacché la sua azione si inserisce in un ordine
temporale sul quale egli non ha presa e che subisce, i suoi atti gli
sfuggono, lo superano. Nella Atene del quinto secolo a.C. l’individuo
è già visto come soggetto di diritto; l’intenzione della gente è già
riconosciuta come un elemento fondamentale di quella che noi
chiamiamo responsabilità. Ma né l’individuo né la sua vita interiore
hanno ancora acquisito sufficiente consistenza e autonomia da
costituire il soggetto in un centro decisionale, da cui promanerebbero
i sui atti, come siamo abituati noi a pensarlo. Avulso dalle sue radici
familiari, civiche, religiose, l’individuo non è più niente, cessa di
esistere. Si badi: agire, per i Greci dell’età classica, non significa tanto
organizzare e dominare il tempo, quanto escludersene, superarlo.
Trascinata nel flusso della vita umana, l’azione si rivela – senza il
soccorso degli dèi – illusoria, vana e impotente. Le manca il possesso
di quella forza di realizzazione e di quella efficacia di cui solo la
divinità ha il privilegio. La tragedia esprime quella debolezza
dell’azione, quella povertà interiore della gente, facendo apparire,
dietro agli uomini, gli dèi all’opera, da un capo all’altro del dramma,
per condurre ogni cosa al suo termine.
Nel conflitto tra individuo e destino, libertà e necessità,
innocenza e colpa, la tragedia greca rappresenta il dolore come nota
dominante dell’esistenza. I personaggi tragici soffrono e la
partecipazione alla sofferenza appartiene allo spettatore. Ma la
tragedia pone anche un forte legame e conoscenza: questo vuol dire
che non vi è tragicità senza consapevolezza. L’eroe tragico soffre
consapevolmente. Egli vive la condizione di una coscienza tragica. Ma
vi è ancora un altro aspetto importante di questa relazione: attraverso
il dolore si genera conoscenza, e questo vale sia per i personaggi sulla

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scena che per il pubblico in teatro. L’antico detto di Esiodo, “solo
soffrendo lo stolto impara”, diventa il senso fondamentale
dell’esperienza tragica: nel dolore l’uomo acquista la consapevolezza
di ciò che è, del carattere conflittuale ed enigmatico della realtà e della
sua vita. Nella tragedia si trova così già tutto o quasi quello che
corrisponderà al pensiero filosofico: l’interrogativo, l’apertura
spirituale, lo stupore, il crollo delle illusioni, la ricerca della verità. Per
tutto il quinto secolo a.C., la tragedia respirerà con la filosofia
l’intenso clima culturale ateniese: la polis del vecchio Eschilo, di
Sofocle e di Euripide è anche quella dei filosofi presocratici e dei
sofisti. Con la fine del secolo, la comunanza di percorso tra tragedia e
filosofia giungerà al termine. La tragedia ha ormai esaurito le sue
potenzialità, in una polis che si avvia a concludere la sua esperienza
storica e in cui il legame fra individuo e comunità si allenta in modo
ormai irreversibile. La tragedia del quarto secolo diventerà infatti
spettacolo ed il compito dell’indagine e della meditazione sulla realtà
sarà assunto per intero dalla filosofia, che costituirà in forma di
concetti, e non più di figure, il suo discorso.

Riassunto dell’Edipo Re di Sofocle


Laio, re di Tebe, non avendo avuto figli dalla moglie Giocasta, interroga
l’oracolo dal quale viene a sapere che il figlio che potrebbe nascere sarà il suo
uccisore. L’ammonimento è vano, la moglie gli dà infine l’erede non voluto e Laio,
per cercare di sventare il disegno degli dèi, fa in modo che il neonato venga
abbandonato sul monte Cicerone con i piedi feriti. Trovato da alcuni pastori, viene
portato a Polibo, re di Corinto, che, non avendo discendenza, lo tiene come figlio.
Edipo viene allevato ed educato nell’ambiente di corte finché un giorno le parole di
un ubriaco lo mettono in sospetto sul proprio passato e sul proprio avvenire.
Interrogato l’oracolo, il giovane ascolta una terribile profezia: egli ucciderà il padre
e sposerà la madre dalla quale avrà dei figli. Nella convinzione di essere figlio di
Polibo, lascia Corinto e raggiunge la Focile; incontra sul suo cammino Laio che
blocca il passaggio. I due naturalmente non si riconoscono. Nasce un futile alterco
durante il quale Edipo uccide il padre. Quindi arriva a Tebe dove un mostro, la
Sfinge, gioca con la vita degli uomini ponendola come posta alla soluzione di un
enigma che nessuno fino ad allora era riuscito a risolvere: “Qual è l’animale che va
con quattro piedi al mattino, con due al pomeriggio e con tre la sera?”. Anche a
Edipo viene rivolta la domanda ed egli risponde: “l’uomo”, salvando così Tebe dal
mostro che si autodistrugge. Nel frattempo Creonte, fratello di Giocasta, aveva

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promesso di dare in sposa sua sorella a chi avesse liberato Tebe dal mostro. Edipo
ottiene così il trono della città e sposa Giocasta, sua madre, dalla quale ha quattro
figli: Eteocle e Polinice, Antigone e Ismene. Dopo un certo tempo, a Tebe scoppia
una epidemia e ancora l’oracolo spiega che la causa di ciò è la presenta in città
dell’uccisore di Laio. Edipo inizia affannose ricerche che lo porteranno a scoprire
la verità: egli stesso ha ucciso suo padre e ha sposato sua madre. Giocasta ci
impicca, Edipo si acceca e se ne va errabondo finché giunge a Colono, villaggio
dell’Attica vicino ad Atene, nel bosco sacro alle benevoli Eumenidi. Là doveva
compiersi la sua esistenza. Egli sparisce misteriosamente, dopo aver predetto a
Teseo, re di Atene, l’avvenire della città.

BIBLIOGRAFIA
Vegetti, L’etica degli antichi, Laterza
Trombino, La filosofia occidentale e i suoi problemi, vol. 1°,
Poseidonia.
Snell, La cultura greca, Einaudi
Adkins, La morale dei greci, Laterza.
Snell, La cultura greca, Einaudi
Vernant e Vidal-Naquet, Mito e tragedia nell’antica Grecia,
Einaudi

29
I PRIMI FILOSOFI

Gli ultimi sapienti o i primi filosofi?


Aristotele aveva riconosciuto agli egizi la scoperta della
matematica, ma rivendicava ai greci e alla loro mitologia l’elaborazione
delle teorie cosmologiche. Il rapporto tra la tradizione mitologica e la
filosofia greca è rimasto un problema storiografico fondamentale, sul
quale ancora una volta Aristotele ha esercitato la sua influenza:
l’interpretazione aristotelica faceva infatti nascere la filosofia nel
momento in cui si usciva dal mito per cercare princìpi e cause. Si è
infatti cercato di ricavare da Esiodo, soprattutto attraverso il
confronto con Omero, una sorta di cosmologia ingenua, che
dovrebbe poter essere attribuita alla cultura diffusa e alla mentalità
greca originaria.
La ricomparsa dell’Oriente nella mitologia greca complica il
problema della nascita della filosofia dal mito e rende meno facile
rappresentarla come l’emergere della razionalità, se non addirittura
della scienza, o anche soltanto come sostituzione dell’immagine
diffusa del mondo con un’immagine di tipo diverso. Abbiamo detto
quanto sia difficile parlare di un’immagine diffusa dell’universo e
pretendere di trovarla in Omero o in Esiodo. E non è detto che tutto
questo possa essere descritto come il passaggio dal mito alla ragione.
La cosiddetta razionalità potrebbe semplicemente consistere
nell’assunzione di schemi derivanti da una tradizione mitologica prima
inglobata in un’altra e poi resasi autonoma. In realtà non siamo
abbastanza informati per dire che Talete o i suoi presunti scolari
volessero opporsi alle credenze religiose di qualcuno o volessero
condurre un’impresa simile a quella che si solito viene indicata come
la critica razionalistica delle credenze religiose.
Per quanto riguarda le presunte origini orientali di molte
dottrine, si deve ricordare che in generale i greci pensavano di dover
qualcosa all’Oriente. I greci possono aver ricevuto dall’oriente nozioni
di carattere matematico; e certamente Mileto, un insediamento ionico
molto antico sulla costa sud-occidentale dell’Asia Minore, era proprio
per la sua posizione particolarmente favorita. Ma non sappiamo con
certezza quali fossero le conoscenze disponibili nel Medio Oriente al

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tempo di Talete e a Mileto Talete poteva essere considerato un
personaggio al quale si potevano ascrivere le scoperte senza una
precisa paternità. Tutto questo non produce uno scontro tra spirito
greco e mentalità orientale, a meno che non si faccia di Talete il primo
filosofo e di Mileto la culla della filosofia, un fatto fittizio creato da
Aristotele e dalla dossografia (autori che scrivevano le opinioni dei vari
filosofi) posteriore. 1
Quando si leggono le prime pagine dei manuali di filosofia, si
può rimanere un po' “delusi” dal fatto che i primi filosofi, quelli
chiamati tradizionalmente Presocratici o Presofisti, parlino ancora di
cose “semplici” come l'acqua, l'aria, il fuoco ecc. per cercare di
spiegare l'origine del mondo e diano inoltre risposte molto diverse tra
loro sui principi che regolano l'universo. Eppure, dai pochi frammenti
che ci sono rimasti (bisognerà aspettare Platone per avere le opere
complete di un filosofo) possiamo intuire che la loro grandezza è
consistita nell'aver capito, per la prima volta nella storia, che le cose
stesse sembrano guidare il pensiero a gettare uno sguardo al di là di
ciò che si vede con i sensi, per cogliere qualcosa di più vero, e che
pure sta in esse. Essi ricercano quello che chiamarono l'arché, il primo
principio, che era per loro physis, cioè quel certo essere che permane
nelle cose, che semmai le fa trasformare ma rimanendo sempre lo
stesso. E' la complessità di tale ricerca che spiega la diversità delle
risposte dei Presocratici. Quello che sostengono è quanto essi hanno
faticosamente elaborato nella loro meditazione, fidando solo nella
forza del loro intelletto e della loro ragione. Si tenga inoltre presente
che le loro spiegazioni cosmologiche sono ancora molto legate alla
mitologia e che i loro frammenti sono diventati testi filosofici
attraverso l'interpretazione posteriore di Platone e soprattutto di
Aristotele, mentre non hanno nulla del trattato o comunque del tipo
di scrittura che caratterizzerà il genere filosofico: Eraclito usa ad
esempio sentenze oracolari, Parmenide e Empedocle compongono

1 Come conosciamo le opinioni dei vari filosofi antichi? Ovviamente dalle loro opere. Il guaio
è che, per i primi pensatori greci, ci sono rimasti solo dei frammenti e quindi dobbiamo
affidarci a quello che raccontano altri autori. Aristotele., nel primo libro della sua Metafisica
( 983b-993), ci dà una prima panoramica dei filosofi antichi fino a Platone. Diogene Laerzio
(3° sec. d.C.) ci ha lasciato nella sua Vite e dottrine dei filosofi la raccolta più ricca dell'antichità
sulle varie filosofie antiche, fino ad Epicuro. In tempi più recenti la più famosa raccolta delle
filosofie dei primi filosofi è quella redatta da due studiosi, Diels e Kranz, nei Frammenti dei
presocratici (trad. it. Laterza). In genere gli studiosi classificano oggi i frammenti con la sigla
DK seguita da un numero. Ad es. DK5 vorrà dire che è il frammento cinque dei frammenti
raccolti da Diels-Kranz nella loro antologia.

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poemi. Insomma, a cominciare da Platone ma soprattutto con
Aristotele si è costruita l’immagine di una filosofia che con Eraclito,
Parmenide ed Empedocle sembra avere figure e dottrine precise; in
realtà questi sono diventati testi filosofici attraverso appunto
l’interpretazione di Platone e soprattutto di Aristotele mentre non
hanno nulla del trattato o comunque del tipo di scrittura che
caratterizzerà il genere filosofico. Nella cultura del V secolo a.C. si
potrebbe perciò ravvisare la presenza sia di discorsi oracolari che di
primi tentativi di discorsi scientifici organizzati. Vediamo adesso i
principali pensatori di quell’epoca.

TALETE DI MILETO [624-546 a.C. ca. La sua akmè fu


fissata nel 585 a.C. dal cronologo Apollodoro (150 a.C.), il quale, per
fissare le date prendeva come punto di riferimento l'impresa maggiore
di un pensatore e la faceva coincidere col 40° anno di vita: l’impresa
ritenuta più grande di Talete fu la predizione di una eclisse di Sole
avvenuta appunto nel 585 a.C.], secondo quanto ci racconta
Aristotele, per primo affermò l'esistenza di un principio (a proposito,
la parola principio è di Anassimandro) universale, causa di tutte le cose
che sono, e disse che questo principio è l'acqua. Concepì il mondo
animato e pieno di demoni. Dicono pure che abbia scoperto le
stagioni dell’anno e che abbia diviso l’anno in 365 giorni. Aristotele ed
Ippia dicono che egli attribuiva un’anima anche agli oggetti inanimati,
deducendolo dalla calamita e dall’ambra.
L'acqua di Talete vuole essere del tutto diversa dall'Oceano
mitico di Omero perché essa è intesa come l'identità del diverso (ossia
ciò che vi è di identico in ognuna delle diverse cose), il principio da
cui provengono e in cui ritornano tutte le cose, come appunto l'acqua
del mare che è sia ciò che tutte le onde hanno di identico, sia ciò da
cui le onde provengono e in cui tornano. La superiorità di Talete
rispetto alla visione mitologica sta nell'orizzonte che la sua domanda
dischiude, non tanto nella risposta che dà, visto che essendo l’acqua
una tra le molte cose, non potrebbe essere quello che tutte le cose
hanno di identico. Di lui ci sono tramandate altre imprese e alcuni
aneddoti, che ci vengono riferiti, tra gli altri, da Diogene Laerzio (cfr.
I, 22-44). Ad esempio, fu uno dei sette sapienti2. Di lui è il motto

2 La lista secondo Platone comprende Talete, Biante, Pittaco, Solone,Cleobulo, Misone e


Chilone.

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“conosci te stesso”, talmente famoso da essere scolpito sul frontone del
tempio di Delfi. Si narra che, tratto di casa da una vecchia per
contemplare gli astri, cadde in un fosso, e la vecchia, ai suoi gemiti,
disse: “Tu, o Talete, non sai vedere le cose che i piedi e credi di poter
conoscere le cose celesti?”.

Dopo di lui, ANASSIMANDRO (nato verso il 610 a.C.)


considera come arché l'apeiron, cioè il non-limitato, il non-finito, il non-
particolare, il non-misurabile. Il "progresso", rispetto al precedente,
consiste nel fatto che definire l'arché come una cosa, quale è l'acqua,
sarebbe limitare il principio; e siccome tutte le cose sono limitate, il
principio da cui esse derivano non potrà che essere non-limitato,
apeiron appunto. Apeiron è ciò che sfugge al numero, alla misura, al
limite, per cui vi sono due ordini di cose: da un lato l’ordine
dell’apeiron, che contiene ogni opposizione e, così contenendo, si pone
quasi come originaria unità degli opposti; dall’altro l’ordine del tempo,
dove ogni cosa si presenta come una “prevaricazione” sulle altre, che
si incaricano di farle pagare il “fio” della sua “ingiustizia”,
dissolvendola e facendola tornare nell’unità originaria dell’apeiron. Così
ad esempio il giorno sopraggiunge prevaricando la notte, la quale si
dissolve ma da cui sarà poi dissolta. Anassimandro viene ricordato
anche per essere stato tra i primi ad aver elaborato una carta
geografica del mondo allora conosciuto (secondo alcuni la Terra era
da lui concepita come un cilindro sospeso nel vuoto, secondo altri
come sfera) ed aver inventato un orologio solare. Infine alcuni suoi
frammenti lascerebbero intendere che l’uomo derivi dai pesci, per cui
alcuni hanno visto in lui una sorta di precursore delle teorie
evoluzionistiche.

ANASSIMENE (fiorì verso il 546-45 a.C.) “scrisse con


semplicità, senza lenocini formali, in dialetto ionico”(cfr. D.L. II,2)
conferirà una qualche positività al principio che Anassimandro aveva
connotato in termini solo negativi. Per lui dunque l'arché è l'aria: l'aria è
l'apeiron che, rarefacendosi e condensandosi, dà origine a tutte le cose.
Egli porterà alla luce un concetto decisivo per lo sviluppo ulteriore del
pensiero greco: il concetto di causa (aitia). Il mondo greco usava
quella parola in senso morale, infatti indicava la colpa. Con
Anassimene la nozione di causa entra in un contesto che oggi
diremmo scientifico, per cui le categorie di colpa e di pena cedono a

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quelle di causa ed effetto, così decisive nel modo occidentale di
pensare. Anche l'arché non è più solo la sostanza di cui le cose sono
fatte, ma sarà il principio della azione, cioè diventerà la causa
efficiente (come la chiamerà molto più tardi Aristotele) che determina
la trasformazione delle cose. Parlando di rarefazione e condensazione,
Anassimene è ora in grado di spiegare la differenza qualitativa tra le
cose, a partire dalla differenza quantitativa del principio originario. Se
Anassimene intendeva l'anima soprattutto come respiro e aria,
seguendo la concezione omerica, Eraclito interpretava l'anima e la vita
soprattutto come calore e aria infuocata.

ERACLITO di Efeso fiorì nella 69^ Olimpiade (504-501


a.C.). Fu considerato un sapiente altero che guardava gli altri con
disprezzo ed egli stesso dichiara: “L’erudizione (polymathie) non
insegna ad avere intelligenza; altrimenti l’avrebbe insegnata ad Esiodo
e a Pitagora ed inoltre a Senofane e ad Ecateo. Perché in una sola cosa
consiste la sapienza, nell’intendere la ragione, che governa tutto il
mondo dappertutto” (cfr. D.L. IX,1,1). Diceva di non aver avuto
maestro ma di indagare se stesso e di apprendere tutto da se stesso.
Eraclito scrisse un’opera divisa in tre parti: la prima che tratta del
tutto, la seconda dello stato e la terza della divinità. Depositò l’opera
nel tempio di Artemide e la scrisse apposta in uno stile piuttosto
oscuro (da qui il soprannome di Eraclito l’oscuro) perché si potessero
accostare ad essa solo i capaci. Secondo Diogene Laerzio, per Eraclito
tutto si forma dal fuoco e in esso si risolve. Tutto diviene secondo
una fatale necessità e le cose che sono si compongono in armonia per
mezzo di ricorrenti opposizioni. Il divenire di tutte le cose è
determinato dal conflitto degli opposti e il tutto è finito e costituisce
un unico cosmo. Degli opposti quello che porta alla genesi si chiama
guerra e contesa, l’altro che porta alla conflagrazione si chiama
concordia e pace, e il mutamento è una via in su e in giù, a cui si deve
la formazione del cosmo. Tutto è pieno di anime e di demoni. Un suo
detto è: “Non potresti trovare i confini dell’anima, neppure se
percorri ogni via: così profonda è la ragione che essa possiede”.
Quella di Eraclito è un terzo tipo di scrittura, accanto alle
sentenze pitagoriche e alla poesia di Senofane e di Parmenide. La sua
scrittura ha un carattere oracolare, che si manifesta in modo
caratteristico in celebri sentenze criptiche sui contrari. Alle forme
letterarie complesse, Eraclito preferisce l’appello diretto alle cose. Ma
queste vanno capite, cioè devono essere prese come segni oracolari.

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Rispetto alla religione tradizionale, Eraclito si presenta come se fosse
egli stesso una fonte oracolare. Non si fa ispirare dalle Muse ma
pretende di essere, lui solo in mezzo alla massa degli uomini
dormienti, nello stato di veglia. Altri suoi frammenti conosciutissimi
dicono: “non si può discendere due volte nello stesso fiume”(fr. B 91); “noi
scendiamo e non scendiamo nello stesso fiume, noi stessi siamo e non siamo”(fr. B
49) ecc. Il senso dovrebbe essere abbastanza chiaro: il fiume è sempre
lo stesso ma non sono sempre le stesse le acque che lo percorrono,
così come chi si immerge in momenti diversi non è più lo stesso. Ma
la filosofia di Eraclito non si riduce alla semplice dichiarazione del
flusso universale delle cose, del “tutto scorre”(panta rei), ma scorge nel
divenire gli opposti entro cui lo stesso divenire accade: “Le cose fredde
si riscaldano, le cose calde si raffreddano”(fr. B 126). L’identità delle cose
viene colta nella opposizione come tale, la quale consente alle cose di
diversificarsi dalle altre, trovando appunto in questa diversificazione la
loro identità. In questo senso il conflitto, la guerra (pólemos) in cui ogni
cosa consiste e da cui è generata, può ben dirsi “madre di tutte le cose e di
tutte regina”(fr. B 53). Ciò che le cose hanno di identico è la
contrapposizione stessa di ogni cosa alle altre; ciò che hanno in
comune è quella contesa, che consente ad ogni cosa di essere ciò che
è. Infatti, se la vita non si opponesse alla morte, il caldo al freddo ecc.,
non esisterebbe vita, caldo ecc. Ed è per questo che Eraclito può dire
che l’opposizione è il principio stesso della armonia nascosta presente
in tutte le cose. Se dunque le cose hanno realtà in quanto divengono,
e se il divenire è dato dagli opposti che, contrastandosi, si pacificano
in superiore armonia, nella sintesi degli opposti sta quel principio che
spiega tutta la realtà e che Eraclito chiama Dio. In un altro
frammento, Eraclito scrive che “questo mondo, che è lo stesso per tutti,
nessuno degli dèi o degli uomini l’ha creato, ma sempre fu, è e sarà fuoco
eternamente vivo che con ordine regolare si accende e con ordine regolare si
spegne”(fr. B 30). Il fuoco di cui parla Eraclito è un’espressione che
dice le caratteristiche del perenne divenire, dell’opposizione e
dell’armonia. Il fuoco diventa la metafora dell’Uno inteso come quella
dinamica unità per cui “da tutte le cose l’Uno e dall’Uno tutte le cose”(fr. B
10). Questa è la legge che il logos, la parola che ha in vista la verità e
non le opinioni degli uomini, enuncia. Il Logos è la parola che si offre
all’ascolto di tutti, ma i più non la sentono perché “come dormienti” si
concedono alle loro opinioni private che, come “giochi di fanciulli”,
lasciano fuori dalla verità delle cose. Nel loro sogno, i più non
comprendono che il contrasto tra le cose è la stessa condizione della
loro armonia. Il filosofo dice cose vere perché sta in ascolto del

35
Logos, a differenza di coloro che conoscono un gran numero di cose
ma non la legge che le governa. Con Eraclito diventa esplicito forse
per la prima volta che la cura per l’unità che tutto connette è la legge
fondamentale che deve guidare la vita filosofica, poiché cogliere la
connessione è l’origine della conoscenza. La saggezza sembra dunque
coincidere con il riconoscimento della sostanziale unità dell’universo:
è un’unità nascosta e la si attinge solo attraverso accenni.

PARMENIDE di Elea fiorì anch’egli nella 69^Olimpiade.


Parmenide occupa una posizione centrale, insieme ad Eraclito, tra i
filosofi presocratici. Secondo Diogene Laerzio (D.L., IX, 3,21), fu il
primo a dichiarare che la terra è sferica ed è al centro dell’universo.
Egli scrisse un poema denominato genericamente Sulla natura di cui
possediamo 154 versi. In tempi recenti si è riconosciuto che il quadro
mitologico nel quale è inserito lo scritto parmenideo costituisce un
aspetto essenziale del suo pensiero. Così come è importante il
linguaggio letterario, che è presente in Parmenide come nei poeti greci
arcaici; e spesso quelle che sembrano argomentazioni sono forse solo
il riflesso di usi linguistici diffusi nella letteratura greca arcaica. Egli
presenta la sua filosofia come una rivelazione ottenuta al termine di
un'iniziazione. Il poema parmenideo sembra che non esponga tanto
una teoria filosofica, ma racconta un viaggio, durante il quale egli ha
ricevuto la rivelazione che giorno e notte non sono mai separati: sono
gli uomini che fanno contrapposizioni. Forse la filosofia di Parmenide
era una filosofia del silenzio, che privava di riferimento e di
attendibilità i discorsi dei mortali, che prescriveva di astenersi da essi,
ma che pretendeva di mostrare qual è l'errore dal quale essi nascono.
Nel suo scritto Parmenide parla di diverse vie per attingere alla
verità. La via della verità è tracciata dal principio che dice: l’essere è e
non può non essere. Se l’essere è, non può essere generato, né andare
distrutto, perché altrimenti prima di essere generato e dopo essere
distrutto, non sarebbe, e affermare che l’essere non è, è proibito dalla
verità. Quindi l’essere è immutabile ed eterno e la Giustizia proibisce
che in qualsiasi modo divenga. L’essere è dunque ciò che è identico in
ogni cosa che è; è ciò che opponendosi al nulla, esprime il significato
supremo dell’opposizione e, per effetto dell’opposizione, si costituisce
come unità. Si tratta di una unità che non ospita né il divenire delle
cose, né la loro molteplicità. Dire infatti che una cosa diviene significa
dire che passa dall’essere al non-essere, e quindi significa affermare
che il non-essere è. Ma non si può pensare il nulla. Se l’essere è, se

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l’essere è pensato, non si può pensare il non essere, il nulla. La
convinzione che il divenire e il molteplice esistono è l’opinione
illusoria (doxa ) dei mortali, da cui la dea, che invita a percorrere il
sentiero del giorno, la via della verità, tiene lontani. L’essere di
Parmenide è indifferenziato, indeterminato, semplice e puro, mentre il
mondo che ci sta dinanzi nella sua incessante mutazione e varietà è
doxa, ossia apparenza illusoria in cui i mortali pongono fiducia. Con
Parmenide la filosofia si presenta come sfida al comune modo di
pensare degli uomini e, contrapponendo la via della verità (aletheia) alla
verità dell’opinione (doxa) apre quella antitesi fra ragione ed
esperienza che altri tenteranno di risolvere.

EMPEDOCLE di Agrigento (490-430 a.C.) si esprime con


metafore, stilemi e ripetizioni di formule stereotipe, come un poeta
epico; invoca la Musa come Omero, Esiodo e Parmenide. Aristotele
diceva che Empedocle aveva inventato la retorica. Secondo
Empedocle, vi sono quattro elementi, acqua, aria, terra e fuoco:
l’amore (philia) per cui si uniscono e la discordia (neikos) per cui si
separano. Con Empedocle diventa esplicita la nozione di elemento
(stoicheion), inteso come qualcosa di originario e qualitativamente
immutabile che produce la molteplicità delle cose col suo diverso
modo di combinarsi e separarsi dagli altri elementi, altrettanto
immutabili nelle loro qualità. Empedocle ritiene che il divenire
dell’universo sia ciclico, una sorta di eterno ritorno che culmina ad un
estremo col caos (tutte le cose sono confuse) e dall’altro con lo sfero,
in cui tutte le cose sono armonizzate. Empedocle era considerato una
sorta di mago o taumaturgo e morì in modo misterioso.

Non è escluso che con l’uso di formule un po’ criptiche,


ANASSAGORA di Clazomene (nato verso il 500 a.C.) volesse
comunicare una sorta di rivelazione intellettuale contrapposta alle
opinioni correnti. Secondo Diogene Laerzio, fu uditore di
Anassimene (cfr. D.L., II,3). L’inizio del suo libro è questo: “Tutte le
cose erano insieme; poi venne il nous e le dispose in ordine”. Egli diceva che il
sole è una massa incandescente rovente e di grandezza maggiore del
Peloponneso. Affermava che nella luna ci sono abitazioni, ma anche
colline e burroni. Pose come principi le omeomerie: l’universo è fatto di
piccoli corpi formati di parti omogenee fra di loro. Concepì la Mente
(nous) come principio di movimento.

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Egli ritiene che di nessuna cosa si possa dire che nasca o
muoia, ma solo che si compone e si separa. Non solo, ma poiché un
ente può diventare qualsiasi altro ente (ad es. il cibo diventa carne, e la
carne, con la morte, diventa acqua e terra), in ogni ente vi è già tutto
ciò che esso può diventare, e quindi in ogni ente vi è il tutto. Gli
elementi non sono per Anassagora solo le quattro radici, bensì tutte le
cose presenti in ogni cosa, sotto forma di particelle invisibili che egli
chiama semi (spermata), e che Aristotele tramanderà col nome di
omeomerie in quanto sono simili al tutto che costituiscono. La
differenza tra le cose è determinata dal prevalere dei semi di un certo
tipo rispetto ad altri tipi. Spiegata la molteplicità con la prevalenza di
omeomerie dello stesso tipo, Anassagora spiega il divenire come
dispersione e ricomposizione delle unioni di omeomerie. Quando le
omeomerie si raccolgono sono visibili ai nostri sensi, quando invece si
disperdono, si sottraggono alla visione.
Dicono che fu processato per aver detto che il sole non è
divino ma ci sono varie versioni del suo processo (cfr. D.L. II,3).

DEMOCRITO di Abdera (nato verso il 460 a.C.), fu istruito


secondo Diogene Laerzio (cfr. D.L. IX,7) da alcuni Magi e Caldei; in
seguito si incontrò con Leucippo di cui dicono divenne discepolo. A
Democrito appartiene il detto “La parola è l’ombra dell’azione”.
I punti fondamentali della sua dottrina sono i seguenti: i
principi originari dell’universo son gli atomi e il vuoto. I mondi sono
infiniti, soggetti alla generazione e alla corruttibilità. Nulla diviene dal
non essere e nulla perisce nel non essere. Gli atomi sono infiniti per
grandezza e per numero; si muovono vorticosamente nell’universo e
generano così tutte le cose composte, fuoco, acqua, aria e terra,
perché anche queste sono unioni di determinati atomi, che per la loro
solidità sono impassibili e in cambiabili. Il sole e la luna sono costituiti
di tali masse atomiche levigate e sferiche e così ugualmente l’anima
(psyché), che è identica alla mente (nous). Tutto accade secondo
necessità. Egli chiama necessità il vortice che è la causa della genesi di
tutte le cose. Il fine è la serenità dell’anima (euthymia).
Democrito parla di atomi, termine che in greco significa “non
divisibili”. Gli atomi sono l’essere e quindi hanno tutte le
caratteristiche dell’essere: sono cioè unità indivisibili, ingenerabili,
incorruttibili, eterni, non percepibili dai sensi ma dalla ragione. La loro
esistenza è nel vuoto che consente loro di distinguersi uno dall’altro e

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di muoversi. Limitato dal vuoto, ogni atomo ha una certa grandezza,
una certa figura, posizione e un certo rapporto d’ordine con gli altri
atomi. Per queste caratteristiche, ogni atomo è quello che è e
differisce dagli altri. I fenomeni sono aggregati di atomi e le differenze
tra i fenomeni sono determinate dalle infinite combinazioni di atomi.
Quindi anche gli aspetti qualitativi delle cose debbono essere intesi
come causati da aggregazioni atomiche. In ambito etico, Democrito è
fautore di un’etica del dovere basata sul rispetto verso se stesso e gli
altri; del cosmopolitismo e del riconoscimento del valore dello Stato
(cfr. fr. 264, 247, 252).

Concludo questa breve panoramica con PITAGORA di Samo


(571-496 a.C.), il quale fu, secondo Diogene Laerzio (cfr. D.L. 8,1,1-
50), il fondatore della filosofia italica. Fu iniziato a tutti i riti misterici,
sia greci sia barbari. Fu anche in Egitto e ne imparò la lingua. Da
Samo si trasferì a Crotone e diede leggi agli Italioti e diventò molto
famoso insieme con i suoi discepoli, che in numero di circa trecento,
amministrarono molto bene la cosa pubblica. Si racconta che,
interrogato da Leonte, tiranno di Fliunte, che gli chiese chi fosse, egli
risposte: “Filosofo”. Pitagora paragonava infatti la vita ad una
panegiria: come alcuni vi partecipano per lottare, altri per
commerciare, altri ancora – e sono i migliori – per assistervi, così nella
vita, diceva, alcuni nascono schiavi della gloria e cacciatori di
guadagno, altri filosofi avidi della verità.
Dicono che sia stato il primo – continua Diogene Laerzio – a
rivelare che l’anima, secondo un ciclo di necessità, si leghi ora ad un
essere vivente ora ad un altro. In altre parole, si attribuisce a Pitagora
la credenza nella metempsicosi ovvero trasmigrazione dell’anima (anche
detta impropriamente reincarnazione). A questo proposito è in genere
narrato il seguente aneddoto: dicono che passando accanto ad un
cagnolino che veniva percosso ne abbia avuto pietà e abbia detto, a
chi lo percuoteva, “smetti, non percuoterlo, perché l’anima che ho
riconosciuto è quella di un animo, udendo la sua voce”. (cfr. D. L.,
8,1,37).
Diceva che il sole, la luna, gli astri sono divinità perché in essi
prevale il caldo che è causa di vita. Vi è “affinità” tra uomini e divinità
perché l’uomo partecipa del caldo. Comunque tutto ciò che partecipa
del caldo è vivo e quindi anche le piante sono esseri animati: però non
tutti gli esseri animati hanno l’anima. L’anima è diversa dalla vita: essa

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è immortale. L’anima è divisa in tre parti: intelletto (nous), mente
(phrenas) e animo (thymon). Tutta l’aria è piena di anime, ritenute
demoni ed eroi, da cui sono mandati agli uomini i sogni e i segni di
malattia e di salute; e non solo agli uomini ma anche alle greggi e alle
altre bestie. La cosa più importante nella vita è indurre l’anima al bene
o al male. La virtù, la sanità fisica, ogni bene e la divinità sono
armonia: perciò anche l’universo è costituito secondo armonia. A lui
si deve se la frase ipse dixit (autòs epha) passò in proverbio.
La scuola vedeva probabilmente in Pitagora il depositario di
una sapienza misteriosa e divina e quindi il maestro non poteva essere
contraddetto (l’ha detto lui, ipse dixit). I Pitagorici sono ritenuti i creatori
della matematica come scienza: essi consideravano il numero come
l’essenza delle cose. Se le cose sono fatte di numeri, il mondo è una
sorta di ordine misurabile. L’uno è il parimpari ed è indivisibile (non
esiste ancora lo zero); il numero dieci rappresenta la perfezione ed è
rappresentato dalla figura della Tetratide (un triangolo con il lato di
quattro punti). Vi è insomma un simbolismo legato ai numeri. I
Pitagorici affermano la sfericità della Terra e dei corpi celesti. Al
centro dell’universo c’è un fuoco che ordina e plasma la materia
circostante, dando origine al mondo. Intorno a questo fuoco si
muovono, da occidente a oriente, dieci corpi celesti : il cielo delle
stelle fisse, i cinque pianeti (Saturno, Giove, Marte, Mercurio,
Venere), il Sole, la Luna, la Terra e l’anti-Terra (ammessa per
completare fino a dieci). Si ricordi che con Aristarco di Samo (3° sec.
a.C.), filosofo peripatetico, l’ipotesi pitagorica fu modificata mettendo
al posto del fuoco, come centro dell’universo, il Sole, anticipando
Copernico. I discepoli di Pitagora erano divisi in due gruppi : vi erano
quelli appena entrati, gli acusmatici, che ascoltavano le dottrine; e vi
erano quelli già iniziati ai misteri, chiamati matematici.
Il pitagorismo rappresenta la trasposizione in termini filosofici
di una tradizione prevalentemente religiosa, maturata nell'orfismo.
Essa si basa sull'idea che l'ordine cosmico vada trasferito nella vita
individuale e collettiva degli uomini. I pitagorici si costituiscono come
setta, adottando un insieme di regole di vita precise e rigorose, capaci
di differenziarli dalla moltitudine. Questa setta di uomini puri aveva
intenzione di riformare e governare anche la vita degli altri uomini;
infatti, i pitagorici tentarono di realizzare a Crotone un programma di
riforma morale e politica della vita sociale. Per i pitagorici il problema
consiste nel purificare l'anima dai suoi contatti con la corporeità,
riportandola alla sua condizione divina già durante la vita terrena. E'

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tipica del pitagorismo più antico la dottrina nota come metempsicosi, e
più propriamente definibile come "metensomatosi". Questa idea
nasce dal presupposto che, se l'anima è immortale, mentre il corpo è
mortale, la prima conoscerà una serie di reincarnazioni, ovvero di
ritorni a una condizione corporea. Questa condizione sarà però
diversa a seconda della condotta dell'anima durante la precedente
esistenza: un'anima che si lascia coinvolgere dalla corporeità
conoscerà reincarnazioni in forme di vita sempre più basse; un'anima
che seguirà invece le regole di ascesi proprie della setta incontrerà
forme di vita terrena sempre più alte, fino a staccarsi definitivamente
dal ciclo delle reincarnazioni e riprendere la sua condizione divina. Le
fonti sul pitagorismo di cui disponiamo non spiegano adeguatamente
il motivo per il quale l'anima si è staccata da Dio. Si presume, tuttavia,
sia dalla tradizione orfica, sia dal pensiero di Empedocle - del resto
vicino al pitagorismo - che si tratta di una colpa originaria. Empedocle
affermava, in forme metaforiche e mitiche, che l'anima ha accettato la
dimensione dell'odio, ha voluto individualizzarsi, ha commesso
spergiuro o omicidio.

BIBLIOGRAFIA
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Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, Einaudi
Vernant, Mito e pensiero presso i Greci, Einaudi
Albini, Nel nome di Dioniso, Garzanti
Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, TEA o Bompiani

AA.VV., I presocratici. Testimonianze e frammenti, Laterza o Rizzoli


Vernant-Vidal Naquet, Mito e tragedia nell'antica Grecia, Einaudi
Il teatro greco. Tutte le tragedie, ed. Sansoni o Newton Compton
Vegetti, L'etica degli antichi, Laterza
Rossi-Viano, Storia della filosofia, vol. 1°, Laterza

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I SOFISTI

Introduzione
I Sofisti (dalla parola sophistés, che vuol dire "colui che fa
professione di sapienza") sono presenti nel mondo greco tra la metà e
la fine del 5° sec. a.C. Essi sono portatori di una profonda rivoluzione
culturale poiché concentrano sull'uomo i loro interessi: non accettano
più la sacralità delle tradizioni e sciolgono così il legame tra l'uomo e il
cosmo, che tutta la riflessione filosofica precedente aveva avuto cura
di mantenere. Con loro si ha anche una svolta importante nella
concezione dell'educazione: non basta più conoscere Omero, Esiodo,
Solone, né avere pratica di una singola attività. occorre rendere
l'uomo, per mezzo di una formazione culturale nuova, capace di
dominare i suoi simili con l'intelligenza, con una superiore abilità:
ecco dunque il ricorso a tecniche retoriche ed eristiche (ragionamenti
sottili e speciosi), come i sofismi, per persuadere o dimostrare
qualunque cosa. Si tratta ormai di far passare il discorso più debole a
quello più forte, cioè far passare l'opinione meno utile e dannosa ad
opinione più utile e sana. Infatti che cos'è una legge? Per i Sofisti è
l'opinione della polis, cioè l'opinione condivisa dalla maggioranza che
si può far passare da peggiore a migliore, guidandola e plasmandola a
seconda delle circostanze. In altri termini, il potere politico è di chi sa
conquistarselo nell'assemblea con l'abilità personale, la bravura
oratoria, l'intuizione nelle scelte politiche. I Sofisti propongono quindi
loro stessi come i maestri adatti a formare una nuova classe politica in
possesso di tali capacità. Essi erano naturalmente spregiudicati e
chiedevano un pagamento per le loro prestazioni. Ciò fa sì che il loro
insegnamento sia rifiutato da parte della vecchia aristocrazia (che
disprezzavano il loro modo di fare) e d'altra parte non sia accessibile
alle persone non ricche. Essi infatti sono i maestri dei nuovi ricchi di
Atene, di quella classe di artigiani e commercianti che sta sempre più
formando il nucleo politico portante della città.
Tuttavia, per misurarsi con le questioni-chiave della loro epoca
(che cos'è la virtù e se sia possibile insegnarla, che cosa siano giustizia
e diritto, quale sia il fondamento delle leggi che reggono lo Stato ecc.),
i Sofisti dovettero anche affrontare i problemi che la tradizione

42
filosofica aveva già posti e, primo fra tutti, quello della verità e della
conoscenza, nel momento in cui si volevano trovare delle regole
valide per comprendere la nuova e complessa realtà sociale ed
orientarvisi praticamente.
I Sofisti conoscevano le ambiguità delle parole e dei concetti,
utilizzavano i miti e la storia, ma per dar corpo ad una cultura di
carattere generale. Quell’amore del sapere, quella cultura libera aveva
un nome, filosofia, e proprio i sofisti ne crearono i presupposti anche
se essi non fecero ancora della filosofia un dominio particolare e
organizzato della conoscenza. La loro opera era strettamente
subordinata all’impresa educativa, all’interpretazione dei testi e alla
pratica di un linguaggio puramente comunicativo. Paradossalmente la
filosofia come forma di cultura specifica nacque proprio dalla reazione alla
sofistica, soprattutto presso i socratici, come vedremo.

PROTAGORA di Abdera (akmé nella 84^ Olimpiade, 444-41


a.C.) fu il primo, dice Diogene Laerzio, a sostenere che intorno ad
ogni argomento vi sono due asserzioni contrapposte tra di loro.
L’inizio di uno dei suoi scritti è il seguente: “L'uomo è misura di tutte le
cose: di quelle che sono in quanto sono, di quelle che non sono in quanto non sono”
3
. In altre parole, l'uomo non è più in grado di stabilire il contenuto di
verità dei discorsi (di ogni cosa non si può dire infatti il contrario?) ed
allora come fare a scegliere una alternativa? La novità della sua
concezione consiste nello stretto rapporto che istituisce tra verità ed
esperienza. Ciò comporta anzitutto che la nozione di verità perda il
suo significato magico e sacrale che possedeva tradizionalmente: il
terreno su cui si cerca la verità è ora quello, interamente umano, della
polis, del pubblico dibattito e del rapporto politico ed educativo. In
secondo luogo, la verità non è vista come un sapere assoluto, unico
per tutti, ma risulta relativa alla prospettiva e al campo di attività degli
uomini: ecco il relativismo della sua celebre frase. Così l'uomo non
può conoscere tutto ma soltanto quello che cade nell'orizzonte della
sua percezione e della sua azione. Si spezza quindi anche il legame con
gli dèi: giacché l'uomo non può avere esperienze del divino, in quanto
ciò non rientra nell'ambito delle sue possibilità conoscitive, egli non
può dir nulla né sulla esistenza di Dio né sulle caratteristiche (da qui
l'agnosticismo di un altro famoso frammento: "Degli dèi non sono in

3 cfr. la discussione a riguardo nel Teeteto di Platone, 151-152.

43
grado di sapere né se sono né se non sono né quali sono, molte infatti sono le
difficoltà che si frappongono: la grande oscurità della cosa e la limitatezza della
vita umana"). Infine, nella prospettiva di Protagora, la verità risulta
vincolata alla prassi, all'azione, per cui è vero ciò che risulta, di volta in
volta, più utile ed efficace. Può appunto giudicarne la validità in base
al grado di utilità e, soprattutto, di universalità. Se non è più possibile
discriminare in assoluto tra discorsi veri e falsi, sarà però possibile
elaborarne di sempre più ampi e comprensivi, che rispecchino i punti
di vista della comunità, superando e mediando le opinioni particolari.

GORGIA di Lentini (in Sicilia, 483-380 a.C.) sostenne, in una


sua famosissima opera dal titolo polemico di Sul non essere o sulla natura
(contro Melisso di Samo che aveva scritto un Sulla natura ovvero
sull’essere) tre tesi paradossali : nulla esiste; se anche qualcosa esistesse
non sarebbe conoscibile da parte dell’uomo; se anche qualcosa fosse
conoscibile non sarebbe comunicabile agli altri. Egli pretende di
dimostrare il primo punto dicendo che, se qualcosa esiste, o esiste o
non esiste o esiste e non esiste contemporaneamente. Ora, poiché
quest’ultima affermazione è contraddittoria, va subito scartata; la
seconda viene ugualmente scartata perché non ha senso dire che
"qualcosa esiste non esistendo". Rimane la prima affermazione
secondo la quale se qualcosa esiste, esiste. Orbene, secondo Gorgia,
neppure questa affermazione è vera perché ciò che esiste o è eterno, o
è generato o è contemporaneamente eterno e generato. Anche questa
volta l’ultima affermazione viene subito esclusa per la sua
contraddittorietà. La prima viene confutata dicendo che ciò che esiste
non può essere eterno perché ciò che è eterno non ha un principio; se
non ha un principio è infinito; se è infinito non è in nessun luogo; e se
non si trova in nessun luogo, non esiste. Ma neppure ciò che esiste
può essere generato perché, se è stato generato, è nato da ciò che
esiste o da ciò che non esiste. Non può però essere nato da ciò che
non è perché ciò che non esiste non può generare; ma non può essere
nato neppure da ciò che è perché, in quanto è ciò che è, non è stato
generato ma è di già.
In quanto alla seconda tesi, è chiaro che ciò che è pensato non
è : infatti, se ciò che si pensa è, allora tutto ciò che si pensa è, in
qualunque modo lo si pensi, il che è assurdo (se uno pensa ad un
uomo che vola non per questo subito un uomo vola).

44
Infine, nella terza tesi, Gorgia sostiene che la parola non
coincide con le cose realmente esistenti; quindi noi indichiamo al
vicino non le cose reali ma la parola, la quale è diversa dalle cose che
sono.
Gorgia ha insomma staccato definitivamente le parole dalle
cose e quindi il linguaggio dalla realtà. Le parole, d’ora in poi, non
sono più cose e neppure le cose sono più parole. Il discorso non
"morde" più il reale ed infatti di ogni cosa – come diceva già
Protagora – può essere detto tutto e il contrario di tutto. Con Gorgia
è andato perduto il criterio di verità di una affermazione. O meglio,
l’unica verità consisterà nella capacità di produrre effetti sugli uomini.
Il parlare avrà il suo vertice nell’arte della retorica ossia nella capacità
del linguaggio di sedurre e persuadere. Vi è quindi l’abbandono della
verità per ottenere la potenza sulle cose. La realtà viene dominata
perché, grazie alla persuasione, è prodotta dalle parole.

Conclusione
E' chiaro, da quanto accennato, che le tesi dei Sofisti misero in
crisi la polis ed i suoi fondamenti etici e politici. Il dibattito che ne
seguì ci è stato tramandato come il problema del rapporto tra la
natura e la legge, tra la physis e il nomos.
Nei poemi omerici la legge aveva origine divina e carattere
orale; l'autorità del re era politica e religiosa insieme. Le ordinanze
regali, tramandate da padre in figlio, costituiscono nel corso delle
generazioni il corpo di un diritto sacro. A partire dal 7° sec. a.C. si ha
una prima, fondamentale innovazione: le leggi vengono scritte e rese
pubbliche. I grandi legislatori (ad es. Solone ad Atene nel 594 a.C.)
raccolgono il diritto, tramandato oralmente, in codici scritti: nasce
così il nomos, la legge scritta. Col diritto scritto, la legge si installa nella
polis e ne diviene l'anima stessa. Nel nomos si esprimono la volontà ed
il potere della polis, e subentra il vincolo comune della obbedienza
alla legge.
Nei Sofisti invece il nomos, come la verità in Protagora, perde
ogni garanzia di validità universale. In Protagora stesso la questione
del fondamento delle leggi era risolta in rapporto alla polis. Era la
polis stessa a fornire il criterio di demarcazione tra il giusto e
l'ingiusto: "Quali cose a ogni città sembrino giuste e belle, queste sono
tali per essa, fintanto che tali le creda". In Protagora la

45
convenzionalità del nomos non impedisce che, solo nell'ordine della
legge, si realizzi una possibilità di convivenza specificamente umana.
Ma la visione di Protagora non apparirà più sostenibile
quando arriverà al potere un'altra classe politica, più rozza ed
ignorante, che segnerà l'allontanamento dalla polis dello stesso
Protagora. Con la nuova generazione di Sofisti, attiva a partire dalla
seconda metà del 5° sec. a.C., vi sarà la contrapposizione esplicita fra
natura e legge. Ne abbiamo un ricordo in alcune opere platoniche,
come la Repubblica e il Gorgia. Platone fa pronunciare ad un certo
Trasimaco (retore del 5° sec.) una lezione di crudo realismo politico.
La giustizia - fa dire Trasimaco - non è altro che l'utile del più forte4.
La legge insomma legalizza la sopraffazione. Ma non basta: Platone fa
dire ad un altro intervenuto, l'aristocratico Crizia, che non solo la
legge ma anche la religione è una creazione completamente umana e
mera funzione del potere. Leggi e divinità non sono altro che gli
strumenti inventati dal legislatore per costruire l'inganno capace di
ridurre ad ordine, attraverso la punizione e la paura, una natura
umana, priva, in sé stessa, di ogni moralità e socialità. Non meno
radicale il punto di vista di Callicle, figura centrale del Gorgia. Per
Callicle, le leggi, le convenzioni, i valori morali sono invenzioni dei
deboli - la maggioranza - per impedire ai pochi, ai forti, di realizzare la
superiorità che li caratterizza per natura. Infatti la natura mostra, in
ogni sua manifestazione, che i migliori prevalgono ed i peggiori
soccombono. Ma i migliori sono coloro che si mostrano capaci di
soddisfare passioni e desideri, di aderire alla natura e di vivere
secondo le sue leggi, spezzando le catene imposte dalle convinzioni.
Se la natura deve comandare, in questo comando è però iscritta la
superiorità di alcuni, non è l'eguaglianza di tutti.
I problemi "scottanti" che abbiamo delineato non saranno
facilmente né in breve tempo risolti. Bisognerà aspettare le tre grandi
figure dei due secoli seguenti - Socrate Platone Aristotele - per
impostare e risolvere su basi diverse le problematiche che furono
affrontate con profondità e spregiudicatezza dai Sofisti del 5° sec. a.C.
Dopo Parmenide e Zenone, l'età dei sapienti andrà
declinando. In Gorgia si trova anche il germe della decadenza per la
dialettica. Ciò che colpisce è l'assenza di ogni sfondo religioso: Gorgia
non si preoccupa di salvaguardare nulla. Gorgia è il sapiente che

4 Cfr. Repubblica, libro 1°, 338.

46
dichiara finita l'età dei sapienti, di coloro che avevano messo in
comunicazione gli dèi con gli uomini. Il linguaggio dialettico entra
nell'ambito pubblico. Nasce così la retorica, con la volgarizzazione del
primitivo linguaggio dialettico. La retorica è anch'essa un fenomeno
essenzialmente orale, in cui tuttavia non c'è più una collettività che
discute ma uno solo che si fa avanti a parlare, mentre gli altri stanno
ad ascoltare. La retorica è del pari agonistica: ogni prestazione
dell'oratore è agonistica in quanto gli ascoltatori dovranno giudicarla
in confronto a ciò che diranno altri oratori. L'oratore lotta per
soggiogare la massa dei suoi ascoltatori. Nella dialettica si lottava per
la sapienza; nella retorica si lotta per una sapienza rivolta alla potenza.
Gorgia è dunque uno degli artefici del trasformarsi in pubblico del
linguaggio dialettico. Un elemento essenziale di questa trasformazione
è l'intervento della scrittura. La scrittura nel suo uso letterario si
diffonde dopo al metà del sesto secolo,e rimane anzitutto legata alla
vita collettiva della città, nelle forme e nei contenuti. Di regola essa è
anzitutto un semplice mezzo mnemonico, senza che le tocchi una
considerazione intrinseca. ma ebbe un influsso assai notevole sul
sorgere di un nuovo genere letterario che verrà chiamato da Platone
filosofia.

BIBLIOGRAFIA
Kerferd, I sofisti, Universale paperbacks Il Mulino
I sofisti. Testimonianze e frammenti, a cura di Untersteiner e
Battegazzore, ed. La Nuova Italia

47
SOCRATE

(469 – 399 a.C.)

Introduzione
Socrate nacque ad Atene nel 469 a.C. da Sofronisco, scultore,
e da Fenarete, levatrice. Si avvicinò giovanissimo alla filosofia e
conobbe Anassagora ed i Sofisti. Combatté in varie battaglie (Potidea,
Delo, Anfipoli) dimostrando particolare coraggio e forza d'animo.
Egli dedicò la sua vita interamente alla ricerca filosofica e, in breve
tempo, ebbe molti discepoli (fra cui Platone). Nel 399 a.C. Anito,
Meleto e Licone accusarono Socrate di corrompere i giovani di Atene
e di introdurre la credenza in nuovi dèi. Al processo, dopo una difesa
appassionata da parte di Socrate (ci verrà tramandata da Platone nella
sua Apologia di Socrate), venne condannato a morte. Dopo un mese di
detenzione, durante il quale Socrate rifiutò di fuggire per non
trasgredire comunque la legge, la sentenza venne eseguita: morì
bevendo la cicuta.
Socrate non scrisse nulla e tutto ciò che sappiamo di lui lo
dobbiamo in massima parte a Platone (che fa di lui il personaggio
principale di quasi tutti i suoi Dialoghi) e a Senofonte (cfr. I
Memorabili); Aristofane, commediografo greco, fece di Socrate il
personaggio principale di molte sue commedie (Le Nuvole ecc.)

"Conosci te stesso"
Abbiamo detto che Socrate non scrisse nulla. Il che non fu
affatto casuale. Non era, in quell'epoca, nulla di particolare strano,
anche perché ben pochi sapevano scrivere. Però Socrate non scrisse

48
nulla volutamente. Perché? Perché la filosofia come lui la intendeva
non si poteva limitare a qualcosa di scritto, visto che nessuno scritto -
secondo Socrate - può stimolare alla ricerca ma può solo comunicare
una dottrina. In altri termini, la filosofia era vista da Socrate come un
dialogo continuo, un esame incessante di sé e degli altri e non un
insieme di teorie preconfezionate. E lo scopo della filosofia è quello
di aiutare l'uomo a venire in chiaro a se stesso, portarlo al
riconoscimento dei suoi limiti e renderlo giusto, cioè solidale con gli
altri. Perciò Socrate prese come suo motto ciò che era scritto sul
frontone del tempio di Apollo a Delfi, e cioè GNOTHI SAUTON,
"conosci te stesso". E "conosci te stesso" vuole appunto dire:
riconosci in primo luogo quello che sei, e cioè un uomo, per cui un
abisso ti separa dal divino! Fu questa, forse, la più alta forma di
ammonimento da parte di un dio greco. Questa massima, la più
conosciuta del pensiero greco, non perse mai il suo valore ed ecco
spiegato perché Socrate poté accoglierla come sua (anche se per lui
avrà anche un'altra accezione, come vedremo).
Per conoscere noi stessi, la prima condizione è quella di
riconoscere le proprie possibilità ed i propri limiti, cioè liberarci dalla
vana presunzione di sapere tutto (come sostenevano ad es. i Sofisti).
Per arrivare a ciò, Socrate si serviva di un particolare metodo che ha i
suoi punti salienti nella ironia e nella maieutica.

Ironia e maieutica
L'ironia (=dissimulazione, finzione) è quell'insieme di
domande, interrogativi, provocazioni paradossali di cui Socrate si
serviva per distruggere la presunzione di sapere del discepolo, per far
quindi sorgere il dubbio sulle proprie conoscenze riconoscendone la
fragilità, e per impegnare successivamente il discepolo nella ricerca
della verità libero ormai da pregiudizi e illusioni.
Dopo aver distrutto il sapere fittizio del discepolo, Socrate
non vuole però che egli si appropri delle teorie eventuali del maestro.
Socrate non vuole dare al discepolo una sua dottrina, bensì lo vuole
stimolare nella ricerca della sua personale verità. Questo modo di
procedere è la maieutica, l'arte della levatrice, che la madre di Socrate,
Fenarete, esercitava. Come la levatrice aiuta le donne a partorire i figli,
così Socrate vuole aiutare il discepolo a partorire da solo la verità(cfr.
Teeteto, 149-151).

49
La ricerca della verità è, al tempo stesso, la ricerca del vero
sapere e del modo migliore di vivere. Infatti l'uomo non può che
tendere a scoprire quello che è e quello che deve fare per vivere nel
modo migliore. Ma questo vuol dire che colui che conoscesse il bene,
dovrebbe agire di conseguenza e vivere secondo virtù. Si tratta
soltanto di sapere che cosa è veramente il bene.

Il bene
Il bene per l'uomo è ciò che fa sì che egli diventi quello che la
sua natura più profonda esige. Se io rifletto, potrò giungere a
scoprirlo, per cui è proprio il sapere, la conoscenza, che permette
all'uomo di conoscere se stesso e quindi di conoscere qual è il modo
più adatto per vivere felice. Colui che sa - secondo Socrate - sa far
bene i propri calcoli e sceglie in ogni caso la cosa migliore per lui,
indicata dai greci col termine di areté. La vera felicità pretesa da
Socrate è quella duratura, la quale non può essere la felicità del corpo,
che è caduco, ma soltanto quella dell'anima, che è immortale. Il motto
delfico vorrà allora dire, per Socrate, "conosci la tua anima", "conosci
la tua psyché", giacché l'uomo, nella sua essenza più profonda, non è
altro che la sua anima. E' proprio nel pensiero di Socrate che il tema
dell'anima esce dal contesto religioso - caratteristico di Orfismo e
Pitagorismo, concezioni mitico-religiose di quei tempi - per diventare,
attraverso un processo di moralizzazione e di individualizzazione, il
fulcro del discorso morale.
Se "compiere ciò che è proprio a ciascuno" è per Socrate il
principio di ogni atto morale, con questa affermazione egli da un lato
si ricollega ad un qualcosa che era profondamente radicato nella
concezione del tempo (l'areté come eccellenza, abilità, capacità) ma
dall'altro, con lui per la prima volta, si rende indipendente dal giudizio
degli altri, dalla gloria e dall'onore. Ecco la grande novità socratica:
non è più l'opinione degli altri, sia pure quella dei buoni e dei giusti,
che deve determinare l'uomo. Ciascuno deve invece "conoscere se
stesso" e sviluppare ciò che è "proprio" della sua natura, senza
preoccuparsi delle cose altrui, finché non sia in chiaro con se stesso.
In breve, l'uomo veramente libero è colui che usa il proprio corpo e le
cose senza esserne schiavo, è dunque colui che sa dominare se stesso,
dirigere i propri impulsi e istinti senza negarli ma usandoli senza
eccedere. Colui che al contrario diventa schiavo dei suoi istinti,delle
sue passioni ecc. lo fa perché, secondo Socrate, non ha riflettuto

50
abbastanza, non ha conosciuto qual è la verità e la felicità. "Pecca"
insomma per ignoranza, giacché crede che quelle cose siano per lui le
più adatte. Un errore di giudizio è quindi alla base di ogni colpa e di
ogni vizio. Al contrario, se uno sapesse veramente qual è la cosa più
giusta, si comporterebbe, per Socrate, di conseguenza, e non
"peccherebbe" più... perché non ci si può rendere schiavi, direbbe
Socrate, di ciò che non ha valore.
Quello che Socrate sostiene è un ideale molto alto, che forse è
accessibile soltanto a pochi. Tuttavia la sua è una vera e propria svolta
rispetto ai Sofisti. Se infatti in precedenza alla domanda "che cos'è la
virtù", si era risposto nei modo più diversi: è il coraggio, è la giustizia,
è la forza, oppure non esiste, ora, con Socrate, si vuole conoscere qual
è l'elemento universale, il Bene, che fa del coraggio, della giustizia,
della forza altrettanti beni5. A questo problema, come sappiamo,
Socrate non giunse a rispondere. E' celeberrima la sua affermazione a
riguardo: io so di non sapere! (cfr. Apologia, 21-23 c).
Si ricordi il contesto in cui nacque il suo detto: nel discorso di
difesa che Platone gli attribuisce (cfr. sempre la Apologia di Socrate),
Socrate fa incominciare da Cherefonte la storia della propria missione.
Questi era andato a Delfi e aveva interrogato l'oracolo a proposito di
Socrate; la Pizia gli aveva risposto dicendo che nessuno è più sapiente
di lui. Socrate, sorpreso, si era messo ad esaminare i concittadini che
avevano fama di essere sapienti. Solo paragonando se stesso a coloro
che vantavano il possesso della sapienza, Socrate era poi giunto a
interpretare il responso delfico: né lui né i presunti sapienti
posseggono la sapienza, ma lui è più sapiente degli altri perché ritiene
di non sapere e non crede di sapere ciò che non sa. Socrate non possiede
quindi nessuna forma di sapere positivo né si propone di costruirne
uno, perché il suo programma negativo gli impedisce di ricavare
dall'esame delle credenze altrui certezze indipendenti da esse. Eppure
tutto ciò non lo porterà né verso lo scetticismo né verso il nichilismo.
In primo luogo perché egli aveva una fede assoluta nel significato di
una azione condotta in conformità a ciò che si ritiene sia il bene: si
ricordi che Socrate ha suggellato questo insegnamento con la sua
morte. In secondo luogo, egli era convinto che l'uomo deve
impegnarsi a fondo nella conoscenza, anche se non potrà raggiungere
un sapere perfetto. E' questo il mezzo migliore per raggiungere la

5 Come è noto, Aristotele dice nella Metafisica che Socrate ha inventato l’induzione e
l’universale (cfr. l. 13°,4,1078 b).

51
felicità, giacché “una vita senza ricerca non è vita umana” (Apologia, 38
a). Con Socrate abbiamo forse la figura dell’ultimo sapiente o del
primo vero e proprio filosofo. Ormai è nata la filosofia!

Conclusione
Il termine ‘filosofia’ acquistò un significato specifico solo nel
V secolo a.C., con la sofistica e con la cultura socratica. Era già
comparso in Eraclito, Erodoto, Tucidide nel significato generico di
coltivazione spirituale; ma per un allievo dei sofisti come Isocrate e
per i socratici la filosofia rappresentava la cultura generale in
contrapposizione al sapere specialistico connesso alle arti. Furono i
socratici, soprattutto Platone, a farne una forma di sapere preciso,
non riducibile neppure all’alta cultura di carattere letterario. Solo
all’interno del gruppo platonico s’incominciò a costruire una storia
della filosofia, dalla quale furono ricavate anche vere e proprie
argomentazioni filosofiche. Questa impresa generò il quadro storico
organico organizzato da Aristotele. Ormai la filosofia fu considerata la
forma più alta e più generale del sapere e, anche se l’uso del termine in
questo significato era recente, Aristotele pensava che le sue origini
fossero assai remote. La faceva comparire al termine di uno sviluppo
che prendeva origine dai proverbi, resti del sapere delle generazioni
precedenti, e passava attraverso la scoperta delle arti utili, di quelle
superflue, della saggezza politica, della conoscenza della natura e delle
cose divine. Platone chiama filosofia la propria ricerca legata a
un'espressione scritta, alla forma letteraria del dialogo. E Platone
guarda con venerazione al passato, a un mondo in cui erano esistiti
davvero i “sapienti”. La filosofia nasce così - in un certo senso - come
un fenomeno di decadenza, in quanto l'amore della sapienza sta più in
basso della sapienza. Amore della sapienza significava infatti per Platone
la tendenza a recuperare quello che già era stato realizzato e vissuto.
Non c'è quindi uno sviluppo continuo, omogeneo, tra sapienza e
filosofia. Ciò che fa sorgere quest'ultima è una riforma espressiva, è
l'intervento di una nuova forma letteraria, di un filtro attraverso il
quale risulta condizionata la conoscenza di quanto precedeva.
Vi ricordate? dapprima il dio ispira un responso oracolare, e
l'oracolo è un semplice interprete della parola divina, appartiene
ancora totalmente alla sfera religiosa. Poi il dio attraverso la Sfinge
impone un enigma mortale, e l'uomo singolo deve scioglierlo, pena la
vita. Infine due divinatori lottano tra loro per un enigma: non c'è più il

52
dio, rimane lo sfondo religioso ma interviene un elemento nuovo,
l'agonismo, che è qui una lotta per la vita e per la morte. Un passo
ancora, cade lo sfondo religioso, e viene in primo piano l'agonismo, la
lotta di due uomini per la conoscenza: non sono più divinatori, sono
sapienti, o meglio combattono per conquistare il titolo di sapiente.
Se l'origine della sapienza greca sta nella “mania”, in
un'esperienza mistica e misterica, come si spiega allora il passaggio da
questo sfondo religioso all'elaborazione di un pensiero astratto,
razionale, discorsivo? A rendere possibile tutto ciò è stata la dialettica
intesa come arte della discussione, di una discussione reale, tra due o
più persone viventi, non escogitate da un'invenzione letteraria. In
questo senso la dialettica è uno dei fenomeni culminanti della cultura
greca, e uno dei più originali.
La dialettica nasce sul terreno dell'agonismo. Su un contenuto
conoscitivo qualsiasi un uomo sfida un altro uomo a rispondere;
discutendo su questa risposta si vedrà quale dei due uomini possieda
una conoscenza più forte. Questa pratica della discussione è stata la
cultura della ragione in generale, della disciplina logica, di ogni
raffinatezza discorsiva.
La dialettica interviene quando la visione del mondo del
Greco diventa più mite. Lo sfondo aspro dell'enigma, la crudeltà del
dio verso l'uomo vanno attenuandosi, vengono sostituiti da un
agonismo soltanto umano. Chi risponde alla domanda dialettica non
si trova più in uno smarrimento tragico: se sarà sconfitto non perderà
la vita, come era accaduto invece a Omero. Chi doveva rispondere
all'enigma,o taceva, ed era subito sconfitto, o sbagliava, e la sentenza
veniva dal dio o dal divinatore. Nella discussione invece il rispondente
può difendere la sua tesi. Del resto si può addirittura non essere del
tutto certi che nella dialettica il rischio non fosse mortale. per un
antico l'umiliazione della sconfitta era intollerabile. E forse
Parmenide, Zenone, Gorgia non furono mai sconfitti in una
discussione pubblica, in un vero agone.
Quando il linguaggio dialettico diventa pubblico, la scrittura,
da strumento mnemonico qual era, va acquistando sempre più
un’autonomia espressiva. Ma è soltanto con Platone che il fenomeno
si dichiara apertamente. Questo è un grande evento, e non soltanto
nell'ambito del pensiero greco. Platone inventò il dialogo come
letteratura. Questo nuovo genere letterario viene da Platone stesso
chiamato con il nome nuovo di “filosofia”. A più riprese Platone

53
designa l'epoca di Eraclito, di Parmenide, di Empedocle come l'età dei
“sapienti”, di fronte a cui egli presenta se stesso soltanto come un
filosofo, cioè come un “amante della sapienza”, uno cioè che la
sapienza non la possiede. Nel Fedro Platone accusa di ingenuità
chiunque pensa di tramandare per iscritto una conoscenza e un'arte,
quasi che i caratteri della scrittura avessero la capacità di produrre
qualcosa di solido. Nella Settima lettera egli contesta in linea generale
alla scrittura la possibilità di esprimere un pensiero serio. Il che
sembra lasciar intendere che tutto il Platone a noi noto non era nulla
di serio, secondo il giudizio di chi l'aveva scritto.
L'età dei sapienti va contrapposta e in qualche modo merita di
essere messa più in alto rispetto all'età dei filosofi. Nietzsche aveva
considerato Socrate come l'iniziatore della decadenza greca. Ma tale
decadenza aveva già preso inizio prima di Socrate, e inoltre se Socrate
è un decadente lo è non a causa della sua dialettica ma al contrario
perché nella sua dialettica l'elemento morale va affermandosi a scapito
di quello puramente teoretico. Socrate è invece ancora un sapiente per
come conduce la sua vita, per il suo atteggiamento di fronte alla
conoscenza. Il fatto che non abbia lasciato nulla di scritto non è
qualcosa di eccezionale ma è proprio quello che ci si può attendere da
un sapiente greco.
Platone dal canto suo era dominato dal demone letterario,
legato al filone retorico e da una disposizione artistica che si
sovrappone all’ideale del sapiente. E neppure vanno dimenticate le
sue ambizioni politiche, qualcosa che gli antichi sapienti greci non
avevano neppure conosciuto.
La filosofia sorge da una disposizione retorica accoppiata a un
addestramento dialettico, da uno stimolo agonistico incerto sulla
direzione da prendere, dal primo presentarsi di una frattura interiore
nell'uomo di pensiero,in cui s'insinua l'ambizione velleitaria alla
potenza mondana, e infine da un talento artistico di grande livello, che
si scarica diventando tumultuoso e tracotante nell'invenzione di un
nuovo genere letterario (cfr. G. Colli).

54
NOTE BIOGRAFICHE

Socrate nacque ad Atene nel demo Alopece, nel quarto anno


della LXXVII Olimpiade (470-469 A.c.), da Sofronisco, scultore, e
Fenarete, levatrice. Si avvicinò giovanissimo alla filosofia e conobbe
Anassagora ed i Sofisti. Visse praticamente tutta la vita ad Atene,
tranne per adempiere agli obblighi militari. Combatté in varie battaglie
(Potidea, Delo, Anfipoli) dimostrando particolare coraggio e forza
d'animo. Socrate si dedicò completamente alla ricerca filosofica e, in
breve tempo, ebbe molti discepoli (fra cui Platone). Dispiegava il suo
ardore di ricerca conversando con tutti e tutti conversando con lui:
scopo delle sue conversazioni fu la conquista del vero, non che gli
altri rinunziassero alla loro opinione” (ibid., II,5, 22). Ebbe due mogli,
Santippe e Mirto, anche se la più famosa rimane la prima. Già vecchio
imparò a suonare la lira, “dicendo che non era per nulla strano
apprendere ciò che non si sa” (ibid., II, 5, 32), mentre amava ballare
regolarmente, ritenendo che un tale esercizio giovasse a mantenere
sano il corpo.
Nel 399 a.C. Anito, Meleto e Licone accusarono Socrate di
corrompere i giovani di Atene e di introdurre la credenza in nuovi dèi.
Al processo, dopo una difesa appassionata da parte di Socrate (ci
verrà tramandata da Platone nella Apologia di Socrate), venne
condannato a morte. Dopo un mese di detenzione, durante il quale
Socrate rifiutò di fuggire per non trasgredire la legge, la sentenza
venne eseguita: morì bevendo la cicuta. Morì a settant’anni nel primo
anno della XCV Olimpiade.

BIBLIOGRAFIA
F. Adorno, Introduzione a Socrate, “i filosofi”, Laterza
Socrate, Tutte le testimonianze, Laterza
L. De Crescenzo, Socrate, Oscar Mondadori
G. Colli, La nascita della filosofia, Adelphi

55
PLATONE

( 427-347 a.C.)

La Repubblica
Platone ha poco più di vent'anni quando incontra Socrate, e
meno di trenta al momento del processo e della condanna a morte del
maestro. Che cosa abbia provato il giovane Platone per quella morte,
è difficile dire. Certo è che da quella morte ha preso le mosse una
delle più profonde ricerche filosofiche che l'antichità ci abbia
tramandato.
La polis ha votato per la morte di un uomo giusto,
condannato per le sue idee. Come è potuto accadere? E' certamente
uno scandalo per l'etica. Infatti un uomo giusto come Socrate è stato
ucciso dalla polis nel pieno rispetto delle leggi vigenti. Se la giustizia è
solo la legge che conveniamo di darci (ricordate i Sofisti ?), dobbiamo
ammettere che l'uccisione di Socrate è avvenuta secondo il diritto. Ma
essa è giusta? Naturalmente la coscienza morale si ribella di fronte ad
un simile caso: non siamo forse alla ricerca di un autentico valore
oggettivo, superiore alle leggi?
Nella prospettiva di Platone, valori morali e valori politici
formano tutt'uno. Il problema di Platone sarà, d'ora innanzi il
seguente: come possiamo trovare una giustizia oggettiva, superiore al
mutevole interesse degli uomini ed ai rapporti di forza, rispettosa della
verità oggettiva e della coscienza, suprema istanza morale dell'uomo?
L'uomo infatti non vive una vita pubblica separata dalla sfera
personale e privata: l'uomo è per Platone autenticamente cittadino
poiché la polis è vista come il luogo per eccellenza dove l'uomo può
essere veramente se stesso, può trovare la sua identità.

56
Ma che cos'è una polis ? Essa è composta da molti individui
che formano una unità, con dei compiti diversi. Così ad es. l'artigiano
produce dei beni che verranno consumati da tutti, l'uomo d'armi
difende la città dai nemici, lo statista la governa. Ciascuno di questi
uomini svolge una sola attività, ma essa è rivolta al bene della
collettività. Solo quindi l'interazione tra tutti garantisce questo bene.
Ecco dunque che cosa è la giustizia: è l'equilibrio tra le parti che
garantisce la buona tenuta del tutto. E' questo equilibrio che
garantisce la felicità del singolo cittadino e quindi nello Stato tutte le
cose devono essere subordinate a questo supremo obiettivo.
Giustizia sarà perciò la corretta distribuzione delle varie
funzioni, per altro tutte importanti. Avremo dunque tre classi di
cittadini a seconda che si occupino del lavoro, della difesa, del
governo. Ciascuno dovrà essere assegnato alla classe a cui lo
destinano le sue naturali disposizioni, eventualmente corrette con una
opportuna educazione, di cui la polis deve farsi carico con la massima
cura. E la cura maggiore viene riservata da Platone all'esame delle
caratteristiche dei governanti: a loro è infatti affidato il compito più
importante e delicato, quello di reggere lo Stato secondo giustizia.
Essi, quindi, dovranno essere in grado di padroneggiare
perfettamente la loro anima, depurandola da tutti gli interessi
personali, poiché il loro unico scopo deve essere l'interesse collettivo.
Inoltre devono possedere nel maggior grado possibile il sapere,
giacché in questo risiede la loro superiorità. Essi sanno che cos'è la
giustizia. e in virtù di questa conoscenza possono reggere la polis. Ma
come si diventa filosofi? Lo si diventa dopo un lunghissimo tirocinio,
al quale si accede solo dopo aver mostrato una notevole
predisposizione. Mentre per gli artigiani non è necessaria una
educazione speciale (ad essi basta la pratica), non è così per i guardiani
e per i governanti.
Dalla nascita i bambini vengono tolti ai loro genitori naturali
(per evitare futuri favoritismi) per vivere insieme agli altri, come in
una grande e solidale famiglia, in una sorta di asili statali. Poi, dai 7 ai
10 anni impareranno a leggere, scrivere, far di conto, conosceranno i
testi classici, faranno danza, ginnastica, musica. Dai 10 ai 18 anni
continueranno gli studi approfondendo la logica, la matematica, la
retorica. I maschi infine faranno il servizio militare, che durerà due
anni. Quelli che saranno però i futuri reggitori dello Stato dovranno
ancora continuare ad approfondire la loro preparazione e dovranno
perciò dedicarsi per altri dieci anni a sistematici studi scientifici. Poi,

57
dai 30 ai 35 anni, studieranno la dialettica (cioè la filosofia), a cui
seguirà un tirocinio di altri 15 anni come “funzionari” al servizio dello
Stato. Dai 50 anni in poi potranno finalmente governare, alternando
però la pratica del governo con lo studio della filosofia.
Platone ha gran cura di mostrare come sia necessario che le
classi superiori siano tenute lontano dal mondo degli affari, della
produzione e degli scambi. I filosofi (ed anche i guardiani) non
potranno perciò avere beni in proprietà privata, ma lo Stato stesso
provvederà a tutte le loro necessità. Persino gli affetti privati sono
visti con sospetto. Coloro che appartengono a queste classi non
potranno formarsi una famiglia ed avere relazioni affettive e sessuali
esclusive. Platone auspica un regime di comunanza delle donne e dei
bambini. Non si tratta però affatto di licenza sessuale o di ridurre le
donne ad oggetto: le donne sono anzi uguali agli uomini e partecipano
alla vita dello Stato su un piano di parità. Si tenga presente che nella
Repubblica l'educazione dei cittadini era contrassegnata da una
straordinaria ambizione: quella di sostituirsi alle leggi, rendendole di
fatto inutili, grazie alla sua capacità di radicare i principi della giustizia
nell'interiorità di ciascuno, a tal punto da produrre comportamenti
spontaneamente corretti!
Del tutto diverso invece l'orizzonte dell'ultimo dialogo
platonico, Le Leggi, in cui proporrà un governo in forma mista fra
aristocrazia e democrazia; ammetterà la famiglia e il matrimonio e
reintrodurrà, anche se in misura ristretta, la proprietà privata; in esso,
in ultimo, non si potrà più fare a meno delle leggi, e le leggi saranno i
principali strumenti di educazione per i giovani o di rieducazione per
gli adulti ribelli. Il Platone delle Leggi crede che nessuno sforzo vada
risparmiato per garantire l'interiorizzazione dell'ossequio alla legge, la
sua trasformazione in costume stabile e radicato. Platone stesso
dichiara di aver scelto questa "seconda rotta" perché la "bella città"
della Repubblica è più adatta alla condizione divina che a quella umana.
La sfera della giustizia, come ogni altro valore morale, si riferisce alla
più intima natura dell'uomo, e cioè alla sua anima (psyché). Platone
afferma così una singola corrispondenza tra la polis e l'anima della
persona. Inoltre noi abbiamo, con Platone, la prima vera e propria
definizione del concetto di giustizia. Si noti: questa risposta è
radicalmente nuova nel pensiero antico. Nessun filosofo, prima di lui,
aveva mai proposto una definizione concettuale della giustizia, cioè
una precisa descrizione dei caratteri teorici che identificano questa

58
idea rispetto alle altre ("la giustizia è il possesso di ciò che è proprio e
l'esplicazione del proprio compito"cfr. ad es. Repubblica, 432, 433).
Tornando all'anima dell'uomo, il problema da affrontare è
adesso il seguente: a quali condizioni l'uomo è in pace con se stesso,
visto che nell'anima vi sono una molteplicità di elementi in lotta tra
loro, come nella polis? Ebbene, l'uomo giusto e sano sarà colui nel
quale governa la parte razionale dell'anima. In altre parole, la parte
razionale dell'anima deve guidare le altre due componenti, quella
concupiscibile e quella irascibile, in modo che l'anima tenda verso i
valori spirituali più alti e possa raggiungere la felicità. Del resto felicità
individuale e felicità collettiva sono le due facce di una stessa
medaglia. Può esservi uno Stato retto secondo giustizia solo se i suoi
cittadini sono giusti. D'altra parte, la felicità individuale dipende
direttamente dalla giustizia e dalla felicità collettiva, nel senso che
nessun individuo può sperare di vivere felicemente se non in una polis
ben ordinata. Quando l'interesse del cittadino appare contrapposto a
quello dello Stato, si deve dare la prevalenza all'interesse collettivo,
perché solo così a ciascuno sarà garantito ciò che gli spetta nell'ordine
del tutto. Il cittadino deve saperlo, e deve essere fiero, se necessario,
di anteporre gli interessi dello Stato ai propri, contribuendo così alla
felicità di tutti.

Il Filebo
In che cosa consisterà allora questa felicità per l'uomo?
Platone affronta a fondo questo problema in un dialogo intitolato
Filebo. La vita migliore per l'uomo consiste, secondo Platone, in una
miscela proporzionata di intelligenza e di piacere (cfr. Filebo, 21 e 28).
Insomma, tutto ciò che ha proporzione e bellezza: ecco qual è la vita
buona per l'uomo. E con l'educazione l'uomo imparerà a distinguere
quali sono i veri piaceri e quali sono le cose che danno la vera felicità.

La teoria delle Idee


Ma perché - ci si potrebbe ancora chiedere - si dovrebbe voler
essere felici e giusti? Perché - risponde Platone - la giustizia è in sé il
bene supremo dell'anima. La giustizia cioè è salute e armonia
dell'anima, come la salute fisica e la bellezza esteriore sono
desiderabili per il corpo. Inoltre, nonostante le apparenze, i giusti
vivono comunque meglio e sono più felici degli ingiusti. Certo,

59
Platone è consapevole che la felicità non potrà mai essere perfetta su
questa terra, ma alla vita terrena egli contrappone costantemente un
altro mondo, un mondo migliore in cui vi sono valori imperituri e
soprattutto vi è il Bene, il valore più alto (Iperuranio o Mondo delle
idee).
Le cose giuste e belle sono infatti tali - cioè dotate di valore e
desiderabili - per la loro relazione con un principio unitario di valore,
l'Idea del Bene. Secondo Platone, solo se c'è qualcosa che è sempre
quello che è, è possibile conoscere che cosa esso sia. Se invece tutto
mutasse continuamente, non si potrebbe mai conoscere che cosa una
cosa è, giacché un attimo dopo essere stata conosciuta come quella
determinata cosa, la cosa muterebbe e non sarebbe più quale
l'abbiamo conosciuta. Insomma, tutta la nostra esistenza spirituale,
con le sue cognizioni e le sue valutazioni, sarebbe incomprensibile se,
accanto ai singoli fenomeni percepiti con i sensi, non si ammettesse
come reale anche l'universale, che noi possiamo cogliere solo con la
vista interiore, col pensiero, e se non si postulassero, oltre alle cose
sensibili che sono mutevoli ed effimere, degli archetipi sempre uguali
a se stessi che si manifestano nelle cose e ne manifestano la vera
essenza, e cioè le famose Idee. Le cose che noi crediamo concrete e
reali sono in realtà per Platone delle copie od imitazioni6 delle Idee
stesse, le quali appunto vivono in una realtà diversa da quella sensibile
e sono concepite da Platone come delle realtà oggettive, delle sostanze
eterne ed immutabili, separate e autonome rispetto al mondo delle
apparenze sensibili.
La teoria delle Idee ha per Platone anche un profondo
significato etico, cioè serve a fornire all'uomo un criterio di
comportamento in vista della realizzazione della sua perfezione (areté).
Infatti, affinché sia possibile la virtù e quindi sia possibile un'etica, è
necessario che esistano dei valori oggettivi, immutabili e universali. Se
non esistessero il Bene, il Bello, il Buono ecc. in sé, come potremmo
noi giudicare un comportamento bene, bello, buono ecc.? Dunque le
Idee di tali valori esistono, sono immutabili perché sempre uguali e in
più vengono riconosciuti come tali da tutti, e sono quindi universali.
Tra tutte le Idee, la più alta realtà esistente è l'Idea del Bene: essa è il
principio di tutte le Idee ed è quindi al di sopra di essa; non si può

6 Anche l’arte è per Platone imitazione nel senso che riproduce la realtà ad es. in un quadro,
in una poesia ecc. dunque deve essere condannata, come Platone dice nel 10° libro della
Repubblica.

60
chiamarla Dio solo perché essa non è un soggetto ma può essere solo
oggetto di intelligenza e di amore.
Platone illustra anche i rapporti reciproci che intercorrono tra
le Idee (alcune ad es. sono più "generali" di altre, come quando ci
riferiamo alla "vita" e all’"uomo": l'uomo è un vivente ma non ogni
vivente è un uomo) e dunque tra esse vi è una sorta di gerarchia, in
cui alcune idee ne includono altre e ne escludono altre ancora.
L'attività razionale a cui compete l'indagine del mondo delle Idee è
chiamata da Platone dialettica, e si identifica in pratica con la filosofia.
Nella Repubblica la dialettica è esplicitamente definita come l'ascesa ad
un principio non ipotetico, che si raggiunge partendo dalle ipotesi e
distruggendole (synagoghé), e la successiva discesa da tale principio,
identificato con l'Idea del Bene, a tutte le altre idee, cioè la fondazione
di queste a partire dalla loro causa (diairesis).
La dottrina delle Idee presentava però delle difficoltà: infatti,
finché si tratta di ammettere Idee di caratteristiche generali (il simile,
l'uno ecc.) oppure di valori (giusto, vero, buono ecc.) non vi sono
obiezioni. Ma vi possono essere le Idee di cose che non sono valori,
come il fuoco, l'acqua, l'uomo? E vi possono essere Idee di cose
negative come ad es. la sporcizia?
La risposta di Platone è che l'Idea è la forma unica di una
molteplicità (Abbagnano7). Definita in tale modo, ogni Idea è identica a
sé stessa e diversa dalle altre, come di ogni cosa possiamo dire che è
se stessa e non è le altre cose. Da questo punto di vista, Platone può
parlare anche del non essere - e superare quindi Parmenide,
compiendo il "parricidio di Parmenide" - intendendolo come diverso,
nel senso che dire di una cosa che essa non è ... non significa
necessariamente che essa non sia in senso assoluto, bensì che essa è
diversa dalle altre cose.
Le Idee sono inoltre caratterizzate dal limite e dall'illimitato
(ovvero finito ed infinito): appartengono al limite tutte quelle
caratterizzate da numero e misura (le Idee in genere, i numeri, i
rapporti ecc.); appartengono all'illimitato le qualità caratterizzate dal
più e dal meno (caldo, freddo, forte, debole, amaro dolce ecc.);
mentre vi sono poi moltissime cose che appartengono al cosiddetto
genere misto, che comprende tutte quelle cose che hanno un inizio ed
una fine (la salute, le stagioni, una musica ecc.). Il genere misto è

7 Cfr. N. Abbagnano, Storia della filosofia, UTET. Torino 1969, vol. 1°, p. 114.

61
importante anche in ambito morale, come abbiamo visto, poiché la
vita migliore è quella in cui si troverà una mescolanza proporzionata
di intelligenza e di piacere.
Ultima questione: da dove vengono all'anima umana le Idee?
Esse sono - dice Platone - come dimenticate in fondo all'anima e
vengono apprese, conosciute, ogni volta che l'anima ci riflette sopra.
Così conoscere non è altro che ricordare e cioè riportare alla luce della
coscienza le Idee che sono come sepolte in noi. Lo strumento più
adatto per farlo sarà naturalmente la filosofia.

Il mito della caverna


Bisogna adesso parlare di un aspetto fondamentale del
filosofare platonico e cioè del significato del mito. In Platone il mito
serve... per illustrare le verità più profonde. Esso inoltre non pretende
di dimostrare in senso stretto ogni cosa ma vuole stimolare, spronare
alla ricerca degli ultimi perché. Con ciò Platone ha evitato di usare, da
un lato, il mito solo in senso fantastico o in modo astratto e
intellettualistico, dall'altro ha superato lo scoglio del razionalismo, cioè
la pretesa di ridurre tutto ad una spiegazione puramente razionalistica
o logica. Del resto la filosofia, avendo spesso a che fare con i
problemi più difficili, si trova sovente ai confini del dicibile e dunque,
per risolverli, si avvale del ricorso al mito, il quale illustra qualcosa che
si può ritenere valido e significativo anche se non è rigorosamente
spiegabile o dimostrabile.
Il mito più famoso di Platone è probabilmente quello della
caverna nel 7° libro della Repubblica. Platone racconta che gli uomini
possono essere paragonati ad alcuni schiavi incatenati, posti all'interno
di una caverna, i quali sono costretti a volgere lo sguardo sulle pareti
di essa, su cui si proiettano le ombre delle cose esterne, grazie ad un
fuoco posto all'esterno dell'antro. In un primo tempo, gli schiavi
scambiano la vera realtà con le ombre (verità come percezione di
immagini, eikasia). In seguito uno di essi riesce a voltarsi e si rende
conto che la realtà non era l'ombra ma l'oggetto corrispondente
(verità come credenza, pistis). Poi riesce a liberarsi e va all'esterno,
dove prima è abbacinato dal Sole ma, quando riesce ad abituarsi alla
luce, scopre gradualmente la verità fino a contemplare il Sole stesso
(conoscenza razionale, dianoia, e poi filosofica, noesis).8 Egli però non

8 La distinzione viene in realtà anticipata alla fine del 6° libro, cfr. Repubblica, 510-511.

62
se ne va via, ma ritorna alla caverna per far partecipi gli altri di ciò che
ha visto, a rischio di essere preso per matto. Il che significa che il
filosofo non deve limitarsi a contemplare da solo la verità, ma è
importante il suo ritorno alla caverna per aiutare gli altri ad arrivare
alla conoscenza del vero bene.

Il mito di Er
Sempre nella Repubblica, ma nelle ultime pagine dell'opera, nel
decimo libro, viene descritto il mito di Er, che affronta il problema
del destino umano. Er è un guerriero morto in battaglia che ritorna in
vita dopo alcuni giorni trascorsi, diciamo così, nell'aldilà. Egli racconta
appunto quel che succede dopo la morte. Vi sono le tre Parche
(Cloto, il presente, che fila il filo della vita; Lachesi, il passato, lo
distribuisce; Atropo, il futuro, lo taglia) che sono presenti al momento
della scelta, da parte delle anime, del prossimo corpo in cui
reincarnarsi. Ogni anima può scegliere il modello di vita ad essa più
adatto e, in genere, sceglie in base a quella che è stata la vita
precedente. Ciò implica che la scelta fatta dall'anima sia comunque
libera e ciò vuol dire che ognuno è responsabile del proprio destino
mentre la divinità non c'entra. Platone conclude dicendo che già in
questa vita bisogna prepararsi alla scelta del proprio destino. Man
mano che l'uomo procede nelle vita, sceglie di volta in volta il bene e
il male, dunque determina il proprio destino.

Il mito dell’amore nel Simposio


In altri dialoghi Platone affronta il mito dell'amore. Nel
Simposio è detto che Eros (amore) è desiderio di qualche cosa che non
ha, ma di cui ha bisogno (=l'amato), ed è quindi mancanza, desiderio
di qualcosa. In quest'opera, Platone fa raccontare da vari personaggi
differenti teorie sull'origine dell'amore. In particolare mette in bocca a
Socrate un mito che Socrate stesso dice di aver sentito da Diotima,
una donna-filosofa a cui era legato, e che racconta che il giorno in cui
nacque Afrodite, la dea della bellezza, tutti gli dèi furono invitati al
banchetto (simposio o convito) per festeggiare. Tutti tranne la dea
della povertà, Penia. Ella però riuscì ad entrare alla festa e si aggirò in
cerca di qualcosa da mangiare. Si imbattè in Poros, mezzo ubriaco, e
ne approfittò unendosi a lui. Nacque così Eros. Eros è dunque il
mitico figlio di Penìa (povertà) e di Poros (espediente o acquisto),

63
dunque non è un dio ma un semidio, un demone. Egli non ha la
bellezza ma la desidera, non ha la sapienza ma la cerca e quindi è per
eccellenza filosofo (al contrario degli dèi che sono già sapienti e belli e
beati). L'amore è perciò desiderio di bellezza, e la bellezza si desidera
perché è il bene che rende felici. L'uomo, destinato a morire, tende a
generare nella bellezza e quindi a "immortalarsi" attraverso la
generazione, lasciando, dopo di sé, un figlio che gli somigli. La
bellezza è dunque il fine dell'amore. Ma quale bellezza? Essa ha
diversi gradi e ad essi l'uomo può procedere solo dopo un lungo
cammino di riflessione. C'è dapprima la bellezza corporea, da cui
l'uomo viene subito attirato. Ma sopra di essa, più importante, vi è la
bellezza dell'anima. E, più importante ancora, vi è la bellezza delle
leggi e delle istituzioni. Al di sopra ancora si trova la bellezza delle
scienze e, infine, c'è la bellezza in sé, l'Idea di Bellezza, che è la fonte
di ogni altro tipo di bellezza. Come può l'uomo giungere a
contemplarla?

Il mito dell’anima nel Fedro


E' quanto Platone spiega nel Fedro. L'anima è paragonata ad
una coppia di cavalli alati tirati da un auriga. Uno dei cavalli è
eccellente, l'altro è pessimo. Compito dell'auriga è indirizzare verso
l'alto (il mondo delle Idee) la coppia di animali. Il cavallo pessimo
cerca sempre di tirare verso il basso in modo che l'auriga riesca a
contemplare poco il mondo delle Idee. Quando poi l'anima si
appesantisce (o per colpa o per dimenticanza), perde le ali dei cavalli e
va ad incarnarsi in un uomo che sarà tale quale essa lo rende. L'anima
che è riuscita a vedere di più, andrà nel corpo di un uomo che si
dedicherà alla sapienza e all'amore, mentre l'anima che ha visto dei
meno andrà a finire in un corpo dedito solo alle sollecitazioni più
egoistiche. Orbene, nell'anima incarnata - quindi nell'uomo - il ricordo
delle realtà ideali è risvegliato proprio dalla bellezza. L'uomo non può
fare a meno di riconoscere la bellezza e, al suo richiamo, risponde con
l'amore. L'amore è quindi la guida dell'anima (è psicagogo) verso il
mondo dell'essere e della verità. L'eros, in altri termini, si trasforma
nella ricerca filosofica che è, contemporaneamente, ricerca della verità
ed unione delle anime nello sforzo comune di apprendere qual è la
vera realtà. Ecco l'autentico significato di quello che viene
tradizionalmente chiamato l’"amore platonico".

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Il mito del Demiurgo
Per finire, ricordo il mito del Demiurgo descritto nel Timeo. Il
Demiurgo è l'artigiano divino, dotato di intelletto e volontà, il quale,
essendo buono e amante del bene, mette in ordine tra le cose del
mondo (forma il cosmo) che, in origine, erano un ammasso informe o
caos. La materia è vivificata dall'Anima del Mondo che, appunto,
trasforma l'universo in un immenso organismo vivente, ed in esso si
riflette l'armonia del mondo delle Idee. Il Demiurgo genera anche il
tempo, che è l’"immagine mobile dell'eternità" poiché riproduce, col
succedersi degli eventi, l'ordine che c'è nell'eternità. Il Demiurgo,
comunque, è solo l'artefice delle cose naturali e non delle Idee e tanto
meno dell'idea suprema, quella del Bene. Si ricordi che la divinità è
partecipata da vari dèi, ed il Demiurgo ne è solo, per così dire, il capo
gerarchico.

NOTE BIOGRAFICHE
Platone non si chiamava così: il suo vero nome era Aristocle,
ed era figlio di Aristone e Perittione. Fu così chiamato secondo alcuni
per il suo vigore fisico mentre per altri per l’ampiezza del suo stile o
ancora perché aveva la fronte ampia. Apollodoro nella sua Cronologia
pone la nascita di Platone nella 86^ Olimpiade, nel settimo giorno del
mese di Targelione. Verso i vent’anni diventò discepolo di Socrate e
rimase col maestro fino alla morte di lui nel 399 a.C. Fondò
l’Accademia nel 387 a.C. Morì lasciando alla guida della scuola il
nipote Speusippo.

BIBLIOGRAFIA
Abbagnano, Storia della filosofia, vol. 1°, UTET,Torino 1969
G. Colli, La nascita della filosofia, Adelphi
Rossi-Viano, Storia della filosofia, vol. 1°, Laterza
Platone, Tutte le opere, Sansoni (o Rusconi o Newton
Compton)
F. Adorno, Introduzione a Socrate, "i filosofi", Laterza

65
ARISTOTELE

(384-322 a.C.)

La critica alla teoria delle Idee 9


Aristotele critica fin da subito la teoria delle idee di Platone.
Naturalmente tale dottrina era discussa a fondo dal maestro e tra i
discepoli, però Aristotele si distingue per averne affermata
radicalmente l'inutilità. La teoria delle Idee, secondo Aristotele,
complica inutilmente la spiegazione della realtà: le idee sono più
numerose degli individui (se diciamo ad es. che l'uomo è un animale
razionale, troviamo in ogni individuo già almeno tre Idee, quella di
uomo, di animale, e di razionale). Se poi si dice che gli individui sono
simili all'Idea, si deve riconoscere che questo singolo uomo e l'Idea (di
Uomo in sé) non sono simili di per sé (infatti l'individuo non possiede
certo l'universalità dell'Idea, è un uomo in particolare e non l'Uomo in
sé); devono allora essere simili in virtù di un terzo uomo che, sia
simile da un lato all'Idea e dall'altro all'individuo; ma per poter far ciò,
il terzo uomo ne esige un quarto, e questo un quinto e così via
all'infinito. Insomma, il solco tra le Idee e gli individui si rivela
incolmabile. Per sanare il radicale dualismo platonico bisogna
dichiarare che reali sono proprio gli individui (ecco la novità di
Aristotele!): è nelle cose visibili che va cercata la causa stessa della
realtà, degli individui, del loro divenire. Con l'abbandono del
platonismo, Aristotele si dedica ad una sistematizzazione del sapere

9 Si veda la discussione a riguardo ad es. in Metafisica, libro I (A), 9, 990 b segg.

66
talmente profonda che egli sarà il culmine del pensiero greco antico.
Non solo: le sue idee influenzeranno il mondo occidentale per molti
secoli per cui non c'è branca del sapere che non abbia risentito
dell'impronta, diretta o indiretta di Aristotele.

La suddivisione delle scienze


Aristotele divide le scienze in tre gruppi: le scienze teoretiche
(la filosofia prima o metafisica, la fisica e la matematica)10, le quali
ricercano la conoscenza disinteressata della realtà e si occupano
dell'essere necessario (Dio, mondo, numero), mentre le altre si
occuperanno dell'essere possibile (ogni altra cosa che esiste); le
scienze pratiche, che comprendono l'etica e la politica, le quali
ricercano il sapere per raggiungere la perfezione morale e sono di
guida alla condotta umana; e infine le scienze poietiche o produttive
(le arti e le tecniche), che ricercano il sapere in vista del fare, per
produrre i vari oggetti.

La metafisica
La scienza più alta è per Aristotele la metafisica (che in realtà
lui chiamava filosofia prima e, più tardi, verrà anche detta ontologia, cioè
studio dell'essere), la quale viene da lui definita in quattro modi: essa è
la scienza che studia le cause e i principi primi, studia l'essere in
quanto essere; studia la sostanza; studia Dio e la sostanza immobile.
Dire che la metafisica studia l'essere in quanto essere significa che essa
non ha per oggetto una realtà in particolare, bensì la realtà in generale,
cioè gli aspetti fondamentali e comuni di tutta al realtà. In altri
termini, la matematica studia l'essere come quantità, la fisica studia
l'essere come movimento, solo la metafisica studia l'essere in quanto
tale, considerando le caratteristiche universali di ogni essere (ecco
perché è chiamata "filosofia prima" mentre la altre scienze sono
"filosofie seconde"), ed è dunque il presupposto indispensabile di
ogni ricerca.
Se la metafisica è lo studio dell'essere, che cosa è l'essere?
Aristotele dice che l'essere ha molteplici aspetti e significati (noi
diciamo ad es. che l'uomo è, la neve è sui monti, Dio è...). Esso viene
perciò diviso da Aristotele in quattro gruppi principali: l'essere come

10 Cfr. Metafisica, libro VI, 1025 segg.

67
categoria; l'essere come potenza e atto; l'essere come accidente;
l'essere come vero (e il non essere come falso). Noi vedremo
brevemente i primi tre aspetti.
Col termine "categorie" Aristotele intende le caratteristiche
fondamentali che ogni essere possiede. Esse sono dieci: sostanza,
qualità, quantità, relazione, agire, subire, dove (luogo), quando
(tempo), avere e giacere. La prima di esse, la sostanza, è la più
importante perché è il riferimento comune alle altre categorie che, in
qualche modo, la presuppongono (la qualità ecc. è sempre riferita a
qualcosa che esiste di già: l'uomo, ovvero la sostanza, è alto, uno,
padre, cammina ecc.). Il che ci porta a concludere che, se l'essere si
identifica con le sue categorie e le categorie si riferiscono alla
sostanza, la domanda su "che cos'è l'essere?" si trasforma in "che cos'è
la sostanza?".
La sostanza è in primo luogo ogni individuo concreto (uomo,
cavallo, albero, tavolo ecc.) a cui si riferiscono delle proprietà che lo
caratterizzano. E' quindi un sinolo, unione di due elementi che
Aristotele chiama materia (hyle) e forma (eidos, morphé). La forma è la
"natura" propria di una cosa, è ciò che la rende quella che è e la
distingue dalle altre; è dunque la sua "essenza", il suo significato
fondamentale, il suo "essere dell'essere". La materia è invece ciò di cui
una cosa è fatta, ciò di cui è composta (ad es. un uomo è fatto di
carne ed ossa; una sfera è fatta di bronzo ecc.), ed è dunque un
elemento passivo, che viene 'strutturato', dalla forma, nel senso che è
la forma che rende ad es. l’uomo 'animale razionale', mentre la materia
sarà il corpo dell'uomo. Entrambe però, la materia e la forma, sono
necessarie per fare una sostanza: non può esistere un uomo senza il
corpo (materia), né l'anima (forma) senza il corpo.
Se la forma è l'essenza necessaria, da essa si distinguono gli
accidenti, i quali sono le varie qualità che si possono avere o non avere
senza per questo influire sulla sostanza stessa. Ad es. Socrate non
cessa di essere uomo mentre può essere allegro, triste, sano, malato,
ecc. Per cui mentre l'accidente cambia nel tempo, la sostanza rimane
la stessa, identica, pur nel mutare delle varie qualità.
Se la forma è l'essenza necessaria, è ciò per cui ogni essere è
necessariamente quello che è, allora essa è anche la risposta che
possiamo dare circa il che cos'è? di una cosa, in quanto definire un
essere vuol dire chiarirne l'essenza (che cos'è questo? è un uomo; che
cos'è un uomo? un animale razionale). Questo ci porta a fare un breve

68
excursus in ambito logico per accennare al principio di non
contraddizione (lo vedremo meglio più avanti): esso sostiene che ogni
essere ha una natura determinata che è impossibile negare di esso e
quindi, in questo senso, gli è necessaria, non potendo essere diversa
da quello che è. E' espresso da Aristotele nel modo seguente : "è
impossibile che la stessa cosa sia e insieme non sia". Il che viene
dimostrato da Aristotele per assurdo dicendo che, se una parola ha un
significato, non è possibile che Aristotele sia insieme B e non-B, cioè
ad es. che 'uomo' sia insieme 'animale razionale' e 'non animale
razionale'. Ne riparleremo tra qualche pagina.
Tornando alla sostanza, possiamo notare che praticamente
ogni cosa è una sostanza, in quanto di ogni cosa - da Dio al più
piccolo sasso - si può sempre e comunque chiedere che cos'è?. Ciò
significa che tutti gli esseri, prima di qualunque altro valore, hanno
questo che li accomuna: il fatto di essere delle sostanze. Il che implica
che, per Aristotele, tutte le scienze, in quanto sono tutte rivolte alla
ricerca e alla definizione delle sostanze, abbiano la stessa dignità. Con
questa idea Aristotele ha ulteriormente abbandonato il Platonismo,
giacché per Platone valeva la pena di indagare solo ciò che era ottimo
e perfetto e le scienze della natura non erano in fondo delle 'scienze'
ma solo delle opinioni probabili. Per Aristotele invece ogni scienza ha
valore di per sé. Egli ha quindi giustificato il valore della ricerca
scientifica nel suo senso più ampio (ed ecco perché si è occupato di
ogni ramo dello scibile) ed ha eliminato il ‘pregiudizio’ platonico
contro l'indagine della natura.
Aristotele afferma, come già Platone, che la conoscenza nasce
dalla meraviglia nei confronti della realtà e consiste nel chiedersi il
perché delle cose. Ma chiedersi perché una cosa esista o perché sia
così e non altrimenti, equivale a chiedersi qual è la causa
(=condizione, fondamento, ragione) della cosa stessa, e quindi vi
potranno essere diversi tipi di cause. Aristotele elenca quattro cause:
materiale, formale, efficiente, finale.
La causa materiale è appunto la materia, ciò di cui una cosa è
fatta (il bronzo è la cosa materiale della statua). La causa formale è la
forma o essenza della cosa (la 'ragione' è la forma o essenza
dell'uomo). la causa efficiente è ciò che dà origine, inizio a qualcosa (il
padre è la causa efficiente del figlio). La causa finale è il fine, lo scopo
a cui una cosa tende (il diventare adulto è la causa finale del bambino).
La teoria delle cause è legata al problema del mutamento o, meglio,
del divenire. Che vi siano delle cose che mutano è una esperienza

69
quotidiana. Ma come poter definire il divenire il generale? Per
Aristotele il divenire è il passaggio da un tipo di essere ad un altro. In
breve, l'unica realtà è l'essere, ed il divenire è soltanto uno dei modi
dell'essere. Approfondendo la questione Aristotele elabora i concetti
di essere in potenza e di essere in atto. La potenza (dynamis) è in
generale la possibilità, da parte di qualcosa, di cambiare, assumere
dunque una certa 'forma'. L'atto (energheia) è la realizzazione di quel
cambiamento, è la cosa esistente che si ottiene in seguito al
cambiamento. Ad es. un pulcino è in potenza un gallo, come il gallo è
il pulcino in atto (l'atto viene anche chiamato entelecheia, cioè
realizzazione o perfezione attuata). L'atto è per Aristotele superiore
alla potenza poiché è la causa, il senso, il fine di ciò che è in potenza.
Alla domanda se è nato prima l'uovo o la gallina, Aristotele
risponderebbe 'la gallina', proprio perché la gallina è la realizzazione
compiuta di ciò che è solo in potenza, che potrebbe avvenire ma non
è ancora, mentre solo ciò che è in atto ci permette di conoscere quello
che è in potenza.

La concezione della divinità 11


Non ci rimane che illustrare la metafisica come 'studio di Dio'.
Sviluppando un argomento già presente negli ultimi dialoghi platonici,
Aristotele sostiene che la materia non può avere in se stessa la causa
del proprio movimento. Dunque tutto ciò che si muove, è
necessariamente messo in moto da qualcos'altro. Questo qualcos'altro,
poi, se è anch'esso in movimento, è mosso da altro ancora (come la
pietra è mossa dal bastone, che è mosso dalla mano, che è mossa
dall'uomo). Orbene, in questo processo di rimandi non si può
procedere all'infinito perché altrimenti rimarrebbe inspiegato il
movimento iniziale, dalla cui constatazione siamo partiti. Non
potendo così andare all'infinito, vi devono essere dei principi, ovvero
dei motori immobili a cui fanno capo i vari movimenti e, a maggior
ragione, vi deve essere un principio primo e immobile, un Primo
Motore Immobile, a cui fa capo tutto il movimento. Per Aristotele
questo Motore Immobile è Dio stesso, a cui il filosofo attribuisce
anche altre caratteristiche. Prima di tutto Dio deve essere un atto
puro, cioè un atto senza potenza, giacché la potenza è la possibilità di
cambiamento mentre Dio, se è Motore Immobile, non può essere

11 Cfr. Metafisica, libro XII, 1071 b segg.

70
sottoposto al mutamento. Inoltre Dio deve anche essere forma pura o
sostanza incorporea perché è appunto privo di materia.
Alla domanda: come può il Primo Motore muovere restando
immobile? Aristotele dice che esso non muove come una causa
efficiente, dando un impulso, ma muove come causa finale, cioè come
'un oggetto d'amore'. In altre parole, il Primo Motore muove come
l'oggetto d'amore attrae l'amante, pur restando immobile. Dio è la
Perfezione che, come una calamita, attira e quindi muove il mondo.
Di conseguenza, l'universo è una sorta di sforzo della materia verso
Dio e quindi, in pratica, un desiderio incessante di prendere 'forma',
Non è tanto Dio che dà forma al mondo, ma è piuttosto il mondo
che, aspirando a Dio, si auto-ordina (non si dimentichi che per i Greci
l'universo non è creato, non ha avuto origine, sussiste da sempre).
Un'altra caratteristica del Dio aristotelico è che è vivente. Ma
di quale tipo di vita? Quella che per Aristotele è la più perfetta, quella
che all'uomo è possibile solo per breve tempo, e cioè la vita del puro
pensiero, della contemplazione (theoria). E che cosa contempla Dio?
Non può che contemplare la cosa più perfetta e quindi... contempla se
stesso: egli pensa se stesso, è 'pensiero di pensiero'. Si noti che Dio
non è però unico. Per i Greci era 'divino' tutto ciò a cui si può
attribuire l'eternità e l'incorruttibilità, per cui sono divine molte cose,
come le sostanze soprasensibili, l'anima razionale dell'uomo e anche i
motori dei cieli. A. pensava infatti che il cielo fosse in realtà costituito
da moltissime (da 47 a 55) sfere celesti, ognuna delle quali veniva
mossa da una intelligenza motrice, che era dunque divina, analoga al
Primo Motore ma inferiore a lui, anzi inferiori le une alle altre, come
sono gerarchicamente inferiori le sfere che, una dopo l'altra, sono tra
le stelle fisse e la terra. E si ricordi, in ultimo, che il Dio di Aristotele
non è né creatore e né provvidenza. Esso non crea il mondo dal nulla
(questa è una concezione ebraico-cristiana) visto che il mondo è
eterno; non conosce e non ama il mondo giacché l'amore è visto
come una imperfezione, in quanto è la tendenza a ricercare ciò di cui
abbiamo bisogno (ricordate Platone?) mentre, se Dio è perfetto, non
può avere bisogno di nulla e quindi non può amare. Il Dio di
Aristotele è insomma una statica perfezione che si bea eternamente di
se stessa.

71
La fisica ovvero la cosmologia
Com'era visto il mondo da Aristotele ? Pensate che quanto
egli sostenne rimarrà tale fino al 1600, quando Galilei e altri daranno
origine alla scienza moderna. Vi è, secondo Aristotele, il mondo
celeste ed il mondo sublunare, in cui è situata la Terra. Le sostanze del
mondo sublunare sono costituite da quattro elementi: aria, acqua,
terra e fuoco. Ogni elemento si muove in una direzione determinata
dal suo peso; ciascuno di essi ha quindi un luogo naturale a cui tende
(per Aristotele non c'è il vuoto perché in uno spazio vuoto nulla
offrirebbe resistenza e quindi non ci sarebbe differenza di velocità tra
corpi pesanti e corpi leggeri). La terra, in quanto corpo più pesante,
occupa il centro dell'universo, Al di sopra della Terra vi sono la Luna,
il Sole, i pianeti e le stelle. I corpi celesti sono legati ad una serie di
sfere concentriche, che si muovono in cerchio (perché è il moto
perfetto) intorno alla Terra. Il movimento circolare è eterno, così
come è eterno il mondo nel suo complesso ed eterne le specie animali
e vegetali che lo popolano (bisognerà aspettare Darwin per contestare
questo aspetto). Il moto circolare è proprio delle sostanze
incorruttibili ossia dei corpi celesti. Essi sono composti da una quinta
essenza o etere. I processi di generazione e corruzione sono propri
solo delle singole sostanze del mondo sublunare.

La biologia e il problema dell’anima


Nel mondo sublunare vi sono molte specie viventi. Non ogni
corpo ha naturalmente la vita: basti pensare alle pietre o ai metalli.
Solo un corpo organico, ossia un corpo dotato di strumenti in grado
di svolgere certe funzioni, può avere la vita in potenza. L'anima,
secondo Aristotele, non può esistere indipendentemente dal corpo:
essa è l'atto perfetto o entelecheia di un corpo che ha la vita in
potenza; mentre il corpo è la 'materia' di quel sinolo (composto) che è
l'essere vivente. L'anima ha diverse funzioni: quella nutritiva e
riproduttiva (che è anche comune a piante ed animali), quella sensitiva
(propria solo degli animali e degli uomini : si ricordi che per Aristotele
è il cuore e non il cervello il centro delle funzioni percettive e
fisiologiche), e infine quella intellettiva, propria solo dell'uomo, che è
un intelletto che non ha bisogno di un supporto corporeo per
svolgere il suo compito (ad es. giudicare il vero dal falso, ciò che è da
desiderare o da fuggire ecc.). L'intelletto è in potenza e diventa in atto
quando conosce. Mentre l'anima individuale umana non è immortale

72
(l'abbiamo visto prima dicendo che è legata al corpo), l'intelletto
produttivo (poietikos) è sempre in atto ed è impassibile, separabile e
quindi immortale. Aristotele dice che è divino e proviene all'uomo
dall'esterno. Il che procurerà diversi fastidi ai commentatori posteriori
di Aristotele che cercheranno di risolvere in qualche modo la
posizione non ben chiara del maestro.

L’etica
Passiamo ora all'etica aristotelica. Se fino a Platone l'etica non
aveva alcuna autonomia rispetto alla filosofia, con Aristotele questa
autonomia è riconosciuta alla cosiddetta 'filosofia pratica', che
comprende però, insieme, sia etica che politica o, meglio, l'etica è vista
come politica nella misura in cui essa può ispirare una legislazione
adeguata per promuovere la felicità collettiva e dunque anche
individuale. Aristotele riconosce però subito che il campo del bene e
del giusto su cui indaga il sapere etico-politico presenta un tale grado
di variabilità e instabilità da non consentire altro approccio alla verità
se non per approssimazione. D'altra parte, dice Aristotele, quel che
vogliamo acquisire in un trattato di etica come l'Etica nicomachea
(ovvero Etica a Nicomaco, dedicata al figlio di Aristotele che aveva
preso il nome dal nonno) non è tanto la conoscenza 'teorica' della
virtù, quanto uno strumento per diventare 'uomini buoni e felici'.
E appunto nella felicità consiste il bene più alto per l’uomo
secondo Aristotele. Il bene non è più, come in Platone, l'Idea o la
realtà più alta, ma, molto più concretamente, "ciò a cui ogni cosa
tende". Da questo punto di vista, vi è una molteplicità di fini e quindi
di beni, anche se vi è una gerarchia di desiderabilità tra tutti i beni. La
felicità comprende molte cose: una buona vita, una attività coronata
da successo, un gruppo di amici con cui condividere le esperienze, il
possesso di un minimo di beni, insomma oggi diremmo una 'esistenza
realizzata'. Non per nulla il termine greco per 'felicità' è eudaimonia, che
vuol dire letteralmente essere accompagnati 'da un buon demone',
quindi da una sorte propizia.
Aristotele si riferisce comunque ad una felicità esclusivamente
umana e, del resto, per lui non è neppure concepibile una felicità ad
es. degli animali; non solo, ma per Aristotele l'uomo potenzialmente
felice è il membro giusto, agiato, della polis, per cui ne sono esclusi
schiavi, artigiani ecc. Comunque Aristotele riconosce la fragilità della

73
felicità concessa agli uomini: il virtuoso sarà però capace di
fronteggiare con serenità le varie vicissitudini della sorte (tyché).
Ma come si diventa 'giusti'? Non certo attraverso un
insegnamento teorico. La via maestra per la virtù è l'abitudine alla
condotta virtuosa (si noti in greco il nesso linguistico tra ethos,
carattere, ed ethos, abitudine). In altri termini, si diventa giusti
abituandosi a compiere azioni giuste. La formazione morale si attua
cioè attraverso l'abitudine e finisce per consolidarsi in una sorta di
'seconda natura' del soggetto.
Il criterio effettivo a cui paragonare il nostro comportamento
non è, per Aristotele, il riferimento ad un bene più o meno astratto,
ma è costituito dal comportamento effettivo di una figura socialmente
riconoscibile e approvata per la sua conformità ai modelli morali
condivisi: è insomma l'uomo che è serio e virtuoso, lo spoudaios, che
costituisce 'il canone e la misura' del comportamento morale.
Aristotele nomina esplicitamente, a questo riguardo, Pericle e i suoi
simili, come rappresentanti del 'perfetto gentiluomo ateniese'. Detto
in breve: vuoi essere virtuoso? Comportati come farebbe Pericle.
Però se lo spoudaios funge da criterio di virtù, è perché egli ha
scelto di vivere secondo virtù, cioè ha ritenuto che fosse meglio vivere
virtuosamente invece che malvagiamente. Il che ci porta ad affrontare
il tema della libertà, che è tutt'altro che semplice nel pensiero
aristotelico. In primo luogo si noti che il termine greco che viene
generalmente tradotto con 'libertà' è eleutheria, che designa non tanto la
libertà 'psicologica' quanto la condizione giuridica dell'uomo libero, in
contrapposizione allo schiavo. Egli dice che un'azione è libera quando
"dipende dall'uomo stesso". Ma il senso esatto di questo autòs si
riferisce all'individuo umano preso nel suo complesso, concepito
come l'insieme delle disposizioni che formano il suo carattere
particolare, il suo ethos. Il carattere di ogni uomo si fonda su una
somma di disposizioni (héxeis) che si sviluppano attraverso la pratica e
si fissano in abitudini. Una volta formato il carattere, dice A., il
soggetto agisce in conformità a queste disposizioni, e non potrebbe
essere altrimenti. Ora, è vero - ammette Aristotele - che chi ha
acquisito una abitudine, ad es. l'ingiustizia, non può tornare indietro
(si pensi oggi ai drogati, ai delinquenti ecc.), ma "all'inizio gli era
possibile non diventare ingiusto", e quindi lo è diventato
volontariamente, trasgredendo il 'condizionamento virtuoso' operato
dal padre, dalla polis, dalla legge. Inoltre Aristotele è convinto che né
la spinta della passione (al contrario di quanto sostenevano i tragici

74
del pensiero arcaico) né l'attrazione del piacevole esercitano su di noi
una vera e propria costrizione: resta sempre in noi la possibilità di
resistere, di esercitare quel potere interiore (enkrateia) che distingue il
virtuoso dall'intemperante. In altri termini, per Aristotele le passioni
non costituiscono in loro stesse il male morale: occorre solo
incanalare le passioni quando e come si deve, verso chi e per il fine
che si deve, seguendo la regola della medietà. La virtù consiste infatti
nella medietà, cioè nella scelta della vita intermedia fra i due opposti
errori dell'eccesso e del difetto passionale. Non vi è però una sola
virtù ma diverse. Come suo solito, molto concretamente, Aristotele
ritiene che vi siano due tipi fondamentali di virtù, quelle etiche e quelle
dianoetiche, a seconda che si riferiscano rispettivamente alle nostre
attività pratiche o a quelle intellettuali. Le prime sono il coraggio, la
temperanza, la generosità o liberalità, la magnanimità e la
mansuetudine; le seconde comprendono la scienza, l'arte, la saggezza,
l'intelligenza, la sapienza. Vediamole più in dettaglio.
Il coraggio (riguarda ciò che si deve o no temere) è il giusto
mezzo tra la viltà e la temerarietà. La temperanza (riguarda l'uso
moderato dei piaceri) è il giusto mezzo tra intemperanza e
insensibilità. La generosità o liberalità (uso accorto di ciò che si
possiede) è il giusto mezzo tra l'avarizia e la prodigalità. La
magnanimità (concerne la retta opinione di se stesso) è il giusto
mezzo fra la vanità e la piccineria d'animo. Infine la mansuetudine
(concerne l'ira) è il giusto mezzo tra irascibilità e indolenza.
A parte vi è la giustizia che è, per Aristotele, la virtù per
eccellenza. La 'giustizia' implica il concetto di ordine e di equilibrio:
ordine e misura sia in sé che nel rapporto con gli altri, così che
ciascuno possa liberamente attuare se stesso in una armonia superiore.
In questo senso giustizia-libertà-morale coincidono.
A parte ancora vi è pure l'amicizia (philia) a cui A. dedica due
libri dell'Etica nicomachea (l'8° e il 9°). La felicità è perfetta se, oltre alla
contemplazione, l'uomo possiede un certo numero di beni ed in più
ha degli amici. L'amicizia è strettamente collegata alla virtù, ed è la
cosa "più necessaria" alla vita. L'amicizia, quando è fondata appunto
sul bene e sulla virtù, è perfetta, ed è quindi stabile e ferma. "L'uomo
virtuoso si comporta verso l'amico come si comporta verso se stesso,
perché l'amico è un altro se stesso" (Et. nic.,9,9,1170 b 5).
Le virtù dianoetiche sono la scienza, che è la capacità
dimostrativa, ed ha per oggetto ciò che è necessario; l'arte, che è la

75
capacità, accompagnata a ragione, di produrre un oggetto, ed ha
sempre un fine fuori di sé; la saggezza (phronesis) è la capacità,
congiunta a ragione, di agire in maniera conveniente sui beni umani;
ad essa spetta di determinare il giusto mezzo in cui consistono le virtù
morali; l'intelligenza è la capacità di cogliere i principi di tutte le
scienze; la sapienza (sophia) è la più alta fra le virtù dianoetiche. Chi ha
la sapienza ha scienza ed intelligenza; sa dedurre non solo i primi
principi ma sa anche giudicare della verità degli stessi principi. La
sapienza riguarda poi le cose più alte, il necessario e il divino, nei cui
confronti un solo atteggiamento è possibile, quello della
contemplazione (theoria), che è l'attività più alta perché, contemplando,
l'uomo supera la stessa felicità umana (propria dell'esercizio delle virtù
etiche) e partecipa della vita divina. Perciò, se la felicità maggiore
consiste nella virtù più alta, e se la virtù più alta è la sapienza, l'uomo
più felice sarà il sapiente e cioè il filosofo. E' lui l'unico vero makarios
(beato, felice) su questa Terra, poiché la sua vita è fatta di serenità e di
pace, dedito com'è alla contemplazione! Una tale virtù però non è
pensabile al di fuori della vita associata. L'uomo non può fare a meno
degli altri, per cui la felicità perfetta si attua nella vita comune, insieme
agli altri, nella polis.

La logica
Non si può tralasciare la sua concezione della logica, che tanta
influenza ebbe nei secoli a venire, fino ai nostri giorni (le logiche
attuali sono nate in relazione all'assoluto predominio della logica
aristotelica). Aristotele è dunque il creatore della cosiddetta logica
formale, che è quella scienza che studia il ragionamento e ne elenca le
forme corrette, indipendentemente dal loro contenuto, cioè dal
riferimento al concreto.
In primo luogo Aristotele distingue tra ragionamenti veri e
quelli probabili: i primi li chiama apodittici, analitici o scientifici; ai
secondi dà il nome di dialettici. La 'dialettica' studierà quindi le regole
generali della discussione e, in particolare, il campo delle opinioni dei
più competenti. L'analitica (cioè la nostra logica) in senso stretto
studierà invece il ragionamento scientifico o apodittico (=ciò che è
evidente e non ha bisogno di dimostrazione), quel ragionamento, cioè,
che muovendo da premesse rigorosamente vere, e cioè inconfutabili,
ne deriva una conclusione necessaria.

76
Il sillogismo è appunto un tipo di ragionamento del genere.
Esso si compone di tre giudizi, di cui i primi due sono detti premesse
ed il terzo è la conclusione. Ad es. "Tutti gli uomini sono mortali;
Socrate è uomo; quindi Socrate è mortale". Si noti inoltre che nelle
due premesse è inserito il cosiddetto termine medio, che consente
l'affermazione della conclusione (in questo caso è 'uomo'), usandolo
prima come soggetto e poi come predicato.
La teoria del sillogismo di Aristotele presenta anche le regole
per dedurre in modo corretto una conclusione vera, date naturalmente
certe premesse. Pensate che Aristotele classificò ben 19 modi validi
(su 64 modi teoricamente possibili) di esprimere una proposizione
qualunque, ai quali i logici medievali diedero delle sigle particolari per
ricordarli più facilmente. Ad es. ad una frase o proposizione
'universale affermativa' (="tutti gli uomini sono mortali") essi diedero
la lettera A; ad una universale negativa, diedero la E; ad una
particolare affermativa diedero la I e ad una particolare negativa
attribuirono la lettera O. In più, per ricordare in sintesi che un
sillogismo, ad es., era composto da tre frasi o proposizioni tutte
universali affermative, i logici medievali inventarono delle parole
come ad es. BARBARA, che indica appunto un tale tipo di
sillogismo12 .
Se è vero che, partendo da certe premesse si può arrivare a
determinate conclusioni, è anche vero però che, alla base di ogni
ragionamento vi sono alcuni principi intuitivamente veri o assiomi,
che non possono a loro volta essere dimostrati, ma fondano la
possibilità stessa di ogni dimostrazione. Tali sono i tre principi di
identità, non contraddizione e del terzo escluso. Essi non sono
appunto dimostrabili perché sono alla base di ogni dimostrazione; al
massimo si possono illustrare e la loro dimostrazione è solo per
assurdo o elenctica. Il principio di identità sostiene che A è uguale ad A.
Ciò è immediatamente evidente: ma se volessimo chiarirlo meglio,
potremmo dire che è impossibile che A non sia A in quanto... si
darebbero due significati diversi del termine, ovvero sarebbero vere
sia l'affermazione che la negazione.
Il principio di non contraddizione viene espresso in diversi
modi da Aristotele. Una delle formulazioni è la seguente: "E'

12Se volete esercitarvi, provate a scoprire altri tipi di sillogismo scomponendo le seguenti
parole: CELARENT, DARII, CESARE, CAMESTRES... tenendo conto della disposizione
delle vocali.

77
impossibile che la stessa cosa convenga e insieme non convenga ad
una stessa cosa e per il medesimo rispetto"13 (Metaf., IV, 3, 1005 b).
Ovvero: "E' impossibile che la stessa cosa sia e insieme non sia" (Ibid.,
IV, 4). Con un esempio: "E' impossibile che un uomo sia insieme
animale bipede e non animale bipede". Tale principio è
importantissimo per Aristotele perché, se lo si nega, ne segue che ogni
affermazione può essere insieme vera e falsa, il che escluderebbe la
possibilità di distinguere il vero dal falso, conducendo verso il
relativismo e lo scetticismo. Contro un rischio così grave, Aristotele si
impegna a fondo nell'affermare la validità del principio di non
contraddizione14. All'avversario del principio di non contraddizione,
per confutarlo, Aristotele chiede di pronunciare una parola qualsiasi,
basta che abbia un significato. Se rinuncia a parlare, rivela l'assurdità
della sua posizione; ma se parla e dice qualcosa, ad es. "sì", oppure
"uomo" ecc., la negazione del principio di non contraddizione ne
risulta confutata. Infatti, ammettendo che una parola significhi
qualcosa, si esclude nello stesso tempo che una tale parola possa
significare qualcos'altro: ad es. dire "sì" equivale ad escludere il "no",
come pure dire "uomo" vuol dire intendere "animale razionale" e non
"animale irrazionale". In sintesi, se ogni parola ha un significato, è
impossibile che A sia insieme B e non-B, cioè che 'uomo' sia insieme
'animale bipede' e 'non animale bipede'.
Infine, col principio del terzo escluso, Aristotele sostiene che
"non è possibile che ci sia qualcosa di intermedio tra due enunciati
contrari, bensì di un'unica cosa è necessario affermare o negare un
unico predicato". Detto in altri termini, A è B oppure non è B, non
c'è una terza possibilità. Insomma, ogni frase, ogni proposizione
dotata di senso o è vera o è falsa. Date quindi due proposizioni
contrarie, una di esse è necessariamente falsa. Tra due tesi che si
escludono a vicenda, non è possibile enunciarne una terza. Con un
esempio: o l'uomo è un animale razionale o non è un animale
razionale, non è possibile vi sia una terza possibilità.

13 “Per il medesimo rispetto” indica ad es. che non si può essere più giovane e meno giovane
rispetto ad una stessa cosa: o sono più giovane rispetto a X o sono più vecchio.
14 Cfr. Metafisica, libro IV, 1005 b segg.

78
NOTE BIOGRAFICHE
Aristotele nacque nel 384 a.C. a Stagira, nella penisola
calcidica. Suo padre era Nicomaco, medico del re di Macedonia
Aminta III. Dopo la morte del padre, passò sotto la tutela del cognato
e fu mandato a studiare nella Accademia platonica. Dopo la morte di
Platone, Aristotele se ne andò da Atene e fece anche il precettore del
giovane Alessandro Magno, su incarico del re Filippo. Intanto si
sposò con Pizia, da cui ebbe un figlio che chiamò Nicomaco, come
suo padre. Verso il 334 a.C. tornò ad Atene e qui si stabilì fondando la
sua scuola, il Liceo (in onore di Apollo Licio, protettore dei lupi) o
Peripato (forse per l’abitudine di Aristotele di insegnare
passeggiando). Dopo la morte di Alessandro Magno, nel 323 a.C.,
Aristotele non si sentì più sicuro ad Atene a causa del partito
antimacedone e si rifugiò a Calcide, nell’isola di Eubea, nella casa della
madre. Qui morì l’anno seguente, nel 322 a.C.
I suoi scritti si dividono in esoterici o acroamatici (ovvero rivolti
solo ai discepoli o all’ascolto), e sono in pratica quelli che noi oggi
consideriamo le vere e proprie opere di Aristotele, ed essoterici (o
rivolti al pubblico), e di questi ultimi ci rimangono solo dei frammenti.

BIBLIOGRAFIA
Aristotele, Opere, edizioni Laterza o UTET
G. Reale, Introduzione a Aristotele, "i filosofi" , Laterza

79
EPICURO

(341-270 a.C.)

Introduzione
Le filosofie post-aristoteliche, dette anche filosofie
ellenistiche, focalizzarono il loro interesse su problematiche di ordine
etico. In quell'età - l'Ellenismo (323 a.C. -30 a.C.) - la filosofia
definisce infatti in modo diverso il proprio compito. Fino ad
Aristotele, essa si era data come mèta la conoscenza del reale,
scorgendo in essa il fine supremo del pensiero e della vita stessa; ora
si accentua particolarmente l'ideale pratico, e compito specifico della
filosofia diventa quello di indicare i contenuti e le condizioni di
realizzabilità di una vita giusta e felice. Da qui la nascita delle tre
grandi scuole filosofiche dell'Ellenismo: Epicureismo, Stoicismo,
Scetticismo, Eclettismo. Il fine che questi indirizzi avevano di vista era
identico: quello di garantire all'uomo la tranquillità dello spirito. ma le
vie che essi additano per raggiungere tale fine erano molto diverse.

Il quadrifarmaco
E' di Epicuro la celebre sentenza: "Vana è la parola del
filosofo se non allevia qualche sofferenza umana". Se la filosofia ha
diritto di cittadinanza nel mondo degli uomini, ciò è dovuto alla sua
capacità di placare le sofferenze che la vita comporta. Il valore della
filosofia è dunque strumentale: il suo fine principale è di raggiungere
la felicità. Epicuro ritiene infatti che la verità possa facilmente essere
scoperta e compresa dall'uomo e che quindi la filosofia, come attività
che ci permette di conoscere razionalmente la verità, sia alla portata di

80
tutti ed abbia un carattere liberatorio. E' naturale quindi, come
corollario, che la filosofia sia per tutti - uomini e donne - e per tutte le
età. Coerentemente con questa tesi, le comunità epicuree erano aperte
a tutti, senza distinzione di sesso o di condizione sociale. "Se siamo
felici abbiamo tutto ciò che ci occorre", e la felicità è ottenibile da
parte di tutti ed è per tutti. Per possederla però il giovane deve
liberarsi dalle paure "per affrontare con coraggio l'avvenire", mentre il
vecchio deve saper conservare i bei ricordi per rimanere giovane nello
spirito. La filosofia si presenta sotto una duplice veste: da una parte
insegna, attraverso la conoscenza della natura delle cose, a liberare la
mente dalle inquietudini; dall'altra insegna a godere dei piaceri della
vita. E' quello che Epicuro esprime nella sua dottrina del
quadrifarmaco: la filosofia 1) libera l'uomo dalla paura degli dèi; 2)
libera l'uomo dalla paura della morte; 3) dimostra la brevità e
provvisorietà del dolore; 4) dimostra la facile raggiungibilità della
felicità, che consiste nel piacere.
Vediamo uno per uno i singoli punti.
1) Per quanto riguarda il timore verso gli dèi, Epicuro sostiene
che gli dèi di certo esistono, hanno forma simile all'umana ma più
perfetta, ed abitano gli spazi vuoti tra i mondi (intermundia) che sono
infiniti, ed in essi ogni cosa è composta di atomi e vuoto. L'uomo non
deve avere paura degli dèi perché essi non si preoccupano né del
mondo né tantomeno dell'uomo. Ogni preoccupazione sarebbe infatti
contraria alla loro beatitudine giacché sarebbe una sorta di obbligo nei
nostri confronti, mentre invece essi sono senza obblighi e beati.
D'altra parte, nel mondo vi è il male e ciò indica che gli dèi non
intervengono. Infatti -dice Epicuro - "la divinità o vuol togliere i mali
o non può, oppure può e non vuole o anche non vuole né può o
infine vuole e può. se vuole e non può, è impotente; se può e non
vuole, è invidiosa; se non vuole e non può, è invidiosa e impotente; se
vuole e può, donde viene l'esistenza dei mali e perché non li toglie?"
(fram. 374 Usener). Perciò il saggio, liberato dalle superstizioni, può
vivere con pienezza la sua vita terrena e attingere in questo modo la
felicità.
2) La morte non deve essere temuta perché... non è nulla.
"Quando ci siamo noi, la morte non c'è, e quando c'è la morte, non ci
siamo noi", dice Epicuro. Inoltre, visto che la morte consiste nella
separazione dell'anima dal corpo e visto che per Epicuro anche
l'anima è materiale essendo composta da atomi, nel momento della
morte, quando gli atomi si separano, ogni sensazione cessa, e noi non

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'sentiamo' più nulla, né dolore né piacere. La morte è quindi semplice
assenza di sensazioni, ed è dunque sciocco averne paura.
3) Per dimostrare la brevità del dolore, Epicuro afferma
quanto segue: se il male è lieve, il dolore fisico è sopportabile, e non è
mai tale da offuscare la gioia dell'animo; se è acuto, passa presto; se è
acutissimo, conduce presto alla morte, la quale non è che assoluta
insensibilità. E i mali dell'anima? Essi sono prodotti dalle opinioni
fallaci e dagli errori della mente, contro i quali c'è la filosofia e la
saggezza.
4) La felicità è facilmente raggiungibile e consiste nel piacere.
Ma che cosa intende Epicuro per piacere? Per rispondere dobbiamo
anzitutto dire che si assiste qui ad un clamoroso rovesciamento di
valori e di fini: a differenza di Platonismo, Aristotelismo e anche
Stoicismo, il piacere viene considerato da Epicuro come il principio e
il fine della vita felice. Direi di più: il piacere è il bene primo,
connaturato con noi stessi. L'uomo quindi è felice secondo natura, a
meno che non gli manchi qualcosa. Infatti il piacere è la felice
sensazione di pienezza che l'uomo prova naturalmente se non lo
limitano dei piaceri insoddisfatti. Tutto ciò che dobbiamo fare è
mantenerci nel piacere, eliminando le cause che disperdono la
pienezza del nostro essere. L'infelicità degli uomini deriva dal fatto
che essi temono le cose che non devono essere temute e desiderano le
cose che non è necessario desiderare e che sfuggono loro. Sono
dunque privati dell'unico piacere autentico, che è il piacere di essere.
Anziché rappresentarci i mali in anticipo per prepararci a subirli,
dobbiamo, al contrario, staccare la nostra mente dalla visione delle
cose dolorose e fissare lo sguardo sui piaceri. Occorre far rivivere il
ricordo dei piaceri passati e godere dei piaceri del presente,
riconoscendo quanto siano grandi e piacevoli tali piaceri del presente.
Non tanto quindi vigilanza, quanto scelta deliberata, sempre
rinnovata, della distensione e della serenità, ed una gratitudine
profonda verso la natura e la vita che ci offrono incessantemente, se
sappiamo trovarli, il piacere e la gioia ("Sia reso grazie alla beata
natura che fece le cose necessarie facilmente procacciabili, quelle
difficilmente procacciabili non necessarie"). Vivere nel momento
presente è, ancora una volta, un invito alla distensione e alla serenità:
la preoccupazione rivolta al futuro, che ci lacera, ci nasconde il valore
incomparabile del semplice fatto di esistere. Inoltre, per gli Epicurei,
proprio il piacere è una sorta di "esercizio spirituale": piacere
intellettuale della contemplazione della natura, pensiero del piacere

82
passato e presente, piacere infine dell'amicizia. Nell'esaltare l'amicizia,
Epicuro assume a volte dei toni di pura poesia. Vi è per lui nella
amicizia (philia) una serenità più profonda, superiore anche a quella
dell'amore (eros), perché più facilmente si può conservare libera da
sentimenti che procurano dolore come la gelosia o il dolore del
distacco o la paura di non essere riamati. L'atteggiamento di Epicuro
verso gli altri uomini è riassumibile nella sua massima: "E' non solo
più bello ma anche più piacevole fare il bene anziché riceverlo". In
questa massima, il piacere assurge a fondamento e a giustificazione
della solidarietà fra tutti gli uomini. E infatti Diogene Laerzio ci
testimonia l'affetto di Epicuro per i genitori, la sua fedeltà agli amici, il
suo senso di solidarietà umana (cfr. Vite dei filosofi, X, 9).

Il piacere
Noi compiamo tutte le nostre azioni - dice Epicuro - al fine di
non soffrire e di non avere l'animo turbato. Se ci troviamo già in
questa condizione, non desideriamo nulla, perché nulla ci manca. E'
questo l'obiettivo da raggiungere, è in questo che consiste la felicità o
il piacere, e cioè appunto nella aponia (assenza di dolore fisico) e nella
atarassia (assenza di dolore spirituale). E' qui il "segreto" della felicità
degli dèi ed è questo il motivo per cui noi dobbiamo imitarli, anche se
essi non si curano di noi. In altre parole, la felicità consiste nel piacere
stabile, che è assenza di dolore, e non nel piacere in movimento, che
sono i momenti di gioia, di allegria, e simili. Se è così, la pienezza del
piacere si attinge nella caduta del desiderio. Non per nulla, per
Epicuro, solo i desideri naturali e necessari vanno appagabili (quelli
legati alla salute, alla vita, al piacere), mentre gli altri vanno limitati o
abbandonati. Da questo punto di vista, è più felice un vecchio che un
giovane. Dice infatti Epicuro: "Non il giovane è felice, ma il vecchio
che ha vissuto una vita bella; poiché il giovane nel fiore dell'età è
mutevole ludibrio della sorte; il vecchio invece giunse a vecchiezza
come a tranquillo porto e di tutti i beni che prima aveva con dubbio
sperato ora ha sicuro possesso nella tranquilla gioia del ricordo".
Il piacere - in quanto sensazione interiore - deve essere posto
come norma delle nostre affezioni. Il principio è il seguente: ogni
piacere è di per sé un bene, ma non è detto che le sue conseguenze
nel tempo siano vantaggiose per noi. Viceversa, ogni dolore è un
male, ma non è detto che da un male non possa derivare un bene per
noi. Quindi il piacere diventa la norma su cui giudicare le nostre

83
azioni perché ci suggerisce cosa scegliere, spingendoci verso ciò che
nel tempo ci è più favorevole. Solamente un accorto calcolo dei
piaceri può far sì che l'uomo basti a se stesso e non diventi schiavo né
dei desideri né delle preoccupazioni, rinunciando ai piaceri da cui
deriva un dolore maggiore (per fare un esempio attuale si pensi alle
droghe o al fumo o al bere) e sopportare i dolori da cui potrà derivare
un piacere maggiore. Insomma, per Epicuro il piacere è il bene
completo e perfetto quando sia inteso come non aver dolore nel
corpo né turbamento nell'animo. Per questo egli fa un elogio della
phronesis (=saggezza, prudenza), considerata il fondamento di tutte le
virtù. Essa ci abitua a contenere i desideri, a valutare con cura le
conseguenze delle nostre scelte, prevedendo un ampio margine di
sicurezza, per evitare che da un bene abbia a derivarne un male. Dice
infatti Epicuro: "Per ognuno dei desideri va posta questa domanda:
che cosa mi accadrà se si realizza il mio desiderio, e che cosa, se non
si realizza?". In conclusione, la vita sarà felice se saprà essere vissuta
con saggezza, semplicità e giustizia. "Non ci può essere vita felice se
non è anche saggia, bella e giusta; e non vi è vita saggia, bella e giusta
che non sia anche felice. Le virtù sono infatti connaturate ad una vita
felice, è questa è inseparabile dalle virtù". Agli uomini del suo tempo,
Epicuro ricordava che il vero bene è sempre e soltanto in noi. Il vero
bene è la vita, e a mantenere la vita basta pochissimo, e quel poco è a
disposizione di tutti, di ogni singolo uomo.

NOTE BIOGRAFICHE
Epicuro nacque verso il 341 a.C. nell’isola di Samo, di fronte
alle coste turche, da una famiglia di coloni ateniesi. Prestò “servizio
militare” (l’efebia) ad Atene e poi insegnò in diverse città prima di
stabilirsi definitivamente ad Atene e fondare la sua scuola, il Giardino
(kepos). Morì nel 271 d.C.

BIBLIOGRAFIA
Epicuro, Lettera sulla felicità o a Meneceo, Edizioni Stampa
alternativa Millelire o UTET o Newton Compton ecc.
Epicuro, Opere, UTET
Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, ed. Laterza o TEA
D. Pesce, Introduzione a Epicuro, "I filosofi", Laterza

84
GLI STOICI

Introduzione
Per Platone e Aristotele, come si ricorderà, la felicità piena si
realizza nella vita contemplativa; l'esercizio stesso della filosofia come
theoria, realizzando quanto di più elevato vi è nella natura dell'uomo,
coincide con la beatitudine. Per gli Stoici (ed Epicuro) invece la
filosofia è un mezzo e non un fine; la conoscenza della totalità offre al
saggio la base teorica su cui fondare le proprie scelte, ma non
rappresenta di per sé la realizzazione della vita felice. Questa
destinazione eminentemente pratica non dà luogo tuttavia ad una
semplice precettistica: al contrario Stoici (ed Epicurei) sono
comunque impegnati nella elaborazione di una gnoseologia (=teoria
della conoscenza) e una filosofia della natura capaci di offrire un saldo
fondamento all'etica. Ecco perché si può parlare di un vero e proprio
'sistema' di filosofia anche per loro, in cui le varie parti
(tradizionalmente la ripartizione è logica, fisica ed etica) sono collegate
tra loro.
La scuola stoica fu fondata da ZENONE DI CIZIO ad Atene
verso il 300 a.C. Lo Stoicismo si sviluppò lungo un arco di parecchi
secoli (uno degli ultimi rappresentanti si può forse considerare
l'imperatore romano MARCO AURELIO, morto nel 180 d.C.) nel
corso dei quali, a differenza dell'Epicureismo, conobbe sensibili
modificazioni dottrinali. Noi ci riferiremo soprattutto alle dottrine
dello Stoicismo più antico, quello denominato appunto "antica Stoà".

Il Logos
L'affermazione centrale di tutta la filosofia stoica è: vivi
conforme al Logos. Ma che cos'è il Logos? Con tale termine gli Stoici
non intendevano solo la 'ragione' o il 'ragionamento corretto', ma
anche e soprattutto una legge universale che governa tutte le cose,
dunque anche il principio immanente (=interno) della realtà e ciò che
dà origine all'universo stesso. Il Logos è dunque un principio 'divino'
che pervade tutto l'universo. E se ogni cosa è pervasa dal Logos o,
meglio dallo spirito divino (pneuma) allora tutti gli eventi, tutte le cose

85
che accadono sono legate tra di loro, ogni cosa ha la sua funzione ed
il suo scopo, ogni cosa ha un senso. In breve, non esiste il caso per gli
Stoici ma tutto è determinato, anche le cose che l'uomo rifiuta.
Crisippo ad es. diceva che i denti velenosi dei serpenti sono utili
perché i veleni si possono impiegare come farmaci, i topi ci rendono
vigili, le cimici impediscono di concederci facilmente al sonno;
persino i terremoti e le catastrofi sono utili perché sono castigo e
purificazione!

Il cosmo
L'universo è visto dagli Stoici come un cosmo ordinato (visto
che il principio divino è il Logos, 'ragione' e quindi ordine), eterno, le
cui vicende si susseguono durante dei periodi in cui si alternano
nascita e morte, ordine e distruzione. In altre parole, l'eternità del
mondo include in sé l'alternarsi dei periodi cosmici e si svolge
secondo un ciclo che si ripete (eterno ritorno). Alla distruzione del
mondo, in seguito ad una conflagrazione (ecpirosi), seguirà una
rinascita (palingenesi) del medesimo; il terribile - ai nostri occhi - è che
tutto rinascerà esattamente come prima (apocatastasi)! Vi sarà una
rigenerazione del mondo in modo che ciascun uomo rinascerà e sarà
quale era nella vita precedente, fin nei minimi particolari e
avvenimenti!

La morale e l’apatia
Da questo punto di vista, se cioè tutto avviene per necessità
(che riguarda passato, presente e futuro), non sembra aprirsi alcuno
spazio per la libertà umana, nessuna autentica possibilità di scelta, di
cambiamento, di novità e dunque la stessa vita morale non avrebbe
senso, ogni agire sarebbe equivalente a tutti gli altri e cadrebbe la
possibilità stessa della valutazione e del giudizio morale.
L'aporia (=difficoltà) viene risolta dagli Stoici in diversi modi,
più o meno convincenti. E' vero che ognuno ha un carattere suo
proprio - un destino - configurato dalla natura e dall'ambiente.
Ognuno è dunque destinato ad agire in un certo modo. Ma se non si
può decidere quello che si è e quello che si fa, tuttavia, si è di fatto
buoni o cattivi, cioè si agisce secondo virtù o secondo passione; allora
è questo che può essere valutato moralmente. Sarà utile e buono in
massimo grado ciò che consente all'uomo di realizzare la sua natura e

86
ne permette lo sviluppo; sarà male ciò che è di ostacolo a questo, e
sarà indifferente ciò che non porta né vantaggio né danno morale.
Dal momento che il bene consiste nella realizzazione della
natura propria dell'uomo (che è quella di essere 'animal rationale'), da
dove verrà allora il male? La risposta stoica è: il male è una
perversione del logos. Quando il pathos, la passione, prevale sul
logos, viene dato l'assenso a rappresentazioni false di ciò che è buono
ed utile (=essere travolti dalle passioni, diremmo noi). Dunque la
passione è la stessa ragione quando è perversa e intemperante, nata da
un giudizio errato che ha preso forza e vigore.
Ora, se il logos degenera in passione, non c'è nessuna forza
che la possa contrastare, sicché essa produce un totale asservimento
della persona. Ogni passione è violenta e coercitiva, ed è una sorta di
'follia', per cui "l'anima di tutti coloro che non sono saggi è malata" in
quanto appunto affetta dalla passione. Ma ciò porta a ritenere che tutti
gli uomini o quasi non sono affatto sani bensì in preda alle passioni. Il
saggio, in altre parole, è un individuo rarissimo e forse non esiste
neppure. Si pensi che gli Stoici stessi (Zenone, Cleante, Crisippo), non
si consideravano affatto 'saggi'! Ma allora, se il saggio in pratica non
esiste, se il 'malato', l'uomo 'in preda alla passione' è la condizione
comune di tutti gli uomini, come poter guarire?
Per gli Stoici non si tratta tanto di limitare o dominare tale
'malattia', quanto piuttosto di estirparla, eliminarla, farla scomparire
definitivamente. L'ideale degli Stoici è appunto l'apatia, cioè
l'impassibilità, l'eliminazione delle passioni. Se infatti la passione è una
sorta di 'malattia totale', la guarigione da tale malattia, ammesso che
sia possibile, dovrebbe segnarne la altrettanto radicale scomparsa. In
altre parole, per gli Stoici non vi può essere nulla di mezzo tra sanità o
malattia, tra virtù e vizio (o sei sano o sei malato, o sei virtuoso
oppure no); non vi è spazio per stati intermedi, zone grigie. Si pensi, a
questo riguardo, alla loro rigidissima concezione del dovere: esso è un
atto perfetto, non è suscettibile di aumento o diminuzione ma deve
essere perfettamente compiuto; altrimenti... non hai fatto il tuo
dovere, non puoi essere virtuoso a metà (hai fatto bene qualcosa o ...
l'hai fatta male, semplice no?).
Insomma, solo il saggio è privo di passioni, è impassibile, ed è
sano, del tutto esente dalle malattie dell'anima. Concretamente, però,
solo in ben pochi uomini vi potrebbe essere la totale e immediata
conversione dalla schiavitù alla liberazione, dalla 'follia' alla saggezza.

87
tale cambiamento è attuabile in un unico modo: è la conoscenza, la
meditazione preventiva che permette di capire, prima che la passione
possa stabilire il suo dominio sull'uomo, che ad es. il piacere non è il
bene assoluto, che il dolore non è il male ecc. In questo modo,
secondo gli Stoici, l'anima si rafforza e può raggiungere la pressione
violenta che proviene dalle rappresentazioni e dalle opinioni. La virtù
è dunque, prima di tutto, sapere e conoscenza (phronesis). Essa è certo
conoscenza del bene e del male, ma è tale perché è anche la
conoscenza teorica della natura, del mondo dell'universo, da cui
deriva la norma morale. Ecco allora cosa significa quel "vivi conforme
al Logos" che citavamo all'inizio, Vorrà allora dire: vivi conforme alla
natura, al mondo, all'universo.

Il destino e la libertà
In altre parole, vivi conforme alle regole iscritte nella
'razionalità' della natura e troverai la felicità. A questo punto, se si può
parlare di libertà per gli Stoici, essa si identifica col riconoscimento e
la accettazione dell'ordine universale, del Logos, che governa il
cosmo. In altri termini la libertà è la razionale accettazione (io scelgo
di aderire...) del logos, è il rendersi conto del proprio inserimento
nell'ordine naturale ed eterno delle cose, che è destino (eimarmene) e
anche provvidenza (prònoia). si noti che il modello di vita proposto
dagli stoici, nonostante sia molto arduo e forse inaccessibile ai più,
avrà comunque una grande capacità di attrazione nel mondo
ellenistico ed in quello romano soprattutto per due motivi. In primo
luogo, il cosmopolitismo: l'uomo era visto come parte del cosmo,
come parte di una comunità universale che si impone al di là delle
barriere etniche, sociali e politiche; il messaggio stoico (come quello
epicureo) tende infatti a proporsi come universale, accordandosi
profondamente con le esigenze del suo tempo, in cui il mondo dilata i
propri confini e intreccia popoli, città, tradizioni. Un secondo
elemento è dato dal fatto che la filosofia stoica istituisce la dimensione
privata come ambito della vita pratica e morale. In altri termini, il
tema della 'felicità' è ora collocato nel campo di possibilità del singolo
individuo. La felicità è adesso autarchia, la completa autosufficienza
del saggio, poiché essa non dipende dalle circostanze esterne e
dunque il saggio è felice perché ha in sé tutto quanto gli occorre per
vivere virtuosamente. Ciò comunque non vuol dire rifiutare gli altri o
la vita in comune. Al contrario, il saggio stoico, a differenza di quello
epicureo (un precetto di Epicuro era "vivi nascosto"), non vieta

88
l'impegno politico e prescrive all'uomo comune il rispetto dei doveri
che gli vengono indicati dalle leggi.

La logica
Per concludere accenno brevemente alla concezione della
logica per gli Stoici. Anzitutto sono proprio loro che diedero il nome
di logica... alla logica, cioè alla dottrina che studia i vari tipi di
ragionamento (Aristotele ricordate? la chiamava analitica). Inoltre
furono loro i primi a scoprire che una qualsiasi proposizione è
composta da tre elementi: significante, significato e la cosa esistente. Il
significante è il suono della parola, il significato è l'oggetto mentale, il
contenuto del pensiero quando io dico una parola, ad es. "cavallo". Il
significato sarà allora sempre identico a se stesso, mentre il
significante può cambiare: infatti io posso riferirmi ad un 'cavallo' e
dirlo in diverse lingue o significati.
In ultimo gli Stoici sono anche famosi per molti paradossi
logici, cioè storielle che non hanno una soluzione. Molti di questi
sono anche di epoche precedenti, ma gli Stoici li riportarono in auge.
Vi è per es. il paradosso del mentitore: "Menti, quando affermi di
mentire?" (detto altrimenti: "Se dici che menti e in ciò dici il vero,
menti o dici la verità?"). Vi è poi una storiella che dice: un tale arriva
davanti ad un palazzo. Vi sono due porte e accanto ad esse vi sono
due guardiani. Uno dei due dice sempre la verità mentre l'altro dice
sempre il falso. Il tale può fare una sola domanda ad uno dei due per
sapere qual è la porta giusta per entrare. Quale domanda deve fare al
guardiano? Provate a rispondere, altrimenti... leggete qui sotto.

Soluzione: La domanda può essere formulata nei seguenti termini : "Se io chiedessi
all’altro qual è la porta giusta, che cosa mi risponderebbe?". Essi indicherebbero comunque la
porta sbagliata e dunque si dovrà scegliere l’altra porta, rispetto a quella che viene indicata.

89
NOTE BIOGRAFICHE
Il fondatore dello stoicismo è considerato Zenone di Cizio
(colonia greca dell’isola di Cipro), nato verso il 333 a.C. Venuto ad
Atene, frequentò diverse scuole filosofiche (i cinici, platonici) finché
fondò la sua scuola nel Portico dipinto (stoà poikile), da cui il nome dei
suoi discepoli come gli stoici. Fu talmente amato e rispettato dagli
abitanti di Atene che, dopo la sua morte (262 a.C. ca. ), fu onorato
con una tomba nel Ceramico (il cimitero della città).

BIBLIOGRAFIA
Stoici antichi, a cura di M. Isnardi Parente, 2 voll., UTET o
TEA
M. Isnardi Parente, Introduzione allo stoicismo ellenistico, Laterza

90
PLOTINO

(203/5-270)

Introduzione
Agli inizi di quella che verrà chiamata “era cristiana” o “era
volgare” il pensiero occidentale s’incontrò con diverse influenze
orientali che, per parecchio tempo, lo condizioneranno al punto che la
tipica razionalità greca occidentale impiegherà diversi secoli per
rimuoverle, lasciandone però le tracce in alcune discipline alquanto
diverse tra loro come la mistica, l’alchimia e le varie eresie cristiane.
L’accentuazione della tendenza religiosa si fece sempre più dominante
in quel periodo. Si cercò di cucire insieme il patrimonio religioso dei
Greci con la sapienza orientale ed in questo clima nacque anche la
tradizione secondo la quale la filosofia greca era derivata dall’Oriente.
Nella prima metà del terzo secolo dopo Cristo insegnava a Roma, tra
gli altri, PLOTINO. Egli era fautore di una filosofia che voleva
riaffermare il pensiero greco classico (da cui il nome di Neoplatonismo)
contro il materialismo, il panteismo (=la concezione che identifica
Dio col mondo), contro il cristianesimo stesso. A questo riguardo, i
cristiani vengono accusati di avere una concezione della divinità
troppo ingenua, visto che la considerano personale (anzi in tre
Persone!), ed in più mossa da una passione – l’amore – nei confronti
delle sue creature !

91
L’Uno, il Nous, l’Anima del Mondo, la materia
Il Dio di Plotino non è personale perché la soggettività, la
volontà e la scelta appartengono, per lui, al mondo del finito e non a
ciò che è immutabile, necessario, impersonale, come si conviene alla
sfera della divinità, che egli chiama Uno, per sottolineare la sua
inafferrabilità, inesprimibilità, inconoscibilità, trascendenza. Inoltre si
badi : parlando di Uno non significa che Plotino ammetta un solo
Dio come nel monoteismo ebraico-cristiano; egli difende invece il
politeismo come conseguenza necessaria della infinita potenza della
divinità.
Questo Uno (o meglio questi Uno) è immobile e non vuole né
consente alla nascita delle cose: esse allora non derivano da esso per
creazione [(La creazione avrebbe implicato una produzione dal nulla,
ma per Plotino, come in genere per la mentalità greca, dal nulla non
viene nulla (ex nihilo nihil fit)] bensì per un processo inevitabile e
necessario che egli definisce emanazione, simile al profumo diffuso da
un fiore o alla luce che deriva dal Sole.
Dall’Uno deriva, come prima ipostasi o realtà sussistente, il
Nous, Intelletto, giacché esso pensa l’Uno e dunque si pone al di fuori
di esso,, implicando la distinzione fra soggetto che pensa e l’oggetto
pensato. Dal Nous deriva la seconda ipostasi, l’Anima del mondo, che è
intermedia tra il Nous e le cose naturali. Essa è principio di vita e dà
quindi origine alle varie cose del mondo : è natura e il tempo sorge
insieme ad essa. Il mondo dei corpi suppone però, per la sua
formazione, anche un altro principio (non più ipostasi) da cui
derivano l’imperfezione, la molteplicità, il male. Questo principio è la
materia, concepita da Plotino negativamente, cioè come non-essere,
privazione di realtà e di bene, simile alla tenebra che si produce per
mancanza di luce. La materia è dunque all’ultimo gradino del processo
di emanazione. Ma se è così, se essa rappresenta il “confine
dell’anima”, allora si deve concludere che i corpi stanno dentro le anime e
non le anime dentro i corpi! Da qui, da questo primato plotiniano
dell’anima sul corpo l’orrore di Plotino per la tesi cristiana della
risurrezione dei corpi!
Se vi è dunque il primato dell’anima sul corpo, la vita migliore
sarà la vita spirituale e l’uomo dovrà fare di tutto – se vuole essere
felice – per fuggire da questo mondo. “Lì vive veramente – dice
Plotino – Infatti la nostra vita attuale, questa vita senza Dio, non è
che traccia di vita, imitazione della vita autentica. La vita di lassù è

92
l’attività stessa dell’Intelletto. Attività che, in un tranquillo contatto
con l’Uno, genera gli dèi, infatti genera la bellezza, la giustizia, la
virtù”(cfr. Enneadi, VI, 9, 9,15).

Bellezza, ascesi, estasi


Ma come riuscire a fuggire da questo mondo senza morire?
Plotino propone una ascesi che è una sorta di ascesa dell’anima umana
verso l’Uno. Si badi : per fare ciò l’uomo non ha bisogno di
rivelazioni divine. Tra l’anima dell’uomo e l’Uno non vi sono
salvatori, intercessori, mediatori, né tantomeno sacerdoti, riti, chiese.
L’uomo è solo, con le proprie forze, in una “fuga di solo a
Solo”(parole conclusive delle Enneadi). E’ guardando dentro se stessa
che l’anima potrà ritrovare l’Uno da cui si era allontanata, all’inizio dei
tempi. Cos’era infatti successo? Secondo Plotino, l’anima è ebbra del
desiderio di appartenere a se stessa e questo l’ha indotta alla
temerarietà di voler nascere come individuo e di sperimentare l’alterità
rispetto all’Intelletto e all’Uno. Questa brama di separazione e di
individuazione ha predisposto l’anima alla colpa vera che è quella di
perdersi nella corporeità e quindi nel male (ricordiamo che per Plotino
il male è la scelta di rimanere nelle tenebre, è assenza di misura,
instabilità, passività, non essere), dimenticando la sua origine.
Per giungere all’Uno l’anima deve intraprendere un lungo
cammino che, attraverso varie tappe, la porterà al ricongiungimento
con l’Uno e all’estasi. La bellezza occupa un primo piano nel percorso
plotiniano dell’anima verso l’Uno. Essa è la manifestazione visibile di
ciò che è spirituale, ed è perciò il veicolo privilegiato attraverso cui
l’anima può risalire alla fonte da cui è discesa. La bellezza suscita
l’amore, e l’amore, alla perenne ricerca di ciò che gli manca, desidera a
sua volta la bellezza (si ricordi il Simposio platonico). L’anima,
contemplando le cose belle, si sente portata verso la bellezza suprema;
essa cerca pertanto di purificarsi vivendo secondo virtù. La “vita
divina” si acquisterà dopo un duro esercizio morale (liberazione dalle
passioni e superamento della stessa vita virtuosa) a cui seguirà una
forma di ascesi intellettuale, in cui lo stesso pensiero dovrà essere
abbandonato. Infatti nell’estasi finale, vi sarà una sorta di
“disoggettivazione” dello stesso io consapevole. In altre parole,
nell’estasi l’anima dell’uomo si dimentica di sé, si spoglia della sua
coscienza individuale ed è come “persa” nell’Uno. L’estasi non è tanto
visione quanto piuttosto semplificazione, quiete interiore. Si noti : il

93
successo dell’estasi è solo nelle mani dell’uomo, egli stesso è l’artefice
della propria salvezza. Siamo perciò di fronte ad un’estasi filosofica e
autosufficiente.

Conclusione
Il Neoplatonismo riveste grande importanza nella storia della
filosofia perché rappresenta, in primo luogo, il modo in cui è stato
conosciuto e interpretato Platone lungo molti secoli. Tanto è vero che
almeno fino al 1800 platonismo e neoplatonismo sono sembrati
essenzialmente la stessa cosa. In secondo luogo, il neoplatonismo ha
permeato di sé molti sistemi filosofici : da Agostino alla Scolastica, dal
Rinascimento a Spinoza, da Fichte a Schelling, da Schopenhauer a
Bergson ecc. In particolare, il doppio principio della derivazione di
tutte le cose da Dio e del loro ritorno a Dio, rimarrà lo schema
fondamentale di tutti i futuri sistemi di tipo religioso e lo si ritroverà
anche, in forma immanentistica, nell’idealismo da Hegel a Gentile.
Non dimentichiamo inoltre che la concezione gerarchica della realtà
costituirà la forma mentis del pensiero medioevale e sarà presente nelle
filosofie più diverse. Non basta : la visione di Dio come
l’assolutamente altro sarà il punto di partenza di tutte le teologie
negative; l’ottimismo filosofico e la concezione del male come
privazione del bene offrirà spunti anche alla soluzione cristiana del
problema del male; in ultimo, la concezione dell’arte e dell’amore
come tramite fra il mondo sensibile e Dio ispirerà la tradizione
filosofica e letteraria.

94
NOTE BIOGRAFICHE
Plotino è l’unico filosofo antico di cui, a parte Platone e
Aristotele, ci sia pervenuta integra l’opera, intitolata Enneadi (raccolte
e pubblicate dal discepolo Porfirio, secondo un criterio tematico:
sono 54 trattati divisi in gruppi di nove, da cui il nome). Plotino
nacque a Licopoli, in Egitto, verso il 203-205 d.C. Frequentò diverse
scuole filosofiche finché conobbe Ammonio Sacca, di cui fu
discepolo per dieci anni (234-243). Nel 245 giunse a Roma e qui aprì
la sua scuola filosofica. Per molto tempo il suo insegnamento fu
soltanto orale ma dal 253 cominciò a scrivere quei trattati che
verranno poi pubblicati da Porfirio. Fu in amicizia con l’imperatore
Galeno, a cui propose di fondare in Campania, la “città dei filosofi”
che si sarebbe dovuta chiamare Platonopoli, ma poi non se ne fece
nulla. Ammalatosi, si ritirò nella villa dell’amico Zetho, in Campania e
qui morì nel 270. Le sue ultime parole furono: “Cercate di
ricongiungere il divino che è in voi con il divino che è nell’universo”.

BIBLIOGRAFIA
Plotino, Enneadi, trad.it. UTET o Rusconi
Isnardi Parente, Introduzione a Plotino, “i filosofi”, Laterza
Girgenti, Introduzione a Porfirio, “I filosofi”, Laterza

95
IL CRISTIANESIMO E LA FILOSOFIA

Introduzione
Secondo quanto scrive Pierre Hadot15, gli storici della filosofia
prestano un’attenzione abbastanza scarsa al fatto che la filosofia antica
sia anzitutto una maniera di vivere. Considerano la filosofia
soprattutto come un discorso filosofico. Come spiegare l’origine di un
tale pregiudizio? Esso è probabilmente legato all’evoluzione della
stessa filosofia nel corso del Medioevo e dell’età moderna. Il
cristianesimo ha svolto un ruolo notevole, in questo fenomeno.
Inizialmente, a partire dal secondo secolo d. C., il
cristianesimo si era presentato come una filosofia, ossia come il modo
di vivere cristiano. E se il cristianesimo poté presentarsi come una
filosofia, ciò conferma il fatto che la filosofia fosse concepita
nell’antichità essenzialmente come una maniera di vivere. Se filosofare
è vivere secondo la legge della ragione, il cristiano è un filosofo poiché
vive conforme alla legge del Logos, la ragione divina (cfr. Giustino,
Apologia prima, 46, 1-4). Per presentarsi come filosofia, il cristianesimo
d’altronde ha dovuto incorporare elementi tratti dalla filosofia antica,
ha dovuto far coincidere il Logos del Vangelo di Giovanni con ad es. la
ragione cosmica degli stoici e/o con l’intelletto aristotelico o
platonico. Ha anche dovuto integrare gli esercizi spirituali filosofici
nella vita cristiana. Questo fenomeno si sviluppò intensamente nel
monachesimo delle origini, anzi il Medioevo ereditò la concezione
della vita monastica come filosofia cristiana, ossia come la maniera
cristiana di vivere, anche se poi nel Medioevo la filosofia diventerà
gradualmente non solo un modo di vivere ma una attività teorica e
astratta, per cui poi la filosofia verrà considerata come ancilla theologiae,
cioè serva della teologia, a servizio della teologia.

15Cfr. P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, nuova edizione ampliata, trad. it. Einaudi,
Torino 2005, pp. 160-161 e passim.

96
L’essenza del cristianesimo
Quali sono le caratteristiche che distinguono il Cristianesimo
dalle altre religioni? Essenzialmente due: Gesù di Nazaret è vero Dio
e vero uomo; Dio è Trinità.
Gesù di Nazaret è vero Dio e vero uomo perché … è l'unico
personaggio della storia umana che ... sia risorto dai morti! Questo ci è
testimoniato dai racconti evangelici che narrano l'esperienza
trasformante che ha avuto come protagonisti gli apostoli ed i discepoli
di Gesù. Il nucleo della testimonianza è dato ad esempio dal cap. 20
del Vangelo secondo Giovanni. Leggiamo:
"Nel giorno dopo il sabato, Maria di Magdala si recò al sepolcro di buon
mattino, quand'era ancora buio, e vide che la pietra era stata ribaltata dal
sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall'altro discepolo, quello che
Gesù amava, e disse loro: "Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non
sappiamo dove l'hanno posto!". Uscì allora Simon Pietro insieme all'altro
discepolo, e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l'altro
discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Chinatosi, scorge
le fasce distese, ma non entrò. Giunge intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva,
ed entra nel sepolcro e contempla le fasce distese, e il sudario, che era sul capo di
lui, non con le fasce disteso, ma al contrario avvolto in una posizione unica.
Allora entrò anche l'altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e
credette....", (cfr. Gv., 20, 1-8).
Da queste poche, essenziali parole, si può dedurre come la
resurrezione sia successa. Se qualcuno fosse stato presente all'interno
del sepolcro, illuminato dai primi raggi del sole della domenica,
avrebbe visto le tele risplendere intensamente e poi, subito, spegnersi;
avrebbe assistito all'istantaneo asciugarsi delle tele, reso evidente da un
loro cambiamento di colore; nello stesso tempo, avrebbe osservato il
volatilizzarsi di tutti i profumi e ne avrebbe percepito il fragrante
odore; avrebbe constatato il lento abbassarsi, sulla pietra sepolcrale,
delle fasce, che non avvolgevano più il corpo di Gesù; ed infine
avrebbe ammirato il rimanere in posizione rialzata del sudario, che
non avvolgeva più il capo di Gesù, ma, come per incanto, non si
abbassava con le fasce. Tutti questi fenomeni potevano essere
provocati solo dalla resurrezione. Il corpo di Gesù si "trasfigurò",
producendo luce e calore, e, senza uscire dalle tele, entrò nella
dimensione dell'eterno. Si noti: le fasce, più pesanti e più estese si
adagiarono sulla pietra; il sudario, più leggero e meno esteso, restò
invece in uno stato di equilibrio instabile. Se il sudario è rimasto nella

97
sua posizione di avvolgimento e non si è disteso con le fasce, vuol
dire che nessuna forza, anche piccolissima, è venuta ad influenzarlo.
Questa osservazione ci permette di concludere che la resurrezione è
avvenuta con potenza ma anche con delicatezza estrema16. Di fronte a
tale evento non si può non rimanere stupefatti. L'ultima parola rimane
però alla nostra libertà: abbandono e fiducia in un Dio che ha vinto la
morte, oppure accettazione della morte come ultima e inevitabile
realtà.

I Vangeli e la Bibbia
Ho detto prima che l'evento della resurrezione è descritto nei
Vangeli. Bisogna ora fare un breve excursus storico per ricordare che
cos'è un Vangelo. La parola, di origine greca, vuol dire semplicemente
"buona novella, buona notizia" e indica naturalmente il fatto che Dio
ha mandato Gesù per salvare gli uomini dal peccato e dalla morte. I
primi discepoli, testimoni della resurrezione e in seguito delle molte
apparizioni che Gesù fece, decisero di mettere per iscritto gli
avvenimenti di cui erano stati protagonisti e diedero quindi origine ad
un nuovo genere letterario, quello appunto dei Vangeli, che non sono
né puramente racconti storici né solo edificanti, ma testimonianze di
fede "perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché,
credendo, abbiate la vita nel suo nome" (Gv., 20,31). Nel corso del
tempo, ai Vangeli si unirono altri scritti (Atti degli Apostoli, le Lettere
di Paolo, Giacomo, Pietro, Giovanni, l'Apocalisse) che formarono il
canone degli scritti di ciò che fu chiamato Nuovo Testamento (=
nuovo patto) e fu ritenuto dai cristiani parola di Dio e quindi da
considerare sacro come già sacri erano da essi ritenuti i testi della
BIBBIA ebraica, che fu poi chiamata Antico Testamento. Oggi gli
ebrei considerano ispirati solo i testi di quello che i cristiani chiamano
"Antico Testamento", mentre i cristiani considerano la Bibbia come
formata dalle due parti di Antico e di Nuovo Testamento17.

16 cfr. A. Persilli, Sulle tracce del Cristo risorto, Ed. Casa della Stampa, 1988, pp. 187-189.
17Curiosità: chi divise i brani della Bibbia in capitoli e versetti? Stefano Langton, professore a
Parigi e poi cardinale, verso il 1214 divise in capitoli la Bibbia latina detta Volgata (fu S.
Girolamo che tradusse in latino l'Antico Testamento dall'ebraico, verso la fine del 300 d. C.).
Quanto ai versetti, il primo a numerarli fu Sante Pagnini da Lucca nel 1528. Per il Nuovo
Testamento, divenne normativa la divisione e la numerazione dell'editore francese Robert
Etienne (Stephanus) nel 1555.

98
Patristica e Scolastica
La filosofia cristiana inizia con la PATRISTICA e continua
poi con la SCOLASTICA. La PATRISTICA fu così chiamata perché i
primi scrittori cristiani che difesero il cristianesimo furono detti
appunto PADRI DELLA CHIESA. La Patristica va dalle origini del
Cristianesimo fino al 9° secolo, con GIOVANNI DAMASCENO per
la Chiesa Greca e con BEDA IL VENERABILE per la Chiesa Latina.
La SCOLASTICA rappresenta invece la cosiddetta filosofia cristiana
medievale ed arriva fino al 1400 ca.

Lo gnosticismo
Nei primi tempi del Cristianesimo era molto diffusa una eresia
chiamata Gnosticismo. La parola "eresia" vuol dire scelta, per indicare
proprio che gli eretici sceglievano di privilegiare un aspetto piuttosto
che un altro nell'insieme delle dottrine cristiane e quindi sbagliavano,
andando contro gli insegnamenti della Chiesa. Lo Gnosticismo (da
GNOSIS, che vuol dire conoscenza) era diffuso soprattutto nel 2°
secolo ed i suoi massimi rappresentanti furono BASILIDE,
CARPOCRATE, e soprattutto VALENTINO (Basilide e Valentino
furono anche accusati di docetismo, da dokeo = appaio, teoria che
sostiene che il corpo di Cristo è pura apparenza).
Le dottrine gnostiche ritengono che la salvezza è data da Dio
a pochi eletti per mezzo di una conoscenza particolare, rivelata da Dio
a pochi. Da quanto appena detto si nota subito l'abissale differenza tra
tali dottrine ed il cristianesimo autentico che predica invece la salvezza
per tutti e grazie soprattutto alla fede. Per gli gnostici vi è un dualismo
radicale tra il mondo superiore, perfetto, che è la nostra vera patria, ed
il mondo terreno, inferiore, malvagio, che è il nostro "esilio" e, in
quanto realtà degradata, è stato fatto da una divinità inferiore a Dio.
Tra il mondo e Dio vi sono degli esseri intermedi, chiamati EONI,
che sono esseri divini ed eterni i quali costituiscono la pienezza della
divinità (plèroma). Cristo è uno di questi eoni e per la precisione
l'ultimo. Gli uomini sono divisi in pneumatici, psichici ed ilici. Anche
se in tutti c'è una particella divina che aspira a tornare a Dio, solo i
primi sono certi della loro salvezza.

99
I primi Concili
Per combattere le eresie furono indetti i CONCILI, cioè
riunioni di vescovi col papa in cui si discutono le nozioni
fondamentali della fede. Le decisioni prese durante i Concili
diventeranno poi gli insegnamenti offerti alla fede del singolo
credente. Citerò qui in breve solo i primi quattro Concili di NICEA,
COSTANTINOPOLI, EFESO, CALCEDONIA, che stabilirono per
sempre i dogmi fondamentali del Cristianesimo: unità e trinità di Dio,
Gesù come vero Dio e vero uomo ecc.
NICEA (325): fu convocato da Costantino per affermare il
dogma (=verità di fede) della divinità di Gesù. In quel periodo infatti
vi era Ario (336), un prete di Alessandria, il quale riteneva che l'unità
di Dio non fosse compatibile con la pluralità delle persone divine.
Secondo Ario, Gesù, Figlio di Dio, non ha la stessa natura del Padre
ma è la sua prima creatura: per meglio dire, Gesù è di sostanza simile
(omooiusios) e non di sostanza uguale al Padre (omoousios). Contro Ario
scese in campo ATANASIO, vescovo di Alessandria (295-373), che
difese l'unità e la trinità di Dio. Il Concilio stabilì definitivamente che
Gesù è della stessa sostanza del Padre: una è la sostanza divina e tre
sono le persone divine (il Padre ingenerato, il Figlio generato, lo
Spirito che procede dal Padre).
COSTANTINOPOLI (381): fu convocato dall'imperatore
Teodosio, contro l'eresia di MACEDONIO, patriarca di
Costantinopoli, il quale negava la divinità dello Spirito Santo, dicendo
che era un semplice "servitore" di Dio, simile agli angeli. Nel Concilio
si afferma invece che lo Spirito Santo è Dio come il Padre e come il
Figlio e si redige il cosiddetto SIMBOLO NICEO-
COSTANTINOPOLITANO, cioè il Credo che è recitato in tutte le
chiese cristiane (cattoliche, ortodosse, protestanti), il quale
rappresenta la sintesi degli insegnamenti fondamentali del
Cristianesimo.
EFESO (431): fu indetto per confutare le tesi di NESTORIO
(381-451), il quale sosteneva che in Cristo vi erano due nature e due
persone, mentre il Concilio afferma in Gesù una sola persona, quella
divina. Inoltre Maria fu proclamata solennemente Madre di Dio
(Theotokos) perché Gesù è Dio, ma è anche vero uomo.
CALCEDONIA (451): fu indetto contro EUTICHE che
sosteneva il monofisismo: cioè in Gesù vi è una sola natura mista,
umana e divina. Il Concilio accettò invece la tesi di CIRILLO DI

100
ALESSANDRIA, il quale riteneva che in Cristo vi è una sola persona
e due nature, una umana e una divina. Si ricordi che il termine latino
persona corrisponde al greco hypostasis, che indica una realtà distinta,
che sussiste in sé; mentre il termine greco ousia corrisponde al latino
substantia o natura, ed indica ciò che è comune ad individui della stessa
specie, quindi non esiste in sé ma nelle persone a cui è comune.

BIBLIOGRAFIA

AA.VV, La Bibbia, varie edizioni


Benelli, La gnosi, Oscar Mondadori
Carcione, Le eresie, Edizioni Paoline
Girardet, Cristiani perché, edizioni Claudiana
(punto di vista protestante)
Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Queriniana
(punto di vista cattolico)
Messori, Ipotesi su Gesù, ed. SEI
Messori, Dicono che è risorto, ed. SEI
Messori-Brambilla, Qualche ragione per credere, Oscar Mondadori
Ottaviano, I fondamenti del cristianesimo, Elledici

101
S. AGOSTINO
(354-430)

La tradizione ci dice che Aurelio Agostino era un uomo


inquieto, insoddisfatto delle verità comode e consolanti. La ricerca
che Agostino si impone è rigorosa e difficile: essa non si abbandona
facilmente a credere, non chiude gli occhi di fronte alle difficoltà della
fede, non tenta di evitarle, le affronta continuamente. Il rigore del
procedimento della ricerca non si arresta di fronte al mistero, ma fa
dello stesso mistero un punto di riferimento. In altri termini, per
capire, ossia per fare filosofia in modo corretto, è indispensabile
anche credere, avere la fede, che è simile alla luce che indica il
cammino; viceversa, per avere una fede salda è indispensabile anche
comprendere e cioè filosofare. "Crede ut intelligas, intellige ut
credas"(=credi per capire, capisci per credere). Il suo entusiasmo
religioso, il suo slancio mistico non sono d'intralcio alla ricerca ma
anzi le danno una forza ed un valore tali per cui giunge a piena
maturità con lui la cosiddetta "filosofia cristiana" ed in particolare la
Patristica.

La ricerca della verità


All’inizio dei Soliloqui Agostino dichiara lo scopo della sua
ricerca: “Io desidero conoscere Dio e l’anima. Niente altro dunque?
Niente altro assolutamente” (I,2,7). Ma Dio e l’anima riassumono tutti
i problemi. Inoltre non sono problemi distinti perché cercare Dio
significa anche cercare e conoscere l’anima, giacché Dio è presente
nella nostra più profonda interiorità. Ora, cercare l’anima lo si può
fare solo se si pensa, se ci si ripiega su se stessi, se ci si confessa. E
confessarsi (da qui il titolo dell’opera più famosa di Agostino) vuol
dire indagare tutti i problemi che ci assillano, che ci toccano in prima
persona, per cercare di chiarirli. Il filosofare di Agostino è sempre una
ricerca in prima persona, e impegna costantemente l’uomo Agostino
nella sua vita quotidiana.
Ripiegarsi su di sé, confessarsi è il primo gradino per arrivare
alla verità che può essere scoperta solo se si guarda dentro di noi.

102
"Non uscire da te, torna in te stesso, nell’interno dell’uomo abita la verità. E se
troverai mutevole la tua natura, trascendi anche te stesso"(cfr. De vera religione,
39). Bisogna dunque raggiungere il più intimo nucleo dell’io per
trovare la verità e Dio. Anzi, la verità è Dio e finché l’uomo non l’ha
trovata non sarà mai felice. "Tu ci hai fatti per te e il nostro cuore è
inquieto finché non riposa in Te"(Confessioni, 1,1). In noi stessi
troviamo una certezza fondamentale che supera i dubbi : non si può
infatti rimanere per sempre nel dubbio o nella sospensione di
giudizio. Chi dice di dubitare di tutto si contraddice perché è almeno
certo del fatto di che può dubitare, e quindi che vive e pensa. Questo
non lo può mettere in dubbio o negare e dunque ottiene già una
prima certezza. Il dubbio stesso ci porta sulla strada della verità. E la
verità è la luce che guida e richiama l’anima alla sincerità e all’umiltà
della confessione. La verità è quindi il criterio di cui la ragione si serve
per giudicare le cose. La verità è la rivelazione di ciò che è, dell’essere.
E’ dunque l’essere che si rivela, l’essere che illumina la ragione umana
e le fornisce la norma di ogni giudizio. Ma questo essere allora non è
altro che Dio stesso che si rivela all’uomo e gli fa scoprire qual è la
verità. La verità è Dio, Dio è la verità. L’uomo che cercava Dio
nell’intimo di se stesso lo scopre come Verità, la Verità che guida e
illumina la sua ricerca e la sua esistenza.

Il male, il peccato e la libertà


La possibilità di cercare Dio e di amarlo è radicata nella stessa
natura umana. Noi siamo stati creati "ad immagine e somiglianza" di
Dio e dunque tendiamo naturalmente verso di Lui. Però l’uomo può
anche allontanarsi consapevolmente da Dio peccando.("Tardi ti ho
amato, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato! Sì, perché tu eri
dentro di me ed io fuori … Eri con me ed io non ero con te … Mi hai chiamato,
ed il tuo grido ha sfondato la mia sordità; hai sfolgorato, ed il tuo splendore ha
dissipato la mia cecità; hai diffuso la tua fragranza ed ora io anelo verso di te; mi
hai toccato, ed ora ardo di desiderio della tua pace"(Confessioni, X, 27).
Ogni uomo deve scegliere: o vivere secondo la carne (cioè
lontano da Dio) nella menzogna e nel peccato, o vivere secondo lo
spirito (cioè secondo Dio) nella felicità e nella verità. La superbia della
volontà che si allontana da Dio e si attacca a ciò che è inferiore è il
peccato. Il peccato è quindi la rinuncia a ciò che è somma felicità e
verità per preferire la creatura o le cose create, che possono rendere
schiavo l’uomo. Non vi è male maggiore del peccato, anzi esso è

103
l’unico e vero male. Infatti tutto ciò che è, per il fatto stesso di
esistere, è bene. Nessuna cosa creata è male; diventa male se ci si
attacca ad essa come se fosse Dio e si rinuncia, per essa, a Dio. Se
l’essere è bene, il male sarà allora non-essere, e infatti per Agostino il
male è mancanza, privazione di essere e di bene. Nel mondo non vi è
il male assoluto ma solo gradi inferiori di essere rispetto a Dio, i quali
dipendono dalla finitudine delle cose create. In altre parole, Dio è il
bene sommo e il sommo essere; man mano che si procede nella scala
degli esseri – angeli, animali, vegetali ecc. - la creatura, per il fatto
stesso di essere creata e dunque di non essere Dio, ha in sé meno
realtà, meno essere del Creatore, e perciò è soggetta, prima o poi, a
commettere il male, a peccare. In sintesi, il male assoluto non può
esistere; vi sono solamente dei mali che, se vengono considerati
globalmente, fanno comunque parte dell’ordine cosmico e dunque
sono in fondo dei beni; oppure il male è il peccato ed allora dipende
dalla cattiva volontà della creatura libera (angelo o uomo): in quanto
poi al male fisico, è semplicemente una conseguenza del peccato
ovvero del male morale.
La volontà è però libera nel vero senso della parola quando
non è schiava del vizio e del peccato. Ed è questa libertà che può
essere restituita all’uomo solo dalla Grazia divina. Il primo libero
arbitrio, dato ad Adamo, consisteva nel poter non peccare. Perduta
tale libertà a causa del peccato originale, la libertà finale che ci verrà
data da Dio consisterà nel non poter peccare. E tale non poter
peccare è un puro dono divino. Vi è dunque relazione necessaria tra
libertà umana e Grazia. E’ solo la Grazia che rende l’uomo
autenticamente libero. Ciò che nell’uomo è sforzo di liberazione,
volontà tesa a cercare e ad amare Dio, è null’altro che l’azione della
Grazia divina in noi. Senza Dio l’uomo non può che allontanarsi,
prima o poi, dalla verità e dall’amore, ed è destinato a peccare.

La Città di Dio
L’alternativa presente nella vita di ogni uomo – per o contro
Dio – è ugualmente presente nella storia dell’umanità. Vi è una lotta
perenne tra due città o regni (cfr. La città di Dio): da un lato la città di
Dio e dall’altro lato la città di Satana. Queste due città non sono mai
nettamente distinguibili durante la storia umana. Nessun periodo
storico né nessuna istituzione sono dominanti esclusivamente dall’una
o dall’altra città; esse sono mescolate fino alla fine dei tempi. Alla fine

104
del mondo, con la resurrezione dei morti ed il giudizio finale, sarà
chiaro per tutti a quale città abbiamo aderito, se a quella celeste o a
quella di Satana. Nel presente l’uomo può cercare di intuirlo solo se
interroga se stesso con sincerità ed invoca l’aiuto dello Spirito.

Le polemiche contro Donato e Pelagio


Agostino affrontò anche diverse polemiche in difesa del
Cristianesimo. Qui ne ricorderò solo due, quella contro il Donatismo
e quella contro il Pelagianesimo.
Il Donatismo (da Donato di Case Nere) sosteneva che la
Chiesa è una comunità di perfetti, che non devono avere contatti con
le autorità civili. Le autorità religiose che tollerano o ammettono tali
contatti, perdono la capacità di amministrare i sacramenti, i fedeli
devono considerarli come traditori e rinnovare gli eventuali
sacramenti ricevuti da esse. Contro questa posizione, Agostino
afferma la validità dei sacramenti indipendentemente da colui che li
amministra, poiché è Cristo che opera attraverso il sacerdote. Inoltre
la Chiesa non può essere ristretta ad una minoranza di persone che si
isolano dal resto dell’umanità.
Il Pelagianesimo era stato diffuso da Pelagio, monaco inglese
stabilitosi poi a Roma. Egli negava che il peccato originale avesse
indebolito la libertà umana e quindi la capacità di fare il bene. Per
Pelagio, l’uomo è, sia prima che dopo il peccato originale, capace di
operare il bene senza l’aiuto della Grazia. Questa dottrina, portata alle
estreme conseguenze, portava a ritenere inutile la redenzione operata
da Cristo : infatti se il peccato di Adamo non ha precluso all’uomo la
possibilità di salvarsi con le sue sole forze, l’uomo non avrebbe
nessun bisogno di un aiuto soprannaturale e, a maggior ragione,
dell’opera mediatrice della Chiesa e dei sacramenti. Agostino replica
che in Adamo ha peccato tutta l’umanità e quindi tutti abbiamo
bisogno della Grazia divina per salvarci. L’uomo non ha meriti propri
da rivendicare nei confronti di Dio. E gli stessi meriti non sono altro
che doni provenienti da Dio. L’iniziativa non può essere che di Dio,
perché solo Dio può salvarci. Tutto dipende da Lui : è Dio che per
primo ci ha amati e ha dato se stesso per noi (cfr. 1 Gv., 3,16; 4,19).

105
Il problema del tempo
Alcuni pensatori, come ad es. Origene, ritenevano che la
creazione del mondo fosse eterna, non potendo implicare un
mutamento nella volontà divina. Da qui la domanda : "Che cosa
faceva Dio prima di creare il cielo e la terra?". In una prima battuta
Agostino risponde scherzosamente dicendo che Dio "preparava
l’inferno per coloro che vogliono scrutare le cose alte"(Conf., XI, 12),
poi si schernisce dicendo che se nessuno gli chiede che cos’è il tempo,
lui lo sa, ma se qualcuno glielo chiede, non lo sa (Conf., XI, 14). Infine
egli risponde osservando che Dio è eterno ed è il creatore non solo di
ciò che è nel tempo ma del tempo stesso. Prima della creazione il
tempo non c’era : non vi era dunque un prima e un dopo e non ha
senso domandarsi che cosa facesse allora Dio. Ma che cosa è quindi il
tempo ? Secondo Agostino il tempo esiste solo come dimensione
dell’anima umana. Noi conserviamo la memoria del passato e siamo in
attesa del futuro; vi è poi nell’anima l’attenzione per le cose presenti.
La vita dell’uomo si svolge, si distende (il tempo è distensio animae,
"distensione dell’anima") tra attenzione, memoria e attesa. Per cui le
tre dimensioni temporali dovrebbero, più precisamente, essere
definite nel modo seguente : il presente del passato, il presente del
presente, il presente del futuro (Conf., XI, 20).

106
NOTE BIOGRAFICHE
Aurelio Agostino nacque nel 354 a Tagaste, nella Numidia
romana (tra Marocco e Tunisia, attuale Algeria) da Patrizio e Monica,
cristiana. Condusse dapprima una vita sregolata e si unì ad una donna
da cui ebbe anche un figlio, Adeodato. Perfezionò gli studi a Madaura
e a Cartagine, dove fu iniziato al manicheismo. Lesse l’Ortensio di
Cicerone che lo avvicinò alla filosofia. Scrisse il primo libro, De pulchro
et apto (380), andato perduto. Nel 384 venne a Milano per insegnare
retorica. Lì, dopo un periodo di crisi, si convertì al cristianesimo e fu
battezzato nella Pasqua del 387. L’episodio cardine della sua
conversione fu da lui stesso narrato nelle Confessioni (8,12). Decise di
ritornare in patria ma ad Ostia la madre si ammalò e morì. Rientrato
in Africa, si stabilì prima a Tagaste e poi a Ippone, dove fu nominato
vescovo nel 396. qui rimase fino alla morte, nel 430, mentre i vandali
assediavano la città. I suoi resti riposano ora a Pavia. Oltre le opere
già citate, ricordiamo almeno il De Trinitate e il De doctrina christiana.

BIBLIOGRAFIA
Agostino, Opere complete con testo a fronte, ediz. Città Nuova
Agostino, Le Confessioni, ed. Rizzoli o Mondadori ecc.

107
ABELARDO
(1079-1142)

Introduzione
Abelardo – sosteneva Nicola Abbagnano in una delle sue
prime opere (Guglielmo d’Ockham, Carabba, Lanciano, 1931) - è la
prima grande affermazione medievale del valore umano della ricerca.
Quest'uomo che ha peccato e sofferto ed ha posto l'intero significato
della sua vita nella ricerca, questo maestro geniale incarna per la prima
volta nel Medio Evo la filosofia nella sua libertà e nel suo significato
umano. Dotato di grande prestanza fisica, di un'eloquenza precisa e
tagliente, di una straordinaria potenza dialettica che lo rendeva
invincibile nelle dispute, era destinato al successo, che gli arrise infatti,
portandogli invidia, persecuzioni e condanne. Ma il centro della sua
personalità è l'esigenza della ricerca: la necessità di risolvere in motivi
razionali ogni verità che sia o voglia essere tale per l'uomo, di
affrontare con le armi della dialettica tutti i problemi per portarli sul
piano di una comprensione umana effettiva. Per Abelardo, la fede è
intelligenza di ciò che si crede. La ragione è per l'uomo la sola guida
possibile; e l'esercizio della ragione, che è proprio della filosofia, è
l'attività più alta dell'uomo.

Logica
Abelardo ha esercitato nella sua epoca un'influenza
grandissima. Egli è stato se non proprio il fondatore almeno il
precursore dell'università di Parigi. Il suo prestigio di professore
consacrarono la celebrità della scuola di Parigi e prepararono la
formazione dell'Università. L'opera in cui ha meglio chiarito il suo
metodo di ricerca è Sic et non. Abelardo distingue i testi della Bibbia e i
testi patristici. I primi vanno letti con l'obbligo di credere, gli altri con
libertà di giudizio. C'è dunque tutta una ricerca da istituire per
risolvere il contrasto tra i testi che fanno autorità in filosofia. E se si
considera che la disciplina che studia e prescrive l'uso delle parole e il
loro significato è la logica, si vede che la logica avrà in Abelardo un
posto predominante. La logica: cioè la ragione umana. La ricerca è

108
intesa come una interrogazione incessante, che muove dal dubbio
perché soltanto il dubbio promuove la ricerca e solo la ricerca
conduce alla verità. Il suo metodo filosofico si fissò, dopo di lui, nello
schema della quaestio, che consiste nel partire da testi che danno
soluzioni opposte dello stesso problema per giungere a delucidare in
via puramente logica il problema stesso. La logica di Abelardo è
storicamente rilevante più che per la trattazione del problema degli
universali, che era un leit motiv dell’epoca, per la trattazione rigorosa
dei problemi del linguaggio scientificamente vero. Compito della
logica è appunto stabilire la verità o falsità del discorso scientifico.
Riguardo al problema degli universali (che cosa sono i concetti
quali quelli di uomo, bene ecc.?), Abelardo sostiene che l’universale
non è né res (cosa concreta) né vox (voce, parola, suono). L’universale
è invece “istituzione degli uomini”, è cioè inventato dagli uomini
perché è l’uomo che sceglie quali voces investire di funzione universale.
“Chiamiamo universali quei termini che per umana istituzione sono
posti ad essere predicati di più individui. Le voces invece e le res in
nessun modo possono essere universali, sebbene ogni universale
consti, da un punto di vista fisico, di voces”.

Ragione e fede
Tra fede e ragione Abelardo mantiene una netta distinzione.
La filosofia si impernia intorno alla logica, alla fisica e all'etica; la
teologia ha per oggetto centrale la Sacra Scrittura; la prima ha
soprattutto il carattere d'una conoscenza rigorosa e scientifica; la
seconda ha invece per oggetto il mondo del sacro e del divino. L'uso
della dialettica non può conferire che maggiore efficacia e consistenza
alla teologia: indubbiamente l'intelletto umano non può fornire la
dimostrazione dei misteri della fede, ma è sempre possibile per mezzo
di analogie e di similitudini raggiungere un chiarimento che la
dialettica può offrire. Di qui quella sua visione della continuità fra
mondo della ragione e mondo della fede, che gli ha fatto affermare sia
che le dottrine dei filosofi asseriscono nella sostanza quello stesso che
si trova nei dogmi cristiani, sia che i filosofi dell'antichità dovettero
essere ispirati da Dio al pari dei profeti dell'Antico Testamento. I
teologi accusarono Abelardo di aver dato troppo rilievo alla
razionalità di Dio rispetto alla sua libertà; condannata fu del pari
l'identificazione delle tre Persone con i tre attributi della potenza, della
sapienza e della bontà ecc.; quello comunque cui Abelardo non volle

109
né poté mai rinunciare fu la ricerca razionale intorno alla fede. Egli
protestò fino all'ultimo che la scienza come comprensione della verità
non può essere in contrasto con la fede, perché la verità non è avversa
alla verità, e che ogni scienza è buona perché viene solo da Dio ed è
un suo dono.
Il prevalere della ricerca nella speculazione di Abelardo
conferisce naturalmente alla ragione la preminenza sull'autorità.
Abelardo ritiene che all'autorità bisogna affidarsi solo finché la
ragione rimane nascosta. Ma essa diventa inutile quando la ragione ha
modo di accertare da sé la verità. Certo la ragione non può pretendere
di comprendere pienamente le cose divine, ma ciò non implica che la
fede non si debba raggiungere e difendere con la ragione. Anzi, non si
può credere se non a ciò che si intende. L’intelletto entra di diritto e
per dovere costituire lo strumento della comprensione. “L’esposizione
non seguita dalla comprensione (intelligentia) è del tutto inutile; non si
può credere ciò che prima non si è capito”. Da questo punto di vista,
si può dire che Abelardo sia stato il fondatore della teologia scolastica
medioevale.
Abelardo viene condotto naturalmente, viste le sue premesse,
a riconoscere il valore di tutti coloro in cui la ricerca si attua, anche
all'infuori del cristianesimo. Abelardo riconosce che la verità ha
parlato negli stessi filosofi pagani i quali hanno potuto riconoscere la
natura trinitaria di Dio. la distinzione fra filosofi pagani e cristiani
perde per lui di valore: essi sono accomunati dalla ragione. Egli vuole
mostrare l'accordo sostanziale tra la dottrina cristiana e la filosofia
pagana. Anche i filosofi pagani hanno, infatti, conosciuta la Trinità.
Essi parlavano infatti di Nous e di Anima del Mondo come Platone.
Col nome di Padre si indica la potenza della maestà divina per
la quale essa può fare tutto ciò che vuole. Col nome di Figlio o Verbo
si designa la sapienza di Dio, per cui egli può conoscere tutto e in
nessun modo essere ingannato. Col nome di Spirito Santo si esprime
la carità o benignità divina, per cui Dio vuole che tutto sia disposto
nel modo migliore e indirizzato al miglior fine. I tre attributi di Dio,
espressi dalle tre persone della Trinità, si presuppongono e si
richiamano l'un l'altro. Le speculazioni trinitarie di Abelardo
suscitarono le critiche di S. Bernardo che interpretò gli attributi con
cui Abelardo caratterizza le tre Persone divine come se fossero
onnipotenza, semipotenza e nessuna potenza. E in realtà esse sono
teologicamente improprie, perché non salvano la sostanzialità delle
persone divine che sono ridotte a tre momenti della vita divina

110
(modalismo). Ma d'altronde la speculazione di Abelardo ha
un'intenzionalità cosmologica più che teologica. Lo scopo di essa è di
chiarire la struttura e la costituzione del mondo e il rapporto tra il
mondo e Dio, più che quello di chiarire la natura di Dio. E in questa
sua intenzionalità cosmologica fu intesa e utilizzata dai filosofi
posteriori, specialmente dalla scuola di Chartres.
Dio fa quello che vuole ma vuole quello che è bene. Egli
vuole che accada solo ciò che è bene che accada. Tutto ciò che egli fa,
deve farlo, perché se è giusto che qualcosa accada, è ingiusto che essa
sia tralasciata. Se ciò che fa è soltanto il bene, egli può fare soltanto
ciò che fa. Aveva dunque ragione Platone di dire che Dio non poteva
creare un mondo migliore di quello che ha creato. In Dio possibilità e
volontà fanno tutt'uno; è vero che egli può tutto ciò che vuole, ma è
vero pure che non può se non ciò che vuole. Questa dottrina di
Abelardo implica la necessità della creazione del mondo e l'ottimismo
metafisico. Il mondo è stato necessariamente voluto e creato da Dio.
La necessità del mondo non implica l'assenza della libertà in Dio. La
libertà in Dio consiste nell'eseguire senza costrizione e con piena
indipendenza ciò che si è deciso consapevolmente e ragionevolmente.
Tutto ciò che egli fa, lo fa soltanto di sua volontà e quindi senza
essere necessitato da alcuna costrizione.

Etica
La trattazione dell’etica comincia da questa celebre
affermazione: “il vizio non si identifica con il peccato; né il peccato si
identifica a sua volta con l’azione cattiva”. Il punto centrale dell'etica
di Abelardo è proprio qui: la distinzione tra vizio e peccato e tra
peccato e azione cattiva. Non si deve confondere il vizio, che è
un'inclinazione a compiere cose illecite, col peccato vero e proprio. Il
vizio è un'inclinazione naturale dell'anima al peccato. Ma se tale
inclinazione viene combattuta e vinta, non solo non dà origine al
peccato, ma rende più meritoria la virtù. Peccato è invece il consenso
dato a questa inclinazione ed è un atto di disprezzo e di offesa a Dio.
Esso consiste nel non compiere il volere di Dio, nel contravvenire a
un suo divieto; non consiste solo nel disprezzo di Dio, ma nella
trasgressione di precisi comandamenti che hanno nella volontà divina
il loro fondamento, è il consenso alle sollecitazioni date che ci
inclinano in direzione opposta a quella voluta da Dio.

111
L'azione cattiva può essere commessa anche senza il
consenso della volontà, quindi senza peccato: come accade quando
per difesa si uccide un inseguitore furibondo. Il male dell'anima è
dunque veramente solo il peccato, il consenso dato all'inclinazione
viziosa. Abelardo è in grado di insistere, in base a queste premesse,
sulla pura interiorità delle valutazioni morali. L'azione peccaminosa
non aggiunge nulla al peccato che è l'atto con cui l'uomo disprezza il
volere divino. Dove manca il consenso della volontà non c'è peccato,
anche se l'azione è in se stessa cattiva, e dove c'è il consenso della
volontà all'inclinazione viziosa, il seguire dell'azione cattiva non
aggiunge nulla alla colpa. Si deve chiamare trasgressore solo chi
consente a ciò che gli risulta proibito da Dio: e così anche la
proibizione deve intendersi riferita non all'azione ma al consenso.
“Dio tiene conto non delle cose che si fanno, ma dell'animo con cui si
fanno; e il merito e il valore di colui che agisce non consiste
nell'azione ma nell'intenzione”. Una stessa azione può essere buona o
cattiva: per es. impiccare un uomo può essere sia un atto di giustizia
sia malvagità. Solamente Dio che guarda non alle azioni ma allo
spirito con cui si fanno, può valutare secondo verità il valore
dell'intenzione umana e giudicare esattamente la colpa. Abelardo
procede coerentemente in questa etica dell'intenzione e non si arresta
di fronte alle conseguenze teologicamente pericolose di essa. Per es. i
persecutori dei martiri o di Cristo non hanno peccato perché essi
pensavano con le loro azioni di rendere omaggio a Dio.
Se il peccato è solo nell'intenzione, come si giustifica il
peccato originale? Abelardo risponde che il peccato originale non è un
peccato ma la pena di un peccato. "...è come si dicesse che dal peccato
di Adamo è derivata la nostra pena, cioè la sentenza della nostra
condanna" (Scito te ipsum, 14). Il peccato originale non comporta una
colpa giacché non può contrarre una colpa per disprezzo di Dio il
bambino che non è ancora in grado di distinguere con la ragione che
cosa debba fare, anche se esso comporta una pena derivante dalla
colpa dei progenitori. Ugualmente è improprio chiamare peccato
l'ignoranza in cui sono gli infedeli della verità cristiana e le
conseguenze che scaturiscono da tale ignoranza. Non si può far colpa
di non credere al Vangelo e a Cristo a coloro che non ne hanno mai
sentito parlare. Affermare che si può peccare per ignoranza significa
intendere il peccato in senso largo e improprio, giacché peccato è
veramente l'ignoranza solo quando è effetto di consapevole
negligenza. In ultimo, il potere di rimettere i peccati conferito da

112
Cristo agli apostoli si può intendere riferito anche ai loro vicari e
successori, ma non in base al puro possesso del potere episcopale ma
anche condizionatamente al possesso da parte dei vescovi della
dignità di vita e della santità che fu propria dei primi apostoli: "il
potere ecclesiastico non vale nulla nello sciogliere o nel legare, scrive
Abelardo, se devia dall'equità della giustizia" (cfr. Scito te ipsum, cap.
26).

NOTE BIOGRAFICHE
Nato nel villaggio denominato Palatium o Palais (oggi La
Pallet, presso Nantes) nel 1079, da una famiglia di piccola nobiltà,
ricevette dal padre i rudimenti della cultura classica. Abelardo passò
parecchi anni della sua adolescenza alla scuola di Roscellino, nelle città
di Tours e di Loches, apprendendovi la logica. Lasciato Roscellino,
Abelardo si recò a Parigi dove frequentò la scuola di Guglielmo di
Champeaux (sostenitore di un realismo platonico sugli universali, che
Abelardo criticò). Abelardo iniziò quindi la sua attività di insegnante
di dialettica prima a Melun poi a Corbeil. Volendo prepararsi anche
all'insegnamento della teologia si recò anche a Laon per sentire
Anselmo. Verso il 1114 divenne reggitore e il principale maestro delle
scuole che facevano capo alla cattedrale di Parigi, Notre Dame. Qui
tenne lezioni con grande successo (e questo suscitò come sempre
grande invidia verso di lui, a cui egli rispose però con l’orgoglio: “già
io credevo di essere rimasto al mondo l’unico filosofo e di non dover
temere più nessuno”). Nel frattempo aveva conosciuto Eloisa. La loro
relazione non poté rimanere segreta. Quando il canonico Fulberto,
zio della giovane, li sorprese insieme, Abelardo decise di portare di
nascosto Eloisa in Bretagna, dove nacque il piccolo Astrolabio; poi
tornò a Parigi e sposò segretamente Eloisa. Ma quando questa, per
ordine di Abelardo, vestì l'abito monacale ad Argenteuil, Fulberto,
sospettando che il filosofo volesse sbarazzarsi di lei, lo fece
sorprendere durante il sonno e lo fece evirare. Abelardo si ritirò allora
nell'abbazia di S. Dionigi, ove riprese ad insegnare e scrisse il trattato
De unitate et trinitate divina che sollevò contro di lui accuse di eresia
(concilio di Soisson nel 1121). Andò in seguito nei pressi di Troyes,
dove costruì l'oratorio del Paracleto. Anche qui continuò ad insegnare
finché i monaci dell'abbazia S. Gildas in Bretagna lo elessero loro
abate. Abelardo lasciò però anche quel luogo e lo ritroviamo ancora a

113
Parigi e in seguito a Cluny. Intanto l'opposizione di s. Bernando e di
altri monaci contro alcune sue dottrine considerate eterodosse si
inaspriva e scoppiò aperta nel concilio di Sens del 1141. Abelardo
morì poco dopo a 63 anni nell'abbazia di S. Marcello a Chalon-sur-
Saone il 21 aprile 1142.
Le opere più importanti: Dialettica(1118-1137); Theologia
christiana (1123-24); Sic et non (1121-22) ; Dialogus inter judaeum,
philosophum et christianum ; Ethica seu liber Scito te ipsum ; De unitate et
trinitate divina (1118-1121) ecc.

BIBLIOGRAFIA
Abelardo, Storia delle mie disgrazie. Lettere d’amore di Abelardo e
Eloisa, ed. Garzanti
Abelardo, Dialogo tra un filosofo, un giudeo e un cristiano, BUR
Rizzoli
Abelardo, Etica o conosci te stesso, La Nuova Italia
Fumagalli Beonio Brocchieri, Introduzione a Abelardo, “i
filosofi”, Laterza

114
ANSELMO E L’ARGOMENTO ONTOLOGICO

(1033-1109)

Anselmo (1033-1109) nacque ad Aosta, fu abate del


monastero di Bec in Normandia e poi arcivescovo di Canterbury dal
1093 fino alla morte.
La fama di S. Anselmo d’Aosta è legata all’argomento
ontologico o prova ontologica per dimostrare l’esistenza di Dio, che
egli espone in un’opera intitolata Proslogion. Anselmo vuole dimostrare
l’esistenza di Dio partendo dal solo concetto di Dio. Anche
l’insipiente che dice che Dio non esiste ha però – secondo Anselmo –
un concetto di Dio, visto che è impossibile negare la realtà di qualcosa
che non si pensa neppure. E qual è il concetto di Dio ? E’ quello di un
essere di cui non si può pensare nulla di maggiore. Se è così definito,
allora Dio non può esistere solo nell’intelletto, nel pensiero, ma deve
esistere anche nella realtà, in caso contrario si potrebbe sempre
pensare che esista qualcosa più grande di Dio, il che è contraddittorio.
L’argomento si fonda sul presupposto che ciò che esiste nella realtà
sia maggiore, cioè più perfetto, di ciò che esiste nel solo intelletto.
Gaulinone, nel Liber pro insipiente replicò ad Anselmo che,
anche se si ha il concetto di Dio come dell’essere perfettissimo, dal
concetto non si può dedurre l’esistenza di Dio, così come dal
concetto di un’isola perfetta non si può dedurre la sua effettiva realtà.
Anselmo, col Liber apologeticus, rispose a Gaulinone dicendo
che la perfezione dell’isola non è la stessa perfezione di Dio; solo nel
caso di Dio si può dire che è perfettissimo e quindi solo di Lui si può
dire che esiste necessariamente.

115
Molti anni dopo, anche S. Tommaso contestò l’argomento di
S. Anselmo. Egli disse che l’argomento è valido solo se si presuppone
già che l’essere perfettissimo esiste. Il problema non è di sapere se
l’essere perfettissimo, in quanto tale, non possa fare a meno di
esistere, ma di sapere se esso realmente esiste. In altri termini, è ovvio
che, se si fosse già in Paradiso, si capirebbe che Dio non può non
esistere; il problema è però sapere se esistano Dio e il Paradiso. Chi ha
fede – dice ancora Tommaso – può ammettere che Dio è
perfettissimo, ma c’è anche chi sostiene che Dio sia materia o corpo,
ed ha quindi un concetto diverso di Dio. Inoltre non ne consegue che
da un concetto se ne possa dedurre l’esistenza nella realtà : l’essenza di
Dio rimane comunque inaccessibile alla ragione umana.

Bibliografia
Vanni Rovighi, Introduzione a Anselmo d’Aosta, “I filosofi”,
Laterza
Anselmo d’Aosta, Proslogion, BUR Rizzoli
Anselmo d'Aosta, Opere, ed. Laterza

116
TOMMASO D’AQUINO

(1225?-1274)

Ragione e fede
Per conoscere Dio, che supera la comprensione della ragione,
non basta la sola ricerca filosofica, ma occorre che Dio stesso
intervenga e si riveli in un linguaggio accessibile all’uomo. La
Rivelazione – e dunque la fede cristiana – non annulla né rende inutile
la ragione. Inoltre le verità scoperte dalla ragione non possono venire
in contrasto con le verità rivelate giacché entrambe procedono da
Dio, che è luce e verità somma. Qualora apparisse un contrasto, è
solo perché si tratta di conclusioni false o non necessarie o non si è
indagato a sufficienza. La ragione può essere d’aiuto alla fede in tre
modi : 1) dimostrando i preamboli della fede cioè quelle verità la cui
dimostrazione è necessaria alla fede stessa (non si può credere in Dio
se non si sa se esiste, se è uno o molti ecc., il che può essere fatto dalla
ragione); 2) chiarire mediante similitudini le verità della fede, ad es.
illustrando in un linguaggio accettabile i misteri della Trinità e
dell’Incarnazione; 3) controbattere alle obiezioni che si possono fare
alla fede dimostrando che sono false.

Essenza ed esistenza; analogicità e partecipazione


Nel De ente et essentia Tommaso stabilisce il principio che,
riformando la metafisica aristotelica, la rende "adatta" al cristianesimo
: la distinzione reale tra essenza ed esistenza. Per Aristotele, potenza e
atto corrispondevano a materia e forma. Secondo Tommaso invece
l’essenza e l’esistenza stanno tra loro rispettivamente nel rapporto di
potenza e atto. L’essenza (chiamata anche quiddità o natura)

117
comprende sia la materia che la forma perché comprende tutto ciò
che è espresso nella definizione della cosa. Per es. l’essenza dell’uomo,
definito "animal rationale", comprende sia la materia (animal) che la
forma (rationale). Dall’essenza si deve distinguere l’esistenza perché si
può comprendere che cosa sia un uomo o l’unicorno o l’araba fenice
ma non è ancora detto che quegli esseri esistono nella realtà. Dunque
l’essenza e l’esistenza sono distinte e stanno tra loro nel rapporto di
potenza e atto. L’essenza è in potenza rispetto all’esistenza, mentre
l’esistenza è l’atto dell’essenza. Ecco ora il punto fondamentale :
l’unione dell’essenza con l’esistenza, ovvero il passaggio dalla potenza
all’atto, ovvero l’individuo reale richiede per Tommaso l’intervento
diretto e creativo di Dio. E’ solo Dio che può creare le cose facendole
esistere; è solo Dio che può realizzare il passaggio dalla potenza
all’atto, ossia dalla essenza all’esistenza, e dare così origine alle varie
creature, siano angeli o uomini o animali o piante ecc. Vi sono perciò
tre modi in cui l’essenza è nei vari esseri.
In primo luogo, in Dio l’essenza è uguale all’esistenza. Solo in
Dio essenza ed esistenza si identificano. In altre parole, l’essenza di
Dio è di esistere : Egli esiste necessariamente, è eterno, è l’unico
essere necessario cioè non può non esistere, mentre tutti gli altri esseri
dipendono da lui.
Negli angeli, che sono puri spiriti e quindi dotati di sola forma
e non di materia, l’essenza è diversa dall’esistenza in quanto il loro
essere è creato e finito e si identifica con la sola forma.
Infine, negli uomini, negli animali ecc., cioè nelle creature
composte di materia e di forma, l’essenza è comunque sempre distinta
dall’esistenza ed esistono grazie all’intervento creativo di Dio.
In sintesi, potremmo dire che Dio è l’essere, mentre le
creature hanno l’essere. Dunque il termine "essere" non è lo stesso
quando è riferito a Dio o alle creature. Tra l’essere di Dio e quello
delle creature non vi è né identità né assoluta opposizione bensì
analogia. Le creature, in quanto esistenti, sono simili a Dio ma Dio
non è simile a loro : ecco il principio della analogicità dell’essere (analogo
= simile ma di proporzioni diverse).
In più, le creature hanno l’essere perché viene dato loro da
Dio, il quale partecipa (=dona) loro l’esistenza. Così le creature hanno
l’essere per partecipazione, mentre Dio è l’essere per essenza.

118
La distinzione fra l’essere creato e l’essere eterno di Dio porta
con sé due importanti conseguenze. In primo luogo permette a
Tommaso di salvaguardare l’assoluta trascendenza (superiorità,
diversità, alterità, soprannaturalità) di Dio nei confronti del creato e
delle creature e di evitare ogni forma di panteismo (che identifica Dio
col mondo). In secondo luogo, l’analogicità dell’essere rende
impossibile un’unica scienza dell’essere : accanto alla filosofia vi è
adesso la scienza che riguarda l’essere necessario e cioè la teologia, la
quale è superiore in dignità a tutte le altre scienze, le quali, nei suoi
confronti, diventano "ancelle della teologia". Questo concezione
porterà, fra l’altro, ad una graduale svalutazione dello studio della
natura, che verrà a fatica ripreso solo più tardi, nel Rinascimento e
oltre.

Le cinque vie ovvero le prove dell’esistenza di Dio


Anche se Dio è il primo nell’ordine degli esseri, non è però
primo nell’ordine delle conoscenze umane, le quali iniziano dai sensi,
mentre Dio è invisibile. E’ dunque indispensabile dimostrare che Dio
esiste pur essendo invisibile, partendo allora dagli effetti, dalle
creature, dal mondo visibile e mostrando come essi non siano
spiegabili se non rifacendosi a Dio. Le prove dell’esistenza di Dio
devono essere perciò a posteriori cioè a partire dalla nostra esperienza
del mondo e non a priori ( che parte dal concetto di Dio per dedurne
l’esistenza, come l’argomento ontologico di S. Anselmo). Infatti per
Tommaso l’argomento è valido solo se si presuppone già che l’essere
perfettissimo esiste. Il problema non è di sapere se l’essere
perfettissimo, in quanto tale, non possa fare a meno di esistere, ma di
sapere se esso realmente esiste. In altri termini, è ovvio che, se si fosse
già in Paradiso, si capirebbe che Dio non può non esistere; il
problema è però sapere se esistano Dio e il Paradiso. Chi ha fede –
dice ancora Tommaso – può ammettere che Dio è perfettissimo, ma
c’è anche chi sostiene che Dio sia materia o corpo, ed ha quindi un
concetto diverso di Dio. Inoltre non ne consegue che da un concetto
se ne possa dedurre l’esistenza nella realtà : l’essenza di Dio rimane
comunque inaccessibile alla ragione umana. Tommaso elabora così
"cinque vie" per giungere a dimostrare che Dio esiste.
La prima via è quella del moto, ed è desunta da Aristotele.
Essa parte dal principio che tutto ciò che si muove è mosso da altro.
Ora, se tutto ciò che è mosso a sua volta si muove, bisogna che

119
anch’esso sia mosso da un’altra cosa e questa da un’altra ancora. Ma
non è possibile andare all’infinito altrimenti non vi sarebbe un primo
motore e neppure gli altri muoverebbero : infatti il processo
all’infinito sposta solo il problema e non trova la ragione ultima del
mutamento (in altri termini, il processo all’infinito spiegherebbe la
trasmissione del moto ma non la prima origine e causa del moto). E’
dunque necessario arrivare ad un primo motore non mosso da altro, e
"tutti riconoscono che esso è Dio". Da notare che questo moto non è
soltanto meccanico e fisico ma metafisico : dovunque c’è moto e
quindi divenire che non basta a se stesso, c’è imperfezione che non ha
in sé la sua spiegazione e richiede quindi l’intervento di Dio.
La seconda via è quella causale. Nel mondo vi è un ordine tra
le cause efficienti (causa efficiente è ciò che da origine a qualcosa) ma
è impossibile che una cosa sia causa efficiente di se stessa, perché
altrimenti sarebbe prima di se stessa, il che è assurdo. Anche in questo
caso è impossibile un processo all’infinito, dunque bisogna ammettere
una prima causa efficiente "che tutti chiamano Dio". Rispetto alla
prima via, qui si tratta della causalità efficiente, da cui dipende non
solo il divenire ma l’essere delle cose. Dunque Dio non è solo il
principio del divenire ma anche la causa, l’origine suprema di tutto ciò
che esiste, che è da Lui conservato e creato, pur senza eliminare
l’azione delle cause secondarie.
La terza via è basata sul rapporto tra il possibile e il necessario.
Vi sono cose che possono essere e non essere : infatti alcune nascono
e finiscono, il che vuol dire appunto che sono possibili, che possono
essere e non essere. Ora, è impossibile che tutte le cose di tal natura
siano sempre state, perché ciò che può non essere, un tempo non
esisteva. Se dunque tutte le cose possono non essere, in un dato
momento non ci fu nulla nella realtà. Però, se questo fosse vero,
anche ora non esisterebbe nulla, perché ciò che non esiste non
comincia ad esistere se non per qualcosa che già esiste. Dunque non è
vero che tutti gli esseri sono possibili ma bisogna ammettere che nella
realtà vi sia anche un essere necessario, "e questo tutti dicono Dio".
La quarta via è quella dei gradi di perfezione. Si trova nelle
cose il più e il meno di ogni perfezione, cioè di bene, vero, bello ecc.
Vi sarà dunque anche il grado massimo di tali perfezioni e "questo
chiamiamo Dio". In altri termini, se gli enti hanno gradi diversi di
perfezione, vuol dire che questi gradi non derivano dalle loro essenze,
e dunque significa che li hanno ricevuti da un essere che dà senza
ricevere, perché è la fonte di ogni perfezione, e cioè Dio.

120
La quinta via è quella desunta dal governo delle cose. I corpi
fisici (pianeti, stelle ecc.) operano per un fine, come appare dal fatto
che operano quasi sempre allo stesso modo per conseguire la
perfezione; donde appare che non a caso, ma per una predisposizione,
raggiungono il loro fine. Ora, ciò che è privo di intelligenza non tende
al fine se non perché è diretto da un essere conoscitivo e intelligente,
come la freccia viene scoccata dall’arciere. Vi è dunque un essere
sommamente intelligente da cui tutte le cose naturali sono ordinate ad
un fine, "e questo essere chiamiamo Dio".

Trinità, incarnazione e creazione dal nulla


Le verità fondamentali del cristianesimo – Trinità e
Incarnazione – non sono dimostrabili con la semplice ragione però la
ragione può cercare di chiarire in misura sufficiente il loro contenuto,
mostrando che quello che rivela la fede non è impossibile.
Per quanto riguarda il dogma della Trinità, la difficoltà è capire
come l’unità della sostanza divina si possa conciliare con la trinità
delle persone. Tommaso si serve a questo riguardo del concetto di
relazione. Le persone divine sono costituite dalla loro relazione di
origine : il Padre dalla paternità, cioè dalla relazione col Figlio; il Figlio
dalla filiazione o generazione, cioè dal rapporto col Padre; lo Spirito
dall’amore, cioè dalla relazione reciproca tra Padre e Figlio. Queste
relazioni non sono accidentali in Dio (non vi può essere nulla di
accidentale in Dio) ma reali : sussistono realmente nella essenza
divina. Proprio l’essenza divina, dunque, nella sua unità, implicando le
relazioni, implica la diversità delle tre Persone.
Nell’Incarnazione, la difficoltà sta nel comprendere la
presenza, nell’unica Persona di Cristo, delle due nature, divina ed
umana. Ora, l’essenza o natura divina è identica con l’essere di Dio :
Cristo ha natura divina ed è appunto Dio, sussiste come Dio, come
persona divina. Egli è quindi una sola persona, quella divina. Data
però la separabilità di essenza ed esistenza, Cristo, in quanto Dio, ha
potuto benissimo assumere la natura umana (cioè l’anima razionale ed
il corpo) senza essere "persona" umana. Si ricordi, a questo riguardo,
il significato dei termini "persona" e "natura". La "persona" indica una
realtà distinta, che sussiste di per sé; la "natura" o "sostanza" o
"essenza" indica ciò che è in comune ad individui della stessa specie,
che quindi non esiste in sé ma solo nelle "persone" a cui è comune.

121
Riguardo poi il problema della creazione dal nulla, Tommaso
ritiene che non si possa dimostrare né l’inizio nel tempo né l’eternità
del mondo e perciò lascia via libera per credere alla creazione nel
tempo. L’essere del mondo viene da Dio: il fiat divino ha dato origine
alle cose ma non si inserisce in una successione temporale. E’ un atto
creativo che chiama le cose all’essere o, meglio ancora, fa che l’essere
sia.

NOTE BIOGRAFICHE
San Tommaso d'Aquino fu forse il pensatore più importante
del Medioevo e la sua influenza, non solo nell’ambito della Chiesa
cattolica, è tuttora fondamentale. Era un uomo grande e grosso,
bruno, un po’ calvo ed aveva l’aria pacifica e mite dello studioso. Per
il suo carattere silenzioso lo chiamarono "il bue muto". Tommaso
nacque nella famiglia dei conti di Aquino da Landolfo e Teodora
verso il 1225. Da giovanissimo fu affidato ai monaci benedettini di
Montecassino, dove ricevette la prima educazione. Verso i 18 anni
Tommaso decise di entrare nell'ordine dei Domenicani e, nonostante
le forti resistenze da parte della famiglia, resistette e scelse la sua
vocazione. Tutta la vita di Tommaso fu spesa nello studio e nella
contemplazione ed egli morì a neppure cinquant'anni, nel 1274, dopo
aver lasciato moltissimi scritti. Fra essi ricordiamo : De ente et essentia,
Summa contra Gentiles e Summa theologiae. Fu canonizzato nel 1323.

BIBLIOGRAFIA
Tommaso d'Aquino, Summa contro i Gentili, UTET
Tommaso d'Aquino, Summa theologiae, 4 voll., ESD
Tommaso d'Aquino, Opuscoli filosofici, Città Nuova
J. A. Weishepl, Tommaso d'Aquino. Vita, pensiero, opere,
Jaca Book
S. Vanni Rovighi, Introduzione a Tommaso d'Aquino, "I filosofi",
Laterza

122
GUGLIEMO DI OCKHAM
(1280-1349)

Scienza e logica
Comincerei l’esposizione della filosofia di Ockham con il
riferimento alla celebre espressione “il rasoio di Ockham”. La regola,
citata anche in latino in diversi modi – entia non sunt multiplicanda praeter
necessitatem oppure frustra fit per plura quod per pauciora – pone i confini
tra le parole e le cose. Essa impedisce che si facciano passare per cose
esistenti quelle che sono solamente voces. In breve, vieta che l’uomo
possa aumentare l’universo reale con proiezioni di fatti linguistici,
puramente umani, fra le altre cose esistenti. Ockham tende così a
sgombrare il terreno da un grossolano equivoco: credere che tutte le
nostre parole si riferiscano a cose esistenti, e cioè che vi sia una
corrispondenza reale tra i fatti linguistici, mentre non è vero: molte
parole poggiano soltanto su altre parole e non su cose (pensate a
ippogrifo ecc.). Ockham non fa che ribadire moltissime volte il
divieto del passaggio dall’universo linguistico all’universo reale: in
caso contrario si finirebbe di popolare l’universo con enti non creati
da Dio ma prodotti dalla nostra mente. Il rasoio vuol dire, insomma,
nel suo senso più profondo: il mondo creato è soltanto di Dio, che ne
è il Signore assoluto e l’uomo non deve inventarsi altri esseri.
La conclusione è forse che nessuna nostra parola ha mai
alcun rapporto col mondo reale? La risposta è sì, ma proprio per
questo la scienza è possibile. Le lingue sono simboli del pensiero,
“specchi dell’anima”, dice Ockham. Le parole dicono con simboli
fisici (suoni o segni grafici) il contatto dell’anima con le cose del
mondo.
La scienza è senz’altro certezza, che si dà quando si dà
evidenza, cioè quando la cosa è presente. La scienza è la visione
immediata della cosa presente, essa è dunque possibile perché il
mondo reale è qui, di fronte a noi, e l’anima è qui, di fronte al mondo
reale. La scienza è per Ockham solo scienza sperimentale ovvero
descrittiva. Non è più esplicativa o deduttiva come per Aristotele. La
scienza si limita a descrivere il mondo, per quello che può. Infatti non
potrà mai descrivere ad esempio la totalità. La scienza non riesce più a

123
spiegare i fenomeni in termini di causalità: cade qui l’idea di un
universo considerato come un tutto regolato da un sistema più o
meno complesso e gerarchico di cause ed effetti. La scienza consiste
dunque in un insieme di proposizioni descrittive, per cui non si
possono dedurre da una proposizione altre proposizioni. Il che non
vuol dire che non sia possibile farlo, ma per Ockham non è questo
l’importante: quel che conta è che il valore conoscitivo e scientifico di
queste operazioni è nullo. La scienza è intuizione e mai deduzione
logica. Se dunque nessuna cosa genera o causa altro; se nessuna
proposizione genera logicamente altre proposizioni, ugualmente
nessuna scienza è causa e genera altre scienze. Il grande mito di una
super-scienza o di una scienza delle scienze, sia essa intesa sia come
matematica o come metafisica è del tutto svanito. Davanti a Dio tutto
è di pari dignità: è l’uguaglianza evangelica (ricordiamo che Ockham è
pur sempre francescano). Crolla però di conseguenza anche il mondo
feudale e la sua gerarchia e crolla ovviamente anche l’idea di una
gerarchia fra gli esseri, che era stata accettata da Platone in poi.
Come il discorso è costituito da termini, così la realtà è
costituita da singoli individui esistenti. Tale concezione è chiamata
nominalismo ed è in contrasto con la tradizione aristotelico-tomistica
medioevale e ancor più con quella platonico-agostiniana, che
attribuiva una realtà a sé alle essenze universali. L’errore nasce per
Ockham quando si prende in considerazione un termine universale e
si pensa che la natura comune da esso espressa (ad es. la bellezza)
abbia una esistenza reale, al di là delle singole cose belle a cui tale
termine è riferibile.
La negazione degli universali si accompagna anche ad una
precisa analisi dei limiti della conoscenza umana. Solamente la
conoscenza intuitiva, che si ha quando l’uomo coglie le cose con i
sensi, consente di conoscere con certezza che qualcosa effettivamente
esiste. Tale conoscenza ci attesta ancora una volta che la realtà è
composta da enti individuali concreti. Questa conoscenza opera con
efficacia solo entro i limiti della esperienza immediata e contingente.
Esistono e sono conoscibili soltanto le cose individuali e non
correlate da nessi immutabili e necessari.

L’esistenza di Dio
E Dio? Dio è per Ockham un ente assolutamente semplice,
del tutto libero e onnipotente. Per Dio conoscere è volere, e volere

124
significa creare. Se Dio è onnipotente e assolutamente libero, le cose
potrebbero anche essere disposte in modo diverso.
L’oggetto della fede è naturalmente Dio, considerato nella sua
distanza e differenza radicale rispetto al mondo umano. Si pensi anche
alle prove dell’esistenza di Dio elaborate nel corso dei secoli. Per
Ockham esse non sono più conclusive. La prova ontologica ad es.
non è valida perché la proposizione “Dio esiste” non è evidente.
L’uomo non ha ovviamente una conoscenza intuitiva cioè sensibile di
Dio ma soltanto delle cose concrete. La prova del moto non è valida
perché non è vero in senso assoluto che tutto ciò che si muove è
mosso da altro: ad es. l’anima e l’angelo si muovono da sé e così il
peso che tende verso il basso; non è neppure vero che è impossibile
risalire all’infinito nella serie dei movimenti perché, nelle grandezze
continue il movimento si trasmette necessariamente dall’una all’altra
delle infinite parti che le compongono. La prova causale non è valida
perché per spiegare i fenomeni della natura bastano le cause naturali e
non c’è bisogno di ricorrere a Dio. Bisogna però aggiungere che a sua
volta Ockham stesso inventò una ennesima prova per dimostrare che
Dio esiste. La prova si può chiamare quella delle cause conservanti,
nel senso che solo Dio è colui che può mantenere, conservare le cose
nel loro essere: in altri termini, noi siamo continuamente mantenuti
nell’esistenza da Dio stesso.
Se Ockham ritiene valida la dimostrazione dell’esistenza di
una causa prima, trova però difficoltà nell’identificarla col Dio unico
della rivelazione cristiana. Gli attributi divini non possono essere
dimostrati apoditticamente: il concetto di Dio cui si perviene per via
di ragione non è qualificabile in modo apodittico con gli attributi del
Dio personale. Comunque per Ockham la verità, sul piano metafisico,
non è appannaggio esclusivo della fede, ma può essere conseguita
anche attraverso una rigorosa indagine razionale. Cade così ogni
accusa di agnosticismo o di fideismo.

L’etica
In campo morale, non esiste alcun vincolo, come già
accennato sopra, alla libertà divina. Dio non vuole qualcosa perché è
bene ma è bene ciò che Dio vuole. Dio potrebbe modificare
comunque e sempre l’ordine degli eventi e anche in campo etico Dio
potrebbe volere che ad es. gli uomini nutrano odio per Lui e l’odio
verso Dio diventerebbe in tal caso un bene.

125
In campo morale, la libertà umana per Ockham consiste
nella capacità di autodeterminarsi cioè di volere o di non volere una
determinata cosa. Certamente non è possibile dimostrare per via
deduttiva l’esistenza di questa radicale capacità di autodeterminazione;
essa è però attestata dall’esperienza poiché ogni uomo esperimenta
che la sua volontà può sempre rifiutare ogni imposizione della
ragione. Mentre però i pensatori medioevali in genere pensavano che
la volontà umana può appagare il suo desiderio di felicità solamente
nel possesso di Dio, Ockham dichiara che essa non tende
naturalmente ad un bene infinito ed inoltre che la volontà umana non
aspira necessariamente nemmeno alla felicità in generale (L’esperienza
infatti ci attesta che l’uomo può rinunciare alla felicità). Che la volontà
sia inclinata a volere un bene infinito non è dimostrabile più di quanto
sia dimostrabile che la volontà tende a volere l’impossibile. Il
finalismo universale non è neppure asseribile in base all’esperienza
perché la costanza nel comportamento riscontrata negli agenti privi di
intelligenza non va spiegata col finalismo, ma col determinismo della
loro natura; se poi sono diretti da un agente dotato di conoscenza o
capace di produrre, non si deve ammettere l’esistenza in essi di una
causa finale, poiché questa non è propriamente intesa o desiderata
dall’agente inanimato bensì dall’essere che dirige o muove. Tuttavia
Ockham non ha dimostrato la verità degli asserti contrari, ossia
Ockham non ha negato con prove rigorose l’esistenza di un fine
ultimo. Insomma, la rivelazione ci fa conoscere – e Ockham lo accetta
– che Dio è il fine ultimo dell’universo e, in particolare, dell’uomo; la
ragione non ha nulla da eccepire riguardo questa tesi biblica, dal
momento che la sua indagine non ha concluso contro la possibilità di
una siffatta verità. L’etica di Ockham è e rimane teologica.
L’atto morale si configura come tale solo se è relazionato a Dio.
Norma della moralità è l’amore di Dio sopra ogni cosa, che si
concretizza in atti di obbedienza ai suoi precetti, ossia nella necessità
di agire sempre in conformità alla volontà di Dio. Al soggetto
incombe il compito, oltre che di eseguire i precetti divini, quello di
determinare circa ogni singola azione se essa è o non è conforme al
precetto divino e se è voluta in quanto tale, in quanto cioè si configura
come un atto di amore di Dio. Per fare ciò, il soggetto morale deve
servirsi della retta ragione, cioè la coscienza morale, ovvero la
prudenza degli Scolastici, la quale decide della moralità dei singoli atti
in rapporto ai primi principi etici, alla rettitudine della intenzione ecc.

126
La politica
Sin dalle prime opere politiche Ockham si dichiara contrario
alla teoria teocratica di quanti attribuiscono al papa la pienezza dei
poteri. La teoria della piena sovranità papale contrasta con il principio
ispiratore della legge evangelica che è una legge di libertà. Ockham
rileva come il potere conferito da Cristo a Pietro vada inteso come un
impegno di servizio, un compito pastorale analogo a quello della
potestà paterna. Inoltre, dal fatto che il papa non sembra essere
vincolato da nessuna legge positiva, non segue che egli possa
infirmare o cambiare tutte le leggi positive o andare contro la retta
ragione. Giurisdizione puramente spirituale quindi quella del
pontefice, al quale non è consentito rivendicare alcuna dipendenza del
potere imperiale da quello pontificale: per Ockham l’imperatore è tale
subito dopo la sua elezione da parte dei principi elettori e non ha
bisogno della investitura papale per entrare in possesso delle sue
prerogative. Universale per sua natura, l’impero è spiccatamente
romano e si può dire che l’impero precedette il papato come risulta
apertamente dalla Sacra Scrittura, dal momento che precedette la
nascita di Cristo. Cristo inoltre comanda di dare a Cesare quello che è
di Cesare e le disposizioni delle autorità romane vengono riconosciute
valide dagli apostoli.
Al papa compete il governo di tutte le cose che sono
spirituali. Tuttavia, in caso si necessità o di un’utilità che sia
parificabile alla necessità, qualora non intervenissero le autorità
competenti, il papa potrebbe e dovrebbe occuparsi delle faccende
temporali, supplendo la deprecabile e pericolosa negligenza di altri; e
questa è la pienezza dei poteri in virtù della quale il papa eccelle. Ma
per evitare di trasformare la legge evangelica in una legge di servitù, il
papa non può imporre le cose non necessarie, anche di natura
spirituale, quando non sia manifesto lo stato di necessità, benché
possa consigliarne qualcuna.
In conclusione, Ockham insegna che tra potere spirituale e
potere temporale ci deve essere distinzione, e che, in caso di necessità,
il pontefice può intervenire nella sfera del temporale così come
l’imperatore può intervenire in quella religiosa. La parità è però più
apparente che reale: mentre il papa può intervenire nelle questioni
politiche solo occasionalmente, in caso di necessità, l’intervento
dell’imperatore è straordinario ed occasionale solo nel caso di un papa
eretico, mentre è ordinario quando persegue le azioni contrarie alla
fede e alla morale, in particolare l’eresia; in altri termini l’imperatore

127
deve essere laico ma è pur sempre un cristiano che deve difendere le
leggi della chiesa, che si esplica anche attraverso la repressione
dell’eresia.
L’infallibilità del Magistero appartiene soltanto alla Chiesa
intera, non al Papa né al Concilio. Ockham combatte dunque contro il
papato avignonese – ricco, autoritario, dispotico – contrapponendo
ad esso la Chiesa primitiva. Ma con ciò sembra così aprirsi in Ockham
la via che avrebbe gradualmente condotto, con la Riforma
protestante, ad un rapporto sempre più diretto e interiore fra uomo e
Dio.

NOTE BIOGRAFICHE
Gugliemo di Ockham nacque nell’omonimo villaggio nei pressi
di Londra tra il 1280 e il 1290. Entrò giovanissimo nell’ordine
francescano. Studiò a Oxford ma non poté insegnarvi a causa
dell’opposizione del cancelliere Lutterell, tomista convinto. Ockham
riuscì invece ad insegnare a Londra fino al 1324. Fu accusato, sempre
dal Lutterell, di sostenere tesi eterodosse e questo spinse il papa a
chiamare Ockham ad Avignone. Qui fu anche coinvolto nel dibattito
sulla povertà dell’ordine francescano. Morì nel 1347 o 1349 di peste o
colera.

BIBLIOGRAFIA

Ghisalberti, Introduzione a Ockham, “I filosofi”, Laterza


Ockham, Scritti filosofici. Antologia , Nardini editore
Ockham, Il filosofo e la politica, Rusconi (antologia di scritti con testo
latino a fronte)

128
ALCUNI PENSATORI RINASCIMENTALI

THOMAS MORE

(1478-1535)

Tommaso Moro nacque a Londra nel 1478 e morì nel 1535,


decapitato per ordine di Enrico VIII, per essersi opposto
all’annullamento del suo matrimonio con Caterina (da qui lo scisma
che darà origine alla Chiesa anglicana). Fu canonizzato come martire
dalla Chiesa cattolica nel 1935. La sua opera più nota è Utopia.
UTOPIA. La parola deriva dal greco e significa “in nessun
luogo”. E’ dedicata all’amico Peter Gilles, dotto umanista olandese
dell’epoca, ed è divisa in due parti : nella prima, critica le regole ancora
vigenti del sistema feudale, come evidente premessa di quello che
esporrà nella seconda , cioè questa comunità ideale perfetta (quasi
come la Repubblica platonica). Il libro consiste in pratica nella
descrizione di un’isola perfetta fatta da un testimone, il viaggiatore
Raffaele Itlodeo. L’isola di Utopia è un’isola a forma di mezzaluna,
con una confortevole baia dalle acque sicure ma dall’approdo difficile
a causa degli scogli affioranti che insidiano l’accesso. Sull’isola vi sono
54 città, tutte uguali. Nessuna famiglia è proprietaria della casa in cui
vive, poiché non vige la proprietà privata. E per evitare anche ogni
affetto alle mura che li ospitano, devono cambiare domicilio ogni
dieci anni. L’assegnazione delle nuove case avviene per sorteggio.
L’attività comune a tutti è l’agricoltura; i pasti frugali vengono
consumati in mense pubbliche; tutti sono vestiti allo stesso modo; si
pratica il libero scambio delle merci, per cui si ignora l’uso della

129
moneta e si disprezza l’oro, che viene usato per forgiare le catene per
gli schiavi. Lavorano tutti sei ore al giorno, tranne una ristretta cerchia
di intellettuali che sono autorizzati dallo Stato a dedicasi
completamente agli studi. Pasti e sonno vengono scanditi da un
preciso orario : si va a dormire alle otto di sera; si lavora per tre ore
alla mattina e per tre ore al pomeriggio, dopo aver fatto una pausa di
due ore. Lo spazio tra sonno e lavoro lo si riempie distraendosi in
modo “utile e intelligente”, partecipando a lezioni pubbliche che si
tengono all’alba, oppure conversando o facendo musica dopo pranzo,
nelle grandi sale dove si è mangiato. Su Utopia vigilano 200 sifogranti,
mentre su tutti governa un principe eletto con voto segreto, il quale
rimane in carica tutta la vita. Vi è la tolleranza religiosa : è vietata
soltanto la dottrina che nega l’immortalità dell’anima e la provvidenza,
ma a chi la professa viene solamente impedito di diffondere la sua
credenza.

MONTAIGNE

(1533-1592)
MICHEL DE MONTAIGNE nacque nel 1533 nel castello di
Montaigne, nel Périgord (Francia sud-occidentale). Educato dal padre
con un metodo che escludeva ogni costrizione, imparò il latino come
lingua materna, da un precettore che non conosceva il francese.
Studiò diritto e divenne consigliere nel Parlamento di Bordeaux.
Tradusse in francese un’opera del teologo catalano Raimundo de
Sabunda († 1436), il Liber creaturarum sive Theologia naturalis, un libro di
apologetica che fondava la verità cristiana più sulla ragione e sul senso
comune che sulla dogmatica. Nel 1571 lasciò la vita pubblica e si
dedicò interamente agli studi vivendo nel suo castello di Montaigne.
Pubblicò nel 1580 i primi due libri dei suoi Saggi, che diventeranno

130
subito famosissimi. Si dedicherà ad essi fino alla morte, avvenuta nel
1592. E’ sepolto nella chiesa dei Foglianti a Bordeaux.
I SAGGI. Il termine Essais vuol dire assaggi, sperimentazioni,
ricerche, esperienze, perché Montaigne intende confrontare le
esperienze degli antichi con le proprie. Nella prefazione alla sua opera
scrive : “Sono io stesso la materia del mio libro”. Dunque il meditare,
il filosofare è inteso da Montaigne come un continuo sperimentare se
stessi, un continuo riferimento a noi stessi. L’esistenza è per lui un
problema sempre aperto, un’esperienza continua, che non può mai
concludersi definitivamente e deve quindi sempre chiarirsi a se stessa.
Com’è allora questa esistenza? Essa è costantemente protesa verso il
futuro : l’uomo ha una costante preoccupazione per il futuro. “Noi
siamo sempre al di là di noi stessi; il timore, il desiderio, la speranza ci lanciano
verso l’avvenire…”. Dovremmo invece imparare a non essere troppo
presuntuosi e ad accettare serenamente la nostra condizione : l’uomo
non deve cercare di essere più di uomo. E della condizione umana è
elemento costitutivo la morte : “Tu muori perché sei vivo”. L’uomo deve
dunque accettare il suo destino di essere mortale per poter vivere
meglio : il pensiero che si è mortali suscita un impegno a vivere, ed a
vivere meglio, più profondamente e pienamente. L’uomo deve anche
riconoscere che sa ben poco, che la ragione ha dei limiti, che la
scienza può sbagliare. Insomma, in realtà, Que sais-je?,che cosa so io? Il
problema però non è tanto che cosa si sa o che cosa non si sa quanto
piuttosto che cosa si può e si deve fare. La saggezza consiste nel
vivere bene : “Il mio mestiere, la mia arte, è vivere”. La saggezza di
Montaigne non si basa né sulla rivoluzione né sull’utopia. La sua
saggezza consiste nella ricerca di una felicità terrena e nel modo
migliore per conseguirla : da qui l’abbandono di ogni orgoglio
intellettuale, l’accettazione dell’esistenza nei suoi vari aspetti, cioè la
tolleranza verso le nostre fragili illusioni, le nostre piccinerie, i nostri
peccatucci abituali, persino una certa dose di follia, per accettare
appunto i piaceri che la vita ci può offrire, sopportando i mali e le
avversità.

131
TOMMASO CAMPANELLA

(1568-1639)
Tommaso Campanella nacque a Stilo (in Calabria) nel 1568.
Entrò nel 1582 nell’Ordine dei Domenicani ma le sue idee gli
procurarono ben presto persecuzioni e condanne. Nel 1591 venne
imprigionato per le opinioni contenute nella Philosophia sensibus
demonstrata. Fu liberato l’anno successivo e ritornò a Stilo. Qui ordì la
congiura che avrebbe dovuto realizzare il suo sogno : una repubblica
teocratica di cui egli sarebbe stato il capo! Ma la congiura fu scoperta
nel 1599. Per sfuggire alla condanna capitale si finse pazzo e riuscì a
resistere in carcere per 27 anni ! Fu poi liberato dal governo spagnolo
e trasferito a Roma. Riuscì a fuggire e si rifugiò in Francia alla corte
del re Luigi XIII. Trascorse così serenamente gli ultimi tempi e morì
nel 1639.
LA CITTA’ DEL SOLE. La filosofia di Campanella ha lo
scopo di fondare una nuova società umana : egli riteneva possibile che
la sua utopia diventasse realtà ed era certo del suo prossimo avvento.
Nell’opera La città del Sole (1602), è appunto delineata la struttura di
uno Stato immaginario. Essa ha la forma di un dialogo fra un
Ospitalario, cioè un cavaliere dell’ordine degli Ospitalieri di S.
Giovanni in Gerusalemme, ed un genovese, nocchiero (=responsabile
della direzione di una nave) di Cristoforo Colombo, il quale descrive
quello che ha visto nell’isola lontana di TAPROBANA (l’attuale Sri
Lanka o Ceylon). Questo Stato immaginario è governato da un
principe, chiamato SOLE o METAFISICO, il quale è assistito da tre
principi, PON, SIN e MOR, cioè potestà, sapienza e amore. La Città
del Sole si trova nell’isola ed è protetta da una serie di sette mura. In
essa vige la comunanza di beni e di donne e la religione naturale (nel
senso che è una sorta di cristianesimo senza però rivelazione e
sacramenti : Campanella crede insomma che la verità del Vangelo sia
conforme alla natura umana e che tutti gli uomini debbano tornare
all’unica vera religione, che è quella cristiana). L’istruzione comincia a

132
tre anni : si impara giocando, sempre con allegria. Si parte
dall’osservazione : sulle mura infatti sono scolpite figure geometriche,
i vari paesi della terra, le leggi, gli alfabeti, gli usi e i costumi, le varie
scienze ecc. E’ una sorta di enciclopedia che deve essere imparata
gradualmente. Alle lezioni teoriche vengono alternati gli esercizi fisici.
Gli adulti lavorano quattro ore al giorno; il resto del tempo lo
trascorrono leggendo, studiando, dedicandosi all’arte e allo sport.

BERNARDINO TELESIO

(1509-1588)

Il suo capolavoro è De rerum natura iuxta propria principia (1585).


La natura deve essere indagata secondo le sue leggi intrinseche e
quindi si deve escludere ogni forza o causa metafisica. Essa non
risponde ai bisogni o ai desideri dell’uomo e quindi è completamente
disantropomorfizzata. Se l’uomo vuole indagare la natura deve lasciar
parlare la natura stessa, cominciando dal riconoscimento che è egli
stesso natura. Questo garantisce la validità della sua conoscenza della
natura. La conoscenza comincia con i sensi anzi ciò che la natura
rivela è ciò che i sensi testimoniano. Il principale dei sensi è il tatto e
proprio per questo, secondo Telesio, i due principali agenti naturali
sono il caldo e il freddo (ad es. il sole è caldo, la terra è fredda). Il caldo è
il principio attivo e il freddo quello passivo. Essi sono però
immateriali ed hanno quindi bisogno di una massa corporea su cui agire.
La massa corporea è appunto il terzo principio naturale col quale
Telesio pretende di spiegare i fenomeni naturali. Egli critica poi la
fisica aristotelica sia nei concetti astratti di materia e forma, potenza e
atto, sia la concezione di Dio come motore immobile. Egli ritiene che

133
non si possa introdurre l’azione di Dio per spiegare solo alcuni aspetti
dell’universo. La presenza divina deve essere invece riconosciuta
dovunque e in ogni momento. Nulla potrebbe continuare ad esistere
se non ci fosse Dio, e quindi la sua azione è costante nell’universo e si
identifica con le forze della natura.
In quanto alla morale, la propria conservazione è il fine
supremo dell’uomo: ciò che mi permette di conservarmi mi dà
piacere, il dolore è invece il senso della distruzione. C’è comunque
qualcosa che non appartiene alla natura, ed è la forma superaddita, cioè
in pratica l’anima soprannaturale infusa direttamente in noi da Dio.
Essa non riguarda né la mente né le funzioni intellettuali. È qualcosa
di trascendente che rende l’uomo unico nei confronti di tutte le altre
cose create.

BIBLIOGRAFIA
T. Moro, Utopia, ed. varie
M. Montaigne, Saggi, Adelphi o Mondadori o Bompiani
T. Campanella, La città del Sole, Oscar Mondadori o altre ediz.
B. Telesio, De rerum natura, La Nuova Italia
E. Garin, Storia della filosofia italiana, Einaudi, Torino 1966

134
GIORDANO BRUNO

(1548-1600)

Introduzione
Uno dei meriti di Bruno è aver compreso che uno dei nodi
cruciali del sapere moderno è costituito dall’interpretazione
dell’universo in quanto tale. Bruno capisce inoltre tutta la novità, tutto
il potere dirompente della dottrina copernicana. Proprio per questo
non esita a proporre una interpretazione “forte” dell’opera di
Copernico. Copernico, secondo Bruno, non si è dilettato ad
immaginare una mera ipotesi teorica : ha delineato, invece, una vera e
propria interpretazione del mondo. Una interpretazione che fa
crollare tutta una serie di principi fisici e metafisici dell’aristotelismo e
che sollecita a ripensare tutta la cosmologia tradizionale.
Oltrepassando le stesse posizioni copernicane, Bruno delinea con
audacia una nuova immagine del mondo che non ammette né il
vecchio geocentrismo (la Terra al centro dell’universo) né il nuovo
eliocentrismo (il Sole al centro dell’universo) ma afferma l’infinità
dell’universo. L’universo di Bruno non ha centri né gerarchie, è
unitario ed infinito. E’ un mondo infinito, materiale, omogeneo,
autosufficiente, composto da corpi, eventi, processi, la cui ragione
d’essere è tutta immanente (=interna, intrinseca) alla realtà stessa.
L’idea della pluralità dei mondi e dell’infinità del tutto ha
un’origine antichissima. Presso i Greci era stata ad esempio
propugnata da Democrito e da Epicuro; più tardi, nella latinità, fu
difesa da Lucrezio nel De rerum natura. Ma quelle concezioni erano
state respinte dalla corrente “ufficiale” della scienza greca, che aveva
accettato il modello aristotelico di un mondo finito. Nel Medioevo il
rigetto totale dell’atomismo, che era visto come eretico dalla Chiesa,
aveva decretato la definitiva sconfitta di ogni immagine astronomica

135
alternativa a quella sanzionata dalla Chiesa stessa. I primi dubbi si
possono trovare nell’ultima Scolastica e in Ockham. Con Cusano, poi,
si fece strada l’idea che l’universo potesse essere “interminato” : il suo
cosmo non è più il cosmo medievale ma non è ancora l’universo
infinito dei moderni 18.

La concezione dell’universo
E’ soltanto con Bruno che troviamo l’esplicita affermazione
dell’apertura e dell’infinità del mondo. E – si noti – Bruno non giunse
a questa visione dell’universo da osservazioni astronomiche o da
calcoli matematici, bensì da una intuizione di fondo del suo pensiero,
alimentata dal copernicanesimo.
Le tesi rivoluzionarie presenti in Bruno sono le seguenti :
1) L’universo è aperto in ogni direzione e le supposte stelle fisse si
trovano disperse in uno spazio senza limite;
2) Vi è una pluralità illimitata di sistemi solari, che Bruno ritiene
popolati da creature viventi, senzienti e razionali; anzi, alcuni di
questi mondi sono certamente più stupendi del nostro e con
abitanti di gran lunga migliori dei terrestri;
3) L’universo è una sola, immensa regione. Si sbaglia, secondo Bruno, a
voler distinguere fra una parte più nobile ed una meno nobile
dell’universo perché, procedendo tutto dall’unica mente e
dall’unica volontà di Dio, resta preclusa ogni discriminazione
gerarchica fra le varie zone del creato;
4) Lo spazio è qualcosa di unico ed omogeneo, ossia di
fondamentalmente simile a se stesso. Sostituzione quindi dello
spazio aristotelico (finito e gerarchicamente differenziato in luoghi
naturali) con uno spazio infinito. In quanto tale, esso è acentrico,
poiché non vi è nessun punto di riferimento assoluto. I corpi
sono costituiti da atomi, che sono le costituenti elementari della
realtà. Gli atomi sono identici fra loro per sostanza, forma e
dimensione : la differenziazione dei corpi deriva solo dal diverso
numero e dalla diversa aggregazione degli ingredienti atomici. Il

18 Oggi, con Einstein, si è tornati a riproporre l’idea di un universo finito. Infatti la materia,
secondo Einstein, si incurverebbe su se stessa, per cui il mondo sarebbe illimitato ma finito,
simile ad una sfera, che è illimitatamente percorribile anche se finita. Inoltre Einstein ritiene
che non abbia senso chiedersi che cosa esista fuori dell’universo. In conclusione, alla luce
della scienza odierna, rimangono tuttora problematiche 1) l’esistenza di altri esseri; 2) la
struttura ultima dello spazio cosmico; 3)la questione della infinità o meno dell’universo.

136
monismo di Bruno unifica la materia e la forma : se l’universo è un
unico corpo infinito, la sua forma sarà l’Anima intellettiva
universale. In altri termini, l’Anima universale è la vera e sola
causa ed è identificata con la forma aristotelica. La materia, d’altra
parte, è vista come materia universale, e dunque materia e forma
non sono due sostanze bensì due aspetti dell’unica sostanza
universale e infinita.
In conclusione, l’infinità dell’universo è l’idea madre che sta
alla base di tutte le altre e che infiamma Bruno di un’ebbrezza
filosofica che lo riempie di entusiasmo e di passione, portandolo a
considerare l’universo come un qualcosa senza limiti dai caratteri
divini : infinito lo spazio, infiniti i mondi, infinite le creature, infinita
la vita e le sue forme ecc.

La divinità
L’universo non è per Bruno frutto di una creazione ma è la
manifestazione diretta e immediata della divinità. Sembrerebbe un
caso classico di panteismo (=tutto è Dio, Dio è il tutto, Dio è il
mondo). In Bruno però l’identificazione di Dio con la natura non è
del tutto compiuta (è un panteismo particolare) : egli persiste nel voler
distinguere da Dio nella natura, che è l’Intelletto immanente
nell’universo, il Dio sopra la natura, che è chiamato da lui Mente, ed è
inteso come una sorta di Provvidenza, almeno in generale se non in
particolare. All’universo è poi immanente un’Anima intellettiva
universale, autrice della grande varietà della natura, e quest’Anima
intellettiva non sostituisce né rende impensabili le varie anime
intellettive particolari, le quali sono, per ciascun essere della natura,
quello che l’Anima intellettiva universale è per il mondo nel suo
complesso.

La libertà
Bruno ritiene inoltre che ciascun essere della natura abbia una
propria anima, e questa sia, oltre che interno principio di vita e di
moto, anche libero principio dei suoi atti. In altri termini, l’anima
umana è dotata di libero arbitrio : anzi, il volere umano non solo può
scegliere fra le varie possibilità ma può anche eccederne i limiti quando, con
l’intelletto, si rivolge oltre la natura, al suo supremo principio. Beninteso, la
divinità, in Bruno, è considerata immanente nel mondo, dunque non è

137
certo il Dio cristiano quanto piuttosto una sorta di simbolo :
l’espressione cioè del dinamismo organizzato e intelligente che Bruno
attribuisce all’universo.

Fede e ragione
Bruno tende, in ogni caso, a separare nettamente la sfera della
fede e della religione dall’ambito della ricerca e del sapere razionale.
La prima riguarda soltanto l’ambito della coscienza personale;
pertanto il Cristianesimo non può e non deve interferire con la
riflessione filosofico-scientifica, e del resto le stesse Scritture non
hanno finalità cognitive bensì pratico-morali. Bruno afferma la
doverosità di emancipare l’indagine della scienza e della filosofia da
qualunque forma di autorità, a cominciare da quella dei filosofi antichi
(e in primo luogo da Aristotele). Il sapere viene valorizzato da Bruno
come componente essenziale di un intervento attivo da parte
dell’uomo nell’esistenza e nel mondo. E’ importante che vi sia uno
stretto rapporto fra la mente e la volontà, fra la conoscenza e l’azione:
“L’uomo non contempli senza azione, e non operi senza
contemplazione”(cfr. Lo spaccio della bestia trionfante).

Gli eroici furori


In quanto poi agli eroici furori, essi consistono in pratica nello
svincolarsi dagli amori sensibili, dalle passioni individuali, dagli
interessi sociali e politici per innalzare l’uomo a ciò che è puramente
ideale, così che l’uomo raggiunga la “vita de dei”, che però non
significa, si badi, la trasformazione dell’uomo in un Dio : è piuttosto
una ricerca attiva, mai finita, è l’inarrestabile dinamismo dell’uomo
che, animato dalla passione della conoscenza e dal desiderio del
proprio perfezionamento, non si vuole fermare davanti a nessun
ostacolo, infrange ogni barriera e prosegue un cammino che sa
infinito.

138
NOTE BIOGRAFICHE
Nato a Nola (Campania) nel 1548, Bruno entrò giovanissimo
nei Domenicani e prenderà gli ordini. Ma il suo spirito irrequieto e
l’eterodossia delle sue idee gli crearono ben presto seri problemi. Nel
1576 fu costretto a lasciare il convento e iniziò a peregrinare per
l’Europa. In Inghilterra scriverà i Dialoghi italiani (tra cui De la causa,
principio et uno), e si sposterà quindi in Germania. Scrive i Poemi latini, in
cui riespose la sua filosofia. Accettò poi l’invito del patrizio Giovanni
Mocenigo di recarsi a Venezia. Qui viene denunciato all’Inquisizione
(Mocenigo scopre una tresca fra sua moglie e l’ospite, inoltre è deluso
dalle lezioni di Bruno sulla magia e sulla mnemotecnica; in ultimo non
tollerava i discorsi “eretici” da cui Bruno non si asteneva). Bruno si
difese con abilità secondo il principio della “doppia verità”.
L’Inquisizione veneta, stufa, consegnò poi Bruno alla Inquisizione
romana. Si aprì così a Roma nel 1593 un nuovo processo, che si
protrasse per sette anni. Nel dicembre 1599, richiesto per l’ultima
volta di abiurare, Bruno dichiarò di non volersi pentire, di non avere
nulla di che pentirsi, di non sapere di che cosa dovrebbe pentirsi.
Allora fu scomunicato ed affidato al governatore di Roma per le
debite “pene”, che, per gli eretici impenitenti, era il rogo. Il 17
febbraio 1600 Bruno veniva arso al rogo in campo dei Fiori a Roma.
Secondo lo studioso Luigi Firpo, “la condanna è stata oggettiva. Dal punto
di vista giuridico del tempo non esisteva alternativa. Dal punto di vista del
procedimento è un procedimento esemplare”. Si ricordi che Bruno fu
condannato perché era eretico e non per altri motivi. Non fu ucciso
perché sosteneva idee filosofiche insolite o perché aveva commesso
adulterio. Egli negava la transustanziazione, la verginità della
Madonna, affermava che Dio e l’universo sono la stessa cosa,
sosteneva la bontà della magia e della metempsicosi; che Mosè è un
simulatore, che la Scrittura è un’illusione, che Cristo non è Dio ma un
mago impostore giustamente giustiziato, e così gli apostoli. Di fronte
a tali idee, la Chiesa non poteva che prenderne atto e dunque lo
condannò.
BIBLIOGRAFIA
Bruno, Dialoghi italiani, I meridiani Mondadori
Bruno, Opere latine, UTET
Firpo, Il processo a Giordano Bruno, Salerno editore

139
LA NASCITA DELLA SCIENZA MODERNA 19

Le cosmologie antiche
La cosmologia greco-medioevale, sistematizzata da Aristotele,
concepiva il mondo come unico, in quanto pensato come il solo
universo esistente; chiuso perché immaginato come una sfera limitata
dal cielo delle stelle fisse, oltre il quale non c’era nulla, neppure il
vuoto (Aristotele diceva che ogni cosa è nell’universo, mentre l’universo
non è in nessun luogo, visto che vi è spazio e luogo solo in relazione
ai corpi); essendo chiuso, l’universo era concepito anche come finito,
in quando l’infinito era solo una idea, aristotelicamente parlando.
L’universo era fatto di sfere concentriche, intese come qualcosa di
solido e di reale, su cui erano “incastonate” le stelle e i pianeti. Si
aveva così, oltre alla sfera delle stelle fisse, i cieli di Saturno, Giove,
Marte, Mercurio, Venere, Sole e Luna. Al di sotto di quest’ultima,
stava la zona dei quattro elementi con la Terra immobile e al centro di
tutto. Il mondo era diviso in due zone ben distinte : una perfetta, che
era quella dei cieli, formata da un elemento, l’etere, incorruttibile,
perenne, il cui unico movimento era circolare e uniforme,
eternamente ritornante su se stesso; la seconda zona era quella del
mondo sublunare, imperfetta, formata dai quattro elementi (acqua, aria, terra
e fuoco), aventi ciascuno un luogo naturale e dotato di moto rettilineo,
che avendo un inizio ed una fine dava origine ai processi di generazione
e corruzione.

La rivoluzione scientifica
La rivoluzione scientifica va alla pubblicazione del capolavoro
di Copernico, Le rivoluzioni dei corpi celesti (1543), all’opera di Newton, i
Principi matematici della filosofia naturale (1687). Dalla rivoluzione
scientifica in genere e dalla metodologia galileiana in particolare
emerge : 1) la concezione della natura come ordine oggettivo e
causalmente strutturato di relazioni governate da leggi; 2) la

19 Si ricordi che il termine scienziato nel nostro senso è attestato verso la metà del 1300 ma non
sarà diffuso che molto più tardi. Galilei e Newton si consideravano sia “matematici” e sia
“filosofi naturali”.

140
concezione della scienza come sapere sperimentale, matematico e
valido intersoggettivamente, che ha come scopo la conoscenza
progressiva del mondo e il suo dominio a vantaggio dell’uomo (da qui
lo sviluppo della tecnica e della tecnologia). Vediamo meglio i vari
punti.
La natura è un ordine oggettivo perché non si riferisce a fini o
bisogni umani. Solo disantropomorfizzando la natura risulta possibile
studiare la realtà effettiva del mondo circostante.
La natura è un ordine causale, intendendo per causalità un
rapporto costante ed univoco fra due o più fatti, dei quali dato l’uno è
dato anche l’altro. L’unico tipo di causa ammessa è quella efficiente:
alla scienza non interessa il perché finale o lo scopo dei fatti, ma solo
le loro cause efficienti cioè le forze che li producono.
La natura è un insieme di relazioni perché il ricercatore indaga
le relazioni causali riconoscibili che legano i fatti. I fatti sono
governati da leggi, che rappresentano i modi necessari o i principi
invarianti (i codici) con cui opera la natura.
La scienza è un sapere sperimentale perché si fonda
sull’osservazione dei fatti e le sue ipotesi vengono giustificate su base
empirica e non puramente teorica o razionale. L’esperienza di cui
parla la scienza è una costruzione complessa, su basi matematiche, che
mette capo all’esperimento, cioè ad una procedura appositamente
costruita per la verifica delle ipotesi.
La scienza è un sapere matematico che si fonda sul calcolo e
sulla misura : la quantificazione è una delle condizioni imprescindibili
dello studio della natura.
La scienza è un sapere intersoggettivo perché i suoi
procedimenti vogliono essere pubblici, cioè accessibili a tutti, e le sue
scoperte pretendono di essere valide, ossia controllabili, da chiunque.
In tal senso essa vuole distinguersi dalla magia e dalle scienze occulte
che considerano la conoscenza un patrimonio di una cerchia ristretta
di individui.
La scienza ha come fine la conoscenza oggettiva del mondo e
delle sue leggi. Conoscere le leggi naturali vuol dire poter controllare e
dirigere a nostro vantaggio la natura. “Sapere è potere” (diceva già
Bacon). In tal modo si profila quella alleanza tra tecnici e scienziati
che porta al superamento dell’abisso tra scienza pura e le sue
applicazioni pratiche.

141
D’ora in poi la scienza apparirà come il prototipo del sapere
rigoroso e universale. Sul piano pratico, la scienza apparirà come
socialmente utile, capace di migliorare le condizioni dell’uomo.
L’idea della scienza come sapere vero ed utile sarà alla base,
nell’Illuminismo, della lotta contro l’ignoranza, la superstizione e le
ingiustizie sociali. Nell’Ottocento, col Positivismo, vi sarà l’idea di una
civiltà scientifica planetaria in cui l’uomo possa soddisfare tutti i suoi
bisogni e realizzare se stesso. Nel Novecento si è invece assunto un
atteggiamento più cauto : infatti la scienza è apparsa ben lontana dal
poter spiegare tutto e non è più valida l’uguaglianza tra scienza e
progresso.

COPERNICO

(1473-1543)

Il suo sistema è descritto nel capitolo 10 della prima delle sei


parti dell’opera De revolutionibus orbium caelestium. Al centro
dell’universo sta immobile il Sole, attorno al Sole ruotano i pianeti; la
Terra è uno di questi ed essa gira anche su se stessa, dando origine al
moto apparente, attorno ad essa, del Sole, dei pianeti, delle stelle. La
Luna ruota attorno alla Terra; infine, lontano dal Sole e dai pianeti
stanno fisse le stelle.
Per Copernico dunque l’universo era ancora sferico, unico e
chiuso dal cielo delle stelle fisse; egli accettava inoltre il principio della
perfezione dei moti circolari uniformi delle sfere cristalline, pensate
ancora come entità reali e incorruttibili.

142
TYCHO BRAHE

(1546-1601)

Fu l’ideatore del sistema ticonico, a metà fra Tolomeo e


Copernico. Egli infatti sosteneva che i pianeti girano attorno al Sole,
mentre il Sole gira a sua volta attorno alla Terra, che rimane al centro
dell’universo.

KEPLERO

(1571-1630)

Scoprì le leggi che determinano il movimento dei pianeti. Le


prime due leggi furono pubblicate nella Astronomia nova(1609) : 1)le
orbite descritte dai pianeti intorno al Sole sono ellissi di cui il Sole
occupa uno dei fuochi; 2) le aree descritte dal raggio vettore
(=segmento che unisce il pianeta col Sole) sono proporzionali al
tempo impiegato a descriverle. La terza legge apparve invece
nell’opera Harmonices mundi(1619) : i quadrati dei tempi impiegati dai
pianeti a percorrere la loro orbita stanno tra loro come i cubi degli assi
maggiori delle ellissi descritte dai pianeti.
Le scoperte di Keplero furono dirompenti soprattutto per un
aspetto : i movimenti dei corpi celesti non erano più circoli perfetti

143
ma ellissi ! Quest’idea mandava a monte migliaia di anni di certezze
astronomiche !

FRANCIS BACON

(1561-1626)
Bacon ebbe un’idea altissima del valore e dell’utilità della
scienza a servizio degli uomini. Egli intese la scienza come una ricerca
sperimentale ed una tecnica che consenta all’uomo di dominare la
realtà (sapere è potere). Bacon progettò una sorta di enciclopedia delle
scienze che a differenza della tripartizione aristotelica in scienze
teoretiche, pratiche e produttive (o poietiche), si basi sulle facoltà
umane. Ecco quindi le scienze che si fondano sulla memoria (la storia,
intesa sia come storia della natura che come storia civile), sulla fantasia
( la poesia, la narrativa, l’arte drammatica e parabolica, cioè che illustra
delle verità) e sulla ragione (la filosofia – scienza universale – e le varie
scienze particolari).
Il Novum Organum è un’opera che vorrebbe innovare la logica
aristotelica (ricordate l’Organon, cioè l’insieme degli scritti di logica di
Aristotele?). Bacon dice che la scienza e la potenza dell’uomo sono la
stessa cosa: tanto più conosco tanto più posso.
Il primo libro dell’opera è dedicato a liberare l’uomo dai
pregiudizi radicati nella sua mente. Gli IDOLA TRIBUS sono quegli
errori comuni a tutti gli uomini, mentre gli IDOLA SPECUS sono
quelli proprio di ciascuno. I primi denunciano che l’intelletto umano è
impaziente, pretende di adattare la natura alle sue esigenze, è portato a
supporre nella natura una armonia maggiore di quella reale ecc. I
secondi dipendono invece dalla educazione, dalle abitudini, dai casi
fortuiti, dai gusti personali. Ma non basta: ci sono altri tipi di errori in

144
cui l’uomo cade. Vi sono gli IDOLA FORI, i quali derivano dal
linguaggio: o sono nomi di cose che in realtà non esistono oppure
sono nomi di cose che esistono ma sono confusi. Infine, gli IDOLA
THEATRI che derivano da dottrine filosofiche del passato a cui uno
da ancora credito oppure da dimostrazioni errate. Bacon dice invece
che la verità è figlia del tempo, non della autorità. Essa si rivela
gradualmente all’uomo, attraverso sforzi e ricerca incessante.
La ricerca scientifica si basa sia sui sensi che sull’intelletto.
L’induzione (=il passaggio dal particolare all’universale), com’è intesa
da Bacon, si fonda sulla scelta e sulla eliminazione dei casi particolari;
scelta ed eliminazione ripetute più volte sotto il controllo
dell’esperimento.
Bisogna dunque in primo luogo raccogliere e descrivere i fatti
particolari. Bacon chiama questa raccolta e descrizione la storia naturale
e sperimentale. Vi sono a questo riguardo le tavole di presenza (in cui un
fenomeno si presenta), di assenza (lo stesso fenomeno non è presente),
comparative (il fenomeno si presenta in gradi decrescenti) e infine tavole
esclusive (che escludono il verificarsi di un fenomeno). Le tavole
permettono di elaborare una prima ipotesi (prima vindemiatio), che
guiderà la ricerca successiva. Con successivi esperimenti l’induzione
metterà alla prova l’ipotesi fatta (istanze prerogative). E quindi si
giungerà alla istanza cruciale: essa permetterà di riconoscere la causa
vera del fenomeno studiato. La causa che ha provocato un
determinato fenomeno viene chiamata da Bacon forma, la quale
riguarda sia l’essenza del fenomeno che la legge che ha prodotto il
fenomeno stesso. È interessante notare come nella induzione
baconiana non vi sia posto per la matematica! Strano a dirsi, ma egli
non riconobbe ad essa nessuna funzione efficace per la ricerca
scientifica. Questo probabilmente perché in fondo il presunto
sperimentalismo di Bacon si mantiene invece ancora negli ambiti della
metafisica aristotelica e dunque non riesce a dare alla scienza un
migliore organo di ricerca, anche se la scienza dell’epoca è ancora fra
tradizione e innovazione, baconiana e galileiana.
La Nuova Atlantide. Bacon scrisse anche un’opera di carattere
utopistico o, se vogliamo, fantascientifico, in cui racconta l’incontro
con un’altra civiltà, molto più evoluta, nell’isola di Bensalem. Tra
l’altro, vi è nell’isola una fondazione o ordine o società chiamata Casa
di Salomone, dedicata alla “conoscenza delle cause e dei segreti
movimenti delle cose per allargare i confini del potere umano verso la
realizzazione di ogni possibile obiettivo”. Bacon immagina che questa

145
civiltà sia stata in grado di costruire oggetti come la radio, il
telescopio, il microscopio, l’aereo e il sottomarino.

NOTA BIOBIBLIOGRAFICA
Francis Bacon nasce a Londra il 22 gennaio 1561 da sir
Nicholas Bacon, Lord guardasigilli della Regina Elisabetta. Studia a
Cambridge e si laurea in legge. Si dedica sia alla carriera politica che
allo scrivere. Nel 1597 pubblica la prima edizione dei Saggi. Nel 1603
viene nominato cavaliere. Nel 1606 si sposa a 44 anni, senza nessuna
simpatia per il matrimonio, con la quattordicenne Alice Barnham.
Nel 1617 viene nominato Lord Keeper, la stessa carica di suo padre, e
l’anno dopo Lord cancelliere, oltre che Barone di Verulamio (città
romana sulle cui rovine fu fondata la città di St. Albans, nello
Hertfordshire). Nel 1620 pubblica il Novum Organum. All’apice della
sua potenza, viene accusato di irregolarità in una inchiesta riguardante
il monopolio della fabbricazione dei fili d’oro e d’argento e degli
alberghi. Bacon riconosce la sua negligenza e la sua confessione
meraviglia i membri della Camera. Viene condannato ad una multa di
40.000 sterline, la quale verrà più tardi condonata. Bacon si ritira nella
sua casa di campagna. Muore di bronchite il 9 aprile 1626. Postuma
appare la Nuova Atlantide.

146
GALILEO GALILEI

(1564-1642)

Galilei può essere considerato il fondatore della scienza


moderna perché ridestò l’uomo da una acritica accettazione
dell’autorità di Aristotele; tracciò le linee di un metodo sperimentale in
cui l’esperienza sensibile e la ragione venivano a trovarsi insieme
congiunte nel comune sforzo di ricerca; e dimostrò egli stesso la
validità e l’efficacia inventiva di tale metodo con la verifica
sperimentale delle teorie proposte e con la costruzione di strumenti
utili al sapere e alla tecnica degli uomini. In particolare, Galilei è il
fondatore della dinamica (studia le leggi sui movimenti dei corpi in
relazione alle forze ad essi applicate). I risultati da lui raggiunti nel
campo della meccanica favorirono l’accettazione del sistema
copernicano da parte del mondo scientifico ed aprirono la strada allo
sviluppo della meccanica celeste.
Ma la teoria copernicana era da molti guardata con sospetto,
andando contro in apparenza ad alcune affermazioni contenute nella
Bibbia (cfr. Giosué, 10,12-13; Ecclesiaste, 1,4). Galilei, dal canto suo,
distinse una rivelazione positiva, data nelle Scritture, ed una rivelazione
naturale o eterna, data nel gran Libro della Natura. Alla prima deve
attenersi la teologia, alla seconda la scienza. Due rivelazioni divine,
due verità non possono contraddirsi : nelle cose naturali, quindi,
prima ci si deve accertare come stiano le cose, e poi ritrovare il vero
senso delle Scritture. in altre parole, dette dal Cardinal Baronio e citate
da Galilei, “L’intento dello Spirito Santo, nell’ispirare la Bibbia, era insegnarci
come si va al cielo, non come va il cielo”.

147
La speculazione galileiana ebbe anzitutto un significato
polemico nei riguardi della stantia cultura peripatetica, dominante
nelle università e negli ambienti ufficiali. Galilei fu un innovatore ma,
affinché si affermasse il nuovo concetto di scienza, occorreva
sgombrare il campo dall’antica, e questo doveva avvenire da due punti
di vista: per il metodo della ricerca e poi per il contenuto dottrinario
del sapere.
Il centro della scienza galileiana è dato dal concetto di
esperimento, che si riferisce in sintesi alla stessa esperienza nel suo
significato attivo, in quanto procede costruttivamente, interrogando i
fenomeni della natura ed elevandosi da essi progressivamente alle
leggi che li governano. Fondamento della ricerca galileiana è
l’esperienza sensibile congiunta con la ragione perché il processo
induttivo (=dal particolare all’universale) comporta la formulazione di
ipotesi, la critica del dato e quindi la verifica delle ipotesi proposte, per
poter infine pensare all’enunciato della legge o forma dei fenomeni. Il
compito della ragione non è però solo quello di interpretare
l’apparenza sensibile e di correggere i possibili errori del senso, bensì
anche quello di fornire alla scienza i concetti e le categorie che
rendono i fenomeni pensabili e suscettibili di leggi universali.
Il fondamento della scienza galileiana vuole poi essere
assolutamente oggettivo. In altre parole, la scienza si pone come
concatenazione causale dei fatti perché già l’ordine della natura rivela
la costanza e la necessità del rapporto causale. La scienza ha per
Galilei possibilità di successo perché la natura, cioè il complesso dei
fatti e delle cose sperimentabili, è immutabile. La natura è un ordine
oggettivo e causalmente strutturato di relazioni governate da leggi e la
scienza è un sapere sperimentale-matematico valido per tutti. Ciò vale
anche per un altro concetto molto importante per Galilei, quello di
quantità. Nel mondo vi è una “immanente geometria” perché i
caratteri con cui Dio ha scritto il grande Libro della Natura sono fatti
– dice Galilei – di triangoli, cerchi e altre figure geometriche. Per il
resto la natura è vista come movimento, e tutte le modificazioni dei
sensi, soggettive nel loro apparire, sono, in ultima analisi, prodotte
dalla posizione e dal movimento delle particelle minime della materia.
Tali presupposti permettono a Galilei di fare a meno del
qualitativismo medievale e dei presupposti metafisici a cui era legato.
La scienza galileiana è perciò scienza della quantità, ossia delle
determinazioni fenomeniche della realtà in quanto sono sperimentabili
coi sensi e misurabili col calcolo matematico. Quando Galilei parla di

148
“sensate esperienze e certe dimostrazioni” vuole proprio ribadire che la
scienza deve basarsi sia sull’osservazione che sulla teoria.
La scienza galileiana vuole in ultimo essere realistica e non
metafisica. Galilei dice chiaramente che voler penetrare l’essenza vera
delle sostanze naturali è impresa impossibile ed impresa vana, mentre
l’uomo deve accontentarsi di venire a conoscenza delle affezioni dei
corpi naturali, cioè dei fenomeni stessi. La concezione galileiana mise
così in crisi i concetti millenari di essenza e di causa finale, senza che
però gli venisse mai in mente il problema di un eventuale in sé che stia
dietro i fatti e di cui i fatti stessi siano l’apparire.

APPENDICE : IL PROCESSO A GALILEI

L’importanza di Galileo come scienziato sta tutta nella storia


della fisica: il suo contributo all’astronomia è stato praticamente nullo.
Nell’Italia controriformistica, la teoria copernicana era tranquillamente
insegnata accanto a quella tolemaica : in assenza di prove certe, l’una
valeva l’altra. Vedremo adesso che cosa era in realtà successo.
Galileo era certo un genio, ma fu fin troppo conscio di
esserlo, un genio, e fu questo lato del suo carattere che lo portò ad
impegolarsi in alcune penose situazioni che gli costarono parecchio20.
Tutto il favore che lo scienziato pisano godeva presso la corte romana
gli valse le invidie di molti, che lui, del resto, non smorzava affatto ma
anzi rafforzava. Occorreva dunque mettere Galileo in urto con il
clero, suo principale protettore. I suoi avversari fecero circolare certe
sue lettere in cui egli diceva apertamente che la Chiesa doveva ormai
decidersi ad ammettere che il passo dell’Antico Testamento in cui
Giosuè ferma il Sole era sbagliato (Giosuè, 10, 12-13). Si arrivò al
punto che la Chiesa, non potendo più tacere, fece intervenire il
cardinale Roberto Bellarmino, il quale, dopo una accurata ricerca,
lasciò cadere l’accusa di eresia (in fondo erano lettere private) e pregò
semplicemente Galileo di non sostenere il sistema copernicano come
fatto accertato, ma solo in quanto seria ipotesi alternativa. (Si noti, en
passant, che la rotazione della Terra verrà dimostrata dal famoso

20 Cfr. R. Cammilleri, Storia dell’Inquisizione, Newton Compton, Roma 1997, p. 67-72.

149
pendolo di Foucault nel 1851; che Cartesio non credeva nel sistema
copernicano; che Laplace osservava che detto sistema non era
provato; Poincaré lo giudicava ancora una congettura). A Galileo
venne dunque richiesto di occuparsi di scienza e non di teologia. Egli
accettò di riportare il proprio insegnamento “copernicano” nel suo
ambito naturale, quello delle teorie scientifiche. Roma indorò la pillola
raddoppiandogli gli appannaggi e organizzando un ricevimento a
Corte in suo onore. Galileo per il momento abbozzò, ma non
demorse. Poco dopo, infatti, egli credette di aver trovato la prova
della rotazione terrestre nelle maree : Keplero stesso gli scrisse
facendogli presente che la cosa non reggeva ma Galileo si intestardì (a
proposito, Galilei non accettò mai la teoria di Keplero delle orbite
ellittiche dei pianeti). Pubblicò così il Dialogo dei massimi sistemi(1632) in
cui esalta la teoria copernicana come l’unica assolutamente certa.
Questo era davvero troppo per la pazienza della Chiesa.
L’Inquisizione convocò Galileo. Dapprima egli cercò di prendere
tempo, mandando certificati medici (aveva ormai 68 anni!), ma poi
dovette andare. Gli fu risparmiata la prigione, anzi fu alloggiato prima
in un appartamento di cinque stanze, con servitore e vista sui giardini
vaticani e poi, dopo la condanna, nella villa dei Medici al Pincio. La
condanna fu espressa a risicata maggioranza. Galilei l’accettò e abiurò
ringraziando i giudici per la loro clemenza e poté ritornare nella sua
vita di Arcetri a continuare i suoi studi. L’unico obbligo fu quello di
recitare una volta la settimana i sette salmi penitenziali (pena che
decadde dopo tre anni ma che Galileo, da buon cristiano, continuò di
sua volontà). Galilei si spense nel 1642 e al suo capezzale giunse da
Roma l’indulgenza plenaria e la solenne benedizione apostolica.

BIBLIOGRAFIA
F. Bacon, Opere filosofiche, UTET
G. Galilei, Opere, ed. Ricciardi
I. Newton, Principi matematici della filosofia naturale, UTET
Geymonat, Galileo Galilei, Einaudi
Westfall, Newton, Einaudi

150
ISAAC NEWTON

(1643-1727)

Una leggenda diffusa da Voltaire racconta che l’idea della


gravitazione è venuta in mente a Newton osservando la caduta di una
mela : egli si sarebbe allora domandato che cosa sarebbe accaduto se
la mela fosse caduta da un albero alto quanto la Luna. In realtà la
scoperta di Newton non nacque tanto da una illuminazione
improvvisa quanto piuttosto dal perfezionamento di tentativi
anteriori. Già Copernico aveva riconosciuto la gravità come una forza
che attrae tra loro i corpi celesti. Huygens aveva dato la formula della
forza centrifuga (nell’opera De vi centrifuga, del 1659, ma pubblicata
postuma nel 1703) e aveva formulato la prima teoria ondulatoria della
luce (nel Trattato sulla luce, 1678). Inoltre l’italiano Giovanni Alfonso
Borelli aveva già osservato nel 1666 che, per mantenere i pianeti nelle
loro orbite, deve corrispondere alla forza centrifuga un’altra forza,
centripeta o attrattiva. Nel 1682 il francese Picard, in una seduta della
Royal Society di Londra, fornì l’esatta misura del raggio della Terra.
Newton fece i suoi calcoli e trovò allora la conferma definitiva
della sua legge. Solo dopo questa conferma egli si decise a comunicare
al mondo la sua scoperta, dapprima con le Proposizioni sul moto (1684) e
poi nel suo capolavoro, i Principi matematici della filosofia naturale (1687).
La sua legge della gravitazione universale sostiene che i corpi si attraggono
proporzionalmente al prodotto delle masse e in ragione inversa del quadrato delle
distanze.
La teoria della gravitazione di Newton si fonda sulle leggi di
Keplero ma essa permette di correggere quelle leggi stesse: vi sarà
infatti attrazione non solo tra il Sole e i pianeti e tra pianeti e satelliti,
ma anche tra i pianeti stessi. Newton poté così riconoscere che la
Terra non descrive intorno al sole un’ellisse, ma una curva più

151
complicata, una ellisse perturbata dalla azione degli altri pianeti che le
sono intorno. La dottrina di Newton non riesce tuttavia a spiegare il
fatto che il pianeta abbia una velocità iniziale. Da dove gli deriva
questa velocità? Newton ammette qui come causa l’atto creativo di
Dio, che avrebbe comunicato ai corpi celesti l’impulso iniziale.
Nel campo della dinamica, Newton ha distinto la massa dal
peso : la massa è la quantità di materia che non cambia mai, mentre il
peso è una forza che varia a seconda della regione del globo dove il
corpo si trova. Per primo, Newton ha enunciato inoltre il principio
secondo cui ad ogni azione segue una reazione uguale e contraria. Ha
così stabilito i tre principi fondamentali della dinamica : il principio di
inerzia; quello della proporzionalità tra la forza e l’accelerazione;
quello di azione e reazione.
Alla meccanica di Newton è fondamentale il principio del moto
assoluto, che suppone a sua volta quello di uno spazio e di un tempo
assoluti . Infine, per quanto riguarda la luce, egli sostenne la teoria
corpuscolare della luce (si ricordi che tali concetti saranno messi in crisi
solo con la teoria della relatività di Einstein).
L’ideale di Newton, secondo quanto detto nei Principia, è una
scienza puramente descrittiva ( hypotheses non fingo, non invento ipotesi).
Egli afferma che vi sono quattro regole del metodo scientifico o,
meglio, del “filosofare” : 1) si devono ammettere solo quelle cause
che sono necessarie per spiegare i fenomeni, giacché la natura non va
nulla invano; 2) effetti dello stesso genere devono sempre essere
attribuiti alla stessa causa; 3) le qualità che appartengono ai corpi di
cui si può fare esperienza possono essere considerate come
appartenenti a tutti i corpi in generale : è il principio della induzione
scientifica 21; 4) le proposizioni raggiunte mediante induzioni devono
essere considerate vere fino al momento in cui altri fenomeni le
confermino interamente (cfr. Principi matematici della filosofia naturale,
trad. it. Torino, UTET, 1989, libro III, pp.609-613).

21che sarà criticato dal filosofo Karl Popper, nel suo Logica della scoperta scientifica. Cfr. più oltre
cap. 49.

152
THOMAS HOBBES

(1588-1679)

Il concetto di scienza
L’intento di Hobbes è quello di applicare anche alle discipline
morali e politiche la stessa rigorosità che è tipica delle scienze
matematiche. Questo è possibile perché, secondo Hobbes, una vera e
propria conoscenza dimostrativa a priori, una scienza insomma, è
possibile soltanto per gli oggetti prodotti dall’uomo : l’uomo può
conoscere bene solo quello che fa (lo dirà anche Vico). Da questo
punto di vista, sono vere scienze appunto la matematica, ma anche
l’etica e la politica. Dunque, secondo Hobbes, noi possiamo trattare
l’etica e la politica come fossero una scienza esatta quale ad es. la
matematica, visto che esse, nelle intenzioni di Hobbes, possono essere
fondate su pochi principi da cui possiamo poi dedurre tutto il resto.
“la filosofia civile è dimostrabile - dice Hobbes – perché noi stessi
formiamo lo Stato”. Le cose naturali sono invece state prodotte da
Dio. Per questo motivo, non è possibile, per esse, una dimostrazione
necessaria. Si può risalire solo dagli effetti alle loro cause supposte;
quindi possiamo giungere soltanto ad una conoscenza approssimativa,
parziale, probabile degli eventi naturali.

I corpi
Oggetto della scienza sono le realtà generabili (delle quali si
può conoscere a priori o a posteriori la causa produttrice o efficiente).
E le realtà generabili sono i corpi. Tutto è corpo e movimento. Il corpo è
l’unica realtà, cioè l’unica sostanza che esista realmente in sé; e il movimento è
l’unico principio di spiegazione di tutti i fenomeni naturali, giacché ad esso si
riducono anche i concetti di causa, forza e azione. Ecco il famigerato

153
materialismo di Hobbes: esistono solo i corpi perché solo i corpi possono agire o
subire un’azione. Da questo punto di vista, Dio stesso è corpo: dire che Dio
è incorporeo – sostiene Hobbes – non significa dare a Dio un
attributo ma solo un attributo onorifico. Così neppure lo spirito
umano può essere incorporeo: l’anima umana è materiale nel senso
appunto che i suoi atti sono movimenti prodotti dai movimenti dei
corpi esterni.

Il linguaggio
L’uomo si differenzia dagli animali a causa del linguaggio, che
consiste nell’uso di segni convenzionali. In particolare, il linguaggio
umano è composto da parole, cioè segni che significano i concetti
delle cose che si pensano. Il linguaggio rende possibile il
ragionamento, che è una sorta di calcolo, cioè consiste nel vedere o
meno l’accordo tra due cose. Così ad es. due nomi sono uniti
(addizionati) per fare una affermazione, due affermazioni per fare un
sillogismo, molti sillogismi per fare una dimostrazione (è insomma un
aggiungere o sottrarre concetti). La scienza stessa cioè il linguaggio
scientifico non è altro che un tentativo di dimostrare la connessione
tra causa ed effetto, per cui da una causa si genera un determinato
effetto.

L’etica
Anche in ambito etico è una questione di linguaggi : sono le
parole che consentono quelle generalizzazioni che portano alla
elaborazione delle regole morali che guidano la condotta degli uomini.
Il giusto e l’ingiusto sono per Hobbes delle convenzioni, per cui le
valutazioni morali sono soggettive, cioè relative all’individuo e alla
situazione in cui si trova. In altri termini, i valori non sono né verità
eterne divine né verità naturali che possano imporsi all’uomo. In
generale si chiama “bene” ciò che si desidera e “male” ciò che si odia;
e poiché il raggiungimento di ciò che si desidera procura “piacere”, le
cose che danno piacere sono considerate belle e giovevoli. Se “giusto”
è quello che gli uomini hanno convenuto di ritenere tale, e se gli
uomini, per uscire dallo stato di natura si sono accordati nel
sottomettere la loro volontà ad un altro, allora “giusto” è quello che
vuole lo Stato, il sovrano, il Leviatano.

154
Riguardo al problema della libertà, Hobbes dice che quando
nell’uomo vi sono differenti desideri e stati d’animo, e si presentano le
conseguenze delle azioni, si ha la deliberazione. Essa sfocia in un atto
della volontà che decide di agire o non agire. L’unica libertà che vi
può essere è quella di azione, quando la volontà non è impedita nelle
sue manifestazioni esteriori; la volontà è comunque necessitata da
motivi che sono dovuti alla totalità della natura. L’uomo non può mai
neppure giungere ad uno stato definitivo di quiete o di tranquillità : un
fine ultimo o un sommo bene non hanno senso.

La politica
Anche la politica è una scienza : essa è fondata su pochi
principi rigorosi da cui si può dedurre tutto il resto. Se si scoprono i
principi necessari dell’azione umana, si potrà, partendo da essi,
costruire una politica rigorosa, more geometrico.
Vi sono due postulati certissimi della natura umana : il primo
sostiene che vi è una bramosia naturale per cui ogni uomo pretende di
godere da solo dei beni comuni; questo postulato esclude che l’uomo
sia un animale sociale e socievole, “politico”, come tradizionalmente
veniva affermato (si pensi ad Aristotele). Anzi, homo homini lupus, dice
Hobbes: l’uomo è un lupo verso l’altro uomo. Lo stato di natura è
uno stato di guerra incessante di tutti contro tutti : bellum omnium contra
omnes. E’ un istinto naturale che porta ciascuno a far di tutto per
difendersi e prevalere sugli altri. Da qui deriva il secondo dei postulati :
l’uomo tende naturalmente a rifuggire dalla morte violenta. L’uomo
ha paura di morire. Non solo è egoista e vanitoso, è anche vile. Solo la
paura della morte porta l’uomo ad unirsi in società. Infatti chi dà la
sicurezza della vita è solo lo Stato. Lo Stato è l’opposto dello stato di
natura. Del resto per Hobbes non ci sono alternative: “Fuori dello
Stato è il dominio delle passioni, la guerra, la paura, la povertà,
l’incuria, l’isolamento, la barbarie, l’ignoranza, la bestialità”.
Si badi: questa condizione di guerra totale non si è però mai
potuta realizzare in maniera totale. Forse, se l’uomo fosse stato privo
di ragione, la condizione di guerra totale sarebbe stata insuperabile.
Ma la ragione umana è la capacità di prevedere e di provvedere,
mediante un calcolo (come accennato prima), alle esigenze umane.
Dunque è la ragione stessa che ha suggerito all’uomo le varie norme e
i principi generali da cui derivano le varie leggi naturali del vivere
civile, proibendo a ciascun uomo di fare ciò che arrecherebbe danno

155
o distruzione della vita ecc. La legge naturale è quindi per Hobbes un
prodotto della ragione umana e non è un ordine divino, un qualcosa
che provenga da una divinità, come pensavano gli antichi. Essa è
comunque una attività finita e condizionata dalle diverse circostanze,
è una tecnica calcolatrice che opera le scelte più convenienti.
Vi sono poi tre norme che sono dirette a sottrarre l’uomo
dagli istinti distruttivi e ad imporgli una disciplina. La prima norma è:
l’uomo deve sempre ricercare e conseguire la pace (pax est quaerenda).
La seconda è : l’uomo deve rinunciare al suo diritto su tutto e
accontentarsi di avere tanta libertà quanta ne riconosce agli altri.
Questa seconda legge permette l’uscita dallo stato di natura ed
implicano che gli uomini stringano dei patti fra loro. La terza legge è :
l’uomo deve rispettare i patti (pacta sunt servanda).
Gli uomini rinunciano al loro diritto illimitato dello stato di
natura e lo trasferiscono ad altri : questo è il contratto. Si crea così lo Stato o
società civile o persona civile (congloba la volontà di tutti). Il sovrano
è colui che rappresenta lo Stato o società o persona civile. Il monarca
ha un potere assoluto (assolutismo), in molteplici sensi : in primo luogo,
una volta costituito lo Stato, i cittadini non possono dissolverlo; il
potere sovrano è inoltre indivisibile, proprio nel senso che non può
essere distribuito tra poteri diversi; il giudizio sul bene e sul male (la
legge civile) appartiene solo allo Stato e non ai cittadini; la sovranità
esige obbedienza e dunque esclude la liceità del tirannicidio; lo Stato
ovvero il sovrano non è soggetto alle leggi dello Stato stesso, non ha
obblighi e comprende in sé anche l’autorità religiosa (in altri termini,
Chiesa e Stato coincidono). Il Regno di Cristo non è di questo
mondo: di conseguenza non ci può essere una autorità (come ad es. il
papato romano) che pretenda di rappresentare il Regno di Cristo sulla
terra, dato che questo Regno non si può attuare quaggiù. Né ha alcun
fondamento la distinzione fra leggi civili e leggi religiose, non
essendovi altra autorità se non quella temporale. In altri termini, non
vi sono due poteri ma uno solo e quest’unico potere è lo Stato. La
Chiesa è subordinata al potere civile, il quale ha l’autorità di
nominarne i ministri, di convocarne le assemblee ecc. Nello Stato
hobbesiano l’individuo, attraverso il patto, è obbligato ad obbedire a
tutto ciò che il sovrano comanda e non può giudicare se il comando
sia giusto o ingiusto. Comunque, neppure un tale tipo di Stato può
comandare ad un uomo di uccidersi o di non difendersi o di non
prendere qualcosa necessario per vivere.

156
NOTE BIOBIBLIOGRAFICHE

Thomas Hobbes nacque a Malmesbury il 5 Aprile 1588 da


Thomas, vicario di Westport. La madre se n’era sgravata in anticipo,
terrorizzata dalle notizie sull’arrivo della Armada spagnola, per cui il
filosofo dirà di essere nato gemello della paura. Il padre fu cacciato
dalla parrocchia e sparì per sempre, abbandonando la moglie con tre
figli piccoli, di cui si prese cura uno zio paterno, Francis, uomo
facoltoso e senza figli. Il giovane Thomas rivelò presto una notevole
predisposizione per gli studi (a 14 anni tradusse la Medea di Euripide
dal greco in giambi latini), per cui lo zio gli fornì i mezzi per entrare
ad Oxford. Dopo il baccellierato, entrò come precettore in casa di
William Cavendish, conte di Devonshire. Accompagnò così il figlio
del conte in diversi viaggi sul continente, visitando tra l’altro la
Francia e l’Italia. Ebbe quindi occasione di conoscere Galilei e i circoli
cartesiani facenti capo a Padre Mersenne. Cominciò a scrivere gli
Elementi di legge naturale e politica, ma, timoroso delle reazioni degli
ambienti britannici, si stabilì in Francia e vi rimase per undici anni.
Qui scrisse, tra l’altro, su sollecitazione di Padre Mersenne, le famose
Obiezioni alle Meditazioni di Descartes. A 41 anni pubblicò la sua prima
opera che fu una traduzione dal greco: le opere di tucidide. Pubblicò
finalmente nel 1642 uno dei suoi capolavori, il De cive, il quale doveva
far parte di una trilogia filosofica. Nel 1651 fece pubblicare in
Inghilterra la traduzione inglese del De Cive e il Leviatano, forse la sua
opera più conosciuta. Alcuni anni dopo, pubblicò il De corpore (1655),
che, con il De homine (1658) concluse idealmente la sua trilogia. A 86
anni tradusse integralmente l’Iliade e l’Odissea. Nel 1678, a novant’anni,
pubblicò l’ultima sua opera, il Decameron physiologicum, e l’anno
seguente, il 4 dicembre 1679, morì, dopo un attacco di paralisi, in casa
dei conti di Devonshire. Fu sepolto nella cappella del castello, dove le
sue ossa si trovano tuttora.

BIBLIOGRAFIA
Hobbes, Leviatano, Laterza
Pacchi, Introduzione a Hobbes, “i filosofi”, Laterza

157
RENE’ DESCARTES

(1596-1650)

Introduzione
Cartesio è considerato il "padre" della filosofia moderna
per aver proposto un nuovo metodo di ricerca. Una nuova
metodologia doveva, per lui, aprire la possibilità di una riforma del
sapere connessa con la riforma dell’uomo e con l’instaurazione di
una saggezza troppo a lungo smarrita. La filosofia tradizionale,
basata ancora sul sapere aristotelico, era diventata totalmente
estranea alle nuove teorizzazioni e scoperte. E’ urgente una
filosofia che giustifichi la comune fiducia nella ragione : una
filosofia che sia metafisicamente fondata, capace di sorreggere
nella ricerca della verità, e che dia un metodo universale e fecondo.
Il metodo che Cartesio cercò e che ritenne di aver trovato è una
guida per l’orientamento dell’uomo nel mondo. Esso deve
condurre ad una filosofia non puramente speculativa, ma anche
pratica, per la quale l’uomo possa rendersi padrone e possessore
della natura. In altre parole, il metodo deve essere un criterio unico
e semplice di orientamento che serva all’uomo in ogni campo
teoretico e pratico e che abbia come ultimo fine il vantaggio
dell’uomo nel mondo. Cartesio doveva dunque formulare le regole
del metodo tenendo presente il procedimento matematico, in cui
esse sono già in qualche modo presenti; fondare con una ricerca
metafisica il valore assoluto e universale del metodo; dimostrare la
fecondità del metodo nelle varie branche del sapere.

158
Le regole del metodo
Vi sono quattro regole del metodo. La prima è quella della
evidenza, per la quale non si accetta mai nulla di vero se non è evidente.
Ed evidenza vuol dire intuizione chiara e distinta di tutti gli oggetti del
pensiero e l’esclusione di qualsiasi dubbio. La seconda regola è quella
della analisi, per cui un problema è risolto dapprima nelle sue parti più
semplici, da considerarsi separatamente. Las terza regola è quella della
sintesi, per cui si passa dalle conoscenze più semplici a quelle via via
più complesse. La quarta regola è quella della enumerazione e revisione,
per poter “fare in ogni caso enumerazioni così complete e revisioni
così generali da essere sicuro da non omettere nulla”. L’enumerazione
controlla la completezza dell’analisi, la revisione la correttezza della
sintesi.
Sono regole semplici, che sottolineano la necessità che si abbia
una piena consapevolezza dei passaggi in cui si articola una qualunque
ricerca rigorosa. Cosa comporta l’assunzione di un tale modello? In
generale, esso comporta il rifiuto delle nozioni approssimative,
imperfette, fantastiche o anche solo verosimili che erano tipiche di
gran parte del sapere del tempo, troppo astratto e formale.

Il dubbio e il cogito
Ora, trovare il fondamento di un metodo che deve essere la
guida sicura della ricerca in tutte le scienze è possibile solo con una
critica radicale del sapere già dato. Cartesio ritiene che nessun grado o
forma di conoscenza possa sottrarsi al dubbio. Si può e quindi si deve
dubitare non solo delle conoscenze sensibili ma anche di quelle
matematiche.. In tal modo il dubbio si estende ad ogni cosa e diventa
universale (dubbio iperbolico). Ma proprio nel carattere radicale del
dubbio si presenta una prima certezza. Io posso ammettere di
ingannarmi o di essere ingannato in tutti i modi possibili; ma per fare
ciò io debbo, per lo meno, esistere, cioè essere qualcosa e non nulla.
La proposizione io esisto è dunque la sola assolutamente vera perché il
dubbio stesso la riconferma : può dubitare solo chi esiste. Se dubito,
vuol dire che penso; e se penso, allora esisto. Cogito ergo sum, penso
dunque sono. D’altra parte, io non potrei certo dire di esistere come un
corpo, giacché non so ancora nulla sull’esistenza o meno dei corpi;
posso dire però di esistere almeno come una cosa che dubita, cioè che
pensa, quindi come cosa pensante, res cogitans. La proposizione “io
esisto” equivale dunque a quest’altra: “io sono un soggetto pensante”,

159
cioè spirito o anima. Su questa certezza originaria, che è nelle stesso
tempo una verità necessaria, si può dunque fondare ogni altra
conoscenza.
L’applicazione delle regole del metodo ha così portato ad una
verità che, a sua volta, conferma la validità di quelle regole, le quali si
ritrovano fondate e quindi possono essere assunte a norma di
qualsiasi sapere. Le regole sono, in altre parole, fondate sulla acquisita
certezza che il nostro io come realtà pensante si presenta con i
caratteri della chiarezza e della distinzione. D’ora in poi l’attività
conoscitiva dovrà ricercare la chiarezza e la distinzione; così come
ogni altra verità sarà accolta solo se esibirà i connotati della chiarezza e
della distinzione.
La filosofia diventa così soprattutto gnoseologia, dottrina della
conoscenza, e non ontologia, dottrina dell’essere. E’ questa la svolta
che Cartesio imprime alla filosofia dell’Occidente, che consiste
appunto nella perentoria attribuzione al pensiero, e quindi al soggetto
umano, della capacità e della responsabilità di fondare la conoscenza.
Lasciando alle spalle una tradizione secolare che parlava dell’essere,
Cartesio costituisce il cogito come il principio primo della filosofia.

Le idee
Il principio del cogito, però, non mi rende sicuro che della mia
esistenza. Infatti io sono un essere pensante che ha delle idee (a
proposito, l’idea è per Cartesio ogni oggetto del pensiero; è proprio da
lui che deriva la nostra accezione del termine). Ma come poter
dimostrare che esistono le altre cose, oltre a me stesso? Per
rispondere, Cartesio comincia col suddividere le idee in tre gruppi : vi
sono le idee innate (nate con me, presenti in me fin dalla nascita), le idee
avventizie (provenienti dalle cose fuori di me) e le idee fattizie (trovate,
inventate da me). Al primo tipo appartiene la capacità stessa di
pensare e di avere idee; al secondo appartengono le idee delle cose
naturali; al terzo le idee delle cose inventate o fantastiche. Ora, per
scoprire se a qualcuna di queste idee corrisponde una realtà esterna,
non c’è altro da fare se non chiedersi qual è la causa di esse e … tirare
in ballo Dio stesso. Cartesio ritiene infatti che, per quanto riguarda le
idee delle cose naturali, esse non contengano nulla di così perfetto
che, eventualmente, non possa essere stato prodotto da me.

160
Le prove dell’esistenza di Dio
Per quanto riguarda invece l’idea di Dio, secondo Cartesio,
non posso averla inventata io stesso. Io infatti non ho tutte quelle
perfezioni che l’idea di Dio rappresenta (si tenga presente che per
Cartesio la causa di un’idea deve avere sempre almeno tanta
perfezione quanta è quella che l’idea stessa rappresenta). La causa
dell’idea di una sostanza infinita quale è Dio non posso essere io che
sono finito; questa causa deve appunto essere una sostanza infinita
che, pertanto, deve esistere.
La semplice presenza in me dell’idea di Dio dimostra
l’esistenza di Dio : questa è la prima prova che può dimostrare
l’esistenza di Dio. In secondo luogo, per dimostrare l’esistenza di Dio
posso considerare la finitudine del mio io : io sono finito e imperfetto,
come è dimostrato dal fatto che dubito; se fossi la causa di me stesso,
mi sarei dato le perfezioni che concepisco nell’idea di Dio; è dunque
evidente che non mi sono creato da me e che ha dovuto crearmi un
essere che ha tutte le perfezioni di cui io ho la semplice idea. Come
terza prova, Cartesio prende di nuovo spunto dall’argomento
ontologico : come non è possibile concepire un triangolo che non
abbia gli angoli interni uguali a due retti, così non è possibile
concepire Dio come non esistente. infatti l’essere perfettissimo non
può essere privato della perfezione dell’esistenza; l’esistenza gli
appartiene con la stessa necessità del triangolo. In altre parole, Dio
esiste in virtù della sua stessa essenza, per la sovrabbondanza di
essere, quindi di perfezione, che lo costituisce. In una battuta : che
essere perfettissimo sarebbe se non esistesse?

L’errore
Una volta riconosciuta l’esistenza di Dio, il criterio
metodologico dell’evidenza trova la sua ultima garanzia. Dio infatti non
può ingannarmi: la facoltà di giudizio di cui mi ha dotato non può essere
tale da farmi sbagliare, se viene adoperata rettamente. Dio è dunque
per Cartesio il principio e il garante di ogni verità. Tutto ciò che appare
chiaro ed evidente deve essere vero perché Dio lo garantisce come tale. Se quindi
ho l’idea di cose corporee che esistono fuori di me (e a questo punto
torniamo alla questione che si chiedeva se esistono delle cose fuori di
me) e che agiscono sui miei sensi, questa idea non può essere
ingannevole, e dunque devono esistere veramente delle cose corporee
corrispondenti alle idee che noi ne abbiamo. L’evidenza di questa idea

161
consente quindi di eliminare il dubbio che era stato avanzato sulla
realtà delle cose corporee e risponde alla domanda da cui eravamo
partiti.
Ma allora come è possibile l’errore? Esso dipende dalla volontà
umana, che è libera e quindi assai più estesa dell’intelletto, che è
limitato e procede a fatica nella conoscenza. In questa possibilità di
affermare o di negare quello che l’intelletto non riesce a percepire
chiaramente, risiede la possibilità dell’errore. Lo si può evitare
soltanto se ci si attiene alle regole del metodo e in primo luogo a
quella della evidenza.

La res extensa
Abbiamo visto che per Cartesio esiste la sostanza pensante e
anche il mondo esterno. Ora, di tutto quello che mi viene dato dai
sensi, come poter distinguere quello che appartiene veramente alle
cose da quello che invece è accidentale? Lo posso fare applicando il
solito metodo delle idee chiare e distinte, e cioè ammettendo come
reali solo quelle proprietà che riesco a concepire in maniera distinta.
La conclusione è che, del mondo materiale, si può considerare come
essenziale solo la proprietà della estensione (=occupare spazio), perché
solo questa è concepibile in modo chiaro e distinto dalle altre. Infatti
tutte le altre proprietà come il colore, il sapore, il peso ecc. sono
secondarie, perché di esse non è possibile, secondo Cartesio, averne
un’idea chiara e distinta. Il mondo delle cose materiali è così ridotto
alla estensione : ogni cosa è res extensa, contrapposta alla res cogitans, al
pensiero. Cartesio ha così diviso la realtà in due parti ben distinte : da
un lato la sostanza pensante, cioè l’io consapevole, libero, spirituale;
dall’altro la sostanza estesa, che è spaziale, inconsapevole e, soprattutto,
meccanicamente determinata. E’ questo un punto di immensa portata
rivoluzionaria, e da esso dipende la possibilità di avviare un discorso
scientifico rigoroso e nuovo.

Il mondo
Il mondo naturale è infatti concepito da Cartesio come
un’immensa macchina, come un enorme meccanismo in cui tutto può essere
spiegato con cause naturali, meccaniche, fisiche e con poche leggi
fondamentali, escludendo così ogni intervento sia magico che
soprannaturale. Cartesio ammette certo Dio, che al principio ha

162
creato la materia con una determinata quantità di quiete e di moto ed
ha dato inizio al movimento, ma a parte quello Egli non interviene
altrimenti e quindi l’universo “se la cava da sé”, avendogli Dio dato
delle leggi immutabili che possono spiegare ogni evento. Queste leggi,
per Cartesio, sono tre : il principio di conservazione, per cui la quantità di
moto rimane costante; il principio di inerzia, per cui ogni cosa persevera
nel suo stato se non interviene una causa esterna a farla cambiare;
infine il principio per cui ogni cosa tende a muoversi in linea retta.

Il corpo umano, il pensiero, la vita


Non solo l’universo fisico ma anche le piante, gli animali e
persino il corpo umano è un meccanismo. Ciò che chiamiamo vita, non
dipende da alcun autonomo principio vitale ma è riducibile ad
elementi sottilissimi e purissimi (gli spiriti vitali, che sono le forze
meccaniche che agiscono nel corpo), i quali, portati dal cuore al
cervello per mezzo del sangue, si diffondono per tutto il corpo e
presiedono alle principali funzioni dell’organismo. Insomma l’anima,
per Cartesio, è pensiero e non vita, e la sua separazione dal corpo non
provoca dunque la morte, che è determinata da cause fisiologiche.
Nel caso dell’uomo, come poter allora spiegare il rapporto tra
le due sostanze nettamente separate, quali sono la res cogitans, il mio io
pensante, e la res extensa, cioè il mio corpo? L’anima è infatti una realtà
inestesa, mentre il corpo occupa spazio. Sono due realtà che non
hanno nulla in comune. Tuttavia l’esperienza ci attesta una costante
interferenza tra le due. Come poterla appunto spiegare? Cartesio
introduce, a questo punto, la nozione di ghiandola pineale, che dovrebbe
risolvere il problema. essa sarebbe situata al centro del cervello, dove
ha sede l’anima, cioè il pensiero. essendo l’unica parte del cervello che
non è doppia, essa può unificare le sensazioni che ci vengono dagli
organi di senso, e chiarire il rapporto tra le due res.

La morale
Nell’anima Cartesio distingue tra azioni ed affezioni. Le prime
dipendono dalla volontà, le seconde sono involontarie e sono
costituite da percezioni, sentimenti, emozioni. La forza dell’anima
consiste evidentemente dal non lasciarsi dominare dalle emozioni
(tristezza, gioia ecc.), che, comunque, di per sé, non sono nocive. Esse
però tendono sovente a far apparire le cose diverse da come sono e

163
dunque l’uomo deve farsi guidare non da esse ma dall'esperienza e
dalla ragione, e solo così potrà evitare gli eccessi e distinguere nel
giusto valore il bene e il male. In questo dominio delle emozioni
consiste in pratica la saggezza.
Cartesio dà anche alcune regole di comportamento, che
possono essere prese a fondamento di una morale : egli le chiamò le
quattro regole della morale provvisoria. La prima regola è quella di obbedire
alle leggi e ai costumi, conservando la religione tradizionale e
seguendo le opinioni più moderate; la seconda regola è quella di
perseverare nelle proprie azioni una volta che sono state decise e
ritenute valide; la terza regola è quella di cercare di vincere se stessi
piuttosto che la fortuna e cambiare i propri pensieri più che l’ordine
del mondo; la quarta regola è quella di progredire il più possibile nella
conoscenza del vero. Comportandosi così, l’uomo può sperare di
raggiungere la felicità già in questa vita.

NOTE BIOGRAFICHE
René Des Cartes (latinizzato in Cartesius, da cui l’italiano
Cartesio) nacque a La Haye nella Turenna nel 1596. Frequentò il
collegio dei Gesuiti a La Flèche, dove gli fu impartita un’educazione
molto tradizionale. Studiò quindi diritto all’università di Poitiers. Nel
1618 si arruolò nell’esercito di Maurizio di Nassau (la guerra dei
Trent’Anni era scoppiata appunto quell’anno) ed iniziò a viaggiare per
l’Europa. Ma neppure la conoscenza di paesi diversi soddisfece la sua
ricerca di un sapere sicuro. Così “un giorno presi la decisione di
studiare me stesso”. Il risultato fu la stesura di un’opera in cui
Cartesio espresse le sue idee sulla natura e sull’uomo. L’opera si
sarebbe dovuta chiamare Il mondo o Trattato della luce. La condanna di
Galileo lo indusse però a pubblicare solo parti di quel libro più
strettamente scientifiche, a cui premise il Discorso sul metodo (1637). in
seguito scrisse le Meditazioni metafisiche, con le Obiezioni e le relative
Risposte(1641-47). Una esposizione sistematica del suo pensiero la
troviamo nei Principia philosophiae (1644-47) e nelle Passioni dell’anima
(1649). Su invito della Regina Cristina di Svezia si trasferì a Stoccolma
e qui morì l’11 Febbraio 1650.
Bibliografia
Cartesio, Opere filosofiche, Laterza o UTET

164
BLAISE PASCAL

(1623-1662)

Introduzione
C'è una famosa pagina di Chateaubriand che riassume la vita
di Blaise Pascal. Nel Genio del cristianesimo egli scrisse : “Ci fu un uomo
che a 12 anni, con aste e cerchi, creò la matematica; che a 16 compose il più dotto
trattato sulle coniche dall’antichità in poi; che a 19 condensò in una macchina una
scienza che è dell’intelletto; che a 23 anni dimostrò i fenomeni del peso dell’aria ed
eliminò uno dei grandi errori della fisica antica; che nell’età in cui gli altri
cominciano appena a vivere, avendo già percorso tutto l’itinerario delle scienze
umane, si accorge della loro vanità e volse la mente alla religione; che da quel
momento sino alla morte – avvenuta a 39 anni – sempre malato e sofferente, fissò
la forma della lingua in cui dovevano esprimersi Bossuet e Racine, diede il modello
tanto del motto di spirito più perfetto quanto del ragionamento più rigoroso; che
infine, nei brevi intervalli concessigli dal male, risolse quasi distrattamente uno dei
maggiori problemi della geometria e scrisse dei pensieri che hanno sia del divino che
dell’umano. Il nome di questo genio portentoso è Blaise Pascal”. E appunto dai
suoi famosissimi Pensieri, che avrebbero dovuto essere in realtà una
apologia (=difesa) della religione cristiana, possiamo iniziare per
illustrare la sua “filosofia”.

Il senso della vita e il divertissement


Per Pascal, la questione più importante e decisiva è
l’interrogativo sul senso della vita, dei cui mistero egli ha una
lucidissima consapevolezza. “Sono in un’ignoranza spaventosa di tutto …
Da ogni parte vedo soltanto infiniti… Tutto quello che so è che debbo presto
morire; ma quel che ignoro di più è, appunto, questa stessa morte, che non posso

165
evitare” (cfr. Pensieri, 194 B). Pascal ritiene “mostruoso” che gli uomini
possano mostrarsi indifferenti nei confronti del problema del senso
della vita: “Bisogna aver smarrito ogni sentimento per trascurare di venirne in
chiaro” (Ibid.). Eppure l’atteggiamento comune degli uomini nei
riguardi dei problemi esistenziali è proprio quello del divertissement :
questa distrazione indica l’oblio e lo stordimento di sé nella
molteplicità delle occupazioni quotidiane e degli intrattenimenti
sociali. Ma da che cosa vuole sfuggire l’uomo? Dalla propria infelicità
e dai supremi interrogativi riguardanti la vita e la morte. “Gli uomini,
non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l’ignoranza, hanno creduto meglio,
per essere felici, di non pensarci” (cfr. Pensieri, 168 B). Infatti quando
l’uomo non ha nulla da fare, sente il suo nulla, la sua insufficienza, la
sua impotenza, il suo vuoto interiore. Allora diventa triste, pieno di
rabbia e di disperazione, e soprattutto di noia, che è la rivelazione della
insufficienza dell’uomo a se stesso e della sua strutturale miseria. In
fondo il gioco, la conversazione, la guerra, il potere non sono ricercati
in vista della felicità, ma perché ci distolgono dal pensare a quella che
è la nostra vera condizione. Noi non pensiamo quasi mai al presente
ma è solo l’avvenire che ci interessa : “Così non viviamo mai, ma speriamo
di vivere, e, preparandoci ad essere felici, è inevitabile che non siamo mai tali”
(cfr. Pensieri, 172 B). L’uomo non deve chiudere gli occhi di fronte alla
sua miseria ma deve saper accettare, lucidamente, la propria
condizione e tutto ciò che essa implica. “L’uomo è manifestamente
nato per pensare; qui sta tutta la sua dignità e tutto il suo pregio; e
tutto il suo dovere sta nel pensare rettamente” (cfr. 146 B).

Spirito di geometria e spirito di finezza


Ma quale attività può servire all’uomo per capire qual è il
senso della vita? Purtroppo né la scienza né la filosofia sono adatte a
questo riguardo. La scienza, certamente, nel suo ambito proprio, è
sovrana. Pascal respinge ogni intrusione metafisica, teologica e ogni
principio di autorità. Però essa è limitata : i suoi poteri non sono mai
assoluti e i primi principi su cui si fonda sono indimostrabili. Ma dove
la ragione scientifica mostra la sua completa incapacità è proprio nel
campo dei problemi esistenziali. Alla ragione scientifica e
dimostrativa, Pascal oppone come via di accesso all’uomo la
comprensione ovvero il cuore: “Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non
conosce” (177 B). Questo antagonismo è espresso da Pascal nel
binomio tra lo spirito di geometria e lo spirito di finezza. Lo spirito di
geometria è la ragione scientifica, che ha per oggetto le cose esteriori e

166
procede dimostrativamente; lo spirito di finezza ha per oggetto l’uomo e
si fonda sul cuore, sul sentimento, sull’intuizione. Le cose di finezza si
sentono, si provano, più che non si vedono; e si stenta moltissimo a
farle sentire a quelli che non le sentono, e non si possono dimostrare
completamente. Lo spirito di finezza vede le cose in un sol colpo, con
un solo sguardo, senza ragionamento discorsivo. Comunque, un certo
grado di finezza è indispensabile anche per fondare il ragionamento
geometrico : anzi, i primi principi del sapere scientifico sono colti
proprio attraverso lo spirito di finezza. Tuttavia, lo spirito di finezza
ha, per oggetto specifico, il mondo umano. La morale, l’eloquenza, la
filosofia, ecc., sono fondate sullo spirito di finezza; mentre la scienza,
se è messa in relazione col destino ultimo dell’individuo, nn può che
risultare vana. La cosa più preziosa per l’uomo non è la scienza, bensì
la conoscenza dell’uomo in se stesso. “Bisogna conoscere se stessi;
quand’anche non servisse a trovare la verità, giova per lo meno a regolare la
propria vita. E non c’è nulla di più giusto” (66 B).

Il ruolo della filosofia


A differenza della mentalità comune e della scienza, la filosofia
si pone i massimi problemi esistenziali e metafisici : e in ciò risiede la
sua nobiltà. Ma, secondo Pascal, non riesce a risolverli. Le
dimostrazioni razionali dell’esistenza di Dio non sono autentiche
dimostrazioni perché non provocano la fede in chi non crede.
Secondo Pascal, l’esistenza di un creatore, parlando razionalmente,
non è né chiara né certa, ma rimane un interrogativo. Le prove
metafisiche di Dio raggiungono solo un Dio astratto, che appare
inutile e lontano dall’uomo, invece il Dio dei cristiani è un Dio vivo, è
il “Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe… è un Dio di amore, di consolazione
: un Dio che riempie l’anima e il cuore di coloro che possiede” (556 B).
Incapace di risolvere il problema di Dio, la filosofia è, per
Pascal, altrettanto incapace a spiegare la condizione dell’uomo.
L’uomo – dice Pascal – è compreso fra il tutto e il nulla. E’ un nulla di
fronte al tutto e un tutto di fronte al nulla. E’ in una via di mezzo fra
la totale ignoranza e la scienza assoluta. Le nostre capacità sono
limitate da due estremi: l’uomo vorrebbe essere felice ma risulta inetto
a realizzare effettivamente il bene e ad ottenere la felicità. L’uomo è
preso fra il volere e il non potere, ed è in dissidio con se stesso.
“Desideriamo la verità, e non troviamo in noi se non incertezza. Cerchiamo la
felicità, e non troviamo se non miseria e morte. Siamo incapaci di non aspirare

167
alla verità e alla felicità, e siamo incapaci di certezza e di felicità” (437 B). Però
la nostalgia di un bene totale e l’istinto verso una felicità piena vuol
dire che nell’uomo c’è la vocazione naturale verso un ordine superiore
di essere e di valore, ossia un barlume di grandezza e di nobiltà. La
stessa coscienza della propria miseria è già un segno di grandezza,
come la medesima facoltà di pensiero. “L’uomo è solo una canna, la più
fragile della natura; ma è una canna che pensa… Quand’anche l’universo lo
schiacciasse, l’uomo sarebbe pur sempre più nobile di quel che lo uccide, perché sa
di morire e conosce la superiorità che l’universo ha su di lui, mentre l’universo non
ne sa nulla. Tutta la nostra dignità sta, dunque, nel pensiero” (793 B).
L’essenza dell’uomo, la specificità della sua condizione, sta
proprio nella compresenza di miseria e grandezza, che fa di lui
qualcosa di unico. Lo sbaglio della filosofia, secondo Pascal, è stato
quello di aver sempre oscillato fra dogmatismo e scetticismo; non
solo, ma anche dal punto di vista dei principi pratici, gli uomini non
hanno saputo mettersi d’accordo, sulla base della sola ragione, sulle
regole del vivere e del comportamento : per alcuni, il bene è nella
virtù, per altri nel piacere, per altri ancora nella natura ecc. I cosiddetti
principi universali non sono altro che frutto di abitudine, interesse,
convenzione, forza, arbitrio. Di conseguenza, l’unica vera filosofia è
una sorta di metafilosofia, consapevole dei limiti della filosofia : “Beffarsi
della filosofia è filosofare davvero” (4 B). “Il supremo passo della ragione sta nel
riconoscere che c’è un’infinità di cose che la sorpassano” (267 B). Comunque, la
filosofia serve da stimolo per cercare altrove le risposte, che si
possono trovare nella rivelazione religiosa.

Il cristianesimo e la scommessa
Fra tutte le religioni, solo la cristiana è quella vera perché solo
essa riesce a spiegare che cos’è l’uomo : solo il cristianesimo e la
dottrina del peccato originale, parlando di una caduta della specie
umana, riescono a chiarire la specifica condizione umana. La religione
cristiana spiega, ad un tempo, la perenne inquietudine e frustrazione
dell’uomo che, nato per l’infinito, cerca vanamente nel finito la
soddisfazione del proprio desiderio di felicità, dimenticando che il
vuoto abissale e la carenza ontologica che porta dentro di sé possono
essere colmati solo da Dio. Ma se il cristianesimo possiede la chiave
esplicativa del mistero dell’uomo, vuol dire che esso è ragionevole, ossia
conforme a ragione. La fede allora non è una fuga nell’irrazionale,
giacché consiste nel credere in qualcuno che, pur essendo meta-

168
razionale, cioè superiore alla ragione, risulta pur sempre l’unico modo
per chiarire ciò che la ragione, con le sue sole forze, non riesce a
spiegare.
A questo punto, l’uomo deve scegliere di vivere come se Dio esistesse
oppure di vivere come se Dio non esistesse(il non scegliere sarebbe già la
scelta negativa). Se la ragione non può aiutarlo, tanto vale che l’uomo
scommetta, considerando quale può essere la scelta più conveniente. Chi
scommette sull’esistenza di Dio, se guadagna, guadagna tutto; se
perde, non perde nulla. Infatti, in caso di perdita, perderà solo dei
beni finiti (i beni mondani), mentre, se vince, vincerà il Bene e la
Felicità infinita, che è Dio. La scommessa è ragionevole perché la sua
vincita è infinita ed infinitamente superiore alla posta in gioco. Chi
invece scommette contro Dio, se perde, perde tutto. Arrischiare il
finito per guadagnare l’infinito ha, evidentemente, la convenienza
massima (cfr. 233 B). Certo non si può credere a comando : allora –
dice Pascal – bisogna lavorare a convincersi, diminuendo le passioni
che ostacolano la fede. Bisogna far tutto come se si credesse : ciò ci “abêtira”
(= farà tacere i dubbi) e indurrà l’abitudine alla fede. Nella fede
l’uomo deve, in altre parole, impegnare tutto se stesso, anche nella
esteriorità delle abitudini e nel meccanismi delle sue azioni. “Il cuore e
non la ragione sente Dio. Ecco che cos’è la fede : Dio sensibile al cuore, non alla
ragione” (278 B).

169
NOTE BIOGRAFICHE
Blaise Pascal nacque a Clermont-Ferrand nel 1623. Fin dalla
più giovane età fu introdotto allo studio della matematica e delle
scienze dal padre Etienne, magistrato e appassionato cultore di
scienze. Pascal ottenne ben presto ottimi risultati e fece alcune
scoperte che gli daranno fama imperitura. Nel 1654, dopo alcuni anni
di vita intensamente mondana, trasformò in una vocazione religiosa
quello che era stato fino ad allora un atteggiamento solo benevolo nei
confronti della fede. Elemento importante per il suo cambiamento fu
l'ambiente giansenistico di Port-Royal per il tramite della sorella di
Pascal, Jacqueline, che era monaca presso quella abbazia. Le tesi
giansenistiche furono messe al bando dal Papa Innocenzo X (1653) :
sebbene la sua posizione non coincidesse esattamente con quella di
Giansenio, anche Arnauld e l'ambiente di Port-Royal venne coinvolto
nella condanna. In sua difesa Pascal scrisse le famose lettere
conosciute come Provinciali, che divennero in poco tempo uno dei
best-seller dell'epoca ed uno dei capolavori della letteratura frnacese.
Intanto Pascal continuava a lavorare a quella che doveva essere la sua
maggiore opera filosofica, una Apologia del cristianesimo. Ma la sua salute
malferma lo portò precocemente alla morte nel 1662. i frammenti di
quell'opera furono però raccolti e pubblicati dagli amici nel 1669 col
titolo di Pensieri, che si rivelò subito per uno dei capolavori della
letteratura universale.

Bibliografia
B. Pascal, Pensieri, Opuscoli, Lettere, ed. Rusconi
B. Pascal, Pensieri (con testo originale a fronte), ed. Bur Rizzoli
o Rusconi
A. Bausola, Introduzione a Pascal, "I filosofi", Laterza

170
BARUCH SPINOZA

(1632-1677)

Introduzione
Il pensiero di Spinoza è un modello di rigore e di coerenza,
che ha il suo problema cardine nella ricerca della felicità. Fin dal
Trattato sull’emendazione dell’intelletto(1661), Spinoza si chiedeva: “Dopo
che l’esperienza mi ha insegnato che tutto ciò che per lo più accade nella vita
comune è vano e futile … mi sono alla fine deciso a ricercare se non potesse esserci
qualcosa che fosse un vero bene e fosse anche comunicabile, e tale che, da solo, cioè
quando tutti gli altri fossero respinti, bastasse ad appagare l’animo”. In altri
termini, i beni desiderati dagli uomini – ricchezze, onori, piaceri –
rendono schiava la mente quando vengono scambiati per il sommo
bene e cioè quando sono impedimenti per il suo raggiungimento;
Spinoza però non condanna i beni finiti ma solo la loro
assolutizzazione e la loro trasformazione da mezzi a fini. L’unico
bene, per Spinoza, capace di far riposare l’animo e di curare in
profondità l’inquietudine umana è l’unione della mente con la Natura.

Deus sive Natura


Nel suo capolavoro, Etica, dimostrata secondo l’ordine geometrico,
egli espone il suo pensiero procedendo per definizioni, assiomi,
dimostrazioni ecc. Perché? Per due motivi : probabilmente perché
l’esposizione geometrica gli sembrava dare più garanzia di precisione
ed un maggiore distacco rispetto agli argomenti trattati; e forse anche
perché egli concepiva tutto il reale come una struttura geometrica,
ovvero necessaria, in cui tutte le cose sono collegate logicamente tra
loro. In fondo, egli accettava l’assoluta razionalità ed unità delle cose.
Ma tale atteggiamento non era fine a se stesso: serviva a risolvere il

171
problema che gli stava a cuore, che era quello della salvezza, ovvero la
scoperta della verità e della felicità.
Se il problema cardine è quello della salvezza, allora Dio non
può che costituirne l’argomento primo e fondamentale. E infatti la
prima delle cinque parti in cui è divisa l’Etica si intitola appunto De
Deo. Spinoza intende per Dio “un essere assolutamente infinito, cioè una
sostanza costituita da un’infinità di attributi, ciascuno dei quali esprime
un’essenza eterna e infinita”. E che questo essere esista non c’è bisogno di
dimostrarlo : Dio è ovviamente causa di sé, la sua essenza implica
necessariamente l’esistenza; in altri termini, se definiamo Dio come
suprema perfezione, non possiamo non attribuirgli anche quella
dell’esistenza.
Abbiamo detto che Dio è sostanza. Ma allora quelle che noi
comunemente chiamiamo sostanze – e che sono poi le molteplici cose
del nostro mondo – non sono vere e proprie sostanze. In effetti, se la
sostanza è intesa da Spinoza come una realtà autonoma,
autosufficiente, che non ha bisogno di altri esseri per esistere, allora
una tale sostanza può essere soltanto Dio. Dio è dunque una realtà
increata (cioè per esistere non ha bisogno d’altri, essendo causa di sé,
cioè tale che la sua essenza implica l’esistenza), eterna (possiede
l’esistenza e non la riceve da altri) , infinita (se no dipenderebbe da
qualcos’altro mentre la sua essenza non può avere limiti), unica (non
possono essercene due uguali, entrambe infinite, eterne ecc.).
Attenzione però: questo Dio di Spinoza non è il Dio della
tradizione religiosa. La sostanza così concepita viene chiamata da lui
Deus sive Natura (Dio ovvero la Natura): infatti, se la sostanza è unica, tutte le
cose saranno o la sostanza stessa o manifestazioni di essa .In altri termini, Dio
e il mondo non sono due enti separati, bensì uno stesso ente, giacché
Dio non è fuori del mondo ma costituisce con esso un’unica realtà
chiamata da Spinoza Natura. Il che equivale a dire che Dio è visto
come “causa immanente, e non transeunte, di tutte le cose” (cfr. Lettera 73^).
Dio è la Natura e le cose sono i modi della stessa sostanza divina.
Spinoza distingue in Dio gli attributi e i modi. Gli attributi
sono le qualità essenziali e strutturali della Sostanza e sono infiniti
(Perché sono infiniti? Perché, come il nulla non ha attributi perché è
appunto il nulla, così, ciò che è qualcosa, proprio perché è qualcosa,
ha degli attributi; di conseguenza, più un essere è qualcosa, più un
essere è complesso, più ha molti attributi; Dio, che è l’essere più
perfetto, deve dunque avere infiniti e perfetti attributi). Spinoza

172
definisce Dio e gli attributi, considerati come causa, la Natura naturans.
L’uomo, di tutti gli attributi divini, ne può conoscere però soltanto
due: l’estensione e il pensiero, ovvero la materia esteriore delle cose e la
coscienza (Perché soltanto due ? Spinoza non lo dice: è forse una aporia
del suo sistema).
I modi sono invece le manifestazioni degli attributi, ovvero i
singoli corpi e le singole idee, che non hanno vera e propria
sostanzialità, in quanto esistono solo in virtù della Sostanza e dei suoi
attributi. Essi sono, ad es., il movimento, l’intelletto, la volontà, quel
determinato corpo, le varie cose ecc. L’insieme dei modi, visti come
effetto, è chiamato da Spinoza Natura naturata.
Si noti ancora una volta : la natura non è intesa da Spinoza
come la tradizione popolare e filosofica ci hanno abituati. Essa non è
più, in Spinoza, una potenza dinamica e procreante, non è qualcosa
che generale cose bensì è un ordine da cui seguono i vari modi; essa è l’ordine
necessario e razionale del tutto, è l’ordine geometrico dell’universo, cioè il sistema o
la struttura globale del tutto e delle sue leggi. In altri termini, la Natura o Dio
è per Spinoza il complesso delle leggi universali dell’essere, l’ordine strutturale
delle relazioni tra le cose.
Dio ovvero la Natura ovvero la Sostanza non crea le cose. Le
cose singole non scaturiscono né per creazione né per emanazione;
esse derivano piuttosto necessariamente come dalla definizione di una figura deriva
necessariamente che ad es. la somma degli angoli interni è uguale a due retti.
Insomma, le cose scaturiscono in modo necessario dalla Sostanza,
come le conseguenze di particolari premesse.

La concezione della libertà


Allora nell’universo di Spinoza non vi può essere nulla di
contingente, poiché in esso tutto ciò che è anche solo possibile si
realizza necessariamente. Nella Sostanza stessa, coincidono libertà e
necessità, nel senso che essa è libera perché agisce senza nessun
condizionamento esterno ad essa (non c’è nulla di esterno alla
Sostanza), ma è anche necessitata perché agisce necessariamente, in virtù
delle leggi immanenti del suo essere. Non vi sono neppure, in un simile
universo, le cause finali : è solo un pregiudizio dell’intelletto umano –
dice Spinoza – credere nelle cose come dei mezzi per conseguire dei
fini; da ciò nasce poi il pregiudizio che la divinità produca e governi le
cose per gli uomini, per legare gli uomini a sé e per essere da essi

173
onorata. Ma se Dio agisse per un fine, vorrebbe qualcosa di cui egli
difetterebbe, e dunque Dio non sarebbe più perfetto. In realtà, per
Spinoza, i valori, cioè il bene, il male, l’ordine, il disordine, il bello, il
brutto ecc. non hanno un valore oggettivo ma esprimono solo il modo in
cui le cose stesse colpiscono gli uomini. Del resto neppure l’uomo è libero.
Gli uomini pensano di essere liberi perché sono consci dei loro voleri
e dei loro desideri, mentre in realtà ignorano le cause che li hanno
portati a desiderare qualcosa. L’uomo è spinto ad agire sempre in vista
dell’utile, comunque venga inteso, ed appunto in questo senso non ci
possiamo ritenere liberi ma determinati. Tuttavia – dice Spinoza – vi è
un’alternativa, tra l’agire per l’utile in modo istintivo ed emozionale (e
quindi essere schiavi delle passioni, lasciandoci travolgere e guidare
solo da esse), e l’agire per l’utile in modo intelligente (e quindi senza
lasciarci travolgere dalle passioni). In questo senso l’uomo può essere
libero, se sceglie di porsi come soggetto attivo e non puramente passivo
nei confronti della propria tendenza all’autoconservazione. Si badi : il
saggio non pretende di avere un dominio assoluto sulle passioni, che
Spinoza ritiene impossibile. La libertà del saggio consiste, più
concretamente, in una sempre più adeguata comprensione di esse,
visto che di esse non ci possiamo totalmente liberare. La virtù è allora
per Spinoza “agire secondo le leggi della propria natura”; è uno sforzo
di autoconservazione divenuto cosciente e saggiamente diretto; è una
tecnica razionale del vivere bene, in un calcolo intelligente circa ciò
che si deve o no fare in vista della migliore sopravvivenza possibile.
L’uomo morale è allora l’uomo sociale, in quanto la ragione spinge l’uomo
ad unirsi ai suoi simili, per meglio conseguire un utile che, in tal
modo, diventa un utile collettivo. In questo senso, dice Spinoza, “nulla
è più utile all’uomo che l’uomo stesso” (cfr. Etica, 4,18, scolio). Compito
della filosofia sarà allora quello di liberare l’uomo dalle illusioni e
dall’ignoranza, in modo che possa giungere alla salvezza. Nella quinta
e ultima parte dell’Etica (intitolata “La potenza dell’intelletto ossia la
libertà umana”). vi è un vero e proprio inno alla libertà, all’amore e
alla beatitudine, come compimento di quell’itinerario di salvezza da
cui la speculazione spinoziana aveva preso le mosse. Il filosofo del
determinismo assoluto, senza rinnegare le sue premesse, è diventato il
filosofo che auspica la perfetta libertà.

L’amore intellettuale di Dio


Non siamo però ancora arrivati alla fine. L’esito finale della
elevazione spirituale dell’uomo sarà dato da ciò che Spinoza chiama

174
l’amore intellettuale di Dio. Per comprendere che cosa intende Spinoza
con questa espressione, dobbiamo cominciare a dire che ai sensi il
mondo appare molteplice, contingente, temporale, imperfetto;
all’intelletto, invece, esso appare come un tutto unitario, necessario,
eterno, dove il bene e il male, la perfezione e l’imperfezione sono
soltanto punti di vista relativi e antropomorfici. La falsità – che è
l’errore fondamentale a cui l’immaginazione può condurre l’uomo – è
non vederele cose nella loro autentica fisionomia, cioè nella necessità,
unità, eternità. Certo, anche l’errore, il male, l’illusione, in quanto sono
qualcosa, dipendono necessariamente ed eternamente da Dio, ma
altrettanto ne dipende la verità del loro oltrepassamento e del loro
smascheramento. A questo riguardo, però, si badi : non si tratta per
Spinoza né di deridere né di detestare gli affetti e le azioni degli
uomini ma di comprenderle, come dicevamo già prima (non ridere,
neque detestari sed intelligere). Per Spinoza non ha senso un’etica in senso
classico, prescrittiva, in cui sono date delle norme : l’etica spinoziana
descrive, non prescrive. Detto questo, la via della sapienza è intesa come la
conoscenza adeguata del Tutto e delle parti che lo compongono. Il
processo conoscitivo, una volta abbandonata la fallacia della
immaginazione, coincide col processo di liberazione, che non è fuga
dal mondo ma riconoscimento del suo reale significato : “Quanto più
noi conosciamo le cose singole, tanto più conosciamo Dio”. Il vertice della
conoscenza è raggiungere il punto di vista di Dio stesso. Qui ha
origine l’amore intellettuale di Dio, che è “una parte dell’amore infinito col
quale Dio ama se stesso”. Non solo : “l’amore di Dio verso gli uomini e l’amore
intellettuale della mente verso Dio sono una sola e medesima cosa”. La felicità
nasce appunto dalla conoscenza di quell’ordine necessario che è la
stessa sostanza di Dio. In altri termini, la conoscenza di ogni singola
cosa come elemento o manifestazione necessaria di quell’ordine è
appunto contemplazione di Dio e amore intellettuale di lui. Ecco la
beatitudine per Spinoza : perseguire l’utile in maniera razionale e
vivere la vita nel miglior modo possibile.
Ci si può certo chiedere : ma è possibile arrivare a quel punto
? Spinoza non fa mistero sulle difficoltà dell’impresa : “Tutte le cose
sublimi sono tanto difficili quanto rare”. Tuttavia si può e si deve provare.
Proprio per questo si può sempre sperare che ogni uomo, anche se
adesso è schiavo della passione e dell’ignoranza, possa aprirsi alla via
della salvezza. Dio – dice Spinoza – non pretese dagli uomini altra
conoscenza al di fuori di quella della sua divina giustizia e della carità:
conoscenza che non è necessaria alla scienza ma soltanto

175
all’obbedienza. La virtù, che per il saggio consegue alla conoscenza,
per il volgo è oggetto di obbedienza, che esso accoglie non in base
all’evidenza intrinseca del comando ma sulla fiducia nella
testimonianza stessa.

La politica
Questo ci porta alla concezione spinoziana dello Stato. Egli
parte dalla considerazione del cosiddetto stato di natura. Per esso,
ogni uomo è di diritto altrui finché è sotto il potere altrui, ed è nel
proprio diritto quando può respingere ogni violenza, quando può
vendicare il danno che gli è stato fatto e quando può vivere come gli
pare. Ora, quanti più individui si associano, tanto più cresce la loro
potenza e quindi il loro diritto, così la loro associazione determina un
diritto più forte, che appartiene a ciò che chiamiamo “governo”. Il
sorgere di un diritto comune fa sorgere le valutazioni morali che, al di
fuori di esso non hanno senso. Il diritto dello Stato limita il potere
dell’individuo ma non annulla del tutto il suo diritto naturale. La
differenza tra lo stato di natura e lo stato civile è che in quest’ultimo
tutti temono le stesse cose e per tutti c’è una sola garanzia di sicurezza
ed un solo modo di vivere (ciò non toglie all’individuo la facoltà di
giudizio). I vantaggi dello stato civile sono comunque tali che la
ragione consiglia a tutti di sottomettersi alle sue leggi. Vi è comunque
un limite all’azione dello Stato : esso è sottomesso alle leggi, nel senso
che è obbligato a non distruggere se stesso. Poiché il fine dello Stato è
la pace e la sicurezza della vita, la legge fondamentale che limita
l’azione dello Stato deriva da quella sua intrinseca finalità, senza la
quale viene meno allo scopo per cui è sorto, cioè alla sua stessa
natura. In qualsiasi comunità politica, l’uomo conserva una parte dei
propri diritti; e il diritto più geloso è la facoltà di pensare e di giudicare
liberamente. Il fine dello Stato – dice Spinoza – è quello di garantire
che la mente e il corpo degli uomini adempiano con sicurezza la loro
funzione, che essi si servano della libera ragione e non si combattano
con odio, ira o inganno, né si affrontino con animo iniquo (cfr.
Trattato teologico-politico, 20). In quanto alla religione, se la fede è vista
da Spinoza come essenzialmente obbedienza e se l’unico precetto
della Scrittura a cui si può ricondurre tutto è l’amore per il prossimo,
allora la religione è riconducibile a pochi capisaldi che esprimono
appunto le condizioni necessarie e sufficienti dell’obbedienza. Così è
tolto ogni pericolo di dissenso religioso ed è reso impossibile ogni
conflitto tra fede e ragione, teologia e filosofia.

176
NOTE BIOGRAFICHE
La vita di Spinoza fu quella di un uomo modesto, mite e
contento di sé, dedito alla riflessione ma non privo di vera
passionalità, che indica la sua profonda partecipazione alla vita, anche
se il suo pensiero ha come fine il controllo razionale delle passioni. È
stato insomma un uomo profondamente coerente che ha vissuto
quello che teorizzava. La razionalità spinoziana è intelligere : non
detestare né deridere ma appunto cercare di comprendere da un punto di
vista più alto le verità degli uomini. Egli visse in un periodo in cui
c’era molti fanatismo e intolleranza, ma cercò di rimanere al di fuori
della mischia, deciso a salvaguardare la propria serenità interiore,
senza smettere di intrattenere rapporti cordiali con tutti.
La famiglia di Spinoza era fuggita dalla penisola iberica e si era
rifugiata in Olanda. Il giovane Baruch acquisì una cultura vastissima
(conosceva otto lingue tra antiche e moderne, la Bibbia, il Talmud, la
filosofia ebraica e araba oltre a quella a lui contemporanea, ed il
pensiero scientifico, teologico e politico della sua epoca) al punto che
il talento di Spinoza fu notato e gli proposero di diventare rabbino.
Però le sue idee eterodosse lo misero in urto con la comunità ebraica
e anche se fecero di tutto per fargli cambiare idea Spinoza rimase
sempre del suo parere. Alla fine la comunità ebraica lo scomunicò nel
1656 ed egli dovette andarsene. Cambiò varie città e si stabilì all’Aja,
dove morirà il 21 febbraio 1677. Si manterrà facendo l’ottico e
molando lenti, dedicandosi totalmente a scrivere le sue opere (rifiuterà
la cattedra di filosofia ad Heidelberg per non dover dipendere da
nessuno).

BIBLIOGRAFIA
Spinoza, Ethica, con testo latino a fronte, ed. Sansoni
Spinoza, Etica. Trattato teologico-politico, ed. UTET
Spinoza, Tutte le opere, con testo a fronte, ed. Bompiani
S. Nadler, Baruch Spinoza e l'Olanda del Seicento, ed. Einaudi

177
GOTTFRIED WILHELM LEIBNIZ

(1646-1716)

La monade
Una delle dottrine caratteristiche di Leibniz è la cosiddetta
Monadologia. È il titolo di un libro, I principi della filosofia o Monadologia
(1714) in cui egli definisce la monade come una sostanza semplice cioè
senza parti. E dove non ci sono parti, non c’è estensione, figura né
divisibilità possibile. Non può quindi estinguersi o dissolversi: può
solo cominciare per creazione e finire per annientamento. Se non può
essere alterata o modificata, la monade non ha “finestre”. Ogni
monade è però, dice Leibniz, è diversa dall’altra: in natura non vi sono
infatti due esseri che siano l’uno come l’altro e nei quali non sia
possibile trovare una differenza interna o fondata su una
determinazione intrinseca (è il principio della identità degli indiscernibili,
cioè il principio secondo cui, se esistessero due esseri identici non si
potrebbero neppure distinguere quindi sarebbero la stessa cosa, ma
visto che così non è… c.v.d.). Ogni monade creata o sostanza
semplice può anche chiamarsi entelechia perché ha una certa perfezione
e autosufficienza. Ma essa si può distinguere dalla monade che ha
percezioni più distinte e accompagnate da memoria: quest’ultima è
l’anima. L’uomo si distingue dagli altri animali per la conoscenza delle
verità necessarie ed eterne: tale conoscenza ci rende capaci di ragione
e di scienza e ci eleva alla conoscenza di noi stessi e di Dio. Essa è ciò
che chiamiamo anima ragionevole o spirito.
Il corpo che appartiene a una monade, che ne è l’entelechia o
anima, costituisce, con l’entelechia, ciò che può essere chiamato un
essere vivente. Anzi nell’universo, secondo Leibniz, non c’è nulla di

178
incolto, sterile, morto e non c’è caos o confusione se non
all’apparenza. Non vi è mai generazione in senso assoluto né morte
perfetta, intesa in senso rigoroso, come separazione dell’anima. E ciò
che noi chiamiamo generazioni sono sviluppi ed accrescimenti, come
quelle che noi chiamiamo morti, sono involuzioni e diminuzioni.
Il corpo organico di ogni essere vivente è una specie di
macchina divina, o di automa naturale, che supera infinitamente tutti
gli automi artificiali. Le anime agiscono secondo le leggi delle cause
finali, mentre i corpi agiscono secondo le leggi delle cause efficienti o
dei movimenti. Ma i due regni, quello delle cause efficienti e quello
delle cause finali, sono in armonia fra loro.

Verità di ragione e verità di fatto


Leibniz prosegue dicendo che vi sono due principi su cui si
basano i nostri ragionamenti: il principio di contraddizione e quello di
ragion sufficiente. Il primo in virtù del quale giudichiamo falso ciò che
implica contraddizione e vero ciò che è opposto; il secondo per cui
consideriamo che nessun fatto può essere vero o esistente e nessuna
proposizione vera senza che vi sia una ragione sufficiente perché sia
così e non altrimenti, per quanto queste ragioni il più delle volte non
possano esserci conosciute.
Ma la ragione sufficiente si deve trovare – secondo Leibniz -
anche nelle verità contingenti, quelle che egli definisce verità di fatto
(oppure alle verità di ragione: queste sono necessarie e il loro opposto
è impossibile, quelle di fatto sono contingenti e il loro opposto è
possibile) cioè nella serie delle cose sparse nell’universo. In esse la
risoluzione in ragioni particolari può essere spinta senza limiti, a causa
della immensa varietà delle cose della natura e della divisione dei corpi
all’infinito. E siccome tutto questo dettaglio non implica se non altri
contingenti anteriori, ancora più particolareggiati, ciascuno dei quali
ha bisogno, perché se ne possa rendere ragione, di un’analisi simile,
bisogna che la ragione sufficiente o ultima sia al di fuori della
successione o della serie di questi dettagli delle contingenze, per
quanto infinita possa essere. Quindi la ragione ultima delle cose deve
trovarsi – conclude Leibniz – in una sostanza necessaria, cioè Dio.
Posto questo principio, continua Leibniz, la prima questione
che si ha diritto di porre sarà: Perché esiste qualcosa anziché niente?
Giacché – osserva Leibniz - il nulla è più semplice e più facile di
qualcosa. Inoltre, supposto che alcune cose debbano esistere, bisogna
che sia possibile dare la ragione perché debbano esistere così e non
altrimenti (cfr. Principi della natura e della grazia fondati sulla ragione, 1714,

179
parag. 7). La risposta a questa domanda è, per Leibniz, Dio stesso :
egli dice che la ragione sufficiente dell’esistere dell’universo è
necessario che sia fuori della serie delle realtà contingenti e si trovi in
una sostanza, che ne sia la causa, che sia un essere necessario che
porti la ragione della sua esistenza con sé, e cioè appunto Dio.

Dio
Ma come è questo Dio? Secondo Leibniz egli è unico, è
senza limiti e contiene la massima quantità possibile di realtà. In altri
termini, Dio è assolutamente perfetto (intendendo per perfezione la
grandezza della realtà positiva). Solo Dio infatti ha questo privilegio:
che se è possibile, bisogna che esista. E visto che nulla può impedire
la possibilità di ciò che non implica alcun limite, alcuna negazione,
alcuna contraddizione, questo soltanto basta a conoscere a priori
l’esistenza di Dio. Mentre si può provare l’esistenza di Dio a posteriori
con quanto ha detto prima: esistono degli esseri contingenti, i quali
non possono avere la loro ragione ultima o sufficiente se non in un
essere necessario, che ha in sé stesso la ragione della propria esistenza.
In Dio c’è potenza, conoscenza e volontà. Ovviamente in Dio questi
attributi sono infiniti o perfetti, nelle monadi create non sono che
imitazioni. Ora, poiché nelle idee di Dio c’è una infinità di universi
possibili, mentre non può esisterne che uno solo, bisogna che ci sia
una ragione sufficiente della scelta di questo universo da parte di Dio.
E questa ragione, secondo Leibniz, non può trovarsi che nella
convenienza o nei gradi di perfezione che questi mondi contengono
(e ciò perché – spiega Leibniz – ogni possibile ha il diritto di
pretendere all’esistenza nella misura della perfezione che implica). E
ciò è la causa dell’esistenza del meglio, che la Saggezza fa conoscere a
Dio, che la sua bontà gli fa scegliere e la sua potenza gli fa produrre.
In altri termini - come sostiene anche nei Saggi di Teodicea – se
Dio ha creato questo mondo è perché lo ha scelto secondo quanto gli
suggeriva la sua saggezza ed ha quindi permesso il male in esso, il che
però non impedisce che, tenuto conto di tutto, questo mondo non fosse il migliore
che potesse essere scelto. Dio ha scelto seguendo il principio del meglio.
Riguardo poi all’annoso problema del male, Leibniz risponde in linea
con la tradizione cristiana classica: Dio non vuole affatto il male
morale ed in modo assoluto non vuole il male fisico e le sofferenze;
perciò non v’è predeterminazione assoluta alla dannazione. Il male
serve spesso per far gustare meglio il bene e qualche volta
contribuisce ad una perfezione più grande di colui che lo soffre, come

180
il grano che viene seminato è soggetto ad una specie di corruzione per
germinare: è un bel paragone – dice Leibniz – del quale Gesù Cristo
stesso si è servito (cfr. Saggi di Teodicea, 23).
In che senso allora possiamo dire che Dio permette il male?
Qui – dice Leibniz – è necessario spiegare che cosa significa
“permesso”. Per spiegarlo, bisogna spiegare la natura della volontà e
dei suoi gradi. Si può dire che la volontà consiste nell’inclinazione a
fare qualcosa in proporzione del bene che essa racchiude. Questa
volontà è chiamata antecedente, quando è considerata a parte e si
riferisce ad ogni bene isolatamente, in quanto è bene. In questo senso,
si può dire che Dio tende ad ogni bene in quanto è bene. Egli ha
un’inclinazione forte a santificare e a salvare tutti gli uomini, ad
escludere il peccato e ad impedire la dannazione. Si può anche dire
che questa volontà è di per sé efficace, cioè tale che l’effetto ne
seguirebbe, se non vi fosse qualche ragione più forte che l’impedisce;
ora questa volontà non giunge fino al suo ultimo sforzo, altrimenti
non mancherebbe di produrre il suo pieno effetto, essendo Dio il
signore di tutte le cose. Il successo completo ed infallibile non
appartiene se non a quella che si chiama volontà conseguente. Questa è
completa e per essa vale la regola che non manca di fare ciò che
vuole, quando lo può. Ora questa volontà conseguente, finale e
decisiva, risulta dal conflitto di tutte le volontà antecedenti, tanto di
quelle che tendono verso il bene, quanto di quelle che respingono il
male e dal concorso di tutte queste volontà particolari deriva la
volontà totale (cfr. Saggi di Teodicea, 22). Da tutto ciò consegue che
Dio vuole antecedentemente il bene e conseguentemente il meglio, come fine;
l’indifferente o il male fisico eccezionalmente come un mezzo, il male
morale, invece, lo vuole permettere a titolo di un sine quo non o di una
necessità ipotetica, che lo congiunge al meglio. Per ciò la volontà
conseguente di Dio che ha per oggetto il peccato è solo una volontà
permissiva (cfr. Saggi di Teodicea, 25).

L’armonia prestabilita e l’amore


Gli spiriti umani sono immagini della stessa divinità e quindi
sono in grado di entrare in una specie di società con Dio; da ciò è
facile concludere – dice Leibniz – che l’assemblea di tutti gli spiriti
deve formare la città di Dio, cioè lo stato più perfetto possibile, il
quale è un mondo morale entro il mondo naturale, ed è dunque
quanto vi è di più elevato e divino nelle opere divine. E come vi è
armonia tra i due regni naturali, quello delle cause efficienti e quello
delle cause finali, così vi è anche armonia tra il regno fisico della

181
natura e quello della grazia divina (Leibniz la chiama armonia
prestabilita). Sotto il governo di Dio, tutto si risolverà nel bene dei
buoni e quindi il nostro compito è quello di lavorare per tutto quello
che è conforme alla volontà divina, perché solo Dio è il fine della
nostra volontà ed è Lui solo la nostra felicità. Infatti, aveva già detto
Leibniz nei Saggi di Teodicea (1710), se l’amore ci fa trovare piacere
nelle perfezioni dell’oggetto amato, nulla è più perfetto e quindi nulla
è più attraente di Dio stesso. Ne consegue – continua Leibniz – che la
vera pietà e la vera felicità consiste nell’amore di Dio, ma in un amore
il cui ardore sia accompagnato dalla ragione. Questa specie di amore
fa nascere il piacere delle buone azioni che dànno splendore alla virtù
ed eleva l’umano al divino. Troviamo accenti quasi mistici in molte
pagine della Teodicea. Ad es. Leibniz dice che quando si è rassegnati
alla volontà divina e si sa che ciò che Egli vuole è sempre il meglio, si
è sempre contenti di ciò che accade, sia che la nostra azione riesca o
non riesca. Quando siamo in questa disposizione di spirito, continua
Leibniz, non saremo mai abbattuti dagli insuccessi e non avremo
rammarico che per le nostre colpe; la nostra carità sarà umile e libera
da ogni pretesa di signoreggiare.

NOTA BIOBIBLIOGRAFICA

Gotfried Wilhelm Leibniz nacque nel 1646 a Lipsia. Fu un


genio precoce: imparò le lingue classiche da giovanissimo e si occupò
di moltissime scienze; tra l'altro scoprì da solo il calcolo integrale:
scoperta già fatta da Newton anni prima ma di lui leibniz non era a
conoscenza. Si laureò in diritto a vent'anni. Poco dopo ebbe
l'occasione di conoscere l'Elettore di Magonza e ne diventò
consigliere. Entrò quindi in politica e il suo sogno fu quello di dar vita
ad una organizzazione mondiale che si occupasse di scienza (e anche
di riunire ecumenicamente le chiese cristiane): sogno in parte
realizzato con la fondazione (molti anni dopo, nel 1700) di quella che
diverrà poi la Accademia prussiana. Cominciò in quel periodo a
corrispondere con moltissimi intellettuali e scienziati dell'epoca e il
suo epistolario (12000 lettere!) è importantissimo per la conoscenza
del sapere di allora. Nel 1676 entrò al servizio dei duchi di Hannover

182
(come bibliotecario e storiografo) e resterà con loro praticamente per
tutto il resto della sua vita. Morì nel 1716.
Gli scritti di carattere filosofico di Leibniz sono stati composti
non sistematicamente poiché si occupò in primo luogo di politica, di
ricerche erudite e anche di tematiche religiose e filosofiche.
Nonostante ciò gli scritti rimasti fanno di Leibniz uno dei grandi
filosofi fra Sei e Settecento.
Ricordiamo: Discorso di metafisica (1686), Monadologia (1714),
Nuovi saggi sull'intelletto umano (è un'analisi capitolo per capitolo del
Saggio di Locke) del 1705, Saggi di teodicea (1710) ecc.

BIBLIOGRAFIA

Leibniz, Scritti filosofici, 2 voll., a cura di D. O. Bianca, UTET

Leibniz, La monadologia, Laterza

G. Preti, Il cristianesimo universale di G. G. Leibniz, Bocca


B. Russell, La filosofia di Leibniz, Newton Compton
V. Mathieu, Introduzione a Leibniz, “I filosofi”, Laterza

183
JOHN LOCKE

(1632-1704)

Introduzione
La figura di Locke, con la sua difesa dell’empirismo,
rappresenta l’altra grande alternativa dei pensiero seicentesco : da una
parte il razionalismo di Descartes (che intendeva la ragione come una
tecnica che procede in modo autonomo e geometricamente, cioè
utilizzando solo le idee chiare e distinte in un ordine rigoroso), e
dall’altra, appunto, la filosofia di Locke e dei pensatori a lui successivi
quali Hume e Berkeley. Eppure l’empirismo non voleva negare
l’importanza della ragione. Esso sostiene invece che la ragione ha dei
poteri, i quali sono però limitati dall’esperienza, intesa, quest’ultima,
come la fonte e l’origine del processo conoscitivo, ed anche come il
criterio di verità o lo strumento di certificazione delle tesi proposte
dall’intelletto, che risultano valide solo se suscettibili di un controllo
empirico.

La teoria della conoscenza


Il capolavoro di Locke, il Saggio sull’intelletto umano (1690), è un
esame approfondito delle possibilità conoscitive dell’uomo, ribadendo
che la gnoseologia (=teoria della conoscenza) è la parte più importante
della filosofia, come è ormai chiaro da Descartes in poi.
L’opera si apre con una critica dell’innatismo, cioè contro la
concezione che esistano nella nostra mente principi o idee presenti in
noi fin dalla nascita. La polemica di Locke era diretta, in particolare,
contro il pensiero di alcuni filosofi inglesi (i “neoplatonici di
Cambridge”), i quali sostenevano che l’innatismo, ad es. dell’idea di

184
Dio, fosse in grado di fondare una concezione religiosa comune a tutti
gli uomini e con ciò lontana tanto dalle sottigliezze teologiche quanto
dalle intolleranze settarie. Anche Locke condivideva quegli obiettivi di
fondo, tuttavia lo stesso fine veniva da lui perseguito con una strategia
opposta, per la quale cioè solo una concezione empiristica della
conoscenza era in grado di porre un limite alle ingiustificate pretese
intellettuali del dogmatismo settario.
L’argomentazione di Locke contro l’innatismo si articola in
due momenti. Il primo consiste nel mostrare che non vi sono principi
speculativi innati, cioè che non ci sono conoscenze possedute di
necessità da tutti gli uomini : infatti i bambini e gli idioti non le hanno.
Le cosiddette massime universali non nascono, per Locke, con
l’uomo e nemmeno con la ragione ma sono al termine e non al
principio della conoscenza. Nemmeno proposizioni innegabili come
quelle della matematica e della geometria sono innate perché
altrimenti, dice Locke, saremmo costretti ad ammettere un’infinità di
principi innati, come ad es. tutte le proposizioni del tipo “il bianco
non è nero”, oppure “l’amaro non è il dolce” ecc., il che è assurdo. Il
secondo momento consiste nel mostrare che non vi sono neppure
principi pratici innati, cioè che non esistono norme capaci di
determinare il nostro comportamento che siano impresse
naturalmente nell’animo umano e quindi da questo necessariamente
possedute (duecento anni prima di Freud). Se possono esistere
tendenze e inclinazioni, non si può certi dure che esistano però dei
principi pratici innati.
Per Locke dunque nessuna conoscenza è innata perché la nostra
mente è come una tabula rasa e le idee derivano tutte dall’esperienza,
che comprende sia le sensazioni che la riflessione. Il fondamento della
nostra conoscenza è dato dalle idee semplici, quali ad es. l’impressione
visiva di un colore o la sensazione tattile che proviamo toccando un
corpo. Già qui si mostra un limite della nostra conoscenza : essa è
condizionata dalla costituzione dei nostri organi di senso e dal modo
in cui essi entrano in relazione col mondo. Su questa base è naturale
che si presenti anche in Locke la distinzione, caratteristica del
pensiero moderno (si pensi a Galilei e a Descartes) tra le qualità
secondarie (odori, sapori, colori ecc.) e le qualità primarie (estensione,
figura, moto).
Quando lo spirito si limita a percepire le idee semplici è
passivo, ma quando le ripete, le confronta ecc. allora è attivo e capace

185
di produrre nuove idee, le idee complesse, che sono divise da Locke nei
tre tipi di modi, sostanze e relazioni.
Le idee di spazio, tempio e infinità sono esempi di modi e sono
ricondotte da Locke ad una base empirica : ad es. l’idea di tempo
deriverebbe dalla riflessione sull’avvicendarsi delle idee nel nostro
spirito.
Per quanto riguarda invece la sostanza, Locke non intende
negarne l’esistenza ma solo sostenere che noi non la possiamo conoscere.
Infatti, all’interno della sua posizione empiristica, è chiaro che ci è
preclusa la conoscenza di qualsiasi realtà che stia dietro o sotto il
mondo dei dati sensibili. Per Locke è la limitatezza umana ad
impedirci di cogliere la vera natura della realtà, e dobbiamo
accontentarci di una conoscenza sempre parziale. Tutto ciò che
possiamo conoscere con certezza è invece l’essenza nominale della
sostanza, ossia quegli aspetti ai quali l’unità viene conferita per mezzo
di un’operazione anche linguistica (per es. quella consistente
nell’applicare uno stesso nome ad un insieme di elementi), dunque in
maniera soggettiva e accidentale, nel senso che ciò accade sulla base di
abitudini, convenzioni, decisioni e sistemi di riferimento culturali.
L’atteggiamento corretto è dunque quello di chi si sforza per lo meno
di evitare gli abusi del linguaggio.
La conoscenza nella quale l’uomo può raggiungere un certo
grado di certezza è di tre tipi : la conoscenza intuitiva, dimostrativa e
sensibile. Solo il primo tipo di conoscenza, l’intuizione, è completa e
perfetta, in quanto si limita alla percezione di idee che sono nello
spirito (ad es. “il bianco non è nero”). La seconda forma di
conoscenza, ottenuta mediante il ragionamento, è certa, pur non
possedendo una chiarezza assoluta come quella intuitiva. La
conoscenza sensibile, infine, riguarda soltanto gli oggetti del mondo
esterno attualmente presenti ai nostri sensi.
Io conosco per intuizione il mio io. Infatti io penso, ragiono, dubito,
e con ciò intuisco la mia esistenza e non ne posso dubitare.
Io conosco per dimostrazione l’esistenza di Dio. Locke prova
l’esistenza di Dio con la prova causale : il nulla non può produrre il
nulla; se qualcosa esiste è perché è stata prodotta da qualche altra cosa
e, non potendo risalire all’infinito, si deve ammettere un essere eterno
che ha prodotto ogni cosa.

186
Io conosco per sensazione l’esistenza delle cose esterne. Il fatto che in
questo momento riceviamo dall’esterno l’idea di qualcosa fuori di noi,
vuol dire che in questo momento esiste qualcosa fuori di noi che
produce in noi l’idea corrispondente. Non è ammissibile, dice Locke,
che le nostre facoltà ci ingannino a tal punto : la certezza che la
sensazione attuale ci dà dell’esistenza delle cose esterne, pur non
essendo assoluta, è sufficiente per tutti gli scopi umani. L’ambito della
conoscenza, come abbiamo visto, è assai limitato e sovente anche
insufficiente per le esigenze pratiche della vita. Per questo, dice Locke,
Dio ha dotato l’uomo di un’altra facoltà, il giudizio, grazie al quale la
nostra mente è in grado di accogliere la verità o la falsità di una
proposizione anche quando non ne possiede un’evidenza piena. Con
questo però si passa dal campo delle conoscenze a quello delle
probabilità, ed è qui che intervengono la credenza, l’assenso, l’opinione, la
fede, la verosimiglianza, la testimonianza.

Il problema religioso
In tale contesto, trova esplicita formulazione quello che è uno
degli obiettivi di fondo dell’opera di Locke : tracciare i confini fra i
due distinti ambiti della fede religiosa e della ragione naturale,
evitando sia il fanatismo e sia di sconfessare la Rivelazione. Locke
ritiene che non si sia né conflitto né incompatibilità tra ragione e fede.
La Rivelazione può intervenire legittimamente solo su quegli
argomenti circa i quali la ragione è in dubbio ma spetta ancor sempre
alla ragione il compito di giudicare se si tratta veramente di una
Rivelazione ed anche del significato delle parole mediante le quali essa
è comunicata.
Nella Ragionevolezza del Cristianesimo (1695), Locke afferma che
il nucleo essenziale del Cristianesimo è il riconoscimento di Cristo
come Messia e della vera natura di Dio. Ciò costituisce la base per una
religione semplice, adatta a tutti, libera dai sofismi teologici.
Naturalmente la fede in Cristo implica anche l’obbedienza ai suoi
precetti, per quanto nessuno sia obbligato a conoscere tutti quei
precetti, che ciascuno deve invece cercare di apprendere edi
comprendere da sé nelle Scritture. La ragione è in qualche modo
intrinseca al Cristianesimo stesso, che è nato come sforzo di liberare
l’uomo dalle vecchie tradizioni; in altre parole, il Cristianesimo è stata
una nuova e più efficace promulgazione della legge morale e delle
verità fondamentali che reggono la vita umana.

187
La tolleranza
Il principio della tolleranza delle varie opinioni e in particolare
delle diverse fedi religiose ha trovato un’ampia trattazione nella Lettera
sulla tolleranza (1689). A fondamento del discorso vi è la netta
separazione tra lo Stato e la Chiesa, cioè la distinzione tra le competenze
dell’autorità civile e di quella religiosa, distinzione che fu di enorme
portata storica. Lo Stato può intervenire per imporre leggi e sanzioni,
ma non per imporre articoli di fede o dogmi o forme di culto. Anche
il rapporto tra le varie Chiese deve ispirarsi al dovere della tolleranza.
Nessuna di esse può infatti vantare alcun diritto sulle altre, giacché
“ogni chiesa è ortodossa per se stessa, ed erronea o eretica per le altre”. Un
conflitto potrebbe sorgere solo se non si rispettano i limiti delle
proprie competenze da una parte o dall’altra. Questo è purtroppo
quanto accade, secondo Locke, nel caso dei cattolici, i quali, proprio
per questo, vanno esclusi dal campo di chi può beneficiare della
tolleranza del sovrano. Infatti la sottomissione dei cattolici al Papa è
un vero e proprio passaggio ad un sovrano straniero e questo non
può essere tollerato, nella misura in cui, del resto, sono essi – i
cattolici – che si rifiutano, dice Locke, di rispettare gli altri. Una
seconda eccezione al principio della tolleranza è costituita dall’ateismo,
perché esso compromette i presupposti di qualsiasi convivenza civile.
“Per un ateo infatti né la parola data, né i patti, né i giuramenti, che sono i
vincoli della società umana, possono essere stabili o sacri; eliminato Dio anche
soltanto col pensiero, tutte queste cose cadono”22 .

Il problema politico
Concludo con la concezione politica di Locke, espressa nei
suoi Due trattati sul governo (1690). Nel primo trattato sono confutate le
tesi di Robert Filmer, il quale, nel saggio Il Patriarca, aveva difeso
l’assolutismo monarchico basandosi sulla Bibbia : secondo Filmer,
come Adamo ebbe autorità sui suoi figli, così la ebbero tutti i
Patriarchi che gli successero e quindi anche i re delle varie nazioni.
Locke obietta : o il potere è di tutti, in quanto tutti siamo figli di
Adamo, oppure è di uno soltanto, in quanto uno solo è l’erede
primogenito; se poi ogni governo è ritenuto legittimo perché è
paterno o patriarcale, allora anche un eventuale usurpatore sarebbe
giustificato.

22 cfr. Lettera sulla tolleranza, in Scritti sulla tolleranza, Utet, Torino, 1977, p. 172.

188
Nel secondo trattato, Locke ritiene che, nello stato di natura, vi
sia la perfetta libertà ed uguaglianza di tutti gli uomini, il che elimina
alla radice ogni possibilità di una forma privilegiata di autorità e di
potere. Però tale stato di natura è precario e tende sovente a
degenerare in uno stato di guerra o di conflitto. pertanto gli uomini
devono accettare una parziale limitazione della propria libertà e
devono rinunciare al potere di farsi esecutori della legge di natura, in
particolare rinunciando al diritto di farsi giustizia da sé. E’ da questa
circostanza che nascono le società e gli Stati. Da un lato lo Stato ha
una natura convenzionale, nel senso che scaturisce da un accordo o
contratto sancito tra gli uomini, ma dall’altro esso si basa anche su
sentimenti sociali di benevolenza e di fiducia.
Dando vita ad uno Stato, gli individui rinunciano al potere di
provvedere alla propria conservazione secondo l’arbitrio soggettivo e
al potere di punire, affidando questi alla maggioranza della comunità.
in altri termini, da questa doppia rinuncia nascono i tre poteri classici
dello Stato, delineati per la prima volta chiaramente da Locke : il potere
legislativo, il potere esecutivo (che è nettamente distinto dal primo e
subordinato ad esso) e il potere federativo, che riguarda i rapporti con gli
altri Stati.
Va ricordato che queste tesi di Locke costituiscono un passo
decisivo per la nascita del liberalismo politico ed inoltre la sua
distinzione dei tre poteri statali è uno dei principi fondamentali delle
istituzioni politiche moderne.

189
NOTE BIOGRAFICHE
Locke nacque a Wrington (Bristol) nel 1632. Studiò filosofia e
medicina a Oxford. Dal 1667 divenne segretario personale del conte
Ashley Cooper e da allora la sua vita fu legata in gran parte alle alterne
fortune del suo protettore. Quando lord Ashley fu definitivamente
esiliato per aver cospirato contro il tentativo di restaurazione
assolutistico-cattolica di Carlo II, Locke si rifugiò in Olanda. Qui
venne in contatto con l’ambiente liberale di Guglielmo di Orange e,
quando questi divenne re d’Inghilterra, Locke poté tornare a Londra.
Non soddisfatto del nuovo governo, si ritirò a vita privata nel castello
di Oates nell’Essex, dove morì nel 1704. Altre opere da ricordare,
oltre a quelle già citate, i Pensieri sull’educazione, del 1693 (trad. it. La
Nuova Italia).

BIBLIOGRAFIA
J. Locke, Saggio sull'intelletto umano, ed. UTET o Laterza
J. Locke, Ragionevolezza del cristianesimo,
J. Locke, Scritti sulla tolleranza, UTET
J. Locke, Due trattati sul governo, UTET
M. Sina, Introduzione a Locke, "I filosofi", Laterza
C.A. Viano, John Locke. Dal razionalismo all'illuminismo, Einaudi

190
DAVID HUME

(1711-1776)

Impressioni ed idee
L’opera forse più nota di Hume è il Trattato sulla natura umana
(Londra 1739), ma che inizialmente non ebbe alcun successo. Esso
rappresenta in filosofia una vera e propria svolta: Kant dirà che è stato
Hume a risvegliarlo dal suo “sonno dogmatico”. Il sottotitolo del
Trattato illustra bene le intenzioni di Hume : è “un tentativo di
introdurre il metodo sperimentale di ragionamento negli argomenti
morali”. In altri termini, Hume vuole fondare una scienza dell’uomo su basi
sperimentali.
Tutti i contenuti della mente umana non sono altro se non
percezioni e si dividono in due classi, che Hume chiama impressioni ed
idee. Le impressioni sono tutte le sensazioni, passioni, emozioni nell’atto
in cui vediamo, sentiamo, amiamo, desideriamo ecc. Le immagini
illanguidite e sbiadite di quelle impressioni sono invece le idee o
pensieri. Ogni idea deriva per Hume dalle precedenti impressioni e
non vi possono essere idee di cui non si sia avuta in precedenza
l’impressione. Hume risolve così totalmente la realtà nel molteplice
delle idee attuali e non ammette nulla al di là di esse. Egli tronca
quindi di colpo il problema delle idee astratte e delle idee innate : noi
non abbiamo idee se non dopo aver avuto delle impressioni; sono solo
queste ultime ad essere originarie. Lo scetticismo sarà inevitabile, viste le
premesse.

191
Critica alle idee astratte e il principio di associazione
In quanto alle idee astratte, Hume ritiene che esistano solo le
idee particolari, assunte come segni di altre idee particolari, ad esse
simili. Quando noi abbiamo scoperto una certa somiglianza tra idee
che per altri aspetti sono diverse (ad esempio tra le idee di diversi
uomini e di diversi triangoli), adoperiamo un unico nome (“uomo” o
“triangolo”) per indicarle. Si forma così in noi l’abitudine di
considerare in qualche modo unite tra loro le idee indicate da un
unico nome; sicché il nome stesso risveglierà in noi non una di quelle
idee né tutte, bensì l’abitudine che abbiamo di considerarle insieme e
quindi l’una o l’altra di essa a seconda dell’occasione. Ad es. la parola
“uomo” risveglierà l’abitudine di considerare insieme tutti gli uomini
in quanto sono simili tra loro, e ci metterà in grado di richiamare l’idea
di questo o di quell’uomo. C’è tra le idee una forza, espressa dal
principio della associazione, che le unisce : “Questo principio di unione …
dobbiamo considerarlo semplicemente come una dolce forza che
comunemente si impone; le proprietà che danno origine a questa
associazione e fanno sì che la mente venga trasportata da un’idea
all’altra sono tre : somiglianza, contiguità nel tempo e nello spazio, causa ed
effetto”. Noi passiamo facilmente da un’idea ad un’altra che le
assomiglia (per es. una foto ci fa venire in mente il personaggio che
rappresenta); oppure da un’idea ad un’altra, che abitualmente si è
presentata a noi come connessa alla prima, nello spazio e/o nel tempo
(per es. l’idea della levata dell’ancora mi suscita quella della partenza
della nave); l’idea di causa mi richiama quella di effetto e viceversa (ad
es. quando penso al fuoco sono portato a pensare al calore oppure al
fumo).

La critica alla causalità


L’analisi della causalità è forse il maggiore contributo che
Hume ha dato alla filosofia, con la sua critica radicale di tale concetto.
Vediamo meglio.
Secondo Hume, la causa e l’effetto sono idee tra loro ben
distinte, nel senso che nessuna analisi dell’idea di causa, per quanto
accurata, può farci scoprire a priori l’effetto che ne deriva. In linea
puramente logica, dal fatto di aver visto oggi sorgere il Sole, non
deriva necessariamente che il Sole sorgerà ancora domani. E così pure
se osserviamo una palla che urta un’altra su un bigliardo, quest’ultima
comincerà a muoversi. Ora, che cosa ci fa pensare che, di necessità,

192
senza che possa accadere il contrario, la seconda palla si muoverà ?
Non può essere il puro ragionamento perché, ad un livello teorico,
possiamo sempre pensare una cosa ed il suo contrario. La nostra
previsione ha per Hume un presupposto : la credenza che il corso della
natura si mantenga costantemente uniforme e che il futuro sia sempre
conforme al passato. Questa credenza, tuttavia., in quanto
concretamente suffragata solo da eventi passati, è una pura ipotesi. Essa
trae origine solo da una abitudine o costume o consuetudine che ci porta a
proiettare nel futuro ciò che è stato sperimentato nel passato e a dare
per certa la sua ripetizione. L’idea di causalità perde così per Hume
ogni valore razionale, dimostrativo, oggettivo e ne acquista uno per
così dire emotivo, sentimentale, arazionale; ha solo un valore pratico e
utilitario, in quanto permette all’uomo di organizzare in modo più o
meno coerente, e quindi efficace, i nostri comportamenti.

Critica al concetto di cosa, di io, di libertà


Questa critica distruttiva, demolitrice e originale, non
risparmia neppure le cosiddette “cose”, gli oggetti che noi crediamo
esistano indipendentemente da noi, ed anche lo stesso “io”, che ci
sembra così evidente ed inattaccabile da ogni critica (ricordate
Cartesio?).
Le cose, gli oggetti che ci sembrano reali non sono altro, per
Hume, che un fascio di impressioni e di idee. Quel fascio di impressioni
che chiamiamo “mela”, noi lo consideriamo sorretto da un principio
di coesione che garantisce la compattezza delle impressioni medesime
e il loro costante stare insieme. Ma questo principio non è una
impressione bensì un nostro di immaginare le cose, che crediamo
esistere fuori di noi. In altri termini, qualunque impressione è una
percezione e, in quanto tale, soggettiva. Dall’impressione non posso
inferire l’esistenza di un oggetto come causa dell’impressione
medesima, perché il principio di causalità non ha validità teoretica. La
nostra “credenza” nell’esistenza indipendente e continua degli oggetti
è un frutto dell’immaginazione, la quale, una volta in un certo ordine di
idee, prosegue spontaneamente in questo ordine. In particolare,
poiché si riscontra una certa uniformità e coerenza nelle nostre
impressioni, l’immaginazione tende a considerare tale uniformità e
coerenza come totale e completa, supponendo appunto l’esistenza dei
corpi che ne sarebbero la “causa”. Non solo : al lavoro dell’immaginazione
si aggiunge anche quello della memoria, che dà vivacità alle impressioni

193
spezzate e intermittenti, e questa “vivacità” aumenta la “credenza”
nell’esistenza degli oggetti esterni.
Analoghe critiche Hume rivolge contro la credenza nell’io,
inteso come una realtà sussistente e autocosciente, identica a se stessa
e semplice. Hume aveva sostenuto che ogni idea deriva dalla
corrispondente impressione; ma poiché dell’io non vi è nessuna
precisa impressione, “di conseguenza non esiste tale idea”. “Noi stessi” non
siamo altro che collezioni o fasci di impressioni e di idee : siamo una specie di
teatro, dice Hume, dove le impressioni passano e ripassano. Anche
l’esistenza dell’io, dunque, non è altro che oggetto di una credenza.
In ambito morale, Hume nega il libero arbitrio. La libertà è
sempre condizionata da una rete complessa di fattori empiricamente
determinabili. E anche la semplice spontaneità, vale a dire la non
coazione esterna, è comunque determinata, anche se da motivi interni
anziché esterni. Le motivazioni principali delle azioni umane non
sono di ordine razionale.

Critica alla politica


La “ragione” non guida la nostra volontà, e la presunta
“razionalità” dei nostri comportamenti si può misurare solo in
rapporto alla utilità dei loro effetti, alla loro efficacia rispetto a certi
scopi, il principale dei quali è il piacere.
L’uomo agisce spinto dall’egoismo, dal risentimento per le offese, dalla
passione sessuale. Di fronte ad esse c’è solo la simpatia che ci fa percepire
il piacere o, più astrattamente, il bene altrui come parti integranti e
indissolubili del nostro stesso piacere, del nostro stesso bene. La
simpatia è l’unica forza che ci consenta di uscire dal nostro egoismo.
Le regole della giustizia debbono la loro origine all’utilità che
hanno per la società. E l’utilità sociale è a fondamento anche della
massima virtù politica, l’obbedienza. L’uomo non può rimanere
indifferente al benessere dei suoi simili, dunque considera bene ciò che
promuove la felicità dei suoi simili e male il contrario. Il benessere e la
felicità individuali, comunque, sono strettamente legati al benessere e
alla felicità collettivi. La morale, dice Hume, deve togliersi “l’abito del
lutto” con cui l’hanno rivestita, mentre il suo fine deve appunto essere
quello di rendere felici gli uomini nella loro vita.
In ambito politico, Hume critica la teoria del contrario originario
ed anche quella della obbedienza passiva. La prima teoria è smentita dal

194
fatto che l’egoismo dell’individuo non viene meno col passaggio dalla
stato selvaggio allo stato civile, in cui i diritti fondamentali siano pur
collettivamente riconosciuti e garantiti : anche in questa condizione
l’uomo tende comunque a prevaricare sugli altri. La seconda teoria è
smentita dalla storia stessa che rivela, insieme al gioco delle passioni di
parte, la forza d’azione delle masse, che pure appare, il più delle volte,
meramente distruttiva. Quasi tutti i governi sono stati fondati o sulla
usurpazione o sulla conquista o entrambe, senza alcuna pretesa al
consenso o alla volontaria soggezione da parte del popolo.

Critica alla religione


In ultimo, anche nella religione, le conclusioni di Hume sono
radicalmente scettiche. Riguardo alle prove dell’esistenza di Dio, per
esempio, Hume sostiene che l’esistenza è sempre “materia di fatto”
non di dimostrazione, e dunque esclude subito la prova ontologica. La
prova cosmologica viene poi criticata dicendo che, se sono date le
cause particolari, è assurdo chiedere la causa totale del loro insieme,
poiché questa è già data quando sono date le cause particolari. La
prova finalistica conclude per Hume solo ad una causa proporzionata
al suo effetto, e giacché il mondo è imperfetto, anche la divinità
dovrebbe essere imperfetta. Il che indica che una giustificazione
teoretica della religione è impossibile. Si può invece fare una storia
naturale della religione: l’uomo è portato ad attribuire a cause segrete e
sconosciute i beni di cui gode e i mali da cui è afflitto. La varietà delle
vicende lo fa pensare a cause diverse del mondo: il politeismo è
all’origine di ogni religione. A concepire poi la divinità come infinita e
perfetta, gli uomini sono condotti dal bisogno di adularla per tenersela
buona. “Il tutto – conclude Hume – è un indovinello, un enigma, un
mistero inesplicabile. Dubbio, incertezza, sospensione di giudizio sembrano i
soli risultati delle nostre più accurate indagini”.

195
NOTE BIOBIBLIOGRAFICHE

David Hume nacque ad Edimburgo (Scozia) da una famiglia


della piccola nobiltà terriera. Dopo aver trascorso i primi anni
dell’adolescenza nella residenza di campagna, fu mandato a
Edimburgo per frequentarvi prima il college e poi l’università (legge),
ma non terminò gli studi. Fallito il tentativo di inserirsi nel
commercio, si trasferì per un po’ in Francia. Qui scrisse il Trattato sulla
natura umana. Poiché però l’opera non ottenne il successo sperato,
Hume ne compilò un Estratto in forma di una lunga recensione
anonima. Nel frattempo anche i suoi tentativi di ottenere una cattedra
universitaria andarono delusi a causa dell’opposizione dell’ambiente
accademico scozzese, avverso agli esiti scettici del suo pensiero.
Hume quindi, pur continuando a studiare e a scrivere, sbarcò il
lunario facendo diversi mestieri, i quali dapprima rimasero nell’ambito
della promozione culturale (fu conservatore della biblioteca di
Edimburgo), poi si incentrarono sempre più sull’attività politico-
diplomatica. Ebbe così modo di viaggiare e fu a Parigi dal 1763 al
1766 in veste di ambasciatore. Ritornato in patria, rivestì ancora
importanti incarichi politici a Londra, ma dal 1769 si ritirò ad
Edimburgo a vita privata e ad attendere ai suoi amati studi. Quando
seppe di avere un tumore all’intestino, riordinò i suoi scritti,
predisponendo la pubblicazione postuma di alcuni di essi, e attese
serenamente la morte, sopraggiunta nell’agosto del 1776. Altre opere
da ricordare : Ricerche sull’intelletto umano (1748); Ricerche sui principi della
morale (1751); Saggi morali e politici(1741); Storia naturale della religione
(1757); Dialoghi sulla religione naturale (1779); Storia d’Inghilterra (1754-
61).

BIBLIOGRAFIA
A. Santucci, Introduzione a Hume, “I filosofi”, laterza
D. Hume, Opere filosofiche, Laterza o UTET

196
GIAN BATTISTA VICO

(1668-1744)

La critica agli studi del tempo


Per cogliere subito la sua notevole originalità, ricorderei
un’operetta del 1708, De nostri temporis studiorum ratione (che potremmo
tradurre Il metodo degli studi del nostro tempo). Esteriormente lo scritto si
presenta come un’indagine relativa alla più appropriata organizzazione
teorico-pratica che conviene dare agli studi. Vico polemizza ad es.
contro un insegnamento prematuro delle discipline logiche come
facevano al suo tempo, che andrebbero invece studiate per ultime;
rivendica la necessità di inserire e valorizzare, in un adeguato
curriculum di studi, le discipline umanistiche, da quelle retorico-
letterarie a quelle etico-politiche. Non esita inoltre a prendere
posizione riguardo l’orientamento filosofico-scientifico emerso dalla
grande rivoluzione intellettuale del secolo XVII. La principale
preoccupazione del Vico è connessa al fatto che il nuovo indirizzo
teorico, promosso dalla Rivoluzione scientifica, si autoassolutizzi:
Vico teme insomma che il nuovo metodo scientifico voglia proporsi
come l’unico metodo giusto e non solo come un metodo, valido in
certi ambiti così come lo sono, in altri, altri metodi. Con molta
acutezza egli coglie alla base di quella concezione anche una
concezione ontologica: una concezione tale che fisicalizza
unilateralmente tutta la realtà; una concezione che presume di sapere
come è, oggettivamente, fatta la realtà. Ciò che Vico coglie è il rischio
di riduzionismo insito nel matematismo e nel fisicalismo a lui
contemporanei. Una cultura che assumesse come unico paradigma per
ciò che ha valore quello della scienza fisicalmente costituita, finirebbe

197
inevitabilmente per trascurare molti ambiti delle conoscenze umane.
E Vico sottolinea appunto, accanto alle discipline fisico-matematiche
e naturali, l’esistenza di quelle scienze che, a partire dalla fine del 1600,
qualcuno aveva cominciato a denominate, in Francia, "scienze
umane" (psicologia, sociologia, letteratura, politica ecc.). Vico insiste
sull’esistenza di categorie, procedure, criteri, metodi “diversi” da quelli
utilizzati nelle scienze della natura eppure dotati di una loro validità e
scientificità.

Verum factum
La seconda tappa ideale dell’itinerario filosofico vichiano è
costituita dallo scritto De antiquissima italorum sapientia (Sull’antichissima
sapienza degli Italici). Essa contiene la celebre teoria del vero-fatto
(verum factum). Secondo Vico, si possono conoscere veramente solo le
cose che si fanno. Quindi la natura può essere conosciuta
compiutamente soltanto da Dio che ne è l’artefice e creatore. Il
principio secondo cui si conosce veramente solo ciò che si fa,era ben
presente, fra gli altri, in Gassendi, Mersenne e Hobbes. Ma in Vico c’è
l’esigenza di valorizzare l’uomo, sia come soggetto di conoscenza
vera, sia come oggetto di un sapere diverso da quello delle scienze
naturali.

La scienza nuova
Ed arriviamo al capolavoro vichiano, la Scienza nuova. Già dal
titolo, si può notare che Vico vuole delineare un’opera scientifica; si
propone infatti di gettare le basi di una nuova disciplina che riguardi il
mondo umano, la storia. Inoltre Vico concepisce la propria opera
come uno strumento per cui la conoscenza proceda di pari passo con
l’azione; sapere per fare, sapere per trasformare e migliorare l’esistenza e la
società: ecco l’impegno di Vico. L’uomo è visto da Vico
fondamentalmente unitario. L’uomo è anzitutto un essere attivo e
dinamico; in secondo luogo, è un essere animato non solo dalla
ragione ma anche da forti affetti. Paura, bisogno, affetto, desiderio
sono alcune delle molle dell’agire umano su cui Vico insiste di più. Se
gli individui si aggregano in gruppi e nazioni, lo fanno per motivi di
utilità e convenienza (anche senza negare una innata socievolezza). A
questa interpretazione Vico aggiunge anche una componente teorica
cristiana: la Provvidenza. E’ essa che instilla negli uomini certe

198
esigenze (l’insieme degli ideali – giustizia, bontà, sacralità della vita
ecc. – verso cui gli uomini sin dagli inizi hanno basato la loro
convivenza), è appunto essa che li aiuta a compiere il salto dallo stato
naturale allo stato sociale. La religione è per Vico una delle esperienze
primarie, è uno dei fattori di cui non si può non tenere conto in
un’analisi antropologico-sociale che si voglia “scientifica”.

Linguaggio, mito e poesia


Un’attenzione ancora maggiore è manifestata da Vico a
proposito del linguaggio e della poesia. Oltre che un valore in sé, la
poesia gli appare come un ben preciso tipo di comunicazione
espressiva: la comunicazione legata ad una fase dell’evoluzione umana
(sia dell’individuo che della società), caratterizzata dal predominio
della sensibilità. Vico è persuaso che "gli uomini prima sentono senza
avvertire, dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso", e dunque
sottolinea la creatività, l’originalità, la alogicità e l’autonomia della
poesia rispetto alla ragione e alle sue espressioni. Essa è così la forma
di espressione collettiva dei nostri antenati. In tale ambito si colloca la
nota tesi del Vico, secondo cui la poesia di Omero non fu opera di un
singolo poeta, bensì voce ed espressione collettiva di tutto il popolo
greco. Uguale valore Vico riconosce ai miti. Essi non sono, come
pensava Voltaire, delle storielle senza senso, bensì espressioni di verità
per immagini. Sono state le uniche forme che consentivano ai
primitivi di pensare e di tramandare le loro esperienze. Ed anch’esse
sono autonome: Vico sostiene che ogni stadio della nostra storia ha la
sua “logica” e non è legittimo considerarlo in funzione dello stadio
successivo.
E così pure, per quanto riguarda il singolo individuo, Vico
sostiene che i caratteri psicologici e le attività dell’individuo sono
comprensibili in rapporto alle diverse età dell’individuo stesso. La
sensibilità immediata e ingenua è connessa con l’infanzia, tutta sensi e
fantasia; la passionalità è tipica della giovinezza; la razionalità riflessiva
è propria della maturità. Il fanciullo, così, viene considerato come un
essere dotato di peculiarità sue proprie, che vanno esaminate a sé: la
sensibilità, l’immaginazione, la fantasia sono forme psicologiche
dotate di una loro autonomia, con prerogative e funzioni ricche di un
loro valore intrinseco e irriducibile.

199
Le età della storia
Anche nell’evoluzione storica dell’umanità vi sono tre tappe
corrispondenti all’infanzia, alla giovinezza e alla maturità. Vico chiama
queste tre fasi l’età degli dèi, l’età degli eroi, l’età degli uomini. Nella prima
età, il prevalere dei sensi e della fantasia produsse una forma di
convivenza fondata sul culto e sulla centralità delle credenze religiose:
vi furono governi teocratici o repubbliche monastiche, che crearono
una legislazione o diritto divino, nel senso che le leggi venivano
imposte come espressioni della volontà degli dèi. Nella seconda età,
col predominio della fantasia, viene elaborato il diritto eroico, fondato
cioè sulla forza, sull’autorità, non discussa né discutibile. E’ l’età delle
grandi inimicizie tra i popoli primitivi, i quali, raggiungendo una certa
coesione interna, rovesciavano all’esterno tutto il loro potenziale
distruttivo. Nella terza età, infine, vi è il primato della ragione “tutta
spiegata”. Il modello di questo periodo è rappresentato dalla polis
greca e dalla filosofia di Platone. E’ questa l’età in cui gli uomini
pervengono alla coscienza critica di quella saggezza solo intravista
nelle età precedenti. Il merito di Vico è stato quello di aver concepito
la storia come una vicenda caratterizzata da una sua intrinseca
razionalità: si tratta di cogliere le norme e le leggi del cammino storico
delle nazioni. Per scoprire il senso degli eventi particolari, Vico invita
a guardare al di là di tali fatti, per cogliere dentro la storia un’altra
storia invisibile: quella delle ragioni e dei fini più profondi. E’ quella
che Vico chiama la storia ideale eterna, e che è il segreto delle vicende
storiche dell’umanità. Gli uomini infatti, pur essendo dei “bestioni”,
sono diventati successivamente sempre più umani. Come spiegare
questo fatto se non con un intervento della Provvidenza, la quale
agisce negli uomini attraverso un progetto ideale che non è opera
degli uomini né frutto della storia? Gli ideali di giustizia, bontà, verità
si realizzano o no nella storia, vengono proposti o traditi, ma non
sono né in balìa degli uomini né della storia. E’ questo il veicolo di
comunicazione degli uomini con Dio, il ponte fra il trascendente e lo
storico.

Corsi e ricorsi
Il senso della storia è, per Vico, sia nella storia che, nello
stesso tempo, fuori di essa: gli effetti delle azioni umane vanno
sempre oltre l’intenzionalità specifica degli uomini; l’uomo fa più di
quanto sa e spesso non sa quello che fa. La storia è caratterizzata,

200
secondo Vico, da un andamento progressivo ma non nel senso che
tutto quello che viene dopo sia migliore di quello che viene prima, ma
solo nel senso che la storia procede in un modo non meccanico né
uniforme verso l’idealità. Secondo Vico, ogni civiltà ha un suo corso
fondamentalmente progressivo, il quale, giunto al suo apice, si arresta
ed entra in crisi. Davanti ad una umanità incapace di crescere e di
rinnovarsi, si profila la drammatica prospettiva in quella che Vico
chiama la barbarie seconda, che è un ricorso (=un regresso), nel quale si
riproducono in larga misura le forme di vita e di comportamento
proprie dell’età primitiva. La storia, dunque, per Vico, non è uno
sviluppo ininterrotto e irreversibile, in cui non vi sia errore, male o
decadenza, né la ragione è destinata per forza a trionfare.

NOTE BIOGRAFICHE
Vico nacque a Napoli nel 1668. Dopo aver fatto per molti
anni il precettore dei figli del marchese Domenico Rocca di Vatolla,
nel 1699 diventò professore di eloquenza all'università di Napoli,
cattedra che terrà per tutta la vita, e nello stesso anno si sposò con
Teresa Caterina Destito da cui avrà otto figli. Nel 1725 pubblicò la
prima edizione della Scienza nuova, che rimaneggerà continuamente.
Morì nel 1744. Letto a lungo in chiave storicistica e neoidealistica
(Benedetto Croce fu in un certo senso il suo "scopritore"), il pensiero
vichiano mostra in realtà spunti originali e fecondi che lo rendono
tuttora attualissimo.

BIBLIOGRAFIA
G.B. Vico, La scienza nuova e altri scritti, UTET
G.B. Vico, Opere filosofiche, Sansoni
G.B. Vico, Opere giuridiche, Sansoni
N. Badaloni, Introduzione a Vico, "I filosofi", Laterza

201
JEAN-JACQUES ROUSSEAU

(1712-1778)

Il Discorso sulle scienze e sulle arti


Il saggio che darà una certa notorietà a Rousseau fu il Discorso
sulle scienze e sulle arti (1750), che egli aveva scritto in seguito ad un
concorso indetto dall’Accademia di Digione sul tema: “La rinascita
della scienza e delle arti ha contribuito a corrompere o a purificare i
costumi?”. Il breve scritto di Rousseau, che otterrà il primo premio,
rivelò una personalità originale, con una forte determinazione ad
andare al cuore dei problemi e desiderosa di rinnovamento e di
rigenerazione radicale della società. In apparenza, l’assunto del
giovane Rousseau sembrava sostenere che le scienze e le arti non
hanno contribuito al progresso bensì al regresso della civiltà,
fiaccando gli animi e distogliendoli dal perseguimento delle più
autentiche virtù civili e sociali. In realtà, il Discorso non criticava né la
cultura né il sapere in sé. Li criticava solo nella misura in cui, tradendo
la loro più vera missione, essi non operavano per il miglioramento
dell’umanità, rendendosi talora persino complici del rammollimento
dei costumi. Non dimentichiamo le responsabilità politiche che
scienze ed arti hanno avuto (ed hanno) nello sviluppo del dispotismo
repressivo degli Stati moderni. Rousseau vagheggia invece la polis
dell’antichità, cioè è convinto che la mirabile armonia tra individuo e
comunità, tra cultura e politica che fu un tempo di Atene e Sparta,
dovrebbe essere il traguardo ambìto anche delle nazioni moderne.

Discorso sull’origine della disuguaglianza


Molto più controllato, anche se altrettanto radicale, è il Discorso
sull’origine della disuguaglianza tra gli uomini (1754), che Rousseau scrisse
per un altro concorso, sempre bandito dall’Accademia di Digione.

202
Egli esordisce dicendo che l’uomo di natura non è tanto un essere
buono quanto un essere dotato di tendenze e istinti positivi. Per
natura l’uomo è solo aperto al rapporto intersoggettivo ed è solo
sollecitato, dall’istinto di perfettibilità, al proprio perfezionamento.
Rousseau non confonde lo stato di natura con la mitica Età dell’Oro o
col Paradiso Perduto; non crede che esso fosse il luogo o lo stato o la
sorgente di tutti i beni e di tutti i valori. E soprattutto per lui lo stato
di natura “non esiste più, forse non è mai esistito e probabilmente non esisterà
mai”. Esso è dunque piuttosto una ipotesi, un paradigma valutativo e
non qualcosa di reale. Riguardo poi l’origine della vita sociale,
Rousseau non la identifica tanto con l’istituzione di un patto o di un
contratto quanto con una rete assai più complessa di inclinazioni,
bisogni, sentimenti. L’essenza della socialità è dunque cosa positiva :
ciò che non è certo è che il suo sviluppo sia altrettanto positivo. Anzi
fin dall’inizio l’egoismo, la brama di potere, il complicarsi delle
relazioni generano il male e il conflitto sociale, che è anche conflitto
umano. Ma Rousseau vuole fare un discorso politico ed individuare
una causa cui concretamente imputare l’origine del male di cui sopra.
Questa causa viene identificata con l’istituzione della proprietà privata. La
proprietà privata produce infatti una disuguaglianza economica che
tende rapidamente a coincidere con una disuguaglianza sociale e
politica. Chi possiede, ha anche il potere. Il potere, in una spirale
perversa, genera altro potere. L’élite dei proprietari è quella stessa che
costituirà il sistema giuridico : un sistema iniquo perché finalizzato alla
autoconservazione della forza e dell’autorità e alla perpetuazione della
disuguaglianza.

Il Contratto sociale
Nel 1762 Rousseau pubblica il Contratto sociale. In quest’opera
si respira un’ansia di emancipazione per cui egli vorrebbe trasformare
la realtà : creare una società libera ed egualitaria per rigenerare
l’umanità. Il problema più arduo è mediare tra due realtà che
Rousseau ritiene assolutamente certe e oggettive : da un lato che
l’uomo è e deve restare libero; dall’altro che la società implica un
ordine e quindi delle rinunce. Rousseau ritiene che sia possibile
trovare una soluzione ripensando alla genesi della società. Il filosofo
inglese Hobbes aveva affermato che solo una cessione generale di
tutti i poteri da parte di tutti gli individui garantiva la tutela
dell’uguaglianza tra i membri della società. Anche Rousseau parla di
una alienazione totale, di ciascun associato, con tutti i suoi diritti, alla

203
comunità. Egli pone però l’accento sul momento della comunità. In
altre parole, per Rousseau l’uomo è persona e la società è un corpo
vivente; la salute della società dipende dall’essere dei singoli cittadini;
si deve perciò puntare ad una integrazione cooperante tra uomini e
società (da ciò deriva anche la strettissima connessione, nell’opera di
Rousseau, tra la riflessione sociopolitica e quella psicologico-
antropologico-pedagogica, come vedremo tra breve nell’Emilio).
Infatti solo individui opportunamente rigenerati permetteranno una
radicale trasformazione della società. Secondo Rousseau, i cittadini,
pur alienando tutti i loro diritti alla comunità, che ne ricava un
massimo di autorità, restano liberi. E restano libri non solo in quanto
acquistano uno stato di assoluta uguaglianza reciproca tutelata dalla
legge, ma anche in quanto partecipano attivamente alla vita
comunitaria, in quanto gestiscono direttamente il potere politico.
Rousseau ha compreso, con grande acume, che una delle possibili matrici
della illibertà risiede proprio nella delega del potere da parte del complesso dei
cittadini ad un gruppo di essi. Tale delega appare a Rousseau comunque
dannosa. La sovranità andrebbe attribuita invece al solo io comune del
popolo. Solo il popolo è il legittimo titolare del potere. In più, il
popolo può bensì affidare per motivi di convenienza pratica la
gestione degli affari pubblici ad appositi deputati, ma costoro non
devono essere considerati in alcun modo i depositari di una sorta di
potere separato. L’ideale politico delineato da Rousseau si incarna in
una comunità di non grandi dimensioni, in cui il cittadino sia, insieme,
governato e governante (dietro tutto ciò c’era forse il modello di
Ginevra). Ma un modello politico del genere è concretamente
realizzabile? Rousseau risponde che l’uomo non è solo istinto, mera
volizione egoistica e cieca; egli è anche ragione, coscienza, riflessione.
Perciò può riuscire a guardare al di là del proprio perimetro
soggettivo, a cogliere valori più ampi, a partecipare ad istanze che lo
trascendono, pur restando anche sue proprie istanze. Questa capacità
gli consente di ascoltare una volontà che non è la sua semplice
volontà individuale, ma è la cosiddetta volontà generale. Essa è la voce
della collettività, l’espressione degli interessi socialmente costituiti, la
prospettiva rivolta costantemente all’utilità generale. essa è
un’espressione di noi stessi, del nostro essere uomini. Obbedendo alla
volontà generale, l’uomo obbedisce pertanto a se stesso, anzi, alla
parte più razionale e morale di se stesso; per questo una tale
obbedienza pone in essere la sola libertà degna di questo nome. In
breve, l’uomo è propriamente tale solo in quanto è cittadino che
coglie ed accetta le esigenze profonde e razionali della società.

204
L’Emilio
Nello stesso anno in cui è pubblicato il Contratto sociale, esce
anche l’Emilio, e non a caso. L’opera delinea infatti un modello di
uomo senza il quale il modello di società delineato nel Contratto sociale
non poteva neppure essere pensato. L’educazione si configura per
Rousseau come quell’intervento attraverso cui si può plasmare
un’umanità capace di vivere, anzi di convivere, secondo i dettami della
giustizia e della ragione. Prima che all’istruzione di un fanciullo e alla
preparazione di un adulto o, meglio, di un cittadino, Rousseau punta
alla formazione di un uomo: “Vivere è il mestiere che gli voglio insegnare.
Uscendo dalle mie mani, egli … sarà prima di tutto un uomo : tutto quello che un
uomo dev’essere, egli saprà esserlo, all’occorrenza, al pari di chiunque : e per
quanto la fortuna possa fargli cambiare condizione, egli si troverà sempre nella
sua” (cfr. Emilio, libro 1°).
Il principio-guida dell’opera di Rousseau è costituito da una
libertà ben guidata, non da una libertà capricciosa e disordinata. A tale
scopo l’itinerario e l’ideale educativo deve essere graduale e rispettoso
dei vari stadi di sviluppo. In primo luogo, il precettore non deve
considerare il fanciullo come un adulto in miniatura : “La natura vuole
che i fanciulli siano fanciulli prima di essere uomini. L’infanzia ha certi modi di
vedere, di pensare, di sentire del tutto speciali; niente è più sciocco che voler
sostituire ad essi i nostri”. Rispettando tale sviluppo, dalla nascita ai
dodici anni, bisogna badare all’esercizio intelligente dei sensi. Da qui
l’esigenza di educare il fanciullo a sviluppare liberamente il bisogno di
muoversi, di giocare, di conoscere il proprio corpo. E’ il periodo della
cosiddetta educazione negativa, la quale consiste “non già nell’insegnare la
virtù e la verità, ma nel garantire il cuore dal vizio e la mente dall’errore”. Tale
principio deriva dall’assunto che non vi è perversità nel cuore umano,
che la deviazione e il vizio vengono dall’esterno. I vizi presi nell’età
della prima formazione, quella che va appunto dalla nascita ai dodici
anni, non saranno più sradicati : occorre perciò proteggere in ogni
modo Emilio dalle influenze negative dell’ambiente, favorendo invece
lo sviluppo delle sue inclinazioni naturali. L’educatore pianificherà
ogni cosa affinché Emilio compia da sé le scoperte che costituiscono
la sua conoscenza del mondo. Anche l’obbedienza, in questo periodo,
sarà ottenuta con la pura autorità, senza discussione : “Adoperate la
forza con i fanciulli e la ragione con gli uomini”.
Dai dodici ai quindici anni occorre sviluppare l’educazione
intellettuale, orientando l’attenzione del ragazzo verso le scienze, dalla
fisica alla geometria all’astronomia, attraverso un contatto diretto con

205
le cose, allo scopo di cogliere le regolarità e le necessità della natura; si
collegherà inoltre ogni conoscenza ad un’utilità riconoscibile dal
ragazzo, che ricostruirà poi da sé i principi delle scienze.
Dai quindici ai ventidue anni è il momento dell’educazione
morale, sociale e religiosa. L’educazione alla virtù farà di Emilio un “uomo
morale” : e la moralità consisterà nel sapere disciplinare le passioni,
seguendo il lume della ragione e la voce della coscienza. Da ultimo,
l’educazione politica preparerà Emilio alla vita sociale : imparerà a
distinguere il giusto dall’ingiusto e agirà secondo l’accordo della sua
volontà con quella generale della comunità. Potrà così diventare un
buon cittadino ed un buon marito e padre (conoscerà Sofia, la sua
futura sposa).
L’ideale etico-religioso di Rousseau in quest’opera è esposto
nel quarto libro, nella famosa Professione di fede del vicario savoiardo. Le
verità fondamentali in cui tutti credono sono due : l’esistenza di un
essere supremo e l’immortalità dell’anima. Rousseau dice di rifiutare la
dottrina del peccato originale e la salvezza soprannaturale e propone
invece una “professione di fede puramente civile, di cui spetta al sovrano fissare
gli articoli”. Tali articoli sono le due verità dette prima con in più “la
santità del contratto sociale e delle leggi”, e l’aggiunta di un dogma negativo,
l’intolleranza. “Bisogna tollerare – sostiene Rousseau – tutte quelle religioni
che a loro volta tollerano le altre, fintanto che i loro dogmi non contengano niente
di contrario ai doveri del cittadino. Ma chiunque osi dire che fuori della Chiesa
non c’è salvezza, dev’essere espulso dallo Stato”.

206
NOTE BIOGRAFICHE

Jean Jacques Rousseau nacque a Ginevra nel 1712 ed ebbe


un’infanzia difficile : la madre morì di parto e il padre dovette ben
presto lasciare la città. Il giovane Rousseau ricevette l’appoggio di
Madame de Warens, una dama svizzera al servizio del re di Sardegna,
che gli fece da matrigna e da amante. Durante questo periodo – in cui
soggiornò ad Annecy (nella Savoia), Torino, varie località della
Svizzera, Chambery – esercitò diversi mestieri e completò la sua
formazione intellettuale con numerose letture. Separatosi da Madame
de Warens, arrivò a Parigi ed entrò in contatto con gli Enciclopedisti.
Scrisse parecchi articoli per la famosa Enciclopedia, tra cui alcuni di
carattere musicale : si dilettava infatti anche di composizione, ed un
suo melodramma fu persino rappresentato a Versailles, alla presenza
del re. Nel 1757 interruppe i suoi rapporti con gli Enciclopedisti e si
ritirò a Montmorency, dove scrisse La nuova Eloisa (1761), il Contratto
sociale (1762), l’Emilio (1762). Poiché queste opere furono condannate
sia dalle autorità parigine che ginevrine, si rifugiò a Neuchâtel, in un
territorio svizzero ma soggetto al re di Prussia. Si trasferì per un po’
anche in Inghilterra, a Londra, su invito di Hume, ma poco dopo i
rapporti fra i due pensatori di guastarono e Rousseau se ne tornò in
Francia. Si ritirò, a causa delle cattive condizioni di salute, ad
Ermenonville, dove morì nel 1778, dopo aver scritto un’autobiografia
che intitolò Confessioni.

Bibliografia
Casini, Introduzione a Rousseau, “I filosofi”, Laterza
Rousseau, Opere, 2 voll., Sansoni

207
IMMANUEL KANT

(1724-1804)

Scritti precritici
Accenno qui ai più importanti scritti di Kant prima della
pubblicazione delle tre Critiche, che segnano il culmine del suo
pensiero. Iniziamo con la Storia universale della natura e teoria del cielo
(1755), in cui Kant descrive la formazione dell'universo a partire da
una nebulosa primitiva, secondo le leggi della meccanica newtoniana.
Si ricordi che nel 1796 l'astronomo Laplace giunse ad una ipotesi
simile a quella kantiana e da allora la teoria cosmologica fu ricordata
come "teoria di Kant-Laplace". L'intento dichiarato dell'opera era
quello di "dedurre dallo stato primitivo della natura, col suo aiuto
delle leggi della meccanica, la formazione dei corpi celesti e l'origine
dei loro movimenti". L'ordine delle leggi dell'universo implica
l'esistenza di un ordinatore e quindi di Dio. Ciò però non significa che
si debba ricorrere a Dio nella spiegazione dei fenomeni naturali. I
diversi mondi si sono formati da una nebulosa originaria (la materia si
è organizzata attorno ad un nucleo centrale, evolvendo dal caos
primordiale) per effetto esclusivo delle forze di attrazione e
repulsione; le medesime forze determinano i movimenti orbitali dei
pianeti. La storia della natura è ciclica. I sistemi cosmici andranno in
rovina e la materia tornerà nel caos, da cui poi si riformeranno nuovi
mondi. Kant ha così cercato di applicare la teoria newtoniana ad una
ipotesi generale di formazione dell'universo, che Newton non aveva
fatto. Kant ha limitato l'intervento divino alla sola creazione della
materia e delle leggi naturali, utilizzando poi, per spiegare ogni altro
fenomeno tranne per i fenomeni del mondo vivente, i principi della

208
teoria newtoniana, la causalità meccanica e la gravitazione. Nella
conclusione dell'opera, Appendice sugli abitanti dei corpi celesti, Kant, per
"puro diletto dello spirito", sostiene che "sia assurdo negare che altri
pianeti oltre al nostro siano abitati". Non solo l'uomo non è l'unico
abitante dell'universo, ma vi sono altri esseri che sono più perfetti
dell'uomo stesso. Visto che il corpo è un elemento che limita la
ragione e la spiritualità, un essere è tanto più perfetto quanto più si
trova lontano dal Sole, visto che la densità della materia è tanto
minore quanto maggiore è la distanza dal Sole. A mezza strada tra la
perfezione degli esseri che dovrebbero abitare Giove e Saturno e la
brutalità degli abitanti di Mercurio, sta appunto l'uomo, sempre in
tensione tra istinto e ragione.
Nei Sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica (1766),
Kant discute le teorie dello svedese Emanuele Swedenborg, un
occultista e visionario che diceva d'essere in contatto col mondo degli
spiriti. Una donna, Charlotte Knobloch, chiese a Kant il suo parere a
riguardo e il filosofo, dopo avere letto con scrupolo i libri dello
svedese, pubblicò un volumetto in cui, prendendo spunto dalle
fantasticherie dell'occultista, attaccava la metafisica del suo tempo,
facendo un parallelo fra i sogni dei visionari e quelli dei metafisici,
"fabbricanti di castelli in aria". Secondo Kant, le questioni che esulano
dal campo dell'esperienza devono essere abbandonate perché intorno
ad esse non si producono altro che "invenzioni". La metafisica come
la intende Kant – “della quale io ho in sorte di essermi innamorato”23
- sarà d'ora in poi una “scienza dei limiti della ragione umana”, per cui
i suoi problemi sono quelli entro i confini dell'esperienza umana.
“Merito della saggezza sta nello scegliere, tra gli innumerevoli
problemi che si presentano, quelli la cui soluzione sta a cuore
all'uomo”.
Nel 1770 Kant scrive la dissertazione De mundi sensibilis atque
intelligibilis forma et principiis per la nomina a professore ordinario di
"logica e metafisica" presso l'Università di Königsberg. E' un'opera
che rappresenta il passaggio dalla fase precritica a quella critica.
Vediamo in che senso. Kant distingue nettamente tra la conoscenza
sensibile e quella intellettuale. La prima è dovuta alla passività o
ricettività del soggetto che riceve appunto i dati sensibili : essi ci fanno
vedere le cose così come ci appaiono, cioè ci fa conoscere i fenomeni,

23 Cfr. in Kant, Scritti precritici, a cura di R.Assunto, Roma-Bari, Laterza 1990, p. 399.

209
le cose come si manifestano a noi e non come sono in sé. La seconda
è una facoltà del soggetto che ci permette di cogliere le cose così
come sono, nel loro vero essere, che può essere colto solo dal
pensiero, e per questo motivo Kant chiama le cose come vengono
colte dal pensiero noumeni (dal greco noein, "pensare"). Concetti
dell'intelletto sono ad esempio quelli di "possibilità", di "necessità" e
simili, i quali ovviamente non possono derivare dai sensi. Gli errori
della metafisica tradizionale derivano dal "gioco illusionistico" di
confondere conoscenza intellettuale e conoscenza sensibile. Kant
sostiene che la conoscenza sensibile è intuizione, cioè conoscenza
immediata. Ora, ogni conoscenza sensibile avviene nello spazio e nel
tempo: lo spazio e il tempo non sono proprietà caratteristiche delle
cose, realtà ontologiche (come diceva ad es. Newton, e ancor prima
Aristotele), né semplici rapporti fra i corpi, come credeva Leibniz.
Essi sono invece le forme della sensibilità, cioè i modi con cui il
soggetto coglie sensibilmente le cose. E' questa la "grande luce" che
Kant dice gli sia venuta nel 1769. Essa sarà teorizzata compiutamente
nella Critica della ragion pura (1781), in cui parlerà della "rivoluzione
copernicana" che la sua filosofia (il criticismo) ritiene di aver portato nel
sapere filosofico. Si badi che in questa dissertazione, mentre la parte
che analizza la sensibilità è già "critica", nella parte che riguarda la
conoscenza intellettuale è ancora "precritica" o dogmatica poiché
Kant crede ancora di poter cogliere, grazie alla conoscenza
intellettuale, le cose così come sono (noumeni), mentre nella Critica
della ragione pura lo dichiarerà impossibile.

CRITICA DELLA RAGIONE PURA (1781):


INTRODUZIONE GENERALE

L'opera è divisa in due grandi parti : la Dottrina degli elementi e la


Dottrina del metodo. La prima è suddivisa in Estetica trascendentale e in
Logica trascendentale. Quest'ultima è divisa a sua volta in Analitica
trascendentale e Dialettica trascendentale.
La Dottrina trascendentale degli elementi indaga gli elementi formali
della conoscenza che, per Kant, sono puri e a priori. L'Estetica
trascendentale studia la sensibilità e le sue forme a priori che sono lo
spazio e il tempo, mostrando come su di esso si fondi la matematica;

210
l'Analitica trascendentale studia l'intelletto e le sue forme a priori (le 12
categorie), e mostra come su di esse si fondi la fisica; infine la
Dialettica trascendentale studia la ragione e le sue tre idee di anima,
mondo e Dio, mostrando come su di esse si fondi la metafisica. In
ultimo, la Dottrina del metodo (che è la parte più breve e conclusiva
dell'opera) determina l'uso possibile degli elementi a priori della
conoscenza cioè appunto il metodo della conoscenza stessa.
Il titolo dell'opera può essere inteso come "l'esame dei
fondamenti del sapere" ovvero come "l'esame critico della validità e dei
limiti che la nostra ragione possiede in virtù dei suoi elementi puri a priori". Si
badi: la ragione può essere intesa nel titolo come facoltà conoscitiva in
generale, anche se poi Kant all'interno dell'opera distingue
chiaramente tra sensibilità, intelletto e ragione, come vedremo. Si
ricordi inoltre che per Kant puro è ciò che è fonte di conoscenza a
priori, ovvero ciò a cui non è mescolato nulla di empirico, non
derivando dall'esperienza; inoltre l'aggettivo trascendentale riguarda per
Kant il nostro modo di conoscere le cose in quanto è reso possibile da forme a
priori; in generale è ciò che precede qualsiasi esperienza e ne è la
condizione, per cui "trascendentale" diventa anche sinonimo di
"puro" o di "a priori".
Il pensiero di Kant è detto criticismo perché distinguendosi dal
dogmatismo (che accetta le dottrine senza interrogarsi sulla loro
validità o meno) fa appunto della critica lo strumento della filosofia.
"Criticare" per Kant vuol dire giudicare, valutare, soppesare, ossia
interrogarsi sul fondamento delle conoscenze umane chiarendone le
possibilità, la validità, i limiti. Il che non è affatto scetticismo perché
tracciare il limite di una esperienza vuol dire garantire, entro il limite
stesso, la sua validità. Kant può finalmente respingere lo scetticismo
di Hume perché la sua indagine vuole stabilire, da un lato, come siano
possibili la matematica e la fisica in quanto scienze, e dall'altro come
sia possibile la metafisica, intesa sia come disposizione naturale sia
come presunta scienza. Il tutto viene sintetizzato da Kant nella
celebre formula "Come sono possibili i giudizi sintetici a priori?" e cioè: come
possiamo avere una conoscenza che sia valida scientificamente ?

211
CRITICA DELLA RAGION PURA.
ESTETICA TRASCENDENTALE

La conoscenza scientifica consta di proposizioni o di giudizi


universali e necessari ed inoltre aumenta continuamente il sapere. Ma che cosa è
un giudizio ? In generale un giudizio consiste nella connessione di due
concetti di cui uno (A) è il soggetto e l'altro (B) funge da predicato. Si
presentano allora due casi :
1) Il predicato (B) può essere contenuto nel concetto che funge da
soggetto (A) e dunque può essere ricavabile dalla pura analisi del
soggetto : in questo caso il giudizio è analitico come quando dico
che "ogni corpo è esteso". Infatti il concetto di estensione è sinonimo
di corporeità e quando affermo che "ogni corpo è esteso" non
faccio altro che rendere esplicito ciò che si intende per "corpo".
2) Il concetto che funge da predicato (B) non si trova implicito nel
concetto che funge da soggetto (A) ed allora il giudizio è sintetico
perché il predicato (B) aggiunge al soggetto (A) qualcosa che non
è ricavabile per mera analisi del soggetto ma è qualcosa in più. Ad
es. quando dico che "ogni corpo è pesante" esprimo un giudizio
sintetico giacché il concetto di pesantezza non è implicito nel
concetto di tutti i corpi. Si ricordi che l'esempio kantiano si rifà ad
Aristotele, per il quale alcuni corpi - terra e acqua - sono per
natura pesanti, mentre altri - aria e fuoco - sono per loro natura
leggeri. Noi potremmo fare altri esempi, dicendo "il tavolo è
rotondo", "la mela è verde" ecc. (la rotondità o il verde non
appartengono necessariamente ai due oggetti presi in esame).

I giudizi analitici sono giudizi a priori (cioè non dipendono


dall'esperienza), universali e necessari ma non ampliano le nostre
conoscenze. I giudizi sintetici ampliano sempre le nostre conoscenze
però, essendo a posteriori (cioè basandosi sull'esperienza) non
possono essere universali e necessari. La scienza, per essere tale cioè
conoscenza valida, non si può basare né sui soli giudizi analitici né sui
meri giudizi sintetici ma deve basarsi su un terzo tipo di giudizi che
Kant chiama giudizi sintetici a priori, tali cioè che siano sia universali,
necessari e a priori sia sintetici, cioè aumentino le nostre conoscenze.
Per Kant le operazioni della aritmetica sono "sintesi a priori". Il
giudizio 5+7=12 (oppure 5668797+235408) è un giudizio sintetico a
priori in quanto il risultato è stato ottenuto col sommare e non per via

212
solo analitica (il 5 o il 5+7 non contiene a priori il 12 ma abbiamo
dovuto contare); una volta però ottenuto il risultato, esso sarà per
sempre valido per tutte le menti pensanti. Lo stesso vale per la
geometria (ad es. "la linea retta è la più breve tra due punti", infatti il
concetto di "linea più breve" è aggiunto e non è ricavabile con
nessuna analisi da quello di "linea retta"), e così pure per la fisica e
persino per la metafisica, almeno nelle sue pretese, secondo Kant, vi
sono essere giudizi "sintetici a priori" (ad es. "il mondo deve avere un
primo inizio"). Il problema da affrontare adesso è : come sono
possibili i giudizi sintetici a priori?

La rivoluzione copernicana
Kant ritiene, a differenza del razionalismo, che la scienza
derivi anche dall'esperienza; però pensa anche, a differenza
dell'empirismo, che alla base dell'esperienza vi siano dei principi non
derivabili dall'esperienza stessa. In sintesi, come ho già detto, la
scienza è data, per Kant, dalla esperienza più i principi sintetici a
priori.
Fino ad allora, si era tentato di spiegare la validità della
conoscenza supponendo che fosse il soggetto a dover ruotare intorno
all'oggetto (come il Sole, secondo Tolomeo, ruota intorno alla Terra,
che è immobile al centro dell'universo), cioè la verità consisteva nel
prendere atto che l'oggetto aveva certe sue caratteristiche che il soggetto, se voleva
dire il vero, doveva riconoscere come tali. Kant invece suppone che sia l'oggetto a
dover ruotare intorno al soggetto (come secondo Copernico è la Terra che gira
intorno al Sole) nel senso che è il soggetto che condiziona l'oggetto e non
viceversa, come s'era pensato fino ai suoi tempi. In altre parole, noi
non siamo degli spettatori passivi quando diciamo di conoscere
qualcosa. Al contrario, nel ricevere i dati sensibili, noi "imprimiamo"
attivamente ad essi l'ordine e le leggi del nostro intelletto. Ad es.
quando diciamo che "questa cosa di fronte a me è un tavolo" , lo
possiamo dire perché il fatto di vederlo uno, tridimensionale, colorato
ecc. non dipende dall'oggetto ma soltanto da noi stessi, dal soggetto
che sta conoscendo. Noi insomma non possiamo fare a meno di
conoscere il tavolo in uno spazio e in un tempo determinato, non
possiamo non vederlo colorato, con certe qualità ecc.; non possiamo
non attribuirgli certe caratteristiche (è uno, ha certe qualità). Tutti
questi sono i modi con cui il soggetto coglie sensibilmente le cose.
Questi modi non appartengono all'oggetto ma sono delle "forme" di

213
cui l'uomo è dotato e che non può fare a meno di adoperare durante il
processo di conoscenza. Come dice Kant: "Noi delle cose non
conosciamo a priori se non quello che noi stessi vi mettiamo".
Qual è allora il fondamento dei giudizi sintetici a priori? E' il
soggetto stesso, con le sue leggi che governano il processo della
conoscenza sia attraverso i sensi che attraverso l'intelletto. E visto che
i modi di conoscere a priori che il soggetto ha sono i sensi e
l'intelletto, essi sono i trascendentali della conoscenza umana. Il
trascendentale è dunque la condizione che permette la conoscibilità degli
oggetti, sia dell'intuizione sensibile che della pensabilità stessa degli
oggetti. E' ciò che si riferisce alla conoscenza in quanto possibile a
priori, dice Kant. In breve, il trascendentale è ciò che il soggetto mette
nelle cose nell'atto di conoscerle (e cioè lo spazio, il tempo e le 12
categorie, come vedremo).

L'estetica trascendentale
Veniamo adesso a trattare specificamente della dottrina che
riguarda il senso e la sensibilità, dunque della Estetica (dal greco
"aisthesis", cioè sensazione) trascendentale: essa è quindi la dottrina che
studia le forme della sensibilità, il modo in cui l'uomo riceve le
sensazioni ed ottiene una conoscenza sensibile. In primo luogo,
alcune precisazioni terminologiche. Kant distingue fra sensazione,
sensibilità, intuizione, fenomeno (e poi noumeno).
La sensazione è una semplice modificazione (un tempo si
diceva affezione) che il soggetto subisce, passivamente, ad opera
dell'oggetto : ad es. quando sentiamo caldo o freddo, quando vediamo
rosso o altri colori, quando gustiamo il dolce o l'amaro. In altri
termini, è una azione che l'oggetto "produce" sul soggetto,
modificandolo.
La sensibilità è la facoltà che noi abbiamo di ricevere le
sensazioni, ossia la facoltà mediante la quale noi siamo suscettibili di
essere modificati dagli oggetti.
L’intuizione è la conoscenza immediata degli oggetti. Essa non
crea, non produce gli oggetti ma dipende dall'esistenza degli oggetti
stessi. In altre parole, gli oggetti esistono realmente e il modo come li
conosciamo immediatamente è chiamato da Kant "intuizione". Egli
chiama poi intuizione empirica la conoscenza sensibile in cui sono

214
concretamente presenti le sensazioni, mentre parla di intuizioni pure
riferendosi propriamente solo allo spazio e al tempo.
Il fenomeno è l'oggetto dell'intuizione sensibile. Si ricordi che
in greco la parola indica "ciò che si manifesta, ciò che appare".
Dunque noi, quando conosciamo qualcosa sensibilmente, cogliamo
l'oggetto quale appare a noi e non come è in sé; lo cogliamo come si
manifesta a noi secondo le nostre forme della sensibilità. Nulla ci vieta
di pensare che, se avessimo altri sensi, le cose ci apparirebbero in
maniera diversa.
Dopo queste precisazioni, Kant approfondisce ulteriormente
che cos'è un fenomeno. In ogni fenomeno c'è per Kant una materia e
una forma. La materia consiste nelle varie sensazioni e, come tale, è a
posteriori (=dipende dall'esperienza : non posso sentire caldo o
freddo se non ho prima l'esperienza del caldo o del freddo). La forma
dipende invece dal soggetto ed è il modo in cui "funziona" la nostra
sensibilità, la quale, nel momento in cui accoglie i dati dei sensi, li
"organizza” in maniera ordinata : infatti io vedo ad es. un tavolo e
non ho delle sensazioni separate, confuse di un qualcosa che sta di
fronte a me. La forma sarà quindi a priori e consisterà nelle due
intuizioni pure dello spazio e del tempo.
Lo spazio e il tempo sono per Kant modi e funzioni propri
del soggetto, cioè sono i modi che noi abbiamo di cogliere
sensibilmente le cose. Noi non possiamo non "inquadrare" una
qualsiasi sensazione in uno spazio e in un tempo particolare. Lo
spazio è la forma (=il modo di funzionare) del senso esterno ossia la
condizione cui deve sottostare la rappresentazione sensibile degli
oggetti esterni al soggetto. Il tempo è la forma del senso interno e cioè
è la forma di ogni dato sensibile interno, in quanto da noi conosciuto.
Si badi : altri esseri - dice Kant - potrebbero cogliere le cose non
spazialmente né temporalmente; noi invece non possiamo non coglierle
spazio-temporalmente perché "siamo fatti così", abbiamo una sensibilità che
"funziona" in questo modo.
Siamo ora in grado di capire su che cosa si fonda la validità di
scienze come la geometria e l'aritmetica. Esse sono valide perché si
fondano sulle forme a priori della nostra sensibilità, sulle intuizioni
pure dello spazio e del tempo. Proprio per questo le due scienze
hanno universalità e necessità giacché lo spazio e il tempo sono
"strutture" del soggetto o, meglio, di tutti i soggetti, di tutti gli uomini
allo stesso modo. Tutti noi, in altre parole, abbiamo lo stesso modo di

215
cogliere sensibilmente le cose, attraverso lo spazio e il tempo. I giudizi
della geometria (postulati, teoremi ecc.) si fondano quindi sulla
intuizione a priori dello spazio; la matematica si fonda invece sul
tempo perché moltiplicare, sommare ecc. sono operazioni che
richiedono tempo.

LOGICA TRASCENDENTALE.
1. ANALITICA TRASCENDENTALE.
L'uomo non ha solo sensazioni ma anche intelletto. Mediante
le sensazioni, gli oggetti ci sono dati; mediante l'intelletto essi sono
pensati. Entrambe le facoltà ci sono indispensabili: l'intelletto non
può intuire (cioè, nel linguaggio di Kant, conoscere sensibilmente) né
i sensi possono pensare. Perciò è giusto distinguere le loro funzioni e
dunque adesso dobbiamo occuparci della logica ovvero della scienza
dell'intelletto in generale. Kant distingue la logica generale o formale, che è
quella che studia le leggi del pensiero, quella aristotelica, che viene
comunque accettata da Kant; da un'altra logica che Kant chiama logica
trascendentale, che studia i concetti puri dell'intelletto ovvero le
categorie (che vedremo subito), e dunque essa studia specificamente
quei concetti che non derivano dagli oggetti ma sono a priori nel
nostro intelletto.
Si badi: per Kant le categorie non sono le leggi dell'essere,
come per Aristotele, ma sono le leggi della mente ovvero i modi come
funziona il nostro intelletto (sono forme sintetizzatrici e non
contenuti). Ma quante sono le categorie? Per Aristotele, come si
ricorderà, erano dieci. Per Kant invece le categorie sono dodici.
Perché? Per Kant pensare significa giudicare cioè formulare dei giudizi :
ora, ci saranno tante categorie quante sono le forme di giudizio che la
logica classica formale ha classificato; e se la logica è giunta a
distinguere dodici tipi di giudizi diversi ci saranno allora 12 tipi di
categorie, divise in 4 gruppi (secondo la quantità, qualità, relazione e
modalità) con 3 tipi ciascuno.
Quantità Qualità Relazione Modalità
Unità Realtà Inerenza Possibilità
Pluralità Negazione Causalità Esistenza
Totalità Limitazione Comunanza Necessità

216
L'Io Penso e la Deduzione trascendentale
Pensare qualcosa è possibile solo in quanto la molteplicità
delle intuizioni sensibili vengono congiunte in una sola
rappresentazione : questa unità è chiamata da Kant Io Penso ovvero
Appercezione Trascendentale. In altri termini, il pensare è possibile a due
condizioni:
1) da un lato che il soggetto costituisca il termine di riferimento
unitario delle varie intuizioni che devono appunto essere
congiunte: l'Io Penso indica allora "L'unità trascendentale
dell'intelletto", ossia quel centro mentale unificatore di carattere
puramente formale o funzionale che accompagna tutte le mie
rappresentazioni. Altrimenti, esisterebbe "un me stesso variopinto
e differente" che riprodurrebbe la molteplicità delle
rappresentazioni senza poterle unificare.
2) Dall'altro, il soggetto deve pure avere autocoscienza, cioè deve
essere consapevole di essere il termine di riferimento unitario delle
varie rappresentazioni. E' insomma la coscienza di noi stessi di
essere dei soggetti pensanti. Infatti qualsiasi giudizio formuliamo,
ad es. "A è uguale a B", implica sempre che "Io Penso che A è
uguale a B". In altri termini, affinché io possa rappresentarmi
qualcosa, bisogna che la rappresentazione sia presente alla mia
autocoscienza (che Kant chiama appercezione pura o trascendentale
perché è a priori e si distingue dalla coscienza empirica in quanto è
la condizione di tutte le mie rappresentazioni ), e poiché questo vale
per tutte le mie rappresentazioni, esse vengono unificate appunto
da ciò che Kant chiama l'Io Penso.

Visto poi che l'Io Penso è identico in tutti gli uomini, ossia
tutti gli uomini hanno la stessa "struttura unificante", il risultato della
unificazione sarà valido universalmente e oggettivamente per tutti. Ad
es. quando dico che "Questo corpo è pesante", tale giudizio vale per
tutti gli intelletti umani che dispongono delle mie stesse
caratteristiche. Le categorie sono insomma universali: non
appartengono al singolo individuo bensì alla conoscenza umana in
generale. Grazie a questa universalità, esse rendono possibile
l'oggettività del giudizio , in quanto il giudizio che rendono possibile
deve essere valido per tutti, essere universale e necessario. Da qui
giungiamo alla Deduzione trascendentale delle categorie cioè al
riconoscimento della loro validità tramite l'Io Penso. Il termine
"deduzione" non è qui usato da Kant nel solito senso di "ragionamento

217
che parte dall'universale per arrivare al particolare"(ricordate il
sillogismo aristotelico: tutti gli uomini sono mortali/Socrate è
uomo/quindi Socrate è mortale?), ma nel significato giuridico di
giustificazione. In altri termini: come mai la nostra conoscenza
scientifica è valida? Su che cosa si basa la validità delle categorie
ovvero del nostro modo di pensare le cose? La risposta è appunto l'Io
Penso. Come il soggetto, quando coglie con i sensi gli oggetti, li
spazializza e li temporalizza, così, quando li pensa, li ordina secondo
le categorie, secondo i modi proprio del pensiero umano. Le categorie
sono dunque le condizioni alle quali è possibile che qualcosa venga
pensato come oggetto di esperienza. Il che indica che per Kant il concetto
di "oggetto", che era tradizionalmente concepito come un qualcosa che è opposto al
soggetto, presuppone, al contrario, proprio il soggetto, perché solo un soggetto
può distinguere tra soggetto e oggetto, e può conoscere sia il soggetto
che l'oggetto.

Lo schematismo trascendentale e l'immaginazione produttiva


Le categorie si possono però applicare solo alle intuizioni
empiriche, valgono cioè solo nell'ambito dell'esperienza. La
conoscenza valida per l'uomo rimane per Kant quella fenomenica,
nell'ambito dell'esperienza. Si è detto più volte che le intuizioni sono
solo sensibili ed i concetti sono solo intellettuali: intuizioni e concetti
sono dunque eterogenei. Di qui sorge il problema di come sia possibile
applicare le categorie ai dati sensibili. Ad es. come è possibile l'applicazione della
categoria di causalità ai fenomeni (dire che "A è causa di B") se la categoria è un
concetto puro che non può trovarsi nei fenomeni ? (Ripensate alla questione
della causalità in Hume: le cose accadono; siamo noi che vi vediamo o
cerchiamo un perché). Occorre dunque una facoltà intermedia che
presenti, da un lato, il carattere spontaneo proprio dell'intelletto, e
dall'altro possa avere per oggetto rappresentazioni intuitive come la
sensibilità. Tale facoltà intermedia è trovata da Kant nella
immaginazione . Essa ha due funzioni : nella sua funzione semplicemente
riproduttiva, essa è la capacità di richiamare alla memoria, di riprodurre
appunto l'immagine di un oggetto non più dato ai sensi. Nella sua
funzione invece produttiva, l'immaginazione produttiva esplica la sua
attività mediatrice, dando origine a quelle rappresentazioni intermedie
tra la semplice immagine (nel senso comune del termine, la quale è il
prodotto dell'immaginazione riproduttiva ed è sempre particolare,
singola) ed il concetto (che è un prodotto della sintesi dell'intelletto ed
è sempre generale) che Kant chiama schemi trascendentali, da cui la

218
dottrina importantissima dello schematismo trascendentale.
L'immaginazione produttiva dà appunto origine agli schemi
trascendentali puri, ad ognuno dei quali corrisponderà una categoria o
un gruppo di categorie. Ad es. lo schema che appartiene alla categoria
della quantità è il numero, quello della categoria della qualità è il grado
ecc. Gli schemi sono inoltre definiti da Kant come "determinazioni a
priori del tempo secondo regole". Che cosa vuol dire? Vuol dire che
tutti i fenomeni, una volta colti, diventano per così dire "interni" al
soggetto, ed il tempo non è appunto il nostro "senso interno"? Il
tempo è così l'intuizione che connette tutte le rappresentazioni. E'
possibile collegare tra loro due rappresentazioni empiriche solo
ammettendo tra loro un rapporto di tempo, ad es. una successione o
una simultaneità (Kant dice: gli schemi sono le categorie calate nel
tempo). Si pensi alla solita categoria della causalità: è appunto lo
schema relativo a questa categoria che ci permetterà di applicarla ai
vari oggetti d'esperienza, cosa altrimenti impossibile.
Infine Kant passa ad illustrare le "regole dell'uso oggettivo
delle categorie" che, essendo tanto generali da fondare ogni
conoscenza, si identificano, in pratica, con le leggi universali della
natura. Si badi però : le leggi universali che esse esprimono (ad es. che
ogni fenomeno ha una causa) hanno un carattere trascendentale e non si
identificano con le singole leggi naturali particolari che sono state scoperte
empiricamente (ad es. l'accelerazione ecc.).
In conclusione, siamo solo e sempre noi che costituiamo la
natura come un insieme unitario di fenomeni, connesso da leggi
necessarie, le quali non sono altro che le regole del nostro intelletto. Si
ricordi però che la conoscenza scientifica è sì universale e necessaria
ma rimane fenomenica.
Se il fenomeno è la cosa come "appare a noi", è evidente che
esso presuppone la cosa "qual è in sé", cioè il noumeno. Esso è inteso
da Kant in due modi: in senso negativo è la cosa quale è in sé, ossia la
cosa quale potrebbe essere pensata da noi … senza pensarla, senza usare
le nostre categorie mentali ! In senso positivo il noumeno sarebbe oggetto di
una intuizione non sensibile, la quale però non è data all'uomo;
dunque è un concetto-limite che ci ricorda che quello che ci viene
dato da conoscere nello spazio e nel tempo non è la realtà in assoluto
e che quindi l'intelletto non può conoscere le cose in sé ma solo
pensarle nella loro possibilità, sotto forma di X ignote, di incognite.

219
LOGICA TRASCENDENTALE.
2. DIALETTICA TRASCENDENTALE.

Nella "Dialettica trascendentale" Kant affronta il problema se


la metafisica sia o no una scienza valida ossia ci possa dare delle
conoscenze certe. Si noti: il termine "dialettica" viene qui usato da
Kant in senso negativo cioè con esso egli intende l'analisi e lo
smascheramento dei ragionamenti fallaci della metafisica. “La dialettica
trascendentale si appagherà quindi dello svelamento della parvenza dei
giudizi trascendenti, e nel contempo di premunirci dal cadere vittima
del suo inganno”24 Chiariamo: il pensiero umano è limitato, in ambito
conoscitivo, all'esperienza. La sua tendenza ad andare tuttavia oltre
l'esperienza è naturale e irrefrenabile ma, non appena lo spirito si
avventura al di fuori degli orizzonti dell'esperienza, cade fatalmente in
errore. Queste illusioni ed errori hanno però una logica ben precisa:
sono tipi di errori che non possono non essere commessi. “Qui siamo innanzi ad
una inevitabile illusione naturale”. C'è ancora da notare che il termine
"ragione" ha in Kant un significato generale che indica la facoltà
conoscitiva in genere, e ne ha poi uno specifico, esaminato proprio
qui nella Dialettica trascendentale, che indica l'intelletto quando si spinge
al di là dell'esperienza possibile. Questo spingersi oltre è (si ricordi)
qualcosa di strutturale e di ineliminabile: lo spirito umano non può
non cercare di spingersi oltre l'esperienza. Kant distingue allora tra la
ragione (Vernunft) che è la facoltà dell'incondizionato, cioè l'intelletto
quando pretende di andare oltre l'esperienza ed entrare nell'ambito
della metafisica, e l'intelletto (Verstand) quando si mantiene negli
orizzonti della esperienza possibile.
Kant chiama Idee le forme a priori ovvero i concetti puri della
ragione (come le categorie erano le forme a priori o i concetti puri
dell'intelletto). Esse corrispondono all'Idea psicologica o anima, all'Idea
cosmologica o mondo, all'Idea teologica o Dio. La ragione è portata
costitutivamente ad unificare i dati del senso interno mediante l'Idea
di anima; ad unificare i dati del senso esterno mediante l'Idea di
mondo; ad unificare i dati esterni ed interni con l'Idea di Dio, intesa
come la totalità di tutte le totalità ed il fondamento di tutto ciò che
esiste. L'errore della metafisica consiste nel trasformare queste tre

24
Kant, Critica della ragione pura, trad. it. a cura di P. Chiodi, Torino, Utet, 1967, p. 304 (A297,
B334).

220
esigenze mentali di unificazione dell'esperienza in altrettante realtà
autonome: questa è però un'illusione strutturale così forte che non
cessa neppure quando ci rendiamo conto che essa è tale.
L'ANIMA. L'Idea dell'anima, studiata dalla psicologia
razionale, intende appunto l'anima come una sostanza personale,
immateriale, incorruttibile, spirituale, immortale ecc. Per Kant chi
afferma l'esistenza dell'anima come qualcosa di reale e diverso dal
corpo, dotata delle caratteristiche che abbiamo appena elencato, cade
in un errore trascendentale che Kant chiama paralogismo. Il
paralogismo è un ragionamento sbagliato che consiste nel partire
dall'Io Penso e trasformarlo in una sostanza a sé. Non si può, per
Kant, parlare dell'anima come di una sostanza perché essa è una delle
categorie (esattamente la prima categoria della relazione) e dunque
può applicarsi solo ai dati dell'intuizione sensibile ma non a qualcosa
che, per definizione, è al di là del conoscere fenomenico. L'Io Penso,
d'altra parte, non è affatto una sostanza, ma solo una pura attività
formale a cui non possiamo riferire nessuna categoria (è da esso che
dipendono le categorie; è soggetto e non oggetto delle categorie). In
altre parole, noi siamo coscienti di noi stessi come esseri pensanti ma
non riusciamo a conoscere l'io quale è in sé stesso. Noi ci possiamo
conoscere solo e sempre come fenomeni e dunque conosciamo solo
l'io fenomenico, l'io quale appare a noi tramite le forme a priori di
spazio, tempo e categorie, ma non certo l'io quale sarebbe in se stesso,
l'io noumenico.
IL MONDO. L'Idea di mondo è studiata dalla cosmologia
razionale e si riferisce alla totalità dei fenomeni cosmici. In realtà,
però, noi possiamo sperimentale solo questo o quel fenomeno ma
non la serie completa dei fenomeni, per cui il "mondo" nella sua
totalità rimane al di là di ogni esperienza umana possibile. Quando
dunque vogliamo fare un discorso sul mondo nella sua totalità,
finiamo per cadere in errori che Kant chiama antinomie, ovvero in
affermazioni o ragionamenti opposti ugualmente dimostrabili ma per
ciò strutturalmente insolubili. Vi sono quattro antinomie :
1) La prima sostiene nella tesi che il mondo ha un inizio nel tempo e
un limite nello spazio; nella antitesi che il mondo non ha limiti né
nel tempo né nello spazio.
2) La seconda afferma nella tesi che ogni sostanza composta consta
di parti semplici, mentre la sua antitesi dice che non vi è nulla di
semplice ma tutto è composto.

221
3) La terza afferma nella tesi che oltre alla causalità naturale vi è la
libertà, mentre l'antitesi afferma che non c’è libertà ma tutto nel
mondo accade esclusivamente in base a leggi di natura.
4) La quarta afferma nella tesi che, del mondo fa parte qualcosa che –
o come suo elemento o come sua causa – costituisce un essere
necessario, mentre l'antitesi sostiene che non vi è né nel mondo né
fuori del mondo un essere necessario che ne sia la causa.
Queste antinomie rimangono appunto insolubili perché
quando la ragione pretende di oltrepassare i limiti dell'esperienza non
può che oscillare da un opposto all'altro senza avere mai la possibilità
di decidere definitivamente per l'una o per l'altra delle alternative. Il
difetto è nella stessa Idea di "mondo", la quale, essendo al di là di ogni
esperienza possibile, non può fornire alcun criterio per decidere la
verità di una o dell'altra affermazione.
Kant conclude facendo notare che le tesi sono proprie del
pensiero metafisico e del razionalismo, mentre le antitesi sono tipiche
dell'empirismo e della scienza. Inoltre, per quanto riguarda la terza e la
quarta antinomia, le antitesi potrebbero valere per il fenomeno (nel
cui ambito non si incontrano mai né Dio né la libertà) mentre le tesi
potrebbero valere per la cosa in sé.
DIO. L'Idea di Dio è più esattamente un Ideale, il modello
supremo di tutte le cose, di ogni perfezione e realtà. Ma questa Idea o
Ideale che noi ci formiamo con la ragione ci lascia, secondo K, nella
"totale ignoranza" circa la sua esistenza effettiva, anche se la
metafisica fin dall'inizio ha elaborato diverse prove per dimostrarne
l'esistenza. Kant riduce a tre tutte le prove possibili per dimostrare
l'esistenza di Dio: la prova ontologica, quella cosmologica e quella
fisico-teologica o teleologica.
La prova ontologica (quella di S.Anselmo, Cartesio, Leibniz ecc.)
afferma l'esistenza di Dio partendo dal concetto di Dio come
dell'Essere perfettissimo, il quale, in quanto tale, non può mancare
dell'attributo o perfezione della esistenza. Kant obietta contro questa
prova in primo luogo osservando che essa salta dal piano della
possibilità logica a quello della realtà ontologica, mentre l'esistenza,
per noi esseri umani, è sempre e solo qualcosa che noi possiamo
constatare solo per via empirica: essa non è una proprietà "logica" ma
un fatto che possiamo asserire solo con l'esperienza. La differenza tra

222
cento talleri25 reali e cento talleri pensati sta nel fatto che i primi per
noi esistono, si possono vedere, toccare, mentre gli altri no. In altri
termini, l'esistenza degli oggetti che rientrano nella sfera sensibile ci è data
dall'esperienza, ma per gli oggetti del pensiero puro non c'è alcun modo
di conoscere la loro esistenza, poiché questa dovrebbe conoscersi a
priori e per fare questo dovremmo avere una intuizione non sensibile
bensì intellettuale, che l'uomo non ha. A parte queste considerazioni
preliminari, Kant ritiene che la prova ontologica sia impossibile e
contraddittoria. E' impossibile se si intende derivare una realtà da
un'idea, ovvero se nel concetto di Dio non si ritiene già implicita la
sua esistenza, giacché in questo caso l'esistenza dovrebbe essere
aggiunta tramite l'esperienza (l'esistenza è una delle categorie) mentre
Dio è ovviamente al di là di ogni esperienza sensibile. E' contraddittoria
se nel concetto di Dio si ritiene già implicita la sua esistenza, giacché
in tal caso non si tratterebbe più del semplice concetto ma
dell'esistenza vera e propria, che , del resto, sarebbe già data per
scontata : non dimostrerei allora più nulla ma la ammetterei
implicitamente e mi contraddirei. In altri termini, se si presuppone
l'esistenza di un Essere perfettissimo, è ovvio che non si possa fare a
meno di concludere che esista necessariamente, ma il problema è
proprio nel vedere se tale Essere esista davvero.
La prova cosmologica. Viene da Kant espressa in questo modo:
"Se qualcosa esiste, deve esistere anche un Essere necessario; ma
almeno io esisto, quindi esiste un Essere necessario". In questa prova,
secondo Kant, vi è un uso improprio del principio di causalità che,
partendo dall'esperienza degli esseri contingenti, pretende di
innalzarci, oltre l'esperienza, ad un Essere incausato e necessario. Il
principio di causalità, per Kant, vale solo nell'ambito dell'esperienza (è
una delle categorie e "fuori di questo non ha alcun senso"). E'
insomma una regola con cui noi connettiamo i fenomeni tra loro e
quindi non può servire a connettere i fenomeni con qualcosa di trans-
fenomenico quale è Dio. Inoltre la prova cosmologica ricade nella
prova ontologica, anzi, non è altro, dice Kant, che una prova
ontologica mascherata : infatti l'Essere necessario di cui parla non è
altro che l'Essere perfettissimo della prova ontologica, quindi si
ritornerebbe alla prova precedente che Kant aveva già invalidato.

25 sono un tipo di monete.

223
La prova fisico-teologica o teleologica (da "telos" = fine, finalismo).
Essa fa leva sull'ordine, la finalità, la bellezza del mondo per innalzarci
ad una Mente suprema, ordinatrice cioè Dio creatore, perfetto e
infinito. Essa - dice Kant - "è la più antica, la più chiara e la più adatta
alla comune ragione". Essa però dimentica, secondo Kant, che
l'ordine della natura potrebbe essere una conseguenza della natura
stessa e delle sue leggi immanenti. Se poi tale prova intende asserire
che l'ordine della natura non deriva dalla natura stessa, essa è
obbligata a concepire Dio non solo come la Causa dell'ordine del
mondo, ossia come un supremo Architetto, ma anche come la causa
dell'essere del mondo, ossia come il suo Creatore : ma in questo caso
si ritorna sempre alla prova ontologica. Inoltre la prova pretenderebbe
di stabilire, sulla base dell'ordine cosmico, l'esistenza di una causa
infinita e perfetta. Ma anche se noi sappiamo che nell'universo c'è una
qualche misura o gradazione di ordine, è pur sempre relativa ai nostri
parametri umani e, in ogni caso, non certo infinita o priva di
imperfezioni. Non possiamo dunque concludere che la causa del
mondo sia infinitamente perfetta, saggia ecc. Se ciò avviene è perché
vogliamo saltare l'abisso che separa il finito dall'infinito, dunque essa
"potrebbe al più dimostrare un architetto del mondo ma non un
creatore del mondo".
La conclusione di Kant è che noi non possiamo dimostrare
con certezza l'esistenza di Dio. Si badi: Kant non intende negare l'esistenza
di Dio in sé ma solo la sua dimostrabilità tramite la nostra ragione. Egli non è
affatto un ateo bensì è un agnostico (=non so, non conosco), in quanto ritiene che
la ragione umana non possa dimostrare né l'esistenza di Dio né la sua non
esistenza.
Altra conseguenza è che una metafisica come scienza è
impossibile giacché la pretesa sintesi a priori metafisica supporrebbe
un intelletto intuitivo, che all'uomo non è dato o, in altre parole, ciò
che supera l'ambito dell'esperienza rimarrà sempre indimostrabile per
l'uomo. Ma che senso hanno allora le tre Idee in quanto tali ? Esse - dice
Kant - non possono avere un uso costitutivo come le categorie, cioè
non servono a conoscere alcun oggetto possibile, ma hanno un uso
regolativo cioè valgono come "regole" per sistemare i fenomeni in
maniera ordinata, come se tutti i fenomeni che riguardano l'uomo
dipendessero da un principio unico (anima); come se tutti i fenomeni
della natura dipendessero unitariamente da principi intelligibili di un
unico mondo; come se la totalità delle cose dipendesse da un unico
Essere necessario e creatore. Le Idee, non valendo come realtà,

224
varranno come principi euristici (dal greco "eurischein"=scoprire),
come condizioni cioè che impegnano l'uomo nella ricerca, unificando
la conoscenza, rafforzano il pensiero e stimolano la ricerca a
continuare per sempre.

DOTTRINA TRASCENDENTALE DEL METODO


E' la seconda e ultima parte, e anche la più breve, della Critica
della ragion pura. In essa Kant distingue la filosofia dalla matematica. La
prima viene definita come "conoscenza razionale mediante concetti",
la seconda è invece "conoscenza razionale mediante la costruzione di
concetti". La filosofia inoltre può dirsi "sistema" ma solo nel senso di
"sistema di ricerca" di quell'unità a cui l'esperienza può offrire la
materia. La filosofia deve poi evitare sia il dogmatismo che lo
scetticismo. Con la critica invece si segnano i confini delle possibilità
della ragione e si stabiliscono le sue capacità. La filosofia non è tanto
una realtà quanto un ideale : non si può imparare la filosofia ma si
può imparare a filosofare, cioè ad esercitare correttamente la ragione.

CRITICA DELLA RAGIONE PRATICA (1788)

La ragione può servire non solo a dirigere la conoscenza ma


anche l'azione. Oltre alla ragione teoretica abbiamo quindi anche la
ragione pratica. Nella Critica della ragion pratica Kant cerca di mostrare
come la ragione sia sufficiente da sola, senza l'ausilio di impulsi
sensibili, a muovere la volontà ad agire. Anzi, solo così possono
esistere principi morali validi per tutti gli uomini, cioè leggi morali
aventi valore universale. In altri termini, Kant è persuaso che esista
nell'uomo una legge morale a priori, valida per tutti e per sempre.
Come nella prima Critica Kant partiva dall'idea di conoscenze
scientifiche universali e necessarie, così adesso parte dall'analogo
convincimento che esista una legge etica assoluta, che il filosofo non
deduce ma può solo constatare.

Massime e imperativi
Kant inizia distinguendo i principi pratici che portano l'uomo
ad agire. Essi sono di due tipi : le massime e gli imperativi.

225
Le massime valgono solo soggettivamente e variano di
momento in momento, da persona a persona.
Gli imperativi sono invece principi pratici oggettivi, cioè sono
validi per tutti. In altre parole, sono comandi, regole, doveri che
esprimono la necessità oggettiva dell'azione. Essi sono divisi da Kant
in due tipi : ipotetici e categorici.
L'imperativo ipotetico determina la volontà a condizione che
essa voglia raggiungere certi obiettivi. La loro forma è quella del "Se
…allora devi". Sono "ipotetici" perché valgono nella ipotesi in cui si
voglia quel fine e comunque valgono oggettivamente per tutti coloro
che si propongono di raggiungere quel fine. Fanno parte di essi anche
le cosiddette "regole dell'abilità" (ad es. le procedure per diventare un
buon medico) ed i "consigli di prudenza" (ad es. i vari manuali per la
salute o per vivere felici).
L'imperativo categorico determina invece la volontà non in
vista di ottenere un determinato effetto desiderato, ma solamente
come volontà. Ordina cioè il dovere in modo incondizionato, a
prescindere da qualsiasi fine o scopo, ed ha la forma del "Tu devi
perché devi", "Tu devi e basta". Ora, soltanto l'imperativo categorico,
in quanto ordina in modo perentorio per tutti e per tutte le
circostanze, è universale e necessario ed è quindi morale.

Formalismo, autonomia e rigorismo morale


L'imperativo categorico, che si identifica per K con la legge
morale, non può consistere nel comandare cose particolari, per
quanto nobili possano essere. La legge morale, per Kant, non può mai
dipendere dal suo contenuto concreto, altrimenti si cadrebbe nell'empirismo
o nell'utilitarismo. La legge morale è invece tale per la sua forma di
legge, cioè per la sua intrinseca razionalità : la legge morale è tale
perché mi comanda di rispettarla proprio in quanto legge ("devi
perché devi") ed essa è appunto tale perché vale universalmente,
senza eccezioni . Questo è il formalismo morale kantiano : morale
non è ciò che si fa, ma l'intenzione con cui lo si fa. L'essenza della
morale è l'adeguazione della volontà alla forma della legge . Ad es. un
principio come "Ama la Patria" non può essere confuso con la legge
morale stessa, visto che, in alcuni casi, può anche essere morale non
amare affatto la Patria (quando ad es. fosse tiranna). Dunque
l'imperativo morale non risiede in una manualistica dei precetti ma

226
soltanto nella legge morale universale che K esprime nel modo
seguente : "Agisci in modo che la massima della tua volontà possa
valere sempre, al tempo stesso, come principio di una legislazione
universale". Il che significa che bisogna agire tenendo presenti gli altri
e rispettando la dignità umana che è in noi e quindi anche nel
prossimo. Sta poi a ciascuno tradurre in concreto, nelle diverse
situazioni, la parola della legge. Quindi le norme etiche concrete in cui
si incarna l'imperativo categorico esistono solo in funzione di esso,
che è ciò che le suscita e le giustifica.
In un'altra opera, la Fondazione della metafisica dei costumi (1785),
Kant aveva già proposto due altre formule dell'imperativo categorico.
La prima diceva: "Agisci in modo da considerare l'umanità, sia nella
tua come nella altrui persona, sempre come fine e mai come semplice
mezzo". La seconda era: "Agisci in modo che la volontà, con la sua
massima, possa considerarsi come universalmente legislatrice rispetto
a se stessa". Entrambe le formule ribadiscono che noi non solo siamo
sottomessi ad una legge, ma che questa legge è il frutto della nostra
stessa razionalità e dipende quindi da noi : siamo noi stessi con la nostra
volontà e razionalità a dare legge a noi stessi.
La morale - dice ancora Kant - istituisce una sorta di "Regno
dei fini" ossia una comunità di persone libere, che vivono secondo le
leggi della morale e si riconoscono dignità a vicenda; in esso ognuno è
suddito e legislatore al tempo stesso.
Secondo Kant, tutte le morali prima di lui erano eteronome cioè
ponevano il fondamento del dovere in principi esterni all'uomo e alla
sua ragione (Dio, la felicità, il piacere, la saggezza ecc.). La morale
kantiana vuole invece essere autonoma, essere legge a se stessa, perché
chiede di agire solo per il puro dovere. Il cuore della moralità kantiana
è appunto il dovere per il dovere ossia nello sforzo di attuare la legge
della ragione solo per ossequio ad essa, e non sotto la spinta di
personali inclinazioni o in vista dei risultati che possono derivarne. Da
ciò anche il rigorismo di Kant che esclude dalla morale ogni emozione o
sentimento (se faccio il bene mi sento meglio, sono in pace con la mia
coscienza e simili). Nell'etica kantiana si riconosce il diritto ad un
unico sentimento, cioè il rispetto per la legge (riferito naturalmente
alle persone).
D'altra parte la morale implica anche una partecipazione
interiore, altrimenti rischia di sfociare in atti di legalismo ipocrita o in
forme di autocompiacimento. Il dovere e la volontà buona (=la

227
convinta adesione della volontà alla legge) innalzano l'uomo - dice
Kant - al di sopra del mondo sensibile, fenomenico, dove vige il
meccanismo delle leggi naturali, e lo fanno partecipare al mondo
intelligibile, noumenico, dove vige la libertà.
La libertà viene definita da Kant come l'indipendenza della
volontà dalla legge naturale dei fenomeni, ossia dal meccanismo
causale naturale. Questa libertà, che non spiega nulla nel mondo dei
fenomeni, spiega invece tutto nella sfera morale. Se definiamo
appunto la libertà come "indipendenza dalla legge naturale" o
"indipendenza dai contenuti della legge morale", la definiamo però
negativamente . Se invece diciamo che la volontà è in grado di determinarsi
da sé, di autodeterminarsi, allora abbiamo anche il senso positivo della
parola libertà. Insomma, per Kant libertà, autonomia, formalismo
sono tutt'uno.

I tre postulati della ragione pratica


Com'è noto, un postulato matematico è una proposizione non
dimostrabile che viene ammessa o accettata per rendere possibile lo
svolgersi di una operazione geometrica ecc. In ambito morale, Kant
parla di "postulati" per riuscire ad ammettere quelle "realtà" che erano
sfuggite nella Critica della ragion pura . In altri termini, Kant ammetterà,
come vedremo subito, la libertà, l'immortalità dell'anima e l'esistenza
di Dio come postulati morali per poter appunto giustificare la stessa
morale. Se non li ammettessimo, tutta la moralità non avrebbe alcun
senso. Ciò deriva dal presupposto che per Kant, come per gli uomini
del suo tempo, la morale è un fatto innegabile (bisogna aspettare i
pensatori come Nietzsche, Freud ed altri per negarlo), che non ha
bisogno di essere giustificato o provato, per cui anche i postulati li
possiamo tranquillamente ammettere e considerare validi. Ecco qui
come Kant li giustifica.
Postulato della libertà. La libertà è la condizione stessa della
morale, la quale, nel momento in cui prescrive il dovere, presuppone
anche che si possa agire o meno in conformità ad esso e quindi che si
sia liberi. Kant esprime tale postulato con la breve formula :"Tu devi,
quindi puoi". Si noti : come mai Kant considera la libertà un
postulato ? Visto che Kant è fermo alle conclusioni gnoseologiche
dell'opera precedente, ritiene quindi che l'idea di una auto-causalità
ovvero di un libero arbitrio non possa essere "scientificamente"
affermata, in quanto il mondo dell'esperienza si regge tutto sul

228
principio di causa ed effetto. L'uomo però appartiene, per Kant, a due
mondi : da un lato, in quanto fenomeno, si riconosce come
determinato e soggetto alla causalità meccanica; dall'altro, si scopre
come un essere intelligibile e libero in virtù della legge morale. Nulla
vieta dunque che una medesima azione possa essere prodotta da una
causa libera, e quindi noumenica, ma che si dispieghi poi secondo le
leggi della necessità, in dimensione fenomenica.
Postulato della immortalità dell'anima. Poiché solo la santità ,
ossia la completa conformità della volontà alla legge, può rendere
degni del sommo bene (che è virtù più felicità), e poiché in questa vita
terrena la virtù e la felicità non sono mai, per Kant, pienamente
congiunte in quanto lo sforzo per essere virtuosi e la ricerca della
felicità sono sovente due azioni distinte, dobbiamo allora postulare un
mondo dell'aldilà in cui sia possibile realizzare quello che in questa
vita è risultato impossibile. Si deve perciò ammettere, postulare che
l'uomo possa disporre, in un'altra dimensione della realtà di una
durata infinita grazie alla quale progredire all'infinito verso la santità.
"Ma tale progresso infinito è possibile solo presupponendo
un'esistenza e una personalità dell'essere ragionevole stesso perduranti
all'infinito : e ciò prende il nome di immortalità dell'anima". Si noti
che ciò, secondo Kant, non contraddice il carattere disinteressato che
deve avere la morale, perché c'è in noi il bisogno di pensare che
l'uomo, pur agendo per dovere, possa anche essere degno di felicità.
Postulato dell'esistenza di Dio. Se la realizzazione completa
della santità implica l'immortalità dell'anima, il sommo bene, cioè la
felicità proporzionata alla virtù, implica l'esistenza di Dio, in quanto
richiede una Volontà santa e onnipotente che faccia corrispondere la
felicità ai nostri meriti, il che rende moralmente necessario postulare appunto
l'esistenza di Dio. In altri termini, la ricerca della virtù rende degni di
felicità, ed essere degni di felicità ma non poterlo essere è assurdo;
appunto per questo è lecito postulare l'esistenza di Dio che faccia
corrispondere, in un altro mondo, quella felicità che compete al
merito e che non si è realizzata in questo mondo.
Da quanto detto, deriva il primato della ragione pratica sulla
ragione pura, in quanto la ragione è riuscita ad ammettere, in quanto è
anche pratica, quelle realtà che non avrebbe mai potuto ammettere nel
suo uso puramente teoretico. Si ricordi: i postulati kantiani continuano a
non valere come conoscenze. Anche perché, se la ragionevole speranza
nell'esistenza di Dio e nell'immortalità dell'anima si trasformasse in
una certezza razionale, la moralità non avrebbe più alcun senso e

229
tanto meno la nostra libertà, in quanto l'uomo sarebbe una sorta di
marionetta. La morale non ha comunque bisogno della religione ma è
autosufficiente, grazie alla ragione pratica. Anche se, comunque, la
morale potrebbe condurre alla religione, poiché soltanto da Dio
possiamo sperare quel sommo bene che la legge morale ci indica.

CRITICA DEL GIUDIZIO (1790)

Nella Critica della facoltà di Giudizio, Kant tenta di colmare


"l'incommensurabile abisso fra due mondi tanto diversi" quali quello
dei fenomeni, studiato nella Critica della ragion pura, e quello dei fini e
della libertà, analizzato nella Critica della ragion pratica. Kant intende per
"facoltà del Giudizio" una facoltà intermedia tra il conoscere e la sfera
della azione morale, e cioè l'ambito del sentimento. Kant ritiene infatti il
sentimento una facoltà autonoma, accanto alla conoscenza e
all'azione, sulla scia degli empiristi inglesi e dei moralisti francesi. Il
sentimento va qui inteso, in senso generale, come quella facoltà
mediante la quale l'uomo fa esperienza di quella finalità nella realtà
che la prima delle tre Critiche escludeva sul piano fenomenico mentre
la seconda postulava a livello noumenico. Esso è comunque e sempre
un'esigenza umana e non ha valore conoscitivo o teoretico, come già
detto.
I giudizi conoscitivi e scientifici della ragione pura sono
definiti da Kant giudizi determinanti perché "determinano" gli oggetti
fenomenici mediante le forme a priori (spazio, tempo, categorie) per
cui possiamo dire ad es. che "questo tavolo è rotondo, basso, di legno
ecc.". Vi è però un altro tipo di giudizi che Kant chiama giudizi
riflettenti perché "riflettono" su un oggetto già dato il nostro
"sentimento" nei suoi confronti, come quando diciamo :"Ma guarda
che bel tavolo!", oppure "Che stupendo tramonto!". La Critica del
Giudizio è appunto dedicata all'analisi dei giudizi riflettenti. Essi sono
di due tipi : i giudizi estetici ed i giudizi teleologici ovvero finalistici.

Il giudizio estetico
Bisogna anzitutto dire che K assume qui il termine "estetico" e
di "estetica" nel senso a noi più comune, e cioè "dottrina del bello e

230
dell'arte", tralasciando l'accezione che eravamo abituati ad usare nella
Critica della ragion pura di "dottrina del senso e della sensibilità". Il
giudizio estetico è appunto quello che si riferisce al bello e al sublime.
Ma che cos'è bello per Kant?
Il bello. Il bello non è "ciò che comunque piace", altrimenti
sarebbe ad es. bello per un assassino trucidare le persone, ma è
definito da Kant, in un primo senso, come "ciò che piace nel giudizio
di gusto". Il che significa che gli uomini hanno una facoltà specifica
per giudicare appunto il bello e questa è chiamata facoltà del gusto.
Una cosa è quindi bella per Kant se :
1) è oggetto di un puro piacere estetico disinteressato, per cui l'uomo
si bea nella contemplazione della cosa appunto bella . Si badi che
Kant si riferisce soprattutto alla bellezza naturale e non alla
bellezza del corpo (che non è sempre oggetto di … piacere
disinteressato). La bellezza è concepita come un a finalità senza
scopo, è un "libero e vissuto gioco di armonie formali" che non
risulta imprigionabile in nessun schema conoscitivo;
2) è oggetto di un piacere universale e necessario, su cui tutti
debbono convenire. Per Kant non si può dire "è bello per me" ma
soltanto "è piacevole per me", proprio per il motivo che, se una
cosa è giudicata bella, essa esige da tutti lo stesso giudizio, e tutti
noi parliamo in forza di una voce universale che ci sentiamo
dentro come affine a quella di ogni altro. Si noti : tutto ciò senza
pretendere affatto di dimostrare il perché giudichiamo "bella"
quella determinata cosa, poiché non si tratta qui di giudizi logici o
scientifici ma di giudizi basati sul sentimento;
3) è ciò che piace universalmente senza concetto. Quest'ultima
definizione riassume un po' le precedenti. Il bello è universale
perché deve valere per tutti gli uomini, però questa universalità si
riferisce ai sentimenti e dunque è "senza concetto", cioè non può
essere razionale, logica, conoscitiva.

La rivoluzione copernicana estetica


Il giudizio estetico è comune a tutti gli uomini e perciò resta
spiegato il fenomeno della universalità estetica e giustificata la
presenza di un "senso comune" nel gusto. Il giudizio di gusto non è
un giudizio di conoscenza e si basa sul sentimento, che è quella
facoltà tramite la quale viene intuita la finalità della natura. Il bello
dunque non è per Kant una proprietà delle cose in sé ma è il frutto

231
dell'incontro del nostro spirito con le cose, cioè qualcosa che nasce
solo per la mente umana ed in rapporto ad essa. Ecco la rivoluzione
copernicana estetica ! D'altronde, se la bellezza risiedesse negli oggetti
in sé, essa non sarebbe più qualcosa di libero perché verrebbe
imposto a noi dalla natura.

Il sublime. Il sublime è un valore estetico prodotto in noi dalla


percezione di qualcosa di smisurato o di incommensurabile : proprio
per questo, anch'esso non è nelle cose di per sé ma nasce nell'uomo.
Esso è di due tipi : matematico e dinamico.
Il sublime matematico è dato dal sentimento che proviamo nei
confronti di entità naturali smisuratamente grandi come l'oceano, il
cielo ecc. Questo stato d'animo è ambivalente : da un lato proviamo
una sorta di dispiacere perché ci sentiamo piccolissimi e come
schiacciati di fronte a tanta immensità, ma dall'altro, proviamo un
qualche piacere perché lo spirito è portato ad elevarsi all'idea
dell'infinito. Trasformiamo così il nostro sentimento di piccolezza
fisica in una consapevolezza della nostra grandezza spirituale, per cui
la vera e propria sublimità è in fondo quella dell'uomo.
Il sublime dinamico nasce di fronte allo spettacolo della natura
immensamente potente (come nel caso dei terremoti, vulcani in
eruzione, uragani ecc.). Anche in questo caso, se in un primo
momento possiamo avvertire un senso di impotenza, proviamo poi
un sentimento che si riferisce alla nostra grandezza ideale, dovuto alla
nostra dignità di esseri umani pensanti, portatori di razionalità e di
moralità, al di sopra della semplice natura. Si ricordi qui la scritta che
Kant volle incisa sulla tomba: Il cielo stellato sopra di me e la legge
morale in me" (Der bestirnte Himmel ueber mir und das moralische Gesetz in
mir), tratta dalla conclusione della Critica della ragione pratica.

Il giudizio teleologico o finalistico


Il giudizio teleologico (dal greco "telos" = fine, scopo) si
riferisce ovviamente alla nostra tendenza di considerare
finalisticamente la natura, ovvero di vedere nella natura la presenza di
cause finali. In altre parole, di fronte ad un organismo, noi non
possiamo fare a meno di stupirci e di vederlo come il frutto di un fine
o scopo; così pure, di fronte all'ordine e all'armonia della natura, noi
non possiamo fare a meno di concepire una causa suprema, Dio, che

232
abbia agito con un'intenzione. Se poi ci portiamo in ambito etico, non
possiamo non considerare la natura in modo tale che essa è stata
organizzata dalla sapienza di Dio, in modo tale da rendere possibile la
libertà e la moralità dell'umanità, ed è quindi predisposta
finalisticamente alla nostra specie. L'uomo, dice Kant, non è soltanto
il fine della natura, ma lo scopo ultimo di essa sulla terra, in modo
che, rispetto a lui, tutte le altre cose naturali costituiscono un sistema
di fini. "Senza l'uomo, il mondo sarebbe un semplice deserto".
Kant ricorda tuttavia che il giudizio teleologico è privo di
valore teoretico o dimostrativo in quanto la finalità è solo un nostro
modo di vedere il reale. Il finalismo è considerato da Kant come una
sorta di "promemoria critico" che da un lato, ci ricorda i limiti di una
visione puramente meccanicistica della realtà e, dall'altro, ci rammenta
la nostra impossibilità di avere conoscenze valide se trascendiamo
l'orizzonte fenomenico e scientifico.

Altri scritti
Concludo con un accenno a due operette kantiane
particolarmente significative.
La prima è un famosissimo saggio del 1784 intitolato Risposta
alla domanda : Che cos'è l'Illuminismo ? . A tale questione egli così
risponde : " L'Illuminismo è l'uscita dell'uomo da uno stato di minorità, il
quale è da imputare a lui stesso. Minorità è l'incapacità di servirsi del proprio
intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stessi è questa minorità se la
causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di
decisione e del coraggio di servirsi del proprio intelletto senza essere guidati da altri.
Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! - è dunque
il motto dell'Illuminismo". In altri termini, Illuminismo significa per Kant
diventare maggiorenni dal punto di vista della ragione, imparare cioè a
pensare con la propria testa. Per trasformare la società conta
l'autonomia intellettuale dell'individuo e non è tanto il miglioramento
delle istituzioni - come pensavano i philosophes francesi - la causa
della "illuminazione" dei singoli. Per Kant la libertà civile trova il suo
perno nella libertà di pensiero e di stampa, attraverso cui l'educazione
alla ragione può essere estesa a tutti i cittadini e forse anche ai potenti
che reggono le sorti del mondo.
La seconda operetta da ricordare è un saggio del 1795
intitolato Per la pace perpetua. Più esattamente, con intento ironico, si

233
riferiva all'insegna di un oste olandese su cui era dipinto un cimitero,
con la scritta appunto "Alla pace eterna". Pur nella sua brevità, il libro
è densissimo di argomenti di natura politica (nel senso più generale e
nobile del termine). Nella prima parte, ad. es. espone degli articoli
preliminari per la pace perpetua tra le nazioni: 1)nessun trattato di pace
deve essere ritenuto tale se stipulato con la tacita riserva di argomenti
per una guerra futura; 2) nessuno stato indipendente deve poter essere
acquistato da un altro stato mediante eredità, scambio, compera o
donazione; 3) col tempo gli eserciti permanenti devono essere aboliti;
4) i debiti di stato non devono venir fatti valere sui trattati esterni; 5)
nessuno stato si deve immischiare con la forza nella costituzione e nel
governo di un altro stato; 6) nessuno stato in guerra deve permettersi
atti di ostilità tali da rendere impossibile la reciproca fiducia nella pace
futura. Nella seconda parte espone gli articoli definitivi per una pace
perpetua tra gli stati: 1) la costituzione civile di ogni stato deve essere
repubblicana; 2) il diritto internazionale deve fondarsi su una
federazione di stati liberi; 3) il diritto cosmopolitico deve essere
limitato alle condizioni di una ospitalità universale. Infine Kant ritiene
che lo spirito commerciale autentico non possa andare d’accordo con
la guerra: la forza del denaro costringe a promuovere la pace; e che ci
debba essere un accordo tra politica e morale come principio
trascendentale.

NOTE BIOGRAFICHE
Immanuel Kant nacque a Königsberg (nella Prussia orientale,
ora la cittadina è in Lituania e si chiama Kaliningrad) nel 1724.Il padre
fa il sellaio. La madre influisce in particolare sull'educazione religiosa
del figlio trasmettendogli la propria fede pietistica (Il Pietismo,
fondato da Spener nella seconda metà del 1600, dava grande
importanza ad una fede viva, operante, austera). Kant compie gli studi
superiori al Collegium Fridricianum, ove sono presenti influssi del
pensiero illuministico. Nel 1740 si iscrive all'Università di Königsberg
e vi studia teologia, filosofia, matematica, fisica. Dopo la laurea e la
libera docenza, comincia ad insegnare all'università ma con scarsi
proventi, sicché deve sopperire alle sue necessità dando lezioni
private. Comincia intanto a farsi conoscere negli ambienti accademici
con una notevole quantità di opere sui più diversi argomenti : Storia
universale della natura e teoria del cielo, L'unico argomento possibile per una

234
dimostrazione dell'esistenza di Dio, Sogni di un visionario chiariti con i sogni
della metafisica ecc. nel 1770 scrive la dissertazione De mundi sensibilis
atque intelligibilis forma et principiis per il conseguimento della cattedra di
"logica e metafisica". D'ora in poi si dedicherà interamente alla
elaborazione delle sue opere e del suo pensiero.
Kant condusse sempre una vita molto regolare e metodica, al
punto che fiorirono molti aneddoti su di lui : dicevano infatti ad
esempio che gli abitanti di Königsberg regolavano i loro orologi
quando vedevano passare il filosofo davanti alle loro case, durante la
passeggiata quotidiana. Una sola volta K non fece la sua passeggiata :
quando fu impegnato nella lettura dell' Emilio di Rousseau.
Nel 1781 apparve il capolavoro che pone le basi della filosofia
critica kantiana, la Critica della ragion pura . Due anni dopo pubblicò i
Prolegomeni ad ogni futura metafisica che vorrà presentarsi come scienza , che
sono una esposizione semplificata della celebre Critica . Nel 1787
apparve la seconda edizione della Critica della ragion pura che contiene
importanti modifiche rispetto alla prima edizione. L'anno seguente,
1788, è la volta della Critica della ragione pratica ,dedicata al problema
morale. Nel 1790 appare infine la Critica del Giudizio dedicata ai
problemi dell'estetica e del sentimento. La pubblicazione, nel 1793, di
La religione nei limiti della semplice ragione provoca un intervento censorio
del governo prussiano, che ammonisce Kant di non trattare più
pubblicamente argomenti religiosi. Kant risponde al sovrano
(Federico Guglielmo II) con una nobile e ferma lettera in cui dichiara
di sottomettersi per dovere di obbedienza, ma ribadisce la legittimità
delle sue idee e si impegna a rispettare l'ammonizione solo fino alla
morte del sovrano medesimo. Nel 1795 Kant scrive Per la pace perpetua
, in cui auspica la creazione di una federazione di tutti gli Stati che
sostituisce il diritto alla forza. Due anni dopo il sovrano muore e Kant
si ritiene libero da ogni censura, ma ormai la sua fama lo tiene al
riparo da ulteriori restrizioni. Muore nel 1804, all'età di 80 anni,
mormorando :"Es ist gut !".

BIBLIOGRAFIA
Kant, Opere varie nelle edizioni Laterza, UTET, Rusconi
A. Guerra, Introduzione a Kant, “I filosofi” Laterza

235
HEGEL E L’IDEALISMO TEDESCO

G.W.F. HEGEL

(1770-1831)

Dal kantismo all'idealismo


Sebbene l'idealismo tedesco nasca con Fichte (1762-1814) e
culmini con Hegel, è preparato da tutti quei pensatori che criticano i
dualismi lasciati dal criticismo kantiano ed in particolare la distinzione
tra fenomeno e noumeno. Il problema era: come può essere ammessa
l'esistenza di una cosa in sé, ossia di una realtà non pensata e non
pensabile, non rappresentata e non rappresentabile? La risposta
l’avremo con Fichte.
In Kant l'io era qualcosa di finito in quanto non crea la realtà
ma si limita ad ordinarla secondo proprie forme a priori. Per questo
sullo sfondo dell'attività dell'io, si staglia il concetto di cosa in sé, ossia
di una x ignota che Kant aveva ammesso per spiegare la recettività del
conoscere e la presenza di un dato di fronte all'io. I seguaci di Kant
avevano messo in discussione la cosa in sé. L'idealismo sorge quando
Fichte abolisce la cosa in sé, ossia la nozione di qualunque realtà
estranea all'io, che in tale modo diventa una entità creatrice (=fonte di
tutto ciò che esiste) ed infinita (priva di limiti esterni). Da ciò la tesi
tipica dell'idealismo che tutto è spirito. Ma che cosa si intende per spirito?
Fichte intendeva per spirito la realtà umana, considerata come
attività conoscitive pratica e come libertà creatrice. Inoltre, non
essendoci mai nella realtà il positivo senza il negativo, lo spirito, per
essere tale, ha bisogno della natura, poiché un soggetto senza oggetto
sarebbe una entità vuota e impossibile. Fichte ritiene che lo spirito è
causa della natura giacché essa esiste solo per l'io e in funzione dell'io, essendo il

236
materiale o la scena della sua attività, ossia il polo dialettico negativo
del suo essere.
Di conseguenza, per Fichte, lo spirito crea la realtà nel senso che
l'uomo rappresenta la ragion d'essere dell'universo; la natura esiste
come momento dialettico necessario della vita dell'io. In altri termini,
la chiave di spiegazione di ciò che esiste si trova nell'uomo stesso,
ossia nello spirito. Ma se l'uomo è la ragione d'essere è lo scopo
dell'universo, che sono gli attributi della divinità, vuol dire che egli
coincide con l'assoluto e l'infinito, cioè con Dio stesso. L'idealismo
tedesco conclude in un certo senso che l'uomo stesso è Dio.
C'è comunque da osservare che già Kant, nella seconda
edizione della Critica della ragion pura, identifica il fenomeno con
l'oggetto della rappresentazione (e non con la rappresentazione stessa)
e parla del noumeno come di un semplice concetto-limite, facendo
intendere che il fenomeno è un oggetto reale, anche se appreso
tramite il corredo mentale delle forme a priori, in virtù delle quali esso
risulta appunto " fenomeno ". Il noumeno ci ricorda che l'oggetto ci è
dato - e non creato - attraverso una rete di forme a priori. La cosa in
sé è un “puro pensiero senza realtà”.

Caratteristiche del sistema hegeliano


Hegel fu l’ultimo, scrisse Gadamer, che osò difendere col suo
pensiero l’orgogliosa pretesa della filosofia di essere la dimensione
globale che comprende ogni possibile sapere dell’uomo. Il carattere
peculiare della filosofia hegeliana fu quello di affermare la razionalità
della storia. Mentre l’eredità del pensiero greco fu quella di cogliere la
ragione nella natura, Hegel ha cercato di riconoscere la stessa
razionalità anche nel campo della storia. La sua tesi fu che anche nella
storia dell’uomo, anche nell’apparente guazzabuglio delle vicende
umane, si manifesta una razionalità analoga a quella presente nella
natura. La razionalità dell’essere non è quindi solo un tratto
costitutivo dell’autocoscienza umana (l’uomo era definito dagli antichi
“animale razionale”) ma è una caratteristica dell’essere stesso: perciò
la ragione dell’uomo deve essere pensata come una parte di quella
razionalità piuttosto che come una autocoscienza opposta al Tutto. 26

26
H.G.Gadamer, La ragione nell’età della scienza, trad.it. Il Melangolo, Genova 1984, p.
39, 48 ss e passim.

237
La realtà è per Hegel movimento, divenire, processo, sviluppo.
Non è staticità o astrazione ma un soggetto vivo, concreto, attuale,
che si manifesta nel mondo sia naturale che storico. La realtà è lo
SPIRITO INFINITO, detto anche ASSOLUTO ovvero IDEA
ovvero RAGIONE. Per questo Hegel definisce la sua filosofia una
forma di Idealismo in un duplice senso : da un lato perché la vera realtà è
appunto l’Idea, cioè il Pensiero, lo Spirito, l’Assoluto, la Ragione;
dall’altro perché afferma la idealità cioè la non realtà di ciò che noi chiamiamo
“finito”: per Hegel infatti il finito non esiste di per sé (se no sarebbe
l’Assoluto) ma solo in un contesto di relazioni o rapporti; in altre
parole, se la realtà è un tutto unitario, quello che esiste ne è una parte
o manifestazione : il finito esiste così solo nell’infinito e in virtù
dell’infinito. La sua filosofia è stata definita come una sorta di monismo
panteistico nel senso che Hegel vede nel mondo (il finito) la
manifestazione dell’Assoluto (l’Infinito). E l’Assoluto è, si ricordi, un
Soggetto spirituale in divenire, di cui tutto ciò che esiste è una tappa o
momento di realizzazione.
Se la realtà consiste in un processo di sviluppo infinito, allora
solo alla fine, cioè con lo Spirito, giunge a conoscere e a rivelarsi per
quello che è. “Il vero è l’intero” 27afferma Hegel nella Prefazione della
Fenomenologia dello Spirito, proprio per indicare come l’Assoluto si
conosca per ciò che veramente è solo al termine del processo di
sviluppo. Soltanto quando tale processo è compiuto, infatti, si può
comprendere appieno la razionalità che in esso si è dispiegata. Si badi:
la verità – e la realtà – hanno un andamento circolare, poiché si parte
da un soggetto per ritornare ad esso, dopo aver capito che l’oggetto,
che sembrava essere contro o indipendente da esso, non è altro che
una “espressione” del soggetto stesso (ecco l’idealismo, perché
l’oggetto deriva dal soggetto, la materia deriva dallo spirito).

La dialettica
Questo processo di sviluppo continuo è un processo
dialettico. La dialettica ha per Hegel due significati per altro
strettamente collegati: in un primo senso essa è il processo mediante il

27
“il vero è l’intiero. Ma l’intiero è soltanto l’essenza che si completa mediante il suo
sviluppo. Dell’asssoluto devesi dire che esso è essenzialmente Resultato, che solo alla fine è
ciò che è in verità”(cfr. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, trad.it. di Enrico De Negri,
Firenze, La Nuova Italia, 1973, p. 15).

238
quale l’Assoluto si riconosce nella realtà che, in un primo momento,
gli era apparsa come estranea od opposta, togliendo o conciliando
appunto quella opposizione; in un secondo senso è il processo
mediante il quale la realtà, superando le divisioni, si pacifica – come
dice Hegel – nell’unità del Tutto. Si noti : le divisioni, i conflitti ecc.
sono reali, ma sono aspetti della alienazione (=estraniazione,
allontanamento, separazione) in cui la ragione viene a trovarsi di
fronte a se stessa; ed appunto sono reali come “strumenti di
passaggio”, forme di mediazione del processo attraverso il quale la
Ragione si costituisce come unità, come – dice Hegel – Autocoscienza
Assoluta. La dialettica si svolge in tre momenti chiamati tesi, antitesi,
sintesi.
La tesi è il primo momento, quello della semplice
affermazione, più o meno astratta o intellettuale : si afferma qualcosa
ma non si coglie ancora la ricchezza e la concretezza della cosa.
L’antitesi è il secondo momento, quando, visto che ogni affermazione
implica una negazione, si procede oltre il semplice principio di identità
della tesi e si mettono in rapporto le varie determinazioni con le
determinazioni opposte (ad es. l’uno richiama i molti, l’essere il nulla
ecc.). Questo secondo momento è per Hegel importantissimo perché
ci ricorda che ogni finito, cioè ogni parte della realtà, non può esistere
da solo (altrimenti, come abbiamo già detto, sarebbe l’Assoluto) ma
soltanto in un contesto di rapporti. Inoltre nessun rapporto può nascere e
svilupparsi se non passando prima attraverso il dissidio, la contraddizione e la
finale riconciliazione. Si badi : l’antitesi, che è il momento della negazione
dialettica, non è affatto per Hegel puramente negativa. essa vuole
soltanto negare il carattere in apparenza specifico ed esclusivo (Hegel
dice la determinatezza) dell’oggetto, la sua fissità, la sua astrazione, la
sua posizione intellettualistica che lo isola e fa dimenticare che ogni
cosa è in relazione col resto. Però la negazione non basta : ecco
perché c’è ancora il terzo momento, quello della sintesi. La sintesi è il
momento conclusivo, speculativo e razionale, in cui si coglie
finalmente l’unità e la concretezza delle determinazioni opposte ed il
positivo che emerge dalla loro sintesi. La sintesi è così per Hegel
Aufhebung, cioè superamento che toglie l’opposizione tra tesi e antitesi
ma anche conservazione, nello stesso tempo, della verità di entrambe
e della loro precedente opposizione. In altre parole, gli opposti non
vengono eliminati ma considerati ad un livello superiore, nell’unità
che risolve il loro carattere di opposizione. Ed è solo la Ragione (o
Idea o Assoluto ecc.), nel momento che Hegel chiama speculativo o

239
dialettico, che riesce a cogliere la concretezza del reale, l’interazione
reciproca dei vari aspetti della realtà nella dinamicità del loro sviluppo,
mentre l’intelletto, essendo la facoltà dell’analisi e della distinzione,
riesce solo a pensare staticamente, astrattamente.

Realtà e razionalità
Dobbiamo ora cercare di chiarire un’altra celebre espressione
di Hegel, che si trova nella Prefazione dei Lineamenti della Filosofia del
Diritto (del 1821) : “Ciò che è razionale è reale, ciò che è reale è razionale”. Il
significato di tale espressione potrebbe essere frainteso se si confonde
il reale con il semplicemente esistente. Hegel non vuole dire che tutto
ciò che esiste deve necessariamente esistere bensì che tutto ciò che ha
in sé una razionalità assoluta non può non esistere. Hegel si riferisce
qui a quelle che lui chiama le “determinazioni universali dello Spirito
Oggettivo” cioè le istituzioni, i costumi e soprattutto lo Stato. Ora, chi
non vede che le istituzioni e gli Stati sono ben lungi dall’essere perfetti
e razionali? Ma Hegel non vuole dir questo. E’ banale osservare che
“le cose non vanno bene”, “lo Stato è ladro” e simili; ma chi può negare
che la famiglia, la società, lo Stato siano istituzioni concrete e, ancor più necessarie,
e quindi razionali? Ed è proprio questo che vuole dire Hegel. Egli ha
voluto così affermare la necessaria identità fra Ragione e realtà. La
Ragione non è pura astrazione, idealità, bensì governa il mondo e lo
costituisce; la realtà non è che il dispiegarsi della Ragione che si
manifesta in una serie di passaggi, i quali rappresentano, ognuno, il
risultato di quelli precedenti e il presupposto di quelli seguenti. Così la
realtà intera à da Hegel accettata e giustificata, visto che, dal punto di
vista dello Spirito Assoluto, tutto ciò che è, è ,appunto,
necessariamente quello che deve essere. Il compito della filosofia, per
Hegel, non è quello di modificare o trasformare la realtà indicando un
modello ed insegnando “come il mondo debba essere”, come hanno
fatto tutte le filosofie precedenti ad Hegel (in particolare quella
kantiana, per la quale permane il divario fra l’essere e il dover essere, tra
quello che è o si può conoscere e quello che si dovrebbe fare o si può
arrivare a conoscere), ma è quello di prendere atto della realtà così
com’è, essa deve cioè “mantenersi in pace con la realtà” e deve solo
elaborare in concetti il contenuto reale che le offre l’esperienza,
dimostrandone l’intrinseca razionalità. La filosofia è paragonata da
Hegel, secondo una celebre similitudine, alla nottola (la civetta,
simbolo di saggezza) della dea Minerva, la quale inizia a volare al

240
crepuscolo, cioè quando il giorno è finito, ovvero quando la realtà è
già fatta, conclusa.

LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO (1807)

Si è già detto che per Hegel la verità si consegue solo con la


conoscenza della totalità. Il processo di raggiungimento della verità
può essere rappresentato in due modi, a seconda che si parta dal
soggetto oppure dall’oggetto o, meglio, dal sistema delle istituzioni.
Nel primo caso abbiamo la Fenomenologia dello Spirito, nel secondo la
Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio.
La Fenomenologia dello Spirito è definita da Hegel come la “storia
romanzata della coscienza che attraverso contrasti, scissioni, quindi infelicità e
dolore esce dalla sua individualità e raggiunge l’universalità, riconoscendosi come
ragione che è realtà e realtà che è ragione”. Essa è vista da Hegel anche come
una sorta di introduzione alla filosofia nel senso che introduce il
singolo alla filosofia cioè tende a far sì che egli si riconosca e si risolva
nello Spirito universale. “Il singolo deve ripercorrere i gradi di
formazione dello spirito universale, anche secondo il contenuto, ma
come figure dallo spirito già deposte, come gradi di una via già
tracciata e spianata”28.
Nella descrizione del processo che porta il soggetto verso la
Verità, Hegel illustra due celebri figure che rappresentano questa
“storia romanzata della coscienza” : quella della coscienza infelice e quella
del servo e padrone. La coscienza è infelice quando non sa ancora di essere
tutta la realtà, quindi si ritrova scissa in conflitti, da cui può uscire solo
arrivando alla consapevolezza di essere tutto. La coscienza infelice è
tipica della coscienza religiosa, quando assume la forma di una
separazione radicale tra Dio e l’uomo. Nell’ebraismo per es. Dio è
visto come inaccessibile, e così pure nel cristianesimo permane pur
sempre la trascendenza divina, il distacco fra creatore e creatura,
nonostante l’incarnazione di Dio in Cristo. Quando però la coscienza,
nel suo sforzo di unirsi a Dio, si rende conto di essere, lei stessa, Dio,
ovvero il Soggetto Assoluto o l’Universale, allora l’autocoscienza
diventa dialetticamente Ragione, la quale assume in sé ogni realtà (“la

28
Cfr. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, cit., p. 22.

241
Ragione – dice Hegel – è la certezza di essere ogni realtà”). In altri
termini, il soggetto riconosce se stesso come Assoluto, ovvero
l’individuo acquista la totale coscienza di sé come Spirito (per spirito
Hegel intende anche l’individuo nei suoi rapporti con la comunità
sociale di cui fa parte).
Ora, l’uomo è autocoscienza solo se riesce a farsi riconoscere
come tale da un’altra autocoscienza. In altre parole, il riconoscimento
passa attraverso il conflitto fra le autocoscienze. Tale è il rapporto
definito da Hegel come quello fra servo e padrone (o signore). Il signore o
padrone, che sembra indipendente dal servo, nella misura in cui si
limita a godere passivamente del lavoro altrui, finisce per rendersi
dipendente dal servo; il servo, anche se pare all’inizio dipendente dal
padrone, nella misura in cui padroneggia e trasforma le cose da cui il
signore riceve il proprio sostentamento, finisce di rendersi
indipendente dal padrone. Per cui le due figure sono in realtà
dipendenti l’una dall’altra ed entrambe possono rendersi indipendenti
l’una dall’altra. Così capita nel raggiungimento dell’indipendenza da
parte della coscienza. A questo punto le vicende della fenomenologia
dello spirito sono concluse.

L’ENCICLOPEDIA DELLE SCIENZE FILOSOFICHE


IN COMPENDIO (1817)

La differenza principale fra la Fenomenologia dello Spirito e


l’Enciclopedia è (oltre a quanto già accennato sopra) la seguente: la
prima riguarda figure ovvero situazioni storiche o spirituali o anche
fantasticate che costituiscono una vicenda del processo attraverso il
quale l’autocoscienza giunge a riconoscere se stessa; l’Enciclopedia
riguarda concetti o categorie, viste come momenti necessari nella
realizzazione della autocoscienza, ovvero, detto in altri termini, è una
storia dell’autocoscienza nei suoi momenti immutabili, universali e
necessari (quali sono ad es. l’essere, lo spirito, la natura, lo Stato, l’arte,
la religione, la filosofia ecc.).
L’Enciclopedia è divisa in tre parti: la tesi è rappresentata dalla
Logica o scienza dell’Idea in sé; l’antitesi dalla Filosofia della Natura o
scienza dell’Idea fuori di sé; la sintesi dalla Filosofia dello Spirito o
scienza dell’Idea che ritorna a sé o in sé e per sé. Nella Logica l’Idea

242
ovvero l’Assoluto è studiato a prescindere dalle sue realizzazioni
concrete nella natura e nello spirito; per raggiungere la
consapevolezza di sé, l’Assoluto deve allora negarsi, farsi altro da sé,
oggettivarsi, cioè farsi natura(ed ecco la Filosofia della Natura); ma
non basta : deve poi giungere allo spirito cioè alla libertà e alla
consapevolezza (Filosofia dello Spirito).
Noi studieremo solo parte della Filosofia dello Spirito.
C’è da osservare, in primo luogo, che per Hegel logica e
metafisica si identificano. Il che c’era da aspettarselo, viste tutte le
premesse. Infatti per Hegel i concetti o categorie di cui si occupa la
logica sono in realtà i “pensieri oggettivi”, quelli che esprimono la
realtà nella sua essenza necessaria, nella sua verità assoluta. Il
contenuto della logica è in pratica, per Hegel, Dio stesso, che è
assoluta realtà. Lo studio del pensiero (com’è in genere la definizione
della logica) è dunque per Hegel lo studio della stessa realtà, visto che
la Ragione (ovvero Idea ovvero Assoluto) è la realtà !

FILOSOFIA DELLO SPIRITO


La Filosofia dello Spirito è la descrizione del processo
attraverso cui si sviluppa la consapevolezza che l’Assoluto ha di sé.
Ciò avviene in tre momenti : lo spirito è dapprima soggettivo (cioè
individuale), poi oggettivo (sociale o sovraindividuale); infine assoluto
(quando è consapevole di sé e conosce se stesso nelle forme di arte,
religione e filosofia). Si badi: mentre nella natura i vari gradi o
momenti sono uno accanto all’altro (il mondo vegetale sussiste
insieme a quello animale), nello spirito ogni grado è compreso e
risolto in quello superiore che, a sua volta, è già presente nel grado
inferiore (ad es. l’individuo è compreso nella società, la quale è
composta da individui).

LO SPIRITO SOGGETTIVO. Si ricordi solo che è diviso nei


soliti tre momenti: antropologia, fenomenologia e psicologia. La libertà è la
più alta manifestazione dello spirito soggettivo, che è adesso pronto
ad entrare in relazione con gli altri e quindi a diventare spirito
oggettivo.
LO SPIRITO OGGETTIVO. La libertà dello spirito si
realizza nelle istituzioni sociali concrete che sono DIRITTO,
MORALITA’ ED ETICITA’.

243
DIRITTO. Il diritto ovvero la legge si attua quando la volontà
si conforma liberamente alle leggi. L’individuo viene visto dal diritto
come persona, cioè come soggetto che ha diritti e doveri. La persona
trova il suo primo compimento in una cosa esterna che diventa di sua
proprietà. Ma la proprietà è tale solo in virtù del reciproco
riconoscimento fra le persone, ossia il contratto. La violazione del
contratto può culminare nel delitto, che esige una pena adeguata, la
quale ripristini il diritto violato. Il diritto è però una legge esteriore, che
l’individuo non riconosce come propria. Da qui il passaggio al
momento successivo, la moralità.
MORALITA’. E’ quando la legge diventa interiore, viene
sentita come propria, come un dovere da adempiere. La moralità ha
però il difetto di mantenere comunque il distacco fra l’essere e il
dover essere : le intenzioni non sono sempre realizzate e dunque il
vero bene non è ancora perfettamente raggiunto, come sarà
nell’ultimo momento, quello dell’eticità.
ETICITA’. L’eticità è il superamento della scissione fra
interiorità ed esteriorità, tra la soggettività ed il bene; essa implica
l’inserimento attivo dell’individuo in una comunità e la sua
collaborazione con gli altri, in vista del bene comune. Essa si attua
concretamente nelle istituzioni storiche concrete della famiglia, società
civile e Stato.
Famiglia. Non è per Hegel una semplice società naturale ma
una istituzione, cioè una creazione dello spirito dotata di grande valore
etico. “Questa – dice Hegel – è la relazione dei sessi, ma elevata a
determinazione spirituale; è l’accordo dell’amore e la disposizione
d’animo della fiducia… Queste personalità si congiungono, in una
sola persona; e l’intimità soggettiva fa du questa unione una relazione
etica: il matrimonio… l’intimità sostanziale fa del matrimonio un
legame indiviso delle persone e quindi matrimonio monogamico” (cfr.
Enciclopedia, § 518-519).
Società civile. E’ l’antitesi della famiglia perché in essa i rapporti
sono conflittuali, essendo un “sistema di bisogni”, il che implica allora
l’amministrazione della giustizia, un corpo di polizia e le corporazioni,
necessarie per l’ordine e la sicurezza. Essa è una società di privati, che
operano per fini particolari.
Stato. E’ l’istituzione in cui si risolvono i conflitti della società
civile, in cui l’interesse privato coincide con l’interesse pubblico.
Viene definito da Hegel come “la sostanza etica consapevole di sé, la

244
riunione del principio della famiglia e della società civile”(Enciclopedia,
§ 535). Quali caratteristiche ha lo Stato per Hegel? Esso non vuole essere
è liberale (Locke, Kant ecc.) nel senso che non vede nello Stato lo
strumento che deve garantire la sicurezza e i diritti dei privati, né
Hegel lo vede come un tutore dei particolarismi della società civile.
Non vuole neppure essere democratico per cui la sovranità dovrebbe
risiedere nel popolo (Rousseau). Per Hegel invece la sovranità dello
Stato deriva dallo Stato stesso, che ha in sé la propria ragione d’essere,
il che significa che lo stato hegeliano non è fondato sugli individui ma
sull’idea di Stato, cioè sul concetto di un bene universale. E’ lo Stato
che fonda gli individui : sia in senso cronologico-storico-temporale (esso
viene prima degli individui; gli individui nascono già all’interno di uno
Stato), sia in senso ideale-assiologico (lo Stato è superiore agli individui
come il tutto alle parti). Lo Stato hegeliano, comunque, pur essendo
assolutamente sovrano, non è dispotico o illegale perché anzi deve operare
con le leggi; è uno Stato di diritto (Rechtstaat), fondato sul rispetto delle
leggi e sulla salvaguardia della libertà e della proprietà. In questo Stato,
la costituzione migliore è quella monarchico-costituzionale, con la
tripartizione dei poteri in legislativo (affidato ai rappresentanti dei vari
ceti o stati sociali; stati o ceti sociali da non confondere con le classi
sociali antagonistiche dei proletari e capitalisti di cui parlerà Marx),
esecutivo (affidato al governo) e sovrano (esercitato dal monarca). Nel
sovrano si incarna l’unità dello Stato ed a lui spetta la decisione ultima
circa gli affari della collettività. Il vero potere politico è quello del
governo. Lo Stato è in ultimo per Hegel la “volontà divina” ovvero
“l’ingresso di Dio nel mondo è lo Stato”. E come vita divina che si
realizza nel mondo, lo Stato non può trovare nella morale un limite
alla sua azione. Il solo giudice ed arbitro sarà lo Spirito Universale
cioè la Storia, che ha, come suo momento strutturale, anche la guerra !
essa non è solo necessaria ed inevitabile, ma preserva gli uomini –
dice Hegel – dalla fossilizzazione a cui li ridurrebbe una pace
durevole. In questo Stato, si ricordi, non vi è il potere giudiziario perché è
demandato alla società civile. In conclusione, Hegel è “semplicemente
un conservatore, in quanto pregia più lo stato che l’individuo, più
l’autorità che la libertà”29.
La filosofia della storia

29
Secondo l'interpretazione di N.Bobbio, Studi hegeliani, Einaudi, Torino 1981, p. 189.

245
Ricordiamo, a questo punto, la concezione della storia
secondo Hegel. “Il grande contenuto della storia del mondo è
razionale e razionale deve essere: una volontà divina domina poderosa
il mondo”. Il fine della storia del mondo è che lo Spirito giunga alla
sua piena realizzazione e libertà. Lo Spirito che si manifesta nella
realtà storica è lo Spirito del Mondo, il quale si incarna nei vari spiriti dei
popoli che si succedono all’avanguardia della storia. I mezzi della storia
del mondo sono gli individui, con le loro varie passioni. E poiché lo
Spirito del Mondo è sempre lo spirito di un popolo particolare,
l’azione dell’individuo sarà tanto più efficace quanto più sarà
conforme allo spirito del popolo a cui l’individuo appartiene. Gli eroi
o veggenti sono caratterizzati dal successo. Resistere ad essi è cosa
vana. Sembra che tali individui (come Alessandro Magno, Cesare,
Napoleone ecc.) non seguano altro che la loro passione e/o
ambizione. In realtà, questa è una Astuzia della Ragione (die List der
Vernunft) che si serve di tali individui come mezzi per attuare i propri
fini. E quali sono i suoi fini? Il fine ultimo della storia del mondo è la
realizzazione della libertà dello Spirito. Se la libertà si realizza nello Stato, la
storia del mondo sarà la successione delle forme statali. I tre momenti
di essa sono : il mondo orientale, in cui uno solo, il monarca, è libero; il
mondo greco-romano in cui sono liberi alcuni; il mondo cristiano-germanico, in
cui tutti sono liberi.

LO SPIRITO ASSOLUTO. E’ il momento in cui l’Idea giunge


alla piena consapevolezza della propria infinità e assolutezza, cioè che
tutto è Spirito e non vi è nulla al di fuori dello Spirito. Questo
conoscersi come Assoluto non è qualcosa di immediato (Hegel critica
l’immediatezza dell’intuizione e del sentimento: sotto questo aspetto non è
romantico) ma è il risultato di un processo dialettico rappresentato dai
tre momenti dell’arte, della religione e della filosofia. Esse si
differenziano tra loro per la forma in cui ciascuna di esse presenta lo
stesso contenuto, che è l’Assoluto. L’arte conosce l’Assoluto nella
forma dell’intuizione sensibile, la religione come rappresentazione, la
filosofia come puro concetto. Vediamo meglio.
Arte. L’opera d’arte è sempre qualcosa di sensibile (oggetto
materiale, suono, parola ecc.) e dunque nell’arte l’uomo acquista
consapevolezza di sé mediante le forme sensibili. Nell’arte lo spirito
vive in maniera immediata e intuitiva il rapporto tra il soggetto e
l’oggetto, lo spirito e la natura, che la filosofia teorizza, sostenendo
che la natura non è che una manifestazione dello spirito. La storia

246
dell’arte si svolge in tre momenti : l’arte simbolica dei popoli orientali, i
quali fanno ricorso al simbolo perché non riescono ad esprimere lo
spirito secondo adeguate forme sensibili; vi è poi l’arte classica, che è
caratterizzata dall’equilibrio fra contenuto spirituale e forma sensibile,
attuato mediante la raffigurazione della figura umana; infine vi è l’arte
romantica, in cui lo spirito prende coscienza che qualsiasi forma
sensibile è insufficiente per esprimere adeguatamente l’interiorità
spirituale e provoca la crisi dell’arte. Hegel parla, a questo riguardo,
della futura “morte dell’arte” nel senso che il suo ruolo di ponte
intuitivo verso l’Assoluto è destinato a venir meno di fronte al
dispiegamento del vero da parte della filosofia, la sola che può
cogliere l’Assoluto nel suo elemento proprio, la razionalità dialettica.
Se infatti l’Assoluto è una totalità dialettica, esso è il risultato di un
processo, di una mediazione, che è il contrario della immediatezza
sensibile. Per questo l’arte rimane al gradino più basso fra le diverse
forme del sapere.
Religione. Nella religione “l’Assoluto è trasferito dall’oggettività
dell’arte nell’interiorità del soggetto”. Il che vuol dire che nella
religione è essenziale il rapporto fra la coscienza e Dio : tale rapporto
è dato dalla fede. Ma se è così, allora la fede non è in grado di
giustificare la certezza che prova nell’esistenza di Dio. Il modo
tipicamente religioso di pensare Dio è la rappresentazione intellettuale, che è
a metà strada fra l’intuizione sensibile dell’arte ed il concetto della
filosofia. Permangono nella rappresentazione religiosa le differenze
fra Dio creatore e creatura, in modo che l’Assoluto non è pienamente
compreso ma rimane ancora il mistero. L’esigenza verso l’unità di
creatore e creatura viene sentita solo sul piano del culto, cioè sul piano
pratico, non concettuale.
Filosofia e storia della filosofia. Con la filosofia siamo arrivati al
momento conclusivo dello spirito assoluto, in cui vi è unità di arte e
religione. In essa l’Assoluto è conosciuto nella forma del concetto,
nella forma più perfetta. L’Assoluto può finalmente conoscersi e così
l’Idea pensa se stessa, la verità assoluta e intera. In quanto è però
pensiero giunto alla consapevolezza di sé, la filosofia non può che
essere il risultato di un processo di sviluppo che ha come soggetto la
realtà nella sua concretezza. In altri termini, la filosofia è un processo
storico e quindi si identifica con la stessa storia della filosofia. I vari
sistemi filosofici precedenti la filosofia hegeliana sono le varie tappe
del farsi della verità, che superano ciò che precede e sono superati da
ciò che segue. “La storia della filosofia mostra, da una parte, che le

247
filosofie, che sembrano diverse, sono una medesima filosofia in
diversi gradi di svolgimento; dall’altra, che i principi particolari di cui
ciascuno è a fondamento di un sistema, non sono altro che rami di un
solo e medesimo tutto. La filosofia, che è ultima nel tempo, è insieme
il risultato di tutte le precedenti e deve contenere i principi di tutte:
essa è perciò … la più sviluppata, ricca e concreta”(cfr. Enciclopedia,
§.13). Con ciò il ciclo cosmico della conoscenza e della realtà si
chiude.

NOTE BIOGRAFICHE
Georg Wilhelm Friedrich Hegel nacque a Stoccarda nel 1770.
A 18 anni entrò nel famoso Stift di Tubinga per studiarvi teologia e si
legò d’amicizia con Schelling e Hoelderlin. In seguito alla morte del
padre, si dedicò agli studi per intraprendere la carriera accademica.
Nel 1801 ottenne a Jena l’abilitazione all’insegnamento universitario
con la dissertazione De orbitis planetarum. Nel 1807 pubblicò il primo
dei suoi capolavori, la Fenomenologia dello Spirito. L’anno successivo fu
nominato direttore del Ginnasio di Norimberga e poco dopo si sposò
con Marie von Tuecher, da cui avrà due figli. Nel 1813 diventò
provveditore agli studi e si impegnò in una vasta opera di riforma
scolastica. L’opera più importante di questo periodo fu la Scienza della
logica. Nel 1816 fu chiamato alla cattedra di filosofia dell’università di
Heidelberg, dove rimase un paio d’anni prima di passare a Berlino, e lì
rimarrà fino alla morte. Nel 1817 pubblicò l’Enciclopedia delle scienze
filosofiche in compendio, che rappresenta, come suggerisce il nome, la
sintesi del suo pensiero. Nel 1821 pubblicò l’ultima sua grande opera,
i Lineamenti della Filosofia del diritto. Molti altri scritti saranno pubblicati
postumi: ad es. le varie lezioni universitarie sull’arte, la storia, la
religione ecc.

BIBLIOGRAFIA
Hegel, Fenomenologia dello Spirito, La Nuova Italia
Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Laterza
V. Verra, Introduzione a Hegel, “i filosofi”, Laterza

248
LA SINISTRA HEGELIANA E FEUERBACH

DESTRA E SINISTRA HEGELIANA

Già durante la vita di Hegel, ma anche dopo la sua morte


(1831), si erano andate formando tra i discepoli del filosofo due
correnti di pensiero antitetiche che David STRAUSS nel 1837 chiamò
DESTRA E SINISTRA HEGELIANA, prendendo spunto dall’uso
del Parlamento francese di distinguere in questo modo i conservatori
(la destra) e i progressisti (la sinistra).
La Destra hegeliana fu incline ad interpretare la filosofia di
Hegel come giustificatrice della verità religiosa, anzi idonea a
rafforzare la dottrina cristiana. Inoltre, dal punto di vista politico, la
Destra hegeliana appoggiò in genere il governo prussiano. I suoi
rappresentanti più famosi furono GÖSCHEL, CONRADI,
GABLER. Il suo organo di stampa fu la “Rivista di teologia
speculativa”(1836-38), fondata da Bruno BAUER, il quale però passò in
seguito alla Sinistra hegeliana e si proclamò ateo (egli scrisse un
famoso manifesto anti-hegeliano dal titolo provocatorio di La tromba
del giudizio universale contro Hegel, ateo ed anticristo. Un ultimatum, 1841).
En passant, ricordiamo che vi fu anche un Centro, oltre alla
Destra e alla Sinistra, a cui appartennero in genere gli storici della
filosofia quali ERDMANN, KUNO FISCHER e KARL
ROSENKRANZ (1805-1879), autore della più famosa biografia di
Hegel (intitolata Georg Wilhelm Friedrich Hegel’s Leben, 1844).
La Sinistra hegeliana o Giovani hegeliani tendeva invece ad
una riforma radicale dell’hegelismo. Sul piano religioso, essi criticano
radicalmente la religione ed il cristianesimo in particolare; sul piano
politico, vi è una critica altrettanto radicale delle istituzioni politiche
prussiane. A tale corrente appartennero o furono considerati
appartenenti nomi quali MAX STIRNER (autore di un celebre L’unico
e la sua proprietà, 1845, in cui professa un anarchismo e ateismo
radicale), LUDWIG FEUERBACH, BRUNO BAUER, KARL
MARX, DAVID STRAUSS ecc. Qui ricorderò solo brevemente
David Strauss.

249
DAVID STRAUSS (1808-1874) pubblicò nel 1835 una Vita di
Gesù che fece scandalo. La sua tesi, destinata ad avere molta fortuna,
sosteneva che i racconti della Bibbia non sono altro che miti. Sono
miti che esprimono i desideri e le speranze degli uomini, i quali
vengono immaginati incarnati in una figura particolare, in un individuo
cosmico, come appunto Gesù di Nazaret. In altri termini, un mito non è
un racconto storico ma ha una verità che potremmo definire simbolica :
le origini dei miti evangelici sono da ricercare nell’attesa di un Messia
e nella forte impressione che fece ai suoi contemporanei la figura di
Gesù, al punto da paragonarlo ad un Dio. Gesù fu creduto Figlio di
Dio dai suoi discepoli perché videro in lui la realizzazione delle
speranze di Israele e quindi costruirono su di lui i Vangeli, come se
fossero delle narrazioni storiche.

250
LUDWIG FEUERBACH

(1804-1872)
Feuerbach fu forse il più famoso rappresentante della corrente
anti-hegeliana. Che appartenesse oppure no ad essa è una questione
che qui possiamo tralasciare, mentre è indubbia la sua influenza su
tutti i giovani anti-hegeliani. Marx stesso dirà, quando apparve uno dei
capolavori di Feuerbach, L’essenza del cristianesimo (1841), con parole
accalorate, che “Non c’è altra via che vi porti alla verità e alla libertà se non
quella che passa attraverso il torrente di fuoco; il torrente di fuoco è il purgatorio
del presente” (si noti che torrente di fuoco è la traduzione di Feuerbach).

La critica ad Hegel
Come si è visto, la filosofia di Feuerbach ha come sottofondo
costante di riferimento critico il pensiero hegeliano. Dall’iniziale
passione per tale sistema, Feuerbach andò sempre più
distaccandosene fino a diventare uno dei suoi più acerrimi critici.
L’idealismo in genere e l’idealismo hegeliano in particolare, secondo
Feuerbach, ha come difetto principale quello di capovolgere i rapporti
reali. Nell’idealismo, quello che viene prima, cioè il concreto, figura
come ciò che viene dopo, mentre ciò che viene dopo, l’astratto, figura
come ciò che viene prima. Ebbene, per Feuerbach è appunto vero il
contrario : non l’essere deriva dal pensiero (come vuole l’idealismo)
ma il pensiero deriva dall’essere, come vuole una filosofia basata sul
concreto. La dialettica hegeliana è quindi semplicemente una
astrazione. Il torto ella filosofia hegeliana è quello di aver “estraniato
l’uomo da se stesso, avendo fatto appoggiare tutto il sistema su questi
atti di astrazione”. Un’ultima critica ad Hegel è il suo sistematismo, la
sua tendenza a spiegare tutto, a risolvere tutto in un sistema filosofico
che comprenda tutto : ma di fronte a questa tendenza, che rischia di
trasformare tutta la realtà in una sorta di macchina totalizzante ed
implacabile in cui tutto deve per forza essere spiegato e ricondotto a
pochi principi astratti, Feuerbach contrappone l’irriducibilità della realtà,

251
la concretezza dell’uomo, che non possono mai essere del tutto spiegati e
compresi con una teoria astratta.

La critica al cristianesimo e alla religione


Il leit motiv della filosofia di Feuerbach è però la critica alla
religione. Il suo ateismo non è affatto un banale anticlericalismo o una
critica aprioristica della religione. Infatti in Spiritualismo e materialismo
(1866), troviamo scritto : “Non è compito dei miei scritti … negare l’esistenza
della divinità e dell’immortalità – chi può negare che esistono almeno in libri e
immagini, nella fede e nella rappresentazione ? – bensì solo riconoscere il senso e il
motivo vero, il testo originale e non falsificato della divinità e dell’immortalità o,
che è tutt’uno, della fede in esse, un riconoscimento attraverso cui la questione della
loro esistenza o non esistenza si risolve da sé”. L’essenza del Cristianesimo
(1841) si apre con l’affermazione che la differenza tra l’uomo e
l’animale consiste proprio nel fatto che gli uomini hanno una religione
e le bestie ne sono prive. E in che cosa consiste la religione? La
religione è la coscienza dell’infinito. Ma per Feuerbach questo infinito
non si riferisce ad un essere divino bensì all’uomo, inteso come
umanità, nel senso che la religione è “la coscienza che l’uomo ha, non
della limitazione, ma dell’infinità del suo essere”. In altri termini,
l’uomo singolo può ben sentirsi limitato, e in questa consapevolezza o
autocoscienza si distingue dall’animale; ma ciò accade perché egli ha il
sentimento o il pensiero della perfezione e della infinità della specie
umana. Dice Feuerbach: “Pensi tu l’infinito? Ebbene tu pensi ed
affermi l’infinità della potenza del pensiero. Senti tu l’infinito? Tu
senti ed affermi l’infinità della potenza del sentimento”. Insomma,
Feuerbach vuole dimostrare che la distinzione tra il divino e l’umano
è illusoria, cioè che non è altro che la distinzione tra l’essenza
dell’umanità e l’uomo individuo, e che di conseguenza anche l’oggetto
e il contenuto della religione cristiana sono solamente umani. L’essere
divino non è altro che l’essere dell’uomo ma liberato dai limiti
dell’individuo ed oggettivato, cioè contemplato come se fosse un altro
essere, distinto dall’uomo. “L’uomo – questo è il mistero della
religione – proietta il proprio essere fuori di sé e poi si fa oggetto di
questo essere metamorfosato in soggetto, in persona”. Feuerbach
riduce così tutti gli attributi del Dio cristiano ad attributi dell’uomo :
ad es. Dio è considerato amore perfetto solo perché l’amore è la cosa
più importante nella vita dell’uomo; Dio è ammesso per fede proprio
perché Dio esiste solo nella fede ovvero nella fantasia; Dio è eterno
perché l’uomo è mortale mentre vorrebbe essere immortale ecc.

252
La religione è la prima reazione alla limitatezza dell’uomo:
l’infelicità, la sofferenza conducono l’uomo a Dio. Nella sofferenza,
l’uomo si concentra su se stesso e la risposta è data da Dio “questo
essere immaginario rispetto al mondo e alla natura in genere, ma reale
per l’uomo”. Ma se la religione è “la prima ma indiretta coscienza che
l’uomo ha di se stesso”, essa “precede dappertutto la filosofia, non
solo nella storia dell’umanità ma anche in quella degli individui”.
Dunque dalla religione bisogna passare alla filosofia, dalla fede
bisogna arrivare all’ateismo, visto che lo sbaglio della religione è
proprio questo : considerare l’essere divino come se fosse qualcun
altro, distinto e indipendente dall’uomo, da cui anzi l’uomo dipende,
E’ proprio qui la debolezza della religione, l’origine del suo errore e
del suo fanatismo, per cui essa aliena (l’uomo sposta il suo essere fuori
di sé, prima di ritrovarlo in sé)l’uomo da se stesso e gli fa preferire un
altro mondo a questo, allontanandolo dalla sua vera natura. Ma se la
religione pone tutto in Dio e toglie tutto all’uomo, allora l’ateismo
diventa un dovere morale, affinché l’uomo recuperi i predicati positivi
che ha proiettato fuori di sé nell’essenza divina.
Ne L’essenza della religione (1846), Feuerbach dice che il
fondamento della religione è il sentimento di dipendenza che l’uomo
prova istintivamente…nei confronti di Dio? No, nei confronti della
natura. in altri termini, Feuerbach sostiene che è vero dire che la
religione è innata nell’uomo, se però per religione si intende il
sentimento dell’uomo di non poter esistere senza un ente che sia altro
da lui, cioè di non dovere a se stesso la propria esistenza. Dunque ciò
da cui dipende la vita e l’esistenza dell’uomo è da lui considerato Dio.
La credenza che Dio abbia un’esistenza indipendente da quella
dell’uomo dipende dal fatto che, in origine, è considerato come Dio
l’ente che esiste fuori dell’uomo, che non è altro che il mondo o la
natura. Infatti l’esistenza della natura non dipende certo dall’esistenza
dell’uomo. Così, tutte le proprietà che sono attribuite a Dio, in realtà
non sono altro che le proprietà astratte della natura. L’uomo,
inconsapevolmente, fa, in un primo momento, della natura una sorta
di essere vivente, un essere personale. In un secondo momento ne fa
consapevolmente un oggetto di preghiera e di religione. Mentre in
realtà nella religione l’uomo ha come oggetto solamente se stesso e la
natura. Il presupposto della religione è il contrasto tra volere e potere,
desiderare e ottenere. Nel volere, nel desiderare, nel rappresentare,
l’uomo è illimitato, onnipotente, Dio; mentre nel potere, nell’ottenere,
nella realtà, l’uomo è condizionato, dipendente, limitato. Il fine della

253
religione è togliere tale contrasto; e l’ente in cui sono tolte le
contraddizioni è Dio. Esiste Dio solo nella religione e nella fede. Si
trova Dio solo nella fede perché Dio non è altro che l’essenza della
fantasia e del cuore umano. Dio è, secondo Feuerbach, il principio
fantastico della realizzazione totale di tutti i desideri umani. “Quali
sono i desideri degli uomini, tali sono le loro divinità”. Il segreto della
teologia è allora l’antropologia. Se la religione è la prima ma inconsapevole
conoscenza che l’uomo ha di sé, essa, considerando l’essere divino
come distinto dall’uomo, contiene in sé un elemento di illusione e di
errore. Essa è alienazione, visto che l’uomo sposta il suo essere fuori
di sé prima di trovarlo in sé. Il superamento della alienazione
consisterà nel capire che è l’uomo che ha creato Dio e non viceversa.

La filosofia dell’avvenire
La filosofia di Feuerbach vuole essere un completo
rovesciamento della filosofia religiosa e dell’idealismo hegeliano.
L’inizio della filosofia non deve più essere Dio o l’Assoluto bensì
l’uomo, e l’uomo determinato, concreto. L’uomo è un essere naturale,
reale, sensibile, e come tale deve essere considerato dalla filosofia che
non può ridurlo ad un concetto o a puro pensiero o a sola razionalità
ma deve considerarlo integralmente, “dalla testa al calcagno”. La
nuova filosofia, la filosofia del futuro sarà la “risoluzione completa della
teologia (hegeliana) nella antropologia”. La nuova filosofia di Feuerbach
vuole essere un umanesimo: è l’uomo l’unico vero oggetto della
filosofia, e l’uomo nella sua concretezza, nella sua corporeità, nella sua
fisicità (Feuerbach giunge a dire, in modo un po’ paradossale ma che
indica bene la sua esigenza di concretezza, che “l’uomo è ciò che mangia”
: si noti che in tedesco è un gioco di parole che suona così : Mann ist
was isst). “La vera dialettica – sostiene Feuerbach – è un dialogo tra l’io
e il tu”. Non ha nulla a che vedere con assoluto, essenze e simili. Se
poi l’uomo è un essere sociale, allora l’amore è la passione dominante
dell’uomo stesso. Dunque l’amore per l’uomo, la filantropia,
dev’essere lo scopo principale della filosofia: “Lo scopo dei miei scritti
… è … trasformare gli uomini da teologi in antropologi, da teofili in
filantropi”.

254
NOTE BIOGRAFICHE

Ludwig Feuerbach nacque a Landshut, nella Baviera,nel 1804.


Studiò prima teologia e poi filosofia a Berlino sotto la guida di Hegel.
Ad Erlangen si laureò in filosofia e poi ottenne la libera docenza. Nel
1829 iniziò la sua carriera di docente universitario ma nel 1830 faceva
uscire anonima un'opera, Pensieri sulla morte e l'immortalità, che gli
troncò la carriera accademica. Continuò allora a scrivere diverse opere
di storia della filosofia (Storia della filosofia da Bacone a Spinoza; le
monografie su Leibniz e su Bayle ecc.), sperando in una riabilitazione.
Nel 1837, fallito l'ultimo tentativo di essere nominato professore
straordinario ad Erlangen, si ritirò a vita privata a Bruckberg, dove
visse per 24 anni con una modesta pensione e l'aiuto della moglie,
comproprietaria di una fabbrica di porcellana. Compose intanto i suoi
scritti più noti : L'essenza del Cristianesimo (1841), Tesi per una riforma
della filosofia(1842), La Filosofia dell'avvenire (1843), L'essenza della religione
(1845). I moti del 1848 lo riportarono alla ribalta : fu chiamato per
alcuni mesi dagli studenti di Heidelberg perché tenesse un corso sulla
filosofia della religione ed egli accettò. Ritornò poi a Bruckberg ad
occuparsi della pubblicazione delle sue opere complete. Intanto la
fabbrica della moglie dovette chiudere i battenti e Feuerbach trascorse
gli ultimi tempi della sua vita in grandi ristrettezze. Si trasferì a
Rechenberg e qui morì il 13 Settembre 1872.

BIBLIOGRAFIA

La sinistra hegeliana, antologia a cura di K. Lowith, ed. Laterza


L. Feuerbach, Opere, ediz. Laterza
L. Feuerbach, L’essenza del cristianesimo, Feltrinelli
L. Feuerbach, L’essenza della religione, Newton Compton
C. Cesa, Introduzione a Feuerbach, “i filosofi”, Laterza

255
ARTHUR SCHOPENHAUER

(1788-1861)

Il mondo come mia rappresentazione


Schopenhauer inizia il suo capolavoro, Il mondo come volontà e
rappresentazione (1819), con la celebre affermazione: “Il mondo è mia
rappresentazione”(I,1). Che cosa significa questa espressione? Vuol
dire che la nostra mente, anzi, più esattamente e concretamente, il
nostro sistema nervoso e cerebrale funziona inquadrando tutti i
fenomeni in tre forme a priori: lo spazio, il tempo e la causalità. Ma
leggiamo quanto dice lo stesso Schopenhauer: “Egli sa con chiara
certezza di non conoscere né la terra, ma soltanto un occhio che vede un sole, e una
mano che sente il contatto d’una terra; egli sa che il mondo circostante non esiste se
non come rappresentazione, cioè sempre e soltanto in relazione con un altro essere,
con il percipiente, con lui medesimo”30. Che il mondo sia una nostra
rappresentazione, che nessuno di noi possa uscire da se stesso e
vedere le cose per quello che sono, che tutto ciò di cui si ha
conoscenza certa si trovi dentro la nostra coscienza, è la concezione
tipica della filosofia moderna da Cartesio in poi, ed è una concezione
antica perché già detta, secondo Schopenhauer, nei Veda induisti.
Il mondo è dunque mia rappresentazione. Ora, la
rappresentazione ha due aspetti necessari e inseparabili, il soggetto e
l’oggetto. Da ciò segue che il materialismo è in errore perché nega il
soggetto riducendolo ad oggetto cioè a materia, ma anche l’idealismo
di Fichte è sbagliato perché nega l’oggetto riducendolo al soggetto;
d’altra parte, Schopenhauer critica anche il realismo ingenuo, quando
sostiene che la realtà esterna si rispecchia per quello che veramente è

30 cfr. Il mondo come volontà e rappresentazione, I §1, trad. it. Milano, Mondadori, 1992, p. 31.

256
nella nostra mente. Mentre poi Kant aveva elencato dodici categorie,
Schopenhauer preferisce ridurle ad una soltanto, quella appunto della
causalità, con la motivazione che la realtà di un oggetto si risolve
completamente nella sua azione causale sugli altri oggetti. Pur stando
così le cose, il nostro intelletto non ci porta oltre il mondo sensibile. Il
mondo, che è considerato mia rappresentazione, è pertanto fenomeno,
ma non nel senso kantiano del termine. Si ricordi che per Kant il
fenomeno era l’unica realtà autenticamente conoscibile, era l’unica
realtà accessibile alla mente umana (mentre il noumeno era il
concetto-limite che ci rammentava i limiti della nostra conoscenza).
Schopenhauer intende invece il fenomeno come una sorta di illusione, di
apparenza che vela la realtà delle cose nella loro autentica essenza. Il fenomeno
è come il “velo di Maya” della filosofia indiana, che copre il vero volto
delle cose. Da questo punto di vista, la vita è come un sogno, cioè un
tessuto di apparenze o una sorta di incantesimo. E questo – dice
Schopenhauer per giustificare la sua opinione – lo sostenevano anche
i Veda, Platone, Pindaro, Sofocle, Shakespeare, Calderon de la Barca
ecc.

La Volontà
Però, al di là del sogno e del fenomeno, vi è la realtà vera, sulla
quale comunque l’uomo non può fare a meno di interrogarsi. Infatti
l’uomo è un “animale metafisico”, e dunque, a differenza degli altri
animali, è portato naturalmente ad interrogarsi sull’essenza ultima
della vita. “Ad eccezione dell’uomo, nessun essere si meraviglia della propria
esistenza … La meraviglia filosofica … è viceversa condizionata da un più
elevato sviluppo dell’intelligenza individuale : tale condizione però non è certamente
l’unica, ma è invece la cognizione della morte, insieme con la vista del dolore e della
miseria della vita, che ha senza dubbio dato l’impulso più forte alla riflessione
filosofica e alle spiegazioni metafisiche del mondo. Se la nostra vita fosse senza
fine e senza dolore, a nessuno forse verrebbe in mente di domandarsi perché il
mondo esista e perché sia fatto proprio così, ma tutto ciò sarebbe ovvio”31.
Ebbene, questa essenza profonda della realtà (il noumeno che
per Kant rimaneva inconoscibile) può essere, per Schopenhauer,
raggiunta e svelata. Infatti poiché noi siamo dati a noi stessi anche
come corpo, non ci limitiamo a vederci dal di fuori, ma ci viviamo
anche dal di dentro, godendo o soffrendo. Più che conoscenza e

31 Cfr. Op.cit., Supplementi al primo libro, cap. 17, pp. 938-39.

257
intelletto, noi siamo, per Schopenhauer, vita e volontà di vivere, cioè un
impulso irresistibile che ci spinge ad esistere e ad agire. Il nostro
stesso corpo non è che la manifestazione esteriore delle nostre brame
interiori : l’apparato digerente non è che l’aspetto fenomenico della
volontà di nutrirsi, l’apparato sessuale non è che l’aspetto fenomenico
della volontà di accoppiarsi e di riprodursi ecc. Il corpo è dunque volontà
resa visibile. L’essenza del nostro essere è tuta volontà. Ma nel
momento in cui noi ci rendiamo conto di essere volontà, squarciamo
il “velo di Maya” dell’illusione e ci rendiamo conto di essere parte di
quell’unica Volontà, di “quel cieco ed irresistibile impeto” che pervade tutte le cose.
Essa è appunto l’essenza segreta di tutte le cose, ossia la cosa in sé del
mondo, finalmente svelata. Essa è “la sostanza intima, il nocciolo di
ogni cosa particolare e del tutto” (cfr. I, § 21). In altri termini, la
coscienza del nostro io e del nostro corpo come volontà ci porta a
riconoscere che anche tutti gli altri fenomeni, pur così diversi nelle
loro manifestazioni, hanno una sola essenza : quella che da noi uomini
è conosciuta più direttamente e prende il nome di Volontà.
Quali sono le caratteristiche della Volontà? Essa, essendo al di
là dei fenomeni, non può essere legata allo spazio, al tempo e alla
causalità. Essa è poi inconscia perché la coscienza e l’intelletto
costituiscono soltanto una delle sue possibili manifestazioni (è tale
solo nell’uomo) : per cui essa non si identifica con la nostra volontà
cosciente ma è, si ricordi, una sorta di energia o impulso, che, in
questo senso, è presente dovunque, anche nella materia inorganica e
nei vegetali. Essa è unica perché non è legata ai singoli individui. E’
eterna nel senso che non dipende dal tempo. E’ una forza cieca, senza
un perché e senza uno scopo al di fuori di se stessa: la volontà vuole la
volontà, la vita vuole la vita, e ogni motivazione ricade nell’orizzonte
del vivere e del volere.

Dolore e noia
Affermare che l’essere è la manifestazione di una Volontà
equivale allora a dire che la vita è dolore per essenza. Se volere infatti
significa desiderare, e desiderare significa essere in uno stato di
tensione, per la mancanza di qualcosa che non si ha e si vorrebbe
avere, la vita è per definizione assenza, vuoto, indigenza ossia dolore.
E poiché nell’uomo la Volontà è cosciente, e quindi più “affamata”,
egli risulta il più bisognoso e mancante di tutti gli esseri, ed è destinato
a non trovare mai un appagamento definitivo. “Non c’è nessun fine

258
ultimo al tendere : dunque, nessuna misura e nessuna fine al soffrire”.
Per di più, quello che gli uomini chiamano godimento e gioia non è altro che
cessazione del dolore, ossia lo scarico di uno stato precedente di tensione,
che ne rappresenta la condizione indispensabile. Di conseguenza,
mentre il dolore, identificandosi col desiderio, che è la struttura stessa della vita, è
un dato primario e permanente, il piacere è solo una funzione derivata dal
dolore, che vive unicamente a spese di esso. Accanto al dolore, che è
realtà durevole, ed al piacere, che è momentaneo, Schopenhauer
pone, come terza situazione esistenziale di base, anche la noia, la quale
subentra quando viene meno il desiderio o quando si sta senza far
nulla e non si hanno preoccupazioni. “Col possesso, svanisce ogni
attrattiva; il desiderio rinasce in forma nuova e, con esso, il bisogno;
altrimenti, ecco la tristezza, il vuoto, la noia, nemici ancor più terribili
del bisogno”. Di conseguenza, la vita umana oscilla, come un
pendolo, tra il dolore e la noia : dei sette giorni della settimana, dice
Schopenhauer, sei solo di dolore e di bisogno, e il settimo è di noia. Il
dolore però non riguarda soltanto l’uomo ma investe ogni cosa. Tutto
soffre, dal fiore che appassisce all’animale ferito; e se l’uomo soffre di
più è perché, avendo maggiore consapevolezza, è destinato a patire
maggiormente l’insoddisfazione del desiderio e le offese dei mali. Per
la stessa ragione il genio, avendo maggiore sensibilità rispetto agli
uomini comuni, è votato ad una maggiore sofferenza. In tal modo,
Schopenhauer perviene ad una delle più radicali forme di pessimismo
cosmico di tuta la storia del pensiero, ritenendo che il male non sia
solo nel mondo ma nel principio stesso da cui tutto dipende. Egli
critica spietatamente anche le varie teorie più o meno ottimistiche.
“L’ottimismo … mi sembra un’opinione, non soltanto assurda, ma veramente
empia; un odioso dileggio di fronte alle inesprimibili sofferenze dell’umanità” 32.
Schopenhauer è polemico nei confronti di quelle religioni e filosofie
che vedono il mondo come un organismo perfetto, governato
provvidenzialmente da un Dio oppure da una ragione immanente,
come in Hegel. Questa visione, pur essendo consolatrice (ed ecco il
perché della sua persistenza nei secoli), per Schopenhauer risulta
palesemente falsa, poiché la vita è al contrario un’esplosione di forze
irrazionali, ed il mondo, anziché essere il regno della logica e
dell’armonia, è il teatro dell’illogicità e della sopraffazione.

32 Cfr. IV, § 59, pag. 460.

259
L’ateismo
Arthur Schopenhauer (1788-1861) è stato definito da
Nietzsche “il primo ateo dichiarato e irremovibile che noi Tedeschi
abbiamo avuto”(cfr. La gaia scienza). La sua critica alla religione non è
particolarmente originale ma se non altro egli segna l’inizio vero e
proprio del pensiero post-hegeliano e anti-hegeliano, ed in questo
senso procede cronologicamente persino Feuerbach.
La filosofia moderna – scrive Schopenhauer ne Il mondo come
volontà e rappresentazione – non va a cercare una causa efficiente o una
causa finale del mondo intero; non indaga l’origine e la finalità del
mondo, ma solo che cosa sia il mondo. Non possiamo superare il
mondo stesso e, in quanto alla sua spiegazione, essa fa già parte del
mondo: è assurdo cercarla al di fuori di esso. Anzi sono solo “pigrizia
e ignoranza” che “dispongono a richiamarsi troppo presto alle forze
originarie”. Del resto, “che l’assunzione di un limite del mondo nel
tempo non sia affatto un pensiero necessario alla ragione, si può
perfino provare anche storicamente, giacché gli hindù non insegnano
siffatta cosa neanche nella religione popolare, e tanto meno nei
Veda”. Componente essenziale dell’ateismo schopenhaueriano è il suo
pessimismo. “La vita dei più – egli scrive – non è che una diuturna
battaglia per l’esistenza, con la certezza della sconfitta finale. Ma ciò
che li fa perdurare in questa sì travagliata battaglia non è tanto l’amore
per la vita, quanto la paura della morte, la quale non di meno sta
inevitabile sullo sfondo, e può ad ogni minuto sopravvenire. La vita
stessa è un mare pieno di scogli e di vortici, cui l’uomo cerca di
sfuggire per la massima prudenza e cura; pur sapendo, che
quand’anche gli riesca con ogni sforzo e arte, di scamparne, perciò
appunto si accosta con ogni suo passo, ed anzi vi drizza in linea retta
il timone, al totale, inevitabile e irreparabile naufragio: la morte.
Questo è il termine ultimo del faticoso viaggio, e per lui peggiore di
tutti gli scogli, ai quali è scampato”.
L’ottimismo, dal punto di vista schopenhaueriano, come
abbiamo già detto, “sembra non punto un pensare assurdo, ma anche
iniquo davvero, un amaro scherno dei mali senza nome patiti
dall’umanità”. Come credere, dopo tutto ciò, in un Dio creatore e
provvidente? È naturale quindi che Schopenhauer consideri una tale
idea inaccettabile. “Per parte mia – egli dice – debbo confessare che
alla mia ragione un tale pensiero è impossibile, e che nelle parole, che
lo qualificano, io non posso pensare niente di preciso”. Secondo
Schopenhauer, l’uomo si crea a propria immagine demoni, dèi e santi.

260
“A essi devono incessantemente venire tributati sacrifici, preci,
adornamento di templi, voti e conseguenti offerte, pellegrinaggi,
saluti, addobbo delle immagini ecc. Il loro culto si intreccia
dappertutto con la realtà, anzi l’oscura: ogni avvenimento della vita
viene preso allora come un effetto dell’azione di quegli esseri: i
rapporti con loro riempiono metà della vita, alimentano
diuturnamente la speranza e diventano spesso, nel fascino
dell’illusione, più interessanti dei rapporti con la vita reale. Sono
l’espressione e il sintomo del doppio bisogno, che spinge l’uomo da
una parte verso aiuto e sostegno, dall’altra verso occupazione e
passatempo… e questo è il frutto, tutt’altro che disprezzabile, d’ogni
superstizione”. Però tutto questo è inutile: invano l’uomo chiede aiuto
agli dèi, perché rimane implacabilmente in preda al suo destino. Gli
dèi sono quindi superflui e le dottrine religiose sono generalmente
“rivestimenti mitici delle verità impenetrabili dalla rozza mente
umana”.
Quel che dà forza ad ogni dottrina religiosa è esclusivamente il
suo lato etico. Non certo direttamente, ma essendo collegato col
rimanente dogma mitico, proprio di ciascuna dottrina religiosa,
sembra spiegabile solo per mezzo di quest’ultimo. Da ciò deriva che
nei popoli monoteisti l’ateismo, ossia l’assenza della religione, è
diventato sinonimo di assenza di ogni moralità.
Schopenhauer non vuole adottare mezze misure. O si crede in
Dio o si proclama l’ateismo assoluto. Il panteismo, dal suo punto di
vista, è quindi inaccettabile. “Il panteismo – egli dice – è un concetto
che annulla se stesso, poiché il concetto di Dio presuppone come sua
antitesi essenziale un mondo da lui distinto. Se per contro il mondo
stesso deve assumere la parte di Dio, ci si trova di fronte ad un
mondo assoluto privo di Dio: panteismo è dunque un termine
eufemistico, in luogo di ateismo”.
Ammesso comunque un Dio, e cioè un essere personale,
individuale, trascendente e creatore, Schopenhauer dice che
“l’ammettere un essere di tale specie come origine della natura stessa,
anzi di ogni esistenza in generale, è un pensiero colossale e
sommamente ardito, di fronte a cui noi rimarremmo meravigliati se lo
udissimo per la prima volta, ed esso non ci fosse divenuto familiare
attraverso le impressioni infantili e le ripetizioni costanti”; inoltre
l’ipotesi di un Dio, oltre ad essere inutile nella filosofia, “persino nella
religione esso è assolutamente inessenziale” perché ad esempio il
buddhismo non lo contempla affatto. Per Schopenhauer poi, le

261
religioni orientali sono molto superiori al cristianesimo. Egli è
convinto che “in India non potranno mai mettere radici le nostre
religioni: la sapienza originaria dell’umano genere non sarà
soppiantata dagli accidenti successi in Galilea. Viceversa, torna
l’indiana sapienza a fluire verso l’Europa, e produrrà una
fondamentale mutazione del nostro sapere e pensare”.

L’amore
Espressione del dolore universale non è solo l’anelito frustrato
della Volontà, ma anche la lotta crudele di tutte le cose. Infatti, dietro
le cosiddette “meraviglie del creato”, si cela una lotta continua degli
uni verso gli altri, tutti protesi alla propria autoconservazione. E in
questa vicenda l’individuo appare soltanto un mero strumento per la
specie, fuori della quale non ha valore. Alla natura interessa solo la
sopravvivenza della specie e null’altro. Per questo essa parla all’uomo
dell’amore. Se l’amore è così forte da fare di Cupido “il signore degli
dèi e degli uomini”, dietro le sue lusinghe e il suo incanto sta in realtà
il freddo genio della specie che mira soltanto alla perpetuazione della
vita. In breve, l’unico fine dell’amore è l’accoppiamento, la riproduzione, dunque
non vi è amore senza sessualità. Ed è per questo che l’amore procreativo
viene inconsapevolmente avvertito come “peccato” e “vergogna” :
non tanto per motivazioni religiose quanto perché esso commette il
peggiore dei crimini, cioè la perpetuazione di altre creature destinate
anch’esse a soffrire ! L’amore non è altro che “due infelicità che si
incontrano, due infelicità che si scambiano ed una terza infelicità che
si prepara !”. L’unico tipo d’amore di cui si potrebbe tessere l’elogio
non è certo quello generativo dell’eros bensì quello disinteressato
della pietà33.

Critica alla bontà dell’uomo


Un’altra presunta menzogna contro cui Schopenhauer si scaglia
di frequente è la tesi della presunta bontà e socievolezza dell’uomo. Per lui, la
regola dei rapporti umani è al contrario basata sul conflitto e sul
tentativo di sopraffazione reciproca. Regola che è rimasta
sostanzialmente la stessa da sempre, anche nelle nostre civiltà più
raffinate; tant’è vero che basta un nonnulla perché anche gli individui

33 Cfr. Metafisica dell’amore sessuale nei Supplementi, cap. 44, in Op.cit. pp. 1430-1479.

262
in apparenza più mansueti si rivelino dei “felini rabbiosi”. “Vi è
dunque, nel cuore di ogni uomo, una belva, che attende solo il
momento propizio per scatenarsi ed infuriare contro gli altri” (cfr.
Parerga e paralipomena, II, 114). Se esiste qualcosa come lo Stato e le
leggi è solo per una necessità di difesa e di regolamentazione degli
istinti aggressivi degli individui. Si badi bene però : il dipingere
l’umanità e il mondo come “inferno di egoismi” è comunque
finalizzato alla via della liberazione da ciò; infatti solo chi ha la
sensibilità di avvertire come i rapporti umani avvengono per lo più
nell’ingiustizia, può sentire il desiderio di quei “fiori dell’eccezione”
che sono la giustizia e l’amore.

Critica allo storicismo


Schopenhauer polemizza inoltre contro ogni forma di
storicismo. In primo luogo, egli ridimensiona la portata conoscitiva della
storia, affermando che essa non è una vera e propria scienza, in
quanto si limita alla catalogazione dell’individuale. Inoltre, se andiamo
al di là delle apparenze, non possiamo fare a meno di scoprire che
“non vi è nulla di nuovo sotto il sole” (cfr. Qoelet o Ecclesiaste, 1,9). Il
destino dell’uomo, nei suoi tratti essenziali, è sempre uguale. Dallo
studio degli avvenimenti passati, risulta evidente per Schopenhauer la
costante uniformità e ripetitività della storia, nella quale non cambia
l’essenza delle cose, ma solo la loro facciata accidentale e superficiale.
Di conseguenza, se prendiamo coscienza che essa esiste solo perché
l’umanità si trova nel dolore e spera di metterlo a tacere mutando le
condizioni o inseguendo un illusorio progresso, possiamo concludere
che l’unico vero compito della storia è quello di offrire all’uomo la
coscienza di sé e del proprio destino.

I tentativi di sconfiggere la Volontà


Quando l’uomo arriva a capire che la realtà è Volontà e che
egli stesso è Volontà, allora egli è pronto per la sua redenzione, e
questa può darsi solo “col cessare di volere”. Ci si può liberare dal dolore
e dalla noia e sottrarsi alla catena infinita dei bisogni attraverso varie
tappe, che vanno dal suicidio, all’arte, alla pietà, all’ascesi.
Diciamo subito che egli rifiuta il suicidio come tentativo di
sopprimere la Volontà per due motivi fondamentali : 1) perché è un
atto di forte affermazione della Volontà, in quanto il suicida vuole la

263
vita ed è solo scontento delle condizioni che gli sono toccate; 2) il
suicidio sopprimerebbe soltanto un individuo, ossia una sola
manifestazione fenomenica della Volontà, lasciando però intatta la
Volontà presente altrove, la quale, pur morendo in un individuo,
rinasce in mille altri, ed è pertanto un gesto inutile.
In quanto all’arte, essa è per Schopenhauer conoscenza pura e
disinteressata, che si rivolge alle idee, ossia alle forme pure o ai
modelli eterni delle cose. proprio per questo suo carattere
contemplativo e per questa sua capacità di muoversi in um mondo di
forme eterne, l’arte riesce a sottrarre l’individuo alla catena dei bisogni
e dei desideri. Tra le arti spicca la tragedia, che “esprime e oggettiva il
dolore senza nome, l’affanno dell’umanità…”, e, ancora di più, la
musica : essa è l’immediata rivelazione della volontà a se stessa, ci
mette a contatto , al di là dei limiti della ragione, con le radici stesse
della vita e dell’essere. Ogni arte è quindi liberatrice, catartica, però la sua
liberazione è pur sempre temporanea e parziale : i momenti felici della
contemplazione estetica sono istanti brevi e rari, e sono solo di
conforto alla vita stessa ma non sono la redenzione definitiva.
La morale è un altro tentativo di superare l’egoismo e
l’ingiustizia e quindi di abbattere la Volontà. essa nasce da un
sentimento di pietà, in cui noi compatiamo il nostro prossimo e
giungiamo ad identificarci col suo tormento. Grazie alla pietà, noi
sperimentiamo l’unità metafisica di tutti gli esseri, facendoci capire
che ad es. il tormentatore e il tormentato, distinti fenomenicamente,
sono, noumenicamente, la stessa realtà. la pietà si concretizza in due
virtù : la giustizia (che ha un carattere negativo, in quanto consiste nel
non fare il male e nell’essere disposti a riconoscere agli altri ciò che
siamo pronti a riconoscere a noi stessi) e l’amore o carità (che è la
volontà positiva di fare del bene al prossimo in maniera
disinteressata). Comunque, anche se vi è una vittoria sull’egoismo,
essa è una vittoria voluta, dunque dipendente da atti di volontà, per cui
la carità rimane pur sempre all’interno della vita e presuppone un
qualche attaccamento ad essa.
La liberazione totale dalla Volontà si potrebbe ottenere
completamente solo con l’ascesi. L’ascesi è l’esperienza per la quale
l’individuo, cessando di volere la vita e cessando lo stesso volere, si
propone di estirpare il proprio desiderio di esistere, godere e,
appunto, volere. Il primo passo verso l’ascesi è la castità, che libera
dall’impulso alla generazione e alla propagazione della specie. Allo
stesso scopo tendono la povertà, il sacrificio, il digiuno ecc. Si ricordi

264
che per Schopenhauer la soppressione della volontà di vivere è in
pratica l’unico vero atto di libertà possibile all’uomo. Infatti se
l’individuo come fenomeno è un anello della catena causale ed è
necessariamente determinato (non esiste per Schopenhauer la libertà
intesa come libero arbitrio), quando egli riconosce la Volontà come
cosa in sé, si sottrae alla determinazione dei motivi che agiscono su di
lui come fenomeno e dunque prepara la sua liberazione. La coscienza
del dolore come essenza del mondo si trasforma da motivo (che
implica sempre una domanda, quindi una esigenza, un bisogno, una
mancanza, insomma un ricorso alla volontà) in un quietivo del volere.
E’ così che l’uomo diventerebbe veramente libero, si rigenerebbe ed
entrerebbe in uno “stato di grazia”. Allora “vedremo la pace più
preziosa di tutti i tesori della ragione, l’oceano di quiete, la profonda
calma dell’animo, l’imperturbabile sicurezza e serenità…”(Op.cit., IV, §
71,p. 575). La volontà stessa si trasformerebbe in nolontà, e l’uomo
giungerebbe al nulla, in un oceano di pace e serenità in cui si
dissolverebbe la nozione stessa di io e si soggetto. “Per coloro che
sono ancora animati dal volere, ciò che resta dopo la totale
soppressione della volontà è il vero e assoluto nulla. Ma, viceversa,
per coloro in cui la volontà si è convertita e soppressa, è proprio
questo mondo così reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee, ad
essere il nulla” (Ibidem, p. 576). Le parole conclusive di Schopenhauer
lasciano intravedere come sia una meta difficile se non impossibile; ed
in effetti è così : se esiste ancora il mondo, se esistiamo ancora noi,
vuol dire che la Volontà non è ancora stata sconfitta e dunque il
pessimismo è sempre e comunque l’ultima parola.

265
NOTE BIOGRAFICHE
Arthur Schopenhauer nacque a Danzica il 22 Febbraio 1788
da Heinrich Floris, uomo ricco e potente, e da Henriette Trosianer,
amante delle belle lettere. Ricevette un’ottima educazione ed ebbe
l’opportunità di viaggiare molto imparando diverse lingue straniere. Il
padre voleva che il figlio gli succedesse a capo dell’impresa
commerciale ma Arthur aveva altri mete : era portato infatti per le
materie umanistiche. Nel 1805 il padre morì e lasciò così libero il
figlio di seguire la sua vocazione. Il giovane si trasferì con la madre a
Weimar e qui ella aprì un salotto letterario che ebbe tra i suoi ospiti le
più illustri personalità del tempo, quali Goethe, Wieland, i fratelli
Schlegel ecc. Intanto Schopenhauer si dedicava a molteplici discipline
(medicina, scienze naturali, letteratura, storia, filosofia ecc.) ma alla
fine decise di laurearsi in filosofia, presso l’Università di Jena, con la
tesi Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente (1813). Grazie
all’eredità lasciatagli dal padre, potè, d’ora in poi, vivere di rendita e
dedicarsi completamente allo studio e alla ricerca. Nel dicembre del
1818 pubblicò il suo capolavoro più famoso, Il mondo come volontà e
rappresentazione. Pensò quindi di dedicarsi all’insegnamento
universitario e scelse apposta Berlino, dove “imperversava” Hegel,
come luogo dove poter diffondere la sua filosofia. Naturalmente le
sue lezioni saranno disertate da tutti e, poco tempo dopo,
Schopenhauer lasciò perdere e si trasferì a Francoforte, dove rimase
in pratica per tutto il resto della vita. Continuò comunque a scrivere e
a pubblicare (Sulla volontà nella natura, La libertà del volere umano, Il
fondamento della morale ecc. ), sperando sempre in un riconoscimento
che non gli arrivò se non molto tardi, a 63 anni, quando apparve
Parerga e paralipomena, una raccolta di saggi che gli darà la fama. Morì il
21 Settembre 1860 e la sua tomba si trova nel cimitero di Francoforte,
senza epigrafi ma con il semplice nome : Arthur Schopenhauer.

BIBLIOGRAFIA
I. Vecchiotti, Introduzione a Schopenhauer, “I filosofi”, Laterza
A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione,
Mondadori o Laterza o Newton Compton
A. Schopenhauer, Parerga e paralipomena, 2 voll. Adelphi
A. Schopenhauer, Sulla quadruplice radice del principio di ragion
sufficiente, BUR Rizzoli

266
SOEREN AABYE KIERKEGAARD

(1813-1855)

Introduzione
Kierkegaard fu considerato dalla corrente filosofica
dell’esistenzialismo novecentesco come uno dei suoi padri e da allora
l’influenza del pensatore danese si è fatta sempre più profonda, in
molti campi della cultura, e specificamente in filosofia, teologia,
letteratura ed arte. Kierkegaard si definì “uno scrittore religioso” (cfr.
il Punto di vista esplicativo sulla mia opera di scrittore, 1848 ma postumo nel
1859), ed in effetti tutto il suo pensiero è stato definito una sorta di
“autobiografia teologica”, in quanto il suo problema fondamentale è
quello dell’esistenza di Dio o, meglio, del rapporto tra il singolo uomo
e Dio.
L’insegnamento fondamentale del Cristianesimo è per
Kierkegaard proprio questo : ogni singolo uomo è direttamente
coinvolto nel suo destino e la ricerca della verità non è mai oggettiva o
distaccata bensì appassionata e paradossale. Kierkegaard considera
come suo compito essenziale quello di inserire la persona singola, con
tutte le sue esigenze, nella ricerca filosofica. Non per nulla egli
avrebbe voluto far scrivere sulla sua tomba l’espressione Quel singolo, e
non per nulla è stato uno dei critici più acuti di Hegel ed ha
combattuto contro la pretesa di identificare l’uomo con Dio,
affermando invece “l’infinita differenza qualitativa” tra l’uomo e Dio.

La critica all’hegelismo
“Nella specie animale – dice Kierkegaard – vale sempre il
principio : il singolo è inferiore al genere. Il genere umano ha la

267
caratteristica, appunto perché ogni singolo è creato ad immagine di
Dio, che il Singolo è più alto del genere”. Hegel ha invece fatto
dell’uomo un genere animale, giacché solo negli animali il genere è
superiore al Singolo. L’esistenza – sostiene Kierkegaard – corrisponde
alla realtà singolare, al Singolo; e non coincide mai con il concetto : un
uomo singolo, concreto, determinato non ha certo un’esistenza
puramente concettuale. Invece la filosofia hegeliana pare solo
interessata ai concetti: essa non si preoccupa di quell’esistente
concreto che siamo io o tu. Il sistema hegeliano ha inoltre la pretesa di
spiegare tutto e di dimostrare la necessità di ogni evento. Ma
l’esistenza non può essere ingabbiata in un sistema. Ed è sempre la
singola esistenza che tiene in scacco tutte le forme di immanentismo e
di panteismo, con cui si tenta di ridurre, annullare o riassorbire
l’individuo singolo nell’universale.
Ad Hegel che sosteneva l’identità di interno ed esterno,
esprimendo così il principio dell’appartenenza inseparabile che i
contrari hanno nel concetto, e grazie a cui è possibile la dialettica, il
movimento, il progresso, Kierkegaard afferma l’opposto: quanto minore
sarà l’esteriorità, tanto maggiore sarà l’interiorità (si pensi alle figure di
Socrate e di Cristo: esteriormente erano persone comuni, Socrate era
anche piuttosto bruttino; ma interiormente …). Di qui anche la
contestazione del passaggio hegeliano dalla quantità alla qualità, che è
per Kierkegaard una “superstizione”, in quanto si crede che, con
l’aumentare delle determinazioni quantitative, venga fuori una qualità
nuova, mentre la quantità è strutturalmente diversa dalla qualità.
Infine, all’identità hegeliana di soggetto e oggetto, essere e pensiero
ecc., Kierkegaard risponde che la vita intera è basata sulla
contraddizione, sul paradosso e non vi è superamento di contrari
bensì alternative impegnative che si escludono a vicenda : non vi è nessun
et et ma solo un aut aut : o questo o quello, la vita è una scelta
continua.

Gli stadi della vita


L’esistenza è il regno della libertà : l’uomo è ciò che sceglie di
essere, è quello che diventa. Ci sono tre alternative fondamentali nella
vita umana: lo stadio estetico, quello etico e quello religioso. Tra uno
stadio e l’altro vi è un salto e un abisso; ognuno di essi rappresenta
un’alternativa che esclude l’altra.

268
Nello stadio estetico l’esteta è colui che vuole vivere nell’attimo,
cercando do coglierne la pienezza. Egli intende fare della sua vita
un’opera d’arte, da cui sia bandita la noia, la tristezza, la monotonia.
“Godi la vita e vivi il tuo desiderio”, dice l’estetica, che trova il suo
modello nella figura del Don Giovanni (cfr. il Diario di un seduttore, che
è uno dei capitoli di Aut aut, 1843), il quale sa porre il suo godimento
nella limitazione e nell’intensità dell’appagamento. In questo stadio
però non è possibile, secondo Kierkegaard., né scelta autentica né
libertà : infatti l’esteta lascia alle circostanze decidere per lui. Inoltre
l’ultimo sbocco della vita estetica è la disperazione. Essa sorge dall’aver
voluto basare la vita solo su se stesso e non sugli altri e su Dio.
“Chiunque vive esteticamente è disperato, lo sappia o non lo sappia; anzi, forse
più di ogni altro è disperato colui che non sente in sé nessuna disperazione”. Ma
se la radice della disperazione sta nel volersi accettare dalle mani di
Dio, allora è chiaro che l’esistenza autentica è quella disponibile
all’amore di Dio, quella di colui che non crede più a se stesso ma
soltanto a Dio.
Vi è poi la vita etica essa implica una stabilità e una continuità
che la vita estetica, come incessante ricerca della varietà, esclude da sé.
Nella vita etica, l’uomo si sottopone ad una forma, si adegua
all’universale e rinuncia ad essere l’eccezione. La vita etica è raffigurata
dalla figura del marito (l’Assessore Guglielmo) e dall’elogio del
matrimonio. E’ l’uomo che sceglie se stesso, che in questa scelta
afferma la continuità della sua vita, l’impegno e non la fuga dalle
responsabilità; in una parola, accetta la ripetizione. Essa è la possibilità
di riconfermare il passato, accettando ogni volta e in modo nuovo di
amare la stessa donna, di avere gli stessi amici, di esprimersi nella
stessa professione. La ripetizione indica la serietà della vita, è il coraggio
etico della vita. Come uomo etico, il marito ha il dovere di conformarsi alla
legge morale che è universale, ma nello stesso tempo egli rischia di
perdere nella anonimità e nella folla la sua personalità e la sua
autonomia. Inoltre nello stadio etico ci si imbatte nella contraddizione
del pentimento. Infatti, se l’uomo sceglie se stesso fino in fondo, trova,
secondo Kierkegaard, la propria origine, cioè Dio, nel senso che c’è in
noi un’ansia di infinito che non si lascia racchiudere nei limiti di
marito e lavoratore. Ma poiché di fronte alla maestà divina l’unico
sentimento che l’uomo può provare è quello della propria
inadeguatezza morale, cioè della propria colpevolezza, l’esito finale
della vita etica è appunto il pentimento. L’uomo etico viene così
messo di fronte al peccato, il quale però non è più una categoria etica

269
bensì religiosa. Col pentimento dunque si esce dalla sfera dell’etica per
entrare in quella della religione, il che richiede il salto della fede, che è
un salto ancora più radicale di quello che divideva l’ambito etico da
quello estetico.
La vita religiosa, la fede, va al di là dello stesso ideale etico della
vita. Il simbolo della fede è visto da Kierkegaard nella figura di
Abramo (cfr. Timore e tremore, 1843), perché egli accetta il rischio della
prova impostagli da Dio, accetta il rischio di porsi di fronte a Dio nel
silenzio e nella solitudine, come un singolo di fronte all’Altissmo. La fede
va al di là della stessa morale perché Dio ordina ad Abramo di
sacrificargli il figlio, quindi di commettere un omicidio. Come poter
accettare una simile prova? Ma la fede consiste proprio in quel rischio,
nell’accettazione del paradosso e della prova. Vediamo meglio.

La fede come superamento dello scandalo e accettazione del paradosso


L’atto di fede implica una rottura recisa con la razionalità ed
esige il passaggio, il salto, ad una sfera che è incommensurabile con la
ragione naturale. L’oggetto della fede urta contro la ragione che
pretende di spiegare e di esaurire tutto e non ammette nulla sopra di
sé : per essa, che non vuole credere, l’oggetto della fede è un assurdo.
Per il credente, che ammette la trascendenza ed è convinto che a Dio
nulla è impossibile, esso è un paradosso. Il paradosso nella verità religiosa
dipende dal fatto che essa è la verità così come lo è per Dio. Qui si usano una
misura ed un criterio sovraumani, e rispetto a questo una sola
situazione è possibile : quella della fede. Proprio per il paradosso
come tale il credente è portato a credere, e non per una evidenza
logica. Kierkegaard esprime questo con la formula: “Comprendere che
non si può né si deve comprendere”. Lo scandalo è per Kierkegaard il
momento cruciale nella prova della fede, il punto di resistenza e
perciò il segno della trascendenza della verità cristiana di fronte alla
ragione. Lo scandalo indica il soccombere della ragione perché è il
rifiuto di “comprendere di non comprendere”, giacché la ragione vuole solo
comprendere. Per Kierkegaard l’origine dello scandalo nasce dal fatto
che l’uomo non si pone come “Singolo davanti a Dio”, e cioè non
accetta la misura di Dio. Quando ci poniamo davanti a Dio non c’è
più spazio per finzioni, mascheramenti, illusioni, vi è innanzitutto la
scoperta che “c’è un’infinita abissale differenza qualitativa tra Dio e l’uomo”,
e cioè che l’uomo non può assolutamente nulla, che è Dio a dare
tutto. Ma oltre a questo si tratta, nel Cristianesimo, di ammettere che

270
Dio stesso si è messo in rapporto con l’uomo, che Dio è entrato nel
tempo, che l’Eterno si è incarnato in un uomo, e questo dà scandalo!
L’oggetto dello scandalo è proprio la figura di Cristo, cioè è
scandaloso credere che un uomo singolo sia Dio, che Gesù sia Dio.
Le forme dello scandalo, a questo riguardo, sono per Kierkegaard, tre :
considerare Gesù come un semplice uomo in conflitto con l’ordine stabilito (è
lo scandalo che Gesù provocò sui Farisei e gli scribi); oppure lo
scandalo nel senso dell’elevatezza : se è un uomo, non può essere Dio,
anche se Lui agisce come se fosse Dio, dice di essere Dio (è lo
scandalo dei nemici di Cristo); o ancora, lo scandalo in direzione
dell’umiliazione, che colui che pretende di essere Dio appare come un
uomo povero, sofferente, impotente (è tipico di coloro che hanno
solo ammirazione per Cristo). Ora, la fede in Cristo è proprio superamento
dello scandalo ed accettazione del paradosso che è l’uomo-Dio; è accettazione
del fatto che la Chiesa sia militante e non trionfante. E questo può
essere fatto solo con una scelta di fede.

L’angoscia e la disperazione
La scelta di fede, quindi l’accettazione del paradosso e il
superamento dello scandalo, può portare all’angoscia. Se l’esistenza è
libertà, vuol dire che noi abbiamo comunque sempre la possibilità di
scegliere qualsiasi alternativa. L’angoscia è la coscienza della nostra
terribile libertà : tutto ci è possibile, quindi possiamo anche perderci,
andare in contro al disvalore, al nulla. L’angoscia è il puro sentimento
del possibile; è il senso di quello che può accadere e che può essere
molto più terribile della realtà. L’angoscia caratterizza la condizione
umana : chi vive nel peccato è angosciato dalla possibilità del
pentimento; chi è libero dal peccato, vive nell’angoscia di ricadervi.
Ma l’importante è capire che l’angoscia forma : essa infatti distrugge
tutte le finitezze, tutte le nostre presunte certezze assolute, scoprendo
tutte le loro illusioni.
Se l’angoscia è tipica dell’uomo nel suo rapportarsi col mondo,
la disperazione è propria dell’uomo nel suo rapporto con se stesso.
Abbiamo già visto, parlando dell’esteta, che cos’era la sua
disperazione. Qui possiamo aggiungere che essa è l’incapacità di
risolvere il rapporto con se stessi; è la colpa dell’uomo che non sa
accettare se stesso nella sua profondità; è vivere, giorno dopo giorno,
la propria incapacità di vivere, cioè è un eterno morire senza tuttavia
morire fisicamente; essa è dunque la malattia mortale, non perché

271
conduca alla morte dell’io, ma perché è “il vivere la morte dell’io”. Il
credente però possiede il “contravveleno” sicuro contro la
disperazione : è la fede, il credere che a Dio tutto è possibile. La fede è
l’eliminazione della disperazione, per cui l’uomo, pur orientandosi verso se
stesso e volendo essere se stesso, non si illude della sua
autosufficienza ma riconosce la sua dipendenza da Dio. La fede
sostituisce alla disperazione la speranza e la fiducia in Dio. Ma porta
l’uomo al di là della semplice razionalità : essa è, come sappiamo,
paradosso e scandalo.

La verità è la soggettività
Del resto, la verità cristiana non è per Kierkegaard una verità
da dimostrare, ma è piuttosto una verità da testimoniare. Kierkegaard
afferma, a questo proposito, che “la soggettività, l’interiorità è la
verità” intendendo non certo che la verità è soggettiva o relativa, ma
che la verità è tale quando è scelta e vissuta in prima persona, quando
è una “verità per me”, per la quale io possa vivere e anche morire. E
questa è proprio la verità quale mi viene dal Cristianesimo : esistere
vuol dire rapportarsi alla verità che è Cristo, vuol dire scegliere di
vivere la fede, testimoniando con la propria vita l’importanza della
verità in cui si crede, contro ogni speculazione astratta, che non mette
in questione il singolo.

La critica al cristianesimo del suo tempo


Nella cristianità stabilita – dice Kierkegaard – si è purtroppo
dimenticato cosa vuol dire essere cristiani. Si è dimenticato che la fede
esige il salto supremo, cioè l’accettazione dell’uomo-Dio; si è
dimenticato che la fede in Cristo è superamento dello scandalo e
accettazione della croce, che è perciò l’accettazione del modello
(Gesù), sofferente. Kierkegaard addita in Lutero il primo responsabile
della mondanizzazione del Cristianesimo. Il protestantesimo, secondo
Kierkegaard, ha scaricato tutto il compito della salvezza sul comodo
cuscino della fede-grazia, abolendo il celibato, l’ascesi, il martirio, il
chiostro. Così, per il filosofo danese, “il Cristianesimo nella cristianità
non esiste più”, perché la cristianità ha abolito il Cristianesimo del
Nuovo Testamento e lo ha tradito trasformandosi in una sorta di
comodo paganesimo. L’eresia più terribile, oggi, è quella che consiste
nel “giocare al Cristianesimo”.

272
NOTE BIOBIBLIOGRAFICHE
Soeren Aabye Kierkegaard (che si traduce Severino Abele
Cimitero!) nacque in Danimarca, a Copenhagen, il 5 Maggio 1813. Il
padre, commerciante, aveva sposato in seconde nozze la propria
domestica. Questo matrimonio fu fecondo di ben sette figli :
Kierkegaard fu l’ultimo dei sette e nacque quando il padre aveva già
56 anni. Nella sua famiglia, e soprattutto nel padre, Kierkegaard vide il
segno di un tragico e misterioso destino. Parlando di una “oscura”
colpa del padre, egli affermò che la rivelazione di quella colpa costituì
per lui il “grande terremoto” della sia vita. Il rapporto di Kierkegaard
col padre e con la famiglia fu una “croce” vissuta sotto il segno del
castigo di Dio. E di natura religiosa fu anche quella “spina nella
carne” che impedì a Kierkegaard sia di sposarsi con Regina Olsen
(ruppe il fidanzamento) sia di diventare pastore o di fare qualunque
altra professione socialmente riconosciuta. Passò la sua breve vita
interamente assorto nella scrittura e nella meditazione, grazie anche ad
una eredità paterna che gli permise la completa indipendenza
economica. E, del resto, nei confronti della sua stessa attività di
scrittore, egli dichiarò di porsi in un “rapporto poetico”, cioè in un
rapporto di distacco e lontananza : distacco ancora accentuato dal
fatto che Kierkegaard pubblicò i suoi libri sotto pseudonimi diversi,
quasi ad impedire ogni riferimento del loro contenuto alla sua stessa
persona. Questi elementi biografici vanno tenuti presenti per la
comprensione dell’atteggiamento di Kierkegaard nei confronti della
vita. Morì l’11 Novembre 1855.

BIBLIOGRAFIA
S. Kierkegaard, Opere, Sansoni (a cura di C. Fabro)
S. Kierkegaard, Diario, Morcelliana
S. Kierkegaard, Enter eller, Adelphi
S. Kierkegaard, Sul concetto di ironia, Guerini e associati
S. Kierkegaard, Timore e tremore. La ripresa, ed. di Comunità
S. Spera, Introduzione a Kierkegaard, “i filosofi”, Laterza

273
KARL MARX

(1818-1883)

La critica ad Hegel
Come è noto, l'opera di Marx intitolata Critica della filosofia
hegeliana del diritto pubblico, è rimasta allo stato di bozza. Risale agli anni
1842 ca. ma è stata pubblicata solo nel 1927. Egli la considerò sempre
un'opera importante perché fu proprio quella ricerca a portarlo alla
conclusione che tanto i rapporti giuridici quanto le forme dello Stato
hanno le loro radici nei rapporti materiali dell'esistenza, e "l'anatomia
della società civile è da cercare nell'economia politica"(cfr. in Scritti
politici giovanili, Einaudi, Torino 1950). La Critica svolge in primo luogo
un'analisi del metodo hegeliano: Hegel, secondo Marx, sbaglia quando
trascende il finito, il concreto, il materiale e sostantifica l'astratto, il
pensiero, l'ideale o, meglio, degrada il finito (come la famiglia e la
società civile) a mero prodotto dell'astratto. L'intero procedimento è
ispirato a quello che Marx chiamerà "misticismo logico" o
"panteistico". Marx rivendica, come già Feuerbach, la positività e la
specificità del finito e del determinato, la sua irriducibilità all'astratto,
allo spirito. L'unico interesse di Hegel, secondo Marx, è invece quello
di ritrovare l'idea pura, l'idea logica, in ogni elemento, sia della natura,
sia della società. Hegel sostantifica lo Stato dimenticando i soggetti
reali: in Hegel non i soggetti reali, le persone reali diventano lo Stato,
ma lo Stato stesso diventa una "persona reale".
Anche ne La Sacra Famiglia (che fu la prima opera che Marx ed
Engels scrissero insieme, nel 1844) c'è la consueta critica all'idealismo
ma con un ulteriore passo avanti. Si comincia con un esempio
diventato famosissimo, riguardante la frutta: dalle singole specie
empiriche (mele, pere, fragole, mandorle) viene ricavata una
rappresentazione più generale, astratta (il frutto), e tale

274
rappresentazione viene concepita come una essenza per sé stante, che
costituirebbe la vera essenza dei singoli frutti reali, i quali sarebbero
soltanto 'modi' di essa. "Il mio intelletto finito - dice ancora Marx -
sorretto dai sensi, distingue certamente una mela da una pera e una
pera da una mandorla, ma la mia ragione speculativa dichiara questa
diversità sensibile inessenziale e indifferente. Essa vede nella mela la
stessa cosa che nella pera, e nella pera la stessa cosa che nella
mandorla, cioè il frutto.". Senonché, un procedimento che non mi dà
i tratti peculiari di un oggetto, ciò che non lo distingue, è secondo
Marx un procedimento sterile sul piano scientifico (si noti che tale
critica non è affatto originale: già Aristotele diceva qualcosa del genere
a proposito del platonismo). Tale "misticismo logico" finisce per
diventare anche conservatore sul piano politico perché tende a
giustificare la realtà, porta cioè alla accettazione delle istituzioni
vigenti, che non potrebbero essere cambiate in quanto
intrinsecamente razionali e positive.
Questa rivendicazione del concreto contro l'astratto viene
esplicitamente riconosciuta da Marx come il più grande merito di
Feuerbach, a cui La Sacra Famiglia tributa un omaggio altissimo.
Feuerbach ha posto le premesse per un sapere positivo tanto della
natura quanto della storia, la quale non viene più intesa come il
divenire di una entità trascendente, lo spirito, bensì viene risolta nei
concreti rapporti degli uomini reali. Liberato dall'astrattismo, il pensiero
socialista può conoscere secondo Marx il mondo sociale nella sua
specificità e concretezza, e può quindi agire davvero su di esso e
trasformarlo. La Sacra Famiglia dunque non esita a stabilire una
connessione precisa e organica fra socialismo e materialismo: ecco il
passo avanti. Il materialismo vede l'uomo nella sua concretezza dei
rapporti materiali che lo condizionano e lo caratterizzano, ed è quindi
in grado di produrre un sapere positivo che può trasformare
l'ambiente in cui l'uomo vive e trasformare l'uomo stesso. Il
materialismo storico marxiano, espresso qui nella sua forma
embrionale, si salda quindi strettamente alla dottrina socialista. Ne
riparleremo.
Marx però riconosce - e riconoscerà sempre - ad Hegel il
merito di aver elaborato una visione dialettica della realtà (intesa come una
totalità storica e processuale che è costituita da elementi concatenati
tra loro e mossa dalle opposizioni), anche se Hegel ha cercato –
secondo Marx – una mediazione troppo facile con la sintesi degli
opposti dimenticando che, nella realtà concreta, tra gli opposti vi è

275
solo lotta od esclusione. In altre parole, Marx da un lato accetta di
Hegel il principio dialettico incardinato sulla coppia
scissione/contraddizione ma dall'altro rifiuta il passaggio successivo di
Hegel, la sintesi, la soluzione che egli propone: essa è una soluzione
puramente speculativa e ideologica e non concreta, reale, effettiva.
Secondo Marx, se si vuole utilizzare al meglio il principio
dialettico scoperto da Hegel occorre liberarlo dalla "camicia di forza
idealistico-speculativa" nella quale egli lo ha rinchiuso, e quindi
concepirlo come una contraddizione materiale, di forze ed elementi
empirici. Si ricordi la celebre espressione: “I filosofi hanno finora soltanto
interpretato il mondo in diversi modi; ora si tratta di trasformarlo” (cfr. 11^ Tesi
su Feuerbach). Con questa celebre affermazione – incisa pure sulla sua
tomba – Marx intende rivendicare che quello che conta non è tanto la
sola teoria quanto l’azione, e l’azione rivoluzionaria (praxis). L’uomo
risolve i suoi problemi non solo con la speculazione quanto con una
azione criticamente illuminata e diretta. Insomma, la teoria deve
servire alla pratica. Marx ha cercato di realizzare una interpretazione
del mondo e dell’uomo che sia, contemporaneamente, impegno di
trasformazione e attività rivoluzionaria. La dialettica marxiana sarà da
intendersi allora in modo molto "concreto" come il passaggio
inevitabilmente dal capitalismo (tesi) al comunismo (sintesi) attraverso
la fase della lotta e della dittatura del proletariato (antitesi). Marx si è
aperto così, sin dalla Critica, una strada da cui non si allontanerà più: la
coppia dialettica-rivoluzione. Ma proprio tale coppia rimarrà come ...
problema irrisolto del pensiero marxiano. Che rapporto ci può infatti
essere fra un metodo speculativo di interpretazione della realtà e la
realtà stessa, che, giudicata negativamente, deve essere cambiata,
sovvertita, trasformata, rivoluzionata? E' quello che Marx cercherà di
fare elaborando la sua critica alla moderna società capitalistica.

La critica alla società e il materialismo storico


Nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 è la stessa economia
politica a mostrare che nella società borghese moderna l'esistenza
dell'operaio è ridotta alla condizione di esistenza di ogni altra merce, e
che la sua situazione è sfavorevole e precaria. L'operaio viene a
dipendere sempre più dal capitale, che gli si contrappone come forza
estranea e nemica, e da un lavoro sempre più diviso, disumanizzato.
Lo sforzo di Marx nei Manoscritti è quello di mettere in luce la base
economica e sociale della alienazione rilevata nelle ideologie e nella

276
religione. Si tratta allora di superare questa alienazione, ovvero di
realizzare una "negazione della negazione". Questa struttura dialettica
hegeliana - la negazione della negazione - è per Marx della massima
importanza. Essa è essenziale per intendere la storia umana, per capire
il divenire collettivo dell'uomo, per scorgere l'alienazione che si
manifesta a un certo punto in esso, e per realizzare il superamento
della alienazione stessa attraverso il comunismo. Il processo storico
per Marx è portatore di un fine e, una volta realizzato questo fine, il
processo storico è sostanzialmente concluso, e si concluderà con la
società assoluta, il comunismo, cioè con la fondazione "dell'uomo
pratico totale". Per Marx solo nella società comunista sarà possibile
una completa rifondazione e rigenerazione della teoria. Allora
verranno meno le opposizioni filosofiche tradizionali (come tra
spiritualismo e naturalismo, idealismo e materialismo) e si affermerà
una nuova concezione, l'"umanismo condotto al proprio
compimento", che si "distingue tanto dall'idealismo che dal
materialismo" ed è "a un tempo la verità che unisce entrambi".
Per Marx l'uomo è in primo luogo un ente naturale, oggettivo-
materiale. Ma non è solo quello: Marx tende a vedere la natura non
come qualcosa di immediato, bensì di mediato, cioè come una categoria
sociale. La natura non può essere vista per se stessa,
indipendentemente dalle attività degli uomini, perché è continuamente
modificata da essi, e quindi è, in un certo senso, anche un loro
prodotto. Il nesso uomo-natura c'è soprattutto nel rapporto attivo per
eccellenza che è il lavoro e l'industria. Non si dimentichi che
l'ispirazione profonda che attraversa tutte le opere marxiane è la
critica organica della società borghese moderna.
L'Ideologia tedesca (1845) segna una svolta rispetto alle opere
precedenti. L'opera contiene la prima formulazione organica della
concezione materialistica della storia. Secondo Marx, ogni storiografia deve
considerare prima di tutto le basi naturali delle società umane
(condizioni geologiche, oro-idrografiche, climatiche ecc.) e le
modifiche da esse subite nel corso della storia per l'azione degli
uomini. Si deve tenere conto, quindi, del rapporto degli uomini con la
natura e al tempo stesso della loro organizzazione sociale. Marx
comincia col dire che l’uomo si distingue dall’animale in quanto
produce i propri mezzi di sussistenza, ossia lavora. Il lavoro è creatore
di civiltà e cultura ed è ciò che rende l’uomo tale. In ogni società vi
sono le forze produttive ed i rapporti di produzione. Le forze produttive
sono gli uomini che producono ed anche il modo come producono ed

277
i mezzi di cui si servono per produrre (ad es.: salariati; industria;
azienda e macchinari). I rapporti di produzione o di proprietà sono invece
le relazioni che si formano tra gli uomini nei processi di produzione e
che, in concreto, consistono nel possesso o meno dei mezzi di
produzione (ad es. capitalisti e proletari). Ora, le forze produttive e i
rapporti di produzione costituiscono la struttura della società, che è
definita dal modo di produrre e distribuire ricchezza, ossia
dall’economia. Quindi l’economia è la struttura o la base della società,
sopra cui vi sono molteplici sovrastrutture (diritto, politica, arte,
religione, filosofia ecc.), che sono espressioni dipendenti dalla
struttura economica. In altri termini, è la struttura economica che
determina le leggi di uno Stato, le forme artistiche, le religioni, le
filosofie e non viceversa. Ecco il materialismo storico: le forze motrici della
storia sono di natura materiale, cioè socio-economica e non spirituale o astratta.
La produzione è unità di economia e società, di rapporti
materiali e rapporti sociali. Marx sottolinea con enfasi l'importanza e
la novità del suo concetto di produzione, e come sia proprio questo
concetto a permettergli un superamento radicale tanto dell'idealismo
hegeliano quanto del materialismo naturalistico di un Feuerbach.
Riguardo a quest'ultimo, Marx dice che Fuerbach non ha visto che il
mondo sensibile non è una cosa data immediatamente, da sempre,
come fosse immutabile, ma è il prodotto dell'industria e delle
condizioni sociali. La scienza della natura è condizionata dall'industria
e dal commercio, dall'attività pratica degli uomini, la quale fornisce
alla scienza sia gli scopi sia i materiali. D'altra parte gli idealisti - dice
Marx - rendono le idee religiose, politiche, giuridiche, filosofiche ecc.
autonome e per sé stanti, mentre al contrario il diritto, la politica, la
religione, la filosofia non hanno il loro fondamento nella Idea, bensì
nella produzione materiale. E ciò perché una determinata produzione
materiale è anche un determinato complesso di rapporti sociali, di
rapporti di proprietà (giuridici), di rapporti fra le classi (politici) ecc.
La produzione delle idee, in altre parole, è strettamente intrecciata
all'attività materiale, alle relazioni materiali fra gli uomini, al linguaggio
della vita reale; la politica, la morale, la metafisica, la religione non
sono forme autonome ma sono il prodotto dei rapporti economico-
sociali fra gli uomini. "La soluzione delle opposizioni teoretiche -
conclude Marx - è possibile soltanto in maniera pratica, soltanto
attraverso l'energia pratica dell'uomo". L'ideologia borghese,
insomma, può essere superata interamente solo con la rivoluzione
proletaria. A questo riguardo Marx sottolinea con forza la sua

278
inevitabilità. "Il comunismo è per noi non è uno stato di cose che
debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi.
Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di
cose presente". Ma così scopriamo ancora - per così dire - l'hegelismo
nascosto di Marx: egli sviluppa una concezione dialettica della storia,
secondo la quale il processo storico viene concepito come un divenire
mosso costantemente da contraddizioni dialettiche, caratterizzato da
un chiaro finalismo, fino alla realizzazione di un Valore assoluto, cioè
la società senza classi o comunista. Tale società sarà il risultato
necessario della soppressione della alienazione che si manifesta nel
mondo borghese moderno. Sicché il materialismo storico di Marx può
anche essere definito come un materialismo dialettico (sebbene, se ci si
attiene alla lettera, tale definizione, come è noto, appartenga più ad
Engels che a Marx). E la dialettica sarà infatti d'ora in avanti lo
strumento essenziale e decisivo per la critica marxiana dell'economia
politica e diverrà il contrassegno essenziale del programma teorico di
Marx.
Abbiamo già detto che alla base della teoria di Marx e della sua
adesione al comunismo (esplicita dal 1848 col Manifesto del partito
comunista). vi è una critica radicale della società e dello Stato moderno.
Si noti che Marx usò in genere i termini di comunismo e di socialismo in
modo equivalente, anche se dal 1848 in poi preferirà le espressioni
comunisti e comunismo. Si può anche dire però che il socialismo
rappresenterebbe la prima fase della rivoluzione proletaria, con
l'abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione, mentre il
comunismo costituirebbe la fine del processo dialettico con
l'abolizione della diseguaglianza tra le classi sociali e di conseguenza
dello Stato stesso.
Nel mondo attuale , secondo l'analisi marxiana, l’uomo è
costretto a vivere come due vite, diviso tra gli interessi particolari e
privati e quelli comuni. I tratti essenziali della civiltà moderna sono
l’individualismo e l’atomismo, nel senso che il singolo è separato ed anche
escluso dalla comunità. E siccome lo Stato legalizza tale situazione,
riconoscendo quali diritti il liberismo economico e la proprietà
privata, esso non è altro che la proiezione politica di una società
strutturalmente asociale. Il presunto diritto dell'uomo alla libertà
economica e alla proprietà privata in realtà lo rende schiavo: è un
diritto egoistico, e cioè si tratterebbe di diritti asociali, ripiegati su se
stessi e sui loro interessi e arbitri privati, isolati gli uni dagli altri. Marx
ritiene che l’unico modo di realizzare una comunità solidale sia

279
l’eliminazione delle disuguaglianze reali tra gli uomini, e in particolare il
principio stesso di ogni disuguaglianza, cioè la proprietà privata (come
già diceva Rousseau) dei mezzi di produzione. Per Marx sarà proprio
la classe priva di ogni proprietà, cioè il proletariato, che è destinata a
eseguire la condanna storica della civiltà egoistica e proprietaria e a
realizzare la democrazia comunistica.
L’economia borghese viene accusata da Marx di considerare il
sistema capitalistico come il modo naturale, immutabile e razionale di
produrre e distribuire la ricchezza mentre è soltanto uno dei tanti
modi possibili. Il lavoratore, nella società capitalistica, vive in una
situazione di alienazione perché la proprietà privata lo ha trasformato
in uno strumento di un processo impersonale di produzione che lo
rende schiavo, senza alcun riguardo ai suoi bisogni. Il proprietario
della fabbrica (capitalista) utilizza il lavoro di una certa categoria di
persone (salariati) per accrescere la propria ricchezza secondo una
dinamica che Marx descrive in termini di sfruttamento e di logica del
profitto. La disalienazione dell’uomo dipenderà allora dal superamento della
proprietà privata e dall’avvento del comunismo. Come si può arrivare a ciò?
L’unico modo di abbattere l’alienazione sarà la rivoluzione. Come
poterlo fare? Lo vedremo più avanti.

La critica alla religione


Marx è stato uno dei padri dell’ateismo post-hegeliano.
L’ateismo è per lui un punto di partenza, per cui si potrebbe dire che
il comunismo marxiano è naturalmente ateismo e non potrebbe essere
diverso. Vediamo meglio.
Fin dalla prefazione alla sua tesi di laurea, il giovane Marx
dichiarò il suo intento: “La professione di fede di Prometeo απλω λόγω τους
πάντας εχθαίρω θεούς è la sua professione di fede, la sua sentenza contro tutti gli
dèi celesti e terreni, che non riconoscono l’autocoscienza umana come la divinità più
alta. Nessuno può starle alla pari” (cfr. Differenza tra la filosofia della natura di
Democrito e quella di Epicuro).
La critica religiosa è per Marx il presupposto di ogni ulteriore
critica sociale e politica. Egli lo sostiene chiaramente in uno dei testi
classici dell’ateismo marxiano, la Introduzione alla Critica della filosofia del
diritto hegeliana del 1843. Conviene qui riportare quasi integralmente il
famosissimo brano: “Per la Germania la critica della religione è in
sostanza terminata, e la critica della religione è il presupposto di ogni

280
critica. ... L’uomo, che nella fantastica realtà del cielo, dove cercava
un superuomo, ha trovato soltanto il riflesso di se stesso, non sarà più
propenso a trovare solo l’apparenza di sé, solo il non uomo, là dove
cerca e deve cercare la sua vera realtà. Il fondamento della critica
irreligiosa è questo: l’uomo fa la religione, la religione non fa l’uomo.
E precisamente la religione è la coscienza di sé e il sentimento di sé
dell’uomo che o non ha ancora acquistato o ha subito perduto se
stesso. Ma l’uomo non è un essere astratto, rintanato fuori del mondo.
L’uomo è il mondo dell’uomo, lo Stato, la società. Questo Stato,
questa società, producono la religione, una coscienza del mondo
rovesciata, perché essi sono un mondo rovesciato. La religione è la
teoria generale di questo mondo, il suo compendio enciclopedico, la
sua logica in forma popolare, il suo point-d’honneur spiritualistico, il suo
entusiasmo, la sua sanzione morale, il suo completamento solenne, la
sua ragione generale di giustificazione e di conforto. È la realizzazione
fantastica dell’essenza umana, perché l’essenza umana non ha vera
realtà. La lotta contro la religione è così mediatamente la lotta contro
quel mondo di cui la religione è la quintessenza spirituale. La miseria
religiosa è da una parte l’espressione della miseria reale e dall’altra la
protesta contro la miseria reale. La religione è il sospiro della creatura
oppressa, il cuore di un mondo spietato, come è lo spirito di una
condizione priva di spirito. Essa è l’oppio del popolo. La vera felicità
del popolo esige la eliminazione della religione in quanto illusoria
felicità. L’esigenza di abbandonare le illusioni sulla propria condizione
è l’esigenza di rinunciare ad una condizione che ha bisogno
dell’illusione. [...]La religione è soltanto il sole illusorio, che si muove
attorno all’uomo finché egli non si muove intorno a se stesso.
Dunque il compito della storia, dopo che è scomparso l’al di là della
verità, è di stabilire la verità del di qua. Il compito della filosofia che è
al servizio della storia, dopo che è stata smascherata la figura sacra
dell’autoalienazione umana, è in primo luogo di mascherare
l’autoalienazione nelle sue figure profane. La critica del cielo si
converte nella critica della terra, la critica della religione nella critica
del diritto, la critica della teologia nella critica della politica. [...]”.
Secondo Marx, come s’è visto, l’unico modo per abolire la
religione è quello di abolire “una condizione che ha bisogno
dell’illusione”, cioè strappare alla radice il bisogno illusorio, fantastico
della religione. Quando l’uomo ha riacquistato coscienza di sé come
unico fondamento di se stesso, allora il bisogno religioso è vinto.
Visto che il mondo dell’aldilà non è che un riflesso dell’aldiqua, il

281
problema è riportare la condizione umana alla sua situazione reale e
non fantastica, come fa la religione. La religione è vista per ciò come
uno sbaglio di prospettiva che l’uomo necessariamente corregge
quando raggiunge l’autocoscienza; l’ateismo marxiano è
programmatico perché la critica contro la religione è la base di tutte le
altre critiche e senza aver prima superato questa, non sono possibili
critiche ulteriori. L’emancipazione dell’uomo dalla religione non può
solo avvenire teoricamente e singolarmente ma deve essere una
emancipazione pubblica, politica. E tale emancipazione può avvenire
soltanto con la soppressione della borghesia e della proprietà privata.
In sintesi, se si parte dal presupposto che il bisogno religioso nasce
per l'uomo dalla sua condizione di alienazione e di sfruttamento nella
società capitalistica, allora abolendo la condizione di alienazione col
superamento della società capitalistica nel comunismo, il bisogno
religioso non avrà più alcuna ragion d'esserci.
Il problema di Dio non può più porsi non tanto perché il
concetto di Dio sarebbe contraddittorio o in contrasto con la libertà
umana, ma perché lo stesso “ateismo” viene ad essere superato dalla
visione comunistica della realtà. “L’uomo produce l’uomo” e non ha
quindi senso cercare al di fuori di lui un essere estraneo e trascendente
poiché non è che uno pseudo-problema. L’uomo è sensibile, è
materiale, la sua storia non può essere che sensibile e materiale come
lo è la nascita e la crescita. Che senso avrebbe, appunto, parlare di
religione o anche di ateismo in questa prospettiva? Nessuno, poiché
lo stesso ateismo è considerato una sorta di critica incompleta, che fa
ancora il gioco della religione. L’unica risposta è il comunismo. Nelle
opere successive al 1844, Marx non svilupperà ulteriormente la
propria concezione dell’ateismo e della religione. Ciò sta a dimostrare
che per lui l’ateismo era un problema risolto, e quello che gli
interessava era solo più la praxis, l'azione rivoluzionaria, e non la
teoria: “la rivoluzione è la forza motrice della storia, anche della storia
della religione, della filosofia e di ogni altra teoria”.

La critica dell'economia politica e il capitale


Gli anni 1857-58 sono stati fra i più produttivi della vita di
Marx. In quel periodo egli ha elaborato, in un vasto manoscritto, i
Lineamenti fondamentali della critica della economia politica (conosciuti come
Grundrisse), da cui sarebbero poi derivate le sue opere economiche più

282
importanti, e specificamente Il Capitale. Vediamo ora più da vicino i
punti fondamentali della sua critica alla economia politica.
Ogni merce ha un valore d’uso (=essa dev’essere utile a qualcosa
e ciò dipende dall’uso ossia dal consumo che si fa della merce) e
molteplici valori di scambio (secondo le altre merci con cui può essere
scambiata) che dipendono però da un fattore comune: cioè dalla
quantità di lavoro socialmente necessario (produttività sociale media in un
determinato periodo storico) per produrla. Più lavoro è necessario per
produrre una merce, più essa vale, come dicevano già gli economisti
classici quali Adam Smith ecc. Il valore però non si identifica col prezzo
: su quest’ultimo influiscono anche altri fattori come l’abbondanza o
la scarsezza di una merce. Marx contesta inoltre il cosiddetto feticismo
delle merci, fenomeno tipico del capitalismo, in cui il prodotto domina
in un certo senso l’uomo e i rapporti sociali appaiono come semplici
rapporti fra cose, autonome rispetto a chi le ha prodotte e
dimenticando che le merci sono il frutto del lavoro umano.
Nel capitalismo la produzione non è però solo finalizzata al
consumo ma anche alla accumulazione del denaro. La formula tipica del
processo capitalistico è D – M – D¹(=denaro – merce – denaro uno,
ovvero più denaro) perché il denaro acquisito alla conclusione del
ciclo è aumentato rispetto al denaro impiegato inizialmente per
comprare la merce.
Nel sistema capitalistico, il capitalista compra la forza-lavoro
dell’operaio dandogli un salario. Se infatti egli desse al salariato l’intero
prodotto del suo lavoro, non ne avrebbe per sé alcun profitto. Il
capitalista invece paga solo in base a quanto occorre per il
sostentamento dell’operaio. Da ciò si origina il plusvalore, che è quella
parte del valore prodotto dal lavoro salariato (pluslavoro) di cui il
capitalista si appropria. Ed è proprio il plusvalore che rende possibile
l’accumulazione capitalistica, cioè la produzione del denaro col
denaro. Marx distingue poi tra capitale variabile (il capitale investito nei
salari) e il capitale costante (quello investito nei macchinari e in tutto ciò
che serve per far funzionare la fabbrica). Poiché il plusvalore nasce
solo in relazione ai salari, ossia al capitale variabile, il saggio del
plusvalore, ossia quant’è la percentuale del plusvalore, è dato dal
rapporto tra il plusvalore e il capitale variabile. Ma il capitalista investe
non solo in salari ma anche in impianti ecc. (cioè il capitale costante),
per cui il saggio del profitto, cioè quanto intasca effettivamente il
capitalista, deriva dal rapporto tra il plusvalore e il capitale variabile

283
più quello costante. Di conseguenza il saggio di profitto sarà sempre
minore rispetto al saggio del plusvalore.
Non solo. Visto che quelle che Marx chiama forze produttive,
in relazione al progresso tecnologico, si sviluppano più rapidamente
dei rapporti di produzione (che esprimendo rapporti di proprietà,
tendono a voler rimanere statici): ne segue periodicamente una serie
di crisi e di conflitti. Infatti, per ottenere una sempre maggiore
produttività nel lavoro, vi è la necessità nell’economia capitalistica di
introdurre nuovi e più efficienti metodi e strumenti di lavoro. Però
proprio l’aumento di produttività genera il fenomeno delle crisi
cicliche di sovrapproduzione ed essa porta anche alla distruzione dei
beni e alla disoccupazione.
Tali crisi determinano anche il fenomeno inevitabile della
caduta tendenziale del saggio di profitto, che sarà il "tallone di Achille" del
sistema capitalistico. Essa è quella legge economica34 per cui
aumentando smisuratamente il capitale costante (macchine e materie
prime) diminuisce il saggio di profitto cioè il guadagno del capitalista.
La legge equivale ad un andamento decrescente ed essa è appunto il
“tallone d’Achille” del sistema capitalistico, perché mettendo in
difficoltà la borghesia, finisce per produrre la scissione della società in
sole due classi antagonistiche: un giorno vi saranno solo più pochi
capitalisti da una parte e molti salariati sfruttati dall’altra. Ma ciò
porterà, come accennato più sopra, all’inevitabile rovesciamento del
capitalismo e alla rivoluzione proletaria con la vittoria finale del
comunismo. In altre parole, il significato della "legge della caduta
tendenziale del saggio di profitto" sta a indicare per Marx che il
socialismo non è solo una corretta scelta etica o politica (in questo
caso, non sarebbe garantito ma solo affidato alla buona volontà della
gente) bensì è anche e soprattutto il risultato necessario dello sviluppo
materiale della società borghese ed è il frutto sicuro delle contraddizioni
insuperabili inerenti al sistema capitalistico.

L'avvento del comunismo


Nel capitalismo moderno la fabbrica, pur essendo proprietà di
un capitalista o di un gruppo di azionisti, produce, grazie al lavoro

34Marx definisce il suo socialismo 'scientifico' perché, a differenza di quello utopistico, esso
prevede 'scientificamente', tramite lo studio delle leggi economiche, la inevitabilità del
passaggio storico dal capitalismo al comunismo.

284
comune di operai, tecnici, impiegati, dirigenti ecc., ma se sociale è la
produzione della ricchezza, sociale dovrebbe essere anche la
distribuzione della stessa: il che significa che il capitalismo porta in sé
la base del socialismo. Ma allora il comunismo sarà lo sbocco inevitabile
della storia perché ogni formazione economica e sociale è un gradino
di un processo che porta inevitabilmente al comunismo, inteso come
forma di società in cui l’uomo, vincendo l’alienazione, si pone come
padrone del proprio destino. “Chiamiamo comunismo il movimento
reale che abolisce lo stato di cose presenti”(L’Ideologia tedesca).
Il carattere dialettico della teoria marxiana e il suo legame con
Hegel è evidente. Per entrambi la storia è un processo dominato dalla
forza della contraddizione e che mette capo ad un risultato finale
inevitabile. Per Marx la dialettica non è spirituale come per Hegel
bensì materiale ovvero economico-sociale e consiste - come abbiamo
già visto - nell’inevitabilità del passaggio dalla società capitalistica a
quella comunistica. Come e quando avverrà tutto ciò?
Nel Manifesto Marx individuava come soggetto della storia la
lotta di classe: Marx puntualizzava che 1) le classi si definiscono in
rapporto alla proprietà o meno dei mezzi di produzione, il che fa sì
che in ogni epoca vi siano sempre due classi antagonistiche; 2) la lotta
di classe conduce inevitabilmente, attraverso la dittatura del
proletariato, alla soppressione delle classi e ad una società senza classi
e quindi senza Stato.
Ad un certo punto della storia, vi saranno pochi capitalisti che
deterranno tutto il potere, e la maggioranza di proletari sfruttati (cfr.
la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto). I proletari
sfruttati prenderanno allora coscienza di classe e saranno in
particolare i comunisti, “l’avanguardia cosciente ed organizzata del
proletariato”, che guideranno la rivoluzione della classe sfruttata. La
rivoluzione proletaria abbatterà le istituzioni dello Stato borghese ed
in primo luogo la proprietà privata dei mezzi di produzione.
Cancellando la proprietà privata, eliminando la divisione del lavoro e
il dominio di una classe sull’altra, vi sarà una nuova epoca nella storia
del mondo. In un primo momento vi sarà la dittatura del proletariato
che, a differenza delle altre dittature, sarà la dittatura della
maggioranza degli oppressi sulla minoranza degli oppressori. Essa
sarà comunque solo una fase di transizione e durerà solo fino
all’avvento completo del comunismo e cioè quando non vi sarà più lo
Stato: lo Stato, infatti, essendo lo strumento di potere della classe

285
sociale più potente, non avrà più ragione di esservi, poiché non vi sarà
più divisione tra le classi e sfruttamento di una sull’altra.
Al fondo del comunismo vi sta forse un ideale di tipo
'anarchico' con la differenza che lo Stato non viene abbattuto subito
(come si vorrebbe nell’anarchismo) ma si passerà attraverso il periodo
della dittatura del proletariato che coincide con il farsi della rivoluzione.
Quando infine l’edificazione del socialismo sarà completa, lo Stato
farà posto ad un autogoverno dei produttori associati, in cui il
dominio sugli uomini sarà sostituito dalla semplice amministrazione
delle cose. All’uomo “economico” ossessionato dall’avere, Marx
contrappone un uomo onnilaterale e totale che esercita in modo
creativo le sue potenzialità. “Ciascuno secondo le sue capacità; a
ciascuno secondo i suoi bisogni” (cfr. Critica del programma di Gotha).

Conclusione
La prospettiva del comunismo si configura dunque come una
abolizione della divisione del lavoro, tanto all'interno della fabbrica
quanto nella società. Mentre là dove il lavoro è diviso, ciascuno ha
una sfera di attività determinata ed esclusiva, che gli viene imposta e
alla quale non può sfuggire. Nella società comunista, invece, ciascuno
non avrà più una sfera di attività esclusiva, ma potrà perfezionarsi in
qualsiasi attività, cioè in tutte le attività. La produzione, dice Marx,
sarà regolata in modo tale da rendermi possibile "di fare oggi questa
cosa, domani quell'altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio
pescare, la sera alleviare bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi
vien voglia, senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né
critico" (L'ideologia tedesca, tr. it. p. 29). A questo riguardo, anche
interpreti molto benevoli di Marx sono stati colpiti dal carattere
utopistico del brano e dalla scelta degli esempi, che sembra rinviare a
società precapitalistiche. Tuttavia sarebbe sbagliato giungere a
conclusioni affrettate e superficiali. Infatti nelle opere marxiane della
maturità le cose stanno diversamente: la soppressione della divisione
del lavoro non si configurerà mai come un ritorno ai modelli di vita
precapitalistici bensì essa sarà una Aufhebung, ovvero un superamento
che conserva e invera le acquisizioni e la ricchezza della società
capitalistica. In altre parole, la società capitalistica, caratterizzata dalla
grande industria, pone tutte le premesse per il superamento della
divisione del lavoro e quindi per il suo superamento. Nelle opere della
maturità, Marx ha cercato la possibilità del superamento della

286
divisione del lavoro nel cuore stesso della società moderna, nella
grande industria. L'analisi scientifica del processo di produzione, la
sua pianificazione consapevole, la ricerca e la costruzione di nuove
macchine, l'applicazione delle nuove scoperte scientifiche ai processi
produttivi, i continui progressi della scienza e della tecnica come
conseguenza delle esigenze di quei processi - tutto ciò significa per
Marx una riunificazione profonda fra lavoro intellettuale e lavoro
manuale, fra teoria e pratica. E poiché la tendenza della grande
industria è, secondo Marx, quella di impossessarsi di tutti i processi
produttivi e di tutta la società (anche la agricoltura sarà un giorno un
ramo dell'industria), si capisce perché egli pensasse che
l'industrialismo aveva posto le premesse per il superamento della
divisione del lavoro sia in senso stretto (all'interno della fabbrica), sia
in senso generale (nella società). Il che ci porta però a concludere che
Marx non ha mai potuto sottrarsi a quella ispirazione sostanzialmente
idealistico-romantica che tanto aveva pesato sulla sua formazione
giovanile e che lo porterà a sopravvalutare e a idealizzare determinate
tendenze dell'industria moderna. Ritengo che vi sia costantemente in
Marx un misto di realismo storico e di utopismo moralistico. La sua
condanna dello Stato in quanto tale muove da una preoccupazione o
piuttosto da un modello ideale: l'autogoverno dei produttori, l'auto-
amministrazione degli uomini associati. Perciò, critica dello Stato e
critica della burocrazia fanno tutt'uno. La burocrazia sorge per Marx
dalla frantumazione della società civile in mille interessi particolari,
l'uno in lotta con l'altro, sicché la società, essendo lacerata, è incapace
di autogoverno e deve delegare le funzioni amministrative allo Stato.
Il superamento della burocrazia è possibile soltanto se la società civile
viene ricomposta in modo unitario e resa una comunità omogenea e
organica: in questo modo, però, sarebbe soppressa la stessa società
civile (=borghese) e le funzioni burocratico-statuali sarebbero
riassorbite dalla società resa omogenea, dagli uomini associati. Anche
in questo caso, non c'è chi non veda la "criticità" della visione
marxiana. Come aveva già messo in rilievo Max Weber (in Economia e
società), le grandi società industriali recano in sé la tendenza inevitabile
a un'enorme espansione degli apparati burocratici e a una loro
crescente professionalizzazione e specializzazione. Certo Marx ha il
vantaggio di aver sottolineato che lo spirito e il principio della
burocrazia sono essenzialmente antidemocratici ma il suo limite
consiste nell'aver considerato la burocrazia solo come l'espressione, a
livello istituzionale, dell'alienazione borghese (cioè della scissione fra
società civile e Stato), e come tale senz'altro superabile in una società

287
socialista. Il suo modello si rifaceva alla Comune parigina del 1870:
elettività e revocabilità dei funzionari e dei giudici, retribuiti con un
salario operaio medio; soppressione dell'esercito permanente e della
polizia; elettività e revocabilità dei membri delle Comuni; unificazione
del potere legislativo con quello esecutivo: ecco i cardini del modello
comunardo delineato da Marx, modello che, attraverso l'esercizio
diretto della sovranità popolare a tutti i livelli, avrebbe distrutto il
potere statale e la sua macchina in quanto "escrescenza
parassitaria"(cfr. La guerra civile in Francia, tr. it., p. 65). Queste
indicazioni sono quanto Marx abbia scritto di più dettagliato per
quanto riguarda le caratteristiche di una società comunista.
Sottolineare a questo punto le manchevolezze della analisi marxiana è
fin troppo semplice: non si dimentichi però che Marx mirava alla
soppressione dello Stato e della politica, auspicava il passaggio ad una
società non-politica. Tale passaggio, è ben noto, implica il periodo
intermedio della dittatura rivoluzionaria del proletariato (Cfr. Critica
del programma di Gotha). Ma quel periodo darà avvio al processo sociale
che porterà alla scomparsa delle classi, dunque di ogni antagonismo,
dunque dello Stato, dunque della politica. Opera qui, nel pensiero di
Marx, una convinzione profonda, e cioè che la soppressione della
proprietà privata e delle differenze economico-sociali sopprimerà le
radici di qualunque conflittualità, di qualunque antagonismo, di
qualunque differenziazione di fini. In altre parole, Marx ha sempre
pensato che la abolizione della proprietà privata portasse con sé,
automaticamente, la scomparsa di qualsiasi differenza o alternativa nei
fini. In lui, si potrebbe dire, più che una teoria della politica e dello
Stato, c'è appunto una teoria della estinzione della politica e dello
Stato. Insomma, permane per l'ennesima volta in Marx l'ambiguità di
fondo del suo pensiero: si pensi alla differenza fra la rigorosità delle
sue analisi economiche ed i toni della sua teoria politica o antipolitica:
quest'ultima, inoltre, prospetta, per lo stadio finale della società
comunista un ideale praticamente anarchico (come sottolineò già
Lenin), nel senso di una sorta di felice stato naturale, senza funzioni e
istituzioni politiche.

288
NOTE BIOBIBLIOGRAFICHE
Karl Marx nacque a Treviri il 15 Maggio 1818 da Heinrich,
avvocato, e da Henriette Pressburg. I genitori erano ebrei, tuttavia, in
seguito alle leggi antisemitiche, quando il padre dovette scegliere tra la
professione e la fede, scelse la professione, per cui Marx non fu
educato nella fede ebraica. Dopo il liceo, Marx andò a studiare prima
a Bonn poi alla più severa università di Berlino. Nel 1836 conobbe
Jenny von Westphalen, che sposerà nel 1843. Nel 1841 Marx si laureò
in filosofia con una tesi sulla Differenza tra la filosofia della natura di
Democrito e quella di Epicuro. Dopo aver tentato la carriera accademica,
si dedicò al giornalismo e divenne redattore della “Gazzetta Renana”.
Il giornale fu però censurato e Marx si vide costretto a trasferirsi a
Parigi. Qui conobbe Proudhon, Heine, Bakunin e soprattutto Friedrich
Engels (1820-1895), che gli sarà amico e collaboratore per tutta la vita.
Nel 1844 uscì a Parigi il primo e unico numero degli “Annali franco-
tedeschi”, che conteneva due scritti di Marx, La questione ebraica e
l’Introduzione alla Critica della filosofia hegeliana di diritto pubblico. Sempre
nel ’44 scrisse i Manoscritti economico-filosofici (che saranno pubblicati
solo nel 1932). Collaborò inoltre con l’“Avanti!” (nell’originale
Vorwaerts), ma ciò gli costerà l’ennesima espulsione (1845). Si trasferì a
Bruxelles dove, insieme ad Engels, scrisse La sacra famiglia (1845), che
segna il distacco dalla Sinistra hegeliana, L’ideologia tedesca e le 11 Tesi su
Feuerbach (pubblicate solo nel 1888). Nel 1847 scrisse la Miseria della
filosofia contro il socialismo utopistico. Nel 1847 la Lega dei Comunisti
chiese a Marx di scrivere un manifesto del loro movimento ed egli
accettò pubblicando nel 1848 il famoso Manifesto del partito comunista.
Marx ritornò quindi per un po’ a Colonia, passò poi a Parigi e infine si
stabilì definitivamente a Londra. Qui scrisse i Lineamenti fondamentali
della critica dell’economia politica (meglio conosciuti come i Grundrisse) nel
1857-59; Per la critica dell’economia politica (1859). Nel 1864 fondò
l’associazione internazionale dei lavoratori, conosciuta come la Prima
Internazionale. Nel 1867 pubblicò il primo libro de Il Capitale. Gli altri
due appariranno postumi a cura di Engels nel 1885 e nel 1894. Nel
1875 scrisse la Critica del programma di Gotha. Marx morì il 14 Marzo
1883 ed è sepolto nel cimitero di Highgate a Londra.

Le opere complete di Marx sono pubblicate in italiano dagli


Editori Riuniti.

289
FRIEDRICH NIETZSCHE

(1844-1900)

La concezione della tragedia greca


Da giovane Nietzsche aveva scelto di dedicarsi alla
filologia, abbandonando l'idea iniziale di diventare un poeta o
un musicista. Egli si propose, nei confronti della scienza
linguistica, di rinnovarla, vedendo in essa una sorta di scienza
che poteva contribuire alla ricostruzione delle grandi idee del
passato ed aprire nuove prospettive future.
Tra il 1869 e il 1871, il giovane filologo rifletté sulla
contrapposizione fra due visioni estetiche della vita, quella
dionisiaca e quella apollinea, e pubblicò poco dopo, nel 1872, la
sua prima opera, La nascita della tragedia dallo spirito della musica,
nella quale sostiene che l'arte ha il compito di cogliere
l'essenza della vita e di trasfigurarla, nel senso di renderla in
qualche modo sopportabile all'uomo. La sua tesi è che lo
sviluppo dell'arte greca sia dovuto ai due impulsi del dionisiaco
e dell'apollineo, diversi tra loro ma che arrivano ad un certo
punto ad essere accoppiati in un'opera d'arte che è sia
dionisiaca che apollinea, e cioè la tragedia attica.
L'arte apollinea è vista da Nietzsche nell'epica omerica,
nella scultura, architettura e musica dorica con la cetra. Gli dèi
omerici sono un mondo intermedio fra gli uomini e la natura,
e con essi i greci hanno imparato a credere nel mondo
armonico della religione olimpica. Hanno superato il
pessimismo e la paura primordiali (per cui "meglio per un
uomo non essere mai nato") e hanno reso accettabile la vita.
L'arte dionisiaca è il ditirambo delle feste dedicate a
Dionisio; la musica dionisiaca è fatta dall'aulos, simile al flauto,
capace di produrre suoni che turbano l'anima. Come è noto,

290
durante i riti dionisiaci la persona perdeva la sua identità
singola e si sentiva parte della natura.
La tragedia ha in sé sia il sogno (come libera costruzione
di immagini) e sia l'ebbrezza data dal vino e dalla perdita di
autocontrollo, ovvero appunto la sintesi fra l'apollineo e il
dionisiaco. La tragedia nasce per Nietzsche nel momento in
cui viene introdotto il dramma, cioè l'azione recitata (in greco
drama vuol dire azione). Fino ad Euripide, protagonista
assoluto delle tragedie era sempre e solo Dioniso, mentre
Edipo, Prometeo e gli altri eroi non erano altro che sue
maschere. Euripide è colui che secondo Nietzsche ha
eliminato progressivamente dalla scena l'elemento dionisiaco -
il coro e la musica - a favore dell'elemento apollineo - la
recitazione degli attori. Il vero artista tragico non ha la pretesa
di dire la verità e il suo attore deve coinvolgere gli spettatori in
un gioco di rappresentazioni e di illusioni, senza abbassarsi al
livello dello spettatore. Due sono gli elementi con cui
Euripide ha rovinato secondo Nietzsche l'equilibrio fra
dionisiaco e apollineo: il mutamento del ruolo del prologo e
l'introduzione del deus ex machina. Questi elementi tolgono
ogni ambiguità e quindi il valore simbolico del mito, per cui si
porta lo spettatore verso una spiegazione razionale della
vicenda narrata. Facendo "morire" la tragedia, secondo
Nietzsche, Euripide ha portato la cultura verso una
prospettiva filosofica e razionalista su cui si fonderà la cultura
occidentale successiva. Dietro di lui, c'è, secondo Nietzsche,
addirittura Socrate, il filosofo che ha valorizzato la riflessione
razionale contro gli istinti, il potere dell'anima contro quello
del corpo. Con il filosofo ateniese si impone l'idea che con il
ragionamento per nessi causali si possa giungere a fornire ogni
spiegazione, attingendo intellettualmente l'essenza stessa delle
cose. Seguendo il suo insegnamento la scienza e la filosofia
hanno preteso per secoli di arrivare alla verità, inaugurando
un'epoca di ottimismo che ha avuto comunque una funzione
consolatrice, contro il dolore dell'esistenza. Ma adesso è
giunto il tempo in cui - dice Nietzsche - l'illusione e
l'ottimismo della razionalità stanno per naufragare grazie alla
rinascita della tragedia, resa possibile dalla concezione della
musica introdotta da Schopenhauer (il mondo come
"incarnazione della musica e della volontà di vivere") e dalla
sua traduzione artistica da parte di Wagner, in cui si ripresenta

291
l'equilibrio fra dionisiaco e apollineo. Attraverso l'arte, l'uomo
e il mondo, la vita, sono redenti: solo l'arte risponde al non
senso apparente della vita, solo l'arte giustifica l'esistenza e la
rende degna di essere vissuta dandole un senso.

La concezione della storia


Nietzsche scrisse verso il 1873 quattro saggi col titolo
generale di Considerazioni inattuali. Qui ricorderò - in quanto
sintesi scolastica - solo il secondo, intitolato Sulla utilità e il
danno della storia della vita (1874). Nietzsche comincia la sua
considerazione dicendo che, quando l'uomo comincia a
ricordare, diventa infelice, mentre ovviamente, se dimentica,
se non pensa, si ritiene "felice", sereno, tranquillo, non si
tormenta e si dedica ad altro. Per diventare almeno un po'
felice l'uomo deve imparare a sentire "in modo non storico",
cioè "mettersi a sedere sulla soglia dell'attimo dimenticando
tutte le cose passate". Si ricordi a questo riguardo che
Nietzsche in gioventù era stato attirato dalla filosofia di
Schopenhauer, anche se non accetterà mai il suo pessimismo
radicale.
Vi sono secondo Nietzsche tre concezioni di storia: la
storia monumentale, la storia antiquaria, la storia critica. La prima
riguarda i grandi modelli degli eroi passati, da cui l'uomo trae
la certezza che se un giorno essi furono possibili, potrebbero
benissimo esserci di nuovo e questo sostiene l'uomo nei
momenti di debolezza. La seconda si riferisce all'uomo che
guarda al passato con fedeltà e amore, che però rischia di
venerare indiscriminatamente solo il passato dimenticando il
presente, e rischia di "mummificare" la vita. La terza, la storia
critica, ha il difetto di essere "troppo critica e demolitrice" del
passato. In conclusione, secondo Nietzsche, noi non
possiamo ovviamente fare a meno della storia per la nostra
vita ma non dobbiamo trasformarla in una sorta di scienza
oggettiva, come fosse una delle scienze naturali, come
pretenderebbero gli storici contemporanei di Nietzsche,
trasformandola in una materia di pura erudizione, fine solo a
sé stessa. In sintesi, se la storia dice di poter servire alla vita,
non può però pretendere di essere una scienza oggettiva;
d’altra parte, se vuole essere una scienza, essa non diventa
altro che una sorta di statica conclusione e di inutile bilancio
di vite. In più, la società moderna tende a trasformare le cose

292
in eventi, che obbediscono ad una legge inesorabile ed
estranea all’uomo. L’individuo non sarebbe altro che uno
spettatore di un processo, la Storia, che lo supera e lo travolge.
Come poter allora diventare veri uomini e non uomini
colti, "enciclopedie ambulanti" ma dalle personalità deboli? La
risposta sarà data da Nietzsche con le sue opere successive,
che segnano quella che verrà definita la "fase neoilluministica"
del suo pensiero.

La fase successiva o “neoilluministica”


Gli scritti successivi (Umano, troppo umano, 1878-80; Aurora,
1881; La gaia scienza,1882), aprono la cosiddetta fase
“neoilluministica” di Nietzsche. Egli vuole deliberatamente mettere
tutto in discussione: romanticismo, idealismo, positivismo, socialismo,
evoluzionismo, cristianesimo, metafisiche e dogmatismi vari. Tutte le
realtà che sono state presentate come nobili, vere, spirituali sono in
realtà “umane, troppo umane”. Sono costruzioni che esprimono solo gli
istinti, appetiti, passioni e interessi più intimi dell’uomo. Nietzsche
rifiuta così ogni tipo di metafisica e di religione, ed attacca lo stesso
concetto di verità: secondo Nietzsche si sono chiamate verità gli errori
utili, quelli che sono indispensabili all’uomo per poter vivere, giacché
l'uomo non sopporta il vivere senza un senso. La volontà di verità ha la
sua radice proprio nel bisogno di stabilità, nella paura quindi di
instabilità. Ma non esiste nessuna verità se non all’interno di una
interpretazione ed in riferimento ad una particolare prospettiva. In
altre parole, non vi sono verità evidenti se non all’interno di categorie
storicamente instaurate dagli uomini.
La coscienza e il linguaggio si sono sviluppati dal bisogno di
comunicare, comandare, difendersi. La scienza non è che il
proseguimento della costruzione concettuale iniziata nel linguaggio;
anch’essa è solo capace di ricondurre utilitaristicamente il mondo ad
unità, creando l’immagine di un universo “regolare e rigido”, e si
limita perciò a descrivere la superficie delle cose. essa vuole parlare il
linguaggio dei fatti, ma il fatto è sempre stupido, non parla da sé ma ha
bisogno di qualcuno che lo interpreti. "Contro il positivismo, direi: non
esistono fatti ma solo interpretazioni", scrive Nietzsche35. Dunque la

35Nell'originale la frase è "Gegen den Positivismus,... würde ich sagen: nein, gerade Thatsachen giebt es
nicht, nur Interpretationen". Cfr. F. Nietzsche, Nachlass, KSA 12: 7[60], p. 315. In ital. Frammenti postumi
1885-87.

293
scienza non è mai pura, né è oggettiva perché non esiste conoscenza
senza presupposti, e che non sia uno strumento in mano a qualche
forza. Si pratica la scienza, insomma, per desiderio di sicurezza, per
fuggire fantasmi e paure, ma anche per sete di possesso e di dominio.
Vediamo ora in particolare alcune tematiche delle tre opere citate.
Umano, troppo umano è l'opera che inaugura la fase "neoilluministica" di
Nietzsche. Il primo libro ovvero la prima parte di Umano troppo umano
uscirà nel 1878, il secondo libro ovvero la seconda parte nel 1879.
Nietzsche dedica il primo libro a Voltaire e agli spiriti liberi, che sono
come dei viandanti, privi di una meta finale, che si dedicano a
ricercare la verità o, meglio ancora, a smontare le false verità. La
credenza nei valori metafisici e assoluti si fonda sulla dimenticanza
che essi sono derivati da esseri guidati da paure, bisogni, interessi,
istinti, ed è quindi tutto "umano, troppo umano".
Nietzsche pensa ad una filosofia simile ad "una chimica delle idee e
dei sentimenti morali, religiosi ed estetici", ovvero ad una sorta di
filosofia scientifica, che scompongano le idee per ritrovare i suoi
componenti originali. Non esistono, secondo lui, né un agire
altruistico né un contemplare disinteressato delle cose, in quanto si
tratta solo di "sublimazioni", ovvero la credenza nei valori metafisici si
basa sulla dimenticanza che tutto ciò che fa parte del mondo umano è
stato prodotto, nel tempo, da uomini guidati da passioni, istinti,
bisogni, interessi.
Nietzsche ritiene che in ogni comportamento umano ci sia una
componente di autoaffermazione, determinata dalla ricerca del piacere
che si esprime col sentimento della propria potenza. "La cattiveria
non ha come scopo il male dell'altro in sé, bensì il nostro
godimento"(afor. 103). Ma non è forse immorale provare piacere
sapendo di procurare sofferenza ad un altro? La risposta di Nietzsche
è: "In sé stesso, ogni piacere non è né buono né cattivo". Moralità e
immoralità dipendono da un giudizio sociale, relativo alla utilità di una
azione. Così pure, anche l'azione definita altruistica ha solo scopo di
ricercare il piacere personale, in quanto il compassionevole sente la
propria forza aumentare nei confronti di chi è più debole; tutto quello
che un individuo sente è solo il desiderio di scaricare la forte tensione interna
che lo anima, nel modo che gli dà più piacere, anche se per questo
agisce contro il principio di conservazione. Questa strada porterà il

294
filosofo a mettere al centro del suo pensiero la cosiddetta "volontà di
potenza", di cui parleremo più avanti.
Nietzsche colloca l'origine della morale nella obbedienza ai costumi
della società. In altre parole, solo dopo che, con un atto di costrizione,
gli uomini sono stati uniti in società, si sono formati i costumi e la
tradizione, cui i singoli sono stati chiamati a subordinarsi. Non si
dovrebbe parlare di comportamento 'egoistico' o 'altruistico', bensì di
comportamenti legati ad una legge o tradizione e comportamenti
separati da essa.
In Aurora (1881) egli vuole continuare, come 'una talpa', a scavare per
far crollare l'edificio della morale, e spuntare da sottoterra per andare
verso la sua liberazione, la sua aurora. Di particolare rilievo è l'analisi
che Nietzsche compie sulla non conoscenza di noi a noi stessi: un tema,
quello di essere ignoti a noi stessi, che egli ripropone più volte, nelle sue
opere. Secondo Nietzsche, noi siamo prigionieri di una rete di
concetti che descrivono solo la superficie di ciò che siamo realmente.
Ci conosciamo solo a livello di coscienza e di parole, e ci illudiamo di
essere liberi e responsabili. Quello che conosciamo dipende dai nostri
organi di senso, che costituiscono i muri della nostra 'prigione',
dall'interno della quale crediamo di poter misurare ogni realtà. Noi
siamo come dei ragni che producono la tela dei concetti con cui
raffiguriamo la realtà. Per Nietzsche il sentire, l'immaginare e il
pensare sono prodotti biologici, cerebrali, funzioni organiche con cui
interpretiamo i vari stimoli nervosi. In altre parole, è dalle funzioni
organiche inferiori che bisogna partire per cercare di capire come
emergano poi le funzioni tipiche dell'uomo come la coscienza. La
coscienza per Nietzsche non è che una struttura organica, una specie
di istinto superiore, che crea una rete di concetti con cui cerca di
interpretare in maniera unitaria l'azione degli altri istinti che emergono
in superficie. Negli scritti successivi ad Aurora, la coscienza verrà
presentata come un organo comparso per ultimo nello sviluppo
biologico della specie, per effetto della evoluzione di altri istinti ed
impulsi legati alla natura gregaria dell'uomo.
Ne La gaia scienza (1882) Nietzsche avanza l'ipotesi che la coscienza e
il linguaggio si siano sviluppati lentamente, "sotto la pressione del
bisogno di comunicazione", a partire dal momento in cui gli uomini
sono stati costretti a comprendersi. Avendo bisogno dell'aiuto dei
suoi simili, gli fu necessaria la coscienza (afor. 354). La sua nascita
accompagna il lento passaggio da una fase in cui gli uomini erano

295
guidati solo da istinti primari a quella in cui hanno dovuto esprimere
se stessi - e comunicare agli altri - i loro bisogni per vivere in società.
La Gaia scienza contiene anche il famosissimo aforisma 125 sulla
cosiddetta "morte di Dio" e questo ci porta ad esaminare la
concezione nietzschiana della religione e della morale.

La critica alla religione e l’annuncio della 'morte di Dio'


Per quanto riguarda il problema religioso, Nietzsche definisce
il cristianesimo in particolare come “platonismo per il popolo”, nel senso
che afferma due realtà, di cui quella che non si vede è la più
importante. Non solo: il cristianesimo oppone i valori del cielo a
quelli della terra. Così esso è la religione dei deboli, dei vinti.
L’ateismo appare quindi a Nietzsche come l’unica alternativa per
liberare l’uomo. Esso è in lui qualcosa di ovvio : “Sono troppo curioso,
troppo incredulo, troppo insolente per accontentarmi di una risposta così
grossolana. Dio è una risposta grossolana, un’indelicatezza verso noi pensatori;
anzi, addirittura, non è altro che un grossolano divieto contro di noi : non dovete
pensare” (cfr. Ecce homo).
Fin da La nascita della tragedia Nietzsche aveva concepito il
cristianesimo come moralità decadente, che nasconderebbe un odio
profondo per la vita, poiché tutta la vita non è che un richiamo
all’apparenza, all’arte, all’illusione, alla necessità dell’errore. Il
cristianesimo era da lui visto come la forma più pericolosa di una
“volontà di distruzione”, è il segno di stanchezza, di impoverimento
della vita. Per questo egli si è rivoltato ed ha sostenuto una visione
che ha chiamato dionisiaca. In Umano, troppo umano aveva dichiarato
esplicitamente: “Nessuna religione ha mai finora contenuto, né
direttamente né indirettamente, né come dogma né come allegoria,
una verità. Poiché ciascuna è nata dalla paura e dal bisogno e si è
insinuata nell’esistenza fondandosi su errori della ragione”. Sulla
stessa falsariga, dirà nell’Anticristo: “Quel che un teologo avverte come
vero, non può non esser falso: si ha in ciò quasi un criterio di verità”.
Ma quali sono le motivazioni che portano Nietzsche per
giustificare questo odio verso la religione in generale e verso la
cristiana in particolare ? Non sono certo motivazioni logiche né
argomentate. Egli dice che “vi è un buon gusto anche in religione;
questo buon gusto disse alla fine: ‘basta con questo Dio! Meglio
nessun Dio! Meglio che ciascuno si faccia da solo il proprio destino,
meglio essere folli, meglio essere Dio se stessi!’”. Dobbiamo dunque

296
sbarazzarci di Dio. Ma perché? Perché “vedeva con occhi che tutto
vedevano, vedeva le profondità e gli abissi dell’uomo, tutte le sue
vergogne, le sue brutture nascoste. Non conosceva pudore la sua
pietà; egli si insinuava nei miei recessi più immondi. Doveva morire,
quel troppo curioso, troppo indiscreto, troppo pietoso. Sempre mi
scopriva; dovevo vendicarmi di un tal testimonio, oppure cessare di
vivere. Quel Dio che tutto vedeva, anche l’uomo, quel Dio doveva
morire! L’uomo non sopporta che viva un tal testimonio”. In altre
parole, l’uomo deve uccidere Dio perché in Dio è sintetizzato tutto ciò che
è contro la vita e perché Dio è un’idea che “rende storto tutto quanto è
diritto, e fa girare tutto quello che è stabile”.
Ne La gaia scienza Nietzsche annuncia la "morte di Dio"! In
che senso? Nel famoso frammento 125 narra la vicenda di un uomo
che va in giro cercando Dio. Arriva in una piazza e alla sua domanda
ai presenti se sapevano dov'era Dio, gli uomini si mettono a ridere e
gli dicono che Dio è morto e che loro l'hanno ucciso. Il tale rimane
sconvolto e chiede agli astanti se si rendono conto di quello di hanno
fatto.
Il frammento viene in genere interpretato dicendo che la
civiltà ha voluto uccidere Dio pensando di liberarsi da un Dio
opprimente perché in Lui era sintetizzato tutto ciò che era contro la
vita. In realtà, uccidendo Dio, sono morti tutti gli ideali ed i valori e
l’uomo non sa più che cosa fare: è privo di valori ed è quindi solo,
sperduto “nel gran mare dell’essere”, senza punto d’appoggio. Non
c’è che una alternativa: è l’uomo stesso che deve cominciare a creare i
valori. Ma quali? La risposta di Nietzsche verrà in seguito, con la
trasvalutazione di tutti i valori, la teoria del superuomo e della volontà
di potenza (cfr. oltre).
Se l’uomo ha ucciso Dio, quali sono le conseguenze di una
simile azione? In primo luogo ovviamente spetta agli uomini l’enorme
compito di governare la terra senza farla cadere in rovina. Questo sarà
appunto il compito dei “grandi spiriti del secolo prossimo”(cfr.
Umano, troppo umano).
Anzi, “noi filosofi e ‘spiriti liberi’, dice Nietzsche, alla notizia che il
vecchio Dio è morto, ci sentiamo come illuminati dai raggi di una nuova aurora; il
nostro cuore ne straripa di riconoscenza, di meraviglia, di presentimento, d’attesa, -
finalmente l’orizzonte torna ad apparirci libero, anche ammettendo che non è
sereno, - finalmente possiamo di nuovo sciogliere le vele alle nostre navi, muovere
incontro ad ogni pericolo; ogni rischio dell’uomo della conoscenza è di nuovo

297
permesso: il mare, il nostro mare, ci sta ancora aperto dinanzi, forse non vi è
ancora mai stato un mare così ‘aperto”.
Ma stanno veramente così le cose? Sono cadute forse tutte le
illusioni e le falsità? Il cristianesimo è stato abbattuto ma – ecco il
punto – la religione non è stata sconfitta. Infatti, si badi, per
Nietzsche la morte del cristianesimo non significa la morte della
religione, della fede. La filosofia moderna è apertamente anticristiana
ma non è di per sé antireligiosa. L’istinto religioso non è stato vinto
ma è tuttora in “pieno rigoglio” pur rifiutando “con profonda
diffidenza, l’appagamento teistico”. Nietzsche confessa insomma di
aver dichiarato guerra “all’anemico ideale cristiano (e a tutto quanto è
con esso strettamente apparentato), non tanto nell’intento di
distruggerlo, ma solo per por fine alla sua tirannia e sgombrare il
campo per nuovi ideali, per ideali più robusti”.
L’uomo in fondo si è solo illuso di aver ucciso Dio, il Dio
cristiano. Ecco l’amara constatazione di Nietzsche: l’uomo ha ucciso
Dio ma l’ha ucciso per niente. Quel che lo fa stupire è che ancora oggi
si continui ad essere cristiani, se non di fatto almeno di nome. Più
volte egli si chiede: “Quando in un mattino di domenica sentiamo
rimbombare le vecchie campane, ci chiediamo: ma è mai possibile?
Ciò si fa per un ebreo crocefisso duemila anni fa, che diceva di essere
il figlio di Dio… Chi crederebbe che una cosa simile viene ancora
creduta?”.
“Il nostro tempo sa…Quel che una volta era soltanto malato, oggi è
divenuto indecoroso – è indecoroso essere oggi cristiani. E qui ha inizio la mia
nausea … Anche il prete sa, come lo sanno tutti, che non esiste più alcun ‘Dio’,
alcun ‘peccatore’, alcun ‘redentore’… Tutti i concetti della Chiesa sono riconosciuti
per quello che sono, come la più maligna falsificazione di monete che esista,
mirante a invilire la natura, i valori della natura… Noi sappiamo, la nostra
coscienza oggi sa… Ognuno lo sa: e ciononostante tutto permane nell’antico stato
… Che specie mai di aborto di falsità deve essere l’uomo moderno, per non
vergognarsi, a onta di tutto ciò, di chiamarsi ancora cristiano!”. Tutto rimane
dunque come prima. Ecco quel che scandalizza Nietzsche: come ci si
può proclamare cristiani ancora oggi? Ed è uno dei motivi per cui il
filosofo prova “disgusto” per l’uomo, che ha potuto inventare e
credere a “simili cose”!
D'altra parte Nietzsche ritiene che i suoi contemporanei non
sono ancora pronti al superamento della fede, alla proclamazione della
morte di Dio e alla tra svalutazione di tutti i valori. “Vengo troppo

298
presto… non è ancora il mio tempo. Questo enorme avvenimento è ancora per
strada e sta facendo il suo cammino: non è ancora arrivato alle orecchie degli
uomini”.

La critica alla morale


Secondo Nietzsche, l'uomo è un essere che crea valori, cioè da senso
alle cose imponendo delle valutazioni. Un tempo la distinzione fra
buono e cattivo era quella fra nobile e spregevole, e riguardava le
persone, solo in seguito si riferirà alle azioni. All'origine, come appena
detto, il termine buono connota le azioni dei migliori, dei più potenti, di
coloro che dominano in un mondo in cui ancora non esistono giudizi
morali. Nel greco antico agathòs significa aristocratico, di animo
nobile, signorile, mentre kakòs vuole dire plebeo, volgare, vile.
Nietzsche fa iniziare la morale fondata sulla contrapposizione fra
egoismo e altruismo col dominio dell'istinto gregario: gli uomini più
deboli si aggregano per sfuggire la paura e al dominio dei potenti. Ma
come si è potuto storicamente imporre l'stinto del gregge su quello dei
forti?
La fine dei valori aristocratici inizia quando prende il sopravvento la
classe dei sacerdoti e in particolare gli ebrei, il popolo sacerdotale per
eccellenza, imposero questa radicale trasvalutazione dei valori della forza
e della bellezza - che dal mondo greco erano passati a Roma - dando
inizio alla "rivolta degli schiavi nella morale". Sul tronco dell'ebraismo
è poi germogliato il cristianesimo, attraverso il quale si sono imposti i
valori della debolezza, della uguaglianza degli uomini di fronte a Dio
che è, per Nietzsche, una rivalsa contro la natura, odio contro la vita e
contro gli istinti del corpo!
La morale degli schiavi è nata col cristianesimo ed è sorta per il
risentimento verso la classe dei forti: infatti i mediocri non sanno
elaborare nulla di proprio e di autonomo, la vera azione è loro negata,
ed allora trovano il compenso in una vendetta immaginaria. Il
disinteresse, l’abnegazione, il sacrificio di sé sono il frutto del
risentimento dell’uomo debole verso la vita. I deboli, che non sanno
vivere, hanno fatto diventare valore la negazione della vita; è questa la
vendetta dei deboli contro i forti. In altre parole, gli schiavi, cioè i
deboli, rovesciano la situazione e creano il buono contrapposto al
malvagio: buone sono le qualità che servono per alleviare la sofferenza,
la pietà, la pazienza, l'umiltà ecc., mentre malvagie sono tutte quelle che

299
suscitano timore per il fatto di esprimere potenza e desiderio di
autoaffermazione.
La morale tende così ad indebolire l’uomo. L’essere umano desiderava
soddisfare le proprie pulsioni, realizzarsi in questo mondo. La morale
lo ha invece spinto a credere in una specie di anti-mondo, lo ha
portato ad allontanarsi dalla sua natura originaria, che è terrestre. Ma
la natura si è vendicata e gli istinti si sono rifugiati all’interno
dell’uomo. L’uomo appare così a Nietzsche come un “animale malato”.
Nietzsche ha forse anticipato qui Freud: ha ipotizzato la resistenza
degli istinti e delle pulsioni, la impossibilità di annullarli con la forza
della coscienza e della morale. Ed ha scoperto che, se non sono
liberati per vie naturali, essi possono esercitare un’azione ancora più
perversa. Per rovesciare i valori, i deboli hanno bisogno di imporre la
credenza nella libertà di scelta del soggetto. Ma per Nietzsche l'uomo
è un quantum di forza, cioè di volontà di potenza, e non esiste alcun
soggetto al di sotto del fare, dell'agire, del divenire, che scelga quello
che vuole o deve essere.
Secondo Nietzsche, dunque, la storia della morale è la vittoria
della "Giudea contro Roma", dei valori del gregge contro quelli dei
signori. Durante il Rinascimento, la Riforma e l'Illuminismo ci sono
stati dei tentativi per ritornare ai valori aristocratici antichi ma senza
successo. L'unica speranza, per Nietzsche, è una nuova specie di
uomini, di superuomini, che hanno il compito di sottrarre all'umanità
ogni ideale trascendente e restituirla alla terra e alla vita, creando dei
nuovi valori.

Il nichilismo
Orbene, per liberare l’uomo da questo nichilismo (nella sua
storia l’Occidente ha progressivamente negato i valori vitali),
Nietzsche proporrà una trasvalutazione di tutti i valori, una nuova tavola
di valori che realizzino l’ideale della “grande salute”. Per poterla attuare,
egli ha elaborato i concetti di volontà di potenza, superuomo ed eterno
ritorno.
Il nichilismo rappresenta per Nietzsche l'impossibilità di
rispondere alla domanda sul senso ultimo delle cose e la completa
svalutazione dei valori supremi della tradizione europea. Dal
momento che la fede nel Dio cristiano è stata per secoli
l'interpretazione dominante, se essa tramonta, porta ovviamente verso

300
il nichilismo, cioè verso la convinzione che l'esistenza non abbia più
alcun senso, che tutto sia invano.
La sola via di uscita è per Nietzsche appunto la trasvalutazione
di tutti i valori: sostenere apertamente che nel mondo non esiste alcun
senso e alcun fine, che ogni morale inventata dagli uomini non fa altro
che negare la vita, che in se stessa è completamente immorale e deve
essere vissuta per quello che è, che la quantità di energia si mantiene
stabile nel suo continuo ed eterno divenire; che ogni momento è
destinato a ritornare più volte nell'infinità del tempo e che non esiste
aldilà. Possono essere in grado di sopportare questa condizione
soltanto i più forti, i "superuomini", che non hanno bisogno di avere
fede in nulla, ma solo di accettare l'eterno ritorno con tutte le sue
implicazioni.

Il Superuomo o Oltreuomo
In Così parlò Zarathustra (1883-85), Nietzsche mette in bocca a
Zarathustra la dottrina della liberazione da tutti gli idoli metafisici.
L’uomo vivrà felice e libero quando si sarà liberato da tutti i legami,
anche da quelli stessi di “uomo” e “umanità”. “L’uomo deve essere
superato” affinché arrivi il Superuomo o Oltreuomo.36 Il superuomo sarà un
essere libero, che agirà per realizzare se stesso. E’ un essere che ama la
vita, che non si vergogna dei propri sensi e vuole la gioia e la felicità.
E’ un essere “fedele alla terra”, alla propria natura corporea e materiale,
ai propri istinti e bisogni. La “fedeltà alla terra” è fedeltà alla vita e al
vivere con pienezza, è esaltazione della salute e sanità del corpo, è
altresì affermazione di una volontà creatrice che istituisce valori nuovi
(ecco una delle conseguenze della volontà di potenza). Non più il “tu
devi”, ma l'“io voglio”. Il superuomo è inoltre un essere socievole,
rappresentato da Zarathustra che balla. Egli ha abbandonato ogni
fede, ogni desiderio di certezza, per reggersi “sulle corde leggere di tutte le
possibilità”. La sua massima è: “Diventa ciò che sei”. La libertà del
superuomo è una ricchezza di possibilità diverse, da qui appunto la
rinuncia ad ogni certezza assoluta e da qui anche la profondità tipica
del superuomo, l’impossibilità di definire e giudicare la vita interiore,
dalla quale non si attinge altro che la maschera (“Tutto ciò che è profondo,
ama mascherarsi”). Il superuomo è il filosofo dell’avvenire; è un uomo
senza patria né mèta per poter insegnare ad amare la ricchezza e la

36 Termine proposto dal filosofo italiano Gianni Vattimo.

301
transitorietà del mondo. Con la sua “diversità di sguardo”, egli cerca di
rendere più degno il pensiero della vita, di dare al mondo un altro
valore, un’altra verità: la verità non è qualcosa da riconoscere ma da creare.
Con la libertà che nasce dall’abbandono delle vecchie illusioni e
certezze, egli osa “spostare le pietre di confine” e aprire alla ricerca nuovi
orizzonti. Il superuomo sarà quindi il nuovo legislatore, capace di
trasformare morale, religione, politica ed economia, che afferma "così
dev'essere" creando nuovi valori e stabilendone la gerarchia, come
espressione della sua personale volontà di potenza.

Volontà di potenza
Per Nietzsche, all'origine di ogni azione esiste una certa quantità di
forza che si esprime in forma quasi esplosiva, che si scarica in modi e
oggetti vari. Il fatto che la quantità di forza possa trovare sfogo in
molti modi diversi implica due conseguenze: la prima, che essa non è
qualcosa di soltanto violento, negativo, dominante (dunque la volontà
di potenza non ha una connotazione puramente oppressiva, come
vorrebbe la lettura nazista del concetto); la seconda, essa dà all'uomo
l'idea di poter determinare liberamente l'azione ma, in realtà, quando
l'uomo crede di aver agito volontariamente, per un certo motivo, egli
vede soltanto il momento finale di una catena di eventi e "dimentica la
forza che effettivamente dà impulso". Non si agisce in vista del
piacere, ma per scaricare la propria potenza, anche se si crede che
l'utile o il piacere siano i veri moventi (cfr. Frammenti postumi 1882-
1884, 7 [77]).
Nietzsche crede di poter ricondurre anche i processi biologici alla
cosiddetta volontà di potenza, per cui egli pensa che nei processi organici
elementari si manifesta una lotta fra le parti che non è lotta per la
conservazione o per il nutrimento, ma pura e semplice "lotta per la
lotta", generata dalla necessità di scaricare forza. Non solo: ad un
certo punto (verso il 1885-86) egli pretenderà addirittura di poter
spiegare ogni fenomeno con la volontà di potenza: tutti gli istinti, tutte le
funzioni della vita organica, tutti i fenomeni della vita sociale, morale,
la teoria della conoscenza, tutto sarebbe riconducibile alla cosiddetta
volontà di potenza. A questo riguardo, egli prende le distanze dalla
dottrina di Schopenhauer della Volontà, e sottolinea che la vita, il
vivere è solo uno dei modi in cui la volontà di potenza si manifesta e
non il suo principale: certo, dove è vita è anche volontà, ma non tanto
volontà di vita bensì appunto volontà di potenza. In altre parole, non c'è

302
un'unica volontà di potenza e non c'è un unico modo secondo il quale
essa si manifesta: la realtà è costituita di diversi livelli, e ad ogni livello
ci sono molteplici volontà di potenza in lotta fra loro: esse danno vita
a strutture complesse che mutano continuamente e che impongono
dei valori. Nietzsche li chiama anche 'quanti di volontà', 'quanti di
forza', 'quanti di potenza', 'quanti di volontà di potenza', centri
energetici in perenne movimento che lottano fra loro (cfr. appunti
della primavera 1888).
Nello sviluppare questa idea, gli studiosi notano che Nietzsche si rifà
alle teorie di Ruder Boskovic (1711-1787), autore di un'opera
intitolata Teoria di filosofia naturale (1758), secondo il quale la realtà non
è fatta di atomi ma di centri di forza privi di estensione: la materia
propriamente non esiste perché non c'è altro che la forza. Nietzsche è
quindi contro la teoria meccanicistica della natura, secondo la quale la
realtà sarebbe composta di atomi che si muovono nello spazio.
Secondo Nietzsche, l'invenzione dell'atomo dipende dalla nostra
"proiezione dell'immagine dell'io": se non ritenessimo noi stessi delle
unità, non avremmo mai formato il concetto di 'cosa' né quello di
'atomo'. Per Nietzsche, un 'io' separato dalle sue azioni non esiste, in
quanto ognuno di noi sarebbe un divenire di azioni determinate da
forze interne, e cioè dalla 'volontà di potenza'. E questo vale anche
per il mondo fisico, in cui non esistono le 'cose'. Insomma, non
esistono altro che quanti dinamici, quanti di potenza, che non sono
qualcosa, ma la loro realtà consiste nella loro relazione con tutti gli
altri quanti, nel loro 'agire' su di essi. Ciò che caratterizza i 'quanti di
volontà di potenza' è "il voler diventare padrone, il voler diventare di
più, il voler diventare più forte", il voler sopraffare e difendersi dalla
sopraffazione. Insomma, la volontà di potenza implica la creazione
costante di nuovi valori rispetto a quelli precedenti.
Nietzsche cerca di indagare il modo in cui queste 'volontà di potenza'
determinino le logiche di comportamento di ogni organismo, dai
protoplasmi all'uomo ai popoli e società. A tal riguardo, Nietzsche
non condivide ad es. l'idea di Malthus e di Darwin che la lotta per
l'esistenza sia necessaria a causa della scarsità di beni: la lotta per
l'esistenza in condizioni di scarsità si verifica solo come eccezione,
non come regola. Infatti "l'aspetto globale della vita non è lo stato di
bisogno, lo stato di fame, ma la ricchezza, l'opulenza, persino l'assurda
prodigalità - là dove si lotta, si lotta per la potenza" (cfr. Crepuscolo degli
idoli). E non condivide neppure l'idea che l'ambiente influenzi lo
sviluppo degli organismi: "la vita non è adattamento di condizioni

303
interne a condizioni esterne, ma volontà di potenza, che dall'interno
assoggetta a sé e si assimila sempre più 'esterno'". Di conseguenza
critica Darwin perché fa dipendere l'origine di un organo dalla sua
utilità nella lotta per l'esistenza e "sopravvaluta fino all'inverosimile
l'influsso delle 'circostanze esterne'"(Cfr. Frammenti postumi 1885-1887,
7[9] e 7[25]).
Anche nell'uomo tutto si spiega con l'esigenza di scaricare la forza e di
diventare più forti. Ogni pensiero, sentimento, atto di volontà è uno
stato 'globale' di coscienza, nel senso che "risulta dalla determinazione
momentanea di potenza tra tutti gli istinti di cui siamo costituiti" (cfr.
Idem, 1[61]). Tutti i nostri istinti si riducono a volontà di potenza: gli
istinti in lotta determinano strutture temporanee di potere e di
gerarchia, in cui uno di essi domina; chi è più forte domina e
organizza gli altri, chi è più debole si subordina per autoconservarsi;
noi percepiamo queste situazioni di equilibrio gerarchico temporaneo
che assumono in noi la forma di un pensiero o di un sentimento o di
un atto di volontà. Nietzsche critica anche Spinoza (che per altro
ammira moltissimo) che riteneva l'istinto di conservazione come
l'istinto primario, fondamentale: egli è caduto, dice Nietzsche, nel
vizio della teleologia ovvero di una visione finalistica, facendo
dell'autoconservazione il fine ultimo degli uomini. E criticando ogni
teleologia, Nietzsche critica anche ogni altro tipo di essa: non si tende al
piacere, al dolore, alla felicità ecc. bensì solo e sempre alla volontà di
potenza.

L'eterno ritorno dell'uguale


Secondo quanto afferma egli stesso, nell'agosto del 1881, mentre era
in Engadina, Nietzsche ebbe l'intuizione della teoria dell'eterno ritorno
dell'uguale (di cui si proclamerà il maestro), la quale mirerebbe a
sostituire il messaggio di salvezza del cristianesimo. Come studioso
del mondo antico, Nietzsche conosceva bene la dottrina dell'eterno
ritorno dei Pitagorici e degli Stoici ovvero del tempo ciclico, ma egli
ritiene che la sua teoria sia totalmente diversa e non sia da confondere
con quella dei filosofi antichi. Per comunicare la scoperta dell'eterno
ritorno Nietzsche decide di abbandonare lo stile aforistico delle sue
opere precedenti e di scrivere un poema che annunci la sua verità: lo
farà nel famoso Così parlò Zarathustra.
La sua dottrina vuole essere in primo luogo una dottrina apertamente
anticristiana perché secondo Nietzsche il cristianesimo preferisce

304
l'aldilà più della vita terrena e nega i valori terreni, mentre la sua teoria
- l'eterno ritorno delle cose - indica la volontà di volere ogni momento
della propria vita, di desiderare la sua continua ripetizione, di
attribuire "a questa vita il massimo peso". Per Nietzsche il mondo
non è né un organismo vivente né una macchina costruita in vista di
qualche fine: il mondo non segue alcun disegno, non ha alcun senso
né alcuna finalità, il suo carattere è di essere "caos per tutta l'eternità".
A questo riguardo ricordo le affermazioni di Nietzsche in uno scritto
giovanile, Su verità e menzogna in senso extramorale, che sono molto
pregnanti:
"In un qualche angolo remoto dell'universo che fiammeggia e si estende in
infiniti sistemi solari, c'era una volta un corpo celeste sul quale alcuni animali
intelligenti scoprirono la conoscenza. Fu il minuto più tracotante e menzognero
della 'storia universale': e tuttavia non si tratto che di un minuto. Dopo pochi
sussulti della natura, quel corpo celeste di irrigidì, e gli animali intelligenti
dovettero morire. [...] ci sono state delle eternità, in cui esso non era; e quando
nuovamente non sarà più, non sarà successo niente."37
Tornando al problema dell'eterno ritorno, Nietzsche è convinto,
seguendo le ipotesi di un certo Otto Caspari (1841-1917), che la
quantità di energia nell'universo si mantenga sempre uguale, ovvero
che il mondo sia eterno, e dunque che ogni cosa sia destinata a
ritornare infinite volte nel tempo infinito38. L'eterno ritorno ci dice
che il mondo non è stato creato, non ha alcun scopo né senso, non
può raggiungere alcun stato finale. Dunque ogni stato di questo
mondo è già stato raggiunto un numero indeterminato di volte e
molte volte ancora ritornerà. Bisogna precisare che Nietzsche è
consapevole che questa è solo una ipotesi, ma egli la ritiene la migliore
di tutte per sostenere la sua battaglia contro il cristianesimo (cfr.
Frammenti postumi 1881-82, 11[203]). A parte quello, come potremmo
interpretare la dottrina nietzschiana dell'eterno ritorno, senza tenere
conto delle sue ipotetiche basi 'scientifiche'?
Nietzsche vuole polemizzare - come abbiamo visto - contro ogni
forma di storicismo e di evoluzionismo e, d’altra parte, rifiuta la

37 Cfr. F. Nietzsche, Über Wahrheit und Lüge im außermoralischen Sinn, trad. it. Su verità e menzogna in senso
extramorale in F. Nietzsche, Opere 1870-1881, trad. it. Newton Compton, Roma 1993, p. 93. Ovviamente
si può obiettare che quella di Nietzsche sia una illazione del tutto gratuita, visto che non possiamo
semplicemente essere certi di qualcosa che potrebbe accadere in un tempo molto futuro.
38Anche in questo caso, secondo le teorie scientifiche odierne sappiamo che non è così. In più,
metafisicamente, ci si può sempre chiedere come mai vi sia un tale tipo di energia e perché sarebbe o
dovrebbe essere eterna.

305
riduzione della realtà a meri eventi effimeri, senza valore. Per
Nietzsche, tutto quanto accade, è già accaduto, e tornerà ad accadere.
Questa dottrina – dice Nietzsche – è una condanna solo per gli
uomini mediocri, poiché per essi torneranno ovviamente sempre
frustrazioni e sconfitte. Ma per il superuomo, invece, l’eterno ritorno
indica che in ogni momento si può cominciare una nuova vita. Per
questo esso richiede un impegno assoluto: il superuomo è
consapevole che ogni suo atto si inserisce in una realtà eterna.39
L'eterno ritorno non è né un banale ciclo che si ripete né un ciclo
naturale: l'eterno ritorno apre la possibilità di essere una individualità
cosciente, che si determina da solo. Ogni attimo nell'eterno ritorno ha
in sé una pienezza, una possibilità di realizzazione assoluta. Il
superuomo è dunque colui che regge il peso della vita, in quanto sa
che oltre a quello che decide di fare per sé in ogni attimo, non esiste
altro: nulla da attendersi, nulla in cui sperare. Egli decide che cosa
essere e contemporaneamente accetta ciò che è, attraverso l'amor fati.
L’eterno ritorno è appunto anche il sì che il mondo dice a se stesso, è
l’autoaccettazione del mondo, la volontà cosmica di riaffermarsi e di
essere se stesso: dall’eternità il mondo accetta se stesso e quindi si
ripete. L’eterno ritorno è così una verità terribile! Bisogna però fare di
più che “sopportare” un simile pensiero: bisogna amarlo, bisogna
promettere noi stessi all’“anello degli anelli”! La formula per la
grandezza dell’uomo è dunque l’amor fati, non volere nulla di diverso
da quello che è, non solo sopportare quello che è necessario, ma
amarlo appassionatamente e quindi volerlo. Questo amore libera
l’uomo dalla schiavitù del passato, giacché per lui tutto quello che è
stato si trasforma in “ciò che io volevo che fosse”. Il presente, in
quanto momento della decisione, ha la capacità di far ritornare il
passato riassumendolo nell’atto della decisione. E’ quindi proprio
nella decisione che il tempo si crea come tale, dividendosi di
conseguenza nelle tre dimensioni di passato, presente e futuro.

39 A questo riguardo, se volessimo interpretare positivamente la dottrina dell'eterno ritorno potremmo


dire che ... ogni attimo della nostra vita è importante, che ogni attimo è denso di conseguenze e quindi ci
insegna ad agire per il meglio perché sappiamo che tutto ciò che facciamo - o non facciamo - tornerà per
sempre e quindi, se facessimo del male sappiamo che esso ritornerà appunto eternamente, mentre, se
agissimo bene, sappiamo che questo sarà per sempre bene.

306
Conclusione : il prospettivismo
Come sappiamo, secondo Nietzsche non esistono i fatti di cui
parlano i positivisti, ma solo interpretazioni da parte dei 'centri di
forza' delle varie volontà di potenza. Non esistono né cause né effetti,
né soggetti né azioni, ma solo forze che esprimono se stesse. E questo
è anche contro il relativismo: dire che tutto è soggettivo o tutto è
relativo non è che una ennesima interpretazione. Si ricordi che per
Nietzsche non esiste nessun "interprete dietro l'interpretazione", in
quanto sono i nostri bisogni, i nostri istinti ad interpretare il mondo.
Dal momento che gli istinti stessi sono il prodotto di conflitti che
nascono ad un livello più basso nella scala del vivente, a produrre
conoscenza sono le volontà di potenza, che lottano per imporre le
proprie prospettive. Se un individuo riesce a guardare da diverse
prospettive lo stesso oggetto, più appare potente nella sua capacità
conoscitiva ed in grado di raggiungere l'unica obiettività possibile: una
visione complessa della realtà. In altre parole, il mondo racchiude in
sé infinite interpretazioni, "innumerevoli sensi". Ognuno di noi non
può uscire dal proprio angolo visuale e deve riconoscere che il mondo
"racchiuda in sé interpretazioni infinite", mentre solo nel mondo
inorganico "regna la verità": il mondo degli elementi chimici
elementari è sottratto al gioco caotico delle prospettive, poiché a quel
livello non esiste ancora un conflitto tra le diverse volontà di potenza.
La vera essenza della volontà di potenza, se così si può dire, è
ermeneutica, interpretativa. La lotta delle opposte volontà di potenza
è una lotta di interpretazioni: "Ogni centro di forza ha per tutto il resto la
sua prospettiva, cioè la sua affatto determinata scala di valori, il suo tipo di
azione, il suo tipo di resistenza"(cfr. 14 [184], VIII, 3,160).
Se però - e Nietzsche lo ammette esplicitamente - se la volontà di
potenza significa vedere il mondo come gioco di apparenza e
prospettive in lotta, allora anch'essa è una teoria fra le altre, è una
interpretazione e nient'altro (cfr. Al di à del bene e del male, 22,28). In
fondo, dal momento che non vi sarebbe né verità né errore, ma solo
conflitti fra proiezioni e costruzioni teoriche, quello che conta, alla
fine, sarebbe la prospettiva vincente o dominante in un certo periodo. Così
tutto il suo "odio" verso il cristianesimo, contro la morale, contro il
socialismo ecc., sarebbe forse motivato niente altro che da una
preferenza "fisiologica" per la salute e la forza? A questo punto,
Nietzsche non può fare altro che presentare la sua teoria come la
migliore (ma non la più vera, ovviamente), e come tale essa andrebbe
accettata ed "amata" nel suo eterno ripetersi, ovvero nel dire sì alla

307
vita in ogni momento. Ma come possiamo essere sicuri che la sua
teoria sia la migliore? A questo riguardo, ritengo che Nietzsche stesso
alla fine inviti a diffidare di lui stesso e quindi delle sue teorie, proprio nella
inevitabilità del prospettivismo, come afferma nelle pagine di Così
parlò Zarathustra (brano che, significativamente, riprende alla fine del
Prologo di Ecce homo):
"... Andate via da me e guardatevi da Zarathustra! Ancora meglio:
vergognatevi di lui! Forse vi ha ingannato ... Si ripaga male un maestro,
se si rimane sempre un discepolo. ...E ora vi ordino di perdermi e di
trovarvi; e solo quando mi avrete tutti rinnegato io tornerò tra
voi." (da Così parlò Zarathustra, fine 1^ parte, n.3).

NOTE BIOBIBLIOGRAFICHE
Nietzsche nacque a Roecken, presso Lipsia, il 15 ottobre 1844.
Rimase presto orfano di padre e la madre si trasferì con i figli a
Naumburg, dove Nietzsche iniziò gli studi e ricevette un’educazione
anche musicale. Nel 1859 entro nel ginnasio di Pforta, dove rimase
fino al 1864, quando si iscrisse all’università di Bonn. Qui seguì
soprattutto i corsi di filologia classica di Ritschl, che continuò a
seguire quando questi si trasferì a Lipsia. Alla fine del 1868 conobbe
Wagner; nel frattempo lesse Schopenhauer e pubblicò alcuni articoli
filologici. Nel 1869 ottenne la cattedra di filologia greca a Basilea. Nel
1872 pubblicò la sua prima opera, La nascita della tragedia, che fece
molto scalpore. Nel 1878, con la pubblicazione di Umano, troppo
umano, vi fu il distacco da Wagner e poco dopo le sue dimissioni
dall’università per motivi di salute. Da allora alternerà soggiorni in
Italia, Francia, Svizzera. Le sue opere continuano ad uscire a ritmo
serrato, frattanto nascono nuove relazioni: conosce Lou von Salomé,
alla quale propone di sposarla ma lei rifiuta. Nell’estate del 1886 a Sils-

308
Maria progetta di scrivere un’opera sull’eterno ritorno e la volontà di
potenza. Nel 1888 soggiorna a Torino, città di cui è entusiasta, e qui,
in pochissimi mesi scrive Il crepuscolo degli idoli, Ecce homo (che è la sua
autobiografia), Nietzsche contra Wagner, Il caso Wagner, Ditirambi di
Dioniso. Il 3 Gennaio 1889, a Torino, in Piazzetta Carlo Alberto, ha un
crollo psichico. Il suo amico Overbeck lo porta a Basilea, dove viene
ricoverato in una clinica per malattie nervose. Dal maggio 1890 viene
trasferito a Naumburg presso la sorella Elisabeth e la madre (che
morirà nel 1897). Quindi la sorella, rimasta vedova dopo il suicidio del
marito per il fallimento di un’impresa coloniale razzista in Paraguay,
fondò nel 1894 un archivio, a Weimar, con l’intento di conservare i
manoscritti del fratello e di occuparsi dell’edizione completa delle sue
opere. A Weimar Nietzsche morì il 25 Agosto 1900.
L’interpretazione nazista di Nietzsche è stata inventata dalla
sorella, la quale non esitò a manipolare i testi del filosofo,
pubblicando nel 1906 un libro intitolato La volontà di potenza, in cui il
pensiero di Nietzsche assume quella fisionomia anti-umanitaria e
razzista su cui farà leva la lettura nazista, che influenzerà la cultura del
primo ‘900. Solo nel secondo dopoguerra è stata rivista tutta l’opera
nietzschiana, dando vita all’edizione critica completa delle opere, che
dimostrano la totale estraneità del filosofo al nazismo o a tesi simili.

BIBLIOGRAFIA
Le opere e le lettere di Nietzsche sono pubblicate in edizione
critica dalla casa editrice Adelphi
G. Vattimo, Introduzione a Nietzsche, “i filosofi” Laterza
E. Fink, La filosofia di Nietzsche, Mondadori

309
SIGMUND FREUD

(1856-1939)

Caratteristiche generali della psicoanalisi


Alla fine dell’Ottocento, la psichiatria spiegava in genere le
sofferenze mentali, psicologiche come conseguenze di lesioni o di
disfunzioni cerebrali. Inoltre la sfera della psiche era identificata con
quella della coscienza, che era capace di esercitare un dominio sugli
istinti e di fungere da motore delle azioni. Charcot, il famoso studioso
francese dell'isteria, aveva impressionato vivamente Freud. Tuttavia
Charcot aveva trovato una formula sin troppo facile per spiegare certi
fenomeni isterici: l'unica causa dell'isteria sarebbe stata l'ereditarietà, e
perciò l'isteria andrebbe considerata come una forma di
degenerazione organica; tutti gli altri fattori eziologici avrebbero solo
il ruolo di motivi occasionali. Proprio questa impostazione
organicistica aveva lasciato insoddisfatto Freud. Da Charcot aveva
però appreso un consiglio: guardare e riguardare le stesse cose fino a
che esse cominciano a parlare da sé. E' il passaggio dall'occhio all'orecchio:
dalla osservazione clinica che si fonda sullo sguardo e sulla visibilità,
alla disposizione all'ascolto che si basa su ciò che il paziente dice.
In seguito, come è noto, l'incontro con Joseph Breuer porterà
Freud alla scoperta del metodo catartico che, tra ipnosi e libera
associazione di parole, porrà le basi della psicoanalisi anche se è
ovviamente sbagliato considerare la psicoanalisi come una variante
dell'ipnosi. Il dissenso con Breuer interverrà a proposito della
interpretazione del meccanismo psichico dell'isteria. Breuer
privilegiava una teoria per così dire fisiologica, mentre Freud aveva
scoperto la componente della sessualità nella eziologia delle nevrosi.
Non solo. Freud si accorge ben presto che il fenomeno del transfert,
incontrato nella pratica clinica, non ha nulla a che fare con la

310
suggestione ipnotica. Il paziente non chiede affatto di essere
suggestionato, ma di parlare dei proprio sintomi e del proprio disagio.
Ma che cos'è il transfert? In generale riguarda la relazione fra
l'analizzando e l'analista. La riuscita di una analisi dipende dalla
elaborazione che si avvia, per iniziativa dell'analizzando, attraverso il
metodo delle libere associazioni. L'elaborazione è la sola condizione
che consente di acquisire, in modo permanente, una trasformazione
psichica. Questa relazione, afferma Freud, può essere positiva o
negativa, e varia dall'innamoramento più appassionato e sensuale alle
espressioni estreme del risentimento, dell'esasperazione e dell'odio. Il
transfert consente che questo materiale venga trasferito e trasposto
nella relazione con l'analista. Esso prende il posto nel paziente del
desiderio di guarire, e finché questa relazione è affettuosa e misurata
rappresenta un sostegno per il comune lavoro analitico. Ne
riparleremo.
Secondo Freud, il metodo delle libere associazioni non può
mai fallire, ma ben diversa è la piega che può prendere l'elaborazione
teorica. Egli si accorge ad un certo punto che c'è differenza fra i
racconti dei "malati" e la realtà o, meglio, che c'è differenza fra quella
che possiamo chiamare la "realtà psichica" e la realtà effettiva, fra la
narrazione e la verità storica. L'analisi deve imparare a distinguere il
vero dal reale, lo scarto fra il lavoro della fantasia e la cosiddetta
oggettività.
La psicoanalisi ammette inoltre che possa esistere, ad es., una
fantasia che è vera ma non per questo è da ritenersi reale; ciò non
significa che sia falsa. Si potrebbe dire, facendo riferimento alla
clinica, che il fenomeno della allucinazione o del delirio producono
una realtà che certamente è immaginaria ma che ha una sua
'consistenza' assolutamente reale. Nella conduzione dell'analisi, lo
psicoanalista non ha da rettificare, correggere o variare nulla di ciò che
ode. Però "lo psicoanalista sa bene di lavorare con forze altamente
esplosive e di dover procedere con le stesse cautele e la stessa
coscienziosità del chimico" .
Nel 1896 Freud usò per la prima volta la parola 'psicoanalisi'.
La nuova tecnica (diversa dalla tecnica chiamata catartica dal suo amico
Breuer) anziché spingere il paziente a dire qualcosa su un determinato
tema, lo sollecita a lasciarsi andare alle 'libere associazioni', ossia a dire
tutto quello che gli passa per la mente, astenendosi da qualsiasi
rappresentazione cosciente. Si badi: l'associazione è libera nel senso

311
che è il paziente che 'sceglie' che cosa dire, ma in tal modo rimane
determinato da ciò che dice. In altre parole, il soggetto è sì libero di
dire, ma dicendo è soggetto (sub jectum) a ciò che ha detto. La
psicoanalisi rivela il paradosso del cogito cartesiano: come disse Lacan,
"penso dove non sono e sono dove non penso". Ossia fra coscienza e
soggetto dell'inconscio c'è una reciproca esclusione: i lapsus, le
dimenticanze, i sogni lo testimoniano quotidianamente.
Come è possibile forzare la barriera costituita dalla rimozione,
accedere all’inconscio, ricostruendo il passato rimosso e curare, ad es.,
una nevrosi? Secondo Freud la via di accesso è appunto data dalla
psicoanalisi. Essa non usa l’ipnosi (anche se Freud stesso in un primo
tempo la usò) perché conoscere la causa di un trauma non riesce
ancora a riequilibrare le forze psichiche in conflitto. Né tanto meno fa
uso di elettroterapia o dei vari farmaci della medicina ufficiale. Essa è
una cura con le parole (talking cure), che analizza i sogni e usa il
metodo delle libere associazioni. Questo metodo consiste nel mettere
il paziente in uno stato di rilassamento (da qui il divano su cui
l’analizzando si sdraia) in modo che egli possa abbandonarsi al corso
dei propri pensieri che vengono espressi ad alta voce. La clinica
freudiana, che nel divano trova il suo laboratorio, rimane una clinica
della parola, dell'ascolto, dell'udibile. Non ha nulla a che fare con la
clinica medica.
L’analizzando è invitato a dire tutto quello che gli passa per la
testa, senza nessuno scrupolo di ordine religioso, morale, sociale, e
senza omettere nulla, neppure quello che può sembrargli irrilevante,
ridicolo, sgradevole, proibito. Lo scopo è appunto quello di eliminare
il più possibile quelle resistenze, quelle selezioni più o meno
volontarie dei propri pensieri che sono messe in atto dal “paziente”.
Accade però che il fluire delle parole abbia a volte un blocco
improvviso: è qui che si avverte che c’è qualcosa che non va, che è
stato probabilmente rimosso, cioè tenuto lontano dalla coscienza per
evitare le ipotetiche sofferenze del ricordo.
Compito dell’analisi è ricostruire ciò che non va e scoprirne le
cause per poi riequilibrare le forze psichiche in conflitto. Con questo
metodo, la persona non è più il destinatario passivo della terapia
(come nella medicina comune in cui il medico dice e il paziente
ascolta e segue i suoi consigli) ma diventa essa stessa colei che si
“cura”, colui che vuole “guarire”. Freud evidenzia l’importante ruolo
rivestito dalla relazione affettiva che si instaura (anzi si deve
instaurare) tra l’analizzando e l’analista, ossia dal transfert (= trasferire

312
sull’analista stati d’animo ambivalenti di amore e di odio provati dal
“paziente”). Grazie al transfert, il “nevrotico” è indotto gradualmente
ad abbandonare le sue resistenze, ossia tutto quello che nei suoi
discorsi e nei suoi atti gli impediva di accedere a quei conflitti psichici
di cui non era conscio ma che producevano la sua nevrosi. Ciò
porterà sulla buona strada per la sua "guarigione".
Si ricordi a questo riguardo che le nevrosi sono forme di
“malattia” senza alterazioni anatomiche, in cui il soggetto mantiene il
contatto con la realtà : in altri termini, sa di avere qualcosa che non va
ma non riesce a capire il perché e, a parte qualche disturbo, per il
resto conduce una vita “normale”. Si tratta in genere di ansietà, fobie,
idee fisse, certe forme di asma e di allergia ecc. Le psicosi sono invece
"malattie" molto più gravi, in cui vi è una alterazione profonda della
personalità e l’individuo non ha più coscienza della gravità del suo
male per cui ha perso il contatto con la realtà. Si tratta di quei
fenomeni definiti in termini psichiatrici come la schizofrenia (che
porta dissociazione, autismo, allucinazioni, deliri) ecc.

Il sogno
L'autoanalisi di Freud è basata soprattutto sulla analisi dei suoi
sogni e la scoperta dei meccanismi di funzionamento del sogno è
annunciata nell'opera del 1899 (ma con data simbolica del 1900,
nuovo secolo, nuovo inizio) Die Traumdeutung, che si può tradurre sia
con L'interpretazione del sogno (al singolare, non al plurale!) sia con Il
significato del sogno.
Il sogno rappresenta per Freud “la via regia che porta alla
conoscenza dell’inconscio nella vita psichica”. Durante il sonno, la
censura, che durante il giorno era stata particolarmente attiva e non
aveva permesso la manifestazione di quei contenuti psichici ritenuti
inaccettabili per motivi morali o patologici, è indebolita e pertanto
l’inconscio, con i suoi desideri rimossi, preme con maggiore intensità
e produce tensioni. Il sogno allora, presentando all’immaginazione
come realizzati quei desideri inconsci, rende possibile lo scaricarsi
della tensione. In questo senso il sogno è definito da Freud come
l’appagamento di un desiderio. Tale realizzazione avviene però in maniera
allucinatoria, attraverso mascheramenti e deformazioni operati
appunto dalla censura (=meccanismo che blocca la realizzazione dei
desideri), la quale, si ricordi, pur affievolita, non è mai del tutto
scomparsa. Lo scopo di queste deformazioni o stranezze è quello di

313
rendere accettabile alla coscienza i contenuti rimossi. In ciò consiste il
lavoro onirico (=del sogno). Ogni sogno ha così un contenuto manifesto,
che è quello che viene ricordato al risveglio cioè il racconto che
possiamo fare di quello che abbiamo sognato; ed un contenuto latente
cioè nascosto, che rappresenta il vero significato del sogno. Per
interpretare correttamente un sogno, Freud ha scoperto cinque
“regole” che permettono, nel corso dell’analisi, di venire gradualmente
a capo del contenuto dei sogni. C'è anche da premettere che
l'interpretazione del sogno non è mai univoca ed esaustiva. Anzi, non
tutto è interpretabile, perciò il lavoro di interpretazione è, in un certo
senso, interminabile. Tale interpretazione non può inoltre avvenire
senza il racconto, il lavoro, l'elaborazione dello stesso sognatore. I
simboli nei sogni non significano mai la stessa cosa (ecco perché sono
assurdi i cosiddetti manuali con i vari simboli e i presunti significati
dei vari sogni): il simbolismo onirico non è mai solo una simbolica,
ovvero un codice di equivalenze di significati già prestabiliti. In altre
parole, ogni sogno è a sé, non esistono regole applicabili
indistintamente ad ogni persona.
Detto questo, la logica dei sogni è del tutto autonoma rispetto
alle solite categorie spazio-temporali della vita cosciente (ricordate? lo
dicevamo già a proposito delle caratteristiche dell’inconscio). Le
cinque regole elaborate da Freud sono: la condensazione (cioè la
tendenza ad esprimere in un unico elemento più elementi collegati tra
loro); lo spostamento (che consiste nel trasferimento di interesse da una
rappresentazione ad un’altra); la drammatizzazione o alterazione di
situazioni; la rappresentazione per opposto, in cui un elemento può
significare il suo opposto; la simbolizzazione, in cui un elemento sta al
posto di un altro. Tenendo dunque conto di tute queste regole,
l’analisi può arrivare a decifrare il sogno, e ciò è particolarmente utile
nel caso di “pazienti” nevrotici.

La prima topica
Per spiegare i fenomeni psichici bisogna tenere conto della
distinzione tra un livello conscio ed un livello inconscio ed attribuire a
quest’ultimo una azione causale sul primo. Da ciò deriva che i
moventi del comportamento umano, sia normale che patologico,
hanno la loro collocazione, più che nella coscienza, nelle profondità
dell’inconscio (raffigurato dall’immagine diventata famosa dell’iceberg: la
parte sommersa, la più grande è appunto l’inconscio; la parte che

314
emerge, più piccola, è il conscio; le onde che toccano la superficie
sono il preconscio). Esso è il processo primario, mentre il conscio è il
processo secondario. La psiche è dunque una realtà complessa che verrà
divisa da Freud in un primo tempo in tre zone o luoghi che
definiscono la prima topica (dal greco topoi, luoghi) descritta nel cap. 7°
della Interpretazione dei sogni. Essi sono il conscio, il preconscio e l’inconscio.
L’inconscio è una forza attiva, dotata di proprie finalità e operante con
una propria logica, diversa dalla logica della vita cosciente (che è
basata ad es. sul principio di causalità, di non contraddizione, sulle
sequenze temporali ordinate di passato, presente e futuro ecc.). Esso
comprende quegli elementi psichici stabilmente inconsci che sono
mantenuti tali da una forza specifica, la rimozione (è quel meccanismo
psichico che rimuove cioè allontana dalla coscienza le nostre
esperienze e i nostri pensieri, soprattutto se sono spiacevoli; è dunque
in pratica un meccanismo di difesa), e che possono tornare consci
solo con grande sforzo e con tecniche analitiche apposite, vista la
forza della resistenza e della censura. Si badi: allontanare dalla
coscienza non vuol dire però annullare del tutto il ricordo delle
esperienze traumatiche, ed è qui che possono sorgere problemi; se vi
è stata un’esperienza traumatica, essa può infatti, prima o poi,
“tornare a galla”, ed in modi più o meno spiacevoli (ad es. nel caso
dell’isteria i sintomi somatici della malattia sono appunto ciò che è
stato rimosso). Il preconscio comprende l’insieme dei ricordi,
rappresentazioni, desideri, insomma dei fattori psichici che, pur
essendo momentaneamente inconsci, possono, in virtù di un piccolo
sforzo, diventare consci. Il conscio si identifica con la nostra coscienza
o, meglio, con la nostra attività diurna e consapevole, ed è, per forza
di cose, una situazione alquanto fluida: quando mai, infatti, siamo
perfettamente consapevoli di tutto quello che facciamo e che
vogliamo? quando mai facciamo completa attenzione a ciò che
viviamo?

Principio di piacere e principio di realtà


La psicoanalisi, nata come terapia per malattie nervose, amplia
il suo terreno originario e si presenta gradualmente come una nuova
disciplina in grado di accedere ad una nuova conoscenza dell’uomo in
genere e non solo in condizioni patologiche. Alla base dei fenomeni
psichici vi è secondo Freud il principio del piacere che ha la funzione,
come suggerisce il nome, di evitare il dispiacere e la sofferenza. Esso
provvede a ciò scaricando le varie tensioni e ristabilendo uno stato di

315
equilibrio mediante l’appagamento dei desideri, anche se ciò non
avviene quasi mai per via diretta bensì per via allucinatoria, grazie a
soddisfazioni sostitutive rispetto a quelle reali. Questa situazione
genera inevitabilmente disillusione, in modo che viene a costituirsi e
ad operare un secondo principio, il principio di realtà, che cerca il
soddisfacimento in relazione alle condizioni imposte dalla realtà,
anche se questa si può presentare come spiacevole. Il principio del
piacere tende ad ottenere tutto immediatamente, mentre il principio di
realtà può differire la soddisfazione in vista di una meta possibile,
ritenuta più sicura e meno illusoria. Vi è qui la sublimazione, che
consiste in breve nel reagire positivamente ad una situazione
spiacevole, in modo da ottenere in qualche modo un soddisfacimento
anche se non è proprio quello che si voleva.
Tale dualismo verrà ulteriormente precisato e corretto in Al di
là del principio del piacere (1920), un saggio nel quale Freud, accanto alle
pulsioni (non istinti!) sessuali, chiamate Eros, riconosce l’esistenza di
una pulsione di morte, Thanatos, ossia di una tendenza distruttiva
inerente alla vita stessa. Egli giunge a questa conclusione
dall’osservazione dei comportamenti caratterizzati dalla coazione a
ripetere, quando il soggetto ripete ossessivamente operazioni anche
spiacevoli e dolorose che riflettono, in modo più o meno mascherato,
elementi di conflitti passati. Secondo Freud, tali comportamenti
mettono in discussione il primato che in genere si dà al principio del
piacere, ed introducono l’ipotesi di una seconda tendenza originaria, la
quale è portata verso la scarica totale delle pulsioni, ossia verso un
pulsione di morte. Quando le pulsioni distruttive o di morte sono
rivolte verso l'interno della persona, esse tendono all’autodistruzione,
quando sono rivolte verso l’esterno assumono la forma di pulsioni di
aggressione e di distruzione. Nella realtà psichica, le pulsioni si
presentano sovente come ambivalenti, caratterizzate cioè dalla
compresenza dei due principi di vita e di morte; anche la stessa
sessualità presenterebbe tale ambivalenza sotto forma di amore e di
aggressività.

La seconda topica
Nell’opera L’Io e l’Es del 1923 (quindi dopo oltre 20 anni dalla
prima topica), Freud individua tre istanze dell’apparato psichico che
non chiama più conscio, preconscio e inconscio come aveva fatto
nella prima topica, ma Io, Es e Super Io. Attenzione: non

316
corrispondono alle tre componenti della prima topica! Freud riprende
il termine Es, pronome neutro nella lingua tedesca, da un libro di
Georg Groddeck, il quale scrisse appunto un’opera intitolata Il libro
dell’Es (1923), per indicare il “serbatoio” dell’energia psichica,
l’insieme delle espressioni dinamiche inconsce delle pulsioni, le quali
sono in parte ereditarie ed innate e in parte rimosse e acquisite. L’Es è
retto dal principio del piacere, mentre l’Io è retto dal principio di realtà
e deve mediare tra le richieste pressanti dell’Es e quelle altrettanto
pressanti del Super Io (che è in breve la coscienza morale, la quale si
forma in seguito all’educazione e all’ambiente in cui si vive, e nasce al
termine del complesso edipico. Ma su ciò vedi prossimo paragrafo, la
parte dedicata alla sessualità). Il Super Io fa le funzioni del giudice e
del censore nei confronti dell’Io (nell’Io, la percezione inconscia delle
critiche del Super Io si esprime nel senso di colpa). Insomma, dice
Freud, “spinto così dall’Es, stretto dal Super Io, respinto dalla realtà, l’Io lotta
per venire a capo del suo compito economico di stabilire l’armonia tra le forze e gli
impulsi che agiscono in lui e su di lui; e noi comprendiamo perché tanto spesso non
ci è possibile reprimere l’esclamazione: la vita non è facile!” (cfr. Introduzione alla
psicoanalisi, 31^ lezione).

La sessualità
L’interpretazione dei sogni dei “pazienti” condusse Freud a
scorgere in essi la presenza di desideri sessuali risalenti all’infanzia. La
scoperta della sessualità infantile fu una delle cose più scioccanti della
psicoanalisi! Fino ad allora si identificava la sessualità con l’attività
genitale dell’adulto. Freud invece non restringe la sessualità a mera
genitalità bensì la intende come la ricerca del piacere corporeo e
dunque, da questo punto di vista, è presente in tutte le età della vita
umana; inoltre non ha più senso una distinzione netta tra
eterosessualità che rappresenterebbe la norma ed omosessualità che
rappresenterebbe la perversione. “Coloro che si definiscono
omosessuali sono gli invertiti consci e manifesti”. in realtà, impulsi
omosessuali o, meglio, bisessuali, sono presenti in tutti gli esseri
umani. Ciò non deve stupire, se si tiene conto che la sessualità è
finalizzata alla ricerca del piacere. Diciamo meglio: la sessualità
freudiana chiama in causa la parola, il modo di accorgersi di avere un
corpo, il provare desiderio, piacere o soddisfazione. Maschile e
femminile riguardano la vita psichica e non il dato biologico. La
sessualità non è considerata da Freud come un fatto appartenente alla
sola natura dato che l'uomo è dotato di parola: non c'è nessun atto

317
umano, anche in apparenza quello più "istintivo", che possa fare a
meno di passare da quella struttura simbolica che è il linguaggio.
Il bambino è dunque un essere che vive una sua vita sessuale
completa. Freud lo definisce addirittura come perverso polimorfo nel
senso che il bambino ricerca forme di godimento senza tenere in
alcun conto del fine riproduttivo della sessualità (ecco la perversione,
che non ha dunque nessuna connotazione morale negativa), e ricerca
inoltre il piacere attraverso i vari organi corporei (ecco il polimorfismo),
nelle diverse zone erogene (parti del corpo che sono fonti di piacere).
Freud distingue nello sviluppo della sessualità cinque fasi, ognuna
delle quali è caratterizzata dall’organo che vi è privilegiato nella ricerca
del piacere.
La prima è la fase orale, che va dalla nascita ai due anni circa ed
in essa la libido (così Freud chiama l’energia sessuale) si concentra nella
bocca (la bocca è la prima zona erogena) : il bambino prova piacere
portando qualunque cosa alla bocca, dal seno della mamma agli
oggetti che trova a parti del proprio corpo (dito, piede ecc.). Tale
modo di fare è anche il suo primo modo di conoscere il mondo : in
altri termini, portando qualcosa alla bocca il bambino comincia a
capire che cos’è, lo distingue dalle altre cose ecc.
La seconda fase è chiamata fase anale, va dai due ai quattro anni
circa, e durante essa il bambino prova piacere nel trattenere e nel
rilasciare gli sfinteri anali: è collegata agli inviti materni o famigliari ad
espellere o a ritenere le feci (“l’educazione al vasino”), che assumono
quindi carattere ambivalente, buono e cattivo al tempo stesso. E’
anche il periodo del no, in cui il bambino inizia ad essere autonomo e
vuole appropriarsi sempre di più della sua raggiunta autonomia.
La terza fase è ancora più importante e viene chiamata fase
fallica (va dai quattro ai sei, sette anni circa) perché indica la scoperta
del proprio organo genitale e la sua diversità da quello dalla sorellina o
dal fratellino. In questa fase vi è la paura da parte del maschietto di
perdere il proprio organo (complesso di castrazione: poiché il maschietto
ha qualcosa più visibile e la bambina no, il maschietto crede che la
bambina sia stata punita col taglio del suo organo sessuale e teme
anche lui di fare la stessa fine) e l’invidia del pene da parte della
femminuccia, che non ha quella 'cosa' che il maschietto ha. Durante
questa fase nasce il complesso d’Edipo, che indica la normale crisi
emotiva, in genere a livello di fantasie più o meno inconsce, provocata
dai desideri sessuali del maschietto verso la madre e la gelosia nei

318
confronti del padre; analogamente succede nella bambina (è il periodo
in cui, in altre parole, il bambino vuole 'sposare' la mamma e la
bambina vuole avere un figlio dal papà). Questo periodo è superato in
genere col processo di identificazione nel genitore del proprio sesso, che
è un processo importantissimo: visto che il bambino si rende conto di
non potere sposare la mamma, che è già sposata col papà, allora
impara ad assumere i vari atteggiamenti tipici del maschio adulto nella
società in cui vive, identificandosi appunto nella figura del padre;
analogamente succede con la bambina, che imparerà a diventare una
“piccola donna” per far piacere al papà. E’ proprio in questa fase che
si impara a diventare maschi o femmine, nel senso che si identifica il
proprio sesso biologico con le tendenze sessuali psicologiche e con le
tendenze sessuali considerate “normali”, mentre prima si era ancora
“bisessuali”. Ecco perché, secondo Freud, se il complesso edipico
non viene superato normalmente, possiamo, nell’analisi, far risalire a
questo periodo le origini di tendenze omosessuali (ad es. in
comportamenti ambigui da parte dei genitori nei confronti del
bambino, oppure nel rifiuto da parte dei genitori del bambino perché
gli si preferiva una bambina ecc.) e addirittura anche i comportamenti
delinquenziali: in quest’ultimo caso, ciò accade perché la fase fallica
segna anche l’inizio della socializzazione e della formazione della
coscienza morale, con la graduale introiezione delle norme morali
(nasce il Super Io, cioè il bambino impara che cos’è giusto e che cos’è
sbagliato e lo interiorizza), e quindi, se al bambino non viene
insegnato chiaramente che cosa è bene e che cosa è male, può credere
che sia bene fare il male e viceversa. Il che non fa che ribadire
l’importanza fondamentale dell’educazione famigliare nei primi anni
di vita del bambino!
Dopo queste prime tre fasi, caratteristiche della sessualità
infantile, vi è una quarta fase, detta fase di latenza (latenza perché la
sessualità è in questo periodo nascosta, latente, rispetto al resto), che
corrisponde all’incirca all’ingresso del bambino nel mondo della
scuola (dai sei agli undici anni). Quest’epoca segna una relativa
“tregua” delle pulsioni sessuali perché adesso il bambino entra
nell’ordine sociale e culturale del suo ambiente e quindi i suoi interessi
principali sono ora focalizzati a vivere bene questo periodo: il
bambino ci tiene ad andare a scuola, a diventare adulto, ad essere
all’altezza di quello che gli altri si aspettano da lui (ecco perché un
insuccesso scolastico è a volte così condizionante!) ecc.

319
Infine vi è la fase genitale vera e propria, che, come si vede, non
è che l’ultima nello sviluppo della sessualità e corrisponde all’epoca
della pubertà e della adolescenza, durante la quale si forma in maniera
definitiva la propria personalità sessuale (con tutti i fenomeni
connessi: la crescita, la prima mestruazione e la prima polluzione, lo
sviluppo dei caratteri sessuali secondari come peli, barba, seno ecc.)
che preluderà al “normale” rapporto adulto eterosessuale.

La religione
Gli scritti che Freud dedicò più specificamente all’analisi della
religione sono Totem e tabù e L’avvenire di un’illusione. Nel primo di
questi descrive il mito del padre (che non è il genitore) e del parricidio
mettendolo in relazione con l'ipotesi sull'origine della religione: nei
tempi antichi vi fu un solo padre prepotente, geloso, che teneva per sé
tutte le femmine e che scacciava i maschi man mano che crescevano.
Un giorno i fratelli scacciati si riunirono, uccisero il padre e lo
divorarono. Il padre violento era stato senza dubbio – dice Freud – il
modello nello stesso tempo invidiato e temuto da ogni membro della
schiera dei maschi scacciati. A questo punto, essi realizzarono,
divorando il padre, l’identificazione con lui, e si appropriarono di una
parte della sua forza. Il pasto totemico, in altre parole, non sarebbe
altro che la ripetizione e la commemorazione di questa primitiva
azione criminale, la quale segnò l’inizio delle organizzazioni morali e
sociali e appunto della religione. Il totemismo può essere considerato,
secondo Freud, come un primo tentativo di religione. Questo deriva
dal tabù che proteggeva la vita del totem. Infatti la religione totemica
nacque probabilmente dal senso di colpa dei figli, come un tentativo
di attenuare questa sensazione e di riconciliarsi quindi il padre offeso
con la cosiddetta “obbedienza retrospettiva”. Nello stesso tempo, la
religione del totem serve a ricordare il trionfo sul padre, la
soddisfazione così raggiunta è la causa della festa in memoriam espressa
dal pasto totemico. Garantendosi reciprocamente la vita, i fratelli
affermano che nessuno di loro può venir trattato da un altro fratello
come fu trattato il padre. Al divieto di uccidere il totem si unisce il
divieto del fratricidio ovvero della regola aurea: “non ammazzare”. La
società poggiava allora sulla correità nel delitto perpetrato insieme, la
religione sulla coscienza del rimorso e della colpa, la moralità sulle
necessità proprie di questa società e sulle pene imposte dal senso di
colpa. "Come interviene la divinità?" si chiede ora Freud. Nel
frattempo, egli dice, è affiorata, non si sa come, non si sa dove, l’idea di

320
Dio. Dio si configurerebbe per ciascuno di noi secondo l’immagine
del padre, e quindi il rapporto personale con Dio dipenderebbe dal
proprio rapporto con il padre carnale, il che vorrebbe dire, secondo
Freud, che Dio non è altro, in ultima analisi, che un padre a livello
superiore. Sarebbe un’ipotesi ovvia – dice Freud – che lo stesso Dio
fosse l’anima totemica e che si fosse sviluppato dall’animale in una
fase successiva del sentimento religioso. Così il totem potrebbe essere
la prima forma di sostituto paterno, e la figura di Dio invece una
forma successiva, in cui il padre ha riacquistato la sua figura umana.
L’elevazione del padre a Dio era un tentativo di espiazione molto più
serio di quanto fosse stato, in origine, il patto col totem. Nel "mito
cristiano" – sostiene Freud – il peccato originale è indubbiamente
un’offesa a Dio padre. Ora, se il Cristo ha liberato gli uomini dal
peccato sacrificando la sua stessa vita, questo “ci costringe” a
concludere che questa colpa fu un assassinio. Infatti, se il sacrificio
della propria vita conduce alla riconciliazione con Dio padre, il
crimine da espiare non può essere che l’uccisione del padre. In tal
modo l’umanità confesserebbe, nella dottrina cristiana, l’azione
colpevole commessa nella notte dei tempi. Naturalmente questa teoria
è possibile solo con l’ipotesi di una psiche collettiva in cui i processi
mentali si compiono come nella vita mentale dell’individuo. In
particolare, dice Freud, faremmo sopravvivere per millenni il senso di
colpa provocato da un’azione, e lo faremmo rimanere operante su
generazioni e generazioni che di questa azione non potevano saper
nulla.
In L’avvenire di un’illusione Freud estende la concezione
psicoanalitica, limitata nell’opera precedente alle forme primitive, alle
religioni più evolute considerandole da un punto di vista generale.
L’opera rappresenta, nello stesso tempo, una sorta di credo di Freud,
un credo ateo, solo fiducioso nelle possibilità della ragione umana. La
vita è dura da sopportare con le privazioni derivanti dalla civiltà e
dalla natura. L’uomo, per proteggersi dalle forze naturali, le umanizza
e dà loro il carattere di padre, ne fa degli dèi. Gli dèi hanno una
triplice funzione: esorcizzare i terrori della natura, riconciliare con la
crudeltà del fato, specialmente quale si manifesta nella morte, risarcire
le sofferenze e le sofferenze imposte all’uomo dalla vita civile in
comune. Viene in tal modo costituito un tesoro di rappresentazioni
che proteggono l’uomo contro i pericoli naturali e contro le offese
della vita civile. Si tratta in breve, di questo: la vita in questo mondo
mira probabilmente ad un perfezionamento dell’essere umano.

321
Oggetto di questa elevazione deve essere la parte spirituale dell’uomo,
l’anima che, “lenta e riluttante, nel corso dei tempi, si è separata dal
corpo”. Tutto ciò che accade a questo mondo è sotto gli occhi di una
benevola Provvidenza; la morte stessa non è un annientamento, ma
l’inizio di un nuovo modo di esistenza, alla fine tutto il bene trova la
sua ricompensa se non già in questa vita, nelle ulteriori esistenze che
cominciano dopo la morte. “è la saggezza superiore, che governa
questo corso di eventi, l’infinita bontà che in esso si esprime, la
giustizia, che in esso si attua, costituiscono gli attributi degli esseri
divini che hanno creato sia noi che l’universo nel suo insieme; o
piuttosto dell’unico essere divino in cui, nella nostra civiltà, si sono
condensati tutti gli dèi del passato”. Ma qual è il significato
psicologico delle rappresentazioni religiose? Secondo Freud, esse
sono tutte illusioni, nel senso di appagamenti dei desideri più antichi,
più forti, più pressanti dell’umanità. Mediante il benigno governo della
Provvidenza, l’angoscia di fronte ai pericoli della vita viene calmata,
l’istituzione di un ordine morale universale assicura l’appagamento
dell’esigenza di giustizia, il prolungarsi dell’esistenza terrena mediante
una vita futura istituisce la struttura spazio-temporale dove questi
appagamenti di desideri trovano il proprio compimento. Inoltre
vengono date delle risposte agli enigmatici interrogativi che
scaturiscono dall’umana brama di sapere, che contribuiscono a dare
un enorme sollievo a tutte le nostre esigenze insoddisfatte. Dicendo
che la religione è un’illusione, specifica Freud, non intendo dire che
essa sia necessariamente falsa. Piuttosto significa che tutte le credenze
religiose sono indimostrabili e nessuno può essere costretto a credere;
del resto - conclude - come sono indimostrabili, sono anche
inconfutabili, e sappiamo ancora troppo poco a loro riguardo.
Freud dice di non aderire alla religione non tanto perché
sarebbe una illusione, quanto perché essa non avrebbe espletato il suo
compito. La religione, egli dice, ha reso alla civiltà umana grandi
servizi, ma non è riuscita a rendere felici la maggioranza degli uomini:
tuttora vi è un numero spaventosamente grande di uomini che è
insoddisfatto della civiltà e che la sente come un giogo che occorre
scrollarsi di dosso. È quindi dubbio che al tempo del dominio delle
dottrine religiose gli uomini furono nel complesso più felici di oggi;
certo, dice Freud, non furono più morali. Le religioni hanno ormai
fatto il loro tempo. Se la religione può definirsi come la “nevrosi
ossessiva universale dell’umanità”, è da prevedere che l’abbandono
della religione deve avere luogo con l’inesorabilità fatale di un

322
processo di crescita, e che ora ci troviamo proprio in pieno in questa
fase di sviluppo. L’uomo può quindi fare a meno della religione.
Distogliendo in tal modo dall’aldilà le sue speranze e concentrando
sulla vita terrena tutte le forze così rese disponibili, l’uomo
probabilmente riuscirà a rendere sopportabile la vita per tutti e la
civiltà non sarà più oppressiva per nessuno.

Il disagio della civiltà


In un saggio del 1929, Il disagio della civiltà, Freud ritiene che la
civiltà sia una tappa necessaria nel divenire dell’umanità ma che essa
comporti inevitabilmente un certo grado di infelicità. Essa infatti
obbliga l’uomo ad inibire molti desideri e pulsioni (in tedesco la parola
“pulsione” è Trieb, che è diversa dall’istinto ereditario e si riferisce a
processi psichici dinamici) e a rinunciare al soddisfacimento di molte
esigenze, a meno che non le possa deviare verso delle mete
socialmente e moralmente accettabili (ecco la sublimazione, a cui
abbiamo già accennato). Le ragioni che inducono una società a
reprimere la libido sono chiare: da un lato essa deve neutralizzare una
forza che opera in modo individualistico e amorale (si ricordi l’Es, il
principio del piacere ecc.), minando i presupposti stessi della
convivenza civile (ecco il perché del tabù dell’incesto!); dall’altro la
società non può fare a meno delle forze e dell’energia dei suoi membri
e dunque deve obbligare ciascuno di essi ad “investire” l’energia
libidica (che altrimenti ognuno di noi investirebbe in altri passatempi
molto più piacevoli : ecco il perché dei vari divieti e regole sessuali in
tutte le società) in prestazioni di tipo socialmente accettabile. Se del
resto fosse permesso all’uomo di dare libero sfogo ai suoi desideri e
istinti, la società decadrebbe e … a quest’ora non ci sarebbe più
nessuno vivo! Vi è quindi la necessità di reprimere i comportamenti
istintivi e senza freni, e la civiltà lo fa attraverso norme, divieti e
permessi, metodi educativi all’interno della famiglia e poi nella scuola,
nella società ecc. Però, visto che è impensabile il dominio assoluto del
Super Io sull’Es, allora un certo grado di disagio, di infelicità, di
sofferenza, di nevrosi è inevitabilmente connesso con la civiltà stessa.
insomma, l’uomo non può sopravvivere senza civiltà ma nella civiltà
non potrà mai vivere del tutto felice. L’uomo potrà trovare, tra le
pressioni delle varie passioni e la necessità di costringerle, soltanto una
tregua ma non la serenità completa.

323
Conclusione
"Wo Es war, soll Ich werden. Es ist Kulturarbeit ..." sono le ultime
parole della 31^ lezione di Introduzione alla psicoanalisi (2^ serie di
lezioni, 1932). Le possiamo tradurre letteralmente ad es. "dove Es era,
deve Io diventare. E' un lavoro di civiltà...". Ma che cosa significano?
Capire "dove Es era" è un lavoro di reperimento: l'analista, dice
Freud, deve scoprire o, per essere più esatti, costruire, il materiale
dimenticato a partire dalle tracce che di esso sono rimaste". Questo
materiale sfugge alle categorie solite di vero-falso, buono-cattivo,
normale-patologico. Ciò che sembra scartabile, può risultare
essenziale; ciò che sembra falso può enunciare un altro volto della
verità. L'interpretazione psicoanalitica è diversa da quella filosofica o
medica. "Deve Io diventare. E' un'opera di civiltà ...". La posta in gioco di
una analisi è anche un'opera di civiltà nel senso che l'esperienza
analitica non riguarda soltanto un beneficio personale, "stare bene",
"sentirsi meglio"; non partecipa a quel "mercato del benessere" in cui
troviamo di tutto: maghi, psicologi, sette pseudo religiose e simili.
Scrive Freud: "l'uso terapeutico dell'analisi è soltanto una delle sue
applicazioni, e l'avvenire dimostrerà forse che non è la più
importante". "Accanto ai nevrotici che dell'analisi hanno bisogno, vi
sarà una seconda categoria di persone che la intraprenderanno per
motivi intellettuali, lieti di poter in tal modo elevare le loro capacità di
lavoro". Se l'opera freudiana vuole essere un'opera di civiltà, essa non
vuole però essere una critica o una terapia della civiltà: i sentieri della
psicoanalisi e della psicoterapia divergono.

NOTE BIOGRAFICHE
Sigmund Freud nacque a Freiberg, in Moravia, allora sotto
l’impero absburgico, il 6 Maggio 1856, da una famiglia di ebrei
commercianti che, qualche anno dopo, si stabilì definitivamente a
Vienna. Laureatosi in medicina nel 1881, Freud lavorò per un po’ nel
laboratorio di neurofisiologia diretto da Brücke. Nel 1882, per ragioni
economiche, abbandonò la ricerca scientifica e si dedicò alla
professione medica, specializzandosi in neurologia. Nel 1885 ottenne
una borsa di studio e andò a Parigi, alla scuola di neuropatologia della
Salpetrière, diretta da Charcot, che lasciò una profonda impressione
sul giovane studioso (anche se Freud non accettò le conclusioni di
Charcot, il quale considerava l’isteria una malattia dovuta a cause

324
organiche e la paragonava ad uno stato di ipnosi; fece però sua una
osservazione che per Charcot era marginale : la connessione tra isteria
e sessualità). Nel 1886 si sposò con Martha Bernays, da cui ebbe sei
figli (la più famosa tra loro fu Anna Freud, che continuò le ricerca del
padre nell’ambito della psicoanalisi infantile). Nel 1889 Freud passò
un periodo di studio a Nancy, dove studiò l’ipnosi presso una scuola
in aperto contrasto con Charcot. Tornato a Vienna, si dedicò
completamente alla professione di neurologo. Nel frattempo strinse
amicizia con Josef Breuer, con cui pubblicò nel 1895 gli Studi sull’isteria
e con cui iniziò l’avventura e la scoperta della psicoanalisi.
Nel 1899 (ma con data simbolica del 1900) Freud pubblicò
L’interpretazione dei sogni (Die Traumdeutung), opera fondamentale che
segnava l’inizio di una nuova epoca del pensiero occidentale! da allora
in poi Freud si dedicò completamente ad approfondire i fondamenti
della sua scoperta, che ebbe, all’inizio, moltissimi denigratori e critici
(soprattutto nei confronti della teoria freudiana della sessualità
infantile). Nel 1908 vi fu il primo Congresso della Società
psicoanalitica Internazionale, che vide presenti, tra gli altri, Jung (il
quale si staccherà poi da Freud, così come farà Adler, e darà origine
ad una forma diversa di psicologia del profondo, la psicologia
analitica; mentre Adler chiamerà la propria teoria psicologia
individuale).
Nel 1933 a Berlino i nazisti bruciarono, in un rogo tristemente
famoso, anche le opere dell’ebreo Freud. Egli cercò di resistere il più
possibile all’avanzare della barbarie nazista ma nel 1938 Freud fu
costretto ad andarsene e si trasferì a Londra. Lì vivrà ancora un anno
e poi morirà, per un cancro alla mascella, il 23 Settembre 1939.
Le opere complete di Freud sono pubblicate in italiano dalle
edizioni Bollati Boringhieri o in edizione economica dalla Newton
Compton.
G. Ricci, Sigmund Freud, Bruno Mondadori
G. Ricci, Le città di Freud, Jaca Book
S. Vegetti Finzi, Freud e la nascita della psicoanalisi, Oscar
Mondadori
L. Flem, La vita quotidiana di Freud e dei suoi pazienti, BUR
Rizzoli
V. Cappelletti, Introduzione a Freud, “i filosofi”, Laterza

325
AUGUSTE COMTE

(1798-1857)

Caratteri generali del positivismo


Se, in senso stretto, con il termine Positivismo si è soliti
designare la teoria di Auguste Comte e della sua scuola, in senso
ampio, il termine viene impiegato per indicare quella corrente di
pensiero sviluppatasi in particolare nella seconda metà del 1800 e
caratterizzata dalla posizione privilegiata attribuita alle scienze naturali,
considerate l’unica fonte legittima della conoscenza ed il modello a cui
tutte le scienze devono ispirarsi per essere considerate degne di tale
nome. Il termine positivo comparve per la prima volta nel Catechismo
degli industriali (1822) di Saint Simon, ma fu divulgato e approfondito
da Comte, che lo applicò alla propria dottrina, consacrandone l’uso
nella terminologia filosofica. Tale termine viene assunto in due
significati fondamentali: 1) positivo è anzitutto ciò che è reale, effettivo,
sperimentale, in opposizione a ciò che è astratto, chimerico,
metafisico; 2) positivo è anche ciò che appare fecondo, pratico, efficace,
in opposizione a ciò che inutile ed ozioso.
Il Positivismo ha finito per rappresentare la forma mentis di
tutta un’epoca. Senza riferimento all’atmosfera positivistica, non si
comprenderebbero decisivi fenomeni letterari come il Realismo, il
Naturalismo e il Verismo, e non si intenderebbe il mutato modo di
praticare la critica storica e letteraria, o i nuovi indirizzi pedagogici,
incentrati sul programma di una scuola laica e di uno studio scientifico
dei problemi educativi. Nonostante questa profonda incidenza
culturale, il Positivismo è alla fine parso a molti come un nuovo
dogmatismo, avente la pretesa di racchiudere l’uomo negli schemi
riduttivi della sola scienza; è anzi apparso come una nuova metafisica
della scienza (Abbagnano). Tutto ciò porterà ad una massiccia reazione

326
antipositivistica, che caratterizzerà la filosofia della fine dell’Ottocento
e degli inizi del Novecento. Controffensiva a cui ha contribuito
l’espansione stessa delle scienze, che si sono sviluppate in direzioni
contrastanti dal quadro epistemologico presupposto dal Positivismo.
Il Positivismo ebbe i suoi rappresentanti più noti in Francia
con Comte; in Inghilterra con Stuart Mill e Spencer; in Germania con
Moleschott e Haeckel; in Italia con Ardigò. In ogni caso, esistono nel
Positivismo dei tratti comuni che sono i seguenti : 1) è rivendicato il
primato della scienza : conosciamo solo quello che ci fanno conoscere
le scienze, e l’unico metodo di conoscenza è quello delle scienze
naturali; 2) il metodo delle scienze naturali (reperimento delle leggi
causali e loro controllo sui fatti) vale anche per lo studio della società;
3) per questo la sociologia (scienza dei fatti naturali come sono i
rapporti umani e sociali) è un frutto del programma filosofico
positivistico; 4) la scienza viene esaltata come l’unico mezzo in grado
di risolvere tutti i problemi umani e sociali che, fino ad allora, avevano
tormentato l’umanità; 5) di conseguenza l’era del Positivismo è un’era
pervasa da un ottimismo generale, che scaturisce dalla certezza di un
progresso inarrestabile verso condizioni di benessere generalizzato in
una società pacifica e pervasa da umana solidarietà; 6) la positività
della scienza conduce la mentalità positivistica a combattere le
concezioni idealistiche e spiritualistiche della realtà: concezioni che i
Positivisti bollavano come metafisiche; 7) la filosofia ha la funzione di
riunire e coordinare i risultati delle singole scienze, in modo da
realizzare una conoscenza unificata e generalissima; in ogni caso, essa
si costituisce come studio delle “generalità scientifiche”.

La legge dei tre stati


Auguste Comte fu il fondatore del Positivismo francese. Egli
stesso afferma che fin dall’età di 14 anni aveva provato “il bisogno
fondamentale d’una rigenerazione universale, ad un tempo politica e
filosofica”; e questo è stata la molla di tutta la sua attività di scrittore,
portandolo a considerare la scienza come la soluzione definitiva di
tutti i problemi del genere umano. Fu nel 1822 che Comte ebbe
chiaro – così egli dice – il suo progetto filosofico, “sotto la costante
ispirazione della mia grande legge relativa all’insieme dell’evoluzione
umana, individuale e collettiva”, e cioè la legge dei tre stati. Nel Corso di
filosofia positiva (1830-42) scrive : “Questa legge consiste in ciò : che ciascuna
delle nostre concezioni principali, ciascun ramo delle nostre conoscenze passa
necessariamente per tre stati teorici differenti : lo stato teologico o fittizio; lo stato

327
metafisico o astratto; lo stato scientifico o positivo…Il primo è un punto di
partenza necessario all’intelligenza umana; il terzo è il suo stato fisso e definitivo;
il secondo è unicamente destinato a servire come tappa di transizione”.
Nello stato teologico i fenomeni vengono visti come “prodotti
dall’azione diretta e continua di agenti soprannaturali, più o meno
numerosi”. Nello stato metafisico i fenomeni vengono spiegati ad opera
di essenze, di idee o forze astratte. Soltanto nello stato positivo lo spirito
umano, riconoscendo l’impossibilità di ottenere conoscenze assolute,
rinuncia a domandarsi quale sia l’origine e il destino dell’universo,
quali siano le cause intime dei fenomeni, per cercare soltanto di
scoprire, con l’uso ben combinato del ragionamento e
dell’osservazione, le loro leggi effettive, cioè le loro relazioni
invariabili di successione e di somiglianza. Si badi : Comte non è un
empirista che badi solo ai “dati di fatto” ed escluda le teorie. La vera
scienza, egli dice, consiste di leggi e non già di fatti, sebbene questi
ultimi siano indispensabili al loro stabilirsi e alla loro sanzione. La
scienza, in altri termini, consiste di leggi controllate sui fatti. E tale
controllo sui fatti esclude dalla scienza ogni ricerca di essenze e cause
ultime metafisiche.
Tale è dunque la legge dei tre stati, la quale appare a Comte
evidente di per sé e trova conferma nella stessa storia umana e dei
singoli : “Chi di noi – dice Comte – non ricorda che è stato successivamente,
rispetto alle nozioni più importanti, teologo nella sua infanzia, metafisico nella sua
giovinezza e fisico nella sua virilità ?”.

L’enciclopedia delle scienze


Secondo Comte, sebbene varie branche della conoscenza
umana siano ormai entrate (nella sua epoca) nella fase positiva, la
totalità della cultura e quindi della organizzazione sociale che su di
essa si fonda, non è ancora permeata dallo spirito positivo. La
mancata penetrazione dello spirito positivo ha prodotto la crisi
intellettuale, morale e politica della società (a lui contemporanea). Se
infatti una delle tre filosofie possibili – la teologica, l metafisica o la
positiva – avesse ottenuto una preponderanza universale completa, ci
sarebbe anche un determinato ordine sociale. Ma poiché quelle tre
filosofie continuano invece a coesistere, ne risulta una situazione
incompatibile con un’effettiva organizzazione sociale. Comte si
propone così sia di portare a termine l’opera iniziata con Bacon,
Descartes, Galilei, sia di costruire un sistema di idee generali che deve

328
definitivamente prevalere nella specie umana, ponendo così fine alla
crisi che tormenta tutti i popoli. Tale sistema di idee generali o filosofia
positiva presuppone però che sia anzitutto determinato il compito
particolare di ciascuna scienza e l’ordine complessivo di tutte le
scienze: presuppone una enciclopedia delle scienze che, muovendo da una
classificazione sistematica, fornisca il prospetto generale di tutte le
conoscenze scientifiche.
Le scienze si possono classificare considerando in primo
luogo il loro grado di semplicità o il grado di generalità dei fenomeni
che costituiscono il loro oggetto. I fenomeni più semplici sono infatti
anche i più generali; ed i fenomeni semplici e generali sono anche
quelli più facilmente osservabili. Perciò, graduando le scienze secondo
l’ordine della semplicità e generalità decrescenti, si viene a riprodurre,
nella gerarchia così formata, l’ordine di successione con cui le scienze
sono entrate nella fase positiva. Ad es. l’astronomia uscì dalla fase
metafisica con Copernico, Keplero e Galilei; la fisica raggiunse lo
stato positivo con Huygens, Pascal, Papin e Newton; la chimica grazie
a Lavoisier; la biologia con Bichat e Blainville ecc.
L’enciclopedia delle scienze sarà dunque costituita da queste
cinque scienze fondamentali: astronomia, fisica, chimica, biologia e sociologia.
Della gerarchia delle scienze non fanno parte, per Comte, né la
matematica né la psicologia, ma per motivi diversi : la matematica perché è
alla base di tutte le altre scienze; la psicologia perché non è una scienza.
Comte ritiene infatti che la cosiddetta “osservazione interiore” sia
impossibile. I fenomeni spirituali non possono essere osservati
nell’atto stesso in cui si verificano : l’individuo pensante non può
dividersi in due, di cui l’uno ragioni mentre l’altro lo guardi a
ragionare. Lo studio dei fenomeni psicologici non può consistere che
nella determinazione delle condizioni organiche da cui dipendono, ed
allora riguarda l’anatomia e la fisiologia; da un punto di vista dinamico
se ne occupa invece la sociologia.

La sociologia
Ogni scienza ha la sua autonomia e le sue leggi. La sociologia
non può ridursi né alla biologia né alla psicologia. La società ha una
realtà naturale ed originaria : gli uomini vivono in società perché
questo fa parte della loro natura sociale. Essi sono sociali fin
dall’inizio e non c’è bisogno di nessun contratto sociale, come
vorrebbe ad esempio Rousseau, per associarli. Ora, solamente una

329
sociologia scientifica potrà essere la sola “base solida per la
riorganizzazione sociale, che deve chiudere lo stato di crisi nel quale si trovano da
lungo tempo le nazioni più civili”. Non si possono risolvere crisi sociali e
politiche senza la debita conoscenza dei fatti sociali e politici. La
conoscenza è fatta di leggi provate sui fatti. Occorre così trovare le
leggi della società se vogliamo risolverne le crisi e prevedere lo
sviluppo futuro della convivenza sociale. Ecco perché Comte
considera un compito estremamente urgente lo sviluppo della sociologia
o della fisica sociale.
Comte divide la sociologia in due branche che chiama la statica
sociale e la dinamica o fisica sociale.
La statica sociale si basa sul concetto di ordine e studia le
condizioni di esistenza comuni a tutte le società di tutti i tempi. Tali
condizioni sono la socievolezza fondamentale dell’uomo, la famiglia,
la divisione nel lavoro che si concilia però con la “cooperazione degli
sforzi”. La legge fondamentale della statica sociale è la connessione
trai diversi aspetti della vita sociale così che, per es., una costituzione
politica, un particolare regime politico non è indipendente da fattori
economici e/o culturali, e può diventare inadeguato in una fase
diversa o successiva.
La dinamica sociale si basa sul concetto di progresso e studia le
leggi di sviluppo della società. Il progresso, secondo Comte, realizza
un perfezionamento incessante, per quanto non illimitato, del genere
umano. Tale perfezionamento segna “la preponderanza crescente
delle tendenze più nobili della nostra natura”. Esso comunque non
implica che una qualsiasi fase della storia umana sia imperfetta o
inferiore alle altre (ad es. Comte rivaluta il Medioevo). Allo stato o
stadio teologico corrisponde per Comte la supremazia del potere
militare (Feudalesimo); allo stadio metafisico corrisponde l’epoca delle
rivoluzioni (che comincia con la Riforma protestante e termina con la
Rivoluzione francese); allo stadio positivo corrisponde la società
industriale.
Quando la sociologia raggiungerà la sua perfezione scientifica,
sarà in grado di far uscire l’umanità dalla crisi che la travaglia e di
elaborare la riorganizzazione spirituale delle società moderne. Comte
vorrebbe favorire l’avvento di un nuovo tipo di società che egli
chiamò sociocrazia, cioè un regime fondato sulla sociologia, analogo e
corrispondente all’antica teocrazia, che era fondata sulla teologia. E
come il Medioevo era riuscito a costruire la propria unità intorno al

330
nucleo centrale della religione cristiana, così l’età positiva dovrà
elaborare anch’essa i suoi “dogmi” in concordanza col livello
raggiunto delle conoscenze scientifiche.

La religione dell’umanità
La religione dell’umanità proposta a questo riguardo da
Comte, pur nella sua ingenuità e irrealizzabilità pratica, si basa sulla
consapevolezza che una qualunque società non può essere costruita
sulla base dei soli rapporti tecnico-scientifici, che non penetrano nella
sfera dei sentimenti, delle emozioni, delle passioni, bensì richiede
l’esistenza di un corpo di dottrine morali e religiose sulle quali possa
radicarsi l’obbedienza dei cittadini, la cui piena adesione a quella
religione civile deve saper trasformare il rapporto di passiva
subordinazione del suddito nell’attiva partecipazione del cittadino.
Comte stesso avrebbe dovuto e voluto essere il capo spirituale di
quella nuova religione che avrebbe dovuto soppiantare ogni altro
culto. Nel Sistema di politica positiva o Trattato di sociologia che
istituisce la religione dell’umanità (1851-54), egli delinea il nuovo
credo religioso. Al posto di Dio egli pone l’Umanità, che è “l’insieme
degli esseri passati, futuri e presenti che concorrono liberamente a
perfezionare l’ordine universale”. Accanto all’Umanità, chiamata
anche Grande Essere, egli pone come oggetto di adorazione il Grande
Feticcio, cioè la terra, ed il Grande Mezzo, cioè lo spazio. Insieme
formano la trinità positivista. Comte delinea anche un nuovo
calendario, un calendario positivista, ed inoltre nuovi riti e un nuovo
segno della croce; l’angelo custode sarà la donna, in particolare
Clotilde de Vaux, donna amata ed idealizzata da Comte. Infine la
morale positivista sarà fondata sull’altruismo: vivere per gli altri sarà la
sua massima fondamentale.

331
NOTE BIOBIBLIOGRAFICHE

Auguste Comte nacque a Montpellier (Francia) nel 1798.


Frequentò la Scuola Politecnica di Parigi. Tra il 1826 e il 27 ebbe una
grave crisi che lo portò persino sull’orlo del suicidio, ma in qualche
modo la superò. Superata la crisi, ottenne un incarico alla Scuola
Politecnica ma dovette presto lasciarlo per l’ostilità degli ambienti
accademici nei confronti delle teorie esposte nel suo Corso di filosofia
positiva, che ottenne però un notevole successo. Il pensiero di Comte
si diffuse rapidamente, soprattutto nei paesi anglosassoni, ed ebbe
numerosi discepoli. Dopo una seconda crisi nel 1845, si legò ad una
donna, Clotilde de Vaux, che da allora considerò come la sua musa
ispiratrice. Quando Clotilde morì (1846), egli si dedicò al progetto di
una nuova religione per l’umanità che andò poi sistematizzando nel
Sistema di politica positiva. Morì a Parigi nel 1857.

BIBLIOGRAFIA
A. Comte, Corso di filosofia positiva, UTET
A. Comte, Discorso sullo spirito positivo, Laterza
A. Negri, Introduzione a Comte, “i filosofi”, Laterza

332
JOHN STUART MILL

(1806-1873)

La logica
La logica di Stuart Mill è da lui intesa come critica radicale di
ogni metafisica e assolutismo per affermare che tutte le verità sono
empiriche e possono essere ricondotte al loro fondamento empirico.
Anche gli assiomi della matematica sono originariamente suggeriti
dall’osservazione ovvero dall’esperienza: non avremmo mai saputo
che due linee rette non possono chiudere uno spazio, se non
avessimo mai veduto una linea retta. Stuart Mill non intende però
giungere alle conclusioni scettiche di Hume ma vuole garantire alla
conoscenza umana il grado di validità che le compete in conformità
coi suoi fondamenti empirici. Ogni proposizione universale è in
fondo una generalizzazione dei fatti osservati. Ma che cosa giustifica
tale generalizzazione se non è mai ovviamente possibile osservare tutti
i fatti? È il problema della validità della induzione (=il passaggio dal
particolare all’universale), la cui soluzione Stuart Mill vede nel
principio della uniformità della natura. Ma le uniformità della natura
rivelano un’uniformità fondamentale che è a sua volta una legge: la
legge di causalità. Questa legge, affermando che ogni fatto ha un
inizio, una causa, afferma che “è una legge che ogni cosa abbia una
legge”. La legge di causalità stessa dunque è a sua volta una induzione.
Far dipendere la validità dell’induzione dalla stessa induzione può
sembrare un caso ovvio di circolo vizioso, ma Stuart Mill si difende
obiettando che la premessa maggiore non è la prova della conclusione
ma è essa stessa provata, insieme dalla conclusione, da una medesima
evidenza. Egli scrive: “Tutti gli uomini sono mortali non è la prova
che Lord Palmerston è mortale; al contrario, la nostra esperienza

333
passata della mortalità ci autorizza a inferire sia la verità generale, sia il
fatto particolare, e ci autorizza a inferire la prima esattamente con il
medesimo grado di fiducia con cui inferiamo il secondo” (cfr. Sistema
di logica, trad. it. p. 772).

L’etica e la politica
La logica di Stuart Mill non è fine a se stessa: i primi cinque
libri del Sistema di logica sono preparatori al sesto, dedicato alla morale.
Stuart Mill sostiene da un lato la libertà umana e dall’altro la necessità
filosofica: la quale implica che se noi conosciamo “a fondo la persona
e se conosciamo tutti i moventi che agiscono su di lui, possiamo
predire la sua condotta con la stessa certezza con cui possiamo
predire qualsiasi evento fisico” (cfr. Logica, VI, 2, par. 2). La scienza
della natura umana consisterà allora nel poter predire la condotta
futura di un individuo con la stessa certezza con cui l’astronomia
predice i movimenti degli astri. Tale scienza è la psicologia. Ora, sulla
psicologia e sulle sue leggi si fonda quella che Stuart Mill chiama
etologia, che non è quella scienza oggi diffusa che riguarda il
comportamento degli animali nel loro ambiente, ma studia le leggi
della formazione del carattere. L’etologia corrisponde perciò all’atto
dell’educazione nel suo significato più vasto, sia del carattere
individuale e sia del carattere sociale o collettivo.
In ambito politico, egli condivide del socialismo il
riconoscimento e la condanna delle ingiustizie sociali, mentre desidera
comunque salvaguardare, col liberalismo e l’utilitarismo, la libertà
individuale. L’individuo assume come guida per la sua condotta la
propria felicità, cioè il piacere e l’assenza del dolore. Ma la tendenza
dell’individuo verso la propria felicità include sempre la tendenza
verso la felicità altrui. Il progresso dello spirito umano aumenta il
sentimento dell’unità che lega un uomo a tutti gli altri. I limiti
dell’intervento del governo negli affari economici sono richiesti
dall’esigenza che vi sia “nell’esistenza umana una roccaforte sacra,
sottratta all’intrusione di qualsiasi autorità” (cfr. Sistema di economia
politica, V, XI, par. 2). L’intervento di una autorità qualsiasi nella
condotta di un individuo non può essere giustificato se non nella
misura in cui tale intervento è giustificato dalla difesa degli stessi diritti
individuali. Il che non gli impedisce comunque di difendere tutta una
serie di misure(un sistema nazionale di educazione, uno schema
nazionale di emigrazione e di colonizzazione, una legge restrittiva sui

334
matrimoni ecc.) che dovrebbero avere lo scopo di distribuire più
equamente la ricchezza o di migliorare le condizioni del popolo.

La religione
Nei saggi postumi dedicati al problema religioso, Stuart Mill
ritiene che una divinità esista e che la sua esistenza possa essere
dimostrata dall’argomento finalistico. L’ordine della natura non può
che essere stato prodotto da uno spirito sommamente intelligente in
vista di uno scopo. Tale argomentazione convince Stuart Mill perché
è, secondo lui, di carattere induttivo e possiede quindi la certezza di
qualsiasi induzione. Ma quali sono le altre caratteristiche della divinità,
sempre procedendo per induzione? Che il creatore del mondo debba
avere una potenza e una intelligenza superiore è evidente; ma non è
altrettanto evidente, secondo Stuart Mill, che debba essere dotato di
onnipotenza e di onniscienza. In altre parole, la concezione della
divinità di Stuart Mill è quella di una sorta di architetto del mondo. A
parte questo, la religione è fonte per l’uomo di profonda
soddisfazione personale e di sentimenti elevati. Fino a quando la vita
umana sarà insufficiente a soddisfare le aspirazioni umane, ci sarà
sempre l’aspirazione per le cose più alte e per una consolazione più
duratura la quale trova la sua soddisfazione più ovvia nella religione.
Più che ad una concezione metafisica di un Dio onnipotente, l’uomo
moderno guarda a Cristo, al Dio incarnato, idealizzato dalla cristianità,
dall’entusiasmo prima dei discepoli e poi dalle speculazioni della
filosofia. C’è una possibilità che Cristo fosse realmente ciò che egli
credeva di essere; non però Dio, perché egli non avanzò mai questa
pretesa (secondo Stuart Mill), ma un uomo che ebbe da Dio l’incarico
del tutto speciale di condurre l’umanità alla verità e alla giustizia.

La schiavitù delle donne


Per finire vorrei citare di John Stuart Mill ancora un’opera,
intitolata La schiavitù delle donne (1869), che rivela un uomo
profondamente convinto della parità del valore dei sessi. Nella sua
Autobiografia, Stuart Mill dichiara apertamente che “le parti più incisive
e profonde appartenevano a mia moglie e provenivano dalle idee,
ormai comuni ad entrambi, scaturite dalle innumerevoli conversazioni

335
e discussioni su un argomento che occupava un così ampio spazio
nelle nostre riflessioni”40.
Stuart Mill sostiene che la sottomissione delle donne agli
uomini è uno dei principali ostacoli al progresso umano. Ci dovrebbe
essere invece una perfetta uguaglianza, senza potere o privilegio da
parte di un sesso sull'altro. A chi obietta che è naturale che le donne
siano sottomesse agli uomini, risponde dicendo che è un'idea priva di
fondamento, anche perché, aggiunge con una logica stringente, se si
sostiene che la dottrina dell'eguaglianza dei sessi si fonda soltanto
sulla teoria, va ricordato che la dottrina contraria ha anch'essa la
medesima base! Il sistema attuale che subordina il cosiddetto “sesso
debole” a quello cosiddetto forte è sorto perché, dagli albori della
società umana, ogni donna si era trovata in balìa di qualche uomo.
Non basta: leggi e sistemi politici hanno convertito un puro e
semplice fatto fisico in un diritto legale, imprimendovi la sanzione
della società. Il matrimonio è il destino che la società assegna alle
donne, l'avvenire al quale si educano e la mèta verso cui tutte
dovrebbero incamminarsi, tranne quelle troppo poco attraenti per
essere scelte da un uomo quali sue compagne. “Mi piacerebbe, dice
Stuart Mill, udire qualcuno che enunci apertamente questa dottrina: è
necessario per la società che le donne si sposino e facciano figli. Ma
non lo farebbero se non vi fossero costrette. Pertanto è necessario
obbligarvele ”41. È dunque un egoismo istintivo, di cui gli uomini si
sono serviti per tenerle in soggezione, facendo apparire alle donne la
dolcezza, la sottomissione e la remissione di ogni volontà individuale
all'uomo come un aspetto essenziale dell'attrattiva sessuale. Insomma,
un essere umano per il solo fatto di essere nato maschio invece che
femmina ha acquisito un diritto di superiorità su ciascun membro
dell'altra metà della specie. E non giova neppure sostenere che la
natura dei due sessi li destina a posizioni da una parte di dominio e
dall'altra di sottomissione Certamente le donne sono diverse dagli
uomini, ma differenze fisiche o mentali sono presenti anche nei
maschi: non esistono due persone uguali! “Io nego, continua Stuart
Mill, che qualcuno possa conoscere la natura dei due sessi, visto che
quella che viene oggi chiamata la natura delle donne è un prodotto
altamente artificiale: il risultato di una repressione forzata in alcuni

40 Cfr. Autobiografia, trad. it.. p. 207.


41 Op.cit., p. 54.

336
casi, di una stimolazione innaturale in altri”42. E si permette anche una
battuta: se la situazione più favorevole in cui l'uomo può studiare il
carattere di una donna è per forza di cose quella coniugale, allora
siamo destinati ad avere una conoscenza del tutto imperfetta e
superficiale dell'universo femminile, visto che ogni uomo può rendere
conto di una donna soltanto! 43.
Qual è allora la soluzione? Vivere insieme come eguali. In
fondo, è lo stesso mondo moderno che ce lo chiede: qual è infatti il
carattere peculiare del nostro tempo? (Badate che il filosofo inglese
parlava a metà dell'Ottocento) È che gli esseri umani non nascono più
nel posto che occuperanno tutta la vita, non vi restano incatenati da
un vincolo indissolubile, ma sono liberi di impiegare le loro facoltà, e
di sfruttare le circostanze favorevoli che si offrono, per inseguire il
destino che appare loro più desiderabile. Ma se è vero, dovremmo
agire di conseguenza e non decretare che nascere femmina anziché
maschio, nero anziché bianco, popolano anziché nobile, debba
decidere la posizione di una persona per tutta la vita. C'è però un'altra
conseguenza: una perfetta eguaglianza comporta anche l'ammissione
delle donne a tutte quelle funzioni ed occupazioni che finora erano
ritenute monopolio del cosiddetto “sesso forte”, altrimenti che
eguaglianza sarebbe?. Tutto ciò non deve fare paura agli uomini: vi
sarebbe anzi un beneficio evidente, che è quello di raddoppiare la
massa di capacità mentali per gli scopi più elevati dell'umanità!
Insomma, se uomini e donne lavorassero insieme il genere umano
progredirebbe più in fretta e meglio. La lezione di Stuart Mill credo
insomma sia questa: si tratta, in conclusione, di liberarci da tanti
pregiudizi reciproci e dalle intolleranze che, nella mentalità corrente,
sono ancora vivi.

42 Op.cit., pp. 43-44.


43 Op.cit., pp. 48-50.

337
NOTE BIOBIBLIOGRAFICHE

John Stuart Mill nacque a Londra il 20 maggio 1806. Suo


padre James Mill si assunse il compito della sua educazione e ne
promosse lo sviluppo intellettuale precocissimo. Ad es. a tre anni
cominciò lo studio del greco e a otto quello del latino; a 12 anni iniziò
lo studio della logica, leggendo direttamente in greco l’Organon
aristotelico. Compì studi scientifici in Francia e giuridici in Inghilterra.
A 17 anni diventò impiegato presso la Compagnia delle Indie dove in
seguito raggiunse un altissimo grado. La sua prima attività fu quindi
giornalistica. L’amicizia con Jeremiah Bentham, amico di famiglia, lo
portò a difendere in un primo momento le idee dell’utilitarismo. In
seguito, però, ad una profonda crisi spirituale, come racconterà lui
stesso nella sua celebre Autobiografia (nel cap. 5°), si distaccò dalle
idee dell’utilitarismo radicale e capì che la felicità non si ottiene
facendone lo scopo della vita, ma piuttosto dedicandosi ad altro, ad
un compito che possa concentrare su di sé le energie interne
dell’uomo. Uscito da questa crisi, si dedicò allo scrivere sui più diversi
argomenti e all’attività politica (fu membro della Camera dei Comuni).
Si sposò con Harriet Taylor, di cui tessé nella sua autobiografia il più
alto elogio. Si trasferì ad Avignone dopo la sua uscita dalla della vita
politica dedicandosi esclusivamente agli studi, e qui morì l’8 maggio
1873. I suoi scritti più famosi sono: Sistema di logica deduttiva e induttiva
(1843); Sulla libertà (1849); Utilitarismo (1863); La schiavitù delle donne
(1869); Autobiografia (1873); Tre saggi sulla religione (postumo, 1874).

BIBLIOGRAFIA
Stuart Mill, La libertà, L’utilitarismo, L’asservimento delle donne,
Rizzoli
Stuart Mill, Sistema di logica, 2 voll., UTET
Stuart Mill, Autobiografia, Laterza
Stuart Mill, Saggi sulla religione, UE Feltrinelli

338
HENRI BERGSON

(1859-1941)

Introduzione
Henri Bergson è stato considerato il filosofo francese più
importante del suo tempo. Il suo influsso è stato notevole sulla
filosofia del primo Novecento ed anche in campo più genericamente
culturale (si pensi a Proust e alla sua concezione del tempo): è stato il
primo filosofo che ebbe il Nobel per la letteratura nel 1928. Il
pensiero di Bergson ha come suo presupposto la ridefinizione dei
rispettivi ordini di competenza della scienza e della filosofia. Egli
dichiara infatti che il suo tentativo è duplice: da un lato quello di
purificare la scienza dallo scientismo, ossia da una metafisica che si
maschera da conoscenza scientifica positiva, e dall’altro quello di
liberare la filosofia da una concezione di se stessa che non ne salva
l’originalità, in quanto la riduce ad una sorta di super-scienza, il cui
compito si risolverebbe nel sintetizzare i risultati delle scienze
positive, portandoli ad un livello di generalizzazione.
Negli anni giovanili, Bergson si entusiasmò per la teoria
evoluzionistica di HERBERT SPENCER (1820-1903), al punto che
egli non voleva far altro che perfezionare e consolidare i Primi principi
(1862) di Spencer (è il primo volume dell’opera Sistema di filosofia
sintetica, in cui la teoria dell’evoluzione è presentata come una
grandiosa metafisica dell’universo, che dà luogo ad una concezione
ottimistica del divenire, visto come un inarrestabile progresso). Ma fu
proprio riflettendo su queste tematiche che Bergson si accorse che il
Positivismo non mantiene affatto la promessa di fedeltà ai fatti, come
appare ad es. nella trattazione del problema del tempo.

339
La concezione del tempo
Alla concezione scientifica, meccanica sfugge del tutto il
tempo dell’esperienza concreta. Nel Saggio sui dati immediati della
coscienza (1889), Bergson sostiene che il tempo è considerato dalla
meccanica come una serie di istanti uno accanto all’altro: è un tempo
spazializzato ed anche reversibile, perché possiamo tornare indietro e
ripetere infinite volte lo stesso esperimento. Inoltre per la meccanica
ogni momento è esterno all’altro ed è uguale all’altro : un istante si
sussegue ad un altro, e non c’è un istante più intenso o più importante
di un altro. Il tempo vissuto invece dall’esperienza concreta è
totalmente diverso. Se la spazialità è la caratteristica delle cose, la
durata è la caratteristica della coscienza. Durata vuol dire che l’io vive il
presente e nel presente con la memoria del passato e l’anticipazione
del futuro. Passato e futuro possono vivere soltanto in una coscienza
che li salda nel presente. La durata vissuta non è quindi il tempo
spazializzato della meccanica. Si badi : il tempo spazializzato funziona
bene per le finalità pratiche della scienza, ma la scienza è del tutto
inadeguata per l’esame dei dati concreti della coscienza.

La libertà
All’idea della durata, quale fondamentale caratteristica della
coscienza, Bergson lega la sua difesa della libertà e la sua critica al
determinismo, se esso presume di poter spiegare la vita della
coscienza. La vita della coscienza non è divisibile in stati separati e
distinti, l’io è una unità in divenire. E quindi dove nulla vi è di
identico, non vi è nulla di prevedibile. Se la vita dell’io è presa nel suo
flusso ininterrotto, allora si può scorgere che alcuni atti nascono dalla
totalità della personalità e, proprio per questo, sono liberi : “Siamo
liberi quando i nostri atti scaturiscono da tutta la nostra personalità, quando la
esprimono, quando hanno con essa quella indefinibile rassomiglianza che si trova
talora tra l’artista e la sua opera”. La libertà non è quindi definibile,
giacché ogni definizione è il risultato di un’analisi, la quale implica la
trasformazione di un processo in una “cosa”; mentre la libertà è
qualcosa di cui noi siamo immediatamente consapevoli ma che non
può essere dimostrata. Siccome poi essa è propria dell’io profondo,
non sempre noi siamo veramente liberi nel nostro agire, anzi spesso è
l’io superficiale che predomina : l’io cioè che subisce le varie
determinazioni, tra le quali hanno particolare incidenza le pressioni
sociali.

340
Memoria, ricordo, percezione
In Materia e memoria (1896), Bergson cerca di “cogliere più
chiaramente la distinzione del corpo e dello spirito e di penetrare più intimamente
nel meccanismo della loro unione”. Contro quelli che riducono lo spirito a
materia o che considerano gli stati mentali e quelli cerebrali come due
diversi modi di riferirsi allo stesso processo, Bergson ribadisce che il
cervello non spiega lo spirito e che “in una coscienza umana c’è
infinitamente di più che nel cervello corrispondente”. Egli distingue a questo
proposito tra memoria, ricordo e percezione. La memoria coincide in
pratica con la stessa coscienza e non può essere collocata
spazialmente nel cervello. La memoria, per realizzarsi, ha bisogno dei
meccanismi legati al corpo, ma essa è indipendente dal corpo stesso,
così che ad es. una lesione del cervello non colpisce propriamente la
coscienza ma i ricordi, i collegamenti tra la coscienza e la realtà (la
coscienza resta intatta anche se perde il contatto con le cose). Da
questa memoria spirituale, che è la durata della coscienza, si distingue
appunto il ricordo. La funzione del cervello consiste nel far filtrare solo
quei ricordi che possono interessare l’azione da compiersi. Il cervello,
in altri termini, passa solo una parte molto piccola di quello che è il
processo della coscienza. La percezione è, per Bergson, “l’azione possibile
del nostro corpo sugli altri corpi”. Con tale definizione egli intende dire che
la percezione non ha un carattere puramente conoscitivo ma pratico,
operativo perché percepire significa modificare la realtà materiale in base alle
esigenze del nostro corpo, cioè in pratica agire.

L’evoluzione creatrice
Ne L’evoluzione creatrice (1907), Bergson elabora una “visione
del mondo” che sintetizza il suo pensiero. Al pari della vita della
coscienza, la vita biologica non è una macchina che si ripete, sempre
identica a se stessa, bensì è continua ed incessante novità, è creazione,
imprevedibilità, è vita sempre nuova che, inglobando e conservando
l’intero passato, cresce su se stessa. La nozione di evoluzione creatrice
permette a Bergson di andare al di là del meccanicismo e del
finalismo, giacché la vita è vista come “una realtà che si stacca
nettamente sulla materia bruta”. La vita – abbiamo detto – è creazione
libera e imprevedibile, è slancio vitale, mentre la materia non è altro che
il momento dell’arresto di quello slancio vitale. La vita è continua
creazione di forme, dove quel che viene dopo non è una semplice
ricombinazione degli elementi che c’erano prima; essa è azione che di

341
continuo si crea e si arricchisce, mentre la materia è azione che si
dissolve e si logora, che si depotenzia e si degrada. In altri termini, la
materia è slancio vitale degradato, slancio che ha perduto di creatività;
è un riflusso dello slancio vitale che, a partire da una originaria unità,
si irraggia e ricade in una molteplicità di elementi, il cui slancio e
creatività vanno spegnendosi. L’evoluzione creatrice, dunque, non è
un processo uniforme. Essa dà origine alla vita vegetale, a quella
animale e a quella razionale. Non si tratta di tre gradi successivi di una
medesima tendenza, ma di tre tendenze divergenti, di una attività che
si è divisa nel suo sviluppo : il mondo vegetale è caratterizzato dalla
fissità e dalla insensibilità, mentre nel mondo animale si trovano la
mobilità e la coscienza, con prevalenza della vita istintiva di alcune
specie e di quella intelligente in altre. Anche se Bergson considera
praticamente ogni animale dotato della coscienza (“Sarebbe assurdo
rifiutare la coscienza ad un animale, perché non ha cervello, quanto
dichiararlo incapace di nutrirsi perché non ha stomaco”), vi sono
naturalmente molte differenze tra l’uomo e gli altri animali, ed una
non trascurabile è quella tra istinto e intelligenza.

Istinto, intelligenza, intuizione


L’istinto, dice Bergson, è necessariamente specializzato, non
essendo che l’utilizzazione di uno strumento determinato; in altre
parole, è la facoltà di usare e anche di costruire strumenti organici cioè
che sono parti dell’organismo stesso. L’intelligenza è invece la facoltà
di riuscire a fabbricare oggetti artificiali, in particolare degli utensili per
fare degli altri utensili, e di variarne indefinitamente la fabbricazione, il
che gli animali non riescono a fare. Così l’uomo, per Bergson., prima
di essere sapiens, è soprattutto homo faber. Se l’intelligenza è
consapevole, conosce i rapporti tra le cose, distaccandosi dalla realtà
immediata, può anche prevedere quella futura. Per ragioni pratiche,
dunque, l’intelligenza analizza e astrae, classifica, distingue e frantuma
la durata reale. Però “mille fotografie di Parigi non sono Parigi”.
Dunque né l’intelligenza né tantomeno l’istinto ci danno la vera realtà
: “ci sono cose che soltanto l’intelligenza è capace di cercare, ma che
da sé non troverà mai; soltanto l’istinto potrebbe scoprirle, ma esso
non le cercherà mai”. Fortunatamente per l’uomo, egli possiede anche
l’intuizione : essa è immediata come l’istinto e consapevole come
l’intelligenza. L’intuizione è “la visione dello spirito da parte dello
spirito”. L’intelligenza gira attorno all’oggetto, ma non entra in esso,
come fa l’intuizione. Ed è sempre l’intuizione che ci svela la durata

342
della coscienza e il tempo reale, e che ci rende consapevoli di quella
libertà che siamo noi stessi.

Scienza e filosofia
La scienza usa come strumento l’intelligenza, e proprio per
questo mira al controllo concettuale e pratico dell’ambiente in cui
l’uomo vive. La filosofia, al contrario, intesa come metafisica, si serve
dell’intuizione e “riserva per sé lo spirito”. Non si tratta di svalutare la
scienza a favore della filosofia, ma di tenere presente che esse ci
offrono due mondi diversi : la scienza ci dà un mondo costruito in
forma di simboli, senza del quale non si potrebbe vivere, giacché si
può agire solo in un mondo in cui le cose sono distinte; la filosofia ci
dà la coscienza della realtà, come continuo flusso del divenire; essa
intuisce e così ci fa entrare in contatto diretto con le cose e con
quell’essenza della vita che è la durata. D’altronde entrambe sono in
relazione tra loro : la scienza può fornire verifiche per la metafisica,
mentre quest’ultima può, proprio perché basata sull’intuizione, aiutare
la scienza a correggere i suoi errori. Né tutto nella filosofia si riduce
ad intuizione, giacché uno sforzo di riflessione rimane necessario per
afferrare il contenuto dell’intuizione stessa. Per questo la filosofia non
può fare a meno del lavoro di concettualizzazione e del linguaggio, ed
essa si instaura proprio sul continuo rimando tra intuizione ed
espressione. Anche nella forma più alta di intuizione come quella di
cui godono i mistici, l’uso del linguaggio, anche se immaginoso,
diviene la via più appropriata per comunicare qualche cosa agli altri
delle esperienze avute.

Società e religione
Bergson dedica la sua ultima opera, Le due fonti della morale e
della religione (1932) al tema della creatività morale e religiosa
dell’uomo. Le norme morali hanno due origini: o la pressione sociale
oppure lo slancio d’amore. Nel primo caso, le norme sono appunto il
frutto della pressione sociale, esprimono le esigenze della vita
associata. L’individuo, in genere, segue la via che trova già battuta
dagli altri e codificata nelle norme della sua società; si adegua alle
regole di questa, ne esalta gli ideali e cerca di conformarvisi. Alla base
della società c’è solo l’abitudine di contrarre abitudini. Questa morale
dell’obbligazione è tipica di una società chiusa, dove l’individuo agisce

343
come parte di un tutto, e questo tutto è un gruppo determinato come
la nazione, la famiglia o il club. Esiste poi anche la morale della società
aperta. E tale è la morale del cristianesimo, dei saggi della Grecia e dei
profeti di Israele. tale morale è l’opera creatrice di eroi morali che
vanno al di là dei valori del gruppo cui appartengono per guardare
all’uomo in quanto uomo, all’intera umanità. Il fondamento della
morale aperta è la persona creatrice; il fine ne è l’umanità; il suo
contenuto è l’amore verso tutti gli uomini; la sua caratteristica è
l’innovazione morale, capace di rompere gli schemi fissi delle società
chiuse.
Bergson è stato anche uno dei pochi ad occuparsi di un
aspetto specifico ma importantissimo nel contesto del problema di
Dio e cioè il fenomeno del misticismo Nella vita religiosa Bergson
distingue una religione statica e una religione dinamica. La religione statica
è quella basata su miti e favole. Essa, con le sue favole, miti e
superstizioni, rafforza i legami sociali tra l’uomo e i suoi simili; inoltre
dà la speranza nell’immortalità, offre all’uomo l’idea di una difesa
contro l’imprevedibilità e la precarietà del futuro, gli dà il senso di una
protezione soprannaturale e la credenza di poter influire sulla realtà,
specialmente quando la scienza e la tecnica risultano impotenti. Ma
non è l’unica forma di religione. Vi è anche la religione dinamica o
aperta, che è quella dei mistici. Il vero misticismo è il sentimento che
hanno alcune anime di essere lo strumento di un Dio che ama tutti gli
uomini di uno stesso amore e che domanda loro di amarsi
scambievolmente44. Il misticismo è "una presa di contatto e, di
conseguenza, una coincidenza parziale, con lo sforzo creatore, che la
vita manifesta. Questo sforzo è di Dio, se non è Dio stesso… Dio è
amore ed oggetto di amore : qui è tutto il misticismo". L’esperienza
del divino come amore deve tradursi in una operosità che mira a
promuovere la creatività dell’uomo e l’amore per i propri simili. Di
qui, a giudizio di Bergson, la differenza tra misticismo orientale e
quello cristiano. Mentre il primo è più contemplativo e non crede
all’efficacia dell’azione, il secondo (quello di San Paolo, S. Francesco,
S. Teresa, S. Caterina, S. Giovanna d’Arco ecc.) è un superiore punto
di slancio per l’azione del mondo. L’amore di Dio diventa, così,
amore per tutta l’umanità.

44 Cfr. H. Bergson, Opere, trad. it. ed. UTET, p. 583.

344
Non solo: esso riguarda l’avvenire stesso dell’umanità. Il
misticismo, in altri termini, indica quale sarà il destino dell’umanità.
L’umanità non è destinata a finire, ad annullarsi, ma, se sceglierà di
continuare a vivere, è destinata a raggiungere uno stato di super-
essere: “l’umanità geme, semischiacciata dal peso del progresso
compiuto. Non sa abbastanza che il suo avvenire dipende da lei. A lei
di vedere prima di tutto se vuole continuare a vivere; a lei di
domandarsi poi se vuole soltanto vivere, o fornire anche lo sforzo
perché so compia, anche sul nostro pianeta refrattario, la funzione
essenziale dell’universo, che è una macchina destinata a creare delle
divinità”45.
Il misticismo è per Bergson anche la prova migliore per la
dimostrazione dell’esistenza di Dio. Se il misticismo è veramente
quello che abbiamo detto - egli sostiene - deve fornire il mezzo di
affrontare in qualche modo sperimentalmente il problema
dell’esistenza e della natura di Dio. Non vediamo del resto come la
filosofia possa affrontarlo in modo diverso. In via generale, noi
consideriamo un oggetto che esiste come un oggetto che è percepito
o che potrebbe esserlo, esso è dunque dato in una esperienza, reale o
possibile46. Dunque Dio stesso viene conosciuto in una esperienza che
è appunto l’esperienza mistica.
Ma non basta. I grandi mistici, dice Bergson, sono stati
generalmente uomini o donne di azione, di un buon senso superiore.
Vi sono alcuni che vedono nel misticismo soltanto ciarlataneria o
demenza. Ma si incontrano anche persone per cui la musica non è che
un rumore ma nessuno potrà derivare da questo un argomento contro
la musica. Bisogna prima di tutto notare l’accordo dei mistici fra loro.
Il fatto è notevole fra i mistici cristiani. Il loro accordo profondo è
segno di una identità di intuizione che si può spiegare più
semplicemente con l’esistenza reale dell’Essere, con cui si credono in
comunicazione47. Se il filosofo – continua Bergson – volesse
esprimere il misticismo in una formula, potrebbe dire che Dio è
amore e oggetto di amore; tutto l’apporto del misticismo consiste in
questo. L’amore divino, in altri termini, non è qualcosa di Dio: è Dio

45 Op.cit., p. 590.
46 Op.cit., p. 497
47 Op. cit., pp. 502-505.

345
stesso48. Insomma, il misticismo ci fa scoprire che l’amore esiste
veramente ed è un essere realmente esistente. Effettivamente i mistici
sono unanimi nel testimoniare che Dio ha bisogno di noi, come noi
abbiamo bisogno di Dio. Perché dovrebbe aver bisogno di noi, se non
per amarci? Questa sarà la conclusione, dice Bergson, del filosofo che
si tenga legato all’esperienza mistica. La creazione gli apparirà come
un’impresa da parte di Dio per dare origine a dei creatori, per
associarsi degli esseri degni del suo amore. A questo punto, nulla
impedisce al filosofo di sviluppare compiutamente l’idea, suggeritagli
dal misticismo, di un universo il quale sarebbe solo l’aspetto visibile e
tangibile dell’amore e del bisogno di amare, con tutte le conseguenze
che questa emozione creatrice porta con sé, cioè con l’apparizione
degli esseri viventi, in cui questa emozione trova il suo complemento,
e di una infinità di altri esseri, senza i quali questi non avrebbero
potuti manifestarsi, e infine di una immensa materialità senza la quale
la vita non sarebbe stata possibile49. Sono stati chiamati all’esistenza
degli esseri che erano destinati ad amare e ad essere amati, poiché
l’energia creatrice si deve definire per mezzo dell’amore. Distinti da
Dio, che è questa stessa energia, essi non potevano sorgere se non in
un universo, ed è questa la ragione per cui ha avuto origine
l’universo50. Sulla terra, la specie che è la ragion d’essere di tutte le
altre, non è che parzialmente se stessa. Non penserebbe neppure a
divenirlo, se alcuni dei suoi rappresentanti non fossero riusciti a
trionfare della materialità e a ritrovare Dio. Questi uomini sono
appunto i mistici. Essi hanno aperto una via su cui altri uomini
potranno camminare; hanno anche in questo modo indicato al
filosofo di dove venisse e dove fosse rivolta la vita51. Questo ci porta a
delle conclusioni ottimistiche. C’è un ottimismo empirico, dice
Bergson, che consiste soltanto nel costatare dei fatti: primo, che
l’umanità giudica la vita buona nel suo complesso, perché tiene ad
essa; poi che esiste una gioia pura, posta al di sopra del piacere e del
dolore, che è lo stato d’animo definitivo del mistico. In questo duplice
senso e da questo duplice punto di vista, l’ottimismo si impone, senza
che il filosofo debba perorare la causa di Dio52. Supponiamo,

48 Op.cit. p. 510.
49 Op.cit., pp. 514-15.
50 Op.cit., p. 517.
51 Op.cit., pp. 517-18.
52 Op.cit., p. 522.

346
conclude Bergson, che un barlume del mondo rivelato dal mistico
arrivi fino a noi, visibile agli occhi del corpo. Quale trasformazione in
una umanità abituata ad accettare come esistente solo ciò che le è dato
di vedere e di toccare! L’informazione che così ci venisse non
concernerebbe forse che una parte inferiore delle anime, l’ultimo
gradino di spiritualità. Ma non ci sarebbe bisogno d’altro per
trasformare in realtà vivente e agente una credenza nell’aldilà che
sembra ritrovarsi nella maggior parte degli uomini ma che rimane per
lo più verbale, astratta, inefficace. In realtà, se fossimo sicuri,
assolutamente sicuri, di sopravvivere, non potremmo più pensare ad
altro. I piaceri sussisterebbero, ma offuscati e sbiaditi, perché la loro
intensità non sarebbe che l’attenzione da noi fissata su di essi.
Impallidirebbero, come la luce delle nostre lampade al sole del
mattino. Il piacere sarebbe eclissato dalla gioia. Gioia sarebbe in realtà
la semplicità di vita sparsa nel mondo da una intuizione mistica
diffusa; gioia anche quella che seguisse automaticamente ad una
visione dell’aldilà in una esperienza scientifica ampliata53.

53 Op.cit., pp. 589-90.

347
NOTE BIOBIBLIOGRAFICHE

Henri Bergson nacque a Parigi nel 1859 da famiglia ebrea.


Studiò alla Scuola Normale e conseguì il dottorato in filosofia nel
1889 con due dissertazioni, una in latino e l’altra in francese.
Quest’ultima, il Saggio sui dati immediati della coscienza, fu pubblicata
nello stesso anno ed ebbe un grande successo. La seconda opera
importante, Materia e memoria, apparve nel 1896 ed ebbe una notevole
influenza su William James (del pragmatismo americano) e su Marcel
Proust (di cui Bergson sposò una cugina). Tre anni dopo, Bergson
venne chiamato ad insegnare al Collège de France. Il filosofo
continuò a scrivere e a mietere successi: Introduzione alla metafisica
(1903), L’evoluzione creatrice (1907), Durata e simultaneità (1922).
Divenuto accademico di Francia, nel 1928 gli fu conferito il premio
Nobel per la letteratura. La sua ultima opera importante è del 1932: Le
due fonti della morale e della religione.
Negli ultimi anni di vita egli si avvicinò al cattolicesimo, senza
tuttavia abbracciarlo ufficialmente per solidarietà con la comunità
ebraica ormai oggetto delle persecuzioni naziste. Morì a Parigi, ancora
occupata dai Tedeschi, nel 1941.

BIBLIOGRAFIA
H. Bergson, Opere, UTET e Comunità
H. Bergson, Materia e memoria, Laterza
H. Bergson, Il riso, Laterza
A. Pessina, Introduzione a Bergson, “I filosofi”, Laterza

348
CROCE E GENTILE

La rinascita dell’idealismo
La rinascita dell’idealismo in Italia è opera soprattutto di
Giovanni Gentile e Benedetto Croce che, per decenni, ne dominano
la scena intellettuale. Diversi sono i fattori che possono spiegare il
ritorno dell’idealismo. Indubbiamente, giocano un ruolo rilevante la
crisi del processo di modernizzazione avviato dalle borghesie liberali
(connessa alla “Grande depressione” della fine del XIX secolo) e il
venir meno delle “certezze” - sulle prospettive di progresso e di
sviluppo legate alla scienza e alla tecnica - che avevano contraddistinto
ampia parte della cultura dell’Ottocento. Inoltre, esauritasi la fase
teoricamente più feconda del Positivismo, subentra un senso di
delusione per il suo progressivo banalizzarsi in una sorta di “religione
popolare” della scienza. Si fa sentire, infine, un movimento di
reazione alla deriva materialistica che sembra diffondersi con lo spirito
scientista.
Contro il Positivismo viene avvertita la necessità di riallacciarsi
alle fonti più vive del pensiero italiano. Gentile considera l’idealismo
l’espressione più autentica della tradizione spiritualistica italiana, che
ha permeato gran parte della cultura e della filosofia del Risorgimento
soprattutto con Rosmini e Gioberti54. Croce lo vede come l’unica

54
Antonio Serbati Rosmini (1797-1855), sacerdote e fondatore di una congregazione
religiosa denominata “Istituto della carità”, durante la sua vita fu oggetto di numerose critiche
da parte della stessa Chiesa cattolica: oggi al contrario le sue idee vengono rivalutate e
considerate antesignane del Concilio Vaticano II. Tra i suoi scritti ricordiamo: Nuovo saggio
sull’origine delle idee (1830), Teosofia (postuma); Delle cinque piaghe della Chiesa, ecc. Partendo da
un’analisi critica della storia della filosofia, Rosmini sostiene l’oggettività della conoscenza e
l’accordo tra la filosofia e il cristianesimo. La verità è creduta dalla mente con una intuizione
immediata, “per sé evidente, senza segni, senza argomenti di mezzo”. Tale intuizione
immediata si riferisce all’idea dell’essere(non l’idea di Dio, si badi): essa è un’idea innata, è il
presupposto di ogni altra idea e di ogni possibile giudizio. Essa è appunto messa in noi da
Dio. Grazie ad essa noi possiamo conoscere. La conoscenza consiste nell’universalizzare
un’idea particolare. A differenza di Cartesio, Rosmini sostiene in primo luogo che l’idea che
l’io ha di sé è certa come la coscienza di qualsiasi altra idea, visto che, per affermare la propria
esistenza, l’io ha bisogno non solo della propria autocoscienza ma anche dell’idea dell’essere
che lo renda consapevole di essere un essere (Rosmini lo chiama sentimento fondamentale). In
secondo luogo l’esistenza delle cose esterne a noi è altrettanto certa e non è problematica
come aveva sempre messo in dubbio Cartesio. Quando infatti abbiamo una sensazione, la

349
concezione capace di favorire una “rivoluzione intellettuale e morale”
nel nostro Paese. Entrambi ritengono l’idealismo una idea-forza
capace di dare nuova linfa, nuovo slancio e vigore alla cultura e alla
società italiane, contro idealità e tendenze considerate fattori frenanti
per lo sviluppo culturale e per la stessa identità nazionale.
Sia Croce che Gentile si richiamano all’idealismo hegeliano,
ma ritengono indispensabile proporre una riforma della sua
concezione dialettica. Essi si confrontano anche con il pensiero di
Marx, che criticano soprattutto per il suo “materialismo”, anche se
Croce gli dà atto di aver contribuito ad una adeguata valorizzazione

causa di essa non può che essere un oggetto esterno a noi, che esista dunque
indipendentemente da noi. L’idea dell’essere è anche alla base della morale. Il principio della
morale è “segui nel tuo operare il lume della ragione”, intendendo però per ragione sempre la
stessa idea dell’essere. Essa infatti rivela all’uomo il vero bene che è l’essere. Gli esseri che
sono persone sono da considerarsi come fini, mentre gli esseri che sono le cose sono da
considerarsi mezzi .
Vincenzo Gioberti (1801-1852), sacerdote torinese, fu insegnante e uomo politico nello
Stato piemontese. Morì a Parigi in seguito al fallimento della politica neoguelfa. Le sue opere
principali sono: Teorica del soprannaturale (1837); Introduzione allo studio della filosofia (1840), Del
primato morale e civile degli italiani (1842), che rimane la sua opera più nota; il Gesuita moderno
(1846-47), Protologia(1857, postuma).
Gioberti critica (come già Rosmini) tutta la filosofia moderna che accusa di psicologismo (=
tutto è riconducibile allo spirito umano) e difende invece l’ontologismo. L’atto originario
della conoscenza umana è l’intuito, grazie al quale l’uomo può cogliere la verità assoluta, cioè
Dio stesso. La rivelazione che Dio fa di se stesso può essere espressa con una formula ideale.
La prima parte di questa formula dice: “L’Ente è necessariamente”; la seconda afferma: “L’Ente
crea l’esistente”; l’ultima parte sostiene: “L’esistente ritorna all’Ente”. Dio rivela se stesso
immediatamente e si rivela come creatore. L’uomo, che è libero, tende verso la perfezione o,
meglio, deve ritornare a Dio da cui proviene. Ha bisogno quindi di Dio stesso e ciò implica
l’esigenza del sovrannaturale. L’intuito infatti rivela all’uomo le verità naturali non quelle
soprannaturali, per le quali occorre la parola rivelata. La filosofia e la teologia insieme
giungono alla conoscenza ideale. Soltanto il cattolicesimo le unifica e quindi la verità e la
scienza sono naturalmente cattoliche. La formula ideale viene mantenuta anche negli scritti
successivi anche se con un’attenzione particolare alla filosofia hegeliana. Nella Protologia,
Gioberti parla di mimesi o imitazione, per cui il mondo si allontana da Dio, e della successiva
metessi o partecipazione, per cui il mondo ritorna, tramite l’uomo, a Dio. Anzi Gioberti parla
di una vera e propria palingenesia, del ritorno finale e perfetto dell’esistente all’Ente. In ambito
politico, Gioberti è autore del famoso Primato morale e civile degli italiani. Egli parte dal
presupposto che la religione sia alla base della moralità e della civiltà. E visto che la religione
cattolica ha come suo centro Roma, la storia d’Italia è legata a quella del cattolicesimo e della
civiltà in generale. L’Italia ha come missione quella di unificare il laico e il religioso e di far
progredire così l’intera civiltà umana. La sua proposta di unificazione dell’Italia prevede
quindi una federazione di stati sotto l’egida del papa e come braccio secolare l’esercito dei
Savoia.

350
dell’economia e Gentile apprezza il rilievo conferito alla prassi (che
egli, però, a differenza di Marx, interpreta idealisticamente come atto
e processo di natura spirituale e non materiale).
Quelle elaborate da Gentile e da Croce sono filosofie
dell’immanenza (lontane, quindi, dallo spiritualismo cattolico) che
intendono fornire una direttrice ideale all’insieme della cultura italiana,
in una fase di acutissima crisi come è quella che conduce prima alla
guerra mondiale e poi al fascismo. Essi esprimono una concezione
militante della filosofia e considerano l’idealismo come il nuovo
orientamento intellettuale del Paese - quasi una “nuova religione”
necessaria all’Italia - in opposizione al materialismo e al determinismo,
quindi al marxismo e al positivismo che ne sono fautori. Al
Positivismo rimproverano di avere assunto la scienza come modello
esclusivo di conoscenza. L’opera di “demolizione critica” del
Positivismo da loro condotta, contribuisce però ad allontanare gran
parte della cultura filosofica italiana dalla riflessione che in quegli
stessi anni viene avviata sui temi della scienza e dei fondamenti del
sapere scientifico. Essa, inoltre, relega ai margini della cultura le
scienze umane e sociali, che proprio nella prima metà del Novecento
fioriscono in Europa e negli Stati Uniti. Da questo punto di vista,
pertanto, il neoidealismo italiano ha contribuito ad accentuare quella
separazione fra le due culture - scientifica e umanistica-letteraria - che
ha caratterizzato in modo particolare la storia culturale del nostro
Paese.

Tra fascismo e liberalismo


Gentile e Croce, per lungo tempo amici e collaboratori
nell’attività intellettuale, in seguito si separano a causa di divergenze
filosofiche ma soprattutto, dopo l’avvento del fascismo, per il diverso
atteggiamento assunto nei confronti del regime: Gentile partecipa
all’attività del governo fascista; Croce diviene un sempre più convinto
oppositore del fascismo in nome degli ideali liberali. Secondo Gentile,
il fascismo si riallaccia alla grande tradizione del Risorgimento, che
egli considera interrotta con l’avvento della Sinistra al potere. Egli
sostiene infatti che, come l’idealismo corrisponde pienamente alla
tradizione spiritualistica italiana, così il fascismo è erede della Destra
storica, alla cui caduta, nel 1876, Gentile imputa l’avvio di processi (lo
scientismo positivistico, il laicismo, l’ateismo) che hanno messo in
crisi la società italiana. Il fascismo è quindi concepito come un

351
“atteggiamento spirituale”, una concezione generale della vita volta a
portare a compimento la “missione etica” dell’Italia. Per Gentile, il
fascismo non opera una rottura col passato, ma è “la piena attuazione
del “vero” liberalismo, tradito da tutti coloro che lo avevano sempre
scambiato per dottrina individualistica e liberalistica”(Bobbio), mentre
la sua essenza autentica sta nel concepire la libertà del singolo
pienamente attuata solo nello Stato, cioè nello Stato etico, identificato
con quello fascista.
Per Croce il liberalismo è una compiuta visione del mondo, in
cui la libertà è posta come soggetto della storia e principio dell’azione
politica. La libertà può essere messa in crisi, ma non spenta, poiché
s’identifica con l’idea della vita e della circolazione dello spirito. Lo
stesso avvento di regimi assolutistici, di dittature come quella fascista,
è solo un momento di “sospensione” della libertà, un “incidente”
nella vita dello spirito; da qui deriva la celebre tesi crociana del
fascismo come “semplice malattia” e “crisi di crescenza” di un corpo
(la società italiana), ritenuto altrimenti sano. E in due opere storiche,
scritte proprio durante il consolidamento del regime fascista (la Storia
d’Italia dal 1871 al 1915 e la Storia d’Europa nel secolo XIX), egli descrive
lo sviluppo degli ideali liberali nell’Ottocento come l’affermarsi di una
vera e propria religione della libertà, che tende a sostituirsi alle
religioni tradizionali.

352
BENEDETTO CROCE

(1866-1952)

Croce e Gentile sono stati i due filosofi italiani più famosi


della prima metà del Novecento: famosi non solo in Italia ma anche e
soprattutto all’estero. Da un lato la teoria estetica di Croce ed il suo
impegno politico e culturale contro il fascismo, dall’altro le idee
filosofiche di Gentile e il suo impegno in prima linea a difesa del
fascismo fanno di questi due uomini due protagonisti della nostra
storia. Croce e Gentile furono dapprima amici per la comunanza di
idee filosofiche ma poi la loro relazione si interruppe quando Gentile
aderì al fascismo.
Croce (e Gentile) sono stati definiti neo-idealisti per indicare la
loro attenzione alla filosofia hegeliana. Il debito verso Hegel è in
effetti importante ma vedremo in che senso entrambi interpretino in
senso originale la filosofia hegeliana stessa. “Con Hegel – scrive Croce
– si era acquistata la coscienza che l’uomo è la sua storia, la storia
unica realtà, la storia che si fa come libertà e si pensa come
necessità…”. Croce contesta però ad Hegel di aver abusato della
forma triadica nello svolgimento degli aspetti della realtà e di aver
confuso il – così lo chiama Croce - nesso dei distinti con la dialettica degli
opposti. Hegel avrebbe scambiato la distinzione che si trova tra le varie
forme spirituali con la opposizione dialettica che si trova invece
all’interno di ciascun grado: gli opposti si condizionano certo
reciprocamente (non c’è bello senza brutto ecc.) ma i distinti, cioè i
vari gradi dello spirito (che per Croce sono quattro ed esattamente
l’arte, la filosofia, l’economica e l’etica), si condizionano solamente
nell’ordine in cui si succedono: l’arte condiziona la filosofia che
condiziona l’economia che condiziona l’etica e così di seguito, in
senso circolare, visto che lo spirito passa sempre attraverso i suoi

353
quattro gradi fondamentali In questo senso non esiste nulla al di fuori
dello spirito che progredisce continuamente senza mai ripetersi ma
arricchendosi ogni volta di più.
L’arte è il primo momento. È definita visione o intuizione
lirica: sintesi a priori di sentimento (che rappresenta la materia) e di
immagine (la forma). In altri termini, riceve il suo contenuto dal
sentimento ma lo trasforma in immagini e così evita sia il vano
fantasticare che la passionalità tumultuosa. L’arte non può essere
riflessione o giudizio, non ha nulla a che fare né con l’utile né col
piacere né con la morale. Dunque è completamente autonoma.
L’unico scopo dell’arte è l’arte stessa ovvero la bellezza artistica. Se
essa è intuizione, è necessariamente espressione nel senso che un
dipinto non è tale fino a quando non è colorato, come una musica
non si esprime che nei suoni. E se è espressione, è linguaggio ed è
quindi poesia. Croce distingue tra poesia e non poesia: la poesia non è
prosa e non è oratoria, ha sempre un’impronta di universalità, per cui
non è mai sentimento immediato ma è ritmo, “ritmazione
dell’universo”. Croce afferma inoltre l’identità tra la personalità
dell’artista e la sua opera: “il poeta è niente altro che la sua poesia”.
Il tema della autonomia dell’arte si concretizza, in Croce, in
una maniera specifica di intendere il lavoro critico. Mentre la filologia
ha il compito di fornire tutti i dati storici, linguistici, biografici ecc.,
che permettono la ricostruzione di un’opera storica, la critica è
un’operazione logica che si esprime in un giudizio di valore volto a
distinguere fra bello e brutto, ovvero fra poesia e non-poesia, fra
nuclei lirici ed extra-lirici. Un aspetto significativo di questa
impostazione è la nota interpretazione crociana della Divina
Commedia, considerata come un poema all’interno di cui occorre
distinguere fra struttura (= l’insieme delle convinzioni filosofiche,
religiose, etiche, politiche che fanno di essa un “romanzo teologico”)
e poesia (=i momenti genuinamente lirici).
Sebbene Croce abbia cercato di evitare l’irrigidimento della
coppia poesia/non-poesia, insistendo sulla loro unità dialettica e sul
fatto che la struttura non è l’opposto della poesia, ma solo il diverso
da essa, è indubbio che la sua impostazione comporti il rischio della
cosiddetta “critica delle forbici” e risulti poco adatta alla
comprensione e alla valorizzazione di quegli autori (si pensi ad es. ad
un Leopardi o a un Pirandello) nei quali il momento artistico è
indissolubilmente connesso a quello meditativo e filosofico.

354
La filosofia è il secondo momento dello spirito teoretico. La
filosofia si identifica per Croce con la storia. Essa è intesa come
“metodologia della storiografia”. Non vi può essere una filosofia al di
fuori della storia. Croce definisce il suo pensiero come “storicismo
assoluto”, intendendo con tale espressione che “la vita e la realtà è
storia e nient’altro che storia”. Ogni pensiero o giudizio che
formuliamo avviene sempre nella realtà e questa è appunto storia. Il
vero pensare è un concetto storico anzi è il Concetto con la c
maiuscola, che è in pratica lo Spirito, universale e concreto. E il
pensare è sempre pensare il vero: gli errori sono soltanto sbagli che
cadono al di fuori della conoscenza che, in quanto tale, è sempre
verità assoluta. Gli altri concetti sono solo pseudo-concetti, come
sono i termini del linguaggio comune e delle varie scienze. Da questo
punto di vista, non ci può essere distinzione tra fatti storici e fatti non
storici(=insignificanti, banali). Non solo: ogni storia è storia
contemporanea nel senso che i fatti pur essendo remoti propagano
nel presente “le loro vibrazioni”. Le vicende narrate dalla storia non
sono né buone né cattive: la storia non è mai giustiziera ma è
giustificatrice e quindi coglie i fatti nella loro razionalità. La storia è
infatti progresso e razionalità. In senso proprio, non vi può mai essere
decadenza che non sia appunto progresso. Se infatti tutta la
conoscenza è storia e se tutta la storia è giustificazione di ciò che è
accaduto e accade, l’unico atteggiamento legittimo è quello di
accettare qualunque cosa accada e questo è in contrasto con quello
che egli stesso sosterrà più tardi, in seguito a quel che accadde col
fascismo è la guerra: se la storia è razionale altrettanto razionale è
l’imperativo morale, cioè quello che a ciascuno di noi la coscienza
morale impone di fare, e cioè ad es. opporsi al fascismo, come Croce
stesso fece. Croce distinse anche la storia come pensiero e come
azione, nel senso che rifiuta la cinica accettazione del fatto compiuto e
del suo successo: il pensiero deve illuminare l’azione, la quale sarebbe
irrazionale senza di esso.
L’economica comprende tutto ciò che è natura e non si
riferisce all’arte o alla filosofia o alla storia, e quindi tutto ciò che è
irrazionale, che riguarda desideri, bisogni, passioni, emozioni, piaceri,
dolori ecc. Appartiene all’economica anche la scienza, che si occupa
ovviamente della natura ed usa pseudo-concetti, il che porta a
concludere che le sue non sono tanto conoscenze vere ma azioni in
vista di un risultato. Da qui la svalutazione crociana (e poi gentiliana)
delle scienze che influenzerà per decenni la cultura e la ricerca italiane.

355
Oltre alla scienza, in questa forma vi sono anche il diritto e lo Stato.
Croce identifica il diritto con l’utilità e la forza. Esso è amorale cioè
indipendente dalla morale ma condizione della morale stessa, in
quanto quest’ultima non può che dare luogo ad una azione e quindi in
utilità e/o forza. Lo Stato è “un processo di azioni utili di un gruppo
di individui”, per cui lo Stato si attua nel governo e non si distingue da
esso. Lo Stato consiste in una dialettica continua tra forza e consenso,
autorità e libertà. Il liberalismo crociano è da intendersi come una
concezione totale del mondo secondo cui “la diversità e l’opposizione
delle forze spirituali accresce e nobilita di continuo la vita e le
conferisce il suo unico e intero significato”. Esso si oppone alla
concezioni che Croce definisce “trascendenti” sia in senso religioso
che materialistico e che paralizzano la realtà perché impongono
l’ideale all’umanità. Anche il liberalismo si fonda sulla concezione
dialettica per cui può giustificare teoreticamente e storicamente le
concezioni diverse.
L’etica appartiene alla forma dello spirito pratico. L’attività
pratica è mossa dalla volontà che è variamente condizionata dalla
realtà ma è libera nel senso che determina una nuova realtà. La
moralità vive in concreto nell’utilità (dato il presupposto crociano che
i gradi precedenti condizionano quelli successivi). Il principio
dell’etica si caratterizza come volizione dell’universale ossia volizione
dello Spirito che è idealisticamente l’unica e autentica realtà.

356
GIOVANNI GENTILE

(1875-1944)

Introduzione
Gentile definisce la sua filosofia come attualismo nel senso che
tutto l’essere dipende dal pensiero in atto, dal pensiero che sta
pensando, il pensiero pensante, l’atto puro del pensiero. Il pensiero è
in atto e crea ogni realtà, esso è ogni realtà. Questo atto è dunque
creatore, è auto-creatore (è un processo di autoctisi) e in quanto
creatore è infinito perché non ha nulla al di fuori di sé che possa
limitarlo. Da questo punto di vista, il processo di conoscenza non è
altro che “identificare, superare l’alterità come tale”, cioè è assimilare,
inglobare, com-prendere nel soggetto l’oggetto, superare ogni
dualismo, ogni separazione o diversità. Quindi quelli che noi
chiamiamo errori, mali, ciò che è ignoto, l’imperfezione, la morte
stessa sono superati e risolti nel momento in cui sono riconosciuti in
quanto tali (l’ignoranza non è forse è superata nel momento in cui mi
riconosco ignorante?). Quindi l’uomo in quanto spirito è sempre nella
verità, nel bene, nel positivo ed i problemi sono comunque superabili
e superati. La storia umana è una storia eterna: i fatti storici sono vivi
nello spirito che li pensa e per questo sono sempre contemporanei,
cioè atemporali, eterni. La vita dello spirito si svolge secondo un
ritmo dialettico in tre momenti. Il primo, la tesi, è quello dell’arte, è il
momento della soggettività: l’arte è sentimento vissuto nella sua
immediatezza, nella sua libertà inesprimibile. La religione è l’antitesi, il
secondo momento, ed è l’esaltazione dell’Oggetto assoluto, cioè di
Dio. Nella religione il soggetto si sente un nulla di fronte all’Oggetto
divino, che può essere conosciuto misticamente come adesione
immediata tra uomo e Dio. La religione ha però il difetto di

357
considerare l’Oggetto indipendente dal soggetto, cadendo quindi nel
dualismo. C’è dunque bisogno di un ulteriore momento della
dialettica, della filosofia, che risolve, nella concretezza dello spirito il
dualismo precedente. Nella sintesi di soggetto e oggetto, nella
autocoscienza dello spirito si realizza finalmente l’unità fondamentale
dello spirito.

La pedagogia
L’atto dell’educazione è unità di maestro e scolaro, unità che
supera il problema della comunicazione tra i due, visto che sono uniti
nello spirito. Ogni educazione è anche autoeducazione: non c’è
propriamente maestro e discepolo perché il soggetto è uno solo. Ed è
così superato anche il problema della durata dell’educazione: il fine
dell’educazione è il fine stesso della vita e la vita non è che educazione
in atto. Da ciò deriva anche l’identità tra filosofia e pedagogia e tra
pedagogia e didattica. Non vi può essere una metodologia statica: il
maestro è come un artista, non prepara la lezione ma improvvisa, anzi
se sa, sa anche come insegnare! Anche la divisione tra materie è
astratta anche se si devono privilegiare quelle materie che favoriscono
l’espressione personale come l’arte, la filosofia e in generale le materie
umanistiche. Da qui la svalutazione gentiliana (e crociana, ricordate?)
delle scienze che ha così pesantemente segnato la scuola e l’università
italiana della prima metà del Novecento, e tra l’altro della psicologia,
perché essa si fonderebbe su una ingiustificabile distinzione tra le
varie facoltà spirituali, dimenticando l’unità dello spirito umano. La
pretesa distinzione tra le materie sarà soltanto la distinzione che
riflette lo sviluppo della vita spirituale: nelle elementari dovrà
prevalere l’elemento artistico, nelle medie quello religioso e nelle
superiori quello filosofico. Infatti nelle elementari vi sono le materie
espressive quali canto, disegno, il tema, la recitazione, la lettura, la
ginnastica, il gioco. Nelle medie l’educazione religiosa (diventata
obbligatoria nelle scuole in seguito al Concordato del 1929) si svolgerà
indirettamente attraverso la storia, le scienze, le altre materie, e
direttamente con una istruzione religiosa specifica. Infine, nelle
superiori, lo studio della filosofia svolto storicamente (e non tanto a
problemi) concluderà il processo di educazione dell’individuo.

358
La politica
Società e Stato, diritto e politica sono, secondo Gentile, non
inter homines ma in interiore homine. “Lo Stato è lo stesso individuo nella
sua eticità”. Il compito dello Stato è attuare la propria volontà che è
anche quella del cittadino in quanto volontà generale. La filosofia
incontra lo Stato per la natura etica propria di quest’ultimo e quindi è
naturale il loro rapporto, il rapporto tra la cultura e lo Stato come
attività dello Spirito. Fedele al suo principio di annullare l’alterità, egli
ritiene che diritto e morale, Stato e individuo, pubblico e privato si
identifichino e dunque non vi siano limiti all’azione dello Stato e
questo porterà a giustificare anche uno Stato totalitario, come in
effetti Gentile ha fatto aderendo al fascismo e difendendone
l’ideologia.
Per conseguenza, la coattività dello stato o delle norme giuridiche è
anch’essa interna e spirituale; e diritto e morale in ultima analisi si
identificano come s’identificano lo stato e l’individuo, nell’attualità del
volere volente o del soggetto pensante. Questa è già una
giustificazione dello stato assolutistico e totalitario; e la giustificazione
è esplicita nell’ultimo scritto di Gentile. Qui viene respinta la
distinzione tra il privato ed il pubblico e con essa la possibilità di
porre limiti all’azione dello stato. E difatti la distinzione non può
reggere se si ammette come unico individuo l’Io universale ed infinito:
essa in realtà presuppone la singolarità e irriducibilità dell’individuo e
insieme la sua costitutiva relatività sociale. Gentile, accettando il
carattere totalitario e autoritario dello stato, dichiara, con un
movimento caratteristico del suo pensiero, che si può dire anche
l’opposto; e cioè “che in questo stato che è la stessa volontà
dell’individuo in quanto universale e assoluto, l’individuo inghiotta lo
stato, e che l’autorità (la legittima autorità) non potendo essere
espressa d’altronde che dall’attualità del volere individuale, si risolve
essa senza residuo nella libertà”. In tal modo la vera democrazia
sarebbe non quella che vuole limitato lo stato, ma quella “che non
pone limiti allo stato che si svolge nell’intimità dell’individuo e gli
conferisce la forza e il diritto nella sua assoluta universalità”(cfr. Genesi
e struttura della società, 1946).

359
NOTE BIOBIBLIOGRAFICHE

Benedetto Croce nacque a Pescasseroli (L'Aquila), in Abruzzo


25 febbraio 1866, da una famiglia di ricchi proprietari terrieri. Grazie
al suo patrimonio poté permettersi di dedicare tutta la sua vita agli
studi e alle attività culturali e politiche senza dipendere da nessuno.
Morì a Napoli il 20 novembre 1952.
Ricordiamo tra le opere: Estetica come scienza dell'espressione e
linguistica generale (1902); Logica come scienza del concetto puro (1909);
Filosofia della pratica, economica ed etica (1909); Saggio su Hegel, 1912;
Breviario di estetica (1912); Teoria e storia della storiografia (1917); La poesia
(1936); Ultimi saggi (1935); La storia come pensiero e come azione (1938); Il
carattere della filosofia moderna (1941); Filosofia e storiografia (1949);
Materialismo storico ed economia marxista (1900); Scritti di storia letteraria e
politica ecc.

Giovanni Gentile nacque a Castelvetrano il 30 maggio 1875.


Insegnò in varie università fino a diventare ministro della pubblica
istruzione sotto il regime fascista. Egli fu l’autore della famosa riforma
della scuola che prese appunto da lui il nome. Fu ucciso il 15 aprile
1944 da un antifascista.
Le sue opere più famose sono: La teoria generale dello spirito come
atto puro(1916); Sistema di logica come teoria del conoscere (1917-22); Sistema
di pedagogia come scienza filosofica (1912). Fu anche storico della filosofia e
dedicò molte opere al pensiero italiano.

BIBLIOGRAFIA
Le opere di Croce un tempo pubblicate da Laterza, adesso
sono rieditate anche in Adelphi.
Gentile, Opere filosofiche, Garzanti, Milano 1991

360
MARTIN HEIDEGGER

(1889-1976)

Essere e tempo
Essere e tempo,55 l'opera che nel 1927 impose Heidegger
all'attenzione del mondo filosofico e non, porta come epigrafe un
passo del Sofista di Platone (244a), in cui si dice che, nonostante
l'apparente ovvietà del concetto, il termine essere è ben lungi dal
significare qualcosa di chiaro, che non abbia bisogno di un'indagine
approfondita. Come ai tempi di Platone, anche per noi la nozione di
essere è solo apparentemente ovvia, per cui - conclude Heidegger - è
necessario riproporre il problema dell'essere. Il primo problema è
ovviamente quello di determinare quale possa essere l'ente che deve
essere interrogato, cioè al quale la domanda sull'essere sia
specificamente rivolta. Questo ente non è altro che l'uomo, che
Heidegger indica con la parola Esserci (Dasein). Interrogando dunque
l'Esserci, possiamo cercare che cosa sia l'essere e sperare di trovarne il
senso. Ma il modo di essere tipico dell'Esserci è l'esistenza. Allora la
filosofia dovrà in primo luogo essere un'analisi dell'esistenza, ovvero
una analitica esistenziale che sarà la strada preliminare da percorrere per
poi fondare l'ontologia, cioè la scoperta del senso dell'essere.

L’analitica esistenziale
Con questo viene già data una caratteristica fondamentale
dell'esistenza: la comprensione dell'essere è una possibilità dell'esistenza

55 In italiano abbiamo due traduzioni di Essere e tempo, una a cura di P. Chiodi, UTET 1969;
l'altra a cura di A. Marini, Mondadori, Milano 2006, con testo originale a fronte.

361
(che, come abbiamo già detto, è l'essere tipico dell'Esserci, cioè
dell'uomo). La struttura invece fondamentale dell'esistenza è di essere
trascendenza. E il termine verso cui l'Esserci trascende, è il mondo, per
cui la trascendenza è definita più esattamente come essere-nel-mondo.
Trascendere verso il mondo significa fare del mondo stesso il progetto
dei possibili atteggiamenti e azioni dell'uomo. L'uomo ha bisogno del
mondo e delle cose che lo costituiscono, e che sono la realtà-utènsile,
cioè i mezzi della sua vita e della sua azione. Essere nel mondo vorrà
allora dire prendersi cura delle cose che gli occorrono: mutarle,
manipolarle ecc. L'essere di queste cose consiste nel servire come
strumenti per l'uomo, nell'essere utilizzabili. L'utilizzabilità è così per
Heidegger la caratteristica fondamentale delle cose del mondo.
L'esistenza non è solo apertura verso il mondo ma anche
verso gli altri. Il rapporto tra l'uomo e gli altri Esserci è un aver cura
degli altri. Ma tale rapporto può assumere due diverse forme: può
sottrarre agli altri le loro cure (forma inautentica di coesistenza), oppure
può aiutarli ad essere liberi di assumersi le proprie cure (forma autentica
di coesistenza). Per comprendersi, l'uomo può assumere come punto
di partenza sé stesso oppure il mondo e gli altri. Nel primo caso, si ha
una comprensione autentica, nel secondo caso una comprensione
inautentica. Quest'ultima è il fondamento dell'esistenza anonima, del si
dice, si fa, dove tutto è livellato, convenzionale. Nell'esistenza anonima
il linguaggio diventa chiacchiera inconsistente; inoltre un'esistenza così
vuota cerca naturalmente di riempirsi, ed è perciò morbosamente
protesa verso il nuovo: la curiosità per le apparenze è l'altro suo
carattere dominante. Tutto ciò però - si badi - non implica una
condanna moralistica dell'esistenza anonima perché l'analitica
esistenziale di Heidegger non vuole dare giudizi di valore. Essa si
limita a riconoscere che l'esistenza anonima è uno dei possibili poter
essere dell'uomo. Alla sua base c'è la deiezione (Verfallen), per cui
l'essere umano cade a livello delle cose nel mondo; l'uomo è gettato nel
mondo in mezzo agli altri, è un Esserci tra tanti altri. L'esistenza è un
essere possibile cioè un progettarsi in avanti; ma questo progettarsi
non fa che ricadere all'indietro, su ciò che l'esistenza è già, di fatto. Tale
è la struttura circolare e conclusa dell'essere dell'uomo, che possiamo
adesso chiamare anche Cura: essa è appunto l'essere dell'Esserci, nella
sua unità di esistenza, deiezione e fatticità (o effettività: l'uomo è quello
che è, diverso dalle cose).

362
La morte
Vi è però anche la possibilità dell'esistenza autentica, a cui l'uomo
è richiamato dalla voce della coscienza. A che cosa lo richiama la voce
della coscienza? Essa lo richiama a riconoscere l'annullamento ultimo
di tutte le sue possibilità, e cioè lo richiama a riconoscere la morte. La
morte, dice Heidegger, è per l'uomo la possibilità “più propria,
incondizionata, certa e come tale indeterminata e insuperabile“. Solo
se l'uomo riconosce la possibilità della morte e la assume su di sé con
una decisione anticipatrice, l'uomo può trovare il suo essere autentico.
Mentre l'esistenza banale è una fuga di fronte alla morte, la voce della
coscienza chiama l'uomo all'essere-per-la-morte, cioè alla decisione
anticipatrice che consiste nel vivere-per-la-morte. Questo vuol dire
comprendere l'impossibilità dell'esistenza in quanto tale. Ad essa si
accompagna una tonalità emotiva che Heidegger chiama angoscia. Con
l'angoscia, l'uomo “si sente in presenza del nulla, dell'impossibilità
possibile della sua esistenza”. Essa pone l'uomo di fronte al nulla, e il
nulla si presenta nella sua potenza di annientamento. L'angoscia fa
vedere all'uomo l'insignificanza e la nullità dei fini che gli vengono
proposti nella sua esistenza quotidiana, e gli offre la possibilità di
rimanere fedele a quelli inerenti alla situazione in cui viene a trovarsi.
Poiché questa situazione è un coesistere con gli altri, fra le cose del
mondo, l'esistenza autentica dà all'uomo la possibilità di rimanere
fedele al destino della comunità cui appartiene. In altri termini, la libertà
per l'uomo consiste nello scegliere e nell'accettare la sua situazione e
nel rimanerle fedele. Per l'uomo vi è anche un tempo autentico ed un
tempo inautentico: il primo è dato dalla paura, dall'ora; mentre il secondo
è dato dalla decisione anticipatrice di vivere per la morte (per cui il
futuro è per Heidegger la dimensione temporale fondamentale),
dall'angoscia e dalla ripetizione (nel senso della ri-scelta delle possibilità
che sono state). Il tempo così non si aggiunge all'essere dell'uomo ma
l'essere è il tempo. L'essere dell'uomo ha trovato il suo senso nel tempo.
Il tempo è il senso dell'essere: questo è quanto il titolo dell'opera di
Heidegger può suggerire.

La metafisica e l’oblio dell’essere


Arrivato a questo punto, però, Heidegger deve riconoscere
che non ha ancora trovato l'essere e tanto meno il suo senso. Il senso
dell'essere non può essere trovato interrogando un ente, sia pure
l'uomo, l'Esserci, “ciò che noi stessi sempre siamo“, come dice

363
Heidegger. L'unico risultato positivo che può derivare dall'analitica
esistenziale è stato quello di scoprire che l'essere di cui si cerca il senso
non è l'essere di un ente. Ecco perché Essere e tempo è stato interrotto
da Heidegger. Infatti maanca della seconda parte, di carattere storico,
e manca soprattutto della terza sezione della prima parte. La risposta
che Heidegger dà nella Lettera sull'umanismo56 (1947), chiarisce il perché
della lacuna: le sezioni non vennero scritte perché il pensiero fallì
quando si trattò di dire adeguatamente la svolta (Kehre) a cui stava
arrivando. Il linguaggio della metafisica non era più in grado di
esprimere il rapporto con l'essere.
Ricordo, a questo proposito, che anche se Essere e tempo fu
salutato all'inizio come il più importante documento della filosofia
esistenzialistica, esso non voleva affatto essere tale. Heidegger stesso
ribadirà più volte: “Le mie tendenze filosofiche non possono essere
classificate come 'Filosofia dell'esistenza'. La questione che mi
preoccupa non è quella dell'esistenza dell'uomo, ma quella dell'essere
nel suo insieme e in quanto tale” (cf. Lettera sull'umanismo).
Il termine metafisica è usato da Heidegger per indicare tutto il
pensiero occidentale che non ha saputo riconoscere l'essere. Certo, fin
dagli inizi parla dell'essere e ricerca l'essere, ma ha gradualmente
confuso l'essere con le cose, dimenticando la differenza ontologica tra
l'essere e gli enti. In altre parole, il pensiero occidentale ha pensato
l'essere attribuendogli qualche caratteristica particolare, oppure l'ha
pensato come il carattere comune di tutti gli enti , come una sorta di
concetto generale ed astratto (fino ad arrivare alla vanificazione del
concetto stesso di essere, ad es. in Hegel, che nella sua Logica rovescia
l'essere nel nulla). L'essere è stato pensato sovente come semplice
presenza, come cosa. Da qui, secondo Heidegger, il graduale oblio
dell'essere che caratterizza la storia della metafisica occidentale. La
metafisica è giunta alla sua fine col pensiero di Nietzsche. Questi,
parlando di nichilismo, indica che l'essere è scomparso: l'Occidente,
dice Heidegger, è la terra della metafisica come la terra del tramonto
dell'essere. La tecnica moderna o, meglio, la mentalità tecnologica è il
fenomeno che esprimere il venire a fine della metafisica. Non vi è
oggi alcun ente davvero misterioso, tutto è dato per conosciuto o per
conoscibile attraverso i metodi razionali; la mentalità corrente è quella
che conosce la cosa solo in ciò che essa ha di funzionale. Il pensiero

56 M. Heidegger, Lettera sull'umanismo, trad. it. SEI, Torino 1975.

364
stesso non è diventato altro che una escogitazione tecnica, strumento
esso stesso per la soluzione dei problemi. Ma forse è proprio in questa
situazione di estrema povertà di pensiero, questo tempo di povertà
(dürftige Zeit), che è possibile andare oltre ed uscire dall'oblio
dell'essere. Ciò esclude che il problema del superamento della
metafisica possa essere inteso come il problema di riuscire a parlare
finalmente di quello che la metafisica ha sempre taciuto, cioè dell'essere.
È invece anzitutto la ricerca di un modo nuovo di esercitare il
pensiero stesso, che non si consideri più, nei confronti dell'essere,
come elaborazione di concetti adeguati, cioè veri nel senso di
conformità al dato. A questo proposito, si pensi che la nozione
comune di verità è quella che intende la verità come conformità o
adeguazione della proposizione alla cosa (adaequatio rei et intellectus).
Quando cerchiamo la verità, ci sforziamo di adeguarci alla cosa, cioè
assumiamo la cosa come norma. Ma questo modo di rapportarsi alla
cosa presuppone per Heidegger un'apertura più originaria, che è un
essere-aperto alla cosa come tale. L'aprirsi alla cosa così come essa è, è
un atto di libertà: l'essenza della verità è la libertà. La verità è intesa da
Heidegger come originaria apertura e svelamento, come suggerisce
l'etimologia greca della parola: essa è a-letheia, non-velamento.

La svolta
La svolta (Kehre) di Heidegger consiste nell'instaurare un
rapporto diverso tra pensiero ed essere. Egli descrive questo rapporto
in base al doppio significato che ha il genitivo nella espressione
“pensiero dell'essere”. Il pensiero può essere pensiero dell'essere in senso
oggettivo, cioè comprende l'essere: non ci può essere infatti
comprensione e conoscenza dell'ente se non c'è, preliminarmente, una
comprensione dell'essere. Oppure il pensiero può pensare l'essere
soltanto perché è dell'essere anzitutto in senso soggettivo, cioè gli
appartiene. L'essere allora non potrà più essere pensato
metafisicamente come presenza, ma viene inteso come luce, come
illuminazione, nel senso che è proprio della luce lasciar apparire le cose
proprio perché essa non appare direttamente. Così è dell'essere: fa
apparire gli enti, lascia sussistere la storia, solo in quanto a sua volta si
cela, si nasconde.
Se l'essere può rivelarsi attraverso le cose e gli eventi, l'uomo
può coglierlo solo se si abbandona allo svelamento dell'essere come
tale. Ma lo svelamento dell'essere non può mai essere totale o diretto.

365
L'esistenza è allora stare alla luce dell'essere, per cui l'uomo diventa il pastore
dell'essere e la sua dignità consiste “nell'essere chiamato dall'essere
stesso a far la guardia alla sua verità”. In quanto l'uomo pensa, non
può fare altro che “lasciare che l'essere sia”. L'uomo deve mettersi in
ascolto del linguaggio dell'essere e affidarsi ad esso. L'essere parla
all'uomo attraverso il linguaggio o, meglio ancora, attraverso la sua
forma più autentica, che è la poesia. La poesia è intesa da Heidegger
come annuncio, appello, ed usa l'uomo come suo messaggero.
L'uomo deve ascoltare il linguaggio nella sua originaria poeticità, cioè
nella sua forza fondante e creativa.
In quanto è ascolto del linguaggio, il pensiero è ermeneutica.
Ermeneutica, cioè interpretazione ovvero incontro con il linguaggio, è
allora la stessa esistenza nella sua dimensione più autentica.
L'ermeneutica a cui pensa Heidegger è quella che è capace di
interpretare la parola senza consumarla o esaurirla, rispettandola nella
sua natura. In questo senso va anche intesa l'insistenza di Heidegger
su nozioni come quella di silenzio e di ascolto del silenzio. Il che non è da
vedere come misticismo, ma corrisponde al riconoscimento che
l'appello a cui rispondiamo deve essere lasciato valere come appello: il
pensiero ermeneutico intende proprio lasciar essere altro l'altro.

Il problema di Dio
Concludo con alcune osservazioni riguardanti il problema di
Dio. In primo luogo non si confonda l'essere di cui Heidegger parla
con Dio e tantomeno col Dio cristiano. “L'essere non è Dio né un
fondamento del mondo”, dice chiaramento Heidegger nella Lettera
sull'umanismo. Ma questa non vuole essere una dichiarazione di ateismo
o di indifferentismo. Anzi Heidegger ritiene che “solo a partire
dall'essenza del sacro va pensata l'essenza della divinità”. In altre
parole, Heidegger lascia aperta la porta al problema di Dio. Egli
riconosce soltanto che l'uomo contemporaneo non può porsi tale
problema se non ponendosi in quella dimensione in cui una domanda
simile possa essere posta. Questa è appunto la dimensione del sacro,
che però resta chiusa, secondo Heidegger, se non si è illuminati e
aperti all'Essere. Il che oggi non accade e può darsi che una
caratteristica dell'età contemporanea sia proprio quella della chiusura
alle dimensioni del sacro. Però “la sdivinizzazione esclude così poco la
religiosità che è proprio attraverso la sdivinizzazione che il rapporto

366
agli Dèi si trasforma in esperienza vissuta religiosa” (cfr. Sentieri
interrotti57).

Heidegger e il nazismo 58
In tempi relativamente recenti (fine anni Ottanta) si è
purtroppo scoperto il coinvolgimento del filosofo con il nazismo e la
sua posizione ambigua nei confronti degli ebrei e dell'antisemitismo.
La questione, ridotta all'osso, è: perché Heidegger aderì al
nazismo e non si oppose, non lottò contro di esso? E per quanto
riguarda la sua filosofia, essa contiene forse degli aspetti che
potremmo definire razzisti o totalitari o antisemiti?
Il 1° maggio 1933 Heidegger aderì al partito nazista. Quando il
filosofo Karl Jaspers gli chiese: "come può pensare che una persona
priva di cultura come Hitler possa governare la Germania?", egli
rispose: "La cultura non ha importanza. osservi le sue meravigliose
mani". La sua collaborazione col regime fu motivo di sgomento
perché Heidegger non era certo un filosofo qualunque: aveva l'aura
del saggio, aveva un carisma che incantava. Sulle donne poi esercitava
un fascino quasi magnetico, ipnotico. Heidegger sapeva incantare le
persone, arrivando a condizionarle nel profondo, come ad es. la
celebre filosofa ebrea Hanna Arendt, con cui ebbe una relazione
duratura.
Uno dei suoi primi compiti di rettore fu quello di epurare tutti
i non ariani dalla università, ed egli lo fece con zelo e scrupolo. Non
ebbe alcun problema ad es. a firmare la lettera del congedo
obbligatorio imposto ad Edmund Husserl, filosofo celeberrimo, il
fondatore della fenomenologia, e inoltre suo maestro, mentore,
amico, che fu sinceramente stupito dal suo comportamento. Ma come
mai? In fondo il filosofo aveva una amante ebrea, aveva molti amici
ebrei: si trattava forse di opportunismo? Eppure esistono prove del
suo antisemitismo precedenti all'ascesa al potere di Hitler.

57 Cfr. M. Hiedegger, Sentieri interrotti, tr. it. La Nuova Italia, 1968.


58 Cfr. Yvonne Sherratt, I filosofi di Hitler, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2014. Quanto segue
è ricavato interamente da questo libro. Si veda anche Faye, Heidegger, l'introduzione del nazismo
nella filosofia, tr. it. L'Asino d'oro, Roma 2012; Badiou-Cassin, Heidegger. Il nazismo, le donne, la
filosofia, ed. Il melangolo.

367
Nonostante le sue continue dichiarazioni di fedeltà al nazismo,
il suo rettorato non fu considerato all'altezza delle aspettative naziste
(fu accusato di "nazionalsocialismo personale") e Heidegger si sentì
trattato ingiustamente. Per come la vedeva lui, aveva pronunciato
parole di verità che il pubblico non era riuscito a capire. Dopo un solo
anno, si dimise, al colmo della frustrazione, dalla carica di rettore.
Tuttavia continuò con molto impegno la missione cui si credeva
destinato e continuò a sentirsi l'annunciatore di una nuova era. Si
schierò in particolare contro l'umanesimo cristiano ("Nessuno, se
vincolato a confessioni cristiane, deve poter diventare docente") e
affermò che la morale, i diritti umani, la pietà erano concetti superati,
che andavano eliminati dalla filosofia per evitare l'indebolimento della
Germania.
Alcuni interpreti vedono nelle sue opere, a partire dal suo
stesso capolavoro, Essere e tempo, una sorta di difesa del nazismo, ed il
concetto stesso di "essere" come una sorta di metafisica nazista. C'è
chi afferma che Essere e tempo sia appunto una dottrina radicale del
sacrificio di sé, in cui l'individualizzazione è permessa solo agli scopi
dell'eroismo in guerra. In conclusione, l'episodio riguardante
Heidegger è forse una dimostrazione della tesi di Adorno, secondo la
quale la stessa filosofia non è mai del tutto immune dal male:
""Auschiwitz ha dimostrato il fallimento della cultura... lo spirito non
è riuscito a modificare gli uomini"59. Auguriamoci che non sia così.

59 Cfr. T. W. Adorno, Negative Dialektik, trad. it. Dialettica negativa, Einaudi, Torino 1975,
p. 331.

368
NOTE BIOBIBLIOGRAFICHE
Martin Heidegger nacque a Messkirch, nel Baden, il 26
Settembre 1889. Si laureò in filosofia a Friburgo nel 1913. Fu
assistente di Husserl per molti anni. Nel 1923 diventò professore a
Marburgo. Nel 1927 pubblicò Essere e tempo. L'anno successivo fu
chiamato a succedere ad Husserl alla cattedra di Friburgo. Nel 1929
pubblicò la prolusione ufficiale col titolo Che cos'è la metafisica?. Nel
1933 fu nominato rettore dell'università di Friburgo e aderì al partito
nazista. Si dimise però dall'incarico l'anno successivo per dissensi col
governo e smise di occuparsi di politica. Continuò a pubblicare molte
opere che segnano la filosofia del Novecento: Kant e il problema della
metafisica, L'essenza del fondamento, Introduzione alla metafisica, Sentieri
interrotti, Nietzsche, La dottrina platonica sulla verità, Lettera sull'umanismo,
In cammino verso il linguaggio ecc. Morì a Messkirch il 26 Maggio 1976.

BIBLIOGRAFIA
M. Heidegger, Essere e tempo, UTET o Mondadori
M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, Mursia
M. Heidegger, Nietzsche, 2 voll. , Adelphi
M. Heidegger, Identità e differenza, Adelphi
M. Heidegger, Che cos'è la metafisica? , Adelphi
M. Heidegger, Segnavia, Adelphi
M. Heidegger, L'essenza della verità, Adelphi
M. Heidegger, La svolta, Il nuovo melangolo
U. Galimberti, Heidegger, ed. Mursia
G. Vattimo, Introduzione a Heidegger, Laterza.

369
JEAN-PAUL SARTRE

(1905-1980)

Introduzione
Sartre è stato il maggiore rappresentante dell’esistenzialismo
francese (insieme ad Albert Camus e a Simone de Beauvoir).
Poligrafo, si è trovato a suo agio nei più diversi generi letterari : dal
saggio al romanzo, dal teatro alle grandi opere filosofiche all’articolo
giornalistico. Nel 1964 gli fu assegnato il premio Nobel per la
letteratura che però Sartre rifiutò.

L’io e la coscienza
Sartre iniziò la sua attività di scrittore con studi di psicologia
fenomenologica, in opposizione alle concezioni contemporanee che
erano dominate da una visione naturalistica dei fatti psichici e dal
primato assegnato al problema della conoscenza. Sartre ritiene che la
fenomenologia di Husserl permetta di cogliere i significato autentico dei
vari fenomeni psichici, grazie al concetto di intenzionalità, che consente
di evitare la riduzione sia del soggetto all’oggetto e sia dell’oggetto al
soggetto, ossia gli scogli opposti di realismo-materialismo e idealismo.
A differenza di Husserl poi, Sartre ritiene che il rapporto tra la
coscienza ed il mondo non sia di tipo soprattutto conoscitivo. L’ego è
soltanto una delle modalità della coscienza, la modalità riflessa, che è
secondaria rispetto alla modalità irriflessa, mentre le emozioni sono
delle modalità essenziali e non secondarie nelle quali la coscienza si
rapporta al mondo e gli conferisce un significato. Meglio ancora, l’ego
non è “nella coscienza, ma è fuori, nel mondo : è un ente del mondo
come l’io di un altro”. Il che vuol dire che l’uomo è quell’essere la cui

370
apparizione fa sì che esista un mondo. E’ l’uomo che dà senso al
mondo, mentre il mondo, di per sé, non ha alcun senso.

La nausea
Quest’ultima tesi viene rielaborata in forma letteraria nel
famoso romanzo La nausea (1938), in cui si narrano le vicende di un
certo Antoine Roquentin, il quale, riflettendo sulle ragioni della
propria esistenza e del mondo che lo circonda, ha l’esperienza
rivelatrice della nausea. La nausea è il sentimento che ci invade quando si
scopre l’essenziale assurdità e contingenza della realtà. Leggiamolo dalle
parole stesse di Sartre. Ecco un brano :
“Il mondo … questo grosso essere assurdo. Non ci si poteva nemmeno
domandare da dove uscisse fuori, tutto questo, né come mai esisteva un mondo
invece che niente. Non aveva senso, il mondo era presente dappertutto, davanti,
dietro. Non c’era stato niente prima di esso. Niente. Non c’era stato un
momento in cui esso avrebbe potuto non esistere. Era appunto questo che
m’irritava : senza dubbio non c’era alcuna ragione perché esistesse, questa
larva strisciante. Ma non era possibile che non esistesse. Era impensabile : per
immaginare il nulla occorreva trovarcisi già, in pieno mondo, da vivo, con gli
occhi spalancati, il nulla era solo un’idea nella mia testa, un’idea esistente,
fluttuante in quella immensità : quel nulla non era venuto prima dell’esistenza,
era un’esistenza come un’altra e apparsa dopo molte altre”. Scoprire che il
mondo non ha senso, che è assurdo, provoca la nausea. Sartre
scrive ancora :
“L’essenziale è la contingenza. Voglio dire che, per definizione,
l’esistenza non è la necessità. Esistere è essere lì, semplicemente : gli esistenti
appaiono, si lasciano incontrare ma non li si può mai dedurre. C’è qualcuno,
credo, che ha compreso questo. Soltanto ha cercato di sormontare questa
contingenza inventando un essere necessario e causa di sé. orbene, non c’è alcun
essere necessario che può spiegare l’esistenza : la contingenza non è una falsa
sembianza, un’apparenza che si può dissipare; è l’assoluto, e per conseguenza
la perfetta gratuità. Tutto è gratuito, questo giardino, questa città, io stesso. E
quando vi capita di rendervene conto, vi si rivolta lo stomaco e tutto si mette a
fluttuare … ecco la Nausea”.
La vita di Roquentin si scopre dunque priva di senso;
nessun scopo riesce più ad orientarla; egli esiste come una cosa,
come tutte le cose che emergono, nell’esperienza della nausea, nella

371
loro gratuità ed assurdità. “Ogni esistenza nasce senza ragione, si protrae
per debolezza e muore per combinazione”.

L’essere e il nulla
Ne L’essere e il nulla (1943), Sartre giustifica le stesse idee in un
saggio filosofico di ampio respiro che esprime i concetti che
diverranno famosi di un clima esistenziastico del Dopoguerra :
assurdità, non senso, nulla ecc.
La coscienza – dice Sartre – è sempre coscienza di qualche cosa, e
di qualche cosa che non è la coscienza : questo essere è definito da
Sartre come l’essere-in-sé o, brevemente, l’in-sé. In altri termini, sono
tutte le cose che non sono la coscienza, gli oggetti che incontriamo
ecc. L’essere-in-sé è ciò che è, non è possibile né necessario, è
semplicemente. La coscienza viene invece definita da Sartre come
l’essere-per-sé o, brevemente, per-sé, che indica che essa è presenza a sé
stessa. In altri termini : io ho coscienza degli oggetti del mondo, ma
nessuno di questi oggetti è la mia coscienza. Se poi la coscienza è
presenza a se stessa, questa presenza a se stessa implica una sorta di
scissione, di separazione interiore nell’essere della coscienza perché
essa fonda se stessa in quanto si determina perpetuamente a non
essere l’in-sé. La realtà umana è quindi, per Sartre, nullificazione,
mancanza di essere. Il nulla, nel linguaggio sartriano, è la condizione
necessaria del per-sé, cioè della coscienza umana, che fa sempre
l’esperienza del nulla in ogni atto dell’esistere e dell’agire. Questo è
dimostrato ad es. dal desiderio : esso non è forse un bisogno di
completamento poiché desidero ciò che mi manca, ciò che non ho ? Ma
non solo : si pensi alla figura di un cerchio incompiuto, ad un quarto
di Luna : essi non mancano forse qualcosa per la coscienza, la quale si
aspetta o pretende il loro completamento, e cioè quello che non è?
Analogamente, tutti i tratti della realtà umana sono visti da Sartre
come rapporti di nullificazione : ad es. la conoscenza è tale perché
l’oggetto si presenta alla coscienza come ciò che non è la coscienza;
oppure gli altri, le altre persone : l’altra esistenza è tale in quanto non è
la mia, anzi qui la negazione è reciproca.
Il nulla è dunque intrinsecamente legato all’essere, ma non è
generato dall’essere, bensì dall’essere della coscienza che, come
abbiamo già detto, si perpetua a non essere l’in-sé. Ma, per potere fare
ciò, per poter decidere continuamente di non essere l’in-sé, la
coscienza vivere in una condizione particolare, deve cioè essere libera.

372
E in effetti, per Sartre, la coscienza è assolutamente libera. E per
libertà Sartre intende proprio quella possibilità di nullificazione o
rottura del mondo che è la struttura stessa dell’esistenza umana.
L’uomo è inoltre perpetuamente minacciato dalla nullificazione della
sua scelta attuale, è, in altri termini, perpetuamente minacciato di
scegliersi, quindi di diventare altro da quello che è. L’uomo, dice
Sartre, è “condannato ad essere libero” nel senso che è “condannato”
perché non si è creato da sé, ma, una volta nato, è però responsabile
di tutto quello che fa, del suo progetto fondamentale, della sua vita e
di quella degli altri. Dunque tutto ciò che accade all’uomo dipende
dalla libertà e dalla responsabilità della scelta originaria. Da questo
punto di vista, nulla di ciò che accade all’uomo, per quanto terribile
sia, può essere detto inumano, poiché tutto è dipeso dall’uomo. E
nessuno ha scuse : se si fallisce, si fallisce perché si è scelto di fare
fallimento. Cercare delle scuse significa essere in malafede: la malafede
presenta infatti il voluto come fosse una necessità inevitabile.
L’uomo quindi si sceglie. La sua libertà è incondizionata
(perché egli può mutare in ogni istante, l’abbiamo già detto, il suo
progetto fondamentale). E come la nausea costituiva l’esperienza
metafisica che rivelava la gratuità e l’assurdità dell’esistenza e delle
cose, così l’angoscia è l’esperienza metafisica del nulla, cioè della libertà
incondizionata dell’uomo, che può ad ogni momento cambiare ciò
che è e diventare qualcos’altro.
Se le cose del mondo sono gratuite, prive di senso e di
fondamento, allora è solo l’uomo che può dare ad esse un valore e un
senso. L’uomo è quindi l’essere “per cui i valori esistono”. Una volta
stabilito questo, però, per Sartre bisogna riconoscere che, in fondo,
tutte le attività umane sono equivalenti e che tutte sono votate per principio allo
scacco (ecco il tanto contestato pessimismo sartriano ) ! “E’ la stessa
cosa – scrive Sartre – in fondo, ubriacarsi in solitudine o condurre i
popoli. L’uomo è una passione inutile”.
L’uomo cerca indubbiamente di porre rimedio a questa
situazione : l’uomo è infatti quell’essere che … progetta di essere Dio!
Tuttavia, l’uomo non può che essere un Dio mancato. L’uomo si
proietta sempre al di là di se stesso, ricerca sempre un valore fondato
e fondante, mentre, deve ammettere, prima o poi, lo scacco finale : le
attività umane sono tutte equivalenti perché tendono a sacrificare
l’uomo per far nascere la causa di sé, Dio, ma poiché questo è
impossibile, tutte sono votate allo scacco. Anche perché c’è sempre
un altro a contrastare questo progetto. L’altro, dice Sartre, è colui che

373
mi fissa e mi paralizza col suo sguardo; mentre, fino a quando l’altro
non c’era, io ero completamente libero, ero cioè soggetto e non
oggetto. Quando appare l’altro, nasce il conflitto. Ecco perché
“l’inferno sono gli altri” (A porte chiuse, 1945).

L’esistenzialismo è un umanismo
Ne L’esistenzialismo è un umanismo (1946) 60, Sartre cerca di
smorzare i toni pessimistici delle sue tesi precedenti. Anzi si dichiara
apertamente per l’esistenzialismo e lo considera una dottrina
dell’impegno e della responsabilità. L’esistenzialismo viene da lui
definito come quella dottrina per la quale “l’esistenza precede l’essenza”,
nel senso che l’uomo, in primo luogo esiste, cioè si trova nel mondo, e dopo si
definisce per quello che è o vuole essere. Se dunque l’esistenza precede
l’essenza, non sarà mai possibile spiegarla in riferimento ad una natura
umana data e immodificabile. In altre parole, non c’è determinismo,
l’uomo è libero, l’uomo è libertà. E se l’uomo è libero, è anche
responsabile di quello che fa. Così, dice Sartre, il primo passo
dell’esistenzialismo è di mettere ogni uomo in possesso di quello che
egli è e di far cadere su di lui la responsabilità totale della sua
esistenza. E quando l’uomo sceglie, sceglie anche per tutti gli uomini.
Così la nostra responsabilità è molto più grande di quello che
potremmo supporre, poiché essa obbliga l’umanità intera. “Se Dio non
esiste – scrive Sartre – non troviamo davanti a noi dei valori o degli ordini in
grado di legittimare la nostra condotta. Così non abbiamo … delle giustificazioni
o delle scuse. Siamo soli, senza scuse. E’ ciò che esprimerò con le parole che l’uomo
è condannato ad essere libero. Condannato perché non si è creato da se stesso, e pur
tuttavia libero, perché, una volta gettato nel mondo, è responsabile di tutto ciò che
fa”. In conclusione, l’esistenzialismo è una dottrina ottimistica perché
afferma che il destino dell’uomo è nelle mani dell’uomo stesso e che
l’uomo non può nutrire speranza se non nell’azione.

60 Sì, è proprio scritto “umanismo” invece di “umanesimo”. Si noti che in francese il termine
è lo stesso, humanisme, per le due accezioni del termine in italiano, “umanesimo” ed
“umanismo”, per cui Sartre può giocare sulla loro ambiguità. Sartre vuole infatti distinguere
l’umanesimo, come affermazione che l’uomo sia valore in sé, dall’umanismo, condiviso dagli
esistenzialisti, per cui “non c’è altro legislatore al di fuori dell’uomo”.

374
L’ateismo
Sartre è stato forse l’ateo più noto della Francia
contemporanea. Il suo ateismo è sempre stato totale, senza che mai si
possa aver assistito ad un declino o ad una revisione delle sue idee
ateistiche. Del resto il suo no all’esistenza di Dio risale molto indietro
nel tempo, come egli stesso ci dice ne Le parole: “Una mattina, nel
1917, a La Rochelle, aspettavo dei compagni che dovevano
accompagnarmi al liceo; erano in ritardo e presto non seppi più cosa
inventarmi per distrarmi: decisi di pensare all’Onnipotente.
Immediatamente ruzzolò nel cielo e sparì senza dare spiegazioni: non
esiste, mi dissi con uno stupore di cortesia, e credetti risolto il
problema. In un certo modo era risolto, dato che mai, in seguito, ho
avuto la minima tentazione di riaprirlo”.
Per Sartre, che Dio non vi sia è una evidenza. Dio è, inoltre,
superfluo ed il suo concetto implica contraddizione. Il problema di
Dio però è un problema molto importante, è “un problema totale,
che ciascuno risolve con la sua intera esistenza e la cui singola
soluzione rispecchia l’atteggiamento adottato da ciascuno nei
confronti degli altri uomini e di se stesso”. Anche se “non abbiamo
bisogno di Dio, nonostante il fatto che Dio sia morto “anche nel
cuore dei credenti”, Sartre riconosce che “tuttavia l’uomo non è
diventato ateo. Il problema, oggi come ieri, resta immutato; il silenzio
del trascendente, congiunto al perdurare, nell’uomo moderno,
dell’esigenza religiosa”. L’ateismo di Sartre è quindi un ateismo ben
conscio del suo ruolo nell’età contemporanea. È un ateismo che, al di
là di alcune affermazioni in apparenza blasfeme, si può definire
“provvisorio”, come egli stesso lo definì una volta. Egli è consapevole
che “l’ateismo è un’impresa crudele e di lungo respiro”, ed è quindi
impegnativo dichiararsi atei: lo vedremo tra breve in L’esistenzialismo è
un umanismo.
Fin dal suo primo romanzo, La nausea, è chiaro che la
contingenza fondamentale della vita umana e della realtà, è un
ostacolo insormontabile per l’affermazione di un Dio. Come si fa ad
affermare Dio, il non-contingente, se tutto è contingente? “La
contingenza – dice Sartre – non è una falsa sembianza, una apparenza
che si può dissipare; è l’assoluto, e per conseguenza la perfetta
gratuità. Tutto è gratuito”. Dio stesso, dirà Sartre ne L’essere e il
nulla, “è contingente”. Ma com’è definito Dio da Sartre? Egli è “l’in-
sé-per-sé, cioè l’ideale di una coscienza che sarebbe fondamento del
suo proprio essere-in-sé mediante la pura coscienza che prenderebbe

375
di se stessa”. L’uomo è, per Sartre, l’essere che progetta di essere Dio.
Però, se il senso del desiderio è in ultima analisi il progetto di essere
Dio, il desiderio non è mai costituito da questo senso, ma invece
rappresenta sempre una invenzione particolare dei suoi fini. In altre
parole, la realtà umana è puro sforzo di diventare Dio, ma la sintesi
proposta tra in-sé e per-sé è impossibile. Il concetto di Dio come
causa sui comporta in sé quello di presenza a sé, cioè della
decompressione d’essere annullante. Per essere progetto di fondarsi,
dice Sartre, bisognerebbe che l’in-sé fosse originariamente presenza a
sé, cioè fosse già coscienza. Così questo essere causa sui è impossibile
e il suo concetto implica contraddizione. È come se il mondo, l’uomo
e l’uomo-nel-mondo, dice Sartre, non giungessero a realizzare che un
Dio mancato. È come se l’in-sé e il per-sé si presentassero in uno
stato di disintegrazione in rapporto ad una sintesi ideale. Non che
l’integrazione abbia mai avuto luogo, ma invece precisamente perché
– ecco il punto – essa è sempre indicata e sempre impossibile. È la
continua sconfitta che spiega, secondo Sartre, sia l’indissolubilità del
rapporto fra l’in-sé e il per-sé e sia la loro indipendenza. L’uomo,
conclude Sartre, è una passione inutile. In L’esistenzialismo è un
umanismo viene trattato ancor più chiaramente il problema di Dio. Il
concetto di Dio è paragonabile per Sartre a quello di un artigiano
supremo: cioè Dio, quando crea, sa con precisione quello che crea.
Nel secolo XVIII, egli dice, la nozione di Dio viene eliminata, ma non
l’idea che l’esistenza venga dopo l’essenza. Ma, continua Sartre,
l’esistenzialismo ateo, “che io rappresento” è più coerente: se Dio non
esiste, esso afferma, c’è almeno un essere in cui l’esistenza precede
l’essenza, un essere che esiste prima di poter essere definito da un
concetto cioè l’uomo. Così non c’è una natura umana poiché non c’è
un Dio che la concepisca. Insomma, Dio non mi ha creato quindi Dio
non esiste. Però che Dio non esista non è certamente una cosa
comoda. Infatti, se Dio non c’è, dice Sartre, non ci possono essere
valori in un cielo intelligibile, cioè già dati; non può esserci un bene a
priori poiché non c’è coscienza infinita a pensarlo; non sta scritto da
nessuna parte che il bene esiste, dato che siamo su un piano dove ci
sono solamente uomini. Tutto è quindi lecito se Dio non esiste, e di
conseguenza l’uomo è abbandonato a se stesso perché non trova né
in sé né fuori di sé possibilità di ancorarsi. Così non abbiamo
giustificazioni o scuse e la responsabilità della vita del mondo ricade
su di noi. A chi ci rimprovera – afferma Sartre – la gratuità dei valori,
rispondo di essere molto spiacente che sia proprio così, ma siccome
ho soppresso Dio Padre è pur necessario qualcuno per inventare i

376
valori. D’altra parte, dire che noi inventiamo i valori vuol dire che la
vita non ha un senso già dato. Prima che voi viviate la vita non è
nulla, ma sta a voi darle un senso, e il valore non è altro che il senso
che scegliete. Così è possibile creare una comunità umana.
L’esistenzialismo, dice ancora Sartre, non è altro che lo sforzo per
dedurre tutte le conseguenze da una posizione atea coerente.
L’esistenzialismo non è ateismo nel senso che si limiti a dimostrare
che Dio non esiste, ma preferisce affermare: anche se Dio esistesse,
non cambierebbe nulla. Il problema non è quello della sua esistenza.
Bisogna che l’uomo ritrovi se stesso, fosse anche una prova valida
dell’esistenza di Dio.

Esistenzialismo e marxismo
Nell’ultima sua grande opera di contenuto teoretico, la Critica
della ragione dialettica (1960), Sartre presenta la teoria dell’azione e della
storia come una reinterpretazione originale dei rapporti tra
esistenzialismo e marxismo. In primo luogo la libertà, che nelle opere
precedenti era stata considerata da Sartre come assoluta e
incondizionata, viene adesso ridimensionata. L’uomo è sempre
dichiarato libero ma la sua libertà dipende anche dagli altri e dal
contesto sociale in cui si trova. “Dire di un uomo ciò che egli è, significa dire
ciò che egli può e reciprocamente : le condizioni materiali della sua esistenza
circoscrivono il campo delle sue possibilità … così il campo del possibile è lo scopo
verso il quale l’agente oltrepassa la sua situazione obiettiva. E questo campo, a
sua volta, dipende strettamente dalla realtà sociale e storica”. Perciò Sartre dice
di accettare la concezione materialistica di Marx, per cui “il modo di
produzione della vita materiale domina in generale lo sviluppo della
vita sociale, politica e intellettuale”. Egli rifiuta però nettamente il
materialismo dialettico di Engels. Sartre rifiuta in primo luogo le leggi
della dialettica della realtà proposte appunto da Engels dicendo che
“questa dialettica può effettivamente esistere, ma bisogna riconoscere che non ne
abbiamo la benché minima prova”. Egli insomma non accetta le leggi
proposte da Engels come regole che guiderebbero lo sviluppo della
natura, della storia e del pensiero. L’ammissione di quelle leggi,
secondo Sartre, implicherebbe un “beato ottimismo” che proclama un
finalismo di tipo hegeliano e, cosa ancora più inammissibile,
ridurrebbe l’uomo ad un semplice strumento passivo della dialettica,
incapace di sottrarsi al più rigido determinismo. La dottrina della
dialettica – nota Sartre – è diventata oggi una sorta di dogma per cui il
marxismo odierno “non sa più di nulla : i suoi concetti sono Diktat; il suo fine

377
non è più di acquistare cognizioni, ma di costituirsi a priori come sapere assoluto”.
E poiché il marxismo ha dissolto gli uomini “in un bagno di acido
solforico”, l’esistenzialismo ha potuto invece “rinascere e mantenersi
perché affermava la realtà degli uomini”.

NOTE BIOBIBLIOGRAFICHE

Jean-Paul Sartre nacque a Parigi il 21 Giugno 1905. Studiò alla


Scuola Normale, dove trovò amici quali Paul Nizan, Merleau-Ponty e
Raymond Aron, che gli fa conoscere Husserl e Heidegger. Nel 1929
conosce Simone de Beauvoir, che sarà sua compagna per tutta la vita.
Dopo aver insegnato filosofia al liceo di Le Havre, Sartre usufruisce di
una borsa di studio presso l’Istituto francese di Berlino e intraprende
lo studio della fenomenologia di Husserl. Sotto la sua influenza e
anche sotto quella del pensiero di Heidegger, escono i suoi primi studi
: L’immaginazione (1936), Abbozzo di una teoria delle emozioni (1939),
L’immaginario (1940), nonché il romanzo La nausea (1938) e la raccolta
di racconti Il muro (1939). Richiamato alle armi, nel giugno del 1940 è
fatto prigioniero dei Tedeschi, ma è poi liberato e torna a Parigi. Nel
1943 pubblica la sua opera filosofica più impegnativa, L’essere e il nulla,
e il suo primo lavoro teatrale, Le mosche. Terminata la guerra, Sartre dà
inizio ad una serie di romanzi intitolata I cammini della libertà e, in
collaborazione con altri, fa uscire la rivista “Les temps modernes”. In
risposta agli attacchi della sua opera filosofica da parte di marxisti e di
cattolici, pubblica nel 1946 il breve saggio L’esistenzialismo è un
umanismo. Egli si avvicina quindi ai comunisti francesi ma i fatti del
1956 come il rapporto Kruscev e la repressione della rivolta in
Ungheria sono l’occasione per la pubblicazione dell’articolo Il fantasma
di Stalin, che segna il distacco di Sartre dai comunisti. Egli intraprende
quindi una riflessione sul marxismo che darà luogo al saggio Questioni
di metodo, comparso in una rivista polacca nel 1957 e poi incluso, come
prima parte, nella Critica della ragione dialettica (1960). In seguito
pubblica l’autobiografia Le parole (1963), e l’anno dopo riceve il Nobel
per la letteratura, da lui però rifiutato. In ultimo si dedica ad una

378
imponente biografia su Flaubert che uscirà col titolo L’idiota di famiglia
(1971-72). Sempre in prima linea nel prendere posizione sui problemi
politici del suo tempo, Sartre si schiera contro la politica francese in
Algeria, entra a far parte del Tribunale Russell contro i crimini
americani nel Vietnam e nel 1968 appoggia il movimento studentesco.
E’ morto a Parigi, nel quartiere latino, al numero 47 di rue Bonaparte,
il 15 aprile 1980.

BIBLIOGRAFIA
Sartre, L’essere e il nulla, Il Saggiatore
Sartre, Critica della ragione dialettica, Il Saggiatore
Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, Mursia
Sartre, La nausea, Einaudi
S. Moravia, Introduzione a Sartre, “I filosofi”, Laterza

379
LUDWIG WITTGENSTEIN

1889-1951

Il Tractatus logico-philosophicus
Le radicali svolte teoriche che all'inizio del Novecento
avvenivano all'interno delle varie scienze, non potevano non avere
delle conseguenze sull'epistemologia, cioè sulla teoria della scienza e,
più in generale, sulla riflessione filosofica. L'opera nella quale si
trovano riunite in maniera geniale tutte le principali questioni
connesse ai mutamenti del pensiero scientifico è il Tractatus logico-
philosophicus di Wittgenstein (1921-22). Nella prefazione egli chiarisce
qual è l'intento del libro: “Il libro tratta i problemi filosofici e mostra, credo,
che la formulazione di questi problemi si fonda sul fraintendimento della logica del
nostro linguaggio. Tutto il senso del libro si potrebbe riassumere nelle parole:
quanto può dirsi, si può dir chiaro; e su ciò di cui non si può parlare, si deve
tacere…la verità dei pensieri qui comunicati mi sembra intangibile e definitiva.
Sono dunque dell'avviso d'aver definitivamente risolto nell'essenziale i problemi”.
Le tesi fondamentali del Tractatus sono riassunte in sette proposizioni
principali da cui derivano tutte le altre: 1) Il mondo è tutto ciò che
accade; 2) Ciò che accade, il fatto, è il sussistere di stati di cose;
3)L'immagine logica dei fatti è il pensiero; 4) Il pensiero è la
proposizione munita di senso; 5) La proposizione è una funzione di
verità delle proposizioni elementari; 6) La forma generale della
funzione di verità è [ p, ξ, N (ξ) ]; 7) Su ciò di cui non si può parlare, si
deve tacere.

380
Logica e realtà
L'opera inizia dunque con una affermazione che riguarda
l'essere del mondo: il mondo è tutto ciò che accade, quindi il mondo è
la totalità dei fatti, e dei fatti che accadono indipendentemente l'uno dall'altro.
Il che sembra implicare che non vi possa essere un nesso causale che
giustifichi inferenze causali né tantomeno la possibilità di derivare gli
eventi futuri da quelli presenti. “La fede nel nesso causale - dice infatti
Wittgenstein - è superstizione” (cfr. Tractatus, 5.1361). Da questo
punto di vista, non possono esserci, parlando propriamente, delle
leggi naturali. Le leggi, cioè le regolarità, appartengono solo al mondo della
logica, mentre “fuori della logica tutto è caso” (cfr. Ibidem, 6.3). Come
già sosteneva Hume, anche per Wittgenstein “Non esiste una
necessità in forza della quale una cosa debba accadere perché un'altra
è accaduta” (cfr. 6.37). Noi possiamo soltanto constatare che vi sono
delle cose che accadono. È uno dei presupposti empiristici presenti
nell'opera.
Altra affermazione empiristica è l'identificazione del pensiero col
linguaggio, e l'estensione al pensiero della stessa limitazione che vale per
il linguaggio: non è pensabile né esprimibile nulla che non sia un fatto
del mondo. In altre parole, il linguaggio è una sorta di raffigurazione
proiettiva della realtà; non tanto nel senso di immagine o copia bensì
in quello di raffigurazione formale o logica del fatto. Il linguaggio è la
raffigurazione logica del mondo: da una parte c'è il mondo, come totalità
dei fatti; dall'altra c'è il linguaggio come totalità di proposizioni o
pensieri che significano i fatti stessi. Le proposizioni, a loro volta, in
quanto sono parole, seni, suoni ecc., sono fatti; però a differenza di
altri eventi che accadono ma restano muti, essi significano e
significano per l'appunto fatti.
Da questo punto di vista, una proposizione ha senso se esprime
la possibilità di un fatto: se cioè i suoi costituenti (segni o parole) sono
combinati insieme in una forma che è una delle forme possibili di
combinazione degli oggetti che costituiscono il fatto. Dal senso di una
proposizione, va distinta la sua verità, che si ha quando la proposizione
indica un fatto reale. Ad es. le proposizioni “questa rosa è rossa” e
“questa rosa non è rossa” hanno entrambe senso perché sono
entrambi possibili; ma una sola di esse è vera.
Oltre alle proposizioni elementari, le quali esprimono le possibilità
di fatti e non sono vere in maniera necessaria ma solo quando i fatti le
confermano (come nell'esempio precedente è vero che la rosa è rossa

381
quando vedo di fronte a me una rosa rossa), vi sono anche altre
proposizioni che esprimono la possibilità generale dei fatti ma che
sono vere indipendentemente dai fatti stessi: sono le tautologie. Ad es. la
proposizione “nevica” esprime la possibilità di un fatto ed è vera se il
fatto accade, quindi se in realtà nevica; e così pure la proposizione
“non nevica” esprime la possibilità di un fatto ed è vera se in realtà
non nevica. Ma la proposizione “nevica o non nevica” esprime tutte
le possibilità ed è vera indipendentemente dal tempo che fa o farà; il
fatto che nevichi o non nevichi non la conferma né la smentisce. Essa
è dunque una tautologia. Non basta. Prendiamo la proposizione
“questo scapolo è sposato”. Essa non esprime più un fatto ma una
impossibilità. È quindi falsa indipendentemente da ogni fatto. Essa è
una contraddizione.
La tautologia e la contraddizione sono quindi rispettivamente
necessariamente vera e necessariamente falsa qualunque cosa accada.
Il che equivale a dire che esse non sono raffigurazioni della realtà, cioè
non rappresentano alcuna situazione possibile. Esse perciò non sono
provviste di senso (a differenza delle proposizioni elementari) ma non sono
neppure dei non-sensi, bensì appartengono all'ambito della logica simbolica
vera e propria.
Per Wittgenstein tutte le proposizioni della logica sono delle
tautologie nel senso che “non dicono nulla”, poiché non riguardano
dei fatti ma solo delle operazioni puramente linguistiche che
stabiliscono ad es. equivalenze o non equivalenze di significato tra
diverse espressioni linguistiche. L'esperienza dunque non può né
confermare né contraddire le varie proposizioni logiche. Per
Wittgenstein la logica e la matematica costituiscono l'intero campo
della necessità. Solo nella logica esistono necessità e impossibilità,
giacché i fatti, come si diceva prima, non hanno necessità e non
possono neppure averla le proposizioni che esprimono a loro volta i
fatti.
Wittgenstein ha insomma riproposto la distinzione di Hume
tra le proposizioni significanti che esprimono fatti possibili e le
proposizioni non significanti ma vere che sono le tautologie.
Vi è però ancora un terzo tipo di proposizioni che non sono
né significanti né tautologiche e queste sono chiamate da Wittgenstein
i non-sensi. Orbene, per Wittgenstein la maggior parte delle proposizioni
filosofiche sono dei non-sensi. Infatti, visto che per Wittgenstein noi non
possiamo parlare del mondo nella sua totalità (poiché non è un fatto),

382
come invece pretende di fare la filosofia e la metafisica in particolare,
quando osiamo farlo, esprimiamo per Wittgenstein semplicemente dei
non-sensi. Le proposizioni significanti sono infatti appannaggio delle
scienze naturali e non consentono alcuna inferenza al di là di ciò che
mostrano o manifestano; d'altra parte le tautologie di cui si occupa la
logica non consentono di dire nulla sulla realtà e sul mondo.

I problemi dell’uomo
Rimangono tutti gli altri problemi, quelli relativi ad es. al
mondo, alla vita, alla morte, ai fini umani ecc. che però, per
Wittgenstein, non si potrebbero neppure porre o, meglio, se vengono
posti, come è inevitabile che accada, non possono pretendere di avere
una risposta “sensata” ma solo… il silenzio. “Noi sentiamo - egli dice
- che anche una volta che tutte le possibili domande scientifiche
hanno avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora
neppure toccati. Certo allora non resta più domanda alcuna; e
appunto questa è la risposta” (cf. Ibid., 6.52). “La risoluzione del
problema della vita si scorge quando svanisce“ (cf. Ibid., 6.521). A
questo riguardo, si badi, Wittgenstein non nega che ci siano delle cose
che non si riescono ad esprimere, anzi, esso “si mostra, è ciò che è
mistico” (cf. Ibid., 6.522). Però la sua conclusione è che “su ciò di cui
non si può parlare si deve tacere” (cf. Ibid., 7). Il metodo corretto della
filosofia è solo questo: non dire nulla se non ciò che può dirsi. La filosofia è
allora intesa da Wittgenstein come una “critica del linguaggio”, cioè
una “chiarificazione logica del pensiero” (cf. Ibid., 4.112). La filosofia,
in altri termini, “deve rendere chiare e delimitare con precisione le
idee che altrimenti sarebbero, per così dire, torbide e confuse” (cfr.
Idem). Così la filosofia non è più un insieme di dottrine ma una attività (cfr.
Idem).
Il senso ultimo del Tractatus è insomma un senso etico, come
Wittgenstein stesso dice in una lettera a L. von Ficker: “…il senso del
libro è un senso etico…il mio lavoro consiste di due parti: di quello che ho scritto,
ed inoltre di tutto quello che non ho scritto. E proprio questa seconda parte è
quella importante… quello che non ho scritto, quello che non è detto poiché non
dicibile scientificamente è la parte più importante: l'etica e la religione”.
“Il positivismo sostiene che ciò di cui possiamo parlare è tutto
ciò che conta nella vita. Invece Wittgenstein crede appassionatamente
che tutto ciò che conta nella vita umana è proprio ciò di cui, secondo il suo modo
di vedere, dobbiamo tacere. Quando ciò nonostante egli si prende

383
immensa cura di delimitare ciò che non è importante, non è la costa di
quell'isola che egli vuole esaminare con tanta accuratezza, bensì i limiti
dell'oceano” (Engelmann).

La Conferenza sull'etica
Nella Conferenza - o lezione - sull'etica, che risale agli anni 1929-
30, Wittgenstein ci dà un esempio di come le sue riflessioni stiano
cambiando e la sua filosofia stia ripensando i propri fondamenti.
L'etica è da lui definita come la ricerca di ciò che è bene, è la ricerca su
ciò che ha valore, o su ciò che è realmente importante, o sul
significato della vita, o su ciò che fa la vita meritevole di essere vissuta
o sul modo giusto di vivere.
Volendo fissare la mia mente su ciò che intendo - dice
Wittgenstein - per valore assoluto o etico, l'esempio più calzante è
quando io mi meraviglio per l'esistenza del mondo. Oppure quando provo
l'esperienza di sentirmi assolutamente al sicuro: nulla può recarmi danno,
qualsiasi cosa accada. O ancora: sentirsi colpevoli. Meravigliarsi, sentirsi
al sicuro o sentirsi colpevoli, sono esempi di espressioni che per me
hanno un valore assoluto, intrinseco, cioè etico, nel senso che ... non
possiamo in realtà esprimere quel che vorremmo esprimere. In altri
termini, noi non siamo ancora riusciti a trovare la corretta analisi
logica di ciò che intendiamo con le nostre espressioni etiche e
religiose. Ma questo perché succede? perché con le proposizioni
etiche (o religiose) io mi propongo di andare al di là del mondo, ossia
al di là del linguaggio significante. E non riuscirò mai a farlo, dovendo
riconoscere che l'etica non potrà mai essere una scienza.

Scienza, mito e religione


Le sue riflessioni su temi non esclusivamente teoretici lo
porteranno ad una ulteriore svolta nel suo pensiero. Ci sono una serie
di appunti molto interessanti, che egli scrisse leggendo un'opera di
Frazer, Il ramo d'oro (trad. it. Newton Compton), che è un saggio sulle
pratiche magiche e religiose antiche.
Nelle sue annotazioni al libro (tradotte in italiano da Adelphi)
Wittgenstein critica l'approccio riduzionista di Frazer. Scrisse che
Frazer trattava la magia come se fosse una tecnica erronea.
Wittgenstein riteneva invece sbagliato che gli uomini "facciano tutto
questo per mera sciocchezza"(RDO, p. 18). Si chiese: perché i

384
primitivi fanno la danza della pioggia? Concluse che Frazer non aveva
capito che la magia non era un tentativo fallito di scienza e che si
basava non su una nozione di efficacia causale, ma sull'idea di
simbolismo e di linguaggio. La forma di vita magica e la forma di vita
scientifica sono del tutto diverse. La magia ha un suo linguaggio,
distinto dai giochi linguistici della scienza. E anche nell'ambito religioso,
i giochi linguistici della religione devono essere distinti dai giochi linguistici
delle scienze.

Le Ricerche filosofiche
Proprio sulla nozione di gioco linguistico si basa la riflessione
successiva di Wittgenstein. Si ricordi che nella prefazione al Tractatus,
Wittgenstein aveva scritto di “avere nell'essenziale risolto
definitivamente i problemi”. Di conseguenza Wittgenstein aveva
taciuto. Per diversi anni non si era più occupato di filosofia. Ma nel
1929 egli ritornò a Cambridge. Aveva concluso che i problemi filosofici non
erano stati definitivamente risolti. In particolare tre eventi - la riflessione
sulla matematica, i colloqui con altri pensatori e l'esperienza di
maestro elementare e la conseguente riflessione sul linguaggio
infantile - spinsero Wittgenstein ad assumere una prospettiva teorica
diversa nell'interpretazione del linguaggio.
In seguito alle discussioni con amici quali Ramsey e
soprattutto Piero Sraffa, economista italiano (giunto a Cambridge
poco prima di W), egli riformulò interamente o quasi la sua filosofia.
Circola su questo rapporto un celebre aneddoto che va riportato,
anche se tende a semplificare quello che fu senz'altro un lungo
processo. Accadde infatti che durante una passeggiata lungo il Cam, il
fiume di Cambridge, Sraffa mettesse in grave difficoltà la convinzione
espressa nel Tractatus che il linguaggio possa ridursi alla logica,
semplicemente chiedendogli a quale logica si potesse ridurre il tipico
gesto "napoletano" effettuato con l'indice ed il medio della mano che,
strofinando il mento dall'interno verso l'esterno, indica noncuranza,
menefreghismo.
Per Wittgenstein bisogna smettere di credere che il significato
di un termine consista in una realtà ad esso corrispondente, che ogni
espressione linguistica possieda un significato fisso, che tutte le
proposizioni debbano essere riducibili a proposizioni elementari e, in
generale, che il linguaggio coincida con le proposizioni “vere-false”
che raffigurano la realtà.

385
Mentre prima Wittgenstein aveva concepito il linguaggio come
fosse una struttura fissa e data, adesso era da lui inteso come un
sistema dinamico e pluralista. Secondo il Wittgenstein delle Ricerche
filosofiche, vi sono molteplici forme di linguaggio e questa molteplicità
non può neppure essere stabilita una volta per tutte: nascono
continuamente nuovi tipi di linguaggio, nuovi giochi linguistici,
mentre altri cadono in disuso. Wittgenstein sottolinea adesso la natura
pragmatica del linguaggio, e mostra come il significato sia inscindibile
dal contesto antropologico al cui interno l'attività linguistica si
costituisce. Esso è dunque funzione dell'uso, nel senso che varia in
relazione ad ogni variare del contesto d'uso, e viene in tal modo a
perdere ogni fissità. Il linguaggio è visto da Wittgenstein come un
insieme di giochi linguistici, che si costituiscono all'interno delle varie
forme di vita, dall'interno delle istituzioni e nell'ambito delle diverse
culture che si realizzano nel corso dello sviluppo storico delle società
umane. Non solo: non tutti i giochi sono giocati secondo regole; ci
sono anche giochi in cui giochiamo senza scopo o facciamo le regole
via via che procediamo (RF, n. 84).
Proprio per questo i giochi linguistici sono sempre variabili,
illimitati e non inquadrabili in uno schema. Ciò implica pure che è
illusorio ogni tentativo di formulare una volta per tutte la logica del
linguaggio, intesa come qualcosa di fisso e di definitivo; anzi, più che
di una illusione, si tratta di una superstizione, il cui superamento
rappresenta per Wittgenstein il compito primario dell'attività
filosofica. Questa non deve formulare teorie o fornire spiegazioni ma
deve limitarsi a descrivere gli usi effettivi del linguaggio. “La filosofia non
può in nessun modo intaccare l'uso effettivo del linguaggio; può, in
definitiva, soltanto descriverlo. Non può nemmeno fondarlo. Lascia
tutto com'è” (cf. Ricerche filosofiche, n.124). Si badi: quella frase famosa e
controversa non implica che gli esseri umani debbano lasciare tutto
così com'è. Le parole intendono soltanto delineare la specifica
funzione della filosofia: non sono da leggere nel senso che non ci
debba essere nessun cambiamento sociale o politico.
En passant, Wittgenstein non fu certamente un pensatore politico; la
filosofia ci può soltanto insegnare a vedere le cose chiaramente e
sperare così di risvegliarci dalle illusioni. Ad es. ci potrebbe insegnare
che esiste in noi una naturale tendenza alla compassione per le
sofferenze altrui, nonostante le evidenti manifestazioni di disumanità
che ci circondano. Forse una ipotetica teoria politica wittgensteiniana
sarebbe caratterizzata da un tipico atteggiamento di sospetto verso le

386
vaste generalizzazioni sistematiche, e dalla sua propensione ad
accettare come tali il pluralismo e la contraddizione. La funzione del
pensiero di Wittgenstein sarebbe quella di fornire gli strumenti per
una valutazione critica delle teorie politiche e in primis sui concetti
stessi che sono alla base delle varie teorie politiche: a cominciare dal
termine stesso di politica, per poi analizzare i significati di democrazia,
liberalismo, dittatura, società ecc. Infine il pensiero di Wittgenstein
potrebbe suggerire riflessioni sulla molteplicità dei fattori che
riguardano le vicende politiche: i legami famigliari e sociali, i fattori
causali come la geografia e il clima e così via.

Lo scopo della filosofia


Come abbiamo detto, la filosofia in un certo senso non spiega
e non deduce nulla, ma si limita a porre le cose davanti a noi. Dal
momento che ogni cosa è “aperta alla vista”, non c'è nulla da spiegare.
Tutte le espressioni si devono ricondurre al linguaggio quotidiano, che
rappresenta il terreno originario sul quale si costituiscono tutti i
significati. Questo vale anche per tutti quegli ambiti, quali la logica, la
matematica ecc. che storicamente sono stati privilegiati, in quanto
ritenuti indiscutibili e non dipendenti dagli accidenti storici. Tutti gli
aspetti del linguaggio, anche quelli in apparenza fissi e rigidi devono,
per Wittgenstein, essere ora visti sullo sfondo della prassi umanitaria,
al cui interno solitamente si costituiscono.
La filosofia è ora vista da Wittgenstein come una sorta di
malattia, anche se non esiste una cura definitiva: la terapia migliore
sarebbe quella di smettere di filosofare, ma come è possibile? “La
chiarezza cui aspiriamo è certo una chiarezza completa. Ma questo vuol
dire soltanto che i problemi filosofici devono svanire completamente. La
vera scoperta è quella che mi rende capace di smettere di filosofare
quando voglio. Quella che mette a riposo la filosofia, così che essa
non è più tormentata da questioni che mettono in questione la filosofia
stessa… non c'è un metodo della filosofia ma ci sono metodi; per così
dire, differenti terapie” (cfr. Ricerche filosofiche, n. 133). “quello che io
faccio è di proporre o addirittura inventare altri modi di considerare
un concetto. Suggerisco possibilità alle quali non avevate mai
pensato…Così vi ho liberato dal vostro crampo mentale e ora potete
guardarvi intorno nel campo dell'uso dell'espressione e descrivere i
suoi diversi tipi d'uso”. Qual è allora lo scopo della filosofia?
Wittgenstein dice: “indicare alla mosca la via d'uscita dalla trappola”

387
(cfr. Ricerche filosofiche, n. 309) e quindi mostrare agli esseri umani come
sfuggire alle trappole del loro stesso pensiero, ripercorrendo i passaggi
con cui ci sono finiti dentro. In altri termini, spero di non fraintendere
W se oso dire che egli ci vuole liberare dall'intellettualismo in cui
sovente ci piace invischiarci. I problemi della vita sono affrontati e
risolti non con la logica ma con la vita, con l'azione, ed il senso della
vita non è una questione teorica ma pratica, lo si vive: è la vita il suo
senso.

Conclusione
Come si è visto, egli è vissuto, metaforicamente, fra due
crocevia: il primo tra la cultura laica e la cultura religiosa; il secondo
tra cultura scientifica e cultura filosofica. Il pensiero di Wittgenstein è
in fieri, ben lungi dall'essere concluso. Non si dimentichi inoltre che il
filosofo ha lasciato moltissimi inediti che potrebbero riservare non
poche sorprese per quanto riguarda una interpretazione corretta della
filosofia wittgensteiniana, la quale, come ho cercato di descrivere, è
tutt'altro che una specie di neopositivismo o neoempirismo a cui è
stata sovente ridotta.

NOTE BIOBIBLIOGRAFICHE
Ludwig Wittgenstein nacque a Vienna il 26 aprile 1889 e morì
a Cambridge, Inghilterra, il 29 aprile 1951. Egli ispirò due scuole di
pensiero e ne rimase autonomo: da un lato il cosiddetto positivismo
logico o neopositivismo o empirismo logico; dall'altro la filosofia
analitica, diffusa in Gran Bretagna e negli Stati Uniti.
La famiglia era ricca e colta: il padre ingegnere, la madre
artista, Ludwig fu uno dei nove figli della coppia. Da giovane si
interessò un po' a tutto, dalla musica (pensò anche di studiare
direzione d'orchestra) all'architettura ma alla fine scelse di studiare
ingegneria. Era fortemente interessato alla matematica pura e ai
fondamenti filosofici della matematica. Lesse i Principia mathematica di
Russell e Whitehead e decise di andare a studiare a Cambridge con
Russell stesso (1911-13). Oltre ad occuparsi di matematica e di
filosofia, si interessò anche alla psicologia sperimentale. Nel 1913 fece
un viaggio in Norvegia e se ne innamorò. Vi tornò sovente e si costruì
da solo una casetta dove rimase per diverso tempo.

388
Allo scoppio della prima guerra mondiale si arruolò e
cominciò a scrivere gli appunti che lo porteranno poi a redigere il suo
Tractatus logico-philosophicus, uno dei capolavori della filosofia del
Novecento, che verrà pubblicato nel 1922. Dopo la guerra, si sentì la
vocazione del maestro e prese il diploma da maestro elementare e si
dedicò all'insegnamento, dal 1920 al 1926, in vari remoti villaggi nella
bassa Austria. Pubblicò anche un glossario per le scuole elementari.
Ma poi decise di cambiare ancora e fece l'aiuto giardiniere in un
convento di Hütteldorf, nelle vicinanze di Vienna. Nell'autunno del
1926 accettò un incarico che lo tenne impegnato per un paio d'anni:
progettò e costruì a Vienna una casa per una delle sue sorelle.
Finalmente, nei primi mesi del 1929 (a quasi 40 anni), Wittgenstein
arrivò a Cambridge. Così la laurea gli fu conferita nel giugno del 1929
e l'anno seguente diventò "Fellow" del Trinity College, cominciando
ad insegnare filosofia. Dal 1929 fino alla morte, Wittgenstein visse
quasi sempre in Inghilterra. Dopo il 1933 nel pensiero di Wittgenstein
si determinò una svolta radicale che lo porterà a scrivere le Ricerche
filosofiche (postume, 1953). Prese la nazionalità inglese dopo la Anschluss
(annessione dell'Austria al Reich hitleriano, nel 1938). Nel 1939, a 50
anni, succedette a Moore nella cattedra di filosofia. Negli ultimi due
anni di vita fu gravemente ammalato di cancro alla prostata. Fu
sempre lucido e, ancora due giorni prima della morte, annotò delle
riflessioni filosofiche. Le sue ultime parole furono: "Dite loro che ho
avuto una vita meravigliosa!". Wittgenstein è sepolto nel cimitero di Saint
Giles a Cambridge: una semplice lastra nel terreno riporta il suo nome
e gli anni di nascita e di morte.

BIBLIOGRAFIA
Le opere di Ludwig Wittgenstein sono state pubblicate in
italiano presso le edizioni Einaudi, Laterza, Adelphi ecc.
A. Gargani, Introduzione a Wittgenstein, “I filosofi”, Laterza
Black, Manuale per il Tractatus di Wittgenstein, Ubaldini
N. Malcom, Ludwig Wittgenstein, Tascabili Bompiani
Valent, Wittgenstein, “Invito al pensiero” , Mursia

389
KARL POPPER

(1902-1994)

Introduzione
Karl Popper è stato uno dei più grandi filosofi contemporanei.
Il suo primo bersaglio polemico (e quello che gli diede la fama) fu il
Positivismo o, meglio, le pretese dei Neopositivisti (come Schlick,
Neurath, Carnap ecc.) di considerare valido solo ciò che è verificabile
con l'esperienza. Inoltre, contro la loro riduzione dei problemi
filosofici a problemi concernenti l'uso linguistico dei termini
adoperati, Popper afferma che "dobbiamo smetterla di preoccuparci
delle parole e dei loro significati, per preoccuparci invece delle teorie
criticabili, dei ragionamenti e della loro validità". In breve, non ci fu
questione toccata dai Neopositivisti o Neoempiristi su cui Popper
non la pensasse diversamente. Ma Popper si occupò anche di politica
e di molti altri problemi, su cui espresse sempre la sua originale
opinione.

La critica all’induzione
Nella Logica della scoperta scientifica (1^ ediz. 1934), egli ritiene di
aver risolto un problema filosofico fondamentale, quello della
induzione (il passaggio dal particolare al generale) e lo ha risolto
dissolvendolo: "L'induzione non esiste, e la concezione opposta è un
errore bell'e buono". L'induzione si intende in due modi: induzione
per enumerazione o ripetitiva ed induzione per eliminazione.
Entrambi i tipi per Popper non sono validi.
La prima consiste di osservazioni spesso ripetute, le quali
dovrebbero fondare qualche generalizzazione della teoria. Ma la

390
mancanza di validità di tale genere di ragionamento è ovvia : nessun
numero di osservazioni di cigni riesce a stabilire che tutti i cigni sono
bianchi o che la probabilità di trovare un cigno che non sia bianco è
piccola. Dunque l'induzione per enumerazione è fuori causa: non può
fondare nulla. D'altro canto, l'induzione eliminatoria si fonda sul
metodo della eliminazione o confutazione delle teorie false. Bacon e
Stuart Mill - dice Popper - credevano che, eliminando tutte le teorie
false, si potesse far valere la teoria vera. Ma non si rendevano conto
che il numero delle teorie rivali è infinito anche se, di regola, in ogni
momento particolare possiamo prendere in considerazione un
numero finito di teorie. Dunque l'induzione non esiste ed è un errore
pensare che la scienza empirica proceda con metodi induttivi. Di
solito si afferma che una inferenza è induttiva quando procede da
asserzioni singolari (quali i resoconti dei risultati di osservazioni o di
esperimenti) ad affermazioni universali, quali ipotesi o teorie.
Senonché, dice Popper, "da un punto di vista logico, è tutt'altro che
ovvio che si sia giustificati nell'inferire asserzioni universali da
asserzioni singolari, per quanto numerose siano queste ultime; infatti
qualsiasi conclusione tratta in questo modo può sempre rivelarsi falsa;
per quanto numerosi siano i casi di cigni bianchi che possiamo aver
osservato, ciò non giustifica la conclusione che tutti i cigni sono
bianchi".

La critica all’osservativismo
Connessa alla teoria dell'induzione, vi è secondo Popper l'altra
idea per cui la mente del ricercatore dovrebbe essere una mente priva
di presupposti, di ipotesi, di sospetti e di problemi, insomma una
tabula rasa su cui verrebbe poi a rispecchiarsi il libro della natura.
Questa idea è chiamata da Popper osservativismo ed è secondo
Popper un mito. La realtà è che noi siamo invece una tabula plena dei
segni che la tradizione e l'evoluzione culturale ci ha lasciato.
L'osservazione è sempre orientata da aspettazioni teoriche : in altri
termini, allo scopo di osservare, dobbiamo avere in mente una
questione ben definita; un esperimento o prova presuppone sempre
qualcosa da sperimentare o provare. E questo qualcosa sono le ipotesi
o congetture o idee o teorie che si inventano per risolvere i problemi.
La mente purgata da pregiudizi non è - dice Popper - una mente pura:
essa sarà soltanto una mente vuota. Noi operiamo sempre con teorie,
anche se spesso non ne siamo consapevoli.

391
La validità della scienza
Ma allora, ha validità la ricerca scientifica? Certo che ne ha, ma
deve essere intesa in senso corretto. Per Popper la ricerca non parte
da osservazioni ma da problemi :"da problemi pratici o da una teoria
che si è imbattuta in difficoltà: che cioè ha fatto nascere aspettazioni e
poi le ha deluse". E per risolvere i problemi occorre l'immaginazione
creatrice di ipotesi o congetture; c'è bisogno di creatività, della
creazione di idee "nuove e buone", buone alla soluzione del
problema. Ed è qui necessario tracciare una distinzione (su cui Popper
insiste spesso) tra contesto della scoperta e contesto della
giustificazione. Una cosa è la genesi delle idee; un'altra è la loro prova.
Le idee scientifiche non hanno fonti privilegiate: possono scaturire dal
mito, da metafisiche, dal sogno, dall'ebbrezza ecc. Ma quel che
importa è che esse vengano provate di fatto. Ed è ovvio che, allo
scopo di esser provate di fatto, le teorie scientifiche debbano essere
provabili o controllabili di principio.

Il principio metodologico di falsificabilità


Da ciò si vede che una teoria deve essere falsificabile ,deve
essere cioè tale che da essa siano estraibili conseguenze che possono
venir confutate, cioè falsificate dai fatti. Se infatti da una teorie non è
possibile estrarre conseguenze possibili di controllo fattuale, essa non
è scientifica. Si badi inoltre che, per quante conferme una teoria possa
aver avuto, essa non è mai certa e definitiva, in quanto il prossimo
controllo potrebbe smentire la teoria. In effetti, esiste una asimmetria
logica tra la verificazione e la falsificazione: miliardi di conferme non
rendono certa una teoria (quale ad es. "tutti i pezzi di legno
galleggiano in acqua") mentre un solo fatto negativo falsifica, dal
punto di vista logico, la teoria (questo pezzo di ebano non galleggia").
E' su questa asimmetria che Popper innesta il suo principio metodologico
della falsificabilità : siccome una teoria, per quanto confermata, resta
sempre smentibile, allora bisogna tentare di falsificarla, perché prima
si trova un errore e prima lo si potrà eliminare con l'invenzione e la
prova di una teoria migliore di quella precedente. "Da un sistema
scientifico - dice Popper - non esigerò che sia capace di essere scelto,
in senso positivo, una volta per tutte; ma esigerò che la sua forma
logica sia tale che possa essere messo in evidenza, per mezzo di
controlli empirici, in senso negativo : un sistema empirico deve poter
essere confutato dall'esperienza".

392
Falsificabilità e metafisica
Il criterio di falsificabilità non vuole essere un criterio di
significanza come il principio di verificazione dei Neopositivisti (per i
quali è valido ed ha senso solo ciò che è verificabile, altrimenti non ha
appunto senso e quindi non è accettabile) ma soltanto di
demarcazione tra asserzioni empiriche e asserzioni che empiriche non
sono. Inoltre dire di un asserto che non è scientifico non implica
affatto che esso sia insensato. Anzi "non si può negare che, accanto
alle idee metafisiche che hanno ostacolato il cammino della scienza, ce
ne sono state altre che ne hanno aiutato il progresso. E guardando alla
questione dal punto di vista psicologico, sono propenso a ritenere che
la scoperta scientifica è impossibile senza la fede in idee che hanno
una natura puramente speculativa, e che talvolta sono addirittura
piuttosto nebulose; fede, questa, che è completamente priva di
garanzie dal punto di vista della scienza e che, pertanto, entro questi
limiti è 'metafisica' ". Dunque anche dal punto di vista psicologico la
ricerca è impossibile senza idee metafisiche, quali potrebbero essere,
ad esempio, le idee di realismo, di ordine dell'universo o di causalità.
Da un punto di vista storico vediamo poi che "talvolta idee che prima
fluttuavano nelle regioni metafisiche più alte possono essere raggiunte
dall'accrescersi della scienza e, venute così in contatto con essa ,
depositarsi … Tutti questi concetti e queste idee metafisiche sono
state d'aiuto, anche nelle loro forme più primitive, nel portare ordine
nell'immagine che l'uomo si fa del mondo e, in alcuni casi, possono
aver portato a predizioni dotate di successo".
Tornando alle idee metafisiche, dobbiamo comunque badare
che tali teorie, sebbene empiricamente inconfutabili, possano essere
criticabili. Criticabili proprio perché esse non sono asserzioni isolate,
ma sono collegate, si basano, presuppongono o sono incompatibili
con altre teorie o situazioni problematiche. Questo è quanto già
facevano - dice Popper - i primi filosofi greci che, ammettendo l'acqua
o l'aria o altro come elemento primordiale, formulavano congetture
che venivano confutate o corrette dai filosofi posteriori. Ecco il senso
della affermazione apparentemente paradossale di Popper quando
dice: "Torniamo ai Presocratici!", intendendo che la discussione critica
è l'unico fondamento e l'unica molla della ricerca.

393
Critica a marxismo, psicoanalisi, storicismo
Popper fu anche famoso per le sue aspre critiche a marxismo,
psicoanalisi e storicismo. La critica di fondo a queste teorie da parte di
P. è quella di essere organizzate in modo tale da sfuggire al rischio
della falsificazione; esse sono dottrine onni-esplicative e a "maglie
larghe" ossia non suscettibili di sufficiente falsificabilità oppure
dirette a "parare" le prove di falsificabilità con continue "ipotesi di
salvataggio". Popper ribadisce invece che una teoria che non può
venir confutata da nessun evento concepibile non è scientifica.
L'inconfutabilità di una teoria non è affatto per Popper una virtù
bensì un vizio. Per quanto riguarda poi lo storicismo, egli specifica
che per "storicismo" intende tutte quelle teorie che hanno preteso di
cogliere il senso globale, oggettivo della storia, ovvero una sorta di
destino cui gli individui dovrebbero uniformarsi, accettando la
direzione di marcia della società, in tal modo svelata o profetizzata
(vedi ad es. Esiodo, Platone, Comte, J:Stuart Mill, Hegel, Marx ecc.).
Popper ritiene invece che non esista un senso della storia precostituito
rispetto alle interpretazioni e alle decisioni umane poiché la storia
assume il senso che gli uomini le danno.
Né la natura né la storia possono dirci che cosa dobbiamo
fare, essendo noi stessi ad introdurre finalità e significato nella natura
e nella storia. Popper rifiuta anche la pretesa di voler parlare ad ogni
costo della totalità della storia perché si dimentica che, se desideriamo
studiare qualcosa, siamo costretti a sceglierne alcuni aspetti; la
descrizione è sempre necessariamente selettiva. Inoltre quando lo
storicismo crede di poter prevedere il futuro "inevitabile", dimentica
che una previsione, per essere veramente scientifica, deve basarsi su
una legge e non su una tendenza; in altre parole, gli storicisti non
pongono mente al fatto che la validità delle tendenze, che sono
"affermazioni storiche singolari", presuppone l'indimostrato persistere
di certe condizioni iniziali specifiche. In ultimo, Popper ritiene che
nello storicismo alberghi una "utopia totalitaria" che porta
all'asservimento e alle sofferenze degli uomini. Infatti, se si ritiene che
esista un senso o una direzione oggettiva della storia, gli "interpreti
ufficiali di essa", i "portavoce del suo destino" si sentiranno
autorizzati a liquidare chiunque si opponga ad esse.

394
Società e politica
Una società aperta è per Popper quella che è basata
sull'esercizio critico della ragione, una società che non solo tollera ma
stimola, all'interno e attraverso le istituzioni democratiche, la libertà
dei singoli e dei gruppi, in vista della soluzione dei problemi sociali,
cioè in vista di continue riforme. Ciò non vuol però dire che il
democratico, proprio perché tale, debba accettare l'ascesa al potere dei
totalitari. La domanda da farsi non è per Popper: "Chi deve
comandare?" bensì :"Come è possibile controllare chi comanda e
sostituire i governanti senza spargimento di sangue?" . E' questa
l'impostazione di chi costruisce, perfeziona e difende le istituzioni
democratiche a favore della libertà e dei diritti di ognuno e quindi di
tutti. L'uguaglianza di fronte alla legge non è un fatto ma deve essere
una istanza politica che riposa su una scelta morale." La fede nella
ragione, anche nella ragione degli altri, implica l'idea di imparzialità, di
tolleranza, di rifiuto di ogni pretesa autoritaria".
In una democrazia si deve anche tenere sotto controllo la
televisione. Essa rappresenta oggi un enorme potere politico ed
educativo. Essa può insegnare i disvalori e la violenza al punto tale
che ne potremmo diventare assuefatti. "Credo che un nuovo Hitler
avrebbe, con la televisione, un potere infinito", dice Popper. Nessuna
democrazia può sopravvivere se un potere qualunque, e in questo
caso la televisione, la domina e la controlla.
Io propongo, dice Popper, che chiunque sia collegato alla
produzione televisiva debba avere una patente, una licenza, un
brevetto, che gli possa essere ritirato a vita qualora agisca in contrasto
con certi principi. L'organismo che avrà la facoltà di ritirare la patente
sarà una sorta di Corte. Perciò tutti, in un sistema televisivo che
operasse secondo la mia proposta, si sentirebbero sotto la costante
supervisione di questo organismo. E questo perché tutti coloro che
sono coinvolti nel fare televisione agiscono come educatori, e
influenzano la società. Ma la società può sopravvivere solo se si riduce
la violenza: è questa la funzione principale di un'opera di
civilizzazione.

395
NOTE BIOGRAFICHE

Karl Raimund Popper nacque a Vienna nel 1902 e si laureò in


filosofia nel 1928. Nel 1937, poco prima della annessione dell'Austria
da parte di Hitler, Popper emigrò in Nuova Zelanda. Nel 1946 si
trasferì in Inghilterra e qui rimase fino alla morte, nel 1994,
insegnando all'università di Londra.

BIBLIOGRAFIA
K. Popper, Logica della scoperta scientifica, Einaudi
K. Popper, La società aperta e i suoi nemici, Armando
K. Popper, La ricerca non ha fine, Armando
K. Popper, Miseria dello storicismo, Feltrinelli
K. Popper e J. Condry, Cattiva maestra televisione, I Libri di
Reset
K. Popper, Tre saggi sulla mente umana, Vallecchi
Corvi, Popper, nella collana "Invito al Pensiero" , Mursia.

396
FILOSOFI EBREI CONTEMPORANEI

FRANZ ROSENZWEIG

(1886-1929)

Ebraismo e cristianesimo
Rosenzweig amava, fin da giovane, tenere dei diari e
comunicare attraverso lettere. Tuttavia, vi è un unico argomento che
percorre questi suoi scritti, ed è la ricerca dell’uomo ideale intesa
come ricerca del senso da dare alla propria vita. Ed è allora inevitabile
che egli si misuri col pensiero metafisico e religioso. Rosenzweig
assumerà nel corso degli anni posizioni diverse finché troverà nella
riflessione sull’ebraismo e sul cristianesimo il filo conduttore del
proprio pensiero. Egli considera ebraismo e cristianesimo ugualmente
importanti per l’umanità ed entrambi le religioni possono collaborare
per chiarire a loro stesse il loro destino nel mondo. Ad es. sottolinea
come la rivelazione ebraica implichi sia il pregare e studiare nella
concentrazione, sia l’andare per il mondo, nonostante l’ebraismo, a
partire dall’età talmudica, abbia soprattutto affermato la sinagoga, e
come il cristianesimo debba dunque guardare a tale rivelazione per
non perdere il senso della sua azione nella storia.
Se ebraismo e cristianesimo devono essere concepiti non tanto
nel loro dualismo, quanto nella loro complementarità, a causa della
radice che li accomuna, non risulta allora la rivelazione, che guarda
soprattutto a Dio, strettamente connessa alla filosofia, che guarda
soprattutto al mondo? Non vi è nell’ebraismo stesso, in quanto

397
affermato nella storia da un popolo che si rende visibile ed entra in
relazione con altri popoli e culture, una direzione verso il mondo, e
dunque verso la filosofia, oltre a quella verso la rivelazione? E,
riguardo al cristianesimo, non vi è in esso, oltre alla direzione verso il
mondo, e dunque verso la filosofia, una direzione verso la rivelazione,
come è provato da quelle sue correnti che si trovano in una situazione
di contrasto con il mondo o col potere politico?
Rosenzweig ritiene anche che la peculiarità della rivelazione
ebraica rispetto alla rivelazione cristiana, che cancella la radicale
differenza esistente tra il divino e l’umano, eviti quella dissoluzione
della rivelazione nella filosofia che, attraverso l’interpretazione data da
Tommaso d’Aquino alla Guida dei perplessi di Maimonide e le varie
vicende del razionalismo europeo fino all’Illuminismo, trova infine il
suo compimento in Hegel.
In particolare però Rosenzweig ritiene che la peculiarità della
rivelazione ebraica rispetto a quella cristiana sia tale che essa evita
quella dissoluzione della rivelazione nella filosofia che dal medioevo
cristiano arriverà fino ad Hegel. Il suo compito è quello di trovare un
nuovo sistema filosofico che si possa costruire tenendo conto della
rivelazione, sostituendo i vecchi sistemi filosofici costruiti
esclusivamente sulla ragione. In altre parole, Rosenzweig sente
l’esigenza di un pensare universale che si fondi anche sulla fede, sul
cuore, sull’esistenza concreta della persona e gli sembra che la
rivelazione ebraica possa rispondere a tale esigenza e quindi essa può
essere considerata come il presupposto di un nuovo pensiero
filosofico. Il pensare sorge necessariamente dalla fede e dalla
riflessione sulla Bibbia. Anzi la condizione ebraica, che racchiude in sé
sia la fede che il sapere, diventa per Rosenzweig metafora della
condizione umana pura e semplice.
Il nuovo sistema filosofico abbandona il solito presupposto
che il pensiero è solo fondato su se stesso: per lui il pensiero è
fondato sulla rivelazione, sulla religione, sul rapporto fra uomo e Dio.
La prima esperienza è per Rosenzweig un’esperienza vissuta
immediata che non avviene all’interno dell’anima bensì consiste nel
contatto tra l’essere umano finito e un Infinito che rimane esterno e
non è mai pienamente inseribile nell’orizzonte umano.

398
Dio uomo e mondo
Ad una filosofia che fonda la totalità dell’universo sulla unità
del logos, egli contrappone la concretezza irriducibile dell’essere
umano: “io, comunissimo privato individuo, io nome e cognome”(cfr.
Il nuovo pensiero, tr. it. Arsenale, Venezia 1983, p. 21). Diversi anni
prima della corrente filosofico dell’esistenzialismo, sulla scia di
Kierkegaard, Rosenzweig insiste sulla concretezza del singolo uomo e
sulla sua importanza nei confronti del resto, con cui è comunque in
relazione: la comunità, il mondo, Dio stesso. Qual è dunque il vero
essere dell'uomo? Rosenzweig elegge ad interlocutori privilegiati
Goethe e il Libro di Qohelet, al fine di mostrare come sia la transitorietà
la categoria propria dell'uomo, e come essa sia invece estranea al Dio
biblico - l'eterno - ma anche agli dèi viventi del pantheon greco - gli
immortali -. L'uomo, tuttavia - transitorio dal punto di vista temporale
ed ignorante per quanto riguarda l'oggetto proprio del conoscere -
non si lascia facilmente mettere in bottiglia; l'uomo, proprio in quanto
non è un'astrazione concettuale, né un'impassibile strumento d'una
provvidenza necessitante o d'una astuzia razionale che può dominarne
le sorti, è capace di gridare costantemente il suo «io sono qui» contro
ogni pretesa dell'universale che lo minacci di un incomprensibile
annientamento attraverso la forza propria che gli è data dal suo essere
particolare, ovvero dalla sua più intima fattualità: la peculiarità (die
Eigenheit). L'uomo è dunque originariamente un singolo peculiare,
ovvero un singolo gettato in uno spazio infinitamente vuoto, che
nulla sa degli altri singoli a lui vicini proprio in quanto gli è ignota
anche l'esistenza di un «vicino»: egli potrebbe essere ovunque; e,
difatti, è «dovunque». Dio, JHWH che passeggia con Adamo
nell'Eden del libro della Genesi rappresenta ancora il necessario
prologo attraverso cui leggere la differenza come comunione delle
diversità nel fine unico dell'amore. Infatti, mentre in Dio potere e
volere coincidono appieno - tanto che la creazione è libero gesto della
volontà divina che si traduce in azione e fatto attraverso la semplice
articolazione del verbo barà (creò) -, nella libertà umana il potere è
negato sin dall'origine, anche se il volere umano è altrettanto
incondizionato e sconfinato quanto la potenza di Dio. Tale distanza
incolmabile tra creatore e creatura si traduce anche in termini morali:
«in Dio «essere buoni» significa fare il bene, nell'uomo: volere il bene».
Ma è proprio tale peculiare libertà umana ad essere straordinaria
all'interno del mondo dei fenomeni: essa, da un lato «appare come un
contenuto in mezzo agli altri», ma nel mondo stesso della vita «essa

399
appare come un «miracolo»», proprio perché «diversa da tutti gli altri
contenuti». L'uomo vivo, come dice Rosenzweig, - ovvero il «sé» più
nascosto ed impenetrabile dell'individuo - si rispecchia nel mondo
tramite una serie di azioni. Azioni nominanti, all'inizio, che tuttavia, da
sole, hanno il potere di costituire un mondo - che tuttavia già c'è come
creato - sotto il segno della pregnanza. Il «sé» è dunque una tale libertà
che, seppure finita nelle sue espressioni compiute, è parimenti infinita
nel suo anelare ad altro e nel suo tendere ad una più compiuta
designazione del cosmo.
Rosenzweig insiste parecchio sul giorno preciso in cui il «sé»
prende per sé tutto l'individuo; egli è convinto che il carattere
dell'individuo non divenga gradatamente nel tempo, ma si manifesti
improvvisamente nell'uomo in un istante preciso dell'esistenza. Come
a dire che la caparbietà del «sé», inscritta nella volontà come cifra
caratterizzante l'individuo, si manifesta repentinamente nelle prove
decisive cui la libertà è soggetta. Anzi, il giorno preciso con cui il «sé»
espropria la volontà, facendone virare i connotati verso l'orgoglio e
l'arroganza, indica tutt'altro che una maturazione graduale del
soggetto, quanto piuttosto una subitanea e determinante - quanto
tragica - scelta della libertà dell'io.
Il suo nuovo pensiero ha come principali caratteristiche la
fedeltà all’esperienza e l’unione tra filosofia e teologia. Egli definisce la
sua filosofia come “empirismo assoluto”, volendo indicare con tale
termine sia il bisogno di un legame costante con la concretezza sia il
superamento di schematismi per poter cogliere il reale nella sua
totalità senza rifiutare nessun aspetto e quindi ad es. quelli metafisici e
religiosi.
È in gioco la determinazione della possibilità di un nuovo
sistema filosofico da costruire sulla rivelazione in quanto sostituzione
del vecchio sistema filosofico costruito sulla ragione umana:
Rosenzweig considera anche il cristianesimo, nella forma assunta nella
modernità, coinvolto in tale processo e propone perciò la rivelazione
ebraica, necessaria anche alla rivitalizzazione del cristianesimo, come
presupposto del sistema; insomma, propone l’esigenza di un pensare
universale che si fondi tuttavia sulla fede, sul cuore, sull’esistenza del
singolo. Così la parola del filosofo si mostra come una continuazione
o uno sviluppo della parola che, secondo la tradizione biblica, è
ispirata da Dio stesso.

400
Il suo capolavoro, come ho già citato, è La stella della redenzione
(1921). Egli fu sempre consapevole che quello era il libro della sua
vita. L’accoglienza nei confronti del libro, come era prevedibile, fu
invece piuttosto fredda: ci fu addirittura chi considerò la Stella un libro
troppo cristiano per essere ebraico ed altri un libro troppo ebraico per
essere cristiano.
La Stella della redenzione è un simbolo: indica con tale
espressione sia il simbolo ebraico della stella di Davide, sia l’intreccio
tra i due triangoli che risultano iscritti nel volto dell’uomo quando si
uniscono le linee che congiungono occhi e mento, centro della fronte
e angoli della bocca, sia la figura ultima prodotto dal comporre
insieme il triangolo che indica i tre punti: Dio, mondo, uomo, sia il
triangolo formato dalle linee aventi come loro punti creazione,
rivelazione, redenzione.
L'opera si apre con una celebre tesi: la paura della morte è
all'origine della filosofia (come già diceva ad es. Schopenhauer) ma la
filosofia non fa che negare la realtà della morte. “Dalla morte, dal timore
della morte prende inizio e si eleva ogni conoscenza circa il tutto.
Rigettare la paura che attanaglia ciò ch’è terrestre, strappare alla morte
il suo aculeo velenoso, togliere all’Ade il suo miasma pestilente, di
questo si pretende capace la filosofia” (cfr. p. 3 tr. it.). Da questo
punto di vista la filosofia è idealistica. Ma allora egli propone un nuovo
pensiero che sia fedele da una parte all'esperienza e al concreto e, nello
stesso tempo, che non abbia paura di diventare una scienza che in
certo modo unisca il pensiero e la fede. L'uomo, il mondo e Dio sono
l'oggetto del nuovo pensiero. A questa triade se ne affianca un'altra di
creazione, rivelazione, redenzione. Queste due triadi formano
l’immagine di una stella, la stella della redenzione che, guarda caso, è
“la stella di Davide”, a sei punte, il magen David.

Creazione e rivelazione
Il legame che unisce Dio e il mondo è la creazione; il legame
che unisce Dio e l’uomo è la rivelazione; il legame che unisce l’uomo
e il mondo è la redenzione. La rivelazione è così concepita: in quanto
essa orienta l’io dall’immediata relazione con Dio, che avviene
attraverso lo spirito, verso il presente dell’incontro con il prossimo,
verso il passato della creazione e verso il futuro della redenzione. Ora,
è dalla rivelazione così concepita che sorge il pensare l’essere proprio
della filosofia. Il sistema filosofico viene dunque costituito da

401
Rosenzweig abbandonando il vecchio presupposto del pensiero
fondato su se stesso per un nuovo presupposto: questo coincide con
un fatto, che non è più il fatto della ragione ma di un’esperienza
vissuta immediata che non avviene all’interno dell’anima, bensì
consiste nel contatto tra l’essere umano finito e un Infinito che
rimane esterno e non è mai pienamente inseribile nell’orizzonte
umano.
La rivelazione si concretizza in un legame d’amore che va da
Dio all’uomo e dall’uomo agli altri uomini. Ciascuna esistenza
individuale, collocata ad un certo punto dello spazio e del tempo ed
avente certi caratteri, può raggiungere, attraverso l’effetto puro
dell’amore, la verità nel momento in cui incontra l’altro essere umano,
e testimoniare tale verità nel modo che è ad essa peculiare.
Nella redenzione invece non solo Dio è colui che redime ma
Egli redime anche se stesso fino a giungere al giorno in cui “Dio sarà
Uno e il suo Nome sarà Uno”. La religione in questo contesto è vista
da Rosenzweig in primo luogo come una sorta di struttura
fondamentale che mette in relazione l'uomo, il mondo e Dio.
Rosenzweig non pone nessuna disgiunzione fra problema ebraico e
problema umano, avendo egli identificato in quest’opera la storia
dell’anima in relazione con il mondo e con Dio descritta dalla filosofia
con la storia dell’anima descritta dalle fonti ebraiche.
Affinché sia possibile una redenzione, l'uomo deve però
collocarsi all'interno di una comunità di fede. E le due comunità di
fede che incarnano la verità divina sono l’ebraismo e il cristianesimo.
L'ebraismo è visto da lui come la vita eterna mentre il cristianesimo è
definito come la via eterna. Ebraismo e cristianesimo sono i due modi
in cui accade storicamente l'unità verità divina. Anzi, per lui non è la
verità che è Dio, ma è Dio che è la verità, nel senso che Egli è più che la
verità proprio in quanto origine e luce del vero. E, contro Agostino,
Rosenzweig preferisce dire che noi non troviamo la verità in noi stessi
bensì noi stessi nella verità. All'uomo e ai vari popoli della terra spetta
il compito di inverare il vero, cioè di vivere autenticamente la verità.
Dunque il vero non è tanto un paradigma logico quanto piuttosto una
conquista morale, che più che teorizzare si deve vivere. In altre parole,
il vero non è tanto un possesso logico ma una conquista etica, per cui
si deve passare “dal libro al non-più-libro”, ovvero si deve andare “nel
centro quotidiano della vita”.

402
Dalla morte alla vita, sino all'oltre significato dalla porta, al di là
della quale, filosofia e teologia, fides e ratio, sóma e pnéuma, sheqet
(silenzio) e dabar (parola), pèrdono il loro carattere antitetico per
introdurre al rapporto tra uomo e Dio. Sul limite di questa porta è
lecito infatti - cosa straordinaria per la tradizione veterotestamentaria
– in un certo senso vedere Dio nel suo volto e nei suoi tratti espliciti.
Oltre la soglia, non ha più valore la storia del mondo, né, con essa,
alcuna parola dell'uomo, o alcuna azione meritoria già compiuta o
programmata. Oltre la soglia, dunque, tace anche il racconto, e la
filosofia trova le sue ragioni ulteriori nell'incontro con Dio che, di per
sé, placa ogni dubbio e soddisfa ogni domanda. Oltre la porta v'è solo
il Nome divino (Parola trasfigurata) e, con esso, lo spiraglio che apre
alla gioia e alla contemplazione del volto di Dio. L'etica, la metafisica
e la logica si sono presto fatte complici del vedere; rimane solo la
felicità che deriva dalla Verità-Una: e con essa, col suo avvento, ogni
filosofia s'è fatta gioia; oltre la porta - ins Leben, appunto, dentro la vita -
ove tace quindi la filosofia della parola, nella luce che filtra dalla
breccia sottile che immette sull'eternità. L'opera, che era cominciata
parlando della morte, si conclude invece con un appello alla vita e
all'amore. Questa vuole essere l'ultima parola di Rosenzweig.

NOTE BIOGRAFICHE
Nacque da una famiglia borghese di ebrei assimilati. Studiò
filosofia e storia con Rickert e Meinecke. La sua tesi di dottorato,
successivamente rielaborata, verrà pubblicata nel 1920 col titolo di
Hegel e lo Stato. Pensò quindi di dedicarsi alla carriera accademica ma
ebbe una profonda crisi spirituale che lo avvicinò al cristianesimo.
Tuttavia, in seguito ad un ripensamento, decise di riconvertirsi
all'ebraismo e ciò fu l'avvenimento decisivo per la sua vita. Da allora
in poi decise di dedicarsi completamente alla fede dei suoi padri. Allo
scoppio della prima guerra mondiale, mentre fece il volontario della
Croce Rossa, cominciò a scrivere La stella della redenzione, che terminò
nel 1919. Dopo la guerra si stabilì a Francoforte e nel 1921 scoprì i
primi sintomi della malattia che lo porterà alla morte: sclerosi amiotrofica
laterale con crescente paralisi del bulbo. Paralizzato ma intellettualmente
lucido, grazie alla moglie e ad un congegno elettrico continuerà a
studiare fino alla morte, avvenuta a soli 43 anni. Fra l’altro, tradurrà
insieme ad un altro grande filosofo, Martin Buber, la Bibbia in

403
tedesco. Dopo la celeberrima traduzione di Lutero, la sua è il più
grande tentativo di traduzione in lingua tedesca mai compiuto finora.
I libri da Genesi ad Isaia furono opera in comune che fu interrotta dalla
morte prematura di Rosenzweig, mentre la traduzione integrale fu
completata da Buber negli anni Sessanta.

HANS JONAS

(1903-1993)

L’etica e il principio responsabilità


Il suo itinerario intellettuale, come egli stesso disse, può essere
suddiviso in tre tappe: gli studi sullo gnosticismo (lo gnosticismo e il
nichilismo dell’esistenzialismo contemporaneo sono simili: entrambi
si basano su un dualismo, la dissociazione tra l’uomo e il mondo, la
natura e lo spirito), gli studi per una filosofia dell'organismo che
incontra le scienze naturali, gli studi infine per una filosofia pratica
che affronti i problemi posti dalla società odierna. Qui accennerò
brevemente solo all'ultima fase del suo pensiero.
Ciò che ha portato Jonas a riflettere sull’etica non è stato tanto
il pericolo di un improvviso olocausto atomico quanto l’effetto
cumulativo di tutta la nostra tecnologia, praticata ogni giorno, anche
nella sua forma più pacifica. Da ciò l’esigenza di una nuova etica, che
tenga conto della nostra civiltà attuale, essenzialmente tecnologica. Il
principio responsabilità è l’opera di Jonas che si occupa proprio di questo
problema. L’etica proposta dal filosofo vuole essere un’etica diversa

404
da quelle precedenti. In genere le etiche passate erano
antropocentriche perché non si occupavano del mondo,
dell’ambiente, degli animali, di ciò che non era collegato con l’uomo e
non si interrogavano sugli effetti futuri delle nostre scelte. Oggi le
cose sono diverse: l’uomo vive in un ambiente che si sta deteriorando
e quindi si interroga sulla sopravvivenza futura della intera specie
umana. Quindi l’etica del futuro dovrà essere un’etica non più solo
antropocentrica ma un’etica mondiale, universale, planetaria, che
tenga conto dell’umanità nel prossimo futuro. Un imperativo
adeguato al nuovo tipo di agire umano suonerebbe press’a poco così:
“Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili
con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra”. Oppure
semplicemente: “Non mettere in pericolo le condizioni della
sopravvivenza indefinita dell’umanità sulla terra”61.
Il nuovo imperativo ci chiede quindi di tenere conto
dell’umanità futura nelle scelte che facciamo e che faremo. Ma sorge
una domanda insidiosa: perché dovremmo continuare a vivere, a
garantire l’esistenza anche delle generazioni future? Perché si
dovrebbe preferire la vita alla distruzione di tutte le cose? E ancora:
quale diritto possono avere i posteri su di noi? Perché dovremmo
occuparci dei posteri? Naturalmente qui si parla di diritti in senso lato
poiché chi non esiste ancora non può avere né diritti né subire una
violazione dei suoi presunti diritti (“La pretesa all’essere inizia soltanto
con l’essere”), per cui si giunge in un campo che è quello dei
fondamenti metafisici della morale. La proposta di Jonas è la
seguente: è meglio l’essere del non essere, è meglio avere dei fini che
non averne (e ciò che non esiste non ha fini) per cui l’uomo deve dire
di sì alla vita e al suo proseguimento. Insomma, il fondamento della
morale è la vita stessa o, meglio ancora, la responsabilità nei confronti
della vita che gli uomini si assumono, sia per loro stessi che, appunto,
per coloro che nasceranno.
La responsabilità ha poi il suo archetipo nella responsabilità dei
genitori nei confronti dei figli. È il neonato stesso che diventa il paradigma
etico per eccellenza! Il solo respiro del neonato rivolge inconfutabilmente
un “devi” all’ambiente circostante affinché si prenda cura di lui62! Non
solo. L’accettazione del neonato era già implicita nell’atto della

61 H. Jonas, Il principio responsabilità, tr. it. Einaudi, Torino 1993, p. 16.


62 Op.cit., p. 163.

405
procreazione. I procreatori lo tutelano dopo la nascita dal rischio di
cadere nel nulla e ne assistono il divenire ulteriore. Mantenere tale
impegno (anche per mezzo di altri) diventa un dovere ineludibile
verso l’essere che adesso esiste nel suo pieno diritto e nella sua totale
dipendenza da quell’impegno. Oggi inoltre la responsabilità si è estesa
fino a comprendere anche il mondo non umano, la natura in generale.
“La comunanza dei destini dell’uomo e della natura, riscoperta nel
pericolo, ci fa riscoprire la dignità propria della natura, imponendoci
di conservarne l’integrità andando al di là di un rapporto puramente
utilitaristico”63.
La prima cosa che dobbiamo fare è fare in modo che sia
possibile la sopravvivenza dell’umanità. Ma questo implica che ci si
debba chiedere in primo luogo che cosa deve essere l’uomo in quanto
uomo. In altri termini, l’etica dell’emergenza, che all’ambiziosa
speranza in un paradiso terrestre contrappone la speranza più
modesta nella abitabilità futura del mondo, presuppone una critica
approfondita all’ideale utopico. Infatti l’utopismo non è solo uno dei
sogni più antichi dell’umanità ma oggi, con la tecnica, sembra trovare i
mezzi per tradurre in pratica le sue prospettive, e quindi non
rappresenta più una sorta di innocua evasione ma un potenziale
alleato dell’apocalisse tecnologica.
L’utopismo prometeico dell’Occidente ha storicamente
assunto due forme principali. Una è quella che deriva dal filosofo
inglese Francis Bacon, e l’altra da Marx. Soffermandosi in particolare
sulla teoria marxista, Jonas la critica soprattutto in tre punti. Il primo è
la troppa fiducia nella tecnologia mentre esso dimentica che
l’aggressione tecnica alla natura ha dei limiti quantitativi ben precisi, che
non possono essere violati. Fra questi limiti, Jonas ricorda quelli legati
all’incremento demografico, all’alimentazione, alle materie prime,
all’energia e al surriscaldamento ambientale. Il secondo punto è
criticare gli ideali messianici più radicali del marxismo (vedi il filosofo
marxista Ernst Bloch e il suo principio speranza). Il terzo punto è
forse il più importantedei tre perché critica la dottrina secondo la
quale la storia non avrebbe portato ancora alla luce l’uomo autentico
che invece sarà nel futuro, l’uomo libero dopo la rivoluzione
comunista. Secondo Jonas l’uomo autentico, nel senso dell’uomo

63 Op.cit., p. 176.

406
vero, reale, concreto, pur con le sue caratteristiche di finitudine e i
suoi limiti, è invece esistito già da sempre.
È importante rendersi conto, dice Jonas, che ogni presente
dell’umanità costituisce un fine in se stesso e lo è stato perciò in ogni
epoca passata. Jonas comunque non critica solo il marxismo ma anche
l’etica basata sul profitto e sul libero mercato. Jonas critica sia Stati
Uniti che Russia, i “due giganti tecnologici”, di cui riconosce pregi e
difetti. E più che preferire uno all’altro, preferisce chiedere ad
entrambi uno sforzo comune verso il perseguimento della pace. La
denuncia dei poteri tecnologici non vuol comunque dire un rifiuto
della tecnologia. Deve semplicemente voler dire prudenza nell’uso
delle scienze e non rinuncia ad esse. A questo riguardo Jonas
introduce il nuovo concetto di una euristica(=dal greco eurisko, cerco,
indago, indica l’arte di promuovere e di ben condurre la ricerca) della
paura. La paura deve essere appunto intesa come uno stimolo che
induce ad agire per il meglio. Anzi la filosofia stessa deve servire
sempre e comunque da stimolo, da pungolo per l’acquisizione di una
coscienza ecologica mondiale e per la responsabilizzazione etica
dell’umanità. Visto che noi oggi rischiamo l’estinzione totale, allora il
nostro nuovo dovere, generato dal pericolo, spinge per forza di cose e
in prima istanza verso un’etica della conservazione, della salvaguardia,
della prevenzione e non tanto del progresso e della perfezione64. Quel
che conta è garantire la sopravvivenza delle generazioni future e non
pensare tanto ad una ipotetica perfezione raggiungibile nel futuro
dall’umanità. Da questo punto di vista, Jonas ha insistito sui pericoli
insiti nella clonazione: (egli è contrario alla manipolazione genetica
perché la vita è sacra: L’uomo è stato creato ad immagine di Dio, e
dovremmo avere paura ad intrometterci in quel profondo segreto che
è l’uomo) mentre è favorevole all'eutanasia (il diritto di vivere, inteso
come fonte di tutti i diritti, include anche il diritto di morire).

Il concetto di Dio dopo Auschwitz


In ultimo, in un breve e famosissimo saggio intitolato Il concetto
di Dio dopo Auschwitz,65 egli sostenne che Dio non è intervento ad
Auschwitz perché…non ha potuto! Dio, per Jonas, non è onnipotente! Di
fronte al dilemma di come un Dio buono abbia potuto permettere

64 Op.cit., p. 178.
65 H. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz, tr. it., Il melangolo, Genova 1991.

407
certe atrocità, la risposta di Jonas è: io faccio salva la bontà di Dio ma
debbo negargli l'onnipotenza. Ma vediamo meglio che cosa dice
appunto il filosofo.
Dopo Auschwitz possiamo e dobbiamo affermare con
estrema decisione che una Divinità onnipotente o è priva di bontà o è
totalmente incomprensibile. Se c’è il male è perché Dio non è
onnipotente. Solo a questa condizione possiamo affermare che Dio è
comprensibile e buono e che nonostante ciò nel mondo c’è il male.
Dio ad Auschwitz è rimasto muto. E non intervenne non perché non
volle ma perché non fu in condizione di farlo. Jonas propone quindi
l’idea di un Dio che per un’epoca determinata – l’epoca del processo
cosmico – ha abdicato ad ogni potere di intervento nel corso fisico del
mondo. Concedendo all’uomo la libertà, Dio ha rinunciato alla sua
potenza. Egli giustifica ulteriormente questa sua teoria dicendo che la
potenza totale, assoluta, significherebbe potenza che non è limitata da
nulla; la potenza assoluta non avrebbe perciò, nella sua solitudine,
nessun oggetto su cui poter agire. Ma come potenza priva di oggetto,
è potenza priva di potenza, potenza che nega se stessa. “Tutto” è in
questo caso uguale a “zero”. Affinché essa possa agire con efficacia,
deve esserci qualcosa di altro e finché questo c’è, essa non è più
onnipotente, anche se la sua potenza è tale da superare ogni limite e
misura. In breve, “potenza” è un concetto di relazione ed esige perciò
un rapporto multipolare. Brevemente, non è possibile che tutta la
potenza si trovi unicamente dalla parte di un soggetto agente. Perché
vi sia potenza in generale, essa deve essere spartita. Ma non solo: ci
sono ragioni squisitamente metafisiche.
La rinuncia avvenne affinché noi potessimo essere. Senza
questo ritrarsi in sé stesso, nessuna realtà diversa sarebbe stata
possibile al di fuori di Dio. Ogni creatura è debitrice dell’esistenza a
quell’atto di autonegazione. Ma qual è allora la lezione che Dio ha
voluto insegnarci? Dopo essersi affidato totalmente al divenire del
mondo, Dio non ha più nulla da dare: ora tocca all’uomo dare. E
l’uomo può dare, se nei sentieri della sua vita si cura che non accada o
non accada troppo sovente, e non per colpa sua, che Dio abbia a
pentirsi di aver concesso il divenire del mondo. In altri termini, la
responsabilità per le sofferenze del mondo è solo dell’uomo e non di
Dio. Dio ha creato l’uomo libero e da allora o segue con trepidazione
sperando che egli scelga il bene piuttosto che il male.
È un Dio che ha voluto rischiare, creando l’uomo, di
introdurre nel mondo il male, il negativo, l’infelicità. È dunque un

408
dramma, e l’operetta di Jonas non è solamente l’affermazione della
tesi paradossale secondo cui Dio non può essere onnipotente, ma
riguarda l’esistenza stessa di Dio o, meglio ancora, la riflessione sulla
sua essenza: Dio com’è? E la risposta di Jonas è: è un Dio che
comunque è vicino all’uomo. È un Dio sofferente, un Dio diveniente,
un Dio che è coinvolto in ciò di cui si preoccupa. È perciò un Dio in
costante situazione di pericolo, un Dio che rischia in proprio. È un
Dio che in qualche modo, mediante un atto di imperscrutabile
saggezza o d’amore o per un qualsiasi altro motivo divino, ha
rinunciato a farsi garante del proprio appagamento in virtù del potere
che gli è proprio, dopo aver rinunciato con la creazione ad essere
tutto in tutto. Questo è quanto ci dice Jonas, e mi sembra sia in linea
con la tradizione ebraica più tradizionale, anche se, ad una prima
lettura, è sembrato invece esserne molto distante.

NOTE BIOGRAFICHE
Hans Jonas nacque il 10 maggio 1903 in Germania. Studiò
teologia e filosofia con Husserl, Bultmann e Heidegger ed ebbe come
compagni di studio Hanna Arendt e Gunther Anders. Laureatosi a
Marburgo, ottenne la libera docenza nel 1928. Intraprese quindi lo
studio dello gnosticismo, di cui diventerà uno degli esperti mondiali.
Dopo l’avvento del nazismo, emigrò in Inghilterra, quindi in Israele e
in ultimo negli Stati Uniti, e ne prese la cittadinanza. Morì a New
York il 5 febbraio 1993.

409
EMMANUEL LÉVINAS

(1905-1995)

Il problema del razzismo


Nel 1943 appare nella rivista francese “Esprit” uno scritto di
Lévinas intitolato Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo.66 Da un
lato l’autore mostra come, se ci si attiene alla filosofia come
espressione soggettiva di un certo modo di essere che l’uomo assume
nel corso della sua storia, sia allora possibile rintracciare una filosofia
che sorge a partire dalla maniera in cui Hitler e i suoi seguaci si
collocano nel mondo. Egli aderisce invece alla nozione di filosofia
così come essa era stata concepita nella storia della filosofia
occidentale e cioè come il frutto dell’attività di uno spirito dell’uomo
che si distacca dal tempo, dalla natura, dalla storia, dal mondo per
guardare a un oltre rispetto a questi. Lévinas intende riprendere non
tanto le dottrine quanto il principio cardine della storia della cultura
occidentale e mostrare la necessità di una difesa di questo principio
che corre il rischio di essere travolto dagli eventi – il principio
secondo il quale, appunto, l’essere umano non è soggetto alla storia, al
destino, al fato, ai ciechi meccanismi della natura, ma libero nella sua
scelta di adeguare la propria condotta a idee e principi non soggetti al
relativismo storico né alla necessità naturale. Proprio per ciò, questo
testo sulla filosofia dell’hitlerismo si presenta come un’appassionata
difesa dell’umanesimo occidentale, dall’antichità ad oggi, che ha pur
sempre riconosciuto il valore della libera azione umana diretta a ideali
di giustizia e di pace. Lévinas chiama a raccolta contro Hitler tutte le

66 trad. it. ed. Qodlibet, Macerata 2012.

410
forze della cultura dell’Occidente. Il razzismo è molto più che una
singola dottrina opposta alla cultura incentrata sulla libertà; esso è un
rischio mortale per questa cultura: ciò che è in causa è l’umanità stessa
dell’uomo.

Totalità e infinito
In Totalità ed infinito (1961), (uno dei suoi capolavori), Levinas
sostiene che la filosofia occidentale ha teso sovente a soffocare ogni
alterità e trascendenza. Nell’opera vi è in primo luogo la critica alla
nozione di “essere” considerata come categoria dominante all’interno
della filosofia occidentale: “essere” che egli definisce col termine di
totalità perché esso non concede spazio all’io come singolo, all’io che
rifiuta di sottomettersi al suo potere in quanto unico e vero. Vi è poi
l’accento posto da un lato sulla necessità che l’io si separi dall’essere,
trovando un proprio spazio; dall’altro sul fatto che la relazione che si
stabilisce tra l’io, in tal modo formatosi, e l’Altro, nel senso dell’altro
essere umano, è una relazione che si configura dapprima in senso
erotico e, in un secondo momento, in senso etico. Infine, vi è il concetto
di una stretta connessione tra la relazione erotica o etica e, da un lato,
l’idea platonica del Bene oltre l’essere, dall’altro l’idea di Dio dei
Profeti; Lévinas dà tanto alla prima idea quanto alla seconda il nome
di Infinito, specificando che quest’ultimo non è solo idea, poiché non
appartiene solo all’orizzonte teoretico.
I filosofi hanno finora praticato la filosofia alla stregua di uno
sforzo di ridurre ogni cosa a loro stessi. Sono colpevoli di non aver
riconosciuto altra verità fuori di sé filosofi diversissimi tra loro, che
vanno dall’antichità ad oggi, da Socrate a Hegel fino ad Heidegger.
Configurandosi come una fagocitazione dell'altro e come una
prevaricazione dell'essere nei confronti degli enti, l'ontologia fino ad
Heidegger si configura, secondo Levinas, come una filosofia della
potenza che porta, inevitabilmente, al dominio e alla sopraffazione del
prossimo. Infatti alla violenza teorica dell'approccio ontologico
corrisponde, sul piano pratico, alla violenza sull’uomo e
all'intolleranza verso il diverso (ad es. l’ebreo), tant'è vero che per
esempio Heidegger accetterà in parte il nazismo.
Egli osserva che il pensiero dell’Occidente è un pensiero che
ha fatto coincidere la verità con la constatazione di ciò che è nel
campo dell’essere, e dunque è compreso esplicitamente come il
dominio della violenza (i rapporti conflittuali tra gli Stati, la lotta di

411
tutti contro tutti, il contrasto tra gli egoismi e gli interessi dei
singoli…) oppure come il dominio di una realtà oggettiva
soprasensibile, cioè la divinità variamente intesa. In ambedue i casi
l’individuo appare in balìa di una forza inesorabile e inarrestabile. Si
tratta, allora, di opporre a tale visione, incentrata sull’essere, la pura
espressività, il linguaggio, il volto: la sfera insomma della eticità,
dell’Infinito, dell’Altro. Si tratta quindi di rompere con la totalità e il
totalitarismo. Nella storia del pensiero, purtroppo, secondo Lévinas,
ben poche volte vi sono state delle voci di protesta contro tutto
questo. Una di queste voci, secondo Levinas, è stata quella di
Rosenzweig.
Dunque cosa fare? La rottura non può essere opera di puro
pensiero ma dev'essere un'esperienza esistenziale che si realizza
nell'incontro concreto con l'altro. E l'altro si manifesta a me nel volto:
“chiamiamo volto il modo in cui si presenta l’Altro”. Il volto si sottrae
al possesso, al mio potere. Il volto mi parla e mi invita ad una
relazione. I volti sono molteplici e dunque l’essere è per natura
molteplice e non uno o identico. Così si supera la monoliticità
dell’essere parmenideo. Così si entra nell’ambito della metafisica, in
cui l’altro è infinito. Tale idea di infinito non può essere, secondo
Lévinas, stata creata da noi. Essa ci viene data quando viviamo
l’esperienza dell’Altro, che ci sconvolge. Tale sconvolgimento si
identifica col desiderio. Il desiderio è diverso dal bisogno: mentre il
bisogno indica una mancanza nel soggetto, il desiderio nasce da un
essere che non manca di nulla ed esprime la sua tendenza
disinteressata verso l’Altro, sia uomo che divinità. Nel caso dell’uomo,
esso si trasforma in generosità, in bontà. E ciò ci conduce all’etica.
Dice Lévinas: “Abbiamo posto la metafisica come Desiderio.
Abbiamo descritto il Desiderio come “misura” dell’Infinito che non
può essere limitato da nessun termine e da nessuna soddisfazione…
Porre la metafisica come Desiderio significa interpretare la
produzione dell’essere – desiderio che genera il Desiderio – come
bontà e come al di là della felicità; significa interpretare la produzione
dell’essere come essere per gli altri”, quindi usare categorie
squisitamente etiche. L’etica diventa così per Lévinas la parte più
importante della filosofia, anzi essa “non è un ramo della filosofia ma
la filosofia prima”. Dunque anche in quest’opera è esposto un pensare
che vuole difendere sia l’io come persona, sia la socialità umana
fondata sull’affettività, erotica o morale, sia la Trascendenza in senso
filosofico o religioso

412
In Totalità e Infinito emerge poi un tema che non era stato
delineato nei saggi precedenti: è il tema dell’espressione. L’espressione
o il volto o il noumenico è posta in relazione con il linguaggio. L’Altro
che entra in rapporto con l’io è descritto sotto il termine generale di
“espressione”, sia che esso si identifichi con colei o colui che è amato,
sia che esso si identifichi con colei o colui verso il quale si hanno
obbligazioni etiche, sia che esso si identifichi con la Trascendenza.
Lévinas dà il nome di jouissance a quella dimensione dell’uomo
in cui egli afferma se stesso come io; vi è un’ingenuità originaria del
vivere che consiste nel godere di tutto ciò che è intorno a noi. Egli
insiste sull’aspetto della libera capacità di gioire e di gustare,
assaporare e provare immediato piacere. Da questo punto di vista, “la
vita è affettività e sentimento”. La libertà dell’io non è altro che la sua
responsabilità per l’Altro, o ascolto di un comandamento che
proviene dall’Altro come volto o espressione. L’Altro è il modo in cui
l’Infinito stesso entra nella realtà umana.

Altre opere
La direzione etica del pensiero di Lévinas si accentua nelle
opere seguenti, come ad esempio Altrimenti che essere o al di là dell'essenza
(1974), in cui il soggetto è tale quando dice “eccomi”, quando si dona
e fa qualcosa per l'altro. Il titolo dell’opera, che può apparire non
subito comprensibile, indica proprio il superamento dell’essere
egoistico (andare al di là…) per arrivare all’altro e l’altro è anche Dio, il
quale è l’altrimenti che essere. L'uomo nasce per Levinas responsabile
prima ancora di essere libero: egli si trova originariamente assegnato
all'alterità e alla responsabilità, prima di ogni eventuale accettazione o
rifiuto. La soggettività non è un per sé ma un per l’altro. Questo peso
della responsabilità è anche la mia suprema dignità. In Etica e infinito
scrive: “Dire: eccomi. Fare qualcosa per un altro. Donare. Essere
spirito umano significa questo”. Non solo: il sé è sub-jectum: è sotto il
peso dell’universo – responsabile di tutto. Nessun altro può sostituirsi
a me. “Io posso sostituirmi a tutti, ma nessuno può sostituirsi a me.
Questa è la mia inalienabile identità di soggetto”. Il problema dei
rapporti si complica però quando all'io e al tu si aggiunge un terzo. Vi
deve dunque essere il superamento dell'essere egoistico e conflittuale
in direzione della alterità e della fraternità. Inoltre nell'incontro con
l'altro possiamo anche incontrare l'Assoluto. O meglio ancora: se è
vero che attraverso il prossimo incontriamo Dio, è altrettanto vero

413
che è attraverso Dio che incontriamo il prossimo. L’etica di Lévinas è
una delle pochissime etiche non dichiaratamente teologiche che
introduce a questo punto il concetto di santità. Santità che è in
generale rispetto, attenzione, apertura all’altro o, meglio ancora, è
affermazione del primato dell’Altro sull’io, su me stesso. L’incontro
con Dio avviene essenzialmente nell’incontro con l’altro essere
umano. Dio si manifesta nella concretezza di un io e di un altro.
“Tramite la mia relazione con altri, io sono in rapporto con Dio” (cfr.
Difficile libertà). L’altro non estinguerà mai la mia sete di trascendenza,
anzi l’instaura e dunque la coscienza etica è, in quanto tale, coscienza
religiosa.

Bibbia e Talmud
A partire dagli anni Cinquanta, Lévinas si dedicò allo studio
intenso e alla meditazione delle fonti ebraiche, in particolare la Bibbia
e il Talmud.
Avviene infatti, secondo Lévinas, che in quel pensiero che ha
nell’idealismo greco le sue origini, il concetto dell’Altro sia quasi del
tutto dimenticato, mentre in quel pensare che è espresso dalle fonti
ebraiche esso diviene il punto fondamentale di riferimento. Il
monoteismo ebraico insiste sulla separazione tra uomo e Dio che da
un lato garantisce la trascendenza divina, la sua alterità, la sua
differenza qualitativa (direbbe Kierkegaard), e dall’altro permette che
l’uomo sia libero e quindi agisca eticamente. Da ciò la critica di
Lévinas a tutte le religioni che pretendono di cogliere la divinità in
qualche modo e dall’altro, paradossalmente, la difesa dell’ateismo
inteso come momento “purificatore” e di passaggio verso una fede
più autentica.
Il monoteismo è impossibile, dice Lévinas, se non si è giunti
all’età del dubbio, della solitudine e della rivolta: esso rompe
l’incantesimo del mondo, libera l’uomo dalla malia del mito;
l’ebraismo che l’annunzia al mondo è “una religione di adulti”. La
parola divina incontra l’intelletto nell’esistenza umana, è inseparabile
dall’esercizio dell’intelligenza. È gloria di Dio aver creato un essere
capace di cercarlo partendo dalla separazione, partendo anche
dall’ateismo.
Nella Bibbia e nel Talmud vi sono concetti importanti di
grande valore per la stessa filosofia: la pazienza, la sofferenza nella

414
giustizia, la colpevolezza, la libertà come obbligazione assoluta;
l’identità come singolarità dell’eletto nella responsabilità per l’altro.
Viene alla luce una saggezza nuova, e leggere il Talmud in maniera
filosofica implica ricercare in esso problemi universali e verità che
danno la filosofo materia di riflessione.
Un esempio? Mentre l’espressione sotto la quale può essere
compresa la civiltà greca è il “conosci te stesso”, quella sotto la quale
può essere compresa la civiltà ebraica è il “non uccidere”, ovvero
l’identificazione dell’uomo come colui che ha la capacità di ascoltare il
comando divino. Dunque il soggetto umano è nell’ebraismo definibile
non tanto come colui che esprime o si esprime, quanto come colui
che dimentica se stesso nell’obbligazione a lasciare che l’Altro sia. E
ancora. La meraviglia che segna l’inizio del filosofare è quella che il
pensatore prova non di fronte all’essere ma di fronte alla sensibilità
umana come disinteresse. Insomma, per Lévinas la Bibbia è
rivelazione in quanto kerigma etico (cfr. L'al di là del versetto).
Metafisica, etica, religione sono facce diverse della stessa medaglia.

NOTE BIOGRAFICHE
Nacque in Lituania da genitori ebrei e poi si trasferì in Francia
dove rimase per il resto della vita. Si laureò alla Sorbona dove poi
insegnerà e sarà anche direttore della Scuola Normale Israelita.
Particolare interessante della sua personalità è il fatto che non si fece
coinvolgere dalle diverse tendenze e correnti filosofiche e ideologiche
che si sono succedute nel corso degli anni: egli rimase sempre distante
sia dall’esistenzialismo come dal marxismo, dallo strutturalismo ecc. Il
che gli permise di elaborare un proprio pensiero originale che lo ha
portato ad essere considerato uno dei filosofi più importanti dei nostri
tempi

415
BIBLIOGRAFIA

Rosenzweig, La stella della redenzione, Marietti


Roisenzweig, Il nuovo pensiero, ed. Arsenale
Rosenzweig, La radice che porta. Lettere , Marietti
Rosenzweig, La scrittura, Città Nuova
P. Ricci Sindoni, Prigioniero di Dio, Studium
Bibliografia

H. Jonas, Lo gnosticismo, SEI


H. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz, Il melangolo
H. Jonas, Il principio responsabilità, Einaudi
H. Jonas, Dalla fede antica all'uomo tecnologico, Il MUlino
H. Jonas, Scienza come esperienza personale, Morcelliana
H. Jonas, Tecnica, medicina ed etica, Einaudi
A. Michelis, Libertà e responsabilità. La filosofia di Hans
Jonas, Città Nuova

Lévinas, Totalità e infinito, Jaca Book.


Lévinas, Etica e infinito, Città Nuova.
Lévinas, Altrimenti che essere o al di là dell'essenza, Jaca Book
Lévinas, Difficile libertà, Jaca Book.
Lévinas L’aldilà del versetto, Guida
G. Ferretti, La filosofia di Lévinas, Rosenberg & Sellier

416
TRE FILOSOFE DEL NOVECENTO

SIMONE WEIL

(1909-1943)

Introduzione
Simone Weil è una filosofa che piace perché ella ha voluto vivere sulla
sua pelle, in prima persona, quello che pensava. Se c'è una filosofa
contemporanea che ha realmente, concretamente vissuto il proprio
pensiero e che ha voluto pensare a partire dalla esperienza concreta,
quella è stata proprio Simone Weil. Ella ci insegna quindi che non ha
senso la dicotomia fra pensiero ed essere, fra teoria e pratica, visto che
noi siamo persone e le distinzioni sono solo astratte, sono solo
intellettualismi. In secondo luogo la sua filosofia non ha paura di
confrontarsi e poi di criticare apertamente filosofi quali Hegel o
Nietzsche o Wittgenstein o Heidegger, il che ci insegna che anche se
possiamo tenere conto delle grandi figure passate o presenti, però
possiamo e dobbiamo anche, se è il caso, criticarle o addirittura farne
a meno. In terzo luogo il suo atteggiamento di fondo cerca di tenere
conto dell'et et piuttosto che dell'aut aut anche se, quando c'è da
prendere una decisione, ella la segue fino in fondo con coerenza ed a
volte con eccessiva intransigenza: mi riferisco in particolare sia
all'ambito religioso in cui non ha paura di - per così dire - tenere il
piede in due staffe, accettando il misticismo ma anche l'ateismo e
l'eresia, sia all'ambito politico in cui la critica al capitalismo non
implica l'adesione cieca al socialismo o al comunismo ma ne denuncia
apertamente i fallimenti. Ella ci insegna, anche in questo caso, che la

417
realtà è difficilmente classificabile in senso dualistico o gnostico, con
da una parte tutto il bene e dall'altra parte tutto il male. Infine mi è
piaciuta per la sua concezione secondo la quale la filosofia è ... per
così dire eterna, nel senso che le tematiche filosofiche non sono come
le conquiste scientifiche o tecnologiche e quindi non necessitano di
un progresso o cambiamento o miglioramento. Potete leggere una
pagina di Simone Weil adesso o fra dieci anni ed avrà sempre lo stesso
gusto.

Brevi note biografiche


Scrittrice e pensatrice francese, nata a Parigi il 3 febbraio 1909, morta
a Ashford (Inghilterra) il 23 agosto 1943 a soli 34 anni. Di famiglia
ebrea colta e raffinata, figlia di un medico e sorella del matematico
André Weil (1906-1998), Simone già dall'età di dieci anni nutrì
interesse per la politica mettendosi sempre "istintivamente, più per
sdegno che per pietà, al posto di quanti erano vittima di
un'oppressione". Dopo ottimi studi liceali con Le Senne, suo
professore di filosofia, e universitari con Alain alla Scuola Normale
(dal 1928), conseguì brillantemente l'agrégation (1931) e iniziò a
insegnare filosofia nei licei di Le Puy, di Auxerre e di Roanne. Sin dal
periodo trascorso a Le Puy la Weil, su posizioni vicine al sindacalismo
rivoluzionario, era continuamente intervenuta in difesa dei disoccupati
del luogo, accusata dai funzionari comunali e dai giornali locali anche
di essere, in quanto la più istruita, l'organizzatrice e l'agitatrice di tali
manifestazioni. Aveva aderito tra il 1931 e il 1932 al sindacato degli
insegnanti e continuando la sua attività politica, per comprendere le
ragioni del successo in Germania del nazionalsocialismo, approfittò
delle vacanze per fare un viaggio al fine di conoscere il popolo
tedesco e i movimenti di sinistra e valutare con nuovi dati la
possibilità di rivoluzione che, per ispirazione trozkista, lì si aspettava.
Rientrata in Francia, preoccupata degli sviluppi politici tedeschi in
senso nazista e con una maggior vena antistalinista per la critica al
principio di "socialismo in un solo paese", accelerò il suo processo
sociale di formazione politica. Pur avendo ricevuto soddisfazioni dalla
scuola, dove le allieve amavano il suo metodo di insegnamento che,
sui passi di Alain, bandiva i manuali per leggere e studiare
direttamente le opere dei grandi filosofi, le esperienze in difesa dei
disoccupati la spinsero ad abbandonare presto l'insegnamento per
vivere direttamente la dura esperienza del lavoro manuale, dal 1934,
come fresatrice a Billancourt nelle officine Renault e successivamente

418
in vari altri stabilimenti. Coinvolta anch'essa come altri intellettuali e
militanti della sinistra dall'onda della solidarietà internazionale, allo
scoppio della guerra civile spagnola (1936) intervenne sin dall'inizio al
fianco del governo repubblicano del Fronte popolare, eletto
democraticamente, contro le forze dei generali spagnoli capeggiati da
Francisco Franco con il sostegno dei fascismi europei. Al ritorno in
Francia, attraverso l'amicizia del domenicano padre Perrin e di
Gustave Thibon maturò la sua crisi religiosa in senso cristiano, pur
non rinunciando mai alla fede d'origine. L'occupazione di Parigi da
parte dei tedeschi allo scoppio della seconda guerra mondiale e l'inizio
delle persecuzioni naziste contro gli ebrei francesi spinsero la Weil a
rifugiarsi a Marsiglia dove, esclusa dall'insegnamento, lavorò ancora in
fabbrica, ma la persecuzione estesa alla Francia di Vichy la costrinse a
cercar scampo all'estero. Emigrata con la famiglia negli Stati Uniti, a
New York, si trasferì poi in Inghilterra, dove militò a fianco delle
autorità in esilio della Resistenza francese, nel Commissariato per gli
interni e il lavoro di "France libre" guidata dal generale Charles De
Gaulle. La salute compromessa nel duro lavoro in fabbrica fece
riacutizzare la malattia che l'aveva già colpita in precedenza: si spense
nell'estate del 1943.
I suoi scritti, a eccezione degli articoli nelle riviste Révolution
prolétarienne, Critique sociale, Nouveaux Cahiers, Cahiers du Sud, sono
apparsi tutti postumi. Essi testimoniano la complessità del suo
pensiero a vari livelli: la dedizione a un'appassionata religiosità
d'azione sociale, seguita con straordinaria coerenza morale e attiva
solidarietà; una profonda tensione mistica, ispirata alla promozione
dell'affratellamento della comunità umana; una raffinata riflessione di
filosofia politica ricca di originali intuizioni, come il nesso scienza-
potere-lavoro. La Weil ha scritto per il teatro la tragedia rimasta
incompiuta Venise sauvée (ed. 1955).

La passione per la verità


Come ho accennato più sopra, quello che colpisce subito Simone
Weil è il suo appassionato amore per la verità. “Bisogna amare la verità
più della vita”. Ella ebbe un naturale orrore per qualunque tipo di
menzogna e puntò sempre ad una autenticità totale. Il bisogno della
verità è “più sacro di ogni altro”. In questo io ci vedo un rapporto molto
stretto con la tematica della responsabilità: se infatti si desidera, si
cerca, si vuole arrivare alla verità, dobbiamo assumerci le nostre

419
responsabilità nel farlo e soprattutto nel trarre tutte le conseguenze da
tale ricerca. Infatti, dopo averla eventualmente trovata, cosa
dobbiamo fare? Dobbiamo comportarci di conseguenza: vivere
realizzando concretamente, con la nostra vita, la verità trovata, il che è
la nostra tremenda, se volete, responsabilità. Noi siamo responsabili - è un
nostro dovere etico ma anche direi esistenziale - nei confronti della verità.
Dobbiamo cercarla e se la troviamo abbiamo il dovere di dirla e di
viverla. Direi che, a questo riguardo, la Weil ha realizzato pienamente,
con la sua vita, tale ideale. Si badi: per la Weil qualsiasi essere umano
può però penetrare nel regno della verità in genere riservato ai geni,
solo che desideri la verità e si sforzi in ogni momento di raggiungerla.
Nei confronti degli altri, il rifiuto della menzogna implica l’impegno a
non dissimulare o mascherare le proprie idee, anche a rischio di essere
sgradevole o persino di dover rompere delle amicizie. L'atteggiamento
della Weil è proprio l'intransigenza nei confronti della verità, al punto
che la vita è cosa trascurabile rispetto alla verità stessa!
La Weil ritiene inoltre che “nessun pensiero è valido se non vi si
riconosce la correlazione dei contrari”, il che significa che il filosofo,
se vuole essere fedele allo spirito di verità, deve ricercare l’unità,
l’armonia, la bellezza, la risposta al di là delle apparenti contraddizioni,
difficoltà, contrapposizioni. Convinta poi che la verità sia eterna, la
Weil nega che ci possa essere qualche possibile novità ad esempio in
filosofia. La filosofia, ella dice, non è suscettibile di progresso. Al
massimo, qualche pensatore potrà imprimere un nuovo accento ad un
pensiero che chiede solo di essere ripensato nel contesto dell’epoca
presente. La virtù filosofica per eccellenza è allora l’umiltà, nel senso
che non si deve andare alla “conquista” della verità ma aspettare che
essa discenda in noi dopo averla a lungo desiderata. Occorre lasciarsi
forgiare dalla verità, spogliandosi del proprio orgoglio e svuotando la
propria anima. In altri termini, bisogna dissolvere il proprio io, cioè i
propri egoismi, per farsi trasparente al vero, ed imitare i santi, questi
autentici amici di Dio, nei quali “la Verità è divenuta vita”. Nella Weil
la “follia di verità” e la “follia d’amore” si confondevano in un
medesimo slancio, al punto che, alla fine della vita, ella era giunta a
vedere nei folli (quelli di Shakespeare, quelli di Velasquez), i “soli che
dicono la verità”. E per essi, per quelle creature, “guardate da tutti
come prive della prima dignità umana, la ragione, solo per queste
creature è possibile dire la verità. Tutti gli altri mentono” (lettera del 4
agosto 1943).

420
Filosofia e politica
La militanza politica significò per la Weil, fin dagli inizi, l’attenzione ai
più poveri, alla classe operaia e al sindacato, e soprattutto l’impegno in
prima persona. “La rivoluzione, diceva, è un lavoro, un compito
metodico”, finalizzato alla costruzione di un ordine sociale
completamente nuovo, al quale è il campo operaio nel suo insieme a
dovere partecipare consapevolmente, pena il fallimento anche, e
soprattutto, nel caso di una rivoluzione vittoriosa. In altre parole, se la
rivoluzione fosse mai vittoriosa, hai la responsabilità di lavorare per
un nuovo ordine sociale. Era una novità non di poco conto,
soprattutto nel contesto di una cultura politica in cui il primato della
ideologia e dell’organizzazione verticistica costituiva una sorta di
dogma. Pensare la rivoluzione come “compito metodico” significava
spogliarla di ogni elemento irrazionale, di ogni proiezione verso un
futuro più sognato che pensato, significava porre un limite
all’assolutezza della politica, per radicarla nei bisogni reali degli
individui che vogliono realizzare un compito comune.

Nel saggio Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale (1934),
la Weil ritiene che già nell'Iliade era descritto qual è il male essenziale
dell'umanità: la sostituzione dei mezzi ai fini. Il potere, la forza, la
violenza non sono che un mezzo, mentre gli uomini li hanno
trasformati in fini e questo può spiegare tutto quello che vi è di
insensato e di sanguinoso nel corso della storia. In altre parole,
detenere un potere significa semplicemente possedere dei mezzi di
azione che oltrepassano la forza così ristretta di cui un individuo
dispone per se stesso. La storia dell'umanità viene a coincidere con la
storia dell'asservimento che fa degli uomini, oppressi e oppressori, il
puro zimbello degli strumenti di dominio che essi stessi hanno
fabbricato, e riduce così l'umanità vivente a essere cosa fra le cose
inerti.
A questo proposito, la Weil fa anche delle considerazioni interessanti
sol concetto di "rivoluzione", che, secondo lei, per dirla subito, non
ha senso: quelle che noi chiamiamo rivoluzioni (ad es. la francese, la
russa ecc.) non sono state tali! Perché le nuove forme sociali
prevalgano sulle antiche, occorre innanzitutto che questo sviluppo le
abbia condotte a svolgere effettivamente un ruolo più importante nel
funzionamento dell'organismo sociale, in altri termini occorre che
esse abbiano suscitato delle forze superiori a quelle di cui dispongono

421
i poteri ufficiali. Così non c'è mai stata una vera e propria rottura di
continuità, neppure quando la trasformazione del regime sembra
l'effetto di una lotta sanguinosa; perché allora la vittoria si limita a
consacrare le forze che, già prima della lotta, costituivano il fattore
decisivo della vita collettiva, le forme sociali che avevano cominciato
da tempo a sostituirsi progressivamente a quelle su cui poggiava il
regime in decadenza. Così, nell'impero romano, i barbari avevano
man mano occupato i posti più importanti, l'esercito si era smembrato
a poco a poco in bande rette da avventurieri e l'istituzione del
colonato aveva sostituito progressivamente il servaggio alla schiavitù,
tutto questo molto tempo prima delle grandi invasioni. Così pure la
borghesia francese non ha certo atteso il 1789 per prevalere sulla
nobiltà. La rivoluzione russa sembra aver iniziato qualcosa di nuovo
ma in realtà i privilegi da essa soppressi non avevano da tempo alcuna
base sociale al di fuori della tradizione, e le forze reali, cioè la grande
industria, la polizia, l'esercito, la burocrazia, lungi dall'essere state
infrante dalla rivoluzione, sono pervenute grazie ad essa a una
potenza sconosciuta negli altri paesi. In generale, quel rovesciamento
improvviso dei rapporti di forza che è quanto normalmente si intende
per rivoluzione, non solo è un fenomeno sconosciuto nella storia, ma
è anche, se lo si considera da vicino, qualcosa d'inconcepibile, a voler
essere precisi, perché sarebbe una vittoria della debolezza sulla forza.
La storia ci presenta piuttosto lente trasformazioni di regimi in cui gli
avvenimenti sanguinosi che noi battezziamo rivoluzioni svolgono un
ruolo molto secondario, e possono anche non essere presenti.
La Weil parla poi del lavoro quale elemento chiave della vita di
fabbrica nella società dei nostri giorni. Purtroppo nel lavoro di
fabbrica l’uomo non è più libero. Questo è il punto chiave che preme
alla Weil: nel lavoro moderno, organizzato dai poteri dello Stato, della
burocrazia, dell’economia, non c’è più libertà. È l’assenza di tale
libertà, nel senso di un intervento libero del pensiero del lavoratore,
che non permette di utilizzare la categoria di progresso riferendola
allo specifico modo di lavorare dell’operaio moderno. Non la
produzione, il rendimento, le cose, bensì colui che produce, l’essere
umano deve essere al centro del lavoro. Solo in questo caso il lavoro
sarebbe la sede e lo strumento della esplicazione della personalità
libera. “La civiltà più completamente umana dovrebbe essere quella
che ha per centro il lavoro manuale…il che non ha nulla da spartire
con la religione della produzione che regnava in America durante il
periodo della prosperità e che regna in Russia dal tempo del piano

422
quinquennale…non è per il suo rapporto con quello che produce che
il lavoro manuale deve divenire il valore più alto, ma per il suo
rapporto con l’uomo che lo esegue; esso non deve essere l’oggetto di
onori o di ricompense, ma costituire per ogni essere umano ciò di cui
egli ha il bisogno più essenziale, affinché la sua vita riceva da se stessa
un senso e un valore ai suoi occhi”(cfr. tr. it. p. 186).
Simone Weil collega questa centralità del lavoro alla grande svolta
culturale realizzata nella modernità e rappresentata filosoficamente
dalla linea di Francis Bacon. “Bacon è stato il primo a fare apparire
questa nozione. All’antica e disperante maledizione della Genesi, egli
sostituì, con un lampo di genio, la vera carta dei rapporti dell’uomo
col mondo: “L’uomo comanda alla natura obbedendole”. Questa
formula così semplice dovrebbe costituire da sola la Bibbia della
nostra epoca. Essa basta a definire il vero lavoro, quello che fa gli
uomini liberi”(cfr. tr. it. p. 189).
L’uomo libero sarebbe quindi colui che sente il dovere di lavorare e di
mettere nel suo lavoro tutta la sua intelligenza, inventiva, creatività.
Ma perché questo si realizzi, ella propone radicali trasformazioni
all’interno e all’esterno della fabbrica: vorrebbe l’eliminazione delle
grandi fabbriche, l’unione di fabbriche e università operaie, la
centralità dell’uomo e non dei prodotti del suo lavoro, rapporti di
fraternità e solidarietà sia tra gli operai sia tra questi e i dirigenti. Si
tratta, come si può vedere, di indicazioni purtroppo alquanto
generiche e forse anche ingenue. Al di là di questo, rimane l’esigenza,
sentita fortissima dalla Weil, di porre al centro e alla base del lavoro la
dignità e la libertà dell’essere umano.

In Non ricominciamo la guerra di Troia (1937) sostiene che i conflitti più


minacciosi sono tali per l'assenza di un obiettivo definito! In
passato Greci e Troiani si massacrarono per dieci anni a causa di
Elena. Ma a nessuno di loro, tranne forse Paride, importava nulla di
Elena, cosicché tutti maledissero il giorno in cui era nata. In altre
parole, per spingere gli uomini verso le catastrofi più assurde non c'è
bisogno né di divinità né di congiure segrete. Basta la natura umana.
Per chi sa vedere, ne è prova l'irrazionalità della maggior parte dei
conflitti in atto. Per i nostri contemporanei il ruolo di Elena spetta a
parole ornate di maiuscole. Il successo coinciderà con l'annientamento
di uomini che lottano in nome di parole diverse. Allora la Weil
propone subito una alternativa: "chiarire i concetti, screditare le parole

423
congenitamente vuote, definire l'uso di altre attraverso analisi precise,
per quanto possa sembrare strano, servirebbe a salvare delle vite
umane"!. Una elevazione del livello intellettuale contribuirebbe a
sgonfiare le cause ipotetiche di un conflitto. Si tratta di distinguere
l'immaginario dal reale per ridurre i rischi di guerra senza rinunciare
alla lotta che Eraclito reputava condizione stessa della vita.

In Riflessioni in vista di un bilancio (1939), scritte poco prima dello


scoppio della seconda guerra mondiale, sostiene che in un regime
totalitario ci si sente liberi nella misura in cui si è entusiasti. Ma
l'entusiasmo si logora meccanicamente, allora viene avvertita la
costrizione e questo sentimento è sufficiente a suscitare quell'insieme
di docilità e di rancore che è lo stato d'animo proprio degli schiavi. Vi
si aggiunge la soffocante necessità di dissimulare, che porta alla fine
ad un odio sordo; arriva infine il momento in cui la grande massa
dalla popolazione, eccettuati i giovani, desidera non la vittoria e
nemmeno la pace ma la guerra e la sconfitta per sbarazzarsi dei suoi
padroni. Se l'Europa cadesse sotto un'unica e cieca tirannia, non si
può misurare ciò che l'umanità vi perderebbe. E allora l'alternativa è
una sola: abbiamo l'obbligo ovvero la responsabilità di resistere.
E resistere vuol dire sia restare sul posto, sia indietreggiare, sia anche
avanzare leggermente in modo tale da non dare all'altro né la
percezione di un ostacolo che potrebbe rovesciare solo con una
violenza disperata, né l'impressione di una debolezza rispetto alla
quale potrebbe permettersi molto. Se non si lotta con tutto il proprio
coraggio per conservare semplicemente ciò che esiste, a maggior
ragione si lotta male per ciò che vediamo sgretolarsi sotto i nostri
occhi.

Le sue riflessioni sul tema della violenza e della forza sono dalla Weil
esposte nel saggio L’Iliade, poema della forza (1939).La forza schiaccia
con la stessa impietosità con cui inebria chiunque la possieda o creda
di possederla. Perché nessuno la possiede davvero. Il forte non è mai
del tutto forte né il debole del tutto debole, ma entrambi lo ignorano.
Nulla però può produrre, in chi possiede la forza, una pausa fra
l'istinto e l'atto vero e proprio, quello in cui si genera il pensiero. E
dove non c'è posto per il pensiero non ce n'è neanche per la giustizia
e la prudenza. Mentre esercitano il loro potere, essi non dubitano mai
che le conseguenze dei loro atti li porteranno a soccombere a loro

424
volta. Vanno inesorabilmente oltre, ignorando che la forza è limitata.
Il tema del castigo che punisce con rigore puntuale e ineluttabile
l'abuso della forza è al centro del pensiero greco.
Quando gli uomini entravano nel gioco della guerra, diventavano
pietre nelle mani degli dèi, ossia cose sotto il giogo della Forza. Alla
fine vince solo la Guerra. La Guerra è una prova della miseria umana,
dei limiti dell’essere umano, è l’emergere di una Forza che domina
l’anima dell’uomo e la incatena al suo destino immodificabile. Alla
fine però arriva il giorno in cui la paura, la sconfitta, la morte degli
amati compagni piegano l'animo del combattente alla necessità. La
guerra cancella ogni idea di scopo, persino l'idea di una scopo nella
guerra. Cancella il pensiero stesso di mettere fine alla guerra.
E' questa la natura della forza. Il suo potere di trasformare gli uomini
in cose è duplice e si esplica su due fronti. Essa pietrifica, seppur in
modo diverso sia l'animo di coloro che la subiscono sia quello di
coloro che la esercitano. L'oggetto vero dell'arte della guerra è l'anima
stessa dei combattenti. L'unica cosa che è positiva è quando gli
uomini si accorgono di avere un'anima. Talora l'uomo trova la propria
anima discutendo con se stesso (come Ettore, da solo, davanti a
Troia) oppure quando gli uomini amano: nell'Iliade è presente
pressoché ogni forma pura di amore umano. L'ospitalità, l'amore del
figlio per i genitori e viceversa, l'amore coniugale e l'amicizia.
Come l'Iliade è stata la prima forma del genio greco, i Vangeli ne sono
l'ultima. Lo spirito della Grecia vi traspare non solo perché si ordina
di ricercare sopra ogni altro bene "il regno e la giustizia del nostro
padre celeste", ma anche perché vi viene rappresentata la miseria
umana, addirittura nella figura di un essere al tempo stesso divino e
umano. Il sentimento della miseria umana è una condizione della
giustizia e dell'amore. Solo se si conosce l'imperio della forza e se si è
capaci di non rispettarlo è possibile amare. E la Weil conclude: "Ma
niente di quello che hanno prodotto i popoli d'Europa vale il primo
poema che abbia visto la luce presso uno di questi. E' probabile che
essi ritroveranno il genio epico quando sapranno che niente è esente
dall'azione del destino, quando impareranno a non ammirare la forza,
a non odiare i nemici e a non disprezzare gli sventurati. E'
improbabile che ciò accada presto".

In che consiste l'ispirazione occitana? (1942) comincia con una analisi del
concetto di progresso: se è vero che l'imperfetto non può generare il

425
perfetto né il meno buono il migliore, l'idea del progresso è l'idea di
una filiazione graduale, progressiva, del migliore che deriva dal meno
buono. ma come è possibile far derivare il meglio dal peggio? Al
contrario, anche in ambito spirituale, può renderci migliori solo
l'influenza che riceviamo da ciò che è migliore di noi. E ciò che è
migliore di noi non possiamo trovarlo nel futuro: il futuro è vuoto, è
la nostra immaginazione a riempirlo.
Nessuno può sperare di resuscitare l'Occitania, e quindi l'ispirazione
che possiamo trarne riguarda il nostro destino di uomini. L'essenza
dell'ispirazione occitana è identica a quella dell'ispirazione greca. Una
conoscenza che appartiene solo al coraggio soprannaturale. Ma i vili
scambiano il coraggio soprannaturale per debolezza d'animo.
Conoscere la forza significa riconoscerla come pressoché unica
sovrana di questo mondo e rifiutarla con disgusto e disprezzo. Tale
disprezzo è l'altra faccia della compassione per tutto ciò che è esposto
alle ferite della forza. Il rifiuto della forza trova la sua piena
espressione nella concezione dell'amore. L'amore cortese
dell'Occitania è uguale all'amore greco. In Occitania come in Grecia
l'amore umano fu uno dei ponti fra l'uomo e Dio.

Nel bellissimo e copiosissimo saggio L'enracinement, tradotto in italiano


con Prima radice, la soluzione proposta dalla Weil è lineare: solo se si
pensa ci si salva! Bisogna pensare la realtà per salvare il mondo e
arrivare alla verità, anche alla verità soprannaturale. La guerra, i regimi
totalitari non sono solo responsabilità di Hitler, Mussolini ecc., ma
anche le altre nazioni hanno contribuito a tale male: del resto, dice la
Weil, una volta che si usa la spada, si è contaminati per sempre! Ora,
in vista del futuro, non imponiamo dei diritti all'umanità (secondo la
Weil è sempre una faccenda di potere, di forza, di violenza: io ti
obbligo al rispetto di ...) ma riflettiamo semmai sui doveri. Ma da dove
cominciare? la Weil ritiene che bisogna partire da una dichiarazione
dei doveri verso l'essere umano (come recita il sottotitolo dell'opera).
E questo vuol dire che bisogna lasciare da parte i cosiddetti diritti e
ripensare i bisogni fondamentali dell'essere umano, che, in quanto
bisogni essenziali, non necessitano di nessuna forza per essere
accettati ed anzi obbligano l'altro a tenerne conto. Quali sono questi
bisogni? Sono l'ordine, la libertà, l'ubbidienza, l'uguaglianza, la
gerarchia, l'onore, la punizione, la libertà di opinione, la sicurezza, il
rischio, la proprietà sia privata che collettiva, la verità. Se ci saranno
questi bisogni, gli uomini potranno radicarsi in una storia, una

426
tradizione che ha bisogno di radici multiple, e nello stesso tempo
eviterà di sradicare gli altri uomini dalla loro terra, poiché solo chi
conquista, impone.

Il pensiero religioso
Come è ben noto, la Weil passò da una iniziale indifferenza ad un
avvicinamento graduale al cristianesimo e alle religioni orientali (oltre
ad interessarsi alle varie forme di eresie) fino al culmine del
misticismo, segnato dall'incontro con Cristo stesso.
Secondo la Weil, come la verità è unica ed eterna, così non c’è che
una verità religiosa e questa verità è, nella sostanza, unica e universale.
È la verità che accomuna le religioni orientali e occidentali, dall’Egitto
alla Cina all’India ad Israele. Questa verità comune è, secondo la Weil,
che Dio è Bontà prima di essere Potenza, come dimostra quando ha
creato il mondo ed ha rinunciato ad esercitare qualsiasi sovranità sul
mondo e sulle creature. Il 1942 fu l’anno della sua più intensa
meditazione sul tema religioso. Incontrò misticamente Cristo, eppure
la Weil ribadì comunque il suo proposito di voler restare al di fuori
della Chiesa, di quella Chiesa che, secondo lei, si era fatta impero,
inquisizione, persecuzione, interiorizzando la potenza e l’oppressione
che sono anche tipici dei regimi totalitari del XX secolo. D’altra parte
- diceva – “tante cose sono fuori dalla Chiesa, tante cose che io amo e
non voglio abbandonare, tante cose che Dio ama”, e qui enumerava: i
secoli prima di Cristo e le loro civiltà, i paesi abitati da razze di colore,
la vita profana dei paesi di razza bianca, i Manichei, gli Albigesi, tutto
ciò che è nato col Rinascimento”. Nel suo tipico atteggiamento
paradossale (quell'et et di cui accennavo all'inizio), dichiara di essere
pronta a morire per la chiesa ma non ad entrarvi. Evidentemente, la
sua strada verso il divino non era quella dell'adesione ad una delle
confessioni storiche. Ella voleva essere libera di pesare tutte le idee,
con una bilancia che riteneva imparziale, e che aveva scelto perché
sentiva che “il Cristo ama che gli si preferisca la verità, poiché, prima
di essere il Cristo, è la verità”.
Da questo punto di vista, se è una questione di verità, allora - secondo
la Weil - la salvezza è offerta a tutti e nei modi più diversi. "Ogni qual
volta un uomo ha invocato con cuore puro Osiride, Dioniso, Krisna,
Buddha, il Tao ecc., il Figlio di Dio ha risposto inviandogli lo Spirito
Santo e lo Spirito Santo ha agito nella sua anima, non inducendolo ad
abbandonare la sua tradizione religiosa, ma dandogli luce e nei

427
migliori dei casi la pienezza della luce all'interno di tale tradizione ...
Costoro sono sicuramente salvati ...".
La via scelta dalla Weil fu però una via eccezionale, unica, a sé. La sua
via fu anche quella della “croce” e della “sofferenza”: “Se non potrà
essermi concesso di meritare di condividere un giorno la croce di
Cristo, spero mi sia data almeno quella del buon ladrone”. Come dire:
la croce è intesa da Weil oltre la Chiesa, all’intersezione di più destini e
di più culture. Non per nulla ella è molto attenta a tutte le tradizioni
filosofiche e religiose, sia d’Occidente che d’Oriente. Anzi, a volte
sembra privilegiare le religioni orientali nel senso di trovare in esse più
affinità col cristianesimo che non le altre due religioni monoteistiche
classiche, ebraismo e islamismo, considerate più negativamente.
E riguardo proprio l’infelicità, la sofferenza, il male, la Weil, nel sesto
dei suoi Quaderni, ritiene che il mondo abbia in sé del male, che noi
non dobbiamo rifiutare ma anzi, in qualche modo, riconoscere ed
accettare. Non solo, ella osa affermare in maniera molto netta che
“non si deve mai cercare una consolazione al dolore. Perché la felicità
è al di là dell’ambito del dolore e della consolazione, al di fuori”
(Quaderni, vol. 2°, Adelphi, Milano 1985, p. 165). La sua è quindi una
prospettiva anticonsolatoria, che non cerca risposte pronte ed
esaurienti. Ella distingue così nettamente fra una religione
consolatoria e una fede soprannaturale, tra la sfera del naturale e
quella del soprannaturale. Quando si mescolano le cose, l’ateismo è la
soluzione migliore perché ti purifica dagli errori di ridurre il divino ad
umano.”L’organo col quale vediamo la verità è l’intelligenza; l’organo
in noi col quale vediamo Dio è l’amore”(ibid. p. 168).
Nei pensieri raccolti sotto il titolo L’amore di Dio (scritti tra il 1940 e il
1942), Weil svela il suo misticismo: “non tocca all’uomo cercare Dio e
credere in lui : egli deve semplicemente rifiutarsi di amare quelle cose
che non sono Dio. Un tale rifiuto non presuppone alcuna fede. Si
basa semplicemente sulla constatazione di un fatto evidente: che tutti i
beni della terra …sono finiti e limitati, radicalmente incapaci di
soddisfare quel desiderio di un bene infinito e perfetto che brucia
perpetuamente in noi”. “Perciò il problema della fede non si pone
affatto. Finché un essere umano non è stato conquistato da Dio, non
può avere fede, ma solo una semplice credenza; e che egli abbia o no
una simile credenza, non ha nessuna importanza: infatti arriverà alla
fede anche attraverso l’incredulità. La sola scelta che si pone all’uomo
è quella di legare o meno il proprio amore alle cose di quaggiù”.
“Sono convinta che l’infelicità per un verso e la gioia per l’altro verso,

428
la gioia come adesione totale e pura alla bellezza perfetta, implicano
entrambe la perdita dell’esistenza personale e sono quindi le due sole
chiavi con cui si possa entrare nel paese puro, nel paese respirabile,
nel paese del reale”(trad.it. pp. 111,112,157). In altri termini, bisogna
dissolvere il proprio io, cioè i propri egoismi, per farsi trasparente al
vero, ed imitare i santi, questi autentici amici di Dio, nei quali “la
Verità è divenuta vita”.

NOTE BIO BIBLIOGRAFICHE


Simone Weil nacque a Parigi nel 1909, allieva di Alain, fu
insegnante di liceo, militante sindacale, attivista politica di sinistra,
libertaria, cristiana anarchica, operaia di fabbrica, miliziana nella
guerra di Spagna contro i fascisti di Francisco Franco, lavoratrice
agricola, poi esule in America, infine a Londra impegnata a lavorare
per la Resistenza. Dopo aver trascorso una vita di generosità,
abnegazione, sofferenze, morì in Inghilterra nel 1943.

BIBLIOGRAFIA
Weil, Lettera a un religioso, Adelphi
Weil, Quaderni, Adelphi (in quattro volumi)
Weil, Sulla Germania totalitaria, Adelphi
Weil, Lezioni di filosofia, Adelphi
Weil, L'ombra e la grazia, Bompiani
Weil, L'amore di Dio, Borla
Weil, La prima radice, SE
Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell'oppressione sociale, Adelphi

429
SIMONE DE BEAUVOIR

(1908-1986)

Introduzione
Per la pensatrice francese, teoresi e racconto non possono e
non devono essere divisi. A spingere la de Beauvoir verso il suo
peculiare stile di pensiero fu, da una parte, l’influsso
dell’esistenzialismo, dall’altra la sua condizione di donna le suggeriva
questa come la via più giusta per inserirsi nella cittadella dei filosofi
senza smarrire la propria identità di donna e di persona.
La sua prima importante opera filosofica fu Per una morale della
ambiguità, in cui dava la sua personale versione dell’esistenzialismo. Per
lei l’esistenzialismo è una filosofia della libertà, come il portatore di
una nuova etica tanto nella sfera pubblica che in quella individuale. E’
una filosofia dell’impegno, che vede uniti mondo e individuo e che
postula che la liberazione dell'uomo non può essere trovata nel
solipsismo o nell'egoismo, per non essere illusoria, ma solo
affrontando e sciogliendo il nodo del rapporto Io-mondo, Io-altri.
Oggi noi “siamo liberi e oggi dobbiamo salvare la nostra esistenza…non
rinviare la soluzione dei problemi e dei conflitti dell’umanità a un Paradiso di là
da venire… in cui tutti sarebbero riconciliati nella morte”.

Per una morale dell’ambiguità


L’esistenza è ambigua e non assurda, come invece sosteneva
Albert Camus (cfr. i saggi Il mito di Sisifo, L’uomo in rivolta e il racconto
Lo straniero). Il senso non manca, il senso va continuamente
riconquistato. L’uomo muove da una situazione di “insicurezza
ontologica” che lo pone in una relazione strutturale ma ambigua col

430
mondo e con gli altri. “Per conseguire la verità del suo essere, l’uomo
non deve tentare di dissipare l’ambiguità del suo essere, ma viceversa
accettare di realizzarla: egli si congiunge a se stesso solo nella misura
in cui acconsente a rimanere a distanza da se stesso”. Se un uomo
vive, al di là di ciò che afferma, vuol dire che c’è qualcosa che lo tiene
legato all’esistenza : ebbene, questo qualcosa gli impone di giustificare
autenticamente sé e il mondo. Problema etico e problema politico
sono due facce della stessa medaglia. La morale non fornisce ricette,
può proporre soltanto dei metodi. Il Bene non è qualcosa che possa
essere deciso a priori. L’esistenza concreta sfugge alla
categorizzazione. Per l’ambiguità ontologica, il rapporto fra contenuto
e senso di una azione va verificato caso per caso: la situazione decide
la sorte di ogni valore. La verità, il benessere sono relativi alle
situazioni, non può darsi una morale astratta come quella degli Stoici.
Ciò non significa affatto che “poiché Dio è morto tutto è lecito”.
Anzi è vero il contrario : nulla è lecito se non è giustificato. Bisogna
che ogni singolarità non contraddica l’universalità, che ogni impresa
sia aperta alla totalità degli uomini.

Il secondo sesso
Il secondo sesso è diviso in quattro parti : nella prima si analizza
l’essere-donna dal punto di vista naturalistico, delle scienze. La scienza
ci può rivelare la realtà materiale della donna ma non ci dice cosa deve
essere una donna né che cosa può essere una donna. La verità
esistenziale della donna non può venire dedotta dalle scienze, pena il
riduzionismo o il biologismo.
La seconda sezione affronta l’essere donna dal punto di vista
della storia : su base storica, la donna è stata una “presenza-assenza”,
una presenza reale assente alla storia che è storia scritta e fatta dagli
uomini, dal sesso maschile. Tranne alcune importanti eccezioni, la
donna è stata ciò che l’uomo ha voluto che fosse.
La terza parte è dedicata allo studio della immagine della
donna proposta dai miti più antichi fino all’immagine femminile
creata dalla letteratura. La quarta parte, infine, è una analisi del
“vissuto” femminile, descritto in forma evolutiva attraverso le varie
età della vita, dall’infanzia alla vecchiaia. La condizione femminile del
presente è, per la de Beauvoir, quella di una astratta eguaglianza
contrapposta ad una concreta ineguaglianza . Le donne hanno di fatto
raggiunto il pieno inserimento nella società : non è quindi più il

431
momento delle rivendicazioni generali o delle battaglie di principio,
ma bisogna che la donna scenda nell’individuale e approfondisca la
conoscenza di se stessa. Conoscere se stessa è per una donna una
prassi difficile. Tutte le identità che le vengono proposte dalla cultura
ufficiale sono identità alienanti, che la mortificano, che registrano il
suo stato di assenza culturale, di minorità sociale.
La donna deve rifiutare di essere l’Altro dell’identità maschile
e pagare il prezzo che questa scelta comporta. Nella storia della specie
umana, la preminenza è stata accordata non al sesso che genera ma al
sesso che uccide. L’uomo ha il “coraggio” di uccidere e di farsi
uccidere, ha la spinta ad utilizzare attrezzi e a lavorare, a trascendere
se stesso e la natura, e fonda così il complesso dei valori della civiltà.
Di fronte ad essi la donna non ha mai opposto dei “valori femminili”.
Si è limitata a modificare la propria posizione in seno alla coppia e alla
famiglia. Ma la donna oggi può provare a cercare la strada per la sua
libertà. Una libertà che la pone in questione come individualità ,come
questa donna qui, come “Io donna”. E’ una libertà difficile. Il
binomio lavoro più diritto di voto non è la formula per la libertà. Solo
infatti per un ristretto numero di privilegiate l’attività lavorativa porta
con sé l’autonomia economica e sociale. La sintesi fra femminilità e
libertà, fra femminilità e soggettività è ancora un problema aperto. In
conclusione, la verità della donna non si può ancora fissare in un
concetto o cogliere in forma definitiva ma solo “raccontare”. Alla
donna tocca decidere che cos’è la donna. La donna, dopo aver svelato
la realtà della propria condizione, deve adesso viverla, ridefinirla. Un
momento importante in questa ricerca di identità sarà costituito dai
rapporti con l’altro sesso. Ma sul futuro dell’identità femminile e sul
rapporto fra i sessi la de Beauvoir non intende azzardare pronostici.
Nel 1970, Simone de Beauvoir si è posta il problema di
sondare filosoficamente il mondo della vecchiaia (cfr. La terza età).
Certo è che la vecchiaia diventa problema solo in una società che ha
mitizzato la giovinezza : è dal dopoguerra che qualcosa di simile è
accaduto. In primo luogo, la vecchiaia non è un elemento necessario
della vita, nel senso che si può morire prima come si può essere
uomini appieno senza aver fatto esperienza della senilità. Ciò che è
rilevante è che, attraverso una analisi della vecchiaia, è possibile
cogliere quelli che sono i nodi non risolti della vita sociale ed i veri e
propri mali di un sistema culturale : un sistema che svuota la vita
stessa di valore e di significato e che quindi attua una “scandalosa
politica della vecchiaia” fin dai primi anni . una civiltà che si interessa

432
dei giovani come dei vecchi solo per i suoi fini, che tiene la gran
massa dei vecchi sul limite dell’indigenza, come la massa dei giovani
su quello della disoccupazione, è un fallimento. E tutti i sistemi sociali
contemporanei hanno fallito su questo piano, creando nei vecchi una
nuova categoria di emarginati, accanto ai poveri, agli immigrati da altri
continenti, ai malati di mente.

NOTE BIOBIBLIOGRAFICHE
Nata a Parigi da una giovane e agiata coppia borghese,
Simone visse una fanciullezza serena. Si iscrisse alla Sorbona per
studiare filosofia e qui nel 1929 conobbe Sartre, con cui condivise
tutto il resto della vita : il loro fu un rapporto “aperto”, mai
formalizzato col matrimonio, ma molto duraturo e fecondo di
amicizia ed affetto. Dopo l’università, Simone si mise ad insegnare
fino al 1943, quando decise di dedicarsi interamente all’attività
letteraria. Morì sei anni dopo la scomparsa di J.-P.Sartre. Dal punto di
vista filosofico, le sue opere più importanti furono Pirro e Cinea (1944),
Per una morale dell’ambiguità (1947) e anche Il secondo sesso (1949), il suo
scritto forse più famoso, opera composita tra saggio e trattato.
Scrisse anche molte opere di narrativa, tra cui ricordiamo: Memorie di
una ragazza per bene, I Mandarini, Una morte dolcissima, La terza età (edite
da Einaudi) ecc.

BIBLIOGRAFIA
S. De Beauvoir, Il secondo sesso, Il Saggiatore
S. De Beauvoir, Per una morale della ambiguità, Garzanti

433
HANNAH ARENDT

(1906-1975)

Il totalitarismo
L’analisi del fenomeno del totalitarismo in tutte le sue forme è
alla base del lavoro intellettuale della Arendt.. Ne Le origini del
totalitarismo (1951), ella vide nel totalitarismo di questo secolo un
fenomeno nuovo, che rompe con qualsiasi altra tradizione precedente.
Nei regimi totalitari gli individui sono come i granelli di sabbia
indistinguibili gli uni dagli altri. Ognuno sta nel proprio isolamento. In
tali regimi la violenza è gratuita: è il terrore per il terrore. A questo
proposito la A.rendt introduce l’idea del “male radicale”, cioè del male
fine a se stesso, che non serve a nulla e non segue nessuna logica. Il
libro venne molto discusso proprio perché sosteneva una
trasformazione nella natura umana. Qualcosa che prima non s’era mai
visto. L’uomo che si era così perfettamente inserito negli ingranaggi
della macchina nazista dello sterminio era l’uomo massa, un uomo
senza qualità né coscienza morale che era adattabile ad ogni
evenienza, capace di uccidere come di portare a spasso il cane. Per
questo il nazismo ha rappresentato l’apparizione del male assoluto
nella storia: ci ha dimostrato che in certe circostanze l’uomo è un
nulla, un agente passivo, è in grado di compiere qualsiasi atto in
quanto nessun valore o principio aprioristico è in grado di indirizzare
il suo comportamento. L’opera individua i caratteri specifici del
totalitarismo dopo averne riscontrato le premesse nell’antisemitismo e
nell’imperialismo, temi ai quali sono dedicati due terzi dell’opera. Dal
confluire delle conseguenze dell’antisemitismo e dell’imperialismo in

434
un preciso momento storico (la crisi successiva alla prima guerra
mondiale) è nato il totalitarismo, con caratteri comuni sia nella
Germania nazista sia nell’Unione Sovietica stalinista (del tutto
marginale è l’attenzione rivolta al fascismo italiano). Il totalitarismo è
un fatto nuovo del nostro secolo, non assimilabile o riducibile ai
tradizionali regimi tirannici o dittatoriali. Esso nasce dal tramonto
della società classista, nel senso che l’organizzazione delle singole
classi lascia il posto ad un indifferenziato raggrupparsi nelle masse,
verso le quali operano ristretti gruppi di élites, portatori delle tendenze
totalitarie. Tali tendenze, dopo la vittoria politica sulle vecchie
rappresentanze di classe, realizzano il regime totalitario, che ha i suoi
pilastri nell’apparato statale, nella polizia segreta e nei campi di
concentramento. Attraverso l’imposizione di una ideologia (razzismo,
nazismo, comunismo) e il terrore, il totalitarismo identifica se stesso
con la natura, con la storia, e tende ad affermarsi all’esterno con la
guerra. Nulla di simile era apparso prima. La Arendt accentua il ruolo
nuovo svolto dalle ideologie, unite al terrore, nei regimi totalitari. Le
ideologie, con logica stringente, impongono una visione del mondo in
cui le idee incarnate nel regime totalitario vengono imposte come
direttrici di un cammino fatale, inevitabile, naturale e storico insieme.
Non solo. Nei regimi totalitari l’isolamento dei singoli nella sfera
politica, corrispondente alla estraniazione nella sfera dei rapporti
sociali, costituisce la condizione generale dell’origine del totalitarismo:
in altri termini, gli individui sono come i granelli di sabbia,
indistinguibili e soli nel proprio isolamento. In tali regimi la violenza è
gratuita: è il terrore per il terrore. A questo proposito la Arendt
introduce l’idea del “male radicale”, cioè del male fine a se stesso, che
non serve a nulla e non segue nessuna logica. Il libro venne molto
discusso proprio perché sosteneva una trasformazione nella natura
umana. Qualcosa che prima non s’era mai visto. L’uomo che si era
così perfettamente inserito negli ingranaggi della macchina nazista
dello sterminio era l’uomo massa, un uomo senza qualità né coscienza
morale che era adattabile ad ogni evenienza, capace di uccidere come
di portare a spasso il cane. Per questo il nazismo ha rappresentato
l’apparizione del male assoluto nella storia: ci ha dimostrato che in
certe circostanze l’uomo è un nulla, un agente passivo, è in grado di
compiere qualsiasi atto in quanto nessun valore o principio
aprioristico è in grado di indirizzare il suo comportamento.
Anni dopo, in un’altra opera intitolata Eichmann a Gerusalemme.
La banalità del male (1963), la Arendt modifica la sua opinione dicendo

435
che il male che ha fatto per esempio l’aguzzino Eichmann è spiegabile
nel modo seguente: il male non è più qualcosa di eccezionale ma fa
parte di noi e delle persone che ci sono vicine. Di fronte al giudice che
lo accusava dello sterminio degli ebrei, Eichmann sostenne che non
aveva fatto altro che obbedire agli ordini. Ad Eichmann mancò
quello che lei chiama “lo spazio pubblico”, cioè lo spazio per
giudicare quello che avviene. Lo spazio pubblico non è un bene
garantito per sempre. Non è un bene stabile e acquisito. Mancando di
questo, tutta la vita di Eichmann è un esempio di impossibilità di
esprimere un giudizio. E’ la singolarità, che si mostra come tale, che
permette che vi sia uno spazio pubblico. Ora Eichmann è esattamente
l’esempio di una vita che non ha mai raggiunto la singolarità. Ed
infatti la sua è una esistenza impostata nell’obbedienza agli ingranaggi
burocratici di potere, qualsiasi essi siano. Dunque il suo non è un vero
agire, ma una ripetizione degli ordini ricevuti. La sua incapacità di
arrivare ad una sua singolarità si manifesta anche nel linguaggio
adoperato. E’ un linguaggio “burocratico”, intessuto di luoghi
comuni, con frasi fatte. Sono queste le radici del male. Si tratta di un
male molto quotidiano. Abituale quanto i nostri luoghi comuni. Le
frasi fatte sono infatti dei modi di sottrarsi alla realtà, cioè al dire no
agli avvenimenti. Il male è l’assenza, il rifiuto del pensiero. Pensare è
infatti dialogare con se stessi, cioè porsi di fronte alla scelta fra il
giusto e l’ingiusto, il bello e il brutto. Chi pensa, si dissocia, si
allontana: anche senza far nulla, dissente e apre lo spazio al giudizio. Il
pensiero è l’unico antidoto contro la massificazione e il conformismo
che sono le forme moderne della barbarie. Le conclusioni teoriche sul
totalitarismo, e cioè l’individuazione dell’estraniazione sociale e
dell’isolamento politico come condizioni del suo nascere, rinviavano a
problemi filosofici più generali, relativi al perché di un agire sociale e
politico di quel genere nei tempi moderni.

Vita activa
Il risultato più organico delle nuove riflessioni è nell’opera che
apparve nel 1958, La condizione umana (Vita activa in italiano), un'opera
bellissima, la sintesi più filosofica del suo pensiero. Il mondo d’oggi è
il mondo della tecnica. Tale situazione non è altro che il compimento
di un processo intrapreso dall’uomo occidentale dal XVI secolo. I
Greci distinguevano la vita attiva fatta di lavoro, creazione artistica e
azione politica, dalla vita contemplativa. Nella prima l’uomo plasmava
le cose al fine di renderle utili, durevoli, di conquistarsi quella

436
immortalità dell’operare che poteva renderlo presente ai mortali anche
dopo la morte. Nella vita contemplativa l’uomo era messo di fronte
all’eternità del divino, che lo portava all’ascesi e al misticismo. Con
l’età moderna, la vita attiva e quella contemplativa perdevano la loro
ragion d’essere. Il theoréin passava dal filosofo allo scienziato o meglio
ai suoi strumenti, diventando così la più astratta delle attività pratiche.
Il fare diventava un complemento della tecnica e il pensare si trovava
ad avere, come suo unico oggetto, il mondo interiore per il tramite
dell’introspezione. Una tale trasformazione influì anche sulla sfera
sociale: la sfera dell’agire fu sottomessa a quella del fare e dell'utilità. Il
risultato fu la “spoliticizzazione” del fare e il trasferimento del “gioco
politico” nelle mani di pochi. La Arendt critica la società moderna
perché ha privilegiato l’economico ed ha dimenticato il vero
significato dell’agire. Ogni azione è un inizio. Quando un essere
umano nasce è una singolarità assoluta, che apre un imprevisto nel
mondo. E’ agendo che noi ci mostriamo. Nell’azione c’è anche rischio
perché le conseguenze di ogni azione sono senza limiti e non
dipendono da noi. Iniziare qualcosa è politico, perché è visto e
rilanciato dagli altri. Presuppone dunque una pluralità di esseri umani
in rapporto tra loro. Però non è sufficiente agire perché ci sia una vera
e propria azione significativa. Occorre che quella azione venga
raccontata. Bisogna che ci sia qualcuno che faccia conoscere quella
azione a chi non era presente e la tramandi alle generazioni future. E
solo così il tempo che viviamo non è semplicemente quello biologico
della vita e della morte, ma ha un passato e un futuro significativi.
Vita attiva e vita contemplativa costituiscono i due momenti
fondamentali della condizione umana, concetto che la Arendt
distingue nettamente da quello della natura umana. La vita attiva è la
sfera relativa a ciò che facciamo: essa si articola in tre fondamentali
attività umane, costituenti tre aspetti fondamentali della condizione
umana: animal laborans, homo faber e zoon politikòn. Si badi: non è tanto
una novità: è la gerarchia già teorizzata da Aristotele e messa in pratica
nella polis greca e nella società romana. La prima si riferisce alla
attività lavorativa e corrisponde allo sviluppo biologico del corpo
umano. La seconda è l’operare e corrisponde invece alla dimensione
non naturale dell’esistenza umana, e il suo frutto è un mondo
artificiale do cose, distinto dall’ambiente naturale. Entro questo
mondo è compresa ogni vita individuale, mentre il significato stesso
dell’operare sta nel superare e trascendere tali limiti. L’ultima è la sola
attività che metta in rapporto diretto gli uomini senza la mediazione di

437
cose materiali, corrisponde alla condizione umana della pluralità, al
fatto che gli uomini e non l’Uomo vivono sulla terra e abitano il
mondo. Questa pluralità è specificamente la condizione di ogni vita
politica. Il primato della vita eterna su quella mondana, della vita
contemplativa su quella attiva, non è affatto di oriogine cristiana:
risale alla filosofia greca, a Platone e Aristotele, che teorizzano la
superiorità del bios theoretikos sul bios politikos. Tale superiorità è
fondato sulla convinzione che “nessuna opera prodotta dalle mani
dell’uomo possa eguagliare in bellezza e verità il kosmos fisico, che
ruota nell’eternità immmutabile…Questa eternità si dischiude agli
occhi mortali solo quando tutti i movimenti e le attività umane sono
in perfetto riposo. Paragonate a quest’attitudine di queite, tutte le
distinzioni e articolazioni entro la vita activa scompaiono”. La Arendt
ritiene che la gerarchi interna alla vita activa abbia una sua validità e
debba pertanto venir riaffermata. Non solo: ritiene anche necessario
negare la tradizionale superiorità della vita contemplativa sulla vita
attiva. Esse stanno su un piano di parità e di uguale dignità. Il grosso
dell’opera è dedicato a ricostruire storicamente la presenza delle tre
attività della vita activa dall’antichità ai giorni nostri. La Arendt vede in
Descartes colui che ha trovato il punto di Archimede della modernità.
Due sono state le conseguenze principali della filosofia cartesiana e
della sua diffusione nei vari campi: la prima, e la più importante, è
stato il rovesciamento del’ordine gerarchico tra la vita contemplativa e
la vita attiva. La seconda è stato un altro rovesciamento, questa volta
interno alla vita attiva, dell’antica gerarchia: il risultato è che l’attività
preminente non è più quella dell’agire politico né quella della
produzione di oggetti ma quella del puro lavorare per la
sopravvivenza.
Vediamo meglio. La prima conseguenza, e cioè la vita attiva
che acquista la superiorità sulla vita contemplativa, è dovuta ad una
iniziale vittoria, nell’età moderna, dell’homo faber su qualsiasi altro
aspetto dell’attività umana. La vittoria iniziale dell’homo faber porterà
però a conseguenze di altro genere, che condurranno alla disfatta
dell’homo faber stesso. Queste ulteriori conseguenze derivano dalla
desacralizzazione della vita individuale, che il cristianesimo aveva
invece esaltato e sacralizzato ponendola come prioritaria rispetto al
corpo politico. Rimane, nell’epoca moderna della secolarizzazione, la
priorità dell’interesse per la vita, ma per una vita che non ha ormai più
nulla di sacro o di cristiano. Il mondo moderno è pervenuto alla
disfatta dell’homo faber (mentre lo zoon politikòn era stato sconfitto

438
dall’affermarsi del cristianesimo) e alla vittoria dell’animal laborans, cioè
al primato di quell’attività che ha come fine unico la conservazione
della vita. “La vittoria dell’animal laborans non sarebbe mai stata
completa se il processo di secolarizzazione, la perdita inevitabile della
fede derivata dal dubbio cartesiano, non avesse privato la vita
individuale dalla sua immortalità, o almeno della certezza
dell’immortalità. La vita individuale divenne nuovamente mortale,
come lo era stata nell’antichità, e il mondo fu ancora meno stabile,
meno permanente e offrì quindi ancor meno affidamento che nell’era
cristiana. L’uomo moderno, quando perse la certezza di un mondo a
venire, si ripiegò su se stesso”. Per cui “la vita individuale divenne
parte del processo vitale, e lavorare, assicurare la continuità della
propria vita e di quella della propria famiglia, fu tutto quanto bastava”.
Vi fu così il primato del darsi da fare per la pura sopravvivenza. Lo
stesso pensiero, usato soltanto in funzione strumentale, divenne una
funzione cerebrale, per cui è perfettamente concepibile che l’età
moderna termini nella più mortale e nella più sterile passività che la
storia abbia mai conosciuto. È quella passività sulla quale può
affermarsi il totalitarismo; è quella passività che può produrre gli
Eichmann e la banalità del male. Un barlume di speranza, nella pagina
finale dell’opera, appare quando la Arendt fa riferimento al pensiero
come a una attività non assimilabile alla vita attiva: è un’attività ancora
presente in pochi esemplari di umanità (scienziati, artisti ecc.) e che è
ancora possibile, e senza dubbio efficace, ovunque gli uomini vivano
in condizioni di libertà politica.

La vita della mente


E proprio al pensiero è dedicata l’ultima grande opera della
Arendt, lasciata incompiuta dalla sua morte e pubblicata poi postuma
dalla sua amica scrittrice Mary MacCarthy, La vita della mente (1978). In
primo luogo, che cosa facciamo quando non stiamo facendo altro che
pensare? La risposta della Arendt è: mentre l’intelletto opera per
conoscere e ha come oggetto la verità, la ragione opera per pensare e
ha come oggetto e scopo il significato. Il pensare, quindi, non ha
scopi conoscitivi rispetto alla verità ma punta a interrogarsi sul
significato anche quando sa che non può dare risposte a queste
domande. “Ponendo delle domande a cui non si può rispondere, sul
significato, gli uomini si costituiscono come esseri interroganti… Ora,
è più che probabile che se gli uomini dovessero perdere l’appetito di
significato che chiamiamo pensare, se cessassero di fare domande

439
senza risposta, perderebbero insieme non solo l’attitudine a produrre
quegli enti di pensiero che si chiamano opere d’arte, ma anche la
capacità di porre tutte le interrogazioni suscettibili di risposta su cui si
fonda ogni civiltà. In questo senso la ragione costituisce la condizione
a priori dell’intelletto e del sapere”. Pensare, volere e giudicare sono le
attività fondamentali della mente. Esse sono autonome l’una dall’altra
anche se operano tutte nella stessa condizione della mente,
caratterizzata da una certa quiete delle passioni dell’anima, e se hanno
in comune una caratteristica specifica, l’invisibilità. In altri termini, le
attività della mente non hanno nulla a che fare con l’apparenza o la
sensorialità, che è la condizione normale di tutte le altre attività. Ma il
ritrarsi dalle apparenze, nelle varie attività spirituali, non è ancora mai
totale perché quelle attività si servono della parola, del linguaggio,
della metafora per mantenere un collegamento col mondo delle
apparenze. “L’io che pensa, ovviamente, non abbadona mai del tutto
il mondo delle apparenze…concedendosi all’uso metaforico, il
linguaggio ci permette di pensare, cioè di avere commercio con il non
sensibile, proprio perché consente di “portare oltre”, metaphorein, le
nostre esperienze sensibili. Non vi sono due mondi porprio perché la
metafora li unisce”. Per quanto riguarda la volontà, essa è stata
scoperta, secondo la Arendt, dal cristianesimo. Non c’è volontà libera
per i greci perché vigeva fra loro una concezione ciclica. C’è invece
nella tradizione ebraico-cristiana, anzi propriamente cristiana, la quale
scopre veramente la volontà nel senso comune della parola. Né greci
né romani né ebrei avevano avuto nozione che esiste nell’uomo una
facoltà in virtù della quale, incurante di costrizione e necessità, egli
può dire sì o no, dare o no il suo assenso a ciò che è dato di fatto,
compresa la propria persona e la propria esistenza. Infine, quando
stava per dedicarsi alla terza e ultima parte dell’opera, la Arendt è
morta nel dicembre 1975.

440
NOTE BIOBIBLIOGRAFICHE

Nata ad Hannover da una famiglia ebrea, studiò filosofia con i


più importanti filosofi tedeschi del tempo (Husserl, Heidegger,
Jaspers). A causa delle persecuzioni antisemite si trasferì in Francia e
qui collaborò col Movimento Sionista. Nel 1940 fu arrestata ma riuscì
a fuggire ed emigrò negli Stati Uniti, dove rimase per tutto il resto
della vita. Diventò cittadina americana dal 1951 e da allora insegnò in
diverse università americane. Morì a New York nel 1975.

BIBLIOGRAFIA

Arendt, Le origini del totalitarismo, ed. di Comunità


Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli
Arendt, Vita activa. La condizione umana, Bompiani
Arendt, La vita della mente, Il Mulino
De Martino-Bruzzese, Le filosofe, Liguori
Zamboni, La filosofia donna, ed. Demetra

441
EDGAR MORIN

(1921-viv.)

Introduzione
“Il contrario di una verità profonda è un'altra verità
profonda”. È proprio in quest'affermazione di Niels Bohr che Edgar
Morin identifica il suo pensiero. Un pensiero che gli ha consentito di
superare la "fase totalitaria" attraverso diverse tappe, caratterizzate da
momenti drammatici della sua esperienza politica, che vanno dalla
giovanile adesione al comunismo sino all'abbandono dello stesso.
"Sono giunto alla concezione della complessità e del pensiero
complesso attraverso una mia particolare tendenza volta a riconoscere
come verità tutte le affermazioni, anche quelle più contraddittorie -
precisa Morin - e con la mia naturale propensione al dubbio e
all'aspirazione ad una fede non necessariamente identificata con la
religione".
Una battaglia spirituale, nella quale si stagliano i concetti del
dubbio, della fede, della razionalità e della religione. Ma una battaglia
dalla quale approda ai lidi di una nuova concezione filosofica che,
rifiutando la pretesa di una conoscenza totale, cerca e trova un
metodo "che possa articolare ciò che è collegato e collegare ciò che è
disgiunto". Un cammino lungo, ma che non è ancora terminato e
probabilmente non lo sarà mai, perché "il cammino non esiste, ma si
costruisce camminando". È stato lo stesso Morin a descrivere in
alcune splendide pagine autobiografiche il superamento della visione
ideologica dentro la quale era rimasto a lungo irretito: una visione che
semplificava all'estremo il mondo storico e che pretendeva di spiegare
la realtà attraverso il recupero di uno dei suoi "vecchissimi sentimenti"

442
quello della "relatività della verità e dell'errore e quello della
complementarietà delle posizioni contraddittorie". E la "teoria della
complessità" si presenta, invece, come l'esatto contrario delle filosofie
totalizzanti. Siamo invece in un mondo articolato e complesso, a
fronte di quello tradizionale, mutilante ed astratto, al quale arriva
operando una sintesi originale tra il pensiero di Vico, Hegel, Marx da
un lato e di Heisenberg, Prigogine, von Foester e Maturana dall’altro.

Il pensiero complesso
Ma in che cosa consiste questa complessità, questo pensiero
complesso? Scopriamolo dalle parole stesse di Morin: “Il pensiero
complesso è consapevole in partenza dell’impossibilità della
conoscenza completa: uno degli assiomi della complessità è
l’impossibilità, anche teorica, dell’onniscienza. Riconoscimento di un
principio di incompletezza e di incertezza. Il pensiero complesso è
animato da una tensione permanente tra l’aspirazione a un sapere non
parcellizzato, non settoriale, non riduttivo, e il riconoscimento
dell’incompiutezza e della incompletezza di ogni conoscenza. Questa
tensione ha animato tutta la mia vita…Per tutta la vita…ho sempre
aspirato ad un pensiero multidimensionale. …Ho sempre sentito che
alcune verità profonde, antagoniste tra loro, erano per me
complementari, senza smettere di essere antagoniste”67. Diciamo in
conclusione che ci sono tre principi che possono aiutarci a pensare la
complessità.
Il primo è il principio che Morin chiama dialogico. Il principio
dialogico ci consente di mantenere la dualità in seno all’unità: associa
due termini complementari e insieme antagonisti.
Il secondo principio è quello di ricorso di organizzazione. Un
processo ricorsivo è un processo in cui i prodotti e gli effetti sono
contemporaneamente cause e produttori di ciò che li produce. L’idea
del ricorso è dunque un’idea di rottura con l’idea lineare di
causa/effetto, di prodotto/produttore, di struttura/sovrastruttura.
Il terzo principio è il principio ologrammatico. Non solo la
parte è nel tutto, ma il tutto è nella parte. Il principio ologrammatico è
presente nel mondo biologico e nel mondo sociologico. L’idea
dell’ologramma costituisce dunque un superamento tanto rispetto al

67 Morin, Introduzione al pensiero complesso, trad. it. Sperling & Kupfer, Milano 1993, p. 3.

443
riduzionismo che non vede che le parti, quanto rispetto all’olismo che
non vede che il tutto.
Le minacce più gravi cui l’umanità va oggi incontro sono
legate al progresso cieco e incontrollato della conoscenza (armi
termonucleari, manipolazioni di ogni genere, squilibrio ecologico
ecc.). Tali errori, ignoranze, cecità, pericoli hanno un carattere
comune, secondo Morin, che risulta da un modo mutilante di
organizzazione della conoscenza, incapace di riconoscere e di
afferrare la complessità del reale. La scienza classica si è fondata sotto
il segno dell’oggettività, cioè sotto il segno di un universo costituito da
oggetti isolati (in uno spazio neutro), soggetti a leggi oggettivamente
universali. Spiegare significava scoprire gli elementi semplici e le
regole semplici a partire dalle quali si effettuano le varie combinazioni
e le costruzioni complesse. I successi della fisica classica spinsero le
altre scienze a costituire allo stesso modo il loro oggetto
nell’isolamento rispetto a ogni ambiente e ad ogni osservatore…
trionfò la spiegazione riduzionista, così pare, perché si potevano
ricondurre tutti i processi viventi al gioco di alcuni elementi semplici.
Ora è alla base della fisica che all’inizio del ventesimo secolo si opera
uno strano capovolgimento poiché non è più né vero oggetto né una
vera unità elementare, la particella apre così una doppia crisi: la crisi
dell’idea di oggetto e la crisi dell’idea di elemento. La particella ha
perso ogni sostanza, ogni chiarezza, ogni distinzione, a volte persino
ogni realtà; si è convertita in un nodo gordiano di interazioni e di
scambi. Le particelle hanno le proprietà del sistema molto di più di
quanto il sistema non abbia le proprietà delle particelle.
Il paradigma di semplicità è un paradigma che mette ordine
nell’universo, e ne scaccia il disordine. L’ordine si riduce a una legge, a
un principio. Questa mitologia estremamente potente, ossessiva
benché nascosta, ha animato ad esempio il movimento della fisica.
Bisogna riconoscere che questa mitologia è stata feconda perché la
ricerca della grande legge dell’universo ha portato alla scoperta di leggi
fondamentali quali la gravitazione, l’elettromagnetismo, le interazioni
nucleari forti, poi quelle deboli. Oggi, ancora, gli scienziati e i fisici
cercano di trovare il nesso tra queste diverse leggi che farebbe di loro
una vera legge unica. La stessa ossessione ha portato alla ricerca della
tessera elementare con cui era costruito l’universo. La patologia
moderna della mente è nella iper-semplificazione che rende ciechi alla
complessità del reale. La patologia dell’idea è nell’idealismo; la malattia
della teoria è nel dottrinarismo e nel dogmatismo; la patologia della

444
ragione è la razionalizzazione. Siamo ancora ciechi al problema della
complessità, mentre solo un pensiero complesso ci consentirebbe di
civilizzare la nostra conoscenza.
Si tratta quindi di sviluppare contemporaneamente una teoria,
una logica, un’epistemologia della complessità che possa essere
adeguata alla conoscenza dell’uomo. Quanto noi cerchiamo qui è
dunque contemporaneamente l’unità della scienza e la teoria
dell’altissima complessità umana. Morin vuole tentare un discorso
multidimensionale non totalitario, teorico ma non dottrinario, aperto
sull’incertezza e il superamento; non ideale/idealistico, sapendo che la
cosa non sarà mai totalmente racchiusa nel concetto, il mondo non
sarà mai imprigionato nel discorso. Questa è l’idea della scienza
nuova. Ciò che interessa a Morin è rispettare le esigenze di indagine e
di verifica proprie della conoscenza scientifica e le esigenze di
riflessione proposte alla conoscenza filosofica. La sua idea secondo
cui siamo nella preistoria della mente umana è un’idea molto
ottimistica. Ci apre al futuro, a condizione però che l’umanità abbia
un futuro davanti a sé. La complessità, per Morin, è la sfida, non è la
risposta.

Il paradigma perduto
Ne Il paradigma perduto (del 1973), Morin sosteneva che l’uomo
non è composto di due parti sovrapposte, bio-naturale l’una e psico-
sociale l’altra: l’uomo è invece una totalità bio-psico-sociologica. Non
è una entità chiusa, né la natura è passività, materia amorfa. Un’altra
carenza delle cosiddette scienze umane è quella di non aver voluto
riconoscere l’esistenza dell’immaginario e dell’idea. D’altra parte, la
biologia ha ignorato a lungo che la cultura ha giocato un ruolo attivo
nel complesso ereditario, dando luogo a pressioni selettive sul
genotipo e intervenendo sulla determinazione del fenotipo. Quindi né
antropologismo ma neppure biologismo: l’uomo, dice Morin, “è un
essere culturale per natura perché è un essere naturale per cultura”.
Epistemologicamente, le basi per una nuova teoria scientifica sono
date, oltre da una rilettura di Marx e di Freud, da una logica della
“entropia negativa”, nel senso di una logica della complessità e della
auto-organizzazione, che dia luogo ad una “anti-entropologia” (gioco
di parole tra entropia e antropologia), cioè ad una scienza dei sistemi
anti-entropici. Il fondamento di una nuova scienza dell’uomo è perciò
policentrico: la verità umana comporta l’errore; l’ordine umano

445
comporta il disordine; la risposta giusta non può essere che complessa
e anche contraddittoria. Quel che deve finire è l’auto-idolatria
dell’uomo convenzionalmente visto come “l’animale razionale”.
L’uomo è invece folle-savio, sapiens-demens. Pensate che il
fenomeno patologico dello sdoppiamento della personalità
(schizofrenia) non fa che rivelare un fenomeno normale secondo il
quale la nostra personalità si cristallizza non solo secondo i ruoli
sociali che dobbiamo rappresentare (il piccolo funzionario sottomesso
di fronte al capoufficio sarà un arrogante tiranno in casa propria) ma
anche a seconda delle circostanze: la collera, l’amore, l’odio, la
tenerezza ci fanno realmente cambiare da una personalità ad un’altra,
modificando non solo le nostre voci e i nostri comportamenti ma
anche la gerarchia interna paleo-meso-neo-cefalica (ricordate la
tripartizione dell’encefalo che risale a Mac Lean del cervello tri-
unico?), così abbiamo, senza dubbio, personalità diverse, una
predominante e le altre che emergono occasionalmente (si pensi a
Pirandello con Uno, nessuno e centomila). Bisogna quindi tenere conto
che lo sviluppo dell’immaginario, le mitologia e la magia, gli errori e il
disordine lungi dall’essere stati uno svantaggio per l’uomo, sono al
contrario legati al suo prodigioso sviluppo. In conclusione, la scienza
nuova, come la chiama Morin ricordandoci Vico, deve stabilire
l’articolazione tra la fisica e la vita, fra entropia e antientropia, fra la
complessità macrofisica e quella microfisica. Dovrà stabilire
l’articolazione tra il vivente e l’umano, l’anti-entropologia e
l’antropologia, dato che l’uomo è l’antientropico per eccellenza.

L' educazione
«Come in passato l´umanità è uscita dalla preistoria attraverso
una serie di metamorfosi sociali, così oggi l´epoca di crisi che stiamo
attraversando ci spinge verso nuove trasformazioni, il cui risultato
sarà forse una metamorfosi di portata planetaria». Da molti anni,
infatti, opere come La conoscenza della conoscenza, Il metodo o L´identità
umana vengono lette e apprezzate in tutto il mondo per la loro
capacità di analisi che non esita a rimettere in discussione le proprie
certezze, rifiuta i compartimenti stagni dello specialismo e fa
dell´autocritica uno strumento essenziale per arginare le false illusioni
e gli errori della conoscenza. Tale atteggiamento intellettuale è per
Morin irrinunciabile, specie di fronte a un mondo che ha un urgente
bisogno di trasformazioni radicali, pena la propria autodistruzione:
«Quando un sistema non è più in grado di affrontare e risolvere i

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problemi vitali della collettività, le alternative sono solo due: o crolla o
si trasforma. Oggi siamo in questa situazione, visto che gli arsenali
nucleari, il degrado progressivo dell´ecosistema, lo sperpero delle
risorse naturali, gli squilibri, le intolleranze e le crescenti
disuguaglianze tra le diverse parti del pianeta creano una situazione
drammatica, dove la possibilità dell´autodistruzione diventa molto
concreta». Tuttavia l´autore dei Miei demoni non vuole lasciarsi andare
al pessimismo. Anche perché è convinto che i periodi di crisi non
siano solo gravidi di pericoli, ma anche di nuove possibilità: «La crisi
può favorire la metamorfosi del sistema, in direzione di una società-
mondo più ricca e complessa, una società più umana e giusta, capace
di far fronte alla sfide del futuro». A condizione però che la civiltà
occidentale rinunci a rincorrere ostinatamente un´idea di progresso
«basata esclusivamente sulla fiducia cieca nel potere della tecnica e
dell´economia». D´altronde, ricorda, la nostra idea di sviluppo non
può essere applicata indifferentemente a tutte le aree del pianeta,
senza tenere conto delle loro diverse specificità. Al contrario, solo
cercando di valorizzare i caratteri originali di ogni società sarà
possibile far emergere un nuovo equilibrio planetario, «capace di
risolvere i problemi più urgenti dell´umanità e favorire il diffondersi
della democrazia». A questo proposito, lo studioso ricorda che diversi
elementi della futura società-mondo sono già davanti ai nostri occhi,
sebbene non siano ancora connessi tra di loro. La globalizzazione ad
esempio ha creato una rete mondiale di comunicazioni che non ha
precedenti nel passato, contribuendo a integrare l´economia di quasi
tutte le zone del pianeta. Questa evoluzione, che finora è stata quasi
del tutto incontrollata, ha fatto emergere il bisogno di nuove regole a
livello mondiale e ha favorito il diffondersi di una coscienza collettiva
che riconosce l´appartenenza a un destino comune. Ma per favorire
una società maggiormente a misura d´uomo, egli immagina l´avvento
di una nuova generazione della tecnica: «Finora le macchine hanno
obbedito esclusivamente a una logica meccanica, determinista e
specializzata. È la logica della realtà artificiale e del calcolo economico,
una logica che è incapace di cogliere le qualità della vita, occupandosi
solo del dominio quantitativo e del calcolo cieco. Dal mondo
scientifico ed economico, questa logica si è progressivamente estesa a
tutti i settori della vita, che così risulta sempre più meccanizzata e
cronometrata».
Oggi però il bisogno di privilegiare la qualità sulla quantità si
manifesta di frequente, anche se quasi sempre in maniera inconscia e

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disordinata. Se il primato degli aspetti qualitativi riuscirà a imporsi,
forse un giorno avremo delle macchine «dotate di alcune qualità della
vita». Un risultato che però sarà possibile solo se riusciremo a
promuovere una trasformazione profonda della conoscenza e della
scienza, in nome di un sapere che non sia più rigido e parcellizzato,
ma duttile e capace di confrontarsi con la complessità, facendo
dialogare discipline diverse».
È per questo che Morin non si stanca d´invocare una riforma
radicale dell´insegnamento, come ha fatto anche di recente in un
libretto molto discusso intitolato I sette saperi necessari all´educazione del
futuro: «Di fronte alla complessità del mondo in cui viviamo e alle sue
contraddizioni, la conoscenza non può essere esclusivamente
specialistica e frammentaria. Purtroppo, nella tradizione occidentale
ha sempre prevalso il Discorso sul metodo di Descartes, per il quale
conoscere significa separare, in nome di un metodo analitico il cui
risultato finale nasce dalla somma di tanti frammenti». A Descartes,
Morin preferisce Pascal: «Questi, ricordando che non si può separare
la parte dal tutto, il particolare dal globale, propone un andirivieni
continuo tra i due poli, integrando la conoscenza di tipo analitico in
una sintesi più vasta». Citando l´autore dei Pensieri, Morin ricorda che
«il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce», motivo per cui
occorre utilizzare la razionalità, ma tenendone sempre presenti i limiti
e cercando di non essere succubi della logica quantitativa dominante.
I sette saperi sono i seguenti:
1. studiare i processi della conoscenza;
2. conoscere i problemi da un punto di vista non solo
particolare ma anche globale, da situare in uno contesto e in un
insieme;
3. insegnare la condizione umana: la complessità della identità,
unità e diversità umane;
4. insegnare la storia dell’era planetaria che è cominciata nel
XVI secolo ed oggi ci porta a vivere un destino comune;
5. rivelare le incertezze, i dubbi, i problemi, gli errori nelle
varie discipline e insegnare le strategie per affrontare le difficoltà;
6. insegnare la comprensione, la pace, la tolleranza: studiare
quindi l’incomprensione, il pregiudizio ecc.;

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7. un’etica planetaria, in cui nella democrazia vi sia il controllo
fra società e individuo e nello stesso tempo l’umanità si senta un’unità
planetaria.
Solo così, sostiene, sarà possibile «una vera comprensione del
mondo in cui viviamo, che è altra cosa dalla semplice spiegazione, di
solito limitata ai semplici dati oggettivi». Accanto alla battaglia per una
nuova educazione, lo studioso francese sottolinea anche l´importanza
dell´etica, a cui non a caso ha deciso di dedicare il sesto e conclusivo
volume del suo Metodo : «Una società-mondo più equilibrata e giusta
sarà possibile solo se l´etica tornerà al centro delle nostre
preoccupazioni, tanto sul piano personale quanto su quello collettivo.
L´etica, infatti, fonda e alimenta i concetti di responsabilità e di
solidarietà». E oggi, conclude, «abbiamo più che mai bisogno di
solidarietà».

NOTE BIOGRAFICHE
Edgar Morin è nato a Parigi nel 1921 da genitori ebrei
sefarditi, nomadi d'Europa- sia il ramo materno che paterno della sua
famiglia ha sostato in Italia, Spagna, Turchia ecc. Il suo
cosmopolitismo è sicuramente riferibile a questa origine ebrea e
meticcia. Il suo vero nome è Nahum. Morin è il cognome che assume
durante la Resistenza, prendendolo da quello di una sua compagna,
che poi sposa nel 1945. Autodidatta, in quanto interrompe gli studi
universitari per impegnarsi nella Resistenza, aderisce, dopo una prima
attrazione per i movimenti anarchici, pacifisti e libertari, al Partito
Comunista Francese, da cui è espulso nel 1951. Diventato sociologo
al C.N.R.S. (Centre national de la recherche scientifique) di cui è
tuttora direttore per la sezione scienze umane e sociali, si dedica negli
anni Cinquanta a ricerche, rimaste celebri, sulla morte, sul divismo, i
giovani e la cultura di massa. Collabora con articoli politici al “France-
Observateur” e poi al “Nouvel Observateur”. Fonda, nel 1956, con
altri intellettuali transfughi del P.C.F, la rivista “Arguments”, che si
ispira alla rivista “Ragionamenti” di Franco Fortini, e durerà fino al
l962, trattando i temi politici centrali degli anni Cinquanta e Sessanta:
il congelamento della lotta di classe nei paesi del “socialismo reale”, la
nuova classe burocratica, la guerra d’Algeria, il gaullismo. Nel 1967,
con Roland Barthes e Georges Friedmann, fonda la rivista
“Communications”, di cui è tuttora co-direttore. Un soggiorno al Salk

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Institut nel l969 lo mette a contatto con la teoria dei sistemi che
costituirà il punto di partenza delle sue successive ricerche
epistemologiche. Nel 1987 ha vinto il Premio Europeo “Charles
Veillon”. Nel 1998 è nominato Presidente del Comitato Scientifico
per la riforma dei saperi nelle scuole secondarie superiori dall'allora
Ministro dell'Istruzione francese Claude Allègre. Attualmente è
Presidente dell'Associazione per il Pensiero Complesso con sede a
Parigi e Presidente dell'Agenzia europea per la Cultura (UNESCO).

BIBLIOGRAFIA
E. Morin, Il metodo 1. La natura della natura, Cortina e Feltrinelli
E. Morin, Il metodo 2. la vita della vita, Feltrinelli
E. Morin, Il metodo 3. La conoscenza della conoscenza, Feltrinelli
E. Morin, Il metodo 4. Le idee, Feltrinelli
E. Morin, Il metodo 5. L’identità umana, Cortina
E: Morin, Il metodo 6. Etica, Cortina
E. Morin, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Cortina
E. Morin, La testa ben fatta, Cortina
E. Morin, Amore poesia saggezza, Armando
E. Morin, I miei demoni, ed. Meltemi
E. Morin, Terra-Patria, Cortina editore
E. Morin, Introduzione al pensiero complesso, Sperling & Kupfer
E. Morin, Pensare l’Europa, Feltrinelli
E. Morin, Il rosa e il nero, Spirali edizioni
E. Morin, Sociologia, ed. Lavoro
E. Morin, Scienza con coscienza, Franco Angeli
E. Morin, Il paradigma perduto: la natura umana, Bompiani
E. Morin, Il vivo del soggetto, Vitali Moretti
E. Morin, Introduzione a una politica dell’uomo, Meltemi

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