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ORLANDO FURIOSO

RIASSUNTO CANTO 1
Angelica ed Orlando tornano insieme dall’Oriente e si recano là dove re Carlo aveva insediato il
proprio esercito, per dare battaglia a re Agramante, giunto dall’Africa per vendicare la morte di
Traiano, e al suo alleato il re Marsilio. Rinaldo, anch’egli innamorato di Angelica, giunge anche lui
sul posto ed entra subito in conflitto con Orlando. Carlo Magno è quindi costretto, per porre fine al
conflitto amoroso, ad affidare la bella donna a Namo di Baviera, promettendola quindi in dono a
chi dei due duellanti risulterà il più valoroso nella imminente battaglia contro i saraceni. I cristiani
vengono però sconfitti e sono costretti a ritirarsi. Il duca Namo viene fatto prigioniero ed Angelica,
rimasta incustodita, approfitta della situazione per fuggire a cavallo. Inoltratasi in un bosco,
incontra Rinaldo che avanza correndo, avendo in precedenza perduto il proprio cavallo. Angelica
impaurita, cambia prontamente direzione e fugge al cavaliere. Giunta sulla riva di un fiume
incontra quindi il saraceno Ferraù che, spinto da un grande desiderio di dissetarsi e di riposarsi, si
era allontanato dal campo di battaglia. Nel gesto di bere aveva però perduto il proprio elmo e si si
era quindi poi dovuto fermare oltre per cercarlo. Ferraù, probabilmente anch’egli vittima del
fascino di Angelica, corre in aiuto della donzella, sguaina la spada ed affronta Rinaldo. Angelica
approfitta della situazione e riprende la fuga. Dopo un feroce combattimento senza vincitore i due
però decidono di non perdere ulteriormente tempo e di correre insieme, sullo stesso cavallo,
all’inseguimento della donna, rimandando quindi il duello. Ad un bivio devono però separarsi.
Dopo diverse vicissitudini, Ferraù si ritrova infine nuovamente al fiume e si rimette a cercare
l’elmo. Dalle acque vede comparire Argalia, cavaliere ucciso da Ferrù, che lo rimprovera per non
avere mantenuto, se non per caso (con la perdita dell’elmo), la promessa data di gettare le sue
armi. Argalia lo incita quindi a conquistare l’elmo di Orlando o di Rinaldo in sostituzione del suo,
promesso ma mai restituito. Ferraù per la vergogna e per l’ira decide di fare qualunque cosa per
soddisfare almeno questa ultima richiesta e si lancia alla ricerca di Orlando. Poco dopo aver
lasciato Ferraù, Rinaldo vede ricomparire il suo cavallo Baiardo. Cerca di richiamarlo a sé ma il
cavallo si allontana. Temendo di avere ancora alle spalle Rinaldo, Angelica prosegue nella sua fuga
fino a giungere il giorno dopo presso un ruscelletto presso il quale decide di rip osarsi, nascosta in
un cespuglio. Giunge al ruscello anche un cavaliere, Sacripante, piangente e disperato per non
essere riuscito ad avere Angelica. La donzella lo riconosce, sa dell’amore di lui e decide di
sfruttarlo per farsi fare da guida. Esce dal cespuglio e si mostra quindi a lui. Ma proprio mentre
Sacripante è deciso ad approfittare egli stesso della situazione, compare un cavaliere misterioso
completamente vestito di bianco che lo interrompe. I due si affrontano subito in duello. Il cavallo
di Sacripante viene ucciso e cadendo, tiene imprigionato sotto il proprio peso il proprio padrone.
Angelica aiuta allora il cavaliere, nuovamente sospirante per la vergogna della situazione, a
rialzarsi e lo conforta. Arriva in quel momento anche un messaggero lanciato all’inseguimento del
cavaliere bianco e in cambio delle informazioni ricevute circa la direzione da prendere, annuncia a
Sacripante che a disarcionarlo è stata una donna, Bradamante. Sacripante ed Angelica montano
quindi sul cavallo di Angelica e si allontanano. Percorsa poca strada incontrano Baiardo, che, dopo
aver allontanato Sacripante, viene avvicinato da Angelica e si lascia quindi montare dal cavaliere.
Sopraggiunge infine Rinaldo a piedi. Rinaldo ama con tutto sé stesso Angelica, tanto quanto lei lo
odia. In passato i sentimenti dei due erano esattamente il contrario, è stata una fontana fatata ad
invertire la situazione.
RIASSUNTO CANTO 19
Cloridano, abbandonato il carico, riesce a scappare velocemente attraverso il bosco ed a porsi
anche in salvo. Appena si accorge della mancanza di Medoro decide però subito di tornare
indietro. Medoro, rallentato dal peso del corpo esangue di Dardinello, è invece stato raggiunto da
Zerbino e dagli altri cavalieri cristiani, che lo circondano e lo minacciano. Cloridano, rimanendo
nascosto, scocca due frecce dal suo arco ed uccide altrettanti cavalieri. Zerbino minaccia quindi
Medoro di pagare lui le conseguenze di quel gesto, ma visto il bel viso del ragazzo p rova pietà per
lui e non riesce ad ucciderlo. Medoro, prega il paladino di consentirgli di seppellire il proprio
padrone, ed è anche riuscito a convincerlo ma un altro cavaliere interviene però in quel momento
e lo trapassa con la propria lancia facendolo cadere come morto. Visto il caro amico a terra,
Cloridano esce dal proprio nascondiglio e viene subito ucciso. Infine Zerbino, sdegnato per il gesto
del suo cavaliere e per non essere riuscito a punirlo, torna con il suo seguito all’accampamento
cristiano. Angelica, vestita di panni umili ma con il solito aspetto regale, giunge per caso là dove si
trova Medoro. L’orgoglio della ragazza è cresciuto oltre ogni misura, va ormai in giro da sola e non
ritiene che ci sia nessuno all’altezza della sua compagnia. Amore, non potendo più tollerare questo
suo comportamento, aspettò Angelica vicino al giovane, la colpì con una sua freccia e la fece
quindi prigioniera d’amore per Medoro. Angelica cura la ferita di Medoro con delle erbe
medicinali. Convince quindi un pastore, incontrato lì vicino, ad aiutare insieme a lei il giovane,
dando loro ospitalità. Prima di essere portato via di lì Medoro chiede però ed ottiene che venga
data sepoltura a Dardinello ed a Cloridano. Quanto più la ferita del giovane guarisce, tanto più si
allarga la ferita aperta nel cuore di Angelica da Amore. I due sfogano infine le loro passioni e
Medoro ottiene da Angelica ciò che nessun altro cavaliere era mai riuscito ad avere, nonostante le
incredibili imprese che per lei aveva compiuto e l’incredibile valore che le aveva mostrato. Nella
casa del pastore, per rendere quindi legittima la loro unione, i due amanti si sposano. Passano poi
più di un mese ad amoreggiare in ogni luogo e in ogni luogo lasciano la loro firma intrecciata in
mille modi. Angelica decide infine di ripartire con Medoro per fare ritorno in India e paga
l’ospitalità del pastore donandogli il bracciale prezioso che aveva ricevuto da Orlando come pegno
del suo amore. In viaggio verso Barcellona in cerca di una nave per l’India, per poco non subiranno
danni da un uomo completamente folle incontrato su una spiaggia. Dopo giorni passati a
fronteggiare il mare in tempesta, la nave, ormai completamente distrutta, che ospita Sansonetto,
Astolfo, Marfisa, Grifone ed Aquilante, giunge infine sulle coste della città di Alessandretta. Il
capitano racconta al duca Astolfo che in quella città vivono femmine crudeli ed omicide, che
uccidono o fanno prigioniero ogni uomo che giunga presso la loro terra e non riesca a superare
una prova di valore: sconfiggere in combattimento dieci uomini e soddisfare a letto, la notte
stessa, altrettante donne. Se l’uomo riesce nell’impresa, allora salva la propria vita (non la propria
libertà poiché dovrà comunque sposare dieci donne) e dona la libertà al proprio seguito; altrimenti
viene messo a morte e tutto il suo seguito viene fatto prigioniero. Gli uomini liberati potranno
comunque rimanere, sempre però con l’obbligo di sposare dieci loro donne. Tutti i marinai
preferiscono la morte in mare piuttosto che perdere la propria libertà, i cinque cavalieri vogliono
invece essere condotti a terra. A decidere la contesa arriva una nave partita dalla città di
Alessandrina, che fa prigioniera la loro imbarcazione (impossibilitata a muoversi) e la conduce al
porto. Ad attenderli sulla terra ferma ci sono già più di seimila donne con gli archi in mano. La
donna loro guida, Orontea, espone le condizioni per riavere la libertà e rimanere in vita, credendo
comunque che tutto l’equipaggio si accontenti però infine della sola vita, accettando volentieri per
questo la schiavitù. I cavalieri dicono invece di voler accettare la sfida e vengono quindi condotti a
terra. Nella città vedono donne andare in giro armate come cavalieri e uomini con vestiti femminili
ed intenti a compiere lavori tipici femminili; altri, in catene, arano invece la terra o controllano le
mandrie. I cinque cavalieri estraggono a sorte la persona che dovrà sostenere entrambe le prove.
Marfisa non viene ritenuta adeguata per sostenere la seconda, per sua volontà (vuole porre fine
una volte per tutte a quell’usanza) viene comunque inserita nel sorteggio ed infine incaricata del
compito. La donna viene quindi condotta nell’arena dove vengono fatti entrare i dieci cavalieri
suoi avversari. Nove cavalieri si avventano subito su Marfisa, il decimo invece rimane in disparte,
per non mancare di rispetto alle regole cavalleresche. Questo cavaliere monta un cavallo
completamente nero se non per due macchie bianche, ed è anche lui vestito allo stesso modo così
da esprimere il proprio stato d’animo. Marfisa infila tre avversari in un solo colpo servendosi della
sua grossa lancia ed utilizzando la spada fa poi strage degli altri sei. L’ultimo cavaliere, giunto il
momento in cui il combattimento si può svolgere alla pari, dice a Marfisa, non sapendo che si tratti
di una donna, di concedergli la notte per riposare, visto la fatica che aveva dovuto sostenere per
scontrarsi contemporaneamente contro nove avversari. Lei rifiuta ed inizia quindi il loro
combattimento. Il primo scontro con le lance è tanto forte che entrambi vengono sbalzati da
cavallo ed entrambi rimangono sorpresi per quel fatto per loro nuovo. Anche il combattimento
con le spade è poi molto duro, tanto che Marfisa è contenta di non aver dovuto affrontare il
cavaliere insieme agli altri nove, ed il cavaliere è contento che l’avversario non abbia voluto
riposare prima di affrontarlo. Giunge però infine la notte ed il combattimento viene sospeso. Il
cavaliere misterioso invita Marfisa ed i suoi compagni nella propria dimora, dicendo che non
potranno essere più sicuri in nessun altro luogo, dal momento che ha ucciso nove uomini e le
rispettive novanta mogli vorranno vendicarsi. Giunge infine nella dimora di lui, entrambi i cavalieri
si tolgono le armi: il cavaliere misterioso rimane stupito vedendo che l’avversario sia una donna,
Marfisa rimane stupita dal fatto che il misterioso cavaliere sia solo un ragazzo di appena diciotto
anni.

RIASSUNTO CANTO 23
Ucciso Pinabello, Bradamante si accorse di non sapere più tornare al luogo in cui aveva lasciato
Ruggiero. Dovette dormire in un bosco, tra sospiri e lacrime, accusandosi di essersi lasciata
prendere dall’ira, di non essere stata al fianco dell’amato e di non essersi nemmeno guardata
intorno durante l’inseguimento, tanto ardeva dal desiderio di vendicarsi. Vagando per il bosco, il
giorno dopo la donna raggiunge il palazzo nel quale era stata tenuta prigioniera, per incantesimo,
insieme ad altri cavalieri, ed incontra quindi suo cugino Astolfo. Il paladino è ben contento di
incontrare Bradamante, la miglior persona alla quale avrebbe mai potuto affidare Rabicano.
Astolfo consegna quindi alla donna il proprio destriero, l’armatura, così da potersi muovere
leggero nell’aria a cavallo dell’ippogrifo, e la lancia incantata, chiedendole il piacere di portarle a
Montalbano e di conservarle fino al suo ritorno. Il cavaliere prende infine la sua via nel cielo.
Aiutata da un campagnolo, la donna riprende quindi il proprio viaggio con l’intenzione di recarsi
prima alla badia di Vallombrosa, per ritrovare l’amato, e solo dopo fare ritorno a Montalbano,
dove aveva la madre ed alcuni suoi fratelli ad aspettarla. Vagando per il bosco, si ritrova però
subito a Montalbano. Teme di essere riconosciuta e di trovarsi quindi costretta a rimanere contro
la propria volontà, per tale motivo riparte lungo la via a lei nota che porta alla badia. Non fa però
in tempo ad allontanarsi che incontra il fratello Alardo. Si incammina con lui verso Montalbano e
riabbraccia così la madre Beatrice ed anche gli altri suoi fratelli. Non potendo più andarci di
persona, Bradamante invia Ippalca, figlia della sua balia, a Vallombrosa per informare Ruggiero
degli avvenimenti e chiedergli quindi di procedere nel battesimo per poi raggiungerla a
Montalbano. Affida a lei anche Frontino, il cavallo di Ruggiero, che aveva portato a Montalbano
dopo che l’amato era stato rapito dall’ippogrifo. Ippalca incontra sulla propria via Rodomonte, il
quale, partito alla ricerca di Doralice a piedi, si era promesso di entrare in possesso del cavallo del
primo cavaliere che gli fosse capitato di incontrare. Da quel momento non aveva incontrato altri
cavalli se non quello condotto dalla messaggera di Bradamante. Al guerriero Pagano dispiace di
doverlo sottrarre ad una donna, saputo però che si tratta del destrie ro di Ruggiero, che la donna
dice essere, seguendo le istruzioni ricevute da Bradamante per spaventare ogni malintenzionato, il
più valoroso cavaliere, il crudele saraceno non esita oltre, sale in groppa al destriero e si rimette in
viaggio. Rodomonte chiede ad Ippalca di fare il suo nome a Ruggiero e di dirgli che se lo rivuole
indietro potrà trovarlo facilmente seguendo le chiare tracce del suo passaggio. Sentito il rumore di
una battaglia, subito Zerbino, seguito da Gabrina, corre sul posto e trova così il cadavere di
Pinabello poco dopo la partenza di Bradamante. Mentre il cavaliere cerca invano di trovare il
colpevole dell’omicidio, la vecchia sottrae al morto tutto ciò che di valore riesce a nascondersi
addosso, tra cui una cintura. I due, ripartiti, giungono presso al palazzo del padre di Pinabello.
Zerbino finge di non sapere nulla del corpo per paura di essere accusato dell’omocidio. Il padre di
Pinabello, il conte Anselmo, aveva però promesso un ricco premio a chi riuscisse a indicargli
l’assassino, e la vecchia Gabrina subito approfitta dell’occasione per indicare in Zerbino l’omicida
e, per essere meglio creduta, mostra anche al conte la cintura sottratta al cadavere. Zerbino viene
subito fatto prigioniero e condannato ad essere squartato là dove Pinabello era stato ucciso.
Giunge per fortuna sul posto il paladino Orlando in compagnia della bella Isabella. Il cavaliere,
lasciata la compagna su di un monte, si avvicina al condannato a morte chiedendo spiegazioni.
Zerbino gli racconta la sua storia e convince così bene Orlando della propria innocenza (aiutato
anche dal fatto che Orlando conosce bene la crudeltà dei Maganzanesi) che subito il paladino
decide di aiutarlo. Orlando si lancia in combattimento e fa una strage uccidendo senza pietà tutti
quelli che riesce a raggiungere. Zerbino, riavuta la libertà ed indossate nuovamente le proprie armi
(quindi non riconoscibile a causa dell’elmo), si accorge della presenza dell’amata Isabella e arde
pertanto d’amore. Vorrebbe riabbracciarle ma teme che il paladino, verso cui è debitore della
propria vita, sia il nuovo amante di lei, e perciò si trattiene. Giunti presso una fonte, Zerbino si
toglie infine l’elmo e viene riconosciuto da Isabella, che corre ad abbracciarlo. Un rumore giunto
dal bosco pone fine ai ringraziamenti dei due amanti verso Orlando ed i tre vedono arrivare a
cavallo Mandricardo e Doralice. Il crudele pagano era alla ricerca di quel cristiano che aveva fatto
una strage di guerrieri saraceni presso Parigi, per potersi confrontare con lui; riconosciutolo quindi
nel cavaliere che si trova in quel momento di fronte, sfida subito il conte a duello. Orlando si
stupisce di vedere l’avversario privo di spada e Mandricardo gli dice di essersi promesso di non
portare con sé nessuna spada finché non riuscirà a togliere la spada Durindana al conte Orlando.
Infine dice di volersi vendicare anche dell’uccisione del proprio padre, Agricane, per mano del
paladino. Orlando dichiara la propria identità, appende ad un albero la propria spada e si prepara
al duello. Le lance vengono subito ridotte in pezzi nei primi scontri e gli sfidanti, non avendo altre
armi, non possono fare altro che cercare di avere la meglio con i pugni e nel combattimento corpo
a corpo. Il cavallo di Mandricardo rimane senza le briglie, tolte da Orlando, e parte subito al
galoppo, accecato dalla paura, portandosi dietro il proprio padrone. Terminerà la propria corsa
cadendo in un fosso. Doralice, corsa dietro alla propria guida, offre al guerriero le briglie del
proprio cavallo. Mandricardo si impossessa invece di quelle del cavallo guidato da Gabrina, giunta
lì per caso. Orlando, non vedendo ricomparire l’avversario, decide di andare alla ricerca di
Mandricardo e si separa così dai due amanti, chiedendo però prima loro, dovessero mai incontrare
il guerriero pagano, di dire lui che potrà trovare il paladino in quei boschi per altri tre giorni, prima
che faccia poi ritorno a Parigi. Dopo aver girato invano per due giorni, il conte Orlando giunge
infine nei luoghi dove Angelica e Medoro sfogarono la loro passione amorosa. Vede i loro nomi
incisi su ogni albero ed ogni pietra. Il paladino cerca di convincersi prima che si tratti di un’altra
Angelica, ma conosce purtroppo bene la grafia della donna amata, poi che Medoro fosse il
soprannome che lei gli aveva dato, ma in una grotta trova una poesia scritta dal giovane in onore
della passione vissuta insieme ad Angelica, e non può infine fare altro che scontrarsi con la dura
realtà. Inizia a crescere la pazzia in Orlando. Pensa anche che le scritte siano opera di qualche
malintenzionato, che voglia disonorare e screditare la sua amata, oppure che siano state fatte con
l’intenzione di ferirlo ingiustamente. Quella sera si trova però a dormire nella casa dello stesso
pastore che aveva accolto Angelica e Medoro e li aveva infine sposati. Gli viene raccontato ogni
dettaglio della storia d’amore dei due giovani e gli viene anche mostrato il bracciale, donato da
Orlando come pegno d’amore, con il quale Angelica aveva ripagato il pastore dei favori ricevuti.
Questa storia è la scure che tolse definitivamente il capo dal collo del paladino. Fugge nella notte
da quella casa dove la sua amata aveva sfogato la sua passione amorosa per Medoro. Raggiunge il
bosco, grida il suo dolore, versa lacrime per giorni e si sente morire. Giunto nuovamente nei luoghi
dove ovunque erano incisi i nomi dei due amanti, l’Orlando furioso sguaina la propria spada e
distrugge tutto ciò che abbia quelle scritte. Ormai sfinito si sdraia sul prato e rimane così,
immobile, per tre interi giorni. Orlando si spoglia poi dell’armatura, di ogni arma e di ogni veste,
rimanendo completamente nudo. Il paladino ha perso ora completamente il senno: è la pazzia di
Orlando. Il conte furioso distrugge tutto ciò che incontra sulla propria strada utilizzando la propria
immensa forza.

RIASSUNTO CANTO 34
Giunto ai piedi dei monti della Luna, all’ingresso della caverna che conduce all’Inferno, dove si
erano rifugiate le arpie, Astolfo decide di avventurarsi per i gironi infernali ed entra quindi
nell’apertura. Il fumo nero e sgradevole che ne riempie l’aria, diviene però via via più denso man
mano che si procede verso il basso, finché il cavaliere è costretto a fermarsi. Astolfo incontro
un’anima che gli racconta la propria storia. Il suo nome è Lidia, figlia del re di Lidia, ed è
condannata a stare in quel fumo per non essersi dimostrata riconoscente verso il suo amante.
L’anima dannata racconta la sua storia. In vita era stata tanto bella quanto altezzosa ed aveva fatto
innamorare di sé Alceste, il cavaliere più valoroso del suo tempo. Il ragazzo si mise per amore al
servizio del re di Lidia, e con le proprie imprese gli consentì innumerevoli conquiste. Alceste chiese
un giorno la mano di Lidia, ma il re, intenzionato ad ottenere un ben più vantaggioso matrimonio
(Alceste aveva solo il valore dalla sua parte e non ricchezze), gli rispose con un rifiuto. Il cavaliere,
acceso d’ira per l’ingratitudine, lasciò la corte per offrire le proprie armi al re di Armenia, acerrimo
nemico del padre della ragazza, convincendolo quindi a muovere guerra alla Lidia. Nel giro di un
anno al re di Lidia rimase il possesso del suo solo castello e decise così di mandare la figlia a
trattare la resa con Alceste. La ragazza, accortasi del potere che aveva nei confronti del cavaliere
(si presentò pallido e tremante come se fosse lui lo sconfitto), riuscì invece ad ottenere molto di
più. Lo fece subito sentire in colpa per i danni causati al padre quando, gli disse, avrebbe potuto
più facilmente ottenere lo stesso risultato (averla in sposa) con modi più gentili. Gli disse infatti
che prima di allora non avrebbe trovato alcun ostacolo in lei, ma dopo quello che era successo,
non voleva ora più amarlo, preferiva piuttosto la morte. Alceste si lanciò ai piedi della ragazza
chiedendo perdono, lei glielo promise a patto di fare riconquistare al padre tutto ciò che gli era
stato sottratto in quella guerra. Tornato dal re di Armenia, il cavaliere lo pregò di ridare al re di
Lidia il suo regno. La risposta negativa accese subito d’ira il giovane che uccise sul posto il re di
Armenia ed in meno di un mese ridiede il regno al padre della amata a proprie spese, e conquistò
anche buona parte delle terre confinanti. La ragazza ed il re decisero poi di fare morire Alceste e,
Lidia con la scusa di voler avere prova del suo valore, cominciò ad assegnargli imprese
pericolosissime. Il cavaliere riuscì però sempre vincitore e la ragazza decise infine di seguire
un’altra via: approfittando della sua totale ubbidienza, gli fece perdere ogni amico, e
dichiarandogli poi apertamente il proprio odio nei suoi confronti, lo allontanò infine dalla corte. La
sofferenza per quel trattamento fece ammalare e quindi morire Alceste. Gli occhi di Lidia vengono
ora fatti lacrimare da quel fumo denso, per punirla dell’ingratitudine mostrata verso chi l’amava.
Terminato il racconto di Lidia, Astolfo tenta di proseguire oltre per incontrare altre anime; il denso
fumo diviene però insopportabile ed il cavaliere è costretto a tornare all’aperto. Chiusa con massi
e tronchi l’apertura della caverna, così da impedire alle arpie di uscire nuovamente, e dopo essersi
lavato con l’acqua di una fonte, il cavaliere sale in sella all’ippogrifo ed inizia l’ascesa del monte.
Raggiunta la cima della montagna, Astolfo rimane incantato dalla bellezza del paesaggio, il
paradiso terrestre, che non ha eguali sulla terra. In mezzo ad una splendida pianura sorge un ricco,
bellissimo e luminosissimo palazzo, dal cui vestibolo esce un vecchio, che accoglie Astolfo
dicendogli che è per volontà di Dio che ha potuto raggiungere quel posto; gli anticipa quindi che lo
scopo di quel suo viaggio è mostrargli come essere d’aiuto a re Carlo e quindi alla Santa Chiesa. Il
vecchio è San Giovanni, il discepolo di Cristo, salito al cielo con il proprio corpo quando era ancora
in vita. Il mattino dopo san Giovanni racconta ad Astolfo gli avvenimenti accaduti in Francia,
soprattutto per quanto riguarda il paladino Orlando. Il conte aveva infatti ricevuto il dono
dell’invulnerabilità da Dio per stare in difesa dei cristiani, ma, reso cieco e violento per amore di
una donna pagana, aveva mancato al proprio compito, e, per punizione, era stato poi privato della
ragione da Dio. Per volontà divina, la follia di Orlando deve avere termine dopo tre mesi; ad
Astolfo spetta il compito di fare rinsavire il cavaliere utilizzando la medicina che dovranno
prelevare sulla Luna. Non appena la luna compare in cielo, il cavaliere e l’evangelista si sistemano
su di un carro trainato da quattro cavalli rosso fuoco ed iniziano così il loro viaggio. Giunti sulla
Luna, San Giovanni conduce Astolfo in una valle dove viene raccolto tutto ciò che sulla terra è
stato smarrito: non solo regni e ricchezze, ma anche fama, preghiere e promesse fatte a Dio,
lacrime e sospiri degli amanti… Astolfo vede infine un monte costituito da ampolle contenenti il
senno, in forma di liquido, perso sulla terra. Le ampolle hanno volume diverso tra loro ed ognuna
riporta il nome del suo proprietario. L’ampolla contenente il senno di Orlando è la più grande di
tutte ed è quindi facile da individuare. Astolfo ritrova anche quella contenente il proprio di senno
e quelle contenenti il senno di persone insospettabili. Il cavaliere si porta al naso la sua ampolla e
torna così nuovamente in possesso di ciò che aveva smarrito. Vivrà a lungo come un uomo saggio,
prima di perdere ancora una volta il proprio senno. Dopo che il cavaliere ha prelevato l’ampolla
del conte Orlando, l’evangelista Giovanni lo conduce in un palazzo pieno di batuffoli di lino, seta,
cotone… In una stanza vede una donna intenta ad ottenere da ogni batuffolo un filo che poi
avvolge su di un aspo per formare una matassa. Un’altra donna separa le matasse brutte da quelle
belle. Sono le parche ed hanno il compito di tessere la vita di ogni mortale. Tanto più lungo è il filo
e tanto più lunga sarà la vita degli uomini. I filati più belli verranno utilizzati per tessere
l’ornamento del paradiso, quelli più brutti per fare i legacci dei dannati nell’inferno. Un vecchio, il
Tempo, porta via senza riposo le piastrine che accompagnano le matasse con incisi i nomi delle
persone loro proprietarie.

RIASSUNTO CANTO 46
La maga Melissa, che ha sempre a cuore la sorte di Ruggiero e Bradamante e per questo si tiene
sempre informata delle loro avventure, vede che il cavaliere si è inoltrato all’interno di un fitto
bosco ed è deciso a morire di fame. Decide quindi di intervenire subito in suo aiuto. La donna va
incontro a Leone, partito alla ricerca del cavaliere misterioso, e lo convince a seguirla per portare
aiuto al miglior cavaliere di tutti i tempi, prima che sia troppo tardi e muoia. La maga ed il giovane
ritrovano in poco tempo Ruggiero. L’uomo è stremato dal digiuno, continua a piangere e a dolersi
per la sua sorte. Leone gli si avvicina e convince il cavaliere a esporgli la ragione del suo dolore,
dicendogli che c’è una soluzione per ogni problema e che farà di tutto per aiutarlo. Il cavaliere
rivela così al figlio dell’imperatore di essere Ruggiero, gli racconta quindi la sua storia e conclude
chiedendogli di essere contento per la sua morte, dal momento che è l’unico modo in cui la
promessa di matrimonio tra lui e Bradamante può essere annullata. Ascoltata la confessione
dell’amico, Leone rimane come impietrito. Il futuro imperatore non vuole essere da meno di
Ruggiero per cortesia, tanto vuole bene al cavaliere, gli comunica quindi subito che la sua identità
non può cambiare il sentimento che prova per lui e dichiara infine la propria intenzione a
rinunciare a Bradamante in suo favore. Leone rimprovera anche molto Ruggiero di aver preferito
la morte al suo aiuto. L’insistenza del giovane piega infine la volontà di Ruggiero, che abbandona
così ogni proposito suicida. Melissa ristora il cavaliere con cibo e vino. Leone recupera il destriero
Frontino ed aiuta Ruggiero a risalire in sella. Si mettono infine tutti insieme in viaggio per tornare a
Parigi. A Parigi Ruggiero troverà ad aspettarlo una ambasciata bulgara, giunta in Francia per
incoronarlo re e consegnargli il dominio dei loro territori. Ruggiero, nascondendo la propria
identità, si presenta al cospetto di Carlo Magno con le stesse insegne e la stessa sopra veste che
aveva tenuto durante il combattimento contro Bradamante. Leone lo presenta quindi al re come
colui che ha pieno diritto, stando a quanto dichiarava il bando, di ricevere per moglie la donna. Il
giovane dichiara infine che quel cavaliere misterioso è disposto a sostenere con la spada ogni suo
diritto acquisito. Marfisa, in assenza del fratello, si prende carico dell’impresa e, mossa dall’ira, è
anche pronta a passare subito dalle parole ai fatti. Leone non esita però oltre e toglie l’elmo al
cavaliere misterioso, rivelandone così l’identità. Riconosciuto Ruggiero, tutti corrono subito ad
abbracciarlo. Leone racconta le vicende del cavaliere, infine si rivolge ad Amone e non solo riesce a
fargli cambiare opinione, ma anche a fargli chiedere perdono a Ruggiero, pregandolo di accettarlo
come padre e suocero. Saputa la notizia, Bradamante rischia quasi di morire per l’improvvisa gioia.
Gli ambasciatori bulgari si gettano ai piedi di Ruggiero, lo pregano di diventare il loro nuovo re e
quindi di correre subito in loro aiuto contro l’imperatore Costantino. Il cavaliere accetta la corona;
Leone, dal canto suo, si dichiara amico del popolo bulgaro e garantisce anche che nessuna guerra
verrà più mossa contro loro dal suo esercito. Le nozze vengono organizzate dallo stesso re Carlo e
sono maestose. Giungono signori ed ambasciate da ogni parte del mondo per festeggiare gli sposi.
La maga Melissa si occupa di allestire la stanza matrimoniale e, sfruttando i suoi poteri magici, si
impossessa del padiglione dell’imperatore Costantino, togliendoglielo di fatto da sopra la testa, e
lo fa quindi trasportare a Parigi da alcuni demoni. Cassandra, capace di prevedere il futuro, aveva
ricamato quel padiglione duemila anni prima e l’aveva dato poi in dono al fratello Ettore.
Cassandra aveva ritratto sul tessuto tutta la vita del cardinale Ippolito d’Este, discendente del
fratello Ettore. Guardano tutti con ammirazione le immagini ritratte sul padiglione, sebbene
nessuno le comprenda, a parte Bradamante, istruita da Melissa nella tomba di Merlino, e
Ruggiero, istruito dal mago Atlante in giovane età. L’ultimo giorno dei festeggiamenti, nel
momento del banchetto, dalla campagna si vede arrivare a cavallo un cavaliere vestito
completamente di nero. Si tratta di Rodomonte. Il feroce guerriero, dopo che Bradamante gli
aveva tolto le armi, aveva vissuto come un eremita per un anno, un mese ed un giorno, e
terminata la sua punizione, subito si era poi riarmato ed avviato verso Parigi. Rodomonte sfida
Ruggiero a duello, dicendogli di voler dimostrare con le armi, di fronte a tutti, la sua infedeltà
verso Agramante. Il cavaliere cristiano accetta subito la sfida dicendo di essere disposto a
combattere contro chiunque lo chiami traditore. Ruggiero indossa la corazza di Ettore e si mette al
fianco la sua famosa spada Balisarda. La battaglia ha inizio. Al primo scontro le lance vanno in mille
pezzi ed i cavalli finiscono a terra. I cavalieri fanno rialzare i destrieri, impugnano le spade e subito
tornano a combattere. Il guerriero pagano non ha indosso la sua corazza realizzata con scaglie
invulnerabili di drago, avendola lasciata appesa al monumento funebre in onore di Zerbino ed
Isabella. In ogni caso, nessuna armatura incantata avrebbe potuto resistere alla spada Balisarda e
Ruggiero riesce così in poco tempo a ferire in più punti l’avversario. Rodomonte si accende d’ira,
lancia lo scudo, impugna la propria spada con entrambe le mani e la scaglia con tutta la sua forza
sulla testa dell’avversario. Ruggiero rimane stordito dal colpo ed il pagano ne approfitta per
portare a segno anche un secondo ed un terzo colpo. La spada di Rodomonte va infine in mille
pezzi. Il guerriero pagano rimane disarmato ma non per questo si ferma, afferra per il collo il
cristiano e lo butta a terra. Ruggiero subito si rialza e torna a ferire l’avversario con la spada per
poi farlo cadere da cavallo. Rodomonte riesce infine a scagliarsi sull’avversario, ma è indebolito
dalle ferite e Ruggiero è troppo abile nel combattimento corpo a corpo. Il valoroso cavaliere
cristiano riesce infine a immobilizzare a terra l’avversario, tenendogli un pugnale puntato contro
gli occhi. Ruggiero chiede all’avversario di arrendersi. Il pagano, che teme di più il disonore della
morte, non smette però di dibattersi, finché riesce a liberare un braccio e ad afferrare il proprio
pugnale con l’intenzione di ferire il cristiano. Ruggiero non esita oltre ed uccide Rodomonte.

GERUSALEMME LIBERATA
CANTO I
Mentre l'esercito cristiano sverna in Tortosa, Dio manda a Goffredo l'arcangelo Gabriele, per
indurlo ad adunare i principi per affrettare l'impresa e ricevere il comando dell'esercito secondo la
volontà stessa di Dio. I Principi, adunati a congresso, lo eleggono infatti Duce supremo. Fatta la
rassegna dell'esercito (Roberto, Baldovino, Tancredi, Goffredo di Buglione, Rinaldo, Raimondo da
Tolosa), i Crociati muovono verso Gerusalemme; Goffredo, intanto, manda il suo messaggero
Enrico al Principe dei Dani, atteso finora invano. La fama dell'avvenimento si sparge subito per i
territori circostanti. Conosciuta l'intenzione dei Cristiani, Aladino, il re di Gerusalemme, si prepara
alla difesa.

CANTO VI
Il re Aladino, mentre sovrintende ai lavori di rafforzamento della difesa di Gerusalemme, viene
raggiunto da Argante che gli rimprovera di osare poco; questi gli risponde che occorre pazienza,
ma Argante non vuol sentir ragioni, chiama un araldo e lo manda al campo cristiano per portare
un'ambasciata: la sfida a duello di cinque grandi cavalieri cristiani. La sfida viene accettata;
Argante esce dalla città accompagnato da Clorinda e da mille cavalieri, secondo la volontà del re
Aladino. Gli si muove incontro Tancredi; ma questi vede Clorinda e ammaliato si dirige verso di lei;
allora si lancia in duello Ottone, che viene abbattuto; Tancredi si riprende e ingaggia un grandioso
duello con Argante: ma la notte interrompe il combattimento e i due sono divisi da due araldi, il
franco Arideo e il pagano Pindoro, con la promessa che sarebbe stato ripreso. Tutti restano
ammirati, solo Erminia, segretamente innamorata di Tancredi, soffre vedendo il duello da un'alta
torre. Vorrebbe accorrere dall'amato e curargli le ferite, col cuore che oscilla tra l'Amore e l'Onore.
Erminia era molto amica di Clorinda; un giorno vedendo le armi dell'amica appese alla parete,
decide di vestirsene, di uscire dalla città, sicura che le guardie non l'avrebbero fermata, e di andare
verso il campo cristiano. Concertato tutto con uno scudiero, al calar della notte esce dalla città con
una fidata ancella, raggiunge lo scudiero e lo manda come messaggero da Tancredi. Ma mentre
attende ansiosa, un raggio di luna colpisce il suo cimiero, che viene riconosciuto da alcuni cavalieri
cristiani che la scambiano per Clorinda. Erminia viene assalita e costretta a fuggire.

CANTO XII
Durante la notte, mentre con Argante assiste al febbrile lavoro per rimettere in sesto le difese,
Clorinda promette a sé stessa di andare a incendiare la grande torre dei Cristiani; Argante le dice
allora che vorrà essere vicino a lei nell'impresa. Concordi si re cano dal re Aladino ed espongono il
piano; anche Solimano vuol partecipare all'impresa, ma il re lo dissuade mentre Ismeno chiede che
attendano qualche ora per preparare un miscuglio che possa incendiare bene la torre. Mentre
Clorinda si veste, Arsete, che per tutta la vita era stato suo fedele servitore, le chiede di rinunciare
all'impresa, ma è inutile; allora le svela quali sono le sue vere origini: figlia di Senapo, re cristiano
d'Etiopia, era nata bianca da madre nera e per non urtare la gelosia del re , era stata abbandonata
alla nascita con gran dolore dalla madre e raccolta da Arsete, che la nascose e la crebbe nella
religione pagana, valorosa e ardita nelle armi. Clorinda lo rasserena dicendogli che sempre
avrebbe seguito la fede nella quale era stata educata. A notte alta, Clorinda, Argante e Ismeno
escono dalla città e incendiano la torre; accorrono due squadre di cristiani: breve è la battaglia
mentre i pagani rientrano in città attraverso l'Aurea Porta; ma Clorinda è in ritardo, e allora si
mischia ai soldati cristiani. Solo Tancredi la riconosce e la sfida a duello, ingaggiando un mortale
combattimento senza essere riconosciuta. Colpita a morte, prima di spirare chiede di essere
battezzata. Tancredi le scopre allora il viso: grande è il suo dolore nel riconoscerla, un dolore che si
calma solo alle parole di Pietro l'Eremita. Nella notte prima dei funerali, Tancredi sogna Clorinda,
che gli si mostra in tutta la sua bellezza celeste. Al mattino l'eroe si sveglia consolato. Si diffonde
nella città la notizia delle morte di Clorinda; piange Arsete, mentre Argante giura di uccidere il
rivale per vendicare l'amica.

CANTO XVI
Carlo e Ubaldo entrano nel palazzo d'Armida dalle cento entrate, e penetrano nel giardino
incantato (descrizione: la rosa, l'atmosfera amorosa). I due guerrieri vedono Rinaldo e Armida
mentre si scambiano effusioni d'amore nel giardino. Ad un certo punto Armida baciandolo si
allontana. I due eroi colgono il momento favorevole e si presentano davanti a Rinaldo mentre
Ubaldo gli parla e gli rivolge contro lo scudo, nel quale egli specchiandosi vede tutta la sua
abiezione, restando confuso. Intanto Armida, trovato morto il guardiano, torna e vede Rinaldo che
si sta allontanando: lo prega, forsennata gli corre dietro, gli parla in modo accorato, lo prega di
accettarla almeno come ancella. Rinaldo le risponde che devono lasciarsi, e parte mentre la donna
dà libero sfogo al suo dolore disperato minacciando infine vendetta. Partiti i tre guerrieri, Armida
con le sue arti magiche, distrutto il suo palazzo e il giardino incantato, vola sul suo carro nel
castello sulle rive del Mar Morto; donde poi passa a Gaza nel campo del Re d'Egitto.

CANTO XX
Sorge il mattino, tutti vorrebbero combattere, ma Goffredo tiene a freno gli uomini, per dare loro
ancora un giorno di riposo. Il mattino dopo Goffredo dispone l'esercito e rivolge loro un discorso
d'incitamento, alla fine del quale pare a molti di vedere un lampo celeste. Nello stesso tempo
anche il condottiero egizio ordina le sue schiere incitandole. I due eserciti sono schierati l'uno di
fronte all'altro, infine viene dato il segnale della battaglia. Eroismo da entrambe le parti; di
Gildippe, Altamoro, e di tanti altri. Goffredo sventa la trama ordita contro di lui, mentre Rinaldo
comincia a far grande strage intorno a sé, e ad un certo punto giunge dove si trova Armida che
cerca di colpirlo con le sue frecce, ma "mentre saetta, Amor lei piaga". Intanto dalla Torre il
Sultano guarda la battaglia, e allora insieme ad Aladino esce a combattere. Accorre Raimondo e
viene raggiunto dal Sultano Solimano: i due si scontrano presso la casa dove giace ferito Tancredi,
che si arma di scudo e spada e scende in battaglia, tenendo al riparo Raimondo sotto lo scudo.
Raimondo si avventa contro Aladino, lo uccide, e finalmente conquista la rocca e "nel sommo di
lei" scioglie al vento il grande vessillo. Intanto sopraggiunge Solimano, che uccide Gildippe e
Odoardo; accorre Rinaldo che uccide prima Adrasto e poi Solimano: va in fuga l'esercito egiziano e
invano Emireno cerca di fermarlo facendo tornare indietro Rimedone, il portabandiera, e
riunendosi a Tisaferno che si stava battendo con grande coraggio e che ha il suo ultimo scontro
con Rinaldo che lo uccide. La battaglia è finita; Rinaldo si guarda intorno e vede tutti abbattuti i
vessilli nemici. Si ricorda allora di Armida che "fuggiva sola e dolente". Si dirige verso di lei e
finalmente i due si riconciliano. È il momento culminante: Goffredo, dopo aver ucciso Emireno, e
fatto prigioniero Altamoro, invade e prende il campo degli Egizi. Poi, sul far della sera, sale al Santo
Sepolcro e scioglie il voto.

PRINCIPE
CAPITOLO I
I personaggi storici a cui si fa riferimento nel primo capitolo de Il principe sono Francesco Sforza,
capitano di ventura che s’impadronì di Milano con l’aiuto dei Veneziani, e il re di Spagna
Ferdinando il Cattolico, che nel 1504 conquistò il Regno di Napoli. Per Machiavelli esistono due
possibilità di Stato: le repubbliche ed i principati. I secondi si differenziano in principati ereditari,
se la dinastia del principe è stata da lungo tempo al potere, e principati nuovi. Questi ultimi a loro
volta si distinguono in principati interamente nuovi e principati misti, cioè aggiunti allo Stato
ereditario. Per quanto concerne i principi interamente nuovi, l’esempio riportato dal Machiavelli è
la signora di Francesco Sforza a Milano; per quanto riguarda invece i principati misti, l’esempio è il
Regno di Napoli conquistato da Ferdinando il Cattolico. Gli altri esempi presenti sono i seguenti:
nel secondo capitoli (in cui si parla dei principati ereditari), il caso dei duchi di Ferrara, i quali
furono scacciati prima dai Veneziani nel 1484 e poi da papa Giulio II nel 1510, esemplifica come si
possa perdere il potere per ragioni diverse dal fatto di averlo ereditato; nel terzo capitolo (nel
quale si parla dei principati misti), Luigi XII di Francia, che occupò Milano per perderla subito dopo
per mano di Ludovico il Moro, con cui si allearono le popolazioni prima favorevoli al sovrano, viene
citato per dimostrare che un principe, anche se possiede eserciti molto potenti, ha sempre
bisogno dell’appoggio dei provinciali.

CAPITOLO II
In questo capitolo del Principe del Machiavelli l'argomento principale è quello dei Principati
ereditari e la capacità da parte dei Principi ereditari nel saperli amministrare e governare; viene
quindi spiegato come devono essere amministrati i principati ereditari. Ad esempio nei principati
dove i sudditi vengono "assuefatti al sangue del loro Principe", è necessario cercare di non
distruggere l'ordine che si è creato nel momento in cui ci si ritrova a dover ereditare il principato.
In questo modo non subentreranno dei problemi nel riuscire a governare lo Stato, a meno che
questo non venga conquistato da un altro personaggio ben più forte di questi. In sostanza quindi il
principe potrebbe tenere il controllo dei principati, non mettendo in secondo piano però i metodi
tradizionali di governo dei suoi predecessori. A tal proposito viene fatto l'esempio degli Estensi a
Ferrara: "Noi abbiamo in Italia, per esempio, il Duca di Ferrara, il quale non ha retto agli assalti de’
Viniziani nell’84, nè a quelli di Papa Iulio nel 10 per altre cagioni che per essere antiquato in quel
Dominio." Il principato degli Estensi sarebbe per esempio crollato sotto il dominio veneto per delle
ragioni molto diverse dalla sua antica origine. Inoltre il principe naturale risulta avere anche meno
motivi per potere offendere in qualche modo i suoi sudditi sia se non è amato da questi sia se
viene amato. Infatti, essendo un principe ereditario, rimarrebbe alla guida del principato in
entrambe le situazioni suddette. Viene anche fatta menzione di come i principati ereditari siano
più facili da governare rispetto a quelli nuovi a patto che si mantengano le modalità di governo
degli antenati. Uno degli elementi che potrebbe stravolgere i principati ereditari sarebbe ad
esempio un cambiamento.

CAPITOLO VII
Il capitolo VII parla dei principati che si acquistano con le armi e con la fortuna di altri. Il potere
conquistato con un colpo di fortuna è precario perché sempre soggetto all'arbitrio altrui o alla
volubilità della sorte. Chi ha ereditato il principato in questo modo non sa mantenerlo perché di
solito lo conquistano privati cittadini che non hanno le milizie (i soldati) Inoltre in questo capitolo
vengono presentati 2 personaggi che hanno preso il principato grazie ad altri:

-Francesco Sforza, un privato cittadino che fu duca di Milano dal 1450 al 1466;

-Cesare Borgia che ha conquistato la Romagna con la sua spietata risolutezza nello spegnere le
ribellioni (come il massacro di Sinigallia comandato tra il 31 dicembre 1502 e il 18 gennaio 1503 ai
danni dei suoi rivali Vitellozzo Vitelli, il Duca di Gravina Francesco Orsini, Paolo Orsini e Oliverotto
da Fermo).
Di entrambi questi personaggi vengono descritte minuziosamente le virtù e la fortuna del
principato e delle loro opere per poterlo mantenere. Machiavelli è uno scienziato e crede in una
visione naturalistica perché le leggi naturali hanno sempre regolato la vita dell'uomo; il principe -in
questo capitolo- è fragile, solitario e impone il suo unitarismo trascendentale=impone il suo potere
ai soldati. Così Machiavelli assolutizza la politica, è antropolatra (venera molto l'uomo),
immanente e amorale (non giudica il male bene e il bene male).

CAPITOLO IX
Dopo aver parlato di quei Principati che si instaurano per la scelleratezza del Principe, Machiavelli
in questo capitolo tratta il Principato civile. Il Principato civile si instaura con il favore degli altri
cittadini affidato ad un unico Principe cittadino. Il Principato deriva così dal popolo o dai grandi, tra
questi due deve muoversi il Principe. Il Principato, secondo Machiavelli, è più difficile da
mantenere se formatosi dall’appoggio ai grandi che si ritengono al pari del Principe, difficili perciò
da comandare. Quando il Principe è supportato dal popolo questi si rimettono nella sua figura
superiore per ottenere protezione dai grandi che li opprimono, ma in questo caso il Principe si
trova a regnare con pochi ubbidienti. Non può il Principe regnare senza lo sfavore di una parte o
dell’altra, però, mentre il popolo è numeroso, i grandi sono meno numerosi e il Principe può
togliere o dare loro in qualsiasi momento reputazione. Se il Principe diventa tale con il sostegno
dei grandi deve ottenere il favore del popolo, che aspettandosi un atteggiamento avverso dal
Principe saranno meglio disposti ad ubbidirgli se questo li aiuterà. Afferma pertanto che per un
Principe è necessario il sostegno del popolo. Distingue poi i Principati che comandano per loro o
attraverso i magistrati. I secondi sono più deboli e pericolosi poiché il Principe perde parte della
sua autorità assoluta, che viene divisa, affidando il compito di fare le leggi ai magistrati. Conclude
che un buon Principe deve fare in modo che i cittadini abbiano sempre bisogno di lui, anche in
tempi difficili, e che gli siano sempre fedeli.

CAPITOLO XV
Il XV capitolo de Il principe si apre con una premessa in cui sono svolti tre argomenti: la polemica
contro i precedenti trattati che aveva affrontato il tema delle qualità del principe ; l’affermazione
del realismo con cui Machiavelli conduce le sue osservazioni basate sull’analisi della “verità
effettuale”; l’amara riflessione sulla distanza che separa la realtà dall’immaginazione, il “come si
vive” dal “come si dovrebbe vivere”, da cui nasce l’esigenza del principe di non essere interamente
buono. La “verità effettuale” è la realtà concreta delle cose, oggetto della politica che, per essere
davvero utile, deve guardare a come esse sono e non a come si vorrebbe che fossero. Machiavelli
teorizza l’assoluta indipendenza della politica dalla morale dalla religione. La politica, secondo
l’autore de Il principe, consiste nella conquista, nel mantenimento e nella gestione del potere;
tutto il resto appartiene ad altri campi (quello etico, quello spirituale, ecc.). La particolarità del
capolavoro machiavellesco sta proprio nella separazione della politica, in quanto ambito specifico
dell’attività umana, dalla morale, dalla fede e dalla vita privata. Machiavelli, nelle prima righe del
XV capitolo, giustifica il fatto che i suoi precetti si discostano da tutta la tradizione precedente,
affermando che è stata sua intenzione “scrivere” cosa utile a chi la intenda” e che pertanto gli è
parso giusto “andare dietro alla verità effettuale della cosa, che alla immaginazione della stessa”. Il
principe deve sempre essere buono, virtuoso, onesto, ma, per conservare il potere, deve anche
saper rinunciare, quando è necessario, a queste virtù. Considerando la malvagità presente
nell’uomo, il principe deve comportarsi senza badare ai mezzi che usa per governare. I buoni
prìncipi, pur non eccedendo in menzogne e crudeltà, a volte sono costretti a compiere azioni
contrarie alla morale. Emerge qui tutto il pessimismo antropologico del Machiavelli: per lui la
natura umana è essenzialmente malvagia, anche se negli uomini esistono pure sentimenti di
amore, altruismo e solidarietà.

CAPITOLO XVIII
Nel XVIII capitolo viene discussa la questione relativa all’opportunità o meno che un principe si
comporti in maniera leale nei confronti dei cittadini che governa. In pratica, egli deve o no
mantenere la parola data? Sia l’argomento trattato sia la conclusione a cui giunse il Machiavelli
destarono un particolare scandalo all’epoca in cui fu scritto Il principe. Il ragionamento del
Machiavelli si sviluppa sulla base della doppia metafora della volpe (la “golpe”) e del leone (il
“lione”), le cui caratteristiche, l’astuzia e la forza, devono essere prese a modello dal principe.
Quest’ultimo, solo facendo sfoggio di entrambe le qualità, sapientemente mescolate, può
esercitare l’arte di governare, nella quale non sempre è tenuto a rispettare la parola data,
soprattutto quando sono venute meno le ragioni che lo indussero a promettere. Ecco pertanto la
risposta al quesito precedente: poiché gli uomini, malvagi per natura, tendono a non comportarsi
in maniera leale con il principe, Machiavelli non vede alcun motivo per cui questi lo debba fare con
loro. Tuttavia, è necessario che il principe sappia mascherare questa sua natura volpina ed essere
“gran simulatore e dissimulatore”. Quale esempio di “astuzia” volpina riporta il Machiavelli? Il
Machiavelli, dopo aver precisato che la storia a lui contemporanea fornisce molteplici esempi di
slealtà dei prìncipi, ne cita uno in particolare, quello di papa Alessandro VI, il padre del Valentino.
Del pontefice lo scrittore, sia in questo capitolo sia nel VII (quando tratta le imprese del Valentino),
dà un giudizio tutto sommato positivo; se lo sceglie come esempio di astuzia volpina è solo per
esprimere un’ulteriore provocazione. Machiavelli era consapevole che Il principe avrebbe
suscitato polemiche e condanne da parte dei moralisti, ma, nonostante questo, arriva addirittura a
porre il papa sullo stesso piano di un qualsiasi principe. Del resto, nel periodo rinascimentale, i
pontefici, essendo sovrani assoluti di un territorio relativamente ampio, si comportavano come
tutti i prìncipi dell’epoca. Machiavelli, nella parte conclusiva del XVIII capitolo, sostiene che in
politica conta più come si appare che come si è.

CAPITOLO XXV
Nel capitolo viene affrontato il tema filosofico del rapporto tra fortuna e virtù. Ricordiamo che
Machiavelli intende per “fortuna” non la buona sorte, ma il desiderio, il caso, l’occasione o fferta
dalla circostanza, e per “virtù” non la bontà o la moralità del principe, bensì la sua capacità
politica. Machiavelli sostiene che dalla fortuna dipende la metà delle azioni umane; dalla virtù,
cioè dalle capacità dell’uomo, l’altra metà. Il successo si basa sull’abilità di adeguare il proprio
comportamento alle condizioni oggettive in cui si agisce. Gli uomini, affidandosi alla virtù, hanno la
possibilità di prevenire i colpi della fortuna, limitandone gli effetti sulla vita quotidiana, ma non
sempre ci riescono: in alcuni casi, la fortuna prevale sulla virtù. Machiavelli sembra combattuto tra
la consapevolezza dei limiti dell’azione umana, da una parte, e l’esaltazione dell’autonomia
dell’uomo e della sua capacità di determinare il proprio destino, dall’altra. Un dubbio che non
viene chiarito in queste pagine de Il principe. Machiavelli, nell’affermare che l’uomo deve sempre
saper adeguare i suoi comportamenti alle condizioni in cui si trova ad agire, fornisce l’esempio,
tratto dalla storia a lui contemporanea, di papa Giulio II che guidò personalmente la spedizione
militare nell’impresa di Bologna, sorprendendo il re di Spagna e i Veneziani e conquistandosi il
favore del re di Francia Luigi XII. Se Giulio II si fosse comportato come tutti gli altri papi, facendosi
trattenere a Roma dagli impegni burocratici, non avrebbe di certo portato a termine la sua
impresa. L’espressione “libero arbitrio”, in filosofia, indica la libertà di scelta di cui gode l’uomo in
quanto essere razionale, a differenza degli animali che sono soggetti all’istinto (il servo arbitrio). La
fortuna viene paragonata ad un fiume impetuoso che allarga pianure e abbatte alberi ed edifici,
trascinando masse di terra dietro di sé. Gli uomini sono costretti a fuggire, non potendo opporre
resistenza alla sua furia, ma nulla impedisce loro, nei periodi di calma, di costruire argini e canali
con cui poter limitare i danni in caso di un nuovo straripamento del fiume. Fuor di similitudine, gli
uomini hanno la capacità, se vogliono, d’ostacolare i piani della fortuna.

CAPITOLO XXVI
Questo ultimo capitolo del principe, intitolato exhortatio (esortazione) è un’implorazione affinché
qualcuno passi dalle parole all'azione. Tutto il trattato ha lo scopo di insegnare, persuadere e
incitare qualcuno a prendere atto della situazione italiana e in base ai consigli del principe creare
un principato a livello di quello degli altri stati europei.

Il capitolo si può dividere in 3 sequenze:

1) vv 1-36: L'italia viene paragonata alle situazioni della liberazione degli Ebrei, dei persiani e degli
ateniesi. Questi uomini vennero liberati da tre uomini (Mosè, Ciro e Teseo) che avevano grandezza
d'animo e virtù eccellenti. Secondo Machiavelli l'Italia avrebbe bisogno di un condottiero come
loro, che permettesse al paese di liberarsi (essendo un paese senza ordine, senza capo, spoglio,
battuto e devastato). Machiavelli dice: "E il rimanente lo dovete fare voi" riferendosi ai de Medici
perchè secondo lui le azioni sono governate sia dal destino sia dalla bravura e dall'esperienza del
principe e solo la famiglia dei de Medici poteva liberare l'Italia dall'oppressione straniera, essendo
una casata illustre, favorita da Dio e dalla Chiesa, con virtù e fortuna.

2) vv 37-76: In questo secondo blocco Machiavelli parla della situazione italiana definendo l'Italia
un paese senza stato e senza valore militare. Secondo lui i de Medici possono dominare l'Italia,
creando nuove leggi e nuovi ordinamenti che permetteranno al principe di ricevere rispetto e
ammirazione. Questo blocco ha la funzione di dare ulteriori consigli sull'esercito (creare eserciti
propri e non di mercenari) e sul modo di comandarlo (non seguendo la fanteria svizzera o
spagnola).
3) vv 77-90: Nell'ultima parte c'è il ritorno all'esortazione, che qui raggiunge l'apice. Vengono p oste
delle domande alle quali Machiavelli risponde con la violenta espressione "A ognuno puzza questo
Barbao dominio". Questa è un’espressione plebea che spiega in termini semplici ciò che pensavano
davvero gli abitanti dell'Italia. Ritorna infine sul tema dei de Medici, che secondo lui devono
conquistare l'Italia perchè questa è una giusta impresa.

CAPITOLO VI
Quindi i grandi uomini avevano la capacità di cogliere e afferrare la fortuna, l’occasione, subito.
L’occasione veniva donata ad ogni uomo e se quest’ultimo possedeva la virtù poteva sfruttarla.
Machiavelli continua la trattazione riportando le occasioni sfruttate dai grandi uomini nel passato,
facendo quindi degli “exempla”. Chi acquistava i principati nuovi, mediante la virtù, aveva maggiori
difficoltà nel conquistarlo ma minori nel mantenerlo mentre a chi l’acquistava con la fortuna
accadeva il contrario. Inoltre chi conquistava un principato doveva istituire una nuova forma di
governo e riscontrava notevoli difficoltà. Infatti persistevano coloro che avevano già governato,
che volevano mantenere i loro privilegi, e coloro che non traevano nessun vantaggio dal tipo di
governo precedente. Questi ultimi dovevano corrispondere al supporto del nuovo principe, poiché
dovevano riconoscere nel cambiamento un miglioramento. Invece, non avendo esperienza del
nuovo, risultavano intimoriti, avevano paura di ritorsioni e vendette del governo precedente e non
erano di nessun aiuto per il principe che doveva operare in una situazione di grande difficoltà. Il
principe, quindi, per mantenere il nuovo stato, aveva bisogno della forza e non delle preghiere,
non doveva chiedere ma agire. La virtù non serviva soltanto nella conquista dello stato ma anche a
mantenerlo. Per forza intende anche la violenza. È necessario, pertanto, volendo trattare bene
questo argomento, esaminare se gli innovatori si reggono sulle loro forze o se dipendono da altri:
cioè se per realizzare i loro intenti, devono chiedere aiuto oppure possono usare forze proprie. Nel
primo caso, finiscono sempre male e non arrivano a realizzare nulla; ma quando sono indipendenti
e possono usare la forza, allora raramente corrono pericoli. Ne deriva che tutti i profeti armati
vinsero e i disarmati andarono in rovina. Perché, oltretutto, la natura dei popoli è mutevole . È
facile convincerli di una cosa, ma è difficile mantenerli fermi in quella convinzione. Perciò conviene
creare delle istituzioni tali, che, quando essi non ci credono più, si possa usare la forza per
rimanere al potere. Mosè, Ciro, Teseo e Romolo non avrebbero potuto far osservare a lungo i loro
ordinamenti se fossero stati disarmati, come accadde nei nostri tempi a fra’ Gerolamo Savonarola;
il quale andò in rovina con le sue riforme non appena la moltitudine cominciò a non prestargli più
fede; e lui non aveva la possibilità di mantener fermi nell’antica fede coloro che avevano creduto
in lui, né di far credere gli increduli. Perciò questo tipo di governanti incontrano molte difficoltà e
molti pericoli sul loro cammino, che possono superare solo con la loro virtù. Ma una volta
superati e cominciando a venire rispettati, dopo aver eliminato coloro che li avversavano, restano
potenti, sicuri, onorati e appagati. Tra gli altri esempi si trova quello di Gerone Siracusano. Costui
da privato cittadino diventò principe di Siracusa: e non ebbe altro dalla fortuna che l’occasione;
perché i Siracusani essendo assoggettati (ai Cartaginesi), lo elessero capitano e in seguito meritò di
esser fatto principe. E fu persona di tale intelligenza politica, anche nella sua condizione di
semplice cittadino, che chi ha scritto di lui ha affermato «quod nihil illi deerat ad regnandum
praeter regnum» (nulla gli mancava per essere re fuorché il regno). Gerone distrusse la vecchia
milizia, ne creò una nuova; lasciò le antiche amicizie, strinse nuove amicizie; e, come ebbe amicizie
e soldati suoi, su tale fondamento edificò le sue istituzioni: tanto che fece una grande fatica nel
conquistare il potere, ma poca nel mantenerlo.

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