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Derren Brown

il Mentalista
i trucchi della mente

Ebook

Traduzione: Katia Prando


Editing: Stefania Colombo
Grafica di copertina e impaginazione: Matteo Venturi

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IPNOSI E SUGGESTIONABILITÀ

Durante le vacanze estive dopo il mio primo anno all’università di


Bristol, comprai una bottiglia di lattice liquido in una cartoleria di
Croydon, che poi portai nella residenza universitaria dove vivevo
durante i mesi di frequenza ai corsi. La soluzione gommosa veniva
impiegata come supporto per la pittura: a quel tempo ero un grande
ammiratore di due fumettisti, Scarfe e Steadman, e avevo sentito dire
che entrambi utilizzavano il lattice liquido per creare delle maschera-
ture. (Stendi il lattice su parte di una tela e lascialo asciugare, poi
spruzza dell’inchiostro su una porzione più ampia di tela e infine togli
lo strato di lattice. Ecco che apparirà un’area senza inchiostro la cui
forma, dimensione e posizione corrisponde esattamente a quella della
parte di lattice appena tolta.) La bottiglia di lattice restò per un certo
periodo a riposare nel mio armadio, poi il desiderio di usarla per atti-
vità artistiche e creative svanì, sopraffatto dalla brama di abusarne per
fini non-sessuali.
Un bel mattino me ne misi un po’ sotto l’occhio sinistro e una volta
asciugato rimasi felicemente sorpreso dall’effetto di gonfiore ottenuto.
Quindi scesi a fare colazione, per vedere che reazioni avrebbe suscita-
to. Alcuni mi chiesero cosa avessi fatto all’occhio. Io risposi che era
leggermente irritato, ma che non avevo idea del perché. Decisi di tene-
re il lattice per tutto il giorno e frequentai le lezioni in quello stato. Gli
sguardi incuriositi e vagamente preoccupati resero quella giornata più
interessante, e io non confessai a nessuno il mio piccolo inganno.

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Il mattino successivo, quindi, il corso naturale degli eventi fece sì che
ne applicassi un altro po’, come se l’infezione fosse progredita.
Prevedendo questo sviluppo, avevo comprato dei cosmetici, con i quali
fui in grado di simulare con successo un livido. A questo punto il risul-
tato era di evidente deformità, e io ritornai nel mondo degli umani allo
scopo di suscitare allarme per la mia condizione. Nei due giorni seguen-
ti continuai la recita. Amici e conoscenti insistevano sul fatto che
dovessi farmi vedere da un dottore. Benché mi sentissi perversamente
deliziato dall’attenzione, nondimeno ero a disagio per la preoccupazio-
ne che provocavo negli altri, e capii che rivelare la messinscena sareb-
be stato difficile da mandar giù un po’ per tutti. Perciò mi vidi costretto
a proseguire la mia farsa.
Dopo poco più di una settimana, sebbene togliessi il lattice ogni
notte, la soluzione iniziò a irritare l’occhio. Colpito dall’ironia di con-
trarre un vero disturbo oculare per quella stupidaggine, decisi di mette-
re meno lattice e di applicare un cerotto sull’occhio. Ricordo ancora
l’espressione incredula della commessa nella farmacia di Whiteladies
Road quando entrai con metà faccia orrendamente deformata e chiesi
se avessero dei cerotti oculari. Nel frattempo avevo aggiunto un tremo-
lio abbastanza convincente che donava un che di inquietante al tutto.1

1. Da non confondersi con l’altro tic che avevo iniziato a sviluppare, vale a dire la tendenza
a inclinare appena la testa. Quest’ultima era dovuta alla mia abitudine di mettere le per-
sone in uno stato di condiscendenza – cioè annuendo per farle concordare con me – e ben
presto aveva iniziato a manifestarsi autonomamente nei momenti di generale nervosismo.
Sfortunatamente, adesso si manifesta all’improvviso mentre sono in scena oppure durante
le interviste. Non penso di avere mai fatto sfoggio di entrambi i tic contemporaneamente,
il che sarebbe stato divertente (o forse terrificante, per i giovani o le persone facilmente
impressionabili).

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L’unica persona alla quale dovetti confessarlo fu Debbie, una delle
mie partner di ballo all’epoca. Per ragioni che ora sembrano aliene e
oscure, noi eravamo la coppia leader della squadra di Cha-cha-cha
dell’università e sgambettavamo fieri al ritmo dei classici nelle gare
studentesche di mezza Inghilterra.
Ovviamente, lei non poteva non conoscere la verità che si celava
dietro la mia “infezione”, dato che doveva roteare, piroettare e vol-
teggiare a distanza ravvicinata dal mio volto apparentemente devasta-
to dalla malattia. In una sera memorabile, stavamo provando le nostre
coreografie grottesche e asessuate al primo piano della sede dell’As-
sociazione Studentesca, quando un tizio venne a chiedermi se poteva
dare un’occhiata sotto il cerotto. Debbie era divertita dalla cosa ma fu
abbastanza furba da non dire niente. Questa richiesta produsse la mia
pronta esibizione dell’occhio, seguita dalla proposta del tizio di
accompagnarmi al reparto di oculistica dell’ospedale. Io lo ringraziai
per il suo interessamento ma dissi (perché ormai dovevo reggere il
gioco) che non mi fidavo dei dottori. Il tizio rispose di essere un chi-
rurgo oculista e che io dovevo andare immediatamente con lui per
farmi visitare. Debbie, che nel frattempo stava sorseggiando una
bevanda, scoppiò a ridere per l’inattesa evoluzione degli eventi e
nebulizzò il suo analcolico attraverso le narici da ballerina. Lui si
voltò di scatto, la guardò e disse abbastanza stizzito: “Non so perché
stia ridendo, signorina. Probabilmente questo ragazzo avrà bisogno
della chirurgia plastica”. A questo punto Debbie si scusò e corse in
bagno, versando lacrime che un osservatore fortuito avrebbe potuto
scambiare per gocce di dispiacere.

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Essendo ormai impossibile aggirare l’argomento, dovetti confessare
tutto al dottore. Farlo fu straziante. Colmo di vergogna per me stesso,
permisi alla finta infezione di guarire nei giorni successivi, e poco dopo
dissi agli altri che era stata tutta una messinscena. Il ragazzo del piano
di sopra che aveva mostrato un interesse insolito per la mia salute
ammise che la sua reazione era stata dettata principalmente dal senso
di colpa: aveva prodotto della birra artigianale nei bagni comuni e
temeva che i fumi avessero avuto effetti nocivi.
Non ho c’è voluto molto “senno di poi” per capire che si era trattato
di una bambinata patetica per ricevere attenzione, e mentre una parte
segreta di me ne è rimasta innegabilmente compiaciuta, per il resto è
ancora una tortura ripensarci. La menziono solo perché macchinazioni
così palesemente ingenue erano chiari segni del desiderio di esibirmi,
e fondamentalmente mi portarono all’altrettanto innocua pratica di
farmi un nome come ipnotizzatore nella comunità universitaria. Ti
prego di non pensare nemmeno per un istante che a quel tempo io aves-
si la benché minima idea di cosa fosse lo stile in generale. Indossavo
vestiti dai colori sgargianti e male assortiti che solo le più pacate ma
altrettanto inconcepibili combinazioni giacca/pantalone dei professori
universitari potevano offrire un degno termine di paragone. Non ero
alieno a camicie a fiori e stivali viola e verdi, farfallino e bretelle, igna-
ro di quanto potessi essere discutibile. Come ciliegina sulla torta, ero
ben felice di parlare a tutti di Dio.
Di tanto in tanto alcuni amici passavano da me per farsi ipnotizzare.
Avevo preso in prestito tutti i libri possibili dalla biblioteca e ne avevo
comprati alcuni in una di quelle librerie alternative e maligne dalle quali

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i miei pastori mi avevano messo in guardia. Avevo uno script per l’in-
duzione che durava una quarantina di minuti e che utilizzavo per porta-
re dolcemente in trance i miei pazienti-clienti, accoccolati nella confor-
tevole poltrona arancione e marrone in stile anni Settanta che costituiva
il punto focale della mia cameretta da studente. Ripensandoci, forse era
tutto merito del Feng Shui. Sono sicuro che non fosse il mio carisma
naturale. Quando percepivo che erano adeguatamente ipnotizzati, sug-
gerivo a titolo di prova che forse un braccio si sentiva più leggero o che
un piede era troppo pesante da sollevare. Se questi suggerimenti sem-
bravano funzionare, ero felice e poi li risvegliavo lentamente. Con l’au-
mentare della mia sicurezza, imparai ad abbreviare l’induzione e a ten-
tare test più interessanti, e finivo la sessione instillando la suggestione
che se fossero tornati un’altra volta sarei stato in grado di riportarli in
trance semplicemente schioccando le dita e dicendo loro di “dormire”.
Una sera ebbi modo di vivere un’esperienza istruttiva quando venne
da me per una sessione di ipnosi qualcuno che credevo di avere già
ipnotizzato in precedenza e che avevo lasciato con questa suggestione.
In realtà venne fuori che era stato da me, avevamo parlato di ipnosi ma
non l’avevamo tentata. Ad ogni modo, pensando che fosse pronto a
rispondere al mio comando, lo feci sedere e gli dissi “Dormi!”, schioc-
candogli le dita davanti alla faccia. Lui chiuse immediatamente gli
occhi, reclinò la testa e sprofondò in trance. Quando, una volta termi-
nata la sessione, capii che era la prima volta che lo ipnotizzavo, rimasi
molto confuso: come aveva potuto rispondere alla suggestione se non
gliela avevo data? Quel giorno capii che l’ipnosi funziona non grazie a
uno script accuratamente studiato e preso da un libro di auto-aiuto, ma

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perché il paziente è convinto che il processo sia efficace. Nel tempo ho
perfezionato questa teoria, ma quella rivelazione fu importante.

UNA BREVE STORIA

Il primo vero ipnotizzatore, Franz Anton Mesmer, giunse a Parigi nel


1778. Mesmer credeva che esistesse un fluido semi-magnetico che
scorreva attraverso i nostri corpi e in tutto l’universo, e che fosse l’in-
terruzione del flusso di questa energia a causare i vari disturbi di cui
soffriamo. Dovremmo tenere ben presente quest’uomo quando ascol-
tiamo alcuni nostri amici parlare seriamente di “Energia Chi” o di gua-
rigioni paranormali. Inizialmente con delle calamite e poi con le sue
stesse dita, curava i suoi pazienti allungando magicamente le mani sui
loro corpi per riallineare questa forza mistica.
I metodi di Mesmer erano di una teatralità fantastica. Si narra che
facesse sedere i suoi pazienti intorno a una vasca piena d’acqua e di
limatura di ferro, con le ginocchia le une contro le altre per permettere
al “fluido” magico di scorrere tra di loro. Dalla vasca sporgevano delle
lunghe aste, utilizzate per guarire le aree malate del corpo. Veniva suo-
nata della musica, mentre alcuni assistenti di bella presenza fornivano
un servizio tattile avanzato che generalmente provocava convulsioni
alle signore. A quel punto Mesmer faceva la sua apparizione in una
tunica viola e con un enorme bastone magnetico; successivamente le
calmava muovendo la punta del bastone contro i loro volti, stomaci e

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seni. (Sono cose come queste che dovremmo chiedere al Servizio
Sanitario Nazionale di sovvenzionare, non sciocchezzuole come l’ome-
opatia. Principe Carlo, prenda nota, grazie). Queste esibizioni scanda-
lose sembravano incoraggiare quella che con una terminologia moder-
na potrebbe essere considerata una liberazione della tensione sessuale
repressa, e certamente Mesmer sembrava incoraggiare reazioni rumo-
rose o violente ai suoi strani maneggiamenti. Alla fine, due Reali
Commissioni screditarono i metodi di Mesmer e attribuirono il miste-
rioso fenomeno più all’immaginazione delle sue pazienti che al fluido
cosmico invisibile. Cionondimeno può darsi che siano rimaste deluse
dal fatto che nessuno palpeggiasse più i loro seni.
In ogni caso si diffuse un certo interesse nei confronti di Mesmer e
dei suoi successori, e fu John Elliotson (1791–1868) che portò il movi-
mento del magnetismo animale in Gran Bretagna, armonizzandolo con
il suo interesse per la frenologia (lo studio, ora screditato, delle bozze
del cranio per determinare il carattere). Naturalmente, l’ordine medico
era estremamente contrario, anche se un certo John Esdaile, un chirur-
go di stanza nelle Indie Orientali negli anni Quaranta dell’Ottocento,
poco prima dell’ampia diffusione degli anestetici chimici, segnalò di
aver compiuto circa trecento operazioni utilizzando il “sonno mesme-
rico”. Nel 1819, un sacerdote portoghese, l’abate José Custudio di
Faria, fu il primo professionista a separare gli effetti del mesmerismo
dal concetto di influenza magnetica. Di Faria chiedeva ai suoi pazienti
di chiudere gli occhi e di entrare in uno stato di sonno senza utilizzare
il magnetismo o l’arte drammatica di Mesmer, e notò che la sua influen-
za era dovuta più alla suggestione che a poteri magici.

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Il termine “ipnotismo” (per favore, abbiate ancora un po’ di pazien-
za) fu coniato da James Braid, un chirurgo di Manchester, nel 1841.
Questi paragonava lo stato di trance a un sonno nervoso e perciò per il
nome prese spunto da “Ipno”, il dio greco del sonno. Braid faceva fis-
sare ai suoi pazienti una potente fonte di luce ed era in grado di ottene-
re risultati senza sintomi di semiepilessia e senza nemmeno gli effetti
collaterali paranormali che iniziavano a essere rivendicati dai magneti-
sti. A dire il vero, in quei tempi la nuova ondata di conoscenze riguar-
danti l’elettricità e il sistema nervoso umano rese ridicolo il vecchio
magnetismo per gli scienziati seri, e la comunità rispettabile perse inte-
resse per questa teoria.
La maggior autorevolezza, dopo Braid, la ebbe il neurologo francese
Jean-Martin Charcot. Il medico considerava l’ipnosi e “l’isteria”’ (epi-
lessia) aspetti della stessa condizione neuropatologica. I suoi pazienti
erano tutti donne epilettiche e c’è chi sostiene che questo allineamento
della prima pratica ipnotica con il manifestarsi di quelli che noi oggi
chiamiamo sintomi epilettici, già ai tempi di Mesmer, sia responsabile
della persistenza di molti fenomeni ipnotici classici del giorno d’oggi.
I test “classici” per la suggestionabilità utilizzati nella ricerca clinica
sull’ipnosi, comprendenti gli stati di trance e varie forme di catalessia,
possono essere una regressione perversa ai giorni delle “dimostrazioni”
epilettiche. È un pensiero agghiacciante.
Il rivale di Charcot era Hippolyte Bernheim (1837–1919) dell’uni-
versità di Nancy, che distolse l’ipnosi dalle consuete procedure con le
donne isteriche e promosse la suggestione verbale e la terapia su altri
disturbi. Anche se probabilmente i compagni a scuola lo chiamavano

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poco simpaticamente “Ippo-Pippo il frocetto di Nancy”2, il suo diven-
ne l’approccio prevalente e Nancy diventò un centro terapeutico molto
conosciuto. Tuttavia, allo scoccare del ventesimo secolo l’interesse per
l’ipnotismo iniziò a scemare, dapprima in Gra Bretagna e in Europa e
poi anche in America. Gli ipnoterapisti trovavano pazienti sempre più
difficili da ipnotizzare e si diffusero altri metodi terapeutici.
Successivamente ebbe grande successo l’opera di Freud sulla psicana-
lisi e l’ipnosi non fu più vista come uno strumento terapeutico serio.
Molti ritengono che l’americano Milton H. Erickson (1901–80) sia il
padre della moderna ipnoterapia, e a partire dagli anni Venti del secolo
scorso operò per favorire un approccio “permissivo” alla terapia: l’im-
perativo “Tu devi” dell’ipnotista si orientò piuttosto verso un nuovo
“Tu puoi”. Forse, con la crescita del livello di istruzione nei pazienti
rispetto ai tempi d’oro dell’ipnotismo, la figura rigida e sgargiante
dell’ipnotizzatore, ancora incentrata su quella di Mesmer, era diventata
meno appropriata. E forse l’egocentrismo del cittadino americano
moderno, per non parlare del cittadino californiano moderno, in cui
l’industria stava finalmente per decollare, richiedeva un approccio più
centrato sul paziente (o sul “cliente”). Per tutta la vita Erickson soffrì
di poliomelite, ma utilizzava l’autoipnosi per tenere sotto controllo i
suoi dolori atroci. Era poco ortodosso, famoso per i suoi modi indiretti
e i metodi ingegnosi di trattare la resistenza all’ipnosi, e sosteneva che
non esistevano pazienti cattivi, solo ipnotisti inflessibili.
Chiunque sviluppi un interesse verso le tecniche ipnotiche moderne

2. Ndt: “Nancy boy” è un’espressione dispregiativa inglese per definire un omosessuale o un


uomo effeminato.

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noterà ben presto che Erickson è venerato come un mago, come Mesmer
avrebbe voluto per sé. Sicuramente aveva lo stesso debole del suo pre-
decessore per i vestiti viola. Leggendo di Erickson e dei suoi miracolo-
si successi attraverso i suoi principali sostenitori, si osserva come la
reputazione magica sopravviva principalmente grazie alla narrazione e
ri-narrazione di aneddoti significativi. Quello qui presentato è stato
preso a caso da un sito Web riguardante la terapia ericksoniana, ed è un
aneddoto (così come è pubblicato sul sito) riguardante aneddoti (raccon-
tati da Erickson al ragazzo) che rimandano a un aneddoto che a un certo
punto sarebbe stato scritto da Erickson o raccontato su di lui. Dà un’idea
sia dello stile di Erickson, sia del rispetto che suscita nei suoi seguaci.

Spesso Erickson non utilizzava un’induzione basata su una


traccia formale [sic]. Invece racconta [sic] storie che hanno
[sic] un significato più profondo. A volte questo significato
era chiaro, ma nella maggior parte dei casi no. Almeno non
per la mente conscia della persona. Per esempio, un ragazzi-
no di dodici anni fu portato da Erickson perché faceva la pipi
a letto. Erickson fece uscire i genitori e iniziò a parlare al
ragazzo di altri argomenti, evitando completamente di discu-
tere del problema della pipì a letto in modo indiretto. Venendo
a sapere che il ragazzo giocava a baseball e suo fratello a
football, Erickson illustrò nei dettagli l’eccellente coordina-
zione muscolare necessaria per giocare a baseball, rispetto
alle capacità muscolari scoordinate che vengono utilizzate nel
football. Il ragazzino ascoltava rapito mentre Erickson descri-

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veva dettagliatamente tutti i movimenti muscolari che il suo
corpo compie automaticamente per collocarsi sotto la palla e
per prenderla: il guanto deve essere aperto in un momento
preciso e richiuso in un momento altrettanto preciso. Quando
si porta la palla all’altra mano, è necessario lo stesso tipo di
attento controllo muscolare. Poi, quando si lancia la palla nel
diamante, se uno la lascia andare troppo presto, questa non
andrà dove uno vorrebbe che andasse. Allo stesso modo,
lasciarla andare troppo tardi darebbe risultati indesiderati e
quindi frustranti. Erickson spiegò che lasciandola andare al
momento giusto, essa sarebbe andata dove avrebbe dovuto e
questo è il successo nel baseball. La terapia con questo ragaz-
zo fu di quattro sessioni comprendenti chiacchierate su altri
sport, i boy scout e i muscoli. L’enuresi notturna non fu
discussa e non fu praticata nessuna “ipnosi formale”. Di lì a
poco il ragazzino smise di fare la pipì a letto.

È uno strano racconto che mi fa quasi venire voglia di correre in


bagno, ed è affascinante quanto quell’altro che ho letto su di un bam-
bino afflitto dallo stesso problema, sempre curato da Erickson.
Quest’altro ragazzino, se mi ricordo bene, aveva quasi dieci anni e
anche in questo caso Erickson non aveva tentato di “correggere” il suo
comportamento. Invece aveva detto ai suoi genitori di smettere di
obbligarlo ad andare a scuola indossando un cartello con la scritta
“Piscione” e di non punirlo più. Una volta congedato il bambino, si
rivolse alla famiglia e disse: “È normale che faccia la pipì a letto; è solo

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un bambino di nove anni. Sono sicuro che un ragazzino di dieci anni
non lo farebbe.” Il risultato fu che il bambino smise di fare la pipì a
letto il giorno del suo decimo compleanno, dando l’idea di voler essere
considerato un adulto. Ecco un’altra storia fantastica, e ce ne sono a
centinaia come questa per solleticare l’immaginazione di chi è interes-
sato al potere della comunicazione.
Qui c’è un dilemma che caratterizza gran parte dell’ipnosi post-
ericksoniana e della sua nipotina degenere, la programmazione neuro-
linguistica, o PNL. L’approccio “permissivo” incoraggia la narrazione
al cliente di aneddoti che, sebbene possano essere fantastici, suggeri-
scono indirettamente una svolta terapeutica. Naturalmente questo
potrebbe sembrare uno strumento dettato dal buon senso con il quale si
vuole far vedere al paziente una situazione difficile in modo più utile
per lui. Tuttavia i metodi con i quali si insegnano le tecniche di ipnote-
rapia e di PNL agli studenti tendono a riflettere i metodi impiegati nella
terapia stessa. Per esempio, uno di questi metodi di insegnamento
ampiamente utilizzati è proprio quello della narrazione di aneddoti, e
molte prove dell’efficacia delle terapie ipnotiche ericksoniane (e della
PNL) vengono da questi aneddoti più che da una verifica rigorosa o da
casi clinici documentati. Esistono molte trascrizioni letterali di “sessio-
ni”, ma tendono a essere molto meno succose delle storie raccontate dai
loro protagonisti. Infatti, nella PNL il soggetto del test viene general-
mente denigrato (con la beata noncuranza per la realtà dei fatti condi-
visa da chiunque altro). Pertanto sussiste un enigma interessante: si
raccontano aneddoti riguardanti i cambiamenti miracolosi operati dai
fondatori di queste scuole senza però prestare molta attenzione all’ac-

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curatezza di tali fatti, così che essi possano ispirare allo studente un
approccio creativo nel suo lavoro (“tutto è possibile”) e raggiungere il
livello artistico di competenza ottenuto dalle persone sulle quali lo stu-
dente sente raccontare storie infondate. Alle star del settore viene asso-
ciata un’altra parola ad effetto, “genio”, ed esse stesse sono identificate
dall’insieme degli aneddoti su di loro.
In questi approcci, prodotti o diffusi dalla mentalità “Cambia la tua
testa, non cambiare il mondo” tipica degli anni Sessanta, diventa diffi-
cile separare i fatti dalla finzione. È stato dimostrato che Erickson non
teneva sempre traccia del suo lavoro clinico in modo accurato e qual-
cuno si è chiesto quanto possa essere valida parte del suo pensiero. Per
esempio, l’incoraggiamento che Erickson diede a sua figlia per “supe-
rare” le cure ortodontiche alle quali era stata sottoposta fu il seguente:
“Quel mucchio di ferraglia che hai in bocca è una bella fregatura e sarà
duro da mandare giù.” Dubbioso sul fatto che Erickson avesse attribu-
ito a se stesso queste parole, lo scienziato McCue, ha scritto che “Gli
autori [Erickson e Rossi, 1980] sostengono che la prima metà della
frase riporti lo sconforto della figlia e che la seconda metà, che inizia
con ‘e’, ‘suggerisca che lei si abituerà all’apparecchio e non si lascerà
turbare da esso’. È nostra opinione, tuttavia, che la frase significhi che
la proprietaria dell’apparecchio incontrerà notevoli difficoltà nell’abi-
tuarsi ad esso.”
Erickson fu chiaramente un uomo affascinante, carismatico e capace
che ha lasciato una forte impressione sulle persone che hanno scritto di
lui. I racconti traboccano sempre di simili figure ispiratrici. Sono sem-
pre divertenti o interessanti da leggere. È sempre molto difficile, sep-

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pure non impossibile, sottoporre gli approcci terapeutici a una reale
verifica e spetta alla pletora di professionisti ericksoniani provare il
valore delle sue idee, ricreandone la magia. Purtroppo, la maggior parte
dei terapeuti tende a essere aliena al carisma, quindi temo che, indipen-
dentemente dal tocco magico realmente posseduto da Milton, la sua
eredità per i posteri consista semplicemente nell’aver indotto molti
terapeuti a spostare la propria attenzione dalla “ipnosi” in sé e per sé a
una “comunicazione intensificata”, qualcosa che è stato glorificato dal
mondo della programmazione neurolinguistica, della quale discutere-
mo più avanti.

COS’È L’IPNOSI?

Quando qualcuno che si spaccia come ipnotista porta degli uomini


adulti su un palco e li fa ballare o scimmiottare Elvis, noi diciamo che
i suoi soggetti sono “ipnotizzati”. Quando i seguaci di qualche setta
sono istigati ad agire contro il loro bene, arrivando persino al suicidio,
per noi sono “ipnotizzati”. Eppure, paradossalmente, ci è stato detto
che non possiamo essere ipnotizzati e indotti a fare nulla contro il
nostro volere. Potremmo usare la stessa parola per descrivere qualcuno
indotto ad avere allucinazioni o a sottoporsi a un intervento chirurgico
senza anestesia. Potresti pensare che un partecipante a un mio show che
si comporti in modo insolito sia sotto l’effetto di un qualche tipo di
“ipnosi”; certamente i giornalisti spesso mi descrivono come una spe-

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cie di “ipnotizzatore”. Talvolta i seminari aziendali insegnano “l’ipno-
tismo” o “schemi linguistici ipnotici” ai partecipanti per aumentare il
loro ascendente sui possibili clienti, mentre i corsi di seduzione su
internet fanno promesse simili a maschi solitari (per quel che ne so).
Vediamo personaggi nei film che sono indotti da personaggi sinistri a
commettere dei crimini: sono “ipnotizzati”. Nel febbraio 2005, il Los
Angeles Times pubblicò come certa la notizia secondo la quale per le
strade della Russia alcuni “ipnotizzatori” zingari si facevano consegna-
re dai passanti i loro averi. Inoltre chiamiamo “registrazioni ipnotiche”
incisioni di musica rilassante mixate insieme a indicazioni suggestio-
nanti, e possiamo persino dire di essere “ipnotizzati” da una musica
incantata o dalla luce delle candele durante una funzione in chiesa.
Alcuni mi dicono di non “credere” all’ipnosi, altri invece mi sembra
che utilizzino questo termine per descrivere praticamente tutto.
Esiste un tipo di ipnosi reale e altri casi in cui il termine è utilizzato
in senso metaforico? Come è possibile che ascoltare un’incisione di
musica rilassante e commettere un crimine siano la stessa cosa? L’ipnosi
richiede uno stato di “trance”? Se qualcuno viene indotto in uno stato
speciale di trance e gli viene detto di compiere inconsciamente qualco-
sa al suo risveglio, può essere la stessa cosa di quando tali suggestioni
sono prodotte in un normale stato di veglia?
Attualmente esistono due principali scuole di pensiero riguardo a
cosa sia l’ipnosi. La prima la ritiene uno “stato speciale”. La logica di
questa scuola di pensiero si basa sull’idea che la persona ipnotizzata sia
in grado di compiere cose che una persona non ipnotizzata non potreb-
be fare. Se si riesce a dimostrare che non c’è assolutamente nulla di

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speciale nell’ipnosi, allora questa linea di pensiero diventa superflua. A
questi teorici dello “stato” si oppongono i teorici del “non-stato”, i
quali sostengono che in realtà i vari fenomeni dell’ipnosi possano esse-
re spiegati molto facilmente senza ritenere che “trance” o “ipnosi”
indichino qualcosa di specifico, tipico o affine a uno stato mentale spe-
ciale. La tesi di questi ultimi sarebbe confutata se i teorici dello “stato”
riuscissero a provare che accade qualcosa di unico alla persona ipnotiz-
zata. Di tanto in tanto leggiamo sui giornali che è stato “provato” che
l’ipnosi sia così piuttosto che cosà, o che un soggetto collegato a un
elettroencefalografo mostri una certa attività cerebrale quando è in
trance, ma queste sono agenzie stampa provenienti dai teorici dello
“stato” che hanno una visione intrinsecamente più orientata verso i
mezzi di comunicazione di massa. Tali articoli sono invariabilmente un
po’ sensazionalistici e tuttavia, nonostante tali articoli, la teoria del
“non-stato” sta diventando l’approccio generalmente accettato di inten-
dere l’ipnosi. E ovviamente dobbiamo ricordarci che spetta soprattutto
ai teorici dello “stato” dimostrare la loro teoria, non a quelli del “non-
stato” provarne una negativa.
Può sembrare strano pensare che tutti gli strani fenomeni che potrem-
mo associare all’ipnosi possano essere spiegati in termini normali, non-
ipnotici. Non è forse vero che le persone smettono di colpo di fumare?
Che si comportano come pazzi sul palco? Che mangiano cipolle per il
nostro diletto? E che si sottopongono persino a operazioni chirurgiche
senza quasi provare dolore? La chiave per capire come sia possibile
tutto ciò è innanzitutto dimenticarsi che esista quella cosa speciale
chiamata “ipnosi”. Io tendo a vederla come una “magia”, nel senso

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dell’arte della prestidigitazione. Noi sappiamo che la magia non è vera:
si tratta solo di una serie di varie tecniche sapientemente impiegate da
un intrattenitore capace e affascinante con pizzetto e mustacchi. Può
nascondere delle carte nella mano, usare mazzi truccati e carte doppie,
impiegare cabine speciali e gemelle segrete, oppure eseguire un cover
pass mettendo sul tavolo il mazzo di carte mentre tiene un segno nel
mazzo con la terza falange del mignolo sinistro. I metodi possono esse-
re affascinanti, semplici o stupidi, ma è l’effetto che conta. In ogni
caso, noi usiamo la parola “magia” per descrivere il risultato finale. La
“magia” è l’effetto finale della combinazione di tutti questi metodi
finalizzata alla creazione di un tipo particolare di spettacolo. Questo
termine è un modo semplice per descrivere l’insieme di metodi e di
tecniche impiegate dall’artista (“Fa le magie”), e fornisce allo spettato-
re una parola per descrivere la propria esperienza dello spettacolo, che
può variare dalla perplessità al completo trasporto (“È stata una
magia”). Questa parola è utile perché da essa capiamo che sono succes-
se certe cose che sono sì scomponibili in singoli passaggi banali, ma è
il risultato finale che conta.
Penso che con l’ipnosi sia più o meno la stessa cosa. L’ipnotista usa
determinati metodi, oppure il soggetto mostra determinati comporta-
menti, che uniti creano un effetto complessivo che possiamo chiamare
“ipnosi”. Possiamo limitarci a chiamare così questo fenomeno senza
sentire il bisogno di una definizione per quello che sta accadendo.
Inoltre, così come un mago potrebbe segretamente impiegare metodi
“magici” o trucchi fuori da un teatro per ottenere un risultato voluto e
noi non penseremmo realmente che sia una magia (un sapiente taccheg-

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gio perpetrato in seguito a informazioni sbagliate, per esempio – l’ab-
biamo fatto tutti), è probabile che le tecniche ipnotiche possano essere
segretamente impiegate in modo tale da farci chiedere se esista un ter-
mine migliore per descriverle in quel contesto. “Tecniche suggestive”,
per esempio, potrebbe essere un’espressione più adatta da utilizzare in
una situazione in cui sembra che stia avvenendo “l’ipnosi”, ma dove
siano assenti le solite trappole dello stato di trance, eccetera. Allo stes-
so modo, così come la magia è più semplice da riconoscere o da defi-
nire quando si ha un’interazione chiara tra un mago e gli spettatori,
anche l’ipnosi diventa più semplice da etichettare come tale quando c’è
una persona o altro (a volte una voce registrata) che fa la parte dell’ip-
notista e una persona differente nel ruolo del soggetto.
Ma allora cosa succede davvero? Qual è la natura di questa interazio-
ne se non è strettamente “ipnotica”, così come un trucco non è stretta-
mente “magico”? Questa domanda mi affascina fin da quando ho ini-
ziato a utilizzare le tecniche di rilassamento con i miei compagni di
studi. Qualsiasi cosa fosse, sicuramente dipendeva dalle aspettative del
mio soggetto più che da eventuali poteri magici di cui avrei mai potuto
essere in possesso, ma allora come hanno potuto verificarsi i fenomeni
che producevo? Ero in grado di convincere alcuni amici particolarmen-
te suggestionabili di essere invisibile, fino al punto da farli impazzire
con oggetti volanti nelle loro camere. Siamo sicuri che le sole aspetta-
tive non potessero creare un evento del genere?
Non è assolutamente semplice dire cosa accada realmente. Ritornando
alla nostra analogia della “magia”, immaginiamo di essere degli alieni
che tentano di capire cosa sia l’esperienza della magia. (Prima che alcuni

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tra i miei fans si montino troppo la testa, lasciatemi dire che io non credo
all’esistenza di alieni che stiano cercando di capirlo. Tanto per incomin-
ciare, hanno già il loro bel daffare a impersonare i nostri capi di governo).
Come dovremmo procedere? Noi stessi potremmo osservare alcune
magie, ma a) potrebbe non servirci a nulla, e b) ci direbbe soltanto cos’è
la nostra esperienza. Potremmo fare dei test in cui intervistiamo persone
che hanno assistito a trucchi magici e cercare di capire come si sono
svolti. Sicuramente ci direbbero “È stata una magia” e “Ha fatto delle
magie su di me”, così come ci direbbero “Sono stato ipnotizzato” e “Mi
ha ipnotizzato”, e quindi la nostra analogia ha un senso. In ogni caso ci
troveremmo davanti ad alcuni problemi. Innanzitutto, la gamma di rispo-
ste a un trucco potrebbe rivelarsi molto ampia. Alcune persone potrebbe-
ro pensare che si sia trattato di una vera magia; altre potrebbero non
credere che si sia trattato di vera “magia” in sé e per sé, ma potrebbero
credere che il mago abbia abilità psicologiche, o persino paranormali,
straordinarie. Alcuni potrebbero ritenerlo un fastidioso rompicapo; altri
potrebbero aver mangiato la foglia ma penserebbero che dirlo sia una
scortesia. Tuttavia, l’esperienza più frequente sarebbe quella di stare al
gioco “come se” si trattasse di magia, fino ad arrivare al punto di essere
felici di usare la parola “magia” per descriverla. Ovviamente nessuno
vorrebbe indisporre il mago dicendogli che non credeva che il suo trucco
fosse vero: così facendo finirebbe il gioco. Anche nel caso dell’ipnosi, è
molto difficile dire in cosa consista l’esperienza di un soggetto. Sul
palco, un finale frequente è quello in cui l’ipnotista si rende invisibile
(come ho già detto, lo facevo con i miei amici) e poi fai muovere alcune
bambole per suscitare reazioni forti da parte degli ubriaconi sul palco.

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Spesso questa allucinazione è definita come “allucinazione negativa”,
dato che il soggetto viene istruito a non vedere qualcosa che c’è, e non
viceversa. Ovviamente non significa vedere attraverso qualcosa o qual-
cuno, ma si ritiene che il soggetto possa avere allucinazioni riguardo a
ciò che sa essere dietro l’oggetto “invisibile”, in modo da riempire lo
spazio vuoto immaginato. In genere questo scherzetto benevolo riesce a
offrire un finale affascinante a uno spettacolo piacevole e intelligente, e
può essere divertente tanto quanto quel numero in cui una donna ha
baciato un vibratore pensando che fosse Brad Pitt.
Anch’io ero solito finire con la suggestione dell’invisibilità, ma gene-
ralmente dopo lo spettacolo facevamo una chiacchierata informale su di
esso, dove chiedevo sempre ai soggetti come avessero vissuto realmente
quell’esperienza. Diciamo che su una decina di soggetti suggestionati, le
risposte si suddividevano nel seguente modo. Due erano ovviamente riu-
sciti a vedermi ed erano stati apertamente separati dal resto del gruppo.
Due o tre giuravano che la bambola e la sedia si muovevano da soli e che
non erano riusciti a vedermi, anche se avevano sospettato che in qualche
modo fossi stato io il responsabile del caos che ne era seguito. I restanti
cinque o sei solitamente dicevano di sapere che ero io a muovere gli
oggetti, ma che qualcosa dentro di loro li spingeva a cercare di eliminar-
mi “dalla vista” e a comportarsi come se io fossi invisibile.
Questa è una situazione molto interessante e ci pone la domanda suc-
cessiva: c’è una differenza qualitativa tra quanto è successo alle perso-
ne che sapevano che ero lì ma si sono imposte di ignorarmi e quelle che
hanno detto di non avermi proprio visto? Nel secondo caso, è come se
il soggetto si preoccupasse di assecondare le mie richieste, sebbene a

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un livello molto elementare, dovuto forse a una certa pressione verso il
conformismo. Questa spiegazione “dell’assecondamento” è importan-
te. Non è uguale al comportamento “simulato”, ma non è nemmeno il
prodotto speciale di un vero stato di trance. Il caso in cui apparente-
mente non ero stato visto del tutto sembra suggerire una vera allucina-
zione negativa. Ma come facciamo a sapere che quest’ultimo gruppo
non mi abbia visto? Solo perché l’hanno detto loro. Era stata data loro
l’opportunità di “dire la verità”, ma ovviamente possiamo leggere la
loro risposta come un’ulteriore prova del loro assecondarci. Se sei
intenzionato a entrare completamente in un gioco basato sull’immagi-
nazione in cui cerchi davvero di provare l’esperienza dell’ipnotista
invisibile e poi l’ipnotista ti chiede qual è stata la tua esperienza, non è
ragionevole aspettarsi che si verifichi una delle seguenti situazioni?

1. Il soggetto si sente in imbarazzo all’idea di confessare di non


aver provato l’esperienza che gli era stata richiesta e preferisce
insistere sul fatto che è stata reale.
2. Il soggetto, nella sua vita di tutti i giorni, è disposto a convincersi
di tutta una serie di cose (proprio come tendono a fare le persone
molto suggestionabili) e in quel momento si è davvero convinto
che sia stata un’esperienza assolutamente reale. Questa convin-
zione è preferibile rispetto al pensiero di avere fatto la figura del
matto sul palco senza che ci fosse una buona ragione per farlo.
3. Il soggetto ha vissuto l’esperienza ipnotica con entusiasmo e gli
è piaciuto essere una star dello spettacolo. Ora ha la possibilità

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di surclassare gli altri dimostrando che è stato lui il più bravo sul
palco: lui ha davvero vissuto quell’esperienza, mentre la maggior
parte degli altri non l’ha fatto.

Ora, quando parliamo di assecondamento o di testimonianze non del


tutto veritiere, sembra che i soggetti stiano solo fingendo. Non è il
nostro caso. Esiste una vasta gamma di esperienze possibili che posso-
no spiegare il comportamento del soggetto sul palco (o in laboratorio)
che possono o meno includere la mera falsificazione:

1. Innanzitutto, si dà il caso in cui il soggetto stia davvero menten-


do e sia incoraggiato a mentire dall’ipnotista. In molti spettacoli
commerciali o di cabaret, l’ipnotista è interessato unicamente a
mettere in scena una serata di intrattenimento. Il professioni-
sta sussurrerà volentieri all’orecchio di un partecipante di “stare
al gioco” piuttosto di assistere al fiasco del suo spettacolo. Paul
McKenna ci racconta la storia vera (spero) di un ipnotista di
successo (il diretto interessato sa che sto parlando di lui) che una
sera aveva avuto dei problemi con i suoi soggetti. Per risolvere la
situazione, suggerì lontano dai microfoni alla persona più estro-
versa sul palco “Sta’ al gioco e ti darò cinquanta sterline dopo lo
spettacolo”. Il soggetto decise di recitare la sua parte per denaro
e diventò subito l’attrazione principale, accettando qualsiasi cosa
l’ipnotista gli dicesse e imprimendo una svolta decisiva alla sera-
ta. Alla fine della recita, l’ipnotista lo rimandò al suo posto, poi

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fece finta di re-ipnotizzarlo mentre era seduto tra i suoi amici.
Schioccò le dita e la marionetta recitò diligentemente la parte di
quello che cade addormentato. “Quando ti sveglierai,” dichiarò
l’intrattenitore nel microfono sul palco, “crederai che io ti debba
dare cinquanta sterline. E più i tuoi amici ti diranno che non è
vero, più questo ti renderà nervoso e più tu insisterai che te li
devo! Sveglia! Sveglia!...”. Adoro questa storia.
2. Il soggetto sta facendo finta, ma solo perché si sente troppo in
imbarazzo per porre fine alla sua performance. In uno spettacolo
teatrale vero e proprio, oppure quando l’ipnotista ha un atteg-
giamento intimidatorio e dice che quelli che “non ce la faranno”
saranno vittime di un suo incantesimo, è molto difficile alzare
una mano e dire: “La vuoi sapere una cosa? Con me non funzio-
na.” Questo è semplicemente il risultato del condizionamento
sociale, e succede abbastanza spesso.
3. Il soggetto sta davvero cercando di vivere le suggestioni come
fossero reali e collabora facendo del suo meglio per non “bloc-
carle” e per essere davvero “accondiscendente”. In effetti le sta
solo recitando, interpreta la parte del buon soggetto, ma poi sarà
più confuso riguardo al fatto se sia stato ipnotizzato o meno.
Più spesso di quanto si creda, immaginerà di dover essere stato
sotto il potere dell’ipnotista, mentre lo spettacolo lo trascinava
via con sé. La sua risposta classica sarà che lui “avrebbe saputo
fermarsi in qualsiasi momento”. Penso che questa terza opzione
sia un’esperienza abbastanza comune.

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4. Ancora una volta il soggetto è ben felice di collaborare mimando
le suggestioni, incurante di qualsiasi strana costrizione a farle,
ma allo stesso tempo è il tipo di persona che riesce facilmente
a “dimenticarsi di sé” e a cogliere al volo il permesso accordato
dalla dimostrazione ipnotica per agire in modo scandaloso. For-
se questa reazione è favorita dall’essere un tipo di persona na-
turalmente espansiva che tende ad accettare senza porsi troppe
domande quanto gli viene detto da figure o persone autoritarie
con le quali ha un forte rapporto. Successivamente, per lui è più
semplice ricondurre le sue azioni a un’esperienza eccezionale che
non riesce a spiegarsi, fidandosi ciecamente dell’ipnotista e cre-
dendo di avere vissuto uno stato speciale. Molto probabilmente
crederà che l’ipnotista abbia comunque la capacità da lui perce-
pita, perciò è un’opzione facile da scegliere.

Può darsi che l’ipnosi non sia tutta qui, ma è certamente possibile
spiegare cosa accade con parole semplici e senza ricorrere all’idea di
uno “stato speciale”.
Ovviamente è molto difficile disobbedire alle istruzioni di una figu-
ra autoritaria. Chi tra di voi ha scelto di vedere The Heist [La Rapina]
avrà visto la ricostruzione del famoso esperimento degli anni Sessanta
di Stanley Milgram sull’obbedienza all’autorità. Sia nella versione
originale, sia nella nostra3, il soggetto entra in laboratorio e incontra

3. La nostra versione si è ampiamente attenuta al filmato originale del 1963. Anche il genera-
tore di corrente elettrica che abbiamo utilizzato era una replica di quello di Milgram, e ora fa
bella mostra di sé nel mio ufficio accanto a tutti i miei trofei.

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uno scienziato e un suo complice di mezza età che recita la parte di un
altro soggetto. Ogni soggetto sceglie la sua parte, come “insegnante”
o come “allievo”. L’ignaro insegnante osserva il finto allievo mentre
gli vengono applicati degli appositi elettrodi, progettati per trasmette-
re scosse elettriche. L’allievo, secondo il piano prestabilito, dice allo
scienziato di soffrire di cuore. Poi l’insegnante viene portato in un’al-
tra stanza e fatto sedere davanti a una macchina terrificante che appa-
rentemente può infliggere scosse elettriche all’allievo, partendo da un
voltaggio innocuo di 15 volt fino ad arrivare, di 15 volt in 15 volt, a
scosse mortali di 450 volt. Alcune etichette sotto i voltaggi descrivono
il variare delle scosse da “Scossa leggera”, passando per “Pericolo:
scossa violenta”, fino ad arrivare a un sinistro “XXX”. Successivamente
l’insegnante pone quesiti mnemonici all’allievo attraverso un microfo-
no e deve inviare una scossa all’allievo ogni volta che questi dà una
risposta sbagliata. La scossa deve aumentare di 15 volt ad ogni rispo-
sta sbagliata.
Ovviamente, il complice-allievo non riceve in realtà alcuna scossa.
In ogni caso, in alcune versioni del test sono previste delle registra-
zioni di urla e di rifiuti a proseguire l’esperimento, riprodotte in rispo-
sta alle presunte punizioni. Il test prosegue finché l’allievo improvvisa-
mente tace e le scosse più forti vengono inflitte a un temibile silenzio
proveniente dall’altra stanza.
Il test di Milgram, noto a qualsiasi diplomato che abbia studiato un
po’ di psicologia, era stato pensato per scoprire quante persone avreb-
bero continuato a somministrare scosse elettriche anche quando era
ormai chiaro che sarebbero state letali, solo perché lo scienziato insi-

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steva affinché continuasse. Venne chiesto ad alcuni psicologi di preve-
dere i risultati, e la loro risposta fu che un decimo dell’un per cento dei
soggetti avrebbe proseguito con l’esperimento. L’incredibile risultato,
confermato da successive somministrazioni del test, è che circa il 60
per cento delle persone prosegue fino a infliggere la scossa letale.
Questo non senza sudori freddi, tremiti e con frequenti lamentele all’in-
dirizzo dello scienziato, eppure la maggioranza dei soggetti prosegue
con l’esperimento.4

4. L’esperimento fu presto oggetto di attacchi da parte di moralisti da talk-show e dall’ordine degli


psicologi, che si erano visti smentiti nelle loro previsioni. La maggior parte di quanti sanno
qualcosa dell’esperimento di Milgram crede che i soggetti abbiano subito un terribile trauma in
seguito all’esperimento e che qualcuno abbia addirittura tentato il suicidio. Ciò è assolutamente
falso. Furono inviati questionari ai partecipanti dopo l’esperimento, alcuni anche un anno dopo.
Solo l’1% espresse rimorso per avervi preso parte. La risposta predominante riguardo all’avervi
partecipato fu quella di esserne rimasti affascinati, e molti soggetti dissero di essere pronti a rifar-
lo, sia come insegnante che come allievo. Quindi, mentre l’esperimento fece sorgere interessanti
domande sull’etica negli esperimenti, la terribile reputazione di cui ora sembra godere è davvero
immeritata. E chiunque guardi le riprese vedrà con quanta sensibilità sono trattati i partecipanti.
Molto spesso vengo criticato per il mio apparente disinteresse nei confronti dei soggetti che par-
tecipano ai miei spettacoli. In realtà per me è molto importante che si divertano e che concludano
il processo con un’esperienza più che positiva. Questo livello di attenzione non è sempre visibile
nello spettacolo stesso, perché può distrarre dalla storia o dall’incalzare degli eventi. Nella pun-
tata Zombie, per esempio, mi sono assicurato che il ragazzo protagonista si immedesimasse nel
processo mediante una serie di elaborati accorgimenti che non compromettessero il suo ruolo di
soggetto inconsapevole, ma che allo stesso tempo assicurassero che sarebbe stato abbastanza for-
te da fronteggiare quello che avevamo ideato per lui. Ripensandoci, credo avremmo fatto meglio
a includere questa fase preliminare nello spettacolo, per mostrare al pubblico la lunghezza e la
meticolosità dei preparativi. D’altra parte, so di partecipanti a “reality” show molto conosciuti
che hanno subito ricadute negative in seguito alle loro esperienze. Un mio amico che aveva
partecipato a uno di essi mi disse che un cameraman gli aveva confessato che la gara era
truccata in partenza; poi scoprì da un amico che lavorava alla British Telecom che il pro-
duttore aveva comprato 80.000 voti per truccare il voto telefonico finale dei telespettatori.
Questa esperienza “reale”, unita al disgusto che aveva provato per come lui e gli altri par-
tecipanti erano stati trattati durante lo show (tra l’altro, veniva loro detto come si sarebbero
dovuti comportare per corrispondere al “personaggio” che gli era stato affibbiato), gli fece
versare fiumi di lacrime per una settimana. Trovo tutto ciò semplicemente disgustoso.

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In confronto, fare in modo che alcune persone svolgano attività inno-
cue semplicemente perché è stato detto loro di farle è un gioco da
ragazzi per un intrattenitore o un medico dotato di una certa autorità.

Fenomeni di ipnotismo
apparentemente unici

Arrivare a comprendere l’esperienza ipnotica sul palcoscenico e al di


fuori di esso in termini di comuni fonti motivazionali (come l’attenzio-
ne focalizzata, i giochi di ruolo, l’immaginazione, l’aspettativa di una
reazione, il conformismo sociale, l’assecondamento, la fiducia nell’ip-
notista, la risposta al carisma, il rilassamento, le relazioni, la suggestio-
ne e la promessa sussurrata di premi in denaro) offre un enorme aiuto
per riuscire a comprendere il soggetto senza dover parlare di trance
fittizie, eccetera. Se però l’ipnosi non è uno stato speciale di alterazio-
ne, forse ti chiederai come sia possibile che le persone si sottopongano
a operazioni senza anestesia, oppure smettano magicamente di fumare,
o ingurgitino istericamente delle cipolle pensando che siano mele.
I medici sono in grado di rispondere a queste domande grazie a test
in cui persone correttamente ipnotizzate sono messe a confronto con
persone non ipnotizzate ma motivate in altro modo, per vedere se esiste
una differenza nelle loro capacità di ottenere gli stessi fenomeni. Se il
gruppo non ipnotizzato è in grado di compiere le stesse prodezze, allo-
ra è evidente che tali imprese non sono imputabili unicamente all’ipno-

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si e che non esistono prove per affermare che l’ipnosi sia uno stato
speciale. Il risultato di questo confronto tra l’ipnosi e altre fonti moti-
vazionali (come quando ai soggetti viene detto che possono ottenere un
fenomeno semplicemente sforzandosi di ottenerlo) tende a confermare
che sia le persone ipnotizzate, sia quelle semplicemente motivate rag-
giungono gli stessi obiettivi.
Un esempio per me memorabile si verificò durante una delle quattro
prove di La Rapina, quando il mio assistente alla sceneggiatura Andy
Nyman e io stavamo appunto discutendo di questo argomento, e venne
fuori l’idea di mangiare cipolle sul palco. Se non conoscete nei dettagli
questo numero da circo, sappiate che al soggetto “ipnotizzato” viene
data una cipolla e viene detto che quando si risveglierà crederà che si
tratti di una bella mela, così lui inizierà a mangiarla avidamente. È uno
spettacolo disgustoso, e sembra essere la prova del potere dell’ipnosi,
almeno sul palco. Giustamente, Andy disse: “Scommetto che riesco a
mangiarne una,” e andò a prenderne una di medie dimensioni nel mio
frigorifero. (Sul palco solitamente si utilizzano cipolle più grandi che,
come molti di voi sapranno, in genere hanno un gusto più delicato di
quelle piccole.) La portò in salotto e le diede alcuni morsi senza fare
tante storie. Oltre a migliorare notevolmente il suo alito, questa amena
scenetta sembrò la prova (supponendo che Andy non fosse insensibile
alle cipolle) che questa bravata può essere fatta anche senza ipnosi. Era
bastata una motivazione, in questo caso il desiderio di provare un’opi-
nione, perché fosse fattibile.
Uno dei maggiori esperti di ipnosi, Graham Wagstaff, ha ampiamen-
te analizzato i risultati delle ricerche sull’ipnosi e ne ha condotte molte

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in prima persona, arrivando alla conclusione convincente che non sia
necessario pensare all’ipnosi come a uno stato speciale, responsabile di
questi fenomeni. Nelle sue pubblicazioni, il professore sembra final-
mente dare una risposta a secoli di sensazionalismo sull’argomento,
facendolo in modo intelligente e interessante. Wagstaff ha esaminato la
natura dell’assecondamento durante e dopo la sessione ipnotica, quan-
do i soggetti descrivono le loro esperienze, e anche la natura della sin-
cera opinione di alcuni soggetti, che ritengono di essere stati davvero
ipnotizzati.
Ma cosa dire di quelle azioni sensazionali che sembrano così diffici-
li da spiegare se non si considera “speciale” l’ipnosi? Tratterò breve-
mente un paio di questioni che forse potresti pensare non si inquadrino
in questo approccio comportamentista al problema. Il risultato di que-
ste considerazioni, penso, sarà scoprire alcuni affascinanti aspetti
dell’essere umano.

La chirurgia indolore
L’analgesia ipnotica – il controllo del dolore attraverso l’ipnosi – offre
forse la dimostrazione più viscerale e drammatica dell’apparente potere
dell’ipnotista. Un soggetto si infila un ago nel dorso della mano; una
donna partorisce senza anestesia oppure, apparentemente, senza sforzo;
un’operazione viene condotta su un paziente completamente sveglio, in
grado di osservare l’operazione in corso d’opera. Tali esibizioni sembra-
no non solo impressionanti, ma anche abbastanza importanti da farci
chiedere perché, per esempio, l’ipnosi non sia utilizzata più spesso nella

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chirurgia. La risposta più immediata all’ultima domanda è che ovvia-
mente può essere usata solo su persone sufficientemente ricettive all’ip-
nosi e perciò probabilmente sarà adatta solo a poche persone. Inoltre,
questo numero limitato di persone può essere la stessa piccola parte di
popolazione che ha comunque un’ottima capacità di controllare il dolore.
Come puntualizza Wagstaff nella sua opera, gli effetti dell’analgesia
ipnotica non possono essere separati dai semplici effetti del rilassamen-
to, delle convinzioni e della distrazione dal dolore. Basta semplicemen-
te rilassarsi (a volte grazie a una familiarità con la situazione), credere
che un’operazione non sarà dolorosa, o essere distratti nel modo giusto,
per farci percepire una percentuale minima del dolore che proveremmo
se temessimo, ci aspettassimo o prestassimo attenzione ad esso. È noto
come il dolore sia amplificato dalla paura e sia invece drasticamente
ridotto dall’effetto placebo, un argomento affascinante che ti infliggerò
nel prossimo capitolo. Perciò, anche se queste tecniche sono indubbia-
mente efficaci senza dover necessariamente ricorrere all’asseconda-
mento come spiegazione, non si può nemmeno dire che siano tecniche
squisitamente ipnotiche.
Se prendiamo in esame il caso della chirurgia sotto ipnosi, c’è un fatto
che dobbiamo tenere ben presente. La pelle è l’area più sensibile del
corpo, mentre gli organi interni tendono a essere insensibili al dolore.
Anche se possiamo percepire lo stiramento e l’allungamento dei nostri
organi interni, possiamo benissimo essere tagliuzzati quasi ovunque al
nostro interno e percepire poco o nulla. Quindi, ancora una volta, le
operazioni possono essere rese indolori ricorrendo a poco più dei nor-
mali effetti del rilassamento e della suggestione per ridurre al minimo il

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dolore provocato dall’incisione della pelle. Wagstaff cita un documento
medico del 1974 in cui si sosteneva che la chirurgia moderna solitamen-
te somministra un anestetico generale dopo un anestetico locale più per
alleviare la paura e l’ansia che per reale necessità. È una cosa sorpren-
dente, che unita al fatto che molto spesso le operazioni “ipnotiche” uti-
lizzano un anestetico sulla pelle, fa apparire un poco superfluo il concet-
to di uno “stato speciale” che tenga sotto controllo il dolore, per non
parlare della pratica della “chirurgia ipnotica” nel suo complesso.

Allucinazioni
Una delle scene più memorabili dell’arte dell’ipnosi la vidi quando ero
ancora studente: i partecipanti a uno spettacolo ebbero l’allucinazione
di un enorme elefante che entrava nella sala e saliva sul palco. Dopo
che tutti l’ebbero accarezzato e descritto, fu loro detto di appoggiarvisi.
Quando l’ipnotista diede l’ordine, l’animale “scomparve” e molti sog-
getti caddero in terra.
Provai un numero simile un pomeriggio, mentre stavo parlando ai
due responsabili per le attività del tempo libero in una delle due resi-
denze per studenti a Bristol. Uno di loro, Gavin, mi sembrava un tipo
ricettivo, quindi proposi di provare un paio di cosette con loro per
vedere se avrebbero avuto successo. Come avevo immaginato, questo
ragazzo era molto impressionabile e dopo alcune operazioni di routine
per amplificare la sua ricettività gli dissi che ci avrebbe condotti nella
sua stanza, dove, non appena aperta la porta, avremmo trovato un rino-
ceronte. Si risvegliò. Parlammo per un po’, poi ci propose di andare

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nella sua stanza a bere una tazza di tè. Così il nostro allegro terzetto
(non mi vergogno a dire che due di noi se la ridevano sotto i baffi come
degli scolaretti) passò da porte antincendio, attraversò corridoi beige,
oltrepassò bacheche degli annunci e telefoni a pagamento e finalmente
giunse alla sua porta. Una volta trovata la chiave, ci chiese educata-
mente di entrare per primi. “No, no, dopo di te,” insistetti io, e così lui
si voltò per entrare.
Gavin mise solo un piede nella stanza, restò pietrificato per un istan-
te, poi tornò subito indietro e richiuse velocemente la porta senza farci
vedere l’interno. Ci guardò e mi chiese se poteva fare due chiacchiere
veloci con il suo collega. Io mi feci da parte e lui bisbigliò delle parole
allarmate all’orecchio dell’altro ragazzo. Questi riuscì a mascherare la
sua risata con una bonaria esclamazione di incredulità: fu uno spettaco-
lo assurdo in cui lo vidi ridere sguaiatamente, aggrottare le sopracciglia
in segno di disapprovazione e annuire serio senza mai guardarlo negli
occhi. Gavin ovviamente gli stava chiedendo un consiglio su cosa fare,
e dopo che questo scambio di mormorii ebbe fine, il suo collega si voltò
e mi disse: “Gavin ha un rinoceronte in camera.” Mentre dava le spalle
al suo amico, si lasciò finalmente scappare un sorriso liberatorio. Gavin
sembrava un po’ imbarazzato e aprì la porta per farmi vedere. Noi due
lanciammo un’occhiata furtiva alla stanza, che constava in lettino rego-
lamentare, tende arancioni, sedia arancione coperta di vestiti, armadio
aperto, posacenere, quattro libri, poster di un film, bollitore e palline da
giocoliere (molto diffuse al tempo), ma assolutamente nessun rinoce-
ronte. Non posso dire di non esserne stato un tantino sollevato, almeno
per un attimo.

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“Dobbiamo portarlo via di qui,” sentii dire dietro di me. “Sfonderà il
pavimento. Cavolo!”. Probabilmente Gavin stava già pensando alle sue
possibilità di essere eletto presidente della locale Associazione
Studentesca e non aveva nessuna intenzione di lasciare che un enorme
erbivoro cornuto gli sbarrasse la strada. Non avevo pensato che avrem-
mo dovuto far uscire il rinoceronte dalla stanza, ma la trovai senz’altro
una cosa divertente. Infatti lo incoraggiammo a farla.
Immagino che se qualcuno fosse passato di lì mentre collaboravamo
tutti per far passare quel mammifero (fortunatamente docile) attraverso
la stretta porta della camera, gli saremmo sembrati uno spettacolo alquan-
to bizzarro. Il collega di Gavin spingeva l’enorme sedere e Gavin tirava
l’animale e lo guidava dal davanti. Io davo una mano su un lato, ridendo
con il ragazzo dietro, dando delle pacche sull’immaginaria pelle coriacea
e pronunciando sarcastiche parole di incoraggiamento, come: “Dalla tua
parte, Gavin”, “Sta venendo” e “Il rinoceronte sta passando attraverso la
porta”. Al di fuori di ogni logica, date le dimensioni della porta, l’anima-
le arrivò finalmente in corridoio, sebbene Gavin fosse preoccupato per le
schegge di legno degli stipiti, che lui sembrava vedere. Ci dirigemmo
verso l’uscita che ci avrebbe condotti fuori dall’edificio, con Gavin
ossessionato dall’idea di incontrare qualcuno che avrebbe dato in escan-
descenze o che avrebbe chiamato la sicurezza.
Non sono sicuro che abbiamo sceso delle scale, ma sono certo che
finimmo nel parcheggio. Lì passammo vicino ad alcune persone, che
ovviamente non videro nulla, eccetto noi tre che camminavamo lenta-
mente con Gavin un po’ più avanti di noi due. Mi ricordo ancora Gavin
mentre cercava di calmare chiunque guardasse verso di noi apostrofan-

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dolo in questi termini: “Non dire niente! Va tutto bene,” oppure “Niente
paura, è già tutto sistemato!”. A volte si limitava a un semplice “Lo so,
lo so,” roteando gli occhi. Questo è uno dei ricordi più vividi dei miei
giorni da studente.
Portammo il rinoceronte nell’area dei cassonetti della spazzatura, che
essendo circondata da alti muri offriva un intelligente nascondiglio,
seppure parziale. Io iniziavo a pensare che ci eravamo divertiti abba-
stanza alle spalle di questo ragazzo, soprattutto in considerazione del
fatto che il motivo principale del mio sfoggio di bravura era solo quel-
lo di procurarmi una data per il mio spettacolo. Perciò mi offrii di risol-
vere il problema dell’animale, facendolo sparire. Gavin sembrava
incredulo, ma io gli assicurai che avrebbe funzionato. Dopo essermi
accertato che fosse d’accordo e dopo avergli promesso che nessuno si
sarebbe fatto male e che avremmo immediatamente rimediato agli
eventuali danni, lo feci guardare verso l’animale mentre stendevo le
braccia nella direzione di quest’ultimo, con i palmi protesi in avanti, e
gridai: “Rinoceronte, sparisci!”. L’esausto studente vide l’animale dis-
solversi in polvere spaziale e sparire, o in qualsiasi altro modo si sia
immaginato la scena. Gavin andò a ispezionare la zona in cui ora vede-
va solo aria vuota. Era rimasto esterrefatto.
Non esiste alcun modo di sapere cosa Gavin stesse realmente viven-
do. Era tutto reale? Vedeva un rinoceronte in carne e ossa così come io
ora riesco a vedere lo schermo del computer o il mio premio (ben meri-
tato) come Uomo dell’Anno (categoria “Spettacolo”)? È probabile che
non stesse palesemente recitando, perché è davvero difficile trovare un
motivo per la sua finzione. Doveva decidere se ingaggiarmi o meno per

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i suoi studenti, quindi avrebbe avuto il legittimo interesse a non fingere
che la cosa stesse funzionando se in realtà non funzionava. Il problema
è che è estremamente difficile dire cosa sia successo. Si potrebbe affer-
mare che a un certo punto lui possa essersi sentito in dovere di collabo-
rare, dato che io avrei dovuto essere il “provetto illusionista”, ma sem-
bra una spiegazione un po’ tirata per i capelli. Da un lato sembrava
credere davvero che ci fosse qualcosa lì, ma d’altra parte le sue reazio-
ni non erano esattamente quelle che ci si sarebbe potuti aspettare in una
situazione del genere. Ma chi può dirlo? La sua comica prontezza nel
condurlo al parcheggio invece di chiamare subito la direzione della
residenza in preda al panico è stata una prova del fatto che stesse in
parte “collaborando con la situazione”, anche se lo faceva nel pieno del
suo coinvolgimento emotivo e immaginativo? Probabilmente il modo
più efficace per scoprire cosa avesse realmente vissuto sarebbe stato
re-ipnotizzarlo, facendogli rivivere la sua esperienza e dandogli il per-
messo di descrivere onestamente cosa aveva visto, rispetto a quello che
aveva comunicato con le sue parole e il suo comportamento. Ma anche
questo non è necessariamente un metodo infallibile.
Un giorno, dopo essermi trastullato sul palco con dei numeri di invi-
sibilità, notai che Pete, un amico, era rimasto suggestionato al punto di
non riuscire più a vedere se stesso. Eravamo solo noi due quando avevo
provato questo numero, perciò mancava il condizionamento che avreb-
be potuto provare davanti a un pubblico. Quando guardava in basso
non riusciva a vedere il proprio corpo, e disse che era come osservare
la sala attraverso un obiettivo fotografico. Era affascinato dall’espe-
rienza, ma anche in questo caso sospetto che sebbene non avesse moti-

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vi plausibili per fingere che la suggestione avesse effetto o per impres-
sionarmi in qualche modo, Pete non avrebbe voluto vedermi perdere
tempo e può perciò essersi trattato semplicemente di uno scherzo della
sua immaginazione, solo per farmi avere i risultati che cercavo. Penso
che se io non fossi davvero riuscito a vedermi e mi fosse sembrato di
osservare il mondo da un obiettivo fotografico, sarebbe stata per me
un’esperienza assolutamente straordinaria e avrei fatto sentire le mie
ragioni in modo molto più incisivo. Anche in questo caso è molto dif-
ficile dire dove stia la verità, e io non potrei fare affidamento sul suo
ricordo dell’evento se glielo chiedessi ora.
Mentre questo episodio dà l’idea di un semplice gioco di ruolo basa-
to sull’immaginazione, penso a un esempio contrario con un altro
amico, Dave (la mia cerchia più ristretta di amici è limitata a persone
dai nomi anglosassoni più banali), che era molto ricettivo all’ipnosi,
soprattutto quando mi rendevo invisibile. Lo rividi dopo essere stato
all’estero per un annetto e mi disse che un giorno, mentre stava cammi-
nando nel centro di Bristol, era stato colpito in faccia da una carota.
Presumibilmente l’ortaggio volante era stato scagliato in modo alquan-
to surreale da una finestra, ma la cosa interessante è che lui si era con-
vinto per un istante che fossi stato io, diventato invisibile, a compiere
questo gesto, essendosi ormai abituato ai miei occasionali scherzetti da
folletto cattivo. Pensò che dovessi essere tornato in patria, che lo aves-
si ipnotizzato in modo che non potesse vedermi e che mi stessi diver-
tendo alle sue spalle. Questo avvenimento fortuito sembra contraddire
la teoria dell’assecondamento immaginativo e suggerirebbe che la sua
precedente esperienza con la suggestione dell’invisibilità sia stata per

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lui tanto convincente da fargli poi inquadrare questo scenario “reale”
sulla base delle esperienze precedenti. Ancora una volta però, è diffici-
le dire quale sia la verità. Quanto era serio quando mi ha detto di esser-
si convinto che fossi io?
Sia nel caso delle allucinazioni positive che di quelle negative, il
quesito centrale è di tipo semantico: se il soggetto ipnotico dice di
“vedere” l’immagine prefissata, vuole dire che riesce a immaginarla in
modo vivido oppure che sta davvero vedendola come qualcosa di indi-
stinguibile da un oggetto solido, reale? Io sono fermamente convinto
che tu, sufficientemente rilassato e concentrato, sia in grado di imma-
ginare in modo vivido Pippo Baudo, in piedi davanti a te. Con un bri-
ciolo di “capacità di immedesimazione” nella situazione, sono sicuro
che riusciresti ad alzarti e a camminare insieme a lui, o persino a farlo
parlare con te. In ogni caso, a meno che tu non sia pazzo, non avresti
alcun problema a distinguerlo dal vero Pippo Baudo, se per caso ti
spuntasse davanti all’improvviso con il suo celeberrimo parrucchino (o
secondo i meglio informati: nuovo trapianto di capelli) , proprio mentre
stai leggendo, e si mettesse accanto alla tua versione immaginaria. È
una cosa semplicissima. Se non ci credi, provaci. Immagina il vero
Pippo Baudo accanto al primo e capirai subito cosa voglio dire.
Per accertare la natura di tali allucinazioni è servita una ricerca molto
più accurata di quella impiegata per il suddetto esperimento “Baudo”,
e Wagstaff ha rivisto i suoi risultati nel suo libro del 1981. Riassumendoli,
“le prove che i soggetti possano realmente vivere allucinazioni frutto di
suggestione sono insufficienti, ma anche nel caso in cui alcuni ci riu-
scissero, l’induzione ipnotica appare inutile. Anche le istruzioni moti-

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vazionali per il risveglio sembrano altrettanto inefficaci.” Nel testo non
è molto chiaro quali istruzioni motivazionali potrebbero provocare una
vera esperienza allucinatoria. Comunque, abbiamo provato tutti l’espe-
rienza di cercare una penna che in realtà è proprio davanti a noi, non
vista, eppure assolutamente visibile (simile a un’allucinazione negati-
va) oppure di vedere qualcosa “in modo sbagliato”, come quando cre-
diamo di riconoscere un amico per strada prima di capire che si tratta
di uno sconosciuto. Perciò l’idea che esistano piccole “allucinazioni”
quotidiane non dovrebbe apparire tanto insolita.
Come si fa a verificare quali sono i limiti di queste allucinazioni? Per
testare le allucinazioni negative, uno scienziato ha utilizzato illusioni
ottiche a noi oggi familiari, in cui lenti sovrapposte sopra una sagoma
sembravano distorcere la sagoma sottostante: per esempio, un quadrato
appariva più largo in alto oppure una linea sembrava più lunga dell’al-
tra, anche se in realtà il quadrato era perfetto e le due linee avevano la
stessa lunghezza. Ad alcuni soggetti ipnoticamente ricettivi fu detto di
non vedere (con un’allucinazione negativa) le linee sovrapposte, poi-
ché se non le avessero davvero viste, il quadrato non sarebbe apparso
così distorto e le linee sarebbero sembrate identiche in lunghezza. Si
tratta certamente di una buona premessa ed è interessante notare che i
soggetti percepivano ancora come disuguali il quadrato e le linee,
anche se sostenevano di non essere in grado di vedere le linee. Alcuni
esperimenti per le allucinazioni “positive” hanno creato una situazione
in cui si impiegava il fenomeno delle immagini persistenti. Normalmente,
se per esempio guardiamo un’area color rosso brillante per una ventina
di secondi e poi osserviamo una superficie bianca, vedremo un’imma-

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gine persistente verde. Allo stesso modo, altri colori danno origine a
immagini persistenti differenti. Se non ti è mai capitato di imbatterti in
questa illusione ottica, prova e vedrai. Anche i colori frutto di allucina-
zioni ipnotiche danno origine a immagini persistenti? Vari test hanno
dimostrato che le persone asserivano di percepire l’immagine persi-
stente che ci si aspettava vedessero – se veniva loro detto che il rosso
crea un’immagine persistente blu, loro vedevano il blu – e quando i
soggetti non sono a conoscenza dell’immagine persistente, non dicono
affatto di vederla. Nel 1970 fu ideato un altro test per le allucinazioni
positive, in cui l’allucinazione di un filtro verde avrebbe consentito di
vedere un numero verde chiaro su uno sfondo rosso. Nessun soggetto
riuscì a vedere il numero grazie all’allucinazione del filtro, mentre
invece ci riuscirono tutti quando fu utilizzato un filtro reale.
Questi esperimenti sono tipici della ricerca in questo settore. Tuttavia,
non riesco a non pensare che non facciano altro che ribadire continua-
mente lo stesso concetto, e alla lunga mi sembrano anche un po’ fuori
strada. Non mi sorprende che un soggetto non veda naturalmente
un’immagine persistente generata da un colore allucinato, così come un
soggetto non può essere ipnotizzato per avere una visione a raggi X.
Nella nostra retina abbiamo tre tipi di ricettori dei colori (coni), che
recepiscono il blu, il verde o il rosso. Quando osserviamo a lungo un
colore, i rispettivi coni si mettono in moto. Una volta tolto il colore,
l’informazione dei vari recettori non è ben bilanciata e vediamo queste
immagini persistenti. In altre parole, si tratta di una risposta fisiologica
all’aver realmente avuto davanti agli occhi quei colori per un certo
periodo di tempo. Penso che esista una differenza che si può cogliere

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anche con il buon senso tra questa situazione reale e la semplice allu-
cinazione del colore, anche quando è prodotta stabilmente da una droga
allucinogena. E riesco anche ad immaginare, sebbene io non sia un
medico e non sappia nulla di droghe psichedeliche, che la prima situa-
zione produca un’immagine persistente e la seconda no.
Anche se è importante sapere che queste allucinazioni non produco-
no gli effetti visivi propri del mondo reale, questi e altri esperimenti
simili non rispondono però alla domanda, più interessante e sottile, di
come siano le immagini reali per il soggetto. Oltre alla questione
dell’assecondamento, sembra certo che alcune persone permettano alla
loro immaginazione di “lasciarsi trasportare da essa” per un certo
periodo di tempo fino a un punto in cui l’esperienza è per loro più con-
vincente di come sarebbe stata se avessero solo fatto finta di cooperare
per puro umorismo o addirittura per ingannare l’ipnotista. Inoltre penso
a dei casi in cui i soggetti mi hanno detto di avere mostrato un compor-
tamento “falso” in un’occasione e uno “vero” in un’altra. Per esempio,
una ragazza che ho conosciuto al mio primo anno di università era
molto ricettiva alla mia ipnosi, ma dopo un’esibizione brillante durante
uno spettacolo di un altro ipnotista, mi disse di aver solo finto con lui.
Le piaceva quando l’ipnosi veniva fatta in modo informale, ma trovava
che il palco fosse un’ambientazione stupida e fonte di troppa distrazio-
ne. D’altra parte, un attore di mia conoscenza sembrava un soggetto
eccellente in una stanza con i suoi amici, però dopo mi disse che era
stata tutta una messinscena; in seguito mi capitò di averlo sul palco e
dopo mi disse, felicemente sorpreso, di non avere recitato. Se aveva
detto la verità riguardo alla sua esperienza, allora in qualche modo

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l’ambiente del palco e il pubblico gli avevano consentito di “entrare”
di più nella situazione, sentendola in modo molto differente.
Wagstaff suggerisce anche che il fenomeno per cui alcune persone
dimenticano certe cose perché viene loro detto di farlo sotto ipnosi sia
probabilmente un altro esempio di assecondamento. Dopo tutto, è
abbastanza semplice impedire a sé stessi di ricordare ciò che si è fatto
in un certo momento, a patto che non ci si sforzi troppo di ricordarlo.
Secondo Wagstaff era più o meno quello che capitava negli esperimen-
ti clinici in cui i soggetti riuscivano a “dimenticare” una parte di infor-
mazioni.
Anche se può darsi che questo sia solo un altro fenomeno illusorio,
mi ricordo di un soggetto al quale durante una sessione ipnotica avevo
indotto un’amnesia post-ipnotica. In altre parole, non ricordava di esse-
re stato ipnotizzato. Io pensavo che questo tipo di suggestione “svanis-
se” dopo poche ore. Perciò fui sorpreso quando parlandogli due setti-
mane dopo mi disse che un mattino il ricordo era “rispuntato” improv-
visamente e spontaneamente in testa, una settimana dopo la sessione, e
di essere rimasto sorpreso. Questo mi sembra uno scenario alquanto
differente rispetto a quando fingiamo di avere dimenticato se qualcuno
ci chiede se riusciamo a ricordare.
In ogni caso, tutti questi aneddoti non possono essere considerati la
prova evidente di nulla; sono solo scenari interessanti da includere
nella discussione. E dovremmo tenere presente che la spiegazione
“dell’assecondamento” non deve essere considerata come uno “stare al
gioco”, come una finta collaborazione, ma può invece essere paragona-
ta a un insieme di sollecitazioni esterne, volontà di ottenere dei risulta-

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ti e determinate aspettative proprie del partecipante. Forse tutto ciò,
unito a una personalità “suggestionabile”, è sufficiente per creare un
comportamento apparentemente ipnotico e per convincere il soggetto
occasionale di avere agito come una specie di automa. È davvero diffi-
cile avere delle certezze. Non saprò mai se Gavin abbia realmente visto
il rinoceronte, ma forse non è questo ciò che conta.

COME IPNOTIZZARE

Lasciamo stare le domande su cosa sia esattamente l’ipnosi e vedia-


mo come applicarne le tecniche nella realtà.

I pericoli
Ho appreso l’ipnosi su testi clinici e libri di auto-aiuto, e tutti mette-
vano in guardia dai pericoli dell’ipnosi da palcoscenico. Probabilmente
pochi tra di voi saranno interessati a utilizzare l’ipnosi come numero da
teatro, ma vale la pena considerare le problematiche coinvolte, così da
capire come utilizzarla al meglio in modo responsabile, sempre che
decidiate di utilizzarla.
La Campagna contro l’Ipnotismo da Palcoscenico è stata fondata
dopo che una ragazza è morta per un attacco epilettico, avvenuto alcu-
ne ore dopo la sua partecipazione ad uno spettacolo di ipnotismo.
Anche se il processo ipnotico non determina attacchi epilettici fatali, si
è ritenuto che la suggestione indotta nella ragazza per farle provare un

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forte shock elettrico sul palco abbia scatenato una sua reazione fobica
all’elettricità, la quale, quella stessa sera, ha prodotto l’attacco epiletti-
co successivo. L’ipnotista non è stato ritenuto colpevole in tribunale
poiché l’ipnosi è stata considerata in base alla definizione comporta-
mentale sopra menzionata, pertanto non è stata ipotizzata alcuna casua-
lità diretta. È forse comprensibile che la famiglia della ragazza abbia
ritenuto che il caso non sia stato trattato con la dovuta severità, perciò
prosegue la sua campagna contro ciò che ritiene una forma potenzial-
mente pericolosa di intrattenimento.
Un’argomentazione molto diffusa contro la colpevolezza dell’ipnoti-
sta è la seguente. Se si va a vedere un ventriloquo e poi si fa un inci-
dente d’auto sulla strada verso casa oppure se si accusano dei mal di
testa, non si dà la colpa al ventriloquo. Se si morisse nell’incidente, la
famiglia del defunto non cercherebbe di proibire la ventriloquia. Gli
ipnotisti da palcoscenico e molti ipnotisti clinici sostengono che poiché
l’ipnosi si limita a sfruttare il potenziale umano in fatto di recitazione
di un ruolo e assecondamento, essa non può essere ritenuta responsabi-
le degli episodi incresciosi che possono accadere dopo uno spettacolo.
Per quanto concerne la mia esperienza, mi ricordo di un incidente
accaduto molti anni fa a un mio spettacolo, svoltosi a una festa delle
matricole a Bristol. Era nella sede della Associazione Studentesca, e io
vi avevo già tenuto diversi spettacoli. Quando quella sera invitai i par-
tecipanti sul palco, notai che una ragazza tra di loro era visibilmente
ubriaca. Siccome le persone in questo stato si rivelano poi dei pessimi
soggetti, le chiesi di tornare a sedersi prima di proseguire con la dimo-
strazione. Un paio d’ore dopo la mia esibizione mi stavo aggirando in

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quella che è probabilmente la più grande Associazione Studentesca
d’Europa e stavo facendo largo sfoggio del mio pass da “VIP”, quando
sentii questo annuncio trasmesso dall’impianto audio: “L’ipnotista è
pregato di scendere immediatamente nel foyer.” Lasciai diligentemente
la pista da ballo e mi affrettai a scendere all’ingresso. Si era già radu-
nata una certa folla, e io fui accompagnato da un paramedico del vicino
ospedale al centro della calca. Sul pavimento giaceva la ragazza che
avevo rimandato a sedere: apparentemente aveva perduto i sensi. “Mi
hanno detto che è stata sul palco con te,” mi disse un membro dell’equi-
pe medica. Io risposi che in effetti ci era salita, ma che non era stata
ipnotizzata. Loro ritenevano comunque che dovessi fare un tentativo
per farla uscire da quello che poteva essere uno stato di trance ipnotica.
Mi offrii di provare, anche se sapevo che il suo stato attuale non aveva
niente a che fare con me. Così, davanti a un centinaio di studenti circa,
tentai di farla uscire dal presunto stato di trance e ovviamente fallii. Nel
frattempo era arrivata un’ambulanza, che portò via la ragazza.
Alcune settimane dopo scoprii che era caduta in coma etilico e che in
ospedale le avevano praticato la lavanda gastrica. Sembrava che fosse sul
punto di morire. Mi chiesi immediatamente cosa sarebbe successo se
fosse morta. Per quanto questa eventualità potesse essere tragica, sapevo
anche che qualcuno avrebbe detto ai suoi genitori che io l’avevo ipnotiz-
zata e che non ero stato poi in grado di riportala fuori dallo stato di tran-
ce. Ero giovane e non esistono qualifiche per praticare l’ipnosi su un
palcoscenico; quella sarebbe stata sicuramente la fine della mia carriera.
Solo perché lei aveva bevuto troppo. In ogni caso, non fui più ingaggiato
dall’Associazione Studentesca, nemmeno come prestigiatore.

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Ogni ipnotista da palcoscenico ha a che fare con queste cose, e non
si riuscirà mai ad accertare se la fatalità che ha provocato la campagna
sia dipesa dall’azione dell’ipnotista. Tuttavia ritengo che quella della
responsabilità sia una questione importante. È comprensibile che gli
ipnotisti da palcoscenico siano sempre pronti ad autoassolversi, dicen-
do che si tratta solo di un gioco e di una messinscena, senza la possibi-
lità di provocare danni. Io non credo che sia del tutto giusto, anche se
concordo ampiamente con l’approccio comportamentale per compren-
dere questi spettacoli.
Il problema è nella natura di questi spettacoli. Purtroppo non è diffi-
cile praticare l’ipnosi su un palco, e questo attira molte persone chiara-
mente sprovviste della sensibilità e della responsabilità necessarie.
Anche se può essere esilarante vedere i tuoi amici che danzano isterica-
mente al ritmo della musica che esce da uno stereo in un pub oppure
uomini che piangono come bambini perché pensano di aver visto “il
film più triste del mondo”, questa triste mania di mettere in imbarazzo
le persone e l’umorismo di bassa lega pongono delle questioni.
Innanzitutto è improbabile che l’ipnotista, anche se sapesse lui per
primo come fare, sia sensibile a un eventuale malessere mostrato dai
partecipanti. Alla fine del suo spettacolo vorrà probabilmente liquidarli
in fretta dal palco, senza assicurarsi che si siano ristabiliti del tutto. Se
un soggetto è stato umiliato sul palco, oppure, ripensandoci a posterio-
ri, ha ragione di provare risentimento nei confronti dell’ipnotista o ritie-
ne che lo spettacolo sia stato irritante, è abbastanza comprensibile che
possa lamentare degli effetti negativi, come paranoia o depressione. Se,
forse dopo alcuni drink per cercare di controbilanciare le incalzanti

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istruzioni di “sonno” e “veglia”, si sente come uno yo-yo umano con-
fuso e disorientato, potrebbe accusare emicranie o addormentarsi dopo
la fine dell’esibizione. Allo stesso modo, può darsi che una delle istru-
zioni impartite sul palco e diligentemente eseguite dal soggetto con un
forte coinvolgimento emotivo davanti a una platea belluina, lo abbia
turbato. In un’inchiesta televisiva pro e contro l’ipnotismo da palcosce-
nico, una donna raccontò di come le fosse stato chiesto di cercare il suo
seno dappertutto, senza che lei riuscisse a trovarlo. La sua ricerca si era
svolta in uno stato di urgenza e ansia, in conformità con le istruzioni
ricevute. In seguito la donna confessò l’esperienza traumatica vissuta al
marito, il quale non fece altro che raccontare a tutti la storiella diverten-
te della moglie, ridendo di gusto ed evitando accuratamente di aiutarla.
Presumibilmente le era stato inculcato il terrore di un’eventuale futura
mastectomia, cosa che suo marito trovava esilarante.
Il bello è che è possibile ottenere una dimostrazione ipnotica diverten-
tissima senza ricorrere alla ridicolizzazione o alla grossolanità. Infatti,
basandomi sulla mia esperienza, posso affermare che un senso di imba-
razzo vissuto di riflesso dal pubblico per i soggetti ipnotizzati può solo
indebolire lo spettacolo, anche se questo ovviamente dipende dal tipo di
pubblico. Personalmente trovo angosciante essere seduto in una platea
che si sbellica dalle risate alle spalle di un poveraccio sul palco che è
visibilmente afflitto per qualche evento indotto dalla suggestione. Poiché
la questione soggettiva del gusto è strettamente legata alla questione di
evitare scenari pericolosi, mi è difficile individuare in modo oggettivo
quale dovrebbe essere l’approccio migliore per regolamentare l’ipnosi
da palcoscenico. Quel che è certo è che è sbagliato affermare che l’ar-

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gomentazione per cui “l’ipnosi non è reale” possa assolvere l’ipnotista
da qualsiasi responsabilità nei confronti dei partecipanti. Se un ipnotista
potesse dire al suo pubblico: “Se venite quassù, siete pregati di collabo-
rare in tutto e per tutto”, si potrebbe affermare che i soggetti stessi
dovrebbero essere ritenuti responsabili. Comunque, poiché manipolerà
e persuaderà (con le buone o con le cattive)persone abbastanza vulnera-
bili a recitare o vivere quello che suggerirà loro, e in un modo che
potrebbe provocare in loro confusione o spaesamento, è sensato affer-
mare che l’ipnotista non può ritenersi assolto da ogni responsabilità.
A questo punto, forse si potrebbe controbattere che seguendo questa
logica anche un mago dovrebbe essere ritenuto responsabile se un par-
tecipante a un numero con le carte prendesse la faccenda troppo sul serio
e perdesse il sonno per seguire lo spettacolo, facendone una malattia.
Questo però sarebbe un caso davvero insolito e una persona ragionevo-
le non si aspetterebbe certo di reagire in questo modo. Nello scenario di
ipnotismo che abbiamo prospettato è più probabile che un partecipante
lasci lo spettacolo turbato, se trattato in modo poco professionale.
Considerare la questione in termini di buon senso e di sensibilità nei
confronti dei volontari, invece di discutere se l’ipnotismo sia da biasi-
mare in sé e per sé, consente all’artista coscienzioso di stabilire un
metodo sicuro. Se decidi di dedicarti seriamente all’apprendimento
dell’ipnosi, ti consiglio caldamente di tenere presente quanto segue:

1. Non cercare di ipnotizzare chi è chiaramente disturbato o soffre di


epilessia. In caso di dubbio, astieniti dal farlo. Evita chiunque
abbia mai sofferto di disturbi mentali.

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2. Non cambiare trattamenti terapeutici se non sei adeguatamente
qualificato per farlo. Molti tra quanti sono qualificati probabil-
mente non lo farebbero, quindi non farlo nemmeno tu.
3. Utilizza l’ipnosi come uno strumento delicato, non come qualcosa di
teatrale o sensazionalistico. Lascia perdere i numeri da circo fin
quando non saprai come mettere a proprio agio le persone con
te e finché non saprai davvero cosa stai facendo.
4. Tutto ciò che fai contribuisce all’ipnosi. Immagina che la persona
sia ipersensibile a ciò che la circonda. Se tu o le altre persone
presenti apparite agitati in seguito a una risposta inattesa, come
per esempio il mancato risveglio del soggetto al momento op-
portuno, il tuo soggetto potrebbe benissimo andare in panico,
pensando che non riuscirà più a risvegliarsi.
5. Alla fine assicurati sempre che la persona si sia completamente libera-
ta dal pensiero di essere ancora ipnotizzata. Quello che pensa lei è
tutto. Esiste solo il suo pensiero. Se se ne va pensando di essere
ancora “parzialmente ipnotizzata”, lo sarà. Prenditi tutto il tem-
po che ti serve per risvegliare completamente le persone dallo
stato di “trance”.
6. Procedi lentamente, e prova solo in un ambiente sicuro.
7. All’inizio consideralo uno strumento di rilassamento, poi introduci
lentamente dei suggerimenti comportamentali.

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Il linguaggio

IL RITMO E LA GUIDA
L’ipnosi si basa essenzialmente sulla comprensione del ritmo da asse-
condare, proprio del soggetto, o sul ribadirgli la sua esperienza per poi
guidarlo al nuovo comportamento desiderato. Considera per esempio
la tua differenza di reazione alle seguenti affermazioni. Leggi ognuna
di esse un paio di volte e osserva la tua riposta:

1. Tu vuoi grattarti.
2. Tu sei seduto qui e, nonostante il tuo ambiente, ti stai concen-
trando su queste parole, continuando a leggere questa pagina.
Più cerchi di non pensarci, più noterai la sensazione crescente di
volerti grattare.

Il primo esempio è un ordine perentorio a grattarti, e puoi decidere o


meno di grattarti sulla base di esso. Nel secondo però, l’azione deside-
rata (grattarsi) è ora messa in relazione a cose che stai già facendo:
essere seduto qui, leggere queste parole, cercare di non grattarsi. È
molto più persuasivo, non è vero? E mentre sei seduto lì, sentendo tutti
i pruriti che iniziano a solleticarti in varie parti del corpo, noterai che
questo tipo di linguaggio ha una capacità seduttiva molto maggiore.
La forma più semplice per assecondare il ritmo del soggetto e guidar-
lo verso il nuovo comportamento (mi sto ancora grattando) è questa:
“Siccome X, allora Y.” La prima parte di comportamento, X, è qualco-

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sa che è conosciuta come vera. Potrebbe riferirsi a come è seduto il
soggetto, a cosa sta osservando, o a quello che tu sai che sta passando
per la sua testa. Il comportamento desiderato, Y, è collegato a esso,
come se i due comportamenti fossero interdipendenti. Talvolta un ipno-
tista inserirà vari passaggi di assecondamento del ritmo del soggetto
(X) prima di insinuare una richiesta di comportamento (Y):

Mentre sei seduto qui e ascolti le mie parole, con gli occhi chiusi, sen-
tendo le tue mani sui braccioli della poltrona, permettendo alle mie
parole di farti rilassare mentre il tuo respiro diventa regolare e quieto,
vorrei che tu iniziassi a lasciarti trasportare in una specie di sonno.

In questo testo ci sono due esempi di richieste di comportamento


nascoste. Quella più ovvia è “Vorrei che tu iniziassi a lasciarti traspor-
tare in una specie di sonno”, mentre l’altra è “permettendo alle mie
parole di farti rilassare”. Tutto ciò che riguarda la parola “poltrona”
serve semplicemente a riproporre al soggetto quello che sta osservando
l’ipnotista. Inoltre, l’idea che le sue parole riescano a far rilassare il
soggetto viene insinuata in mezzo agli altri elementi di pura riproposi-
zione, in modo che venga accettata come qualcosa di altrettanto evi-
dente. Tieni presente queste parole mentre immagini di far oscillare un
orologio davanti al volto di un soggetto:

E mentre ascolti la mia voce e guardi l’orologio, mentre lo osservi


rilassandoti nella poltrona, noterai che mentre mi ascolti i tuoi
occhi iniziano a diventare pesanti. È normale, e mentre noti che i

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tuoi occhi tendono a chiudersi, puoi continuare ad ascoltarmi men-
tre ti rilassi e mentre permetti che diventino più pesanti. Mentre il
resto del tuo corpo si rilassa nella poltrona, i tuoi occhi diventano
più pesanti e si chiudono sempre di più e tu permetti loro di chiu-
dersi, così da poter scivolare nel sonno…

Qui l’unico fatto certo è che se il soggetto guarda un qualsiasi ogget-


to oscillante, i muscoli dei suoi occhi inizieranno a stancarsi, oppure gli
bruceranno gli occhi e lui sentirà il bisogno di chiudere le palpebre.
Tutto qua. Comunque, tutti i “mentre” che legano l’idea del socchiude-
re gli occhi all’azione di guardare l’orologio e infine a quella di addor-
mentarsi rendono più semplice per il soggetto pensare che “Sta funzio-
nando… i miei occhi stanno diventando più pesanti… sto davvero per
addormentarmi…” e seguire le affermazioni che vengono dette. Anche
se a un osservatore potrebbe sembrare che abbiate solo fatto addormen-
tare qualcuno usando dei poteri ipnotici, in realtà tu stai guidando i tuoi
soggetti verso ciò che tu vuoi che essi provino. Non li stai costringendo
a fare niente. Pensala come una specie di seduzione.
L’assecondamento del ritmo e la guida sono utilizzati in molte forme
di persuasione. I buoni insegnanti e i comunicatori esperti sanno come
rispondere a un suggerimento negativo proveniente da una classe o da
una sala riunioni con un’affermazione come “Sì, è una buona idea, e
penso che il suo punto forte sia xxxxx [qui indica un aspetto positivo
dell’idea sbagliata]. Penso anche che xxxxx [adesso si sposta verso
un’idea migliore, come se quest’ultima fosse scaturita dal suggerimen-
to negativo]…” In questo caso la persona non si sente svilita, anche se

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la sua idea non aveva davvero alcun valore. L’interlocutore si è adegua-
to al ritmo e poi ha guidato la persona verso un’idea migliore, che
potrebbe addirittura pensare di aver avuto lei stessa. Una tecnica molto
diffusa utilizzata dagli insegnanti capaci quando in classe viene loro
data una risposta sbagliata è quella di fingere che l’allievo abbia colto
qualcosa a un livello più profondo rispetto a quello di discussione. A
quel punto l’insegnante può condurre l’allievo verso la risposta deside-
rata senza che questi si senta stupido.
Una sessione ipnotica sarà condotta tipicamente seguendo questo
processo, e l’ipnotista minimizzerà spesso l’effetto di rumori o disturbi
inattesi, facendo riferimento ad essi (assecondamento del ritmo) e sug-
gerendo che aumenteranno lo stato di trance (guida verso il comporta-
mento desiderato). “Il suono del telefono ti sta rilassando di più”,
“Quelle sirene ti aiutano ad assopirti…”, ecc.

LA PRESUPPOSIZIONE
Qui nascondiamo l’istruzione che vorremmo che il soggetto cogliesse
presupponendo che sia vera. Considera, per esempio, il caso di un
bravo genitore che vuole che il proprio bambino vada a letto alle otto e
mezza. Potrebbe offrire due alternative, “Oggi ti sei comportato proprio
bene e quindi puoi decidere se andare a letto alle otto oppure alle otto
e mezza.” Ovviamente il bambino sarà ben felice di scegliere la secon-
da opzione, mentre le parole “Oggi devi andare a letto alle otto e
mezza” probabilmente non sarebbero state accolte altrettanto bene.
Inoltre la presupposizione è solitamente un difetto delle domande ten-

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denziose, che può interferire, per esempio, con l’imparzialità delle ricer-
che di mercato e con l’attendibilità delle dichiarazioni rilasciate dai testi-
moni oculari negli interrogatori della polizia. In una dimostrazione clas-
sica viene chiesto a degli studenti di osservare il filmato di un incidente
automobilistico. Poi viene loro chiesto “A quale velocità pensa che
andasse l’auto quando ha superato il fienile?”. oppure “A quale velocità
pensa che viaggiasse l’auto sportiva bianca quando si è scontrata con
l’autobus?”. In realtà non c’era nessun fienile e l’auto non era bianca.
Formulando le loro risposte, molti studenti dichiareranno poi di ricordare
che nel filmato c’era un’auto sportiva bianca o un fienile.
Nell’ipnosi, una frase come “Tu noterai che i tuoi occhi iniziano a
diventare pesanti mentre mi ascolti” è un’utile presupposizione.
Presuppone che gli occhi stiano diventando pesanti e ha lo scopo di
indurre questa sensazione nel soggetto. È un po’ come il vecchio slogan
dei Kellogg’s Cornflakes: “Vi siete dimenticati quanto sono buoni?”,
oppure “Fai ancora del sesso con il tuo cane?”. Entrambe queste
domande presuppongono quello che il parlante vuole comunicare chie-
dendo qualcosa di marginale rispetto al vero messaggio. Questa tecnica
può consentire all’ipnotista di suggerire un’azione senza provocare una
risposta negativa. Per esempio, dire (nello stile ericksoniano) “Ti
domanderai quanto tu stia sprofondando in trance” presuppone bella-
mente che l’ascoltatore stia andando in trance (qualsiasi cosa questo
stato possa essere) e può indurlo a rilassarsi ancora di più, facendogli
credere che stia sprofondando in uno stato speciale. “Mentre sei seduto
qui voglio che tu noti che il tuo corpo sta diventando più pesante”
coniuga felicemente assecondamento del ritmo, guida verso il compor-

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tamento desiderato e una presupposizione (che il corpo stia veramente
diventando più pesante), e sembrerebbe essere più efficace dell’ordine
“Il tuo corpo sta diventando più pesante”. Al giorno d’oggi un linguag-
gio così diretto viene raramente utilizzato, se non nei film horror.

IL TONO DI VOCE
Allenati a parlare con un tono di voce calmo e gentile, che intensifiche-
rà lo stato di “trance”. Con un tono aspro, non riscuoterai altrettanto
successo. Trova espressioni che ti sciolgano la lingua e che siano mel-
liflue, come per esempio “Cadendo profondamente in trance”, e lascia
che siano loro a dare la consistenza e una caratterizzazione onirica
all’esperienza. Ripeti le frasi e rilassati completamente mentre parli, in
modo che il soggetto si rilassi naturalmente insieme a te.

L’UTILIZZO DI IMMAGINI
Fa’ appello a tutti i sensi del tuo soggetto facendo riferimento a cose
che vorresti che lui vedesse e sentisse con l’udito, il tatto, l’olfatto e
anche il gusto nel suo “stato” ipnotico. Se vuoi che il tuo soggetto
immagini un giardino, faglielo vedere in modo vivido, ma fa’ anche
riferimento alla sensazione dell’erba sotto i piedi, al canto degli uccel-
li tra gli alberi e persino all’odore dei fiori. Queste cose sembreranno
potenti e reali solo se saranno multisensoriali. Assicurati di permettere
al tuo soggetto di riempire a proprio piacimento gli spazi che lasci
vuoti, ma sta’ attento a non contraddire qualcosa di un’immagine che
potresti avergli suggerito tu. La sua immagine del giardino può essere

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molto diversa dalla tua. Potresti fare riferimento a un ruscello, ma il
soggetto potrebbe avere deciso di perdersi in un giardino reale della sua
infanzia che non contiene alcun ruscello. Di solito questi errori creano
confusione e probabilmente contribuiranno a portare il soggetto fuori
dal suo stato di trance5.

La struttura
Esercitati nell’ipnosi pensandola come una tecnica per indurre in una
persona un profondo stato di rilassamento, provocato dalla suggestio-
ne. Una volta indotto questo stato, le persone mostreranno vari gradi di
suggestionabilità, che sembrano dipendere da quanto sono ricettive
nella vita di tutti i giorni. Per avere un quadro di riferimento, pensa ai
seguenti stadi:

1. Prepara il soggetto e induci stadi lievi di trance. Questa fase può


comprendere la suggestione della chiusura degli occhi.
2. Intensifica lo stato di trance mediante una metafora, come per
esempio lo scendere le scale.
3. Metti in atto il tuo lavoro ipnotico.
4. Risveglia completamente il soggetto.

5. Continuerò a utilizzare il termine “trance” come se si trattasse di uno stato reale. Questa
parola è comunque solo un termine di uso comune che indica qualsiasi cosa possa essere
lo stato parzialmente simulato di assecondamento in cui entra il soggetto quando segue le
suggestioni dell’ipnotista.

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Il contenuto del terzo stadio dipende da cosa stai facendo. Per un
ipnotista consisterà nelle suggestioni di poter ricreare in futuro lo stato
di trance e di creare uno spazio mentale in cui il soggetto possa rilas-
sarsi profondamente. Un altro ipnotista potrebbe usarlo per aiutare il
soggetto a trovare dei metodi per smettere di fumare. Un ipnotista da
palcoscenico potrebbe usarlo per suggerire delle azioni ridicole che il
soggetto compirà al suo risveglio. Quest’ultimo caso è noto come sug-
gestione post-ipnotica, per la quale dobbiamo aggiungere all’elenco un
quinto stadio:

1. Al termine della sessione, assicurati che il soggetto si sia liberato


da ogni suggestione e sia sicuro di non essere più ricettivo all’ip-
nosi.

Ecco il mio consiglio se desideri imparare l’ipnosi. Leggi questo


capitolo e poi registra un’induzione da provare su di te. Scopri cosa
funziona bene per te e cosa no, dato che probabilmente le stesse cose
funzioneranno o meno anche per gli altri. Poiché non intendo essere
querelato per ogni scolaretto che ruberà questo libro e cercherà di ipno-
tizzare i suoi compagni, non ti lascerò una trascrizione dettagliata da
utilizzare, ma piuttosto degli spunti che potrai assemblare e testare.
Detto questo, ora che anche tu hai capito l’approccio di base per il lin-
guaggio e le istruzioni, rivediamo nel dettaglio questi stadi.

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La preparazione del soggetto
“Preparare” significa fare accomodare il tuo soggetto, in modo che sia
pronto per rilassarsi. Anche se non c’è bisogno di musica soft o di una
stanza buia, è meglio evitare le luci forti o gli ambienti rumorosi. Se
possibile, stacca il telefono fisso, spegni i cellulari e assicurati che non
sarete disturbati per una mezz’oretta. L’ideale sarebbe che il tuo sog-
getto sia pronto ad accettare qualsiasi cosa succederà (non è necessario
che “creda” nell’ipnosi), che non sia troppo nervoso, ma nemmeno
eccessivamente entusiasta. Tieni presente che non stai realmente indu-
cendo uno stato speciale, anche se parlerai come se lo stessi facendo.
Invece stai sfruttando le aspettative e le credenze del soggetto. Perciò
se già all’inizio non sembri convinto del fatto che sarà un buon sogget-
to, probabilmente lui non risponderà in modo adeguato. Devi essere
sicuro di te, calmo, e comportarti come se l’avessi già fatto centinaia di
volte, anche se non è così.

INDURRE STADI LIEVI DI TRANCE

PRIMO METODO: TENSIONE/RILASSAMENTO


Questo è un modo semplice e diretto per iniziare una sessione ipnotica.
Funziona bene con i gruppi, dove le suggestioni uno-a-uno richiedereb-
bero troppo tempo, dovendo aspettare che ogni persona si addormenti.
Fa’ chiudere gli occhi al soggetto e fagli tendere ogni muscolo del suo

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corpo. Digli di accertarsi di respirare normalmente, ma di tendere i
muscoli di piedi, gambe, pancia, petto, spalle, braccia e di stringere i
pugni. Tienilo così per un po’, poi digli di rilassarsi. Puoi ribadirgli il
fatto che il suo corpo diventerà più pesante nella poltrona, poi guidalo
verso i comportamenti che desideri a questo stadio. Per esempio, “E
mentre il tuo corpo diventa più pesante e il tuo respiro diventa rilassato
e regolare, tu puoi comunque ascoltarmi mentre sprofondi nella poltro-
na e ti lasci cadere comodamente nel sonno.”

SECONDO METODO: CHIUSURA DEGLI OCCHI


In alternativa, fa’ guardare il tuo soggetto verso un punto in prossimità
del soffitto sul muro davanti a lui. Questo ti servirà per assicurarti che
i suoi occhi stiano guardando verso l’alto, senza però che questa azione
gli risulti scomoda. Digli di rilassarsi mentre osserva quel punto. Questa
è una classica induzione clinica utilizzata da molti terapisti, ai quali a
volte piace usare un oggetto strano o eccentrico per indurre lo stato di
trance invece di un semplice punto sul muro.
Ribadiscigli il fatto che è seduto lì, che ti sta ascoltando, che sta guar-
dando quell’oggetto e poi guidalo verso il comportamento desiderato.
Questo esempio è simile a quello dell’orologio, già menzionato.
Utilizza lo stesso tipo di linguaggio. Tu sai che i suoi occhi inizieranno
a stancarsi e sentirà il bisogno di socchiuderli, quindi non avere paura
di predire questo comportamento, però fallo sembrare come l’inizio di
uno stato di trance nel tuo flusso ininterrotto di suggestioni sovrappo-
ste. Siccome ti sta ascoltando, allora può permettere che il rilassamen-

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to si espanda al suo corpo e può consentire che i suoi occhi diventino
comodamente pesanti mentre continua ad essere seduto lì, e mentre
sente le sue braccia sulla poltrona può sentire che le sue palpebre
vogliono chiudersi, e siccome si stanno chiudendo può permettersi di
rilassarsi di più cadendo in trance…

INTENSIFICARE LO STATO DI TRANCE

Ricordati che non esiste un vero stato di trance da intensificare.


Comunque, è facile per il soggetto visualizzare l’idea di entrare nello
stadio più profondo di uno stato speciale e sollecita la sua fantasia nel
modo giusto. Perciò, dopo che hai visto che il soggetto si è assopito, ha
gli occhi chiusi ed è chiaramente rilassato, devi amplificare questo
rilassamento.
Il modo più semplice è fargli immaginare di essere in cima a una
scalinata. Digli che ogni gradino che scenderà lo rilasserà sempre di più
e lo condurrà in un sonno più profondo. Questo è un buon punto per
tenere conto di qualsiasi eventuale confusione potrà provare il soggetto
in futuro. Non deve diventare uno zombie e resterà sempre consapevo-
le di quello che gli stai dicendo, in ogni momento. Se si aspetta di
addormentarsi veramente o di provare qualcosa di straordinario, rimar-
rà deluso e potrebbe decidere che non sta funzionando. Ancora una
volta vediamo che l’importante è lavorare su quello che crede il sog-
getto, perché deve essere convinto di stare entrando realmente in trance

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e che tutto stia procedendo secondo i piani. Quindi è una buona idea
dirgli che mentre scende sempre più in trance, continuerà a sentire e a
capire tutto ciò che gli direte, e che sarà consapevole di stare andando
in trance. Queste parole fanno un buon uso del fatto che rimarrà con-
sapevole di cosa sta accadendo e focalizzano tale consapevolezza su un
aspetto utile della procedura.
Digli che conterai da uno a dieci mentre scende le scale, e che quan-
do arriverai a “dieci” lui sarà arrivato in fondo alla scala, provando un
profondo stato di rilassamento. Fallo scendere e ribadisci tutto ciò che
sta accadendo (siccome conto, siccome scendi ogni gradino, siccome
respiri, siccome mi ascolti, allora ogni gradino, ogni numero, ogni
parola può portarti più in profondità).

METTERE IN ATTO IL LAVORO IPNOTICO

Per adesso utilizziamo questa scala per creare un luogo utile per il nostro
soggetto, al quale può ritornare ogni volta che lo desidera. Questo ti per-
metterà anche di esercitarti senza preoccuparti di fare fiasco.
Una volta in fondo alle scale, digli di vedere una porta davanti a lui.
Spiegagli che questa porta conduce in un bel giardino: un’ambientazione
perfetta e idilliaca alla quale potrà tornare ogni volta che lo vorrà. Digli
di afferrare la maniglia e di tenersi pronto ad aprirla. Ora chiedigli di
attraversare la soglia e inizia subito a descrivere un’esperienza multi-
sensoriale, mentre permetti che sia lui stesso a trovare alcuni dettagli.

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Non parlare di sentieri o componenti specifiche del giardino, oppure, se
lo fai, chiarisci che vuoi che lui collochi questi elementi lì dentro.
Ricordati di inserire cose che lui può sentire al tatto, all’udito e all’olfat-
to. Digli di sentire il calore del sole sul suo viso e la brezza leggera che
mantiene la temperatura a un livello perfetto. Enfatizza il fatto che lui
dovrebbe rendere questo giardino il più delizioso possibile, in modo che
possa sempre accarezzare l’idea di tornarci ogni volta che lo vorrà.

INTRODURRE LE SUGGESTIONI FISICHE


Un metodo efficace per testare la ricettività del tuo soggetto è indurre
alcuni comportamenti fisici che ti forniranno un riscontro e ti aiuteran-
no a intensificare ulteriormente lo stato di trance. Suggerisci che esiste
una bella sedia in giardino, proprio nel luogo migliore, e che dovrebbe
andare a sedersi là. Fagli notare che il suo braccio destro è molto pesan-
te, così pesante che può immaginarlo incollato al bracciolo della sedia.
Fagli immaginare una forza che tenga incollato il suo braccio al brac-
ciolo della sedia e poi digli di cercare di sollevarlo in modo tale che ciò
presupponga il suo fallimento. Per esempio, le parole “Cerca di schio-
dare il tuo braccio con tutte le tue forze” creano una suggestione poten-
te: ora concentrerà i suoi sforzi nel tentare di farlo, il che presuppone
che non sarà in grado di farlo, e le parole “Inchiodare il tuo braccio”
riecheggeranno nella sua mente.
A questo punto, lui a) può sollevare il braccio, b) può sforzarsi di
sollevarlo senza riuscirci, oppure c) può restare seduto e immobile
come se non si stesse sforzando affatto. L’opzione b) suggerisce il

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miglior tipo di soggetto, e per te è la prova migliore della sua ricettivi-
tà. Se non si muove del tutto, puoi presumere che sia così rilassato da
ritenere che la suggestione significhi che non può nemmeno fare lo
sforzo di provare. Se solleva il braccio, puoi sperare che almeno lo
trovi pesante. In tal caso, consideralo un successo e di’: “Perfetto, e
mentre noti come il tuo braccio sia diventato stranamente pesante,
lascia che ti faccia sprofondare ulteriormente in questo stato mentre lo
rimetti giù e ti lasci andare, rilassandoti…”. Hai visto cosa hai fatto?
Stai riconoscendo la sua confusione o la sua tensione, che potrebbero
essere derivate da un tuo insuccesso, e gli stai offrendo la possibilità di
“lasciarsi andare” e di rilassarsi, sprofondando in trance. Dovrebbe
accettare questo consiglio con sollievo e assecondarlo, anche se hai
constatato che non è un gran soggetto.
Se questa suggestione ha funzionato e vuoi spingerti oltre, ora digli
che l’altro braccio sta diventando più leggero. Fagli immaginare un
palloncino legato al suo polso sinistro e tutta la naturale pesantezza che
fuoriesce dal suo braccio, mentre inizia a notare quanto stia diventando
leggero. Presupponi la progressiva assenza di peso, digli che sta diven-
tando “sempre più leggero” e convincilo ad aspettarsi che si sollevi in
aria spontaneamente. Quando le istruzioni di permettere alla mano di
sollevarsi lentamente in aria sono unite a un costante assecondamento
del ritmo del soggetto, questa può risultare una suggestione molto effi-
cace. Poiché stai contrastando la naturale pesantezza della mano in
seguito al rilassamento indotto, potrebbe essere necessario un po’ di
tempo prima che questa suggestione funzioni. Comunque, è importante
incoraggiarlo costantemente, perciò ricordati di cogliere ogni movi-

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mento e di lavorarci su, inserendolo nel processo di assecondamento
del ritmo del soggetto. Ribadiscigli la sensazione della mano che si sta
staccando dal bracciolo della sedia. Ribadisci, guida e presupponi che
quella mano è in aria. Se la mano si solleva dando degli strattoni, digli
di aspettare la prossima spinta che la farà salire. Fagli sentire che si sta
realmente sollevando e la mano si solleverà.
Quando la mano è salita fin dove tu percepisci che salirà, puoi per-
mettere al soggetto di abbassarla, e così facendo suggeriscigli che spro-
fonderà ulteriormente in trance. Il sollievo percepito dal soggetto alla
fine della lievitazione è sufficiente per rendere efficacissima questa
tecnica di “intensificazione”. Quando noterai che puoi fare funzionare
bene questa suggestione, potrai utilizzarla per avviare l’induzione da
uno stato di veglia. In genere uso la “lievitazione del braccio” all’inizio
della sessione, perché può essere molto convincente per il soggetto ed
è un buon metodo che mi permette di conoscere quanto è ricettivo.
Faccio tenere al soggetto gli occhi aperti mentre la sua mano gli arriva
all’altezza del volto e poi glieli faccio chiudere e lo faccio sprofondare
nel sonno quando la mano ritorna giù. Quando la mano si muove per la
prima volta, spesso il soggetto ride o esprime un certo stupore, ma
quando il processo si è velocizzato e la mano arriva fino alla faccia, il
soggetto dovrebbe apparire intontito e sognante; le mie istruzioni di
lievitazione sono accompagnate da un flusso di suggestioni in cui dico
al soggetto “non devi necessariamente sprofondare comodamente in un
profondo stato di trance finché la mano non toccherà la tua faccia e i
tuoi occhi potranno finalmente chiudersi del tutto” (una presupposizio-
ne massiccia e stratificata per cui lo stato di trance avrà luogo e gli

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occhi nel frattempo diventeranno sempre più pesanti, chiudendosi
come espressione finale di rilassamento). Ciò che fa muovere il brac-
cio, apparentemente in modo autonomo, è l’affascinante fenomeno del
“movimento ideomotorio”, di cui abbiamo discusso in precedenza.
Siccome stiamo impiegando questa sessione e il giardino immagina-
rio per offrire al nostro soggetto un’utile tecnica da utilizzare ogni volta
che lo desidera, ora dobbiamo anche spiegargli che può ricreare per se
stesso lo stato di trance. Fallo sdraiare sull’erba del giardino e ricrea
tutte le meravigliose sensazioni e percezioni a esso collegate. Poi digli
che trovando un momento di quiete in cui non sarà disturbato, potrà
chiudere gli occhi e immaginare nuovamente la scala. Spiegagli che
immaginando se stesso che scende le scale e attraversa la porta sarà in
grado di tornare nel giardino e godere nuovamente del benefico rilas-
samento che offre. Può utilizzarlo per “ricaricarsi”, per liberare la
mente o per riuscire più facilmente ad addormentarsi. Può usarlo men-
tre studia per un esame, perché può essere utile riuscire a ripassare in
uno stato di rilassamento. Riproponigli la procedura e inoltre assicura-
gli che quando la utilizzerà autonomamente sarà in grado di aprire gli
occhi e risvegliarsi in qualsiasi momento.
Infine, sottolinea l’importanza del fatto che all’inizio la dovrà utiliz-
zare con regolarità, per fissarla bene nella mente. Se se la dimentica,
sarà difficile richiamarla alla memoria.

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RISVEGLIARE COMPLETAMENTE IL SOGGETTO

Lo stadio finale consiste nel far uscire completamente il soggetto dallo


stato di trance e nell’assicurarsi che si sia ripreso del tutto. Io gli farei
immaginare di attraversare la porta e di risalire le scale mentre conto
alla rovescia da dieci a zero, perché questo contribuirà a fissare nella
sua mente l’idea che potrà scendere di nuovo la scala e ritornare in
giardino. Spiegagli che mentre sale le scale sentirà che tutta la sonno-
lenza e la pesantezza lo lasceranno, ma che non deve aprire gli occhi
finché non raggiungerà lo “zero”, in cima alla scala. Poi fallo risalire
lentamente lungo la scala e permetti che la tua voce diventi più natura-
le e colloquiale mentre raggiungi la cima. Digli di aprire gli occhi e di
risvegliarsi del tutto.
Usa questo momento per avere ulteriori riscontri dal soggetto. Per lui
il giardino era reale? Che sensazioni gli dava? Chiedigli per quanto
tempo pensa che sia durato: un buon soggetto tenderà a pensare che sia
durato molto meno di quanto sia stato in realtà. Non è un fatto insolito
che una sessione di un’ora abbia una durata percepita di dieci minuti.
Ribadisci l’importanza di utilizzare regolarmente la tecnica di auto-
ipnosi finché riuscirà a scivolarci dentro con facilità, e il gioco è fatto.

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Tentare una suggestione post-ipnotica
Dopo che tutta questa procedura è diventata automatica, potresti voler
sperimentare una suggestione post-ipnotica. Per farlo, dovrai prima
trovare un buon soggetto ricettivo e prepararlo a tornare rapidamente in
trance. Questo perché per indurre in lui la suggestione dovrai solo met-
terlo “a dormire” e poi risvegliarlo, in modo che possa eseguirla.
Una percentuale molto ridotta di soggetti è abbastanza ricettiva da
eseguire bizzarre suggestioni post-ipnotiche rispetto a quella di coloro
che rispondono alla lievitazione del braccio durante lo stato di trance.
Non pensare di somministrare suggestioni post-ipnotiche come una
specie di spettacolino da palcoscenico. È probabile che il tuo soggetto
sia ben conscio del fatto che le sta eseguendo, perciò gestisci la faccen-
da con spirito esplorativo e sensibilità. Certe suggestioni funzioneranno
meglio di altre. Una persona attiva potrebbe eseguire bene suggestioni
che implicano movimento fisico, ma è improbabile che riuscirai a farla
saltare intorno a sedie immaginarie a meno che tu non sia davanti a un
pubblico e tu faccia appello alla natura estroversa del soggetto.
Innanzitutto, il soggetto deve capire che tornerà a dormire quando
glielo dirai tu. Puoi provare con questa suggestione post-ipnotica:
“Quando schioccherò le dita e ti dirò di ‘dormire’, tu tornerai subito in
trance.” Ogni volta che lo farà, rafforzerà il suo schema ricettivo alle
tue istruzioni il che ti permetterà di indurre suggestioni più impegnati-
ve. Allo stesso modo, puoi dirgli che può uscire facilmente e del tutto
ristabilito dallo stato di trance ogni volta che conterai alla rovescia fino
a zero. Assicurati che sia davvero sveglio ogni volta che lo farai.

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Ti suggerirei di provare la seguente suggestione post-ipnotica, e cioè
che il soggetto dimentichi il proprio nome, ma solo quando la procedu-
ra fino a questo stadio sarà stata acquisita in modo automatico. Osserva
come sono enunciate le istruzioni: l’assecondamento del ritmo del sog-
getto e la guida, la ripetizione della suggestione centrale, il riferimento
a come reagirà il soggetto nel momento in cui gli sarà chiesto di rispon-
dere, e la sua relazione con le esperienze di vita quotidiana che aiutano
la suggestione a mettere radici. Non sono parole magiche e possono
ovviamente essere cambiate, ma questo è un buon esempio per renderle
persuasive. Ti suggerirei anche di provare quando ci sono poche persone
presenti, perché con un gruppo è necessaria un’influenza maggiore.

“Quando ti risveglierai, non sarai più in grado di ricordare il tuo


nome. Più cercherai di ricordarlo, più lo dimenticherai. Proprio
come ti succede per tutte quelle cose che cerchi di ricordare ma che
ti è impossibile ricordare; tutte quelle cose che hai sulla punta della
lingua ma che si allontanano progressivamente più tu cerchi di
ricordarle. Così, come ti dimentichi una canzone o un nome, tu non
ricorderai più il tuo nome quando ti risveglierai. Quando ti chiede-
rò qual è, tu non riuscirai a ricordarlo, d’accordo? Più ci proverai,
più te lo dimenticherai. Ogni ricordo associato al tuo nome sparirà
quando aprirai gli occhi.”

Poi risveglialo dallo stato di trance contando alla rovescia fino a


zero. Chiedigli il suo nome, ma assumi un’espressione accigliata e uti-
lizza un tono di voce che suggerisca che non riesce a ricordarlo. Da’

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l’impressione di essere perplesso anche tu. Scuoti la testa mentre gli
chiedi di ricordare, inducendolo così a non riuscirci. Mantieni il sangue
freddo. Se non funziona, non preoccuparti. Prova con altre persone in
altre occasione e vedi come rispondono.
Una volta indotte, le suggestioni post-ipnotiche possono essere facil-
mente eliminate facendo credere al soggetto che sono state cancellate.
Siccome non esistono al di fuori delle sue convinzioni e della sua ricetti-
vità alle idee che tu gli suggerisci, tali suggestioni sono più facili da eli-
minare che da indurre. In ogni caso, è sempre una buona idea re-ipnotiz-
zare la persona alla fine del processo e dirle che al suo risveglio non sarà
più ipnotizzata, ricorderà il suo nome e sarà libera dalla suggestione.

Questa è necessariamente una breve guida agli elementi base dell’ipno-


si. Utilizzala a titolo di prova e con sensibilità, prendendoti tutto il
tempo che ti servirà per coglierne la natura. Per quanto mi riguarda, ho
tralasciato l’ipnosi formale e ho utilizzato invece le tecniche comuni-
cative che so essere alla base della sua efficacia. Utilizzo la capacità
delle persone in fatto di assecondamento e di coinvolgimento immagi-
nativo per ottenere determinati risultati durante le mie esibizioni.
Tuttavia, penso che sia meglio scoprire queste cose col tempo, e solo
se la persona è seriamente interessata e preparata ad affrontarle con
impegno e studio.
Un ultimo avvertimento: diffiderei del gran numero di cosiddetti
“corsi di ipnosi” scaricabili a pagamento su internet. Alcuni degli indi-
vidui che li vendono sono assolutamente biasimevoli, specialmente
quelli che usano il mio nome per spacciare la loro roba. Attualmente ci

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sono numerosi e-book, ecc., che dicono di insegnare le mie tecniche.
Non le insegnano, a prescindere da quello che ti promettono. Non spre-
care i tuoi soldi.

LA PROGRAMMAZIONE
NEUROLINGUISTICA

Chiunque nutra un minimo di interesse nei confronti dell’ipnosi avrà


sicuramente sentito parlare della PNL. Quando da studente ho iniziato
a cercare informazioni sull’ipnosi e a praticarla, mi sono entusiasmato
per la PNL, principalmente grazie allo stile narrativo e al contenuto
sbalorditivo dei libri scritti dai suoi fondatori, Richard Bandler e John
Grinder. Sono letture coinvolgenti, soprattutto per chi non è prevenuto,
così ho iniziato a inserire la PNL nei miei spettacoli di ipnosi e per
offrire il mio contributo, qualsiasi potesse essere, per trattamenti tera-
peutici semplici, come per esempio quello per smettere di fumare.
Dopo aver praticato per circa sei anni le tecniche e la teoria della
PNL, e in un momento di insana follia, pensai di poter diventare un
ipnoterapista a tempo pieno, perciò mi sembrò opportuno ottenere delle
qualifiche di un certo livello. Per questo frequentai un corso sulla PNL
tenuto da Bandler e da altri, e ottenni l’importante qualifica di
“Praticante”. Paradossalmente, invece di rafforzare la mia ambizione,
quel corso mi allontanò da quella carriera. Adesso molti sostenitori
della PNL analizzano il mio lavoro in televisione secondo la loro ottica

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e per alcuni di loro mi vanto impropriamente di utilizzare la PNL ogni
volta che mi esibisco (in verità non l’ho mai nemmeno nominata). Per
complicare ulteriormente le cose, ultimamente la PNL si è fatta la brut-
ta fama di essere una tecnica magica di dubbia efficacia.
“Che cos’è?”. Riesco a sentire la tua voce, timido novizio, mentre me
lo chiedi. Allora, caro il mio salamino, questa è una domanda insidiosa
e nessuno ti darà una risposta chiara e semplice. “Ma seriamente,
cos’è?”. Non sto scherzando. Qui non siamo in America. Le parole
“programmazione neuro-linguistica” suggeriscono che sia qualcosa
che ha a che fare con il linguaggio e il cervello che si programmano a
vicenda. In ogni caso, si dice che Bandler abbia inventato questo termi-
ne quando un poliziotto gli chiese qual era la sua professione, perciò
forse non dovremmo preoccuparci troppo di questo titolone complica-
to. Se invece andate in cerca di una definizione complessa, ecco come
Bandler definiva la PNL sul suo sito web quando ho scritto questo
libro: “La Programmazione Neuro-Linguistica™ (PNL™) si definisce
come lo studio della struttura dell’esperienza soggettiva e di cosa può
essere dedotto e asserito in merito all’opinione secondo la quale ogni
comportamento ha una struttura.”
È doveroso dire che la PNL è un ampio programma di formazione
che tratta la comunicazione e il cambiamento personale. È insegnata in
corsi e seminari e può essere impiegata nell’ambito commerciale così
come essere offerta quale strumento terapeutico. È un’industria come
tante altre, anche se sembra essere una delle più affermate, insieme al
famosissimo guru dell’auto-aiuto Anthony Robbins, che attribuisce alla
PNL il merito di avergli cambiato la vita, avviandolo verso un percorso

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di profondo cambiamento personale. Al centro della PNL c’è la meta-
fora secondo cui essa sia il “software per il cervello”, oppure un
manuale dell’utente per vivere l’esperienza del mondo nel modo più
vantaggioso possibile. Un’altra espressione molto comune è: “La
mappa non è il territorio”. In altre parole, la nostra esperienza del
mondo riflette solo il modo in cui noi lo rappresentiamo a noi stessi, e
non è la stessa cosa della realtà. Questo è indubbiamente un principio
di primaria importanza che dobbiamo tenere presente quando riflettia-
mo sulle nostre opinioni.
Grinder (un linguista) e Bandler (un matematico) fondarono la PNL
a metà degli anni Settanta studiando come i terapisti di maggior succes-
so, come Erickson, ottenessero i loro risultati. Essi “estrapolarono le
strategie” di questi stimati professionisti e successivamente quelle di
altri esperti in svariati campi, così che le medesime strategie potessero
essere insegnate ad altri che volevano ottenere lo stesso successo. Col
tempo svilupparono un modello di come il linguaggio è elaborato dal
cervello e affermarono che entrambi si influenzano continuamente l’un
l’altro. Parte di ciò che facciamo nel nostro cervello (essenzialmente
come ci rappresentiamo il mondo) è espresso nel linguaggio che usia-
mo, e prestando particolare attenzione al linguaggio che usiamo possia-
mo influire in modo determinante sul processo neurologico inconscio
dell’ascoltatore.
Sebbene gli autori abbiano studiato il lavoro di molti professionisti
di successo, è singolare come non abbiano studiato l’opera dei neuro-
scienziati per formulare queste idee. Infatti il loro approccio è stato più
di tipo pragmatico: iniziare con i fenomeni osservati che sembravano

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attendibili e poi esporre idee insegnabili basate su ciò che era utile
oppure che sembrava funzionare meglio, invece di cercare di capire
come o perché qualcosa potesse funzionare. L’approccio pragmatico
dei fondatori si è impantanato in una gigantesca industria di teorie idio-
te e di iperboli, impostazioni mentali di tipo evangelico e un’infinità di
corsi perpetui, arrivando al punto di assomigliare a uno schema pirami-
dale, con Bandler assiso sulla sua vetta. (Pare che Grinder abbia una
visione più attenta di cosa costituisca una sana PNL e sembra disprez-
zare ciò che è diventata).
Ho visto Bandler all’opera e mi è apparso indubbiamente straordina-
rio, così come può esserlo uno showman. È contagioso e al contempo
carismatico e antipatico. Si ama il suo mondo e si adora il suo approc-
cio, pur quasi non credendogli. Non è difficile prendere delle persone
da un gruppo di fedeli entusiasti e suggestionabili e far loro vivere
quello che sembra essere un grande cambiamento davanti al pubblico.
Si tratta solo di comprenderne il carisma e la spettacolarità. Sicuramente
eccelle in questi ambiti, e ciò rende difficile dire se sia immensamente
capace oppure se sia un grandissimo, brillante e accattivante farabutto.
Uno degli aspetti che contribuiranno sempre all’immenso fascino
della PNL è che essa avanza delle pretese folli e abbaglianti, come per
esempio poter fare di una persona qualsiasi un genio mediante un pro-
cesso denominato “modellazione”. Anche se lo stesso Bandler potrebbe
dissociarsi da alcune delle pretese esagerate di certi adepti (la maggior
parte dei quali sono suoi discepoli), lui stesso elargisce a piene mani
affermazioni sensazionalistiche su cosa sia possibile ottenere, e ora è
solo una voce tra le tante in un’industria di massa. (Siccome niente

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nella PNL è definitivo e Bandler è un personaggio intrigante ma anche
sfuggente quando si tratta di attribuirgli qualsiasi cosa, sembra oppor-
tuno criticare alcune di queste pretese lì dove vengono avanzate, in
assenza di alternative chiare o anche di un’entità centrale univoca alla
quale fare riferimento). Per “modellarci”, prima dobbiamo individuare
le strategie inconsce della persona che desideriamo emulare, ponendo-
le determinate domande chiave che le faranno rivelare ogni aspetto dei
suoi processi interiori. Normalmente sono cose alle quali la persona
non pensa e che scoprirà da sola, guidata dalle domande. Poi proviamo
quei processi su noi stessi e mediante un processo immaginativo riu-
sciamo a pensare e sentire come la persona dalla quale vogliamo impa-
rare. Assumiamo le sue capacità e le facciamo nostre.
Forse ti sembrerà un tantino complicato, ma probabilmente concor-
derai sul fatto che interessarsi al comportamento delle persone che
rispettiamo e preoccuparsi di scoprire come potremmo imparare dal
loro esempio sia una cosa positiva e meritevole. Sarebbe sensato pen-
sarla così, anche se può accadere che alcuni di noi non vedano i com-
portamenti sotto questa prospettiva. Tendiamo a pensare di essere lega-
ti indissolubilmente alle nostre personalità e ai nostri problemi: c’è
sicuramente molto da imparare dall’auto-aiuto, che ci insegnerebbe a
mettere in pratica nuovi comportamenti liberatori. Però il problema con
la PNL nasce nel momento in cui viene considerata una sorta di magia.
In uno studio, un gruppo ha “modellato” un tiratore scelto, mentre un
altro gruppo è stato addestrato con i metodi tradizionali. A entrambi è
stato concesso il medesimo tempo per l’addestramento ed entrambi
hanno raggiunto le stesse abilità al poligono di tiro. La modellazione

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non si è rivelata uno strumento magico quando è stata impiegata per
queste abilità specifiche e misurabili. Personalmente, ricordo il piacere
che ho provato guardando un allievo di PNL di mia conoscenza mostra-
re i risultati della sua sessione di “modellazione” di un giocoliere. Era
evidente, mentre cercava per la dodicesima volta una pallina colorata
sotto il divano, che non stava imparando più velocemente di quanto
avrebbe fatto se fosse stato istruito in modo più tradizionale.
Ora, le tecniche di modellazione potrebbero rivelarsi più utili con
l’apprendimento di abilità di livello inferiore, meno “insegnabili” (e
meno misurabili) come il carisma, o come affrontare con successo le
sfide, ma questa è un’immagine della modellazione molto più banale di
quella che utilizza la PNL per conquistare le persone. L’immagine che
viene data è che ancora a una certa età si possa diventare un Pavarotti
o un Einstein grazie a un po’ di magica programmazione cerebrale.
Sebbene questa indubbiamente non fosse l’intenzione originale della
tecnica, essa è sicuramente il concetto fuorviante che viene smerciato
al giorno d’oggi. Pretese esagerate come queste, non verificate e inspie-
gabili in un settore in forte espansione che ha effetti sulle vite private e
sul commercio su larga scala sono forse un po’ preoccupanti.
Qui si pone da sé un’altra questione. Non posso scegliere di impara-
re da altre persone senza essere obbligato a chiamare PNL questo pro-
cesso di apprendimento? Non modelliamo noi stessi in base alle perso-
ne o non emuliamo costantemente i nostri mentori? Ovviamente la
risposta è “Sì”. Perché la PNL non ha le sue radici solamente nell’ope-
ra di Bandler e Grinder, ma anche in alcuni aspetti di Freud, di Jung e
di Chomsky, e in tutti i terapisti ai quali si sono ispirati i suoi fondato-

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ri, e siccome utilizza come assunto di partenza ciò che già funziona,
ben poco nelle sue radici è originale. Uno degli atteggiamenti più irri-
tanti dei seguaci della PNL è quello di ritenere PNL qualsiasi cosa
riguardi vagamente l’osservazione consapevole dei processi interiori di
una persona.
Si è tentato di studiare la fondatezza di alcune delle pretese più quan-
tificabili della PNL. Uno di questi insiemi di asserzioni ruota intorno
alle nozioni di “sistema di rappresentazione primario” e di “indicazioni
oculari di accesso”.

La verità degli occhi

Secondo la PNL, noi ci rappresentiamo il mondo in modo visivo, uditivo


o sulla base delle nostre sensazioni (cinestetico). Questi sono “sistemi di
rappresentazione”. Quando pensiamo a qualcosa, ce ne facciamo un’im-
magine nella nostra mente, udiamo qualcosa nella nostra testa, la colle-
ghiamo a una sensazione oppure combiniamo insieme queste possibilità.
Per esempio, immagina che ti venga chiesto se vuoi partecipare a una
conferenza sui puffi alla Royal Albert Hall. Nel secondo che impieghi per
rispondere “Sì”, potresti a) immaginarti i puffi, b) immaginarti la Royal
Albert Hall, c) udire un vago estratto di quello che la conferenza potreb-
be essere, oppure udire te stesso mentre fai quella domandina su Puffetta
che ti ha sempre tormentato, e poi d) controllare le tue emozioni riguardo
ai punti precedenti e notare che sono ottime.

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Molti sostenitori della PNL ritengono che le persone tendano a esse-
re predisposte più verso un sistema di rappresentazione rispetto a un
altro. In altre parole, una persona tenderà a vedere immagini nella pro-
pria testa invece di udire voci, e un’altra preferirà immediatamente
collegarsi alle proprie sensazioni. Per esempio, ci si potrebbe aspettare
che un compositore abbia un sistema di rappresentazione primario di
tipo uditivo, perché è alla sfera sensoriale sonora che è più abituato.
Altri sostenitori della PNL osserverebbero che ciò può essere fuorvian-
te e che è più corretto dire che le persone si spostano continuamente tra
i vari sistemi di rappresentazione primari: quindi il nostro compositore
potrebbe essere “uditivo” quando pensa alla sua musica, ma forse “visi-
vo” quando compra dei vestiti. Questo scenario misto di sistemi di
rappresentazione primari sembra più probabile, sebbene renda super-
fluo il concetto di sistema di rappresentazione primario (e perciò utile
da prevedere).
Perché è importante il sistema di rappresentazione primario? Dunque,
secondo la PNL, se noi riusciamo a conoscere come le persone rappre-
sentano il proprio mondo in un certo momento, questo ci consentirà di
avere un’influenza maggiore. Per esempio, immagina di voler compra-
re un nuovo hi-fi. Quello vecchio ha un brutto aspetto e ne vorresti un
altro, più alla moda. Ti sei fatto una certa immagine del tipo di oggetto
che vuoi. Quindi entri in un negozio e chiedi di vedere dei nuovi hi-fi.
Ti rispondono: “Non li abbiamo: questo è un negozio di alimenti bio-
logici.” Così entri in un negozio di hi-fi e chiedi al commesso, “Sto
cercando un nuovo hi-fi. Posso vederne qualcuno? Ce ne sono alcuni
carini in vetrina.” Il commesso sa quale hi-fi ha ottenuto la recensione

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migliore nelle riviste, quale funziona meglio di tutti gli altri. Perciò ti
dice il nome del modello. Tu gli chiedi com’è fatto, e lui ti dice che ha
un suono impressionante. Ti parla di coni e di tipi di casse, di spinotti
in oro e di dati tecnici. Chiedi di vederlo e lui te lo mostra. Ti parla
ancora della qualità del suono, ma c’è qualcosa che non ti convince. Su
un altro scaffale noti un impianto dall’aspetto fantastico, e ti illumini.
E quello là? Il commesso ti dice che il suo suono non è nemmeno para-
gonabile a quello dell’altro: le casse non hanno le stesse specifiche e la
qualità dell’amplificatore è inferiore. Ti senti confuso e non sai cosa
vuoi. Te ne vai e dici che ci penserai su.
Un commesso che fosse a conoscenza del sistema di rappresentazione
primario avrebbe gestito la faccenda in modo differente. Nell’episodio
citato, il sistema di rappresentazione primario del commesso riguardo
agli hi-fi è chiaramente uditivo: lavora nel settore da troppo tempo per
preoccuparsi dell’aspetto degli stereo. Riesce facilmente a percepire la
differenza di suono tra un buon apparecchio e uno di qualità superiore, e
vuole trasmetterti il suo entusiasmo. Tu però sei principalmente interes-
sato a trovare qualcosa che abbia un aspetto magnifico. Il commesso
avrebbe dovuto capirlo da come gli hai espresso la tua prima domanda.
Stai utilizzando molte parole di tipo visivo. Ti stai guardando intorno in
cerca di un nuovo hi-fi. Vuoi vederne alcuni. Ti piacciono quelli
dall’aspetto carino in vetrina. Siccome però il commesso non si discosta
dal suo sistema di rappresentazione primario, la vendita non va in porto.
Tu ti senti confuso e deluso. Avrebbe dovuto ascoltarti e poi portarti a
vedere degli hi-fi dall’aspetto invitante che lui sapeva dotati di un suono
sufficientemente buono per te, così saresti uscito di lì soddisfatto.

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Le tecniche di vendita mi interessano molto e credo che spesso il clien-
te ti dica con esattezza come vendergli il prodotto. Spesso gli addetti alle
vendite fanno l’errore di mantenere un approccio prefissato, e di norma
non sono abbastanza flessibili da consentire al cliente di indicare la via
più semplice per chiudere la vendita. È interessante notare come la stessa
incapacità di comunicare può avere luogo nelle relazioni. Dopo tutto, si
tratta solo della presenza o dell’assenza di un buon rapporto. Per esem-
pio, una moglie si lamenta del fatto che suo marito non le dice abbastan-
za spesso che la ama. Il marito non può capirlo perché torna a casa con
fiori o regali più spesso di tutti gli altri mariti che conosce. Un modo di
guardare a questo paradosso è notare che le parti sembrano utilizzare un
sistema di rappresentazione primario differente quando si tratta di ciò che
ritengono importante nell’espressione dell’affetto. La moglie potrebbe
avere bisogno di udire parole carine più che vedere fiori o regali, mentre
il marito, più “visivo”, pensa che sia più importante “vedere la prova”
dell’affetto. Sarebbe di grande aiuto se entrambi riuscissero a riconoscer-
ne il valore, così uno o entrambi riuscirebbero a modificare il proprio
comportamento senza sentirsi trascurati. Non è un difetto comune?
Quanti di noi si prendono la briga di capire come si sentano amati quelli
che amiamo? Tendiamo ad agire come noi vorremmo, ma può darsi che
manchiamo di molto il bersaglio6.

6. Ecco una questione importante. Scopri come si sentono apprezzate le persone che ti sono vicine
e poi metti in pratica le loro parole. Oppure chiedi loro come vorrebbero essere ricordate una
volta passate a miglior vita. Ti sveleranno cose meravigliose su come vogliono essere capite, e
conquisterai i loro cuori quando, mesi dopo, dirai loro le parole giuste per esprimere la tua ammi-
razione nei loro confronti. Non c’è motivo per cui ciò debba sembrare falso, è solo un modo per
essere sicuro che la tua sincerità ottenga un risultato reale.

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Fin qui tutto bene. Dall’esempio vediamo che le parole che utilizzia-
mo potrebbero darci degli indizi sul sistema di riferimento (lasciamo
perdere l’aggettivo “primario”) che utilizziamo. Infatti, la PNL afferma
che i nostri predicati sono direttamente connessi con il nostro sistema
di riferimento. In effetti, chi ti dice “Immagino cosa vuoi dire” si espri-
me in modo letterale: sta descrivendo il fatto che è in grado di farsi
un’immagine chiara di ciò di cui stai parlando. Invece le persone che
utilizzano il sistema di riferimento uditivo direbbero qualcosa come
“Mi suona corretto”, e una persona che pensa in modo cinestetico use-
rebbe l’espressione “Sento che è giusto”. Quindi, se vuoi avere un rap-
porto migliore con una persona, ti consiglio di utilizzare il suo stesso
tipo di predicati, in modo da adeguarti al suo sistema di riferimento.
Secondo questa teoria, staresti letteralmente “parlando la sua lingua”.
Anche se tutto ciò parrebbe accettabile entro certi limiti, mi sembra
un argomento da trattare con le pinze. Stiamo per varcare la soglia che
ci porterà nella PNL magica, dove la fede, o la credulità, potrebbe farci
l’occhiolino. I sostenitori della PNL ci dicono anche che è possibile
individuare questi sistemi di rappresentazione primari dai movimenti
oculari di una persona. Fa’ a qualcuno una domanda per cui debba cer-
care una risposta nella sua mente e spesso noterai un movimento dei
suoi occhi. Esso potrebbe consistere in un guizzo laterale prima di tor-
nare a incrociare il tuo sguardo, oppure potrebbe trattarsi di un indugia-
re a mezz’aria come chi si perde in un breve sogno. Presumibilmente
la direzione ti dirà cosa sta accadendo dentro la sua testa. Ecco lo sche-
ma insegnato dalla PNL:

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Lo schema indica il significato dei movimenti oculari come appaiono
guardando una persona posta davanti a te. Anche i più accesi sostenito-
ri della PNL ammetterebbero che lo schema non è applicabile a tutti,
ma che rappresenta piuttosto una regola empirica. Comunque, obiette-
rebbero che qualsiasi sistema possa avere una persona, essa si adatterà
allo schema. Il significato delle abbreviazioni è il seguente:

VC – Immagini VISIVE costruite


UC – Suoni UDITIVI costruiti
C – Sensazioni CINESTETICHE
VR – Immagini VISIVE ricordate
UR – Suoni UDITIVI ricordati
UD – Digitale UDITIVO (dialogo interiore)

Secondo questo modello, guardare dritto davanti a sé è un secondo


indizio del fatto che stia avvenendo un’elaborazione “visiva costruita”.
“Costruito” significa semplicemente che il suono o l’immagine è creata,

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più che recuperata dalla memoria. Quindi, se provi a ricordarti nei parti-
colari la tua cameretta di quando eri bambino (smetti di leggere per un
istante e posa il libro) dovresti scoprire che i tuoi occhi vagano verso
l’alto e lateralmente. Probabilmente verso sinistra, secondo il modello
(immagini visive ricordate). Poi, se immagini l’aspetto che avrebbe il tuo
soggiorno con un arredamento completamente diverso, e pensi davvero
all’aspetto che avrebbe, secondo questo modello dovresti notare che i
tuoi occhi si muovono lateralmente per agevolare la creazione dell’im-
magine (visiva costruita). Allo stesso modo, se adesso ti metti ad ascol-
tare, cercando il suono più lieve che riesci a percepire proveniente
dall’esterno, dovresti scoprire che i tuoi occhi si muovono di lato, allo
stesso livello delle orecchie, e non verso l’alto e lateralmente come nel
caso delle rappresentazioni visive. Questo movimento sembra collegato
alla tendenza naturale a spostare la testa da un lato per udire meglio.
Anche se può sembrarti un po’ esoterico, ritengo che sia doveroso
dire che pare riflettere quello che osserviamo in molti scambi interper-
sonali. Se chiedi a una persona se le farebbe piacere conoscere i tuoi
genitori e questa abbassa lo sguardo per un istante prima di dire “Sì”,
sai che si è sentita insicura per un attimo, ha soppesato alcuni sentimen-
ti indefiniti o che si è chiesta se fosse quello che voleva veramente. Se
poi tu fossi carino come me, potresti anche volerle dire: “Non venire se
non ti va”, avendo notato in lei un lampo di incertezza. D’altra parte,
se alza gli occhi per un secondo prima di accettare, può significare che
ha avuto un pensiero lungo una frazione di secondo ma che non ha
provato sentimenti contrastanti. Quindi, anche se ritengo che la sostan-
za del suddetto schema sia talvolta confermata dalla vita reale, non

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sono certo su quanto sia realmente affidabile o utile. In altri termini,
molto può dipendere dall’osservatore esperto che cerca dei segnali a
conferma delle sue aspettative.
Questa ipotesi sui movimenti oculari è stata spesso oggetto di verifi-
ca da parte degli scienziati e solitamente si è rivelata indimostrabile.
Tuttavia, è difficile sapere se è perché le tesi non sono vere oppure se
sono i test a essere condotti in modo sbagliato; i sostenitori della PNL
naturalmente danno la colpa agli esperimenti. Di norma i test vengono
condotti nel seguente modo. Al soggetto non viene detto qual è l’ogget-
to della ricerca e gli viene posta una serie di domande che secondo lo
scienziato individueranno un processo visivo, uditivo o cinestetico. Per
esempio, lo scienziato potrebbe chiedere una risposta cinestetica –
“Come ti sentiresti se nuotassi nella pastina in brodo?” – e poi osserva-
re il movimento degli occhi. Il problema è che una domanda simile
potrebbe certamente sollecitare innanzitutto una risposta visiva (il sog-
getto si immagina in mezzo alla pastina) ma anche una uditiva (il sog-
getto si ripete la domanda dentro di sé oppure cerca una risposta), che
teoricamente provocherebbe un movimento oculare differente prima di
quello atteso, e cioè quello cinestetico. Anche se il movimento “corret-
to” potrebbe arrivare in un secondo momento, potrebbe non essere
preso in considerazione nei risultati. Senza un esatto protocollo degli
esperimenti è difficilissimo valutarne l’efficacia. Allo stesso modo, se
questi movimenti sono così problematici da verificare per osservatori
che stanno cercando di essere il più oggettivi possibile, si potrebbe
obiettare che difficilmente potranno essere ritenuti attendibili da soste-
nitori della PNL che non stanno facendo questo tentativo. Il mio sospet-

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to è che se il movimento oculare fosse davvero così attendibile come
affermano i sostenitori della PNL, i test rileverebbero molti più risulta-
ti positivi.
Comunque è indubbio che alcune persone sembrano conformarsi ai
modelli dei movimenti oculari con notevole affidabilità, perciò forse è
bene non dimenticare del tutto lo schema. I fan de La Rapina dovrebbe-
ro riguardarsi la sequenza in cui i partecipanti intervistati si ricordano la
lista di parole memorizzate che hanno imparato al seminario. Avevo
insegnato loro il sistema delle correlazioni a immagini, quindi ogni pas-
saggio alla parola successiva si basava su un’immagine mentale bizzar-
ra. Ogni volta, potrai vederli ricordare ogni immagine secondo il model-
lo proposto dalla PNL. È quasi una dimostrazione da libro di testo.
Sono stati anche condotti dei test per vedere se ci sentiamo davvero
più a nostro agio con persone che corrispondono ai nostri sistemi di
rappresentazione. Anche in questo caso, non si è dimostrato che tale
corrispondenza accresca i livelli del rapporto, della fiducia o dell’effi-
cacia. Al contrario, un ricercatore ha scoperto che i terapisti che si
abbinavano meglio al linguaggio dei loro clienti venivano visti come
meno affidabili ed efficaci. Però, senza conoscere esattamente come
sono stati condotti i test, è sempre difficile sapere se e quanti fattori
possano avere contribuito a ottenere determinati risultati. La stessa dif-
ficoltà si riscontra in quasi ogni ricerca nell’ambito delicato delle rela-
zioni interpersonali.
Non dobbiamo però pensare che allora le tesi della PNL non debbano
essere sottoposte a un’attenta verifica – magari anche con la collabora-
zione tra sostenitori della PNL e scienziati, in modo da giungere a una

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procedura sperimentale che accontenti tutti. La PNL è una grande indu-
stria e solo per questo fatto vale la pena di prenderla sul serio, anche se
non è mai stata la “svolta paradigmatica” evocata da Bandler e Grinder.
Il corso a cui mi ero iscritto era molto affollato (quattrocento persone)
ed evangelico nei toni. Mi ricordava molto le chiese pentecostali che
avevo frequentato alcuni anni prima. Anche se in linea di massima mi
era piaciuto e avevo fatto dei progressi in materia, il parallelismo con
la chiesa mi aveva abbastanza disturbato all’epoca. Una tecnica mani-
polativa che avevo ritrovato in entrambi era la mentalità del “ridiamo
di noi stessi”. A volte i guru della PNL o gli estroversi leader delle chie-
se carismatiche salgono sul palco e incitano le loro congregazioni a
farsi una bella risata mentre fanno la parodia degli eccessi più assurdi
dei loro rispettivi palcoscenici, così, mentre tutti ridono, nella sala si
dissolve qualsiasi riserva dettata da un intelligente scetticismo e la
scena è resa sicura e sgombra da ogni dissenso. È vero che altri corsi di
PNL possono evitare simili esagerazioni e trovate teatrali, però tendono
a fare l’errore opposto di impantanarsi nella tecnica. Sia Bandler che
Anthony Robbins vendono la loro merce principalmente come un modo
di pensare, e ovviamente utilizzano l’esagerazione evangelica per ren-
derci il più possibile emotivi e suggestionabili e per assicurarsi che a)
il messaggio arrivi a destinazione e b) noi vogliamo acquistare altri
corsi in futuro.
Nel quinto secolo Avanti Cristo, i sofisti giravano tutta la Grecia e si
guadagnavano da vivere dando consigli su come ottenere il successo
politico. Tenevano conferenze e prendevano con loro i discepoli, facen-
dosi pagare bene. Insegnavano ai giovani politici come persuadere le

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folle a credere quello che loro volevano che credessero. I sofisti si van-
tavano di saper convincere una persona che il nero fosse bianco e di
riuscire a dare risposte soddisfacenti su questioni di cui non sapevano
nulla. Utilizzavano la loro sapiente maestria retorica e le loro metafore
barocche per confondere e zittire i propri avversari, senza preoccuparsi
di cercare la verità. Soddisfacevano il desiderio del pubblico di ottene-
re il successo senza sforzi e senza apprendere nuove conoscenze, sem-
plicemente emulando il successo e la bravura. È una storia vecchia.
Alla fine del mio corso, che durò solo quattro giorni, mi fu rilasciato
il certificato di Praticante. Non dovetti sottopormi a nessun test o
comunque “guadagnarmi” la mia qualifica. Sotto molti aspetti il corso
si proponeva di instillare un’attitudine “positiva” verso il cambiamento
di se stessi o degli altri, quindi qualsiasi sorta di verifica formale sareb-
be stata vista come insopportabilmente banale. Alla fine i quattrocento
e rotti partecipanti, alcuni dei quali erano chiaramente non equilibrati o
perfino esaltati, furono rimessi in libertà dopo una maratona di quattro
giorni, potenzialmente pronti a dichiararsi terapisti e a curare persone
in difficoltà sotto il vessillo della PNL. Ci era stato detto che dopo un
anno avremmo dovuto contattare l’organizzazione e comunicare il
motivo per cui avrebbero dovuto rinnovarci il diploma. Se avessimo
utilizzato la nostra PNL in modo creativo, ci avrebbero spedito un altro
certificato valido un altro anno. Poiché l’aver passato quattro giorni in
compagnia di centinaia di aspiranti esperti di PNL mi aveva fatto pas-
sare definitivamente la voglia di praticarla come professione, non pen-
sai di ricontattare gli organizzatori. Ma dopo un annetto ricevetti una
lettera in cui mi chiedevano di chiamarli per parlare del rilascio di un

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nuovo certificato. Io la ignorai, ma poco dopo ricevetti un’altra comu-
nicazione in cui sostenevano che sarebbero stati felici di inviarmene
comunque uno se mi fossi rifatto vivo. La facilità con cui erano felici
di dispensare i propri certificati mi risultò sospetta, perciò ignorai anco-
ra la loro richiesta. Non molto tempo dopo un indesiderato certificato
nuovo di zecca fu infilato nella mia cassetta della posta, regalandomi la
qualifica di praticante per un altro anno.

STRUMENTI
PER UN CAMBIAMENTO PERSONALE

Rapporto personalizzato
Dunque, ho evitato di far diventare questo libro un manuale di “auto-
aiuto”, come avrebbe preferito il primo editore che si era mostrato inte-
ressato. L’idea mi aveva fatto venire il latte alle ginocchia. Non che
alcuni di loro non siano delle letture apprezzabili ma, parlando franca-
mente, te lo immagini? Un libro di auto-aiuto. Ma neanche per idea.
No. Non chiedermelo nemmeno.
In ogni caso, in questa sezione discuterò alcuni approcci o tecniche
che potrebbero esserti utili. Alcune sono molto nello stile “PNL”. Come
ho accennato, se togliamo dall’equazione della PNL i drogati di corsi e
i loro sorrisetti, le favolette ingannevoli e gli imprenditori ridicoli, e
alcune delle tesi date per scontate che i seguaci della PNL hanno avan-

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zato a tutti i livelli, esistono alcuni strumenti sufficientemente sensati e
alcune tecniche che vale la pena conoscere, purché tu non diventi un
Vero Credente. Mi ricordo di un’intervista fatta a un ipnotizzatore da
un giornalista dell’Observer negli anni Novanta, in cui l’intervistatore
iniziò a percepire che stava accadendo qualcosa di strano. Presto capì
che l’intervistato stava copiando tutti i suoi movimenti. Il resto dell’ar-
ticolo era incentrato su come l’intervistatore avesse trovato strano e
innaturale il suo soggetto, e su come avesse continuato a testare l’ipno-
tista accavallando e scavallando le gambe, muovendo la testa, eccetera,
constatando che ripeteva immediatamente tutti i suoi movimenti. Ciò
che mi piacque in quell’articolo fu che la tecnica impiagata dall’ipno-
tista (il rispecchiamento della postura) è un concetto classico della
PNL, e come molti concetti classici della PNL ha fatto fiasco perché è
stato trasformato in una “tecnica assoluta”.
La maggior parte delle persone, quando stanno bene insieme, si tro-
verà in uno stato di rapport inconscio. Tenderanno a rispecchiare il
linguaggio corporeo dell’altro senza rendersene conto. Per questo si
vedono spesso coppie sedute ai tavoli dei ristoranti con posizioni spe-
culari. Conoscerai il potere di questo fenomeno se ti è mai capitato di
restare seduto fino a tardi a parlare con un amico, e poi uno di voi si
alza dalla sedia. Un attimo dopo l’altra persona si alza a sua volta,
come se desiderasse proseguire il rapport. Per lo stesso motivo esiste
quella strana sensazione che abbiamo provato tutti (anche se non ne
parliamo mai) di sapere quando l’altra persona sta per alzarsi e andar-
sene. Improvvisamente c’è qualcosa nell’aria, un istante, una svolta, e
poi sai che l’altra persona sta per dire che “deve andare”. E se non lo

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dice, hai la sensazione che si stia trattenendo più del dovuto. In questo
caso, hai mantenuto il rapporto così a lungo che l’altra persona sta
seguendo schemi e ritmi mentali simili e percepisce il termine naturale
come lo percepisci tu. Oppure, se ha deciso che sta arrivando il momen-
to di andare, interromperà naturalmente il rapport, introducendo alcuni
cambiamenti inconsci nel linguaggio corporeo che suggeriscano una
pausa, così sentirai che la conversazione sta per terminare.
Alcuni studi eseguiti sul rapport mostrano una serie affascinante di
comportamenti rispecchiati, molto più sottili della postura corporea. Le
persone in rapport tra loro tendono a respirare allo stesso ritmo, ad
adottare le espressioni facciali dell’altro, a battere le palpebre allo stes-
so ritmo e a utilizzare il linguaggio dell’altro. Un rapport può creare
queste cose, ma la domanda è: queste cose possono creare automatica-
mente un rapport? Con la sua passione per la modellazione, la PNL
osserva questi sottoprodotti del rapporto e insegna allo studente come
metterli consciamente in pratica. I partecipanti ai gruppi di lavoro
“calibrano” il proprio respiro e la propria postura in base a quelli degli
altri e adeguano vicendevolmente il proprio linguaggio di rappresenta-
zione. Anche io ho partecipato a questi gruppi di lavoro, ho eseguito
questi esercizi e posso raccontare solo una versione estremizzata di
quello che ha provato l’intervistatore dell’Observer. Una persona che
copia ogni mio movimento non mi mette a mio agio, anzi mi portereb-
be a considerarlo un adulatore servile o un ritardato. Anche se il rispec-
chiamento viene fatto in modo meno grossolano, l’idea che l’utilizzo di
queste tecniche di rapport in una situazione sociale ci garantisca di
apparire piacevoli e affidabili è una stupidaggine. Molti imparano que-

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ste tecniche come dei trucchi magici, come sostituti del vero carisma.
È evidente che qualcosa è andato perso nella traduzione. Quello
dell’Observer era un uomo che insegnava queste tecniche e utilizzan-
dole ha ottenuto l’esatto contrario di ciò che si aspettava. Era risultato
innaturale e strano.
La cosa interessante è che un sostenitore della PNL probabilmente si
farebbe beffe di questo esempio, dicendo che l’ipnotista ha fatto l’erro-
re di usare il rispecchiamento in modo dogmatico come una tecnica
impersonale invece di interiorizzarlo come un’attitudine mentale.
Questa obiezione viene spesso avanzata contro le accuse secondo cui
la PNL trasformerebbe tutto in una “tecnica” magica, la quale ovvia-
mente non dà i risultati sperati. Alcuni praticanti (i più illuminati)
sostengono che queste abilità devono essere inserite in un approccio
generale e non insegnate come un dogma o come metodi speciali
distinti. Potrebbe essere vero, ma allora come è possibile dare l’idea
che esistano abilità di rapport insegnabili? Se quella che mancava era
“l’attitudine” della PNL, ciò non equivale a dire che “egli avrebbe solo
dovuto entrare naturalmente in rapport”, rendendo così superfluo il
concetto dell’apprendimento di abilità modellate?
Se sei abbastanza sveglio da stabilire l’equilibrio in modo naturale,
penso ci sia qualcosa da dire per capire il potere del rispecchiamento.
Per esempio, immagina di essere seduto a un tavolino e di volere che
qualcuno accanto a te, o a un tavolo vicino, si interessi a te. Funziona
meglio quando le persone sono sedute e quindi quando sono in posizio-
ni fisse; è meno utile ai ricevimenti, dove le persone si mischiano.
Essendo abituato a mangiare spesso per conto mio, utilizzavo questa

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tecnica nei ristoranti, oppure occasionalmente alle cene, se c’era qual-
cuno di interessante seduto dove lui o lei potesse vedermi ma non
potesse parlarmi. La impiegavo anche durante le lezioni di legge quan-
do trovavo che l’oratore fosse un po’ noioso, per farlo o farla interessa-
re a me e per tenermi impegnato.
Il gioco sta nel rispecchiare la persona in modo delicato, costante e
marginale, in modo che lei (useremo il pronome femminile, ma non
necessariamente si deve trattare di un’opera di seduzione) percepisca
un collegamento con te senza sapere perché. Tu non le stai parlando e
non la stai nemmeno guardando; puoi guardarla solo con la coda
dell’occhio. Certe volte questo consente di essere abbastanza spavaldi.
A un party, bevi un sorso del tuo drink ogni volta che lei beve dal suo
bicchiere. Rispecchia la sua posizione più che puoi: appoggiati allo
schienale della tua sedia ogni volta che lo fa lei, mettiti le mani dietro
la testa quando lo fa lei, cambia posizione quando la cambia lei. A volte
una copia esatta potrebbe essere troppo ovvia, come ha capito l’inter-
vistatore dell’Observer; quindi, per esempio, se vedi che lei tamburella
con le dita, tu potresti dondolare la mano in una posizione naturale. Fa’
tutto ciò che ti puoi permettere. Nel frattempo potresti essere impegna-
to in una conversazione con una terza persona (che, poverina, non si
sentirebbe molto in contatto con te). Lascia che il tuo corpo si muova e
risponda allo stesso ritmo del suo. Vedila come una danza.
Poi, dopo un po’, puoi controllare se il rapport sta funzionando. Puoi
prendere il comando e vedere se ti segue. Prendi un drink e vedi se ti
copia. Non è una magia e non è difficile; stai semplicemente inviando
dei segnali di uguaglianza in una situazione in cui le persone gradisco-

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no questo tipo di cose. Ti può rendere stranamente attraente, ma non è
assolutamente un grottesco strumento di “seduzione istantanea”. Queste
sono cose inflazionate e hanno una provenienza spiacevole. Non è
diverso dallo stabilire un rapport per entrare in contatto con un impor-
tante socio d’affari a un congresso, prendendo in mano la penna e siste-
mandosi sulla poltrona quando lo fa lui o lei. Semplicemente c’è più
spazio per il divertimento in un’occasione sociale mista, e tu lo stai
facendo senza essere faccia a faccia, il che nasconde il tutto molto
bene. Se sei teso e a disagio distruggerai molto del rapport che stai
instaurando, a meno che non sia tesa e a disagio anche lei.
Molto più probabilmente, se l’hai fatto con fluidità e l’hai calibrato
al punto giusto, in un secondo momento la persona in questione verrà
da te per iniziare una conversazione, sentendo che “sei il suo tipo”.
Inoltre ti aiuta a prestare più attenzione al linguaggio non verbale
comunicato da un’altra persona, che è una valida abilità se si è poi
capaci di reagire con sensibilità.

Giocare con le immagini


Fallo per me. Pensa a un’esperienza che ti fa sentire benissimo, o
malissimo. Qualcosa che ti disturba o ti eccita. Fallo adesso. Qualsiasi
cosa provochi forti emozioni. Positiva o negativa – ma per favore, nien-
te di traumatico.
Quando ti sei fissato su qualcosa e hai sentito il fremito della risposta,
riesamina quello che avevi visto nella tua mente. Sicuramente deve
esserti apparsa una breve sequenza o un’immagine mentale, che ha susci-

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tato quell’emozione. Uno dei principi più sensati della PNL è che il modo
in cui tu rappresenti quest’immagine o questa sequenza influirà sul modo
in cui reagisci emotivamente. Per verificarlo, prova a fare due cose:
prima ingrandisci l’immagine e rendila più luminosa e colorata. Aggiungi
l’audio e trasformala in un’immagine nitida, ad alta definizione. Zoomaci
su. Molto probabilmente questa modifica dell’immagine aumenterà la
tua risposta emotiva. Adesso prova a fare il contrario. Rimpicciolisci
l’immagine e togli i colori. Rendila indistinta e più scura. Se è qualcosa
a cui hai assistito in prima persona, passa la “telecamera” a un’altra per-
sona e osservala da questa nuova prospettiva: vediti dentro l’immagine
invece di osservarla dall’esterno con i tuoi occhi. Allontana l’immagine
in bianco e nero finché non la sentirai distante. In questo modo la tua
risposta emotiva diminuirà fino quasi a sparire del tutto.
Così facendo stai controllando coscientemente le variabili che la tua
mente trova da sé in modo naturale. Non puoi provare emozioni forti
per qualcosa se non te la rappresenti in modo vivido, il che normalmen-
te si traduce in immagini grandi e ravvicinate, viste dalla prospettiva
soggettiva. Allo stesso modo, è difficile eccitarsi per qualcosa a cui
pensi in modo distante e confuso. Paragona quello che vedi nella tua
mente quando pensi a un bel momento passato di recente con una per-
sona – fermati; fallo adesso e nota cosa ti viene in mente – con l’imma-
gine di te che vai a comprare della marmellata con un collega che non
ti interessa particolarmente (adesso fallo). Scommetto che hai visto la
prima immagine dalla tua prospettiva, proprio lì davanti ai tuoi occhi,
chiara, definita e dettagliata. La seconda immagine con la spesa di con-
serve probabilmente includeva te (vale a dire che era vista da una pro-

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spettiva di una terza persona), era vaga e difficile da fissare, magari più
grigia, più piccola e in un certo senso più distante, in qualche modo non
proprio davanti a te come era invece la prima.
Cambiando queste variabili – dimensioni, forma, colore, luminosità
e posizione dell’immagine – puoi giocare molto con le tue modalità di
reazione al suo contenuto. Se, ammettiamo, vuoi sentirti più motivato
per un compito, una buona idea è osservare come ti rappresenti qualco-
sa che ti motiva davvero e poi modificare il compito problematico in
modo da vederlo e sentirlo proprio come quello che ti stimola natural-
mente. Infatti, se riuscirai a rappresentartelo esattamente nello stesso
modo, non potrai non sentire quel fremito di motivazione. È un eserci-
zio affascinante. Può diventare un modo rapido per farti sentire meglio
su tutto. Se qualcosa ti dà fastidio, rimpiccioliscilo, desatura i colori,
allontanalo e spostalo nella prospettiva di un’altra persona; se vuoi sen-
tire più partecipazione, ingrandisci la figura, rendila colorata e vibran-
te, avvicinala e assicurati di osservarla con i tuoi occhi.
Se vedi che apportare queste modifiche non cambia le tue sensazioni,
è probabile che tu non l’abbia fatto correttamente. Per esempio, prendi
l’immagine dell’attività che ti motiva e ti fa sentire bene. Individua
qualcosa in cui ti senti molto motivato e sul quale sei molto concentra-
to. Vuoi utilizzarlo come modello per rendere più eccitante la tua rap-
presentazione interna di un’attività “noiosa”. Se hai delle difficoltà,
scomponi il processo nei seguenti passaggi:

1. Prendi l’immagine “motivata”. Non dovresti avere problemi nel


pensarla. Se non ci riesci bene, scegline un’altra. Fissa l’imma-

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gine in testa, oppure, se è come un filmato, mandalo in loop e
rivedilo alcune volte mentre ti poni le seguenti domande a ri-
guardo:

i. È un filmato o un’immagine fissa?


ii. Ha colori accesi? Desaturati? In bianco e nero?
iii. È vicina a te? È lontana?
iv. Quanto è grande l’immagine?
v. Ti senti dentro, come se ti avvolgesse?
vi. I movimenti sono rapidi o lenti?
vii. L’immagine è davanti a te? La stai osservando dall’alto o
dal basso? Nota la posizione.
viii. Sei nell’immagine o la stai osservando con i tuoi occhi?

2. Adesso osserva l’immagine “demotivata” del compito che vuoi


percepire in modo diverso. Fatti le stesse domande e vedi cosa
c’è di diverso o di uguale nelle due immagini.
3. Ora colloca l’attività “demotivata” o “noiosa” nella posizione
occupata dall’immagine “motivata” e modificala in modo da
osservarla e percepirla come quest’ultima. Non tirarti indietro,
prova a percepirla come l’immagine motivata.
4. Per andare sul sicuro, metti un po’ di “peperoncino” in questa
nuova immagine. Rendila più vivida, aggiungi qualcosa a quel-
lo che hai già messo. A volte può essere divertente immaginare

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un motivo musicale che ne colga lo spirito e aggiungerlo alla
nuova immagine che esplode di vitalità. Potrebbe esserti utile
immaginare una sensazione alle tue spalle che ti spinga nell’im-
magine. Divertiti con queste cosucce e presto capirai come fun-
ziona il tutto.

Finora è andato tutto bene, però adesso devi rendere naturale questo
cambiamento di formato. Siccome tendiamo a fare quello che ci è fami-
liare, la soluzione è dire al cervello di rappresentare l’immagine in
questo nuovo modo più eccitante e non nel primo modo deprimente.
Per farlo puoi ripetere l’azione di spostare l’immagine dalla vecchia
posizione nella nuova e di apportare tutte le modifiche. Inizia proprio
dalla vecchia posizione, con tutte le sue qualità noiose, poi mettila nella
nuova posizione “motivata”, con tutti i suoi colori e le sue vibrazioni.
L’importante è che effettui lo spostamento in un’unica direzione: stai
dicendo al cervello “Non questo… questo!” e non vuoi che si confonda
sulla direzione in cui farlo. Apporta il cambiamento in modo rapido e
deciso, cinque o sei volte, in modo che tu possa sempre partire con
l’immagine nella sua posizione iniziale.
Poi fa’ una verifica. Come ti fa sentire il vecchio compito? A meno
che esistano altri problemi rilevanti da prendere in considerazione,
dovresti notare un miglioramento immediato nella tua reazione al com-
pito, in un modo abbastanza naturale e organico.
Ciò che mi affascina in queste tecniche è che non fanno altro che
ricreare quello che faresti comunque e naturalmente se arrivassi a per-

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cepire il compito in un modo nuovo. Non è necessario che insistiamo
con la PNL o con un altro particolare approccio, perciò possiamo affer-
mare con sicurezza che quello che conta non è una tecnica specifica ma
un’attitudine, l’essere in grado di far ingranare alla nostra mente una
marcia più positiva, pensando in termini di processo e senza impanta-
narci sempre nella gestione o nel contenuto del problema.
Esiste un interessante correlativo fisico di questo processo: cambiare
la propria fisiologia può fare una bella differenza nella propria risposta
emotiva a un pensiero preoccupante. Trova qualcos’altro che ti faccia
sentire male quando ci pensi. Qualcosa che sai non costituirebbe un
problema se tu fossi in grado di sentirti più sicuro nell’affrontarlo.
Pensaci per un po’ e probabilmente noterai che influisce su come stai
seduto: cominci a ricadere su te stesso oppure la testa si inclina legger-
mente. Adesso fa’ in questo modo: alzati, tira indietro le spalle, raddriz-
za la schiena e guarda davanti a te e verso l’alto. Prova a sentirti male
per la stessa cosa. Non ci riesci, non è vero? Operare cambiamenti
fisiologici come questo è spesso un modo semplice e veloce per far sì
che le tue emozioni si adeguino. Se ti servono degli esercizi in più da
fare in palestra, se devi entrare in una stanza piena di gente quando ti
senti asociale, oppure se ti ritrovi a meditare su un problema che ti fa
stare male, prova questi tipi di cambiamenti. Agisci come se ti sentissi
meglio, adottando la relativa postura, e molto spesso noterai che le tue
emozioni si adegueranno.

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La cura delle fobie
Una sera a Bristol, il mio coinquilino ed io restammo seduti a parlare
fino a tardi e giungemmo alla conclusione che sarebbe stato un com-
portamento maturo e responsabile dare il via a una fobia delle taranto-
le su scala locale. Io mi ero laureato da un pezzo e non avevo molto da
fare eccetto esibirmi nella mia occasionale serata di magia e versare i
miei assegni del contributo integrativo per l’alloggio, mentre Simon,
uno studente di filosofia, sembrava non avere proprio niente da fare.
Perciò un paio di notti dopo ci aggiravamo a piedi per le vie buie e
deserte di Clifton Village, sghignazzando compiaciuti mentre attacca-
vamo i nostri annunci agli alberi e ai pali.
“ATTENZIONE!” gridavano le loro grandi lettere nere sopra l’im-
magine fotocopiata di una tarantola dalle zampe gialle. Il manifesto
spiegava che molti esemplari di questa specie erano scappati durante il
loro trasporto allo zoo e si riteneva che si fossero stabiliti nella zona di
Clifton. Sarebbero stati attivi soprattutto di notte, mentre durante il
giorno avrebbero cercato dei luoghi caldi. “Non dovrebbero essere
pericolosi per gli esseri umani adulti, se lasciati indisturbati”, ma qual-
siasi ritrovamento avrebbe dovuto essere comunicato, in quanto si rite-
neva che molti esemplari “avessero delle uova”. In fondo al manifesto
c’era il numero “Tarantallerta” (eh sì!) da chiamare in caso di ritrova-
menti. Avevamo preso il numero sulle Pagine Gialle e si trattava di una
agenzia di assicurazioni di Cardiff. Ne infilammo alcuni nelle serrande
dei giornalai più frequentati, lasciando scritto di mostrarli ai clienti.
Battemmo tutto l’addormentato Clifton Village con i nostri manifesti

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artigianali e infine rientrammo furtivi nel nostro appartamento, riden-
docela ancora come scolaretti.
I due giorni successivi ci diedero una risposta eccellente. La gente ne
parlava per strada e Simon e io ci raccontavamo tutto quello che sentiva-
mo. Scrivemmo una lettera e una notte la recapitammo al nostro frutti-
vendolo preferito, l’impareggiabile Reg the Veg. Era una lettera lunga e
particolareggiata, apparentemente inviata dallo zoo, in cui si sosteneva
che i negozi di frutta e verdura erano classificati come luoghi a rischio
“di classe A”, insieme ai fioristi e ai “centri diurni per bambini”. Elencava
le precauzioni da prendere contro i ragni fuggitivi. Per esempio, tutte le
mattine dovevano controllare ogni frutto per vedere se sotto si nascon-
desse un ragno. Le altre raccomandazioni comprendevano il divieto di
utilizzare l’illuminazione fluorescente l’invito a collocare sul pavimento
dei vasetti aperti di estratto di lievito, in quanto i loro effluvi avrebbero
intontito i ragni, rendendoli più disponibili alla cattura. Va detto che pro-
babilmente il personale del negozio annusò la burla, ma stettero al gioco
e attaccarono la lettera sulla parete, aggiungendo così altra carne al fuoco
nelle chiacchiere imbarazzate del paesino.
Un bel mattino il giornale locale pubblicò l’articolo ARACNOFOBIA
– UNA BUFALA insieme a una condanna da parte delle autorità dello
zoo e alle dichiarazioni sconcertate dell’agenzia assicurativa di Cardiff,
che si vedeva sospettata di essere l’artefice della bravata. Il Televideo
ci era cascato e aveva pubblicato un grande avvertimento contro i
“ragni giganti”. Determinati ad avere l’ultima parola, pensammo di
costruire un ragno e di piazzarlo da qualche parte in paese, in un luogo
visibile ma inaccessibile. Decidemmo che sarebbe stato fabbricato con

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degli scovolini da pipa, perché un semplice ragno finto comprato in un
negozio di giocattoli non sarebbe stato abbastanza divertente. Alla fine
creammo Boris, e a tarda notte lo attaccammo grazie a un plettro per
chitarra di Simon all’interno dell’arco accanto al centro commerciale di
Clifton (e accanto a Reg the Veg), poi lo ricoprimmo con uno spray che
dava l’effetto di una ragnatela.
Il mattino seguente andammo a radunare una folla. Aspettavamo che
un gruppo di persone passasse sotto l’arco, poi facevamo in modo di
superarli passando sotto il ragno; durante queste operazioni, uno di noi
guardava in alto e notava il nostro ragno sospetto. Dopo un po’ e dopo
una serie di false partenze, riuscimmo a radunare un gruppetto di per-
sone sotto l’arco, intento a guardare il nostro ridicolo ammasso di sco-
volini da pipa rannicchiato nell’angolo. Le persone si fermavano e poi
se ne andavano, perciò dopo che la folla si era ricreata alcune volte non
potevamo più essere riconosciuti come quelli che avevano suscitato
l’interesse generale. Alcuni sapevano che la storia era stata riconosciu-
ta ufficialmente come una bufala, ma altri non ne erano sicuri.
Ovviamente noi dicevamo di conoscere gente che aveva visto davvero
i ragni. Ci bastarono poche suggestioni perché la folla creasse la storia
e, credetemi, a un certo punto Boris si era davvero mosso sul muro
durante gli eventi di quel mattino. Ciò fu veramente appagante per noi.
Qualcuno suggerì di contattare il giornale locale, e ovviamente noi lo
incoraggiammo a farlo.
Arrivò un cameraman e chiese ai ragazzi di Reg the Veg se avessero
per caso uno di quei volantini con i ragni, per inserirlo nel servizio.
Gliene diedero volentieri uno e lui riprese la tarantola accovacciata

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qualche metro più in alto. Purtroppo non intervistò nessuno di noi, ma
era accompagnato da una donna tesissima vestita in modo elegante, che
gli parlò per tutto il tempo dietro una cartelletta che le copriva la bocca.
In seguito mi dissero che era una dello zoo, e mi auguro che lo fosse,
anche se sospetto che fosse una giornalista.
Dopo alcune ore in cui restammo lì a ri-raccontare e a esagerare la
storia a ogni nuovo arrivato, uno suggerì che il ragno fosse finto. Gli
ricordammo che prima si era arrampicato sul muro, ma lui non sembra-
va convinto. Impossibilitati a impedirglielo, non potemmo fare altro
che osservarlo salire sullo stesso muro che avevamo scalato noi e dargli
un colpo con un giornale arrotolato. La sua prevedibile immobilità fece
tirare un respiro di sollievo alle persone radunate, e alla fine l’uomo lo
staccò dalla parete con le sue stupide mani.7
Io non ho paura dei ragni, ma li trovo abbastanza sgradevoli. Per
esempio, non vorrei essere rinchiuso in un armadio con una torcia e
migliaia di ragnetti che mi camminano sulla faccia e sugli occhi, mi si
ficcano in bocca e nelle narici. La seguente tattica però, attribuita a

7. Negli anni in cui condividevamo il nostro appartamento, Simon e io ci dilettammo con altre
piacevoli trovate, come quella lettera che inviai a un uomo garrulo e lamentoso che era in
coda davanti a me per prendere l’assegno integrativo per l’alloggio, dopo che mi annotai
il suo nome e indirizzo apparsi sullo schermo dell’impiegata. La lettera conteneva un se-
dicente rapporto sulla qualità della sua casa, ed elencava dei problemi che avrebbe dovuto
risolvere per ottenere un aumento del suo sussidio. Tra di essi spiccavano una critica all’ar-
redamento “fuori moda” del suo ingresso, un cassetto incrinato e sporco nel frigo, degli
aloni lasciati dai vasetti di ketchup nei pensili della cucina e i suoi capelli indesiderati nello
scarico della vasca da bagno. Avrebbe dovuto presentare all’ufficio che rilasciava i sussidi le
prove fotografiche che tali aree erano state bonificate, e io spero veramente che l’abbia fatto.
La faccenda dell’aracnofobia, invece, funzionò alla grande e se qualcuno dei miei lettori di
Bristol potesse essere interessato, credo che il plettro sia ancora incollato sotto l’arco. Se lo
è, e tu sai dove, ti prego di lasciarcelo.

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Bandler, può essere davvero d’aiuto a quanti di voi soffrono di una
fobia dovuta a un incidente avvenuto in giovane età.
I risultati di questo processo dovrebbero apparirvi naturali e casuali, a
parte il fatto che la paura non dovrebbe più sussistere. Io l’ho utilizzato
su di un amico che aveva una paura terribile dei ragni, e fu solo sei mesi
dopo, vedendo un ragno, che verificò se era stato efficace. Mi telefonò
per dirmi che aveva appena fatto uscire un ragno dall’appartamento con
il metodo del bicchiere e della cartolina, e lo aveva colpito il fatto che era
la prima volta che era stato capace di avvicinarsi a uno di essi senza dare
di matto. Ecco cosa si propone di creare questa “cura” contro la fobia:
sostituire in modo naturale e semplice la paura irrazionale e paralizzante,
con una reazione normale, equilibrata e salutare. Dopo tutto, se hai paura
dei cani, non vorrai rimpiazzarla con un amore altrettanto compulsivo nei
loro confronti; vuoi che la tua presenza di spirito sia ancora in grado di
individuare il cane pericoloso, per starne alla larga.
La seguente tecnica può sembrare un po’ strana, perciò fammi spie-
gare su cosa si basa. Può darsi che io abbia paura delle dita (non ce
l’ho) perché quand’ero piccolo mia madre mi chiuse in una scatola
piena di dita (non l’ha mai fatto) e io sono impazzito (non è vero).
Adesso, tutte le volte che vedo delle dita, me la faccio addosso (non me
la faccio addosso). Questo perché la visione delle dita mi riporta in
quello stato emotivo (non mi riporta a un bel niente) e io la “ri-associo”
(io NON la ri-associo) al ricordo precedente (non ne ho). Capisci? La
reazione del mio intestino, che cerca sempre di essermi d’aiuto, è solo
una compensazione eccessiva (non è così). Nel caso della fobia dei cani
(no), potrebbe essere una conseguenza dell’essere stato morso quand’ero

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bambino, puoi bene immaginare, dunque, che la paura viscerale esiste
anche come un meccanismo di difesa eccessivo. Le tue reazioni istinti-
ve cercano sempre di esserti d’aiuto, ma a volte passano il segno. Una
volta capito che stai meglio senza il meccanismo di compensazione
eccessiva, esse sono felicissime di starsene alla larga e di non ritornare
più. Pertanto il seguente processo funziona rendendo difficilissima la
ri-associazione con il ricordo lontano, facendoti sentire distante da esso
a quel livello “reattivo” o inconscio.
Se non hai una vera e propria fobia, utilizza questa tecnica per sba-
razzarti di qualsiasi risposta negativa inutile che provi riguardo a un
brutto ricordo. Non cancellerà il ricordo, ma ti consentirà di avere una
relazione sana con esso. Potresti aver bisogno che qualcuno ti legga ad
alta voce le istruzioni con le pause appropriate, oppure di imparare a
memoria la sequenza di istruzioni prima di metterla in pratica. Per fini-
re, è meglio non utilizzarla (ovviamente) se il tuo stimolo fobico
riguarda il cinema o qualsiasi cosa coinvolta nel processo descritto. Un
ragazzo che ho conosciuto aveva la fobia dei sogni e la visualizzazione
necessaria in questo processo lo metteva a disagio, e rendendo inutile
il tentativo di attuarlo. Oppure trova un posto tranquillo dove metterlo
in pratica per bene e in modo onesto, e spero che lo troverai efficace,
come del resto lo è. Prima di iniziare, vorrei ricordare che la fobia è
reale anche solo immaginando lo stimolo fobico e percependo le sen-
sazioni negative che ne deriva. Tra qualche minuto scoprirai che quelle
sensazioni sono svanite, ma ti sembrerà così naturale che potresti dubi-
tare che il vecchio stimolo ti abbia mai dato fastidio in passato.

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1. Chiudi gli occhi e mettiti comodo. Immagina di essere seduto
in fondo a un cinema. Puoi immaginare un cinema reale che
conosci bene.
2. Tra poco vedrai un film del ricordo che ha prodotto la tua risposta
fobica. Però il film non sarà proiettato come al solito. Si tratta di
un vecchio film in bianco e nero in cui reciti tu, interpretando te
stesso. Il film verrà proiettato in un piccolo rettangolo in mezzo al
grande schermo. Riuscirai a vedere tutto, ma sarà piccolo. Anche
la qualità delle immagini sarà un po’ confusa e slavata, come se
il film fosse vecchissimo. Non ci sarà l’audio, ma al suo posto ci
sarà una colonna sonora. La musica sarà comica, quindi scegli
qualcosa di una serie televisiva che sia intrinsecamente diverten-
te. Benny Hill, The Muppets, Monty Python, eccetera, di solito
funzionano bene. Ricordati inoltre che stai vedendo te stesso nel
film, perciò sarà un modo nuovo di considerare gli eventi.
3. Prima che inizi il film, pensa a una situazione in cui sei stato
bene e ti sei sentito sicuro. Può essere qualsiasi cosa: avere fatto
delle lasagne strepitose oppure essere esperto di una pop star op-
pure essere imbattibile in qualsiasi stramberia ti venga in mente.
Prova quella sensazione confortevole e compiaciuta di potere, e
iniettatela in ogni vena del corpo. Rendila esagerata e nota come
ti fa sentire, lasciando che il tuo corpo la ricordi. Mentre osser-
verai il film, farai in modo che questo sia il tuo stato.
4. Al “Via”, farai partire il film. Non adesso però. Sopra di te c’è la
piccola cabina di proiezione. Se a un certo punto sentirai il biso-

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gno di staccarti dal film, potrai abbandonare il tuo corpo e fluttuare
lassù, dove potrai guardare dall’alto te stesso mentre osservi il film
in fondo al cinema. Il film sarà proiettato dall’inizio alla fine e rac-
conterà tutta la storia del ricordo in un bianco e nero molto vinta-
ge. Alla fine si bloccherà su un fermo-immagine, e se qualcuno ti
starà leggendo le istruzioni, dovrai dirgli che sei arrivato alla fine.
Però tieni gli occhi chiusi. Pronto? Inizia la musica…. Via.
5. Finito? Bene. Adesso lascialo fermo sull’ultimo fotogramma.
Librati in volo dalla tua poltrona ed entra nell’immagine sullo
schermo. Va’ a conoscere te stesso più giovane. Fa’ i complimenti
al tuo io più giovane per essere stato così coraggioso e per esse-
re sopravvissuto a un’esperienza spiacevole, oppure congratulati
per qualsiasi altra cosa ritieni opportuna. Adesso entra nel corpo
del tuo io più giovane, così potrai vedere attraverso i suoi occhi.
6. Anche se ti senti bene alla fine del film, ora aggiungi i colori
all’immagine mentre guardi attraverso gli occhi del tuo io più
giovane. Tra un attimo guarderai l’intero film alla rovescia, alla
massima velocità, con te stesso dentro, osservando tutto dalla tua
prospettiva soggettiva. Anche la colonna sonora verrà riprodotta
alla massima velocità e alla rovescia, ma il riavvolgimento veloce
finirà presto. Quando sarai tornato all’inizio, potrai riaprire gli oc-
chi. Il processo sarà completo allora. Sei pronto? Adesso a colori,
alla rovescia fino all’inizio e in prospettiva soggettiva. Via!
7. Bene. Hai aperto gli occhi? Fantastico. Adesso controlla se ha
funzionato. Pensa ancora una volta al vecchio stimolo fobico.

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Cos’è cambiato adesso? La vecchia risposta è svanita? Ma è
davvero tutto così semplice?

Adesso cosa bisogna fare? La prossima fase è radicare la tua nuova


risposta (“matura” o “utile”) nella realtà e nella memoria, individuando
il vecchio stimolo e notando che puoi sentirti felice e a tuo agio anche
in sua presenza. Se avevi la fobia dei cani e adesso non ti mettono a
disagio, va’ a cercare un cane e abituati a non esserne spaventato.
Questa è una fase molto importante: devi abituarti alla tua nuova rea-
zione (o alla mancanza di una reazione), così da poter sentirla tua, seb-
bene sia ancora abbastanza nuova, piacevole ed eccitante.
Se hai provato la tecnica sopra descritta e non è successo niente, veri-
fica di esserti immedesimato completamente. Se l’hai provata da solo,
fatti leggere i passaggi da qualcuno, perché ti aiuterà davvero a concen-
trarti. L’ho vista funzionare alla grande, ma può dipendere solo dal fatto
che è incredibilmente facile perdere le proprie fobie. Sarebbe bello
vedere questa “cura” a confronto con una cura placebo, così scoprirem-
mo perché funziona. Spero che funzioni con te.

La sicurezza di sé e l’immagine
che proiettiamo
Quando non mi esibisco con i miei trucchetti per guadagnarmi la
pagnotta, dipingo. Forse chi tra di voi nutre un malsano interesse nei
confronti della vita sa cosa intendo. Essendomi dilettato con gli inse-

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gnanti di disegno umoristico ai tempi della scuola, adesso mi piace fare
dei ritratti parzialmente o totalmente caricaturali. È un modo tranquil-
lissimo e rilassante per passare il tempo e mi dà la possibilità di tenermi
aggiornato con gli ultimi annunci pubblicitari di Classic FM.
Una cosa che a volte mi sento dire dalle persone incantevoli alle
quali piacciono i miei dipinti è che in qualche modo sono riuscito a
“catturare” un personaggio esagerandone le caratteristiche. La premes-
sa, che trovo abbastanza interessante, è che le caratteristiche tradiscano
il carattere. Può trattarsi semplicemente di una confusione tra le parole
“caricatura” e “carattere”: nonostante la vaga somiglianza, i due termi-
ni non hanno nessuna relazione etimologica. Sicuramente non esiste
alcuna relazione: “caricatura” deriva dal verbo caricare (perciò un
accrescimento, un’esagerazione di una o più caratteristiche) e non ha
niente a che vedi con il carattere. È più probabile che il fenomeno per
cui il carattere sia espresso attraverso l’esagerazione delle caratteristi-
che sia dovuto unicamente al giusto sorriso o all’espressione corruccia-
ta catturati, ma in entrambi i casi mi piace sapere che siamo pronti a
vedere in profondità, sotto la superficie.
Oscar Wilde parlava della “maschera dietro l’uomo”, intendendo che
la cosa più profonda in noi stessi è l’apparenza che mostriamo al
mondo; le nostre ostentazioni e le nostre evidenti idiosincrasie sono
spesso le cose che contano di più e che ci descrivono meglio. Sulla base
di questo possiamo concordare sul fatto che il mio “io” interiore, al
confronto, sia probabilmente un’insensata speculazione, e certamente
tende a non essere collegato con come mi sto realmente relazionando
al mondo su ogni livello reale. È un concetto enormemente rincuorante

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e liberatorio che è stato ripreso da molti testi di auto-aiuto, e ti incorag-
gia a cambiare i comportamenti in superficie per smuovere le acque
sottostanti.
Una persona di mia conoscenza ha la tendenza ad esprimersi in modo
aggressivo e sgradevole nelle e-mail. Avendone ricevute parecchie ed
essendo la signora in questione l’amica di un amico, le ho parlato per
discutere il problema. Con mia grande sorpresa, ha insistito sul fatto di
non provare alcun rancore e ha imputato le sue spiacevoli comunica-
zioni alle sue “maldestre abilità di scrittura”. Ha affermato di non esse-
re una cattiva persona; si riteneva una persona perfettamente ragione-
vole e naturalmente non avrei dovuto considerare le sue e-mail una
prova della sua malvagità.
Ho pensato che questa sia una situazione degna di interesse. Tutti noi
pensiamo di essere persone ragionevoli. Infatti misuriamo la ragionevo-
lezza degli altri sulla base di noi stessi. Un mio amico che ogni tanto
taccheggia i supermercati ha una sua giustificazione in testa: lui non sta
facendo niente di sbagliato; non sta veramente rubando. È verosimile che
tutti noi riteniamo di possedere i giusti livelli di onestà, fascino, intelli-
genza e gusto; e anche se ci riteniamo terribilmente timidi o insignifican-
ti, rimedieremo sapendo che siamo rispettabilissimi, onesti oppure – e
adesso arriva il bello – interessantissimi quando ci si conosce meglio. Per
quanta modestia usiamo parlando di noi stessi, noi pensiamo di essere del
tutto in regola e giustificati nei nostri comportamenti.
È vero. Riusciamo a vedere le debolezze e i tratti irritanti negli altri,
ma d’altra parte non è forse vero che anche loro pensano di essere asso-
lutamente a posto e ben equilibrati? Perciò sono loro che sbagliano e

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siamo noi ad avere ragione? O forse possiamo vederla in quest’altro
modo. Sono sicuro che tu, nella tua perfezione, a volte parli alle spalle
degli altri. Se tu e l’amico X conoscete un altro amico Y, probabilmen-
te tu e X notate le abitudini negative di Y, e a volte vi sedete a discuter-
ne. È una terapia, in genere innocua e senza intenti malevoli. Però lo
fai. Ora, i tuoi amici fanno lo stesso con te. Questo perché anche tu hai
delle abitudini irritanti che nemmeno sai di avere. Non solo tu e X par-
late di Y, ma tra una settimana anche tu e Y parlerete di X negli stessi
termini; perciò anche X e Y parleranno così di te. Sei solo una delle
tante persone con insicurezze forse evidenti che i tuoi amici psicanalisti
dilettanti si divertono ad analizzare.
Un altro mio amico soffre di un disturbo cutaneo (ti prego di non
pensare che mi accompagno solo a ladri e fenomeni umani) e una volta
mi ha confessato che è imbarazzante avere il suo disturbo. Gli ho chie-
sto perché. Mi ha risposto che le persone lo notano subito e lo trovano
rivoltante. Il punto è che anche se ha evidentemente un eczema, non c’è
niente di rivoltante in esso. Una persona potrebbe pensare “Oh, ha un
eczema” e poi dimenticarsene, o nel mio caso chiedersi come si scriva
esattamente questa parola. Perciò gli ho detto che la sua opinione (ossia
che l’eczema-lui fosse rivoltante) era talmente trascurabile rispetto ai
milioni di opinioni delle persone che incontra (e che non pensano che
l’eczema sia rivoltante) che forse dovrebbe concludere che si sta sba-
gliando. L’errore è semplice: è completamente nel torto. Di esperti che
sanno se la sua pelle sia rivoltante o meno è pieno il resto del mondo;
lui è l’unica persona la cui opinione non abbia nessuna validità. Saremo
noi a dirgli se è imbarazzante o meno. Penso che abbia capito.

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Mi trovo nella situazione in cui le persone che mi riconoscono e
hanno dei brevi incontri con me stabiliscono che tipo di persona io sia
sulla base di quella breve interazione. Deve essere paralizzante per le
persone davvero famose. Cerco sempre di essere super-socievole con
la gente, per evitare il brutto pensiero di poter aver fatto loro una catti-
va impressione. Sapere “come sono davvero” le persone famose è una
fonte comprensibile di fascino: tutti noi siamo interessati a saperlo, non
importa se anche noi ci siamo fatti un certo nome. Una volta, all’inizio
della mia carriera, mi precipitai dentro un bar di Bristol in cerca di una
persona che dovevo incontrare e che non incontrai. Mentre ero all’en-
trata guardai sopra le teste di tutti per individuare i capelli rossi della
mia amica (non avevo problemi con quel colore) e nella mia agitazione
non mi accorsi del fatto che una coppia, mentre usciva, mi aveva aper-
to la porta. Mi ero catapultato dentro senza degnarli di uno sguardo. Me
ne accorsi solo quando ormai era troppo tardi. Mentre uscivano sentii
mormorare il mio nome e: “L’hai visto? Inconcepibile!”. Questa fu la
loro esperienza faccia a faccia con Derren Brown, e se ne andarono
pensando che fossi uno stronzo. Sono sicuro che a loro piace ancora
raccontarlo ad altri quando vengo nominato: “Derren Brown? Sì, l’ho
incontrato una volta. Uno stronzo fatto e finito. Del resto è famoso per
esserlo!”. E potrei anche esserlo stato. Ancora adesso mi fa sentire pic-
colo piccolo. Mi dispiace. Spero che leggano questo libro. Il bar era il
Primrose Café di Bristol. Per favore, leggetelo.
Sempre restando in materia, anche se sto uscendo un po’ dal semina-
to, una cosa simile mi successe mentre ero nell’appartamento di un
amico a Londra, durante le riprese dello speciale Roulette Russa. Era

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all’ultimo piano e c’erano molte rampe di scale da scendere prima di
raggiungere l’ingresso del palazzo. Un mattino dovevano venire a
prendermi per portarmi a quelle interessantissime riprese, e scesi rapi-
damente le scale con il passo veloce di uno che ha quattro piani da fare
e non intende metterci più tempo del necessario. Non sapevo di avere
la patta aperta. Una sistemazione frettolosa dei miei vestiti dalle parti
dei paesi bassi dopo una pisciatina dell’ultimo minuto aveva lasciato
slacciati i miei pantaloni, ma io ero assolutamente inconsapevole della
manifestazione del mio intimo. Peggio ancora, in quel periodo stavo
conducendo degli esperimenti sull’arcana libertà offerta dai boxer, e
quel mattino la mano della Fortuna aveva tastato confusa nel cassetto
della biancheria della Provvidenza e aveva deciso che simili pannicelli
sarebbero stati la mia scelta della giornata in fatto di intimo. Quindi mi
affrettavo ballonzolando giù dalle scale non soltanto con i pantaloni
audacemente slacciati, ma anche con le mie parti intime custodite dai
boxer che premevano per vedere la luce. Mentre scendevo dall’ultima
rampa, udii una chiave nella serratura del portone e incrociai una cop-
pia che stava entrando mentre io uscivo. Rivolsi loro un sereno e cor-
diale “Buongiorno!”, sapendo che avrebbero potuto riconoscermi.
Quella volta fui persino più attento del solito nella mia cortesia. Fu solo
quando uscii nell’aria corroborante di settembre e percepii quasi imme-
diatamente una brezzolina algida in una zona alquanto inconsueta, che
mi accorsi di essere uscito di casa col pisello di fuori. Riflettendoci un
attimo, realizzai che avevo incrociato la coppia nelle medesime condi-
zioni. Non ho idea se l’abbiano notato, e nel tempo ho imparato ad
aggrapparmi alla possibilità che possano avermi superato in tutta fretta

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senza accorgersene, però la paura rimane: “Derren Brown? Sì, l’abbia-
mo visto una volta. Va in giro col pisello di fuori!”. Roba da spararsi.
Il punto è che quello che tu vuoi essere non è quello che sei. Quello
che vuoi comunicare di te stesso non è importante: ciò che importa
veramente è quello che comunichi. La donna che inviava le e-mail ran-
corose era una puttana perché si esprimeva come una puttana. Tutto
qui, e non importa se lei pensa o meno di esserlo “veramente”. Le per-
sone non pensano mai di essere “veramente loro”. La parola “puttana”,
per esempio, si riferisce a come comunichi e interagisci con le persone,
non a una qualche verità sulla tua anima. Se ti abbandonano su un’iso-
la deserta, non puoi essere una “puttana”; è necessaria la comunicazio-
ne con altre persone perché il termine acquisti un significato. Un pen-
siero ricorrente quando abbiamo vent’anni è chiederci in cosa consista
il nostro “vero” io. In realtà anche se è importante avere una qualche
idea di separazione tra un’immagine che proiettiamo a livello sociale e
come possiamo comportarci lontano dalla compagnia o con i nostri
amici intimi, nessuno si aspetta da noi che siamo più reali di chiunque
altro. Siamo sfere ricoperte di specchi, sfaccettate e luccicanti come
quelle nelle discoteche, e irradiamo luce in ogni direzione, perché la
vita è tutta un’immensa discoteca. O qualcosa del genere.
Alla luce di questa consapevolezza, possiamo provare a guardare il
nostro comportamento con un po’ più di oggettività. Forse sei abba-
stanza tiepido in fatto di relazioni sociali e non ti sforzi più di tanto per
conquistare le altre persone quando le conosci. Probabilmente diresti
che ci vuole un po’ per conoscerti e capire chi sei veramente.
Dunque, non c’è niente di così sbagliato in quanto è scritto qui sopra,

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ma tutto questo potrebbe sembrare molto diverso visto da fuori, o da
quella che possiamo considerare la “realtà”. Gli altri potrebbero aspet-
tarsi da te più di uno sforzo a livello sociale, e potrebbero male inter-
pretare la tua timidezza e considerarla piuttosto come disinteresse,
distacco o antipatia. È colpa loro o colpa tua? Potresti dare l’impressio-
ne di non essere particolarmente simpatico, soltanto perché sei un tipo
tranquillo. A una persona tranquilla servono molte abilità supplementa-
ri, arguzia e vero fascino per riuscire a spiccare in una situazione socia-
le. Tutti noi abbiamo ottime qualità che vengono alla luce quando gli
altri ci conoscono realmente, ma anche questo io “reale” ha lo stesso
problema di non essere necessariamente affascinante o piacevole come
riteniamo che dovrebbe essere.
Tutto questo si riduce essenzialmente all’importanza delle abilità
sociali. Sforzarsi di essere lusinghieri o seducenti con le persone non
significa essere falsi. Forse lo è se ti viene chiesta la tua sincera opinio-
ne, che in realtà è tutt’altro che positiva, ma anche in questo caso esi-
stono dei modi efficaci e incoraggianti per rispondere. Di norma, la
mancanza di queste importanti abilità sociali è un sintomo di insicurez-
za, e qui arrivano le buone notizie. La sicurezza può essere falsificata.
Non è reale.
Non penso (e sicuramente è meglio non pensarlo) che la “sicurezza”
esista davvero, più di quanto esista la “motivazione”: se ti senti poco
motivato, pensa che questa parola viene utilizzata solo dalle persone
che dicono di non esserlo. Le persone “motivate” le usano raramente
per descrivere se stesse: semplicemente proseguono nell’eseguire il
compito del momento. La “mancanza di motivazione” è una scusa: è

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un nome che si dà al non svolgere un compito. Dimenticati la motiva-
zione; abituati solo a fare subito le cose. Con la sicurezza, la situazione
è simile: innanzitutto devi comprendere che la sicurezza non esiste
come un dato oggettivo. Una persona isolata non è intrinsecamente
sicura o insicura; lo diventiamo solo quando iniziamo a interagire. Allo
stesso modo, non c’è differenza degna di nota tra una persona che è
“veramente” sicura in una data situazione e una persona che sta sem-
plicemente comportandosi in tal modo. Quindi è utile vedere la sicurez-
za come comportamenti e trucchi che ci fanno apparire in un certo
modo. Perché potremmo voler apparire persone sicure di sé? Perché
entro certi limiti è una qualità incredibilmente affascinante. E può farci
sentire benone. Ovviamente, in quantità eccessiva o insufficiente può
risultare estenuante. Nel momento in cui qualcuno fa una buona impres-
sione in modo naturale, è un enorme sollievo per chiunque incontri.
Quando ti presentano qualcuno, non decidi subito quanto ti piace?
Quanto è piacevole parlare con lui o con lei? Se ti sembra affascinante
e interessante, è un piacevole sollievo. Non è falso o superficiale, sem-
plicemente fa loro piacere essere lì con te.
Adesso ti prego di non pensare nemmeno per un istante che io ti stia
parlando perché sono un esperto di fascino o una persona particolar-
mente sicura di sé. Il mio interesse in questo ambito nasce dal fatto che
non so se dovrei aspettarmi che gli altri mi riconoscano perché mi
hanno visto in televisione. Se sento che potrebbero farlo, cerco sempre
di essere interessante e di lasciarli con una buona impressione di me,
per i motivi che ti ho già esposto. Se però non mostrano in alcun modo
di riconoscermi, suppongo che non mi conoscano e che sia meglio sem-

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brare annoiato e noioso, e anche burbero se è così che mi sento in quel
momento. Sono uscito con delle vere celebrità che sanno benissimo che
entrando in una sala saranno riconosciute da tutti. Perciò riescono a
girare l’interruttore su “on” e a lavorarsi un po’ la sala, stringendo le
mani delle persone con le quali parlano. Sarei ridicolo e presuntuoso se
iniziassi a farlo anch’io. Già mi immagino i “Ma chi si crede di esse-
re?” mormorati in disparte. Comunque, mi sento sempre un po’ in
imbarazzo quando scopro che una commessa che mi stava servendo in
un negozio in un momento in cui io mi sentivo stanco mi ha ricono-
sciuto e che posso averle fatto una brutta impressione. Troppo raramen-
te questa sensazione viene compensata dall’acquisto di cose con un
ragionevole sconto “celebrità”.
Allo stesso modo, come molte signore di una certa età, bizzose e
incontinenti, non amo molto le serate mondane e divento claustrofobi-
co già dopo un’ora in mezzo a tanta gente, a meno che sia tanto fortu-
nato da capitare in una conversazione davvero interessante. Sono sicu-
ro che anche per te è lo stesso – non conosco nessuno che si diverta
davvero alle feste in quanto tali, a parte chi le organizza. Non mi capi-
ta mai di ravvivare l’atmosfera in una compagnia grazie a un compor-
tamento super-brillante. Però ammiro segretamente le persone che lo
fanno. E il punto è che basta davvero poco per passare a uno stato di
sicurezza di sé.
Innanzitutto, qual è l’immagine che hai di te stesso? Andy, il mio
assistente alla sceneggiatura, ha un’abilità straordinaria nel portare
energia, umorismo e carisma praticamente in qualsiasi occasione socia-
le. È notevole. Molto di ciò dipende dall’immagine adulatoria che ha di

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sé e da una sicurezza nei propri confronti portata a livelli altissimi.
Sono rimasto affascinato dallo scoprire che sebbene sia inequivocabil-
mente basso, lui si vede alto. All’opposto, un mio amico alto un metro
e ottantatre che si sente più impacciato in società mi ha raccontato che
si immagina sempre che le persone siano più alte di lui, perciò resta
sempre sorpreso dalle fotografie che lo ritraggono mentre si staglia
sopra le altre teste. In qualche modo, il comportamento quotidiano di
guardare gli altri dall’alto in basso e viceversa è andato perso con que-
sti due ragazzi, a causa delle loro rispettive immagini di sé.
Ci vuole poco per capire che le immagini che abbiamo di noi stessi
siano arbitrarie, e molto più probabilmente derivate dalle nostre insicu-
rezze che dai nostri punti di forza. E cos’è esattamente un’immagine di
sé? Non essendo un concetto astratto, prendiamola per quello che è:
l’immagine che hai nella tua testa quando ti immagini chi sei. Potresti
avere un’immagine predominante alla quale fai riferimento per la mag-
gior parte del tempo, e molti altri modi di vedere te stesso che sono
specifici di determinate situazioni: a casa, tra la gente, al lavoro, ecce-
tera. Adesso scegline un paio; prenditi un attimo per vedere cosa ti
viene in mente quando pensi a te stesso. Chi decide cosa contengono
quei mini-filmati mentali? Probabilmente hai lasciato che si creassero
da soli e molti bit di informazioni inutili sono rimasti lì dentro. Dovresti
prenderti la briga di cambiare il contenuto di quelle immagini?
Il fatto è che dedicare solo pochi minuti a giocare con il contenuto e
l’aspetto di quelle immagini può comportare modifiche significative e
persino eccezionali nella tua vita. Il modo in cui vedi te stesso determi-
na le limitazioni che poni al tuo comportamento. È abbastanza sempli-

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ce. È probabilissimo che chi è capace di smettere di fumare da un gior-
no all’altro, per esempio, sia chi decide di vedersi come un non-fuma-
tore e quindi si comporta in quest’altro modo nuovo ed eccitante senza
preoccuparsi se ogni tanto ci ricasca e non chi invece si accontenta di
“cercare di non fumare” e si accolla una sfida stressante che presuppo-
ne un eventuale fallimento.
Decidi un’immagine di te che ti piace. Dipingiti una tua versione che
sia realistica ma eccitante. Non ha senso immaginarti una tua versione da
super eroe che sia completamente inattendibile, ma assicurati di renderla
davvero affascinante. Adesso, così come osservando una persona puoi
dire che emana sicurezza, assicurati che questa tua immagine sprigioni le
qualità che vorresti avere di più. Progetta questa immagine di te e falla
dettagliata. Osserva questo nuovo “te” che interagisce in nuovi modi che
ti piacciono e che non deve più avere a che fare con le questioni che hai
dovuto affrontare in passato. Crea una buona versione.
Ora che hai i contenuti dell’immagine, devi assicurarti di rappresen-
tartela nel modo più coinvolgente. Devi farti prendere emotivamente
dell’immagine tanto da sbavare, e non vederla soltanto come una foto
lontana. Quindi, ricordandoti come puoi controllare queste immagini
mentali, prova delle combinazioni tra le seguenti possibilità per vedere
quale funziona meglio:

1. Ingrandiscila, come un’immagine su un maxi-schermo di di-


ciotto metri.
2. Fa’ in modo che i colori siano carichi e intensi.

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3. Aumenta la luminosità.
4. Cerca di avvicinarla.
5. Aggiungi del peperoncino. Fa’ in modo che l’immagine esca
dallo schermo, sprizzando vitalità.
6. Aggiungi una colonna sonora. Riproduci mentalmente un tema
musicale o una canzone che ti riempia di fiducia, o che dia
l’emozione appropriata per l’immagine.

Sguazzaci dentro, e aggiungi qualsiasi cosa possa migliorarla. Forse


potrebbero essere utili gli incitamenti di alcuni amici. Immagina delle
figure importanti che restino impressionate da te e lascia che ciò influ-
isca sull’immagine. Quando riuscirai a sentirne il fascino in ogni tua
fibra, prova questo trucchetto. Immagina che l’immagine davanti a te
abbia degli elastici agli angoli, che a loro volta sono ancorati dietro di
te. Poi l’immagine viene allontanata lentamente, e si allunga su questi
elastici. Una volta giunta a una certa distanza, ti sembrerà di avere
un’enorme catapulta puntata contro di te. Tieni l’immagine bloccata lì,
ma tieni presente l’estrema tensione presente in quegli elastici.
Ora metti davanti agli occhi l’immagine di qualcosa che ti ha fatto
sempre sentire insicuro. Immagina qualsiasi cosa che normalmente ti
susciterebbe brutte sensazioni. Non appena inizia ad avvicinarsi stri-
sciando, rimpicciolisci subito l’immagine negativa fino a vederla spari-
re nel nulla, mentre prendi la catapulta e zoomi sull’immagine di te fino
ad averla davanti agli occhi. Lascia che prenda il posto di quella negati-
va e che sostituisca le brutte sensazioni con quelle belle. Nota i cambia-

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menti, poi ripulisci lo schermo, ricolloca l’immagine di te a una certa
distanza e rifai il tutto. Fa’ in modo che il cambiamento avvenga in
un’unica direzione: in altre parole non rimettere l’immagine di te nella
sua posizione iniziale, con il massimo della tensione. Rifallo ogni volta
mettendo l’immagine di te più vicina a dove ti trovi. In questo modo la
tua mente la vedrà scorrere in un’unica direzione, e cioè verso di te.
Ti basterà rifarlo cinque o sei volte e poi vedrai che accadrà automa-
ticamente. Se cercherai di riportare indietro le sensazioni brutte ripen-
sando al vecchio stimolo, sarà veramente difficile. Hai imparato ad
associare naturalmente il vecchi stimolo con la nuova immagine di te.
Ciò può essere molto utile se stai diventando un non-fumatore: crea una
grande immagine di te come non-fumatore e stimolala con l’immagine
di una sigaretta o con qualsiasi altro stimolo sia più potente per te.
Questa è una tecnica della PNL conosciuta come “swish” (o “swish
pattern”), anch’essa creata da Bandler. Sebbene sia molto lontana
dall’essere la soluzione definitiva per un cambiamento personale, potrà
risultarti utile se ti prenderai il disturbo di applicarla come si deve.
Anche in questo caso è più utile avere una persona che ti impartisca le
istruzioni, preferibilmente qualcuno abbastanza energico da aiutarti a
creare e a provare le sensazioni necessarie da applicare alle varie parti
del processo. E non funziona perché è una tecnica speciale, ma perché
imita molto da vicino quello che succederebbe se tu fossi naturalmente
sicuro di te in quella situazione, oppure se semplicemente iniziassi a
viverla bene invece che male. Moltissime persone sono perfettamente
in grado di attuare questi cambiamenti senza ricorrere a una tecnica
specifica. Il valore di metodi come questo, credo, non sta nelle tecniche

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in sé ma nel fatto che esse tendono a sfatare la convinzione diffusa
secondo cui dobbiamo restare “bloccati” in schemi mentali inutili. Una
volta separati dalle tesi esagerate dei sostenitori della PNL, trucchi
come questi possono risultare utili.
Ovviamente diventare maniaci di queste tecniche può condurvi verso
la follia tipica di questa disciplina. Il fascino suscitato dal suo bypassa-
re completamente l’essenza dei problemi e dal suo interesse univoco al
passaggio dal sentirsi male al sentirsi bene può incoraggiare un modo
di vedere le cose disimpegnato e deresponsabilizzato nei confronti
delle proprie azioni. Mi ricordo di come un mio amico, fanatico della
PNL, parlasse a sua figlia, che era arrivata ai ferri corti con lui perché
non la aiutava a gestire “normalmente” alcuni suoi problemi. Lei si
irritava per le sue continue domande relative al processo, mentre vole-
va solo parlare con lui, cercando un po’ di vera comprensione. Gli urla-
va in faccia e puntava il dito su molti degli eccessi frustranti e ridicoli
di cui era colpevole. La sua risposta era, “Bene. Adesso, come fai a
sapere che provi rabbia per questo? Cosa vedi nella tua mente?”. La
colpa era subito attribuita alla “limitazione” di lei, non al comporta-
mento ridicolo di lui. Un altro fanatico della PNL aveva avuto una serie
di relazioni brevi e burrascose, e mi era venuto a dire che dopo l’ultima
separazione aveva fatto un po’ di “lavoro mentale” per tornare a sentir-
si bene e che ora era pronto per incontrare qualcun’altra. Forse un mini-
mo di vera introspezione e di analisi delle cause profonde gli sarebbe
servito di più rispetto a ripetere uno schema sbagliato.
Le tecniche di auto-aiuto possono essere molto gratificanti per qualcu-
no e lapalissiane per altri. Guru come Tony Robbins campano alla grande

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su corsi motivazionali che sono al contempo sorprendenti e inquietanti,
e che si riducono a un ovvio adagio tipico della vecchiaia: procedi a pic-
coli passi. Si tratta di fare o di non fare. Nella vita sociale noi siamo
definiti dalle nostre azioni, non dalle nostre motivazioni; i nostri pensie-
ri o le nostre intenzioni significano poco se non portano all’azione. È
come ci comportiamo, a volte persino quanto ci sforziamo di essere gra-
devoli, che fa la differenza. Un concetto ovvio ma spesso dimenticato.

Confusione e autodifesa
Dovremmo andare tutti insieme a un convegno di magia. Sono eventi
straordinari, al tempo stesso involontariamente isterici e incredibilmen-
te depressivi. Anni fa ero andato a un convegno simile a Llandudno e
stavo tornando a piedi al mio hotel nelle prime ore del mattino. Allora
portavo i capelli lunghi, il pizzetto dell’imperatore Ming e quella sera
indossavo una giacca di velluto, il gilet e un orologio da taschino; pen-
savo di avere un fascino elegante quando in realtà sembravo un viag-
giatore del tempo omosessuale. Mentre mi dirigevo al mio hotel dal
nome inspiegabilmente scozzese, trovai una coppia di giovani che pro-
veniva in senso opposto. Erano entrambi ubriachi e discutevano a voce
alta. Quando capii che mi avrebbero creato dei problemi era troppo
tardi per attraversare la strada e levarmi dai pasticci. Mentre si avvici-
navano, devo aver incrociato lo sguardo del ragazzo (se l’ho fatto è
stato un errore), perché mi resi improvvisamente conto delle terribili
parole “Cosa cavolo guardi?”, che mi urlò a distanza ravvicinatissima
con la forza e la rabbia repressa di un ubriacone gallese molto aggres-

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sivo. Tra l’altro vidi la ragazza tirare dritto per la propria strada e
lasciarci soli.
Normalmente avrei adottato al volo un’antica tecnica del Wing Chun
Kung Fu: di fronte a un’aggressione, stenditi a terra in posizione fetale
e mettiti a piagnucolare, baciando la punta della sua scarpa. Tuttavia,
avendo meditato a lungo sull’utilizzo delle tecniche di confusione per
disarmare gli aggressori, riuscii a mettere in pratica parte della mia
teoria. Queste brevi riflessioni avvennero sullo sfondo di un’immagine
mentale chiara, vivida e dai colori forti della mia persona che giaceva
malmenata e accoltellata in un ammasso straziato sul ciglio della stra-
da. Perciò rilassai il mio corpo, resi la mia faccia amichevole e caloro-
sa e dissi, “Il muro fuori casa mia non è alto un metro e venti.”
Lui si bloccò per un istante: “Cosa?!”.
“Il muro fuori casa mia non è alto un metro e venti. Ma io ho vissuto
in Spagna per un po’ e dovresti vedere che muri hanno laggiù: enormi,
alti fino a qui!” e gli feci un gesto con la mano per mostrargli quanto
fossero alti.
Dopo mi ringrazierete, ma adesso abbiate un attimo di pazienza.
Lui era venuto da me con una quantità enorme di adrenalina e di
forza, e la sua domanda, “Cosa cavolo guardi?”, come qualsiasi altra
domanda intimidatoria, è pensata per metterlo esattamente nella posi-
zione dell’aggressore. Nessuna risposta diretta alla sua domanda può
cambiare questo fatto. La mia risposta sicura e amichevole sui muri è
assolutamente sensata in sé, ma è completamente decontestualizzata.
Questo ragazzo deve capire di cosa sto parlando e per farlo va in con-
fusione. Se gli offrissi altre spiegazioni (parlandogli della Spagna),

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potrebbe ottenere un sollievo dalla sua confusione, ma questo chiari-
mento non arriva. Lui è in posizione di svantaggio, è confuso e non
ha più il controllo della situazione. Sta vivendo un “calo di adrenali-
na” che lo lascia atterrito.
Lo stato di disorientamento in cui si trovava lo avrebbe reso anche
estremamente suggestionabile. L’utilizzo delle tecniche di disorienta-
mento per amplificare la ricettività di una persona alla suggestione è
una manovra classica dei persuasori esperti. Un politico sa che sparan-
do una raffica di statistiche confuse e terminando con un “riassunto”,
gli ascoltatori saranno più propensi a credere all’affermazione finale,
più di quanto avrebbero fatto se l’avesse detta senza prima quel diluvio
di informazioni ridondanti. Talvolta un venditore sa come sovraccari-
care un cliente di informazioni per renderlo più aperto all’indicazione
finale. In effetti, ci viene offerto un sollievo per la confusione e noi
siamo ben felici di fare quello che ci viene detto. Fin quando non ritor-
niamo al nostro normale equilibrio, siamo creta nelle mani del nostro
manipolatore. Il mio piano era quello di rendere quel ragazzo estrema-
mente suggestionabile, in modo da poter indurgli una suggestione del
genere: “Va tutto bene, non so se noterai se è stato il tuo piede destro
oppure quello sinistro che è rimasto bloccato per primo nel terreno, ma
sicuramente riuscirai a liberarti dopo un paio di minuti nei quali cerche-
rai invano di staccare i tuoi piedi, alla fine dei quali scoprirai che si
staccheranno da soli…”. Avrei sovrapposto strati su strati della presup-
posizione che i suoi piedi si sarebbero incollati al terreno come una
forma di sollievo dalla sua confusione, e così sarei riuscito a svignar-
mela mentre lui lottava per liberarsi.

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Tuttavia, per come andò a finire, queste misure non furono necessarie.
Dopo avergli detto dei muri spagnoli, aggiunsi, “Ma qui invece sono
bassissimi! Guarda questi qui!”. E gli indicai un muretto alto tre matto-
ni che girava intorno al giardino accanto a noi. Lui guardò il muro, e
quel suo movimento mi indicò che ero io adesso ad averlo in pugno. Poi
tornò a guardare me, abbastanza abbacchiato, si lasciò uscire dalla bocca
un lungo “Oh, me-e-e-e-erda…” e alla fine crollò con la testa tra le
mani. Con mio grande piacere e mia grandissima sorpresa, iniziò a rac-
contarmi la storia della sua serata; mi ricordo qualcosa sulla sua ragazza
che aveva preso a bottigliate qualcuno a una festa, o qualcosa del gene-
re. Era seduto sul cordolo del marciapiede, sconvolto e distrutto, e io mi
sedetti accanto a lui e restai ad ascoltarlo per un po’, annuendo compas-
sionevole e comprensivo. Quando me ne andai, mi ringraziò.
Fu un evento straordinario, e mi consolò il fatto che la tecnica, ottima
in teoria, si fosse rivelata così efficace anche nella pratica. Quindi te la
offro come qualcosa da tenere sempre presente se ti trovi in una brutta
situazione con un aggressore. Un mio caro amico, James, mi ha raccon-
tato di una brutta esperienza accadutagli su una banchina della metro-
politana, quando lui e il suo amico furono circondati da un gruppo di
ragazzini malintenzionati, che insistevano per farsi consegnare i loro
portafogli e i loro telefoni cellulari. Era un gioco poco chiaro in cui i
ragazzini si comportavano in modo stranamente amichevole ma insi-
stente, come se non ci fosse niente di spiacevole in quello che faceva-
no, ma allo stesso tempo avevano mostrato loro la lama di un coltello.
Era chiaramente un’esperienze frustrante e terrorizzante. Il loro gioco
funziona perché la persona attaccata rimane intrappolata cercando di

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rispondere alle domande dell’aggressore e perde il controllo o la digni-
tà. C’erano molte altre persone sulla banchina, e molte di loro si saran-
no accorte di cosa stava succedendo. Naturalmente non fecero nulla.
Alla fine James tenne duro (anche se il suo amico aveva consegnato i
suoi averi, sfiancato dalle continue richieste) e se ne andò ricevendo un
pugno sulla schiena mentre saliva sul treno, ma da allora, basandomi
sulla mia esperienza di Llandudno, ho pensato a dei modi alternativi di
gestire la situazione.
Per esempio, immagina cosa sarebbe successo se James e il suo amico
avessero risposto in modo molto diverso. Invece di farsi invischiare nella
situazione, se James se ne fosse uscito allegramente con un: “Alle ele-
mentari avevo un astuccio che assomigliava a una calcolatrice ma che in
realtà non lo era, era solo un astuccio. Ci credete che la preside mi disse
che non potevo portarlo a scuola solo perché sembrava una calcolatrice?
Non era una calcolatrice, non calcolava un bel niente!”.8 Ovviamente la
risposta del capo del branco non sarebbe stata: “È stato ridicolo da parte
sua, ma tu dammi i tuoi soldi!”. Lui e il gruppo sarebbero rimasti disar-
mati, proprio come il mio aggressore per strada, senza sapere cosa dire.
Quello che avrebbero capito sarebbe stato che il loro gioco intimidatorio
non funzionava con quel tipo. Cosa sarebbe successo se James fosse
andato avanti con “Ci faceva cantare questa canzoncina stupida tutte le
mattine e io la odiavo… Massì, com’era?” e poi si fosse lanciato in una
canzone? Se avesse cantato ad alta voce e avesse messo in estremo imba-
razzo la gang (per non parlare di James)?

8. Sì, è un ricordo vero della scuola primaria.

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Si spera che non sia necessario arrivare al punto di cantare, ma la
logica è semplice. Con naturalezza e in modo innocuo puoi bypassare
la loro intimidazione facendo il tuo gioco incompatibile. Con un tono
allegro di voce e con dei modi che facciano loro capire esattamente
quello che stai dicendo, non verrai intimidito né li sfiderai. Ti suggeri-
rei di tenere a mente i testi criptici di alcune canzoni, pronti per essere
recitati, oppure qualcosa di chiaro in testa che ti senta di poter utilizza-
re allo scopo. Sono sicuro che accadrà l’occasione sfortunata in cui il
livello di aggressione da parte di un assalitore sarà così avventato che
questa tecnica potrebbe risultare eccessiva, però è un modo attuabilis-
simo per cavartela nella maggior parte di interazioni di questo tipo.

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