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REGIONE CAMPANIA

Assesorato all'Ambiente autorità di bacino


nord occidentale

Piano Stralcio per l'Assetto Idrogeologico

dell'Autorità di Bacino Nord Occidentale della Campania


Aggiornamento anno 2010
Nord Occidentale della Campania - Napoli - 2009
Autorità di Bacino
c

Il Piano Stralcio per l'Assetto Idrogeologico (PAI) è stato redatto alla scala 1:5000 su Cartografia Tecnica Regionale (ed. 2004 - 2005)

GRUPPO DI PROGETTO

Responsabili scientifici Coordinamento generale di progetto

prof. ing. Michele Di Natale (conv. 04/2007) arch. Paolo Tolentino

prof. geol. Roberto de Riso (conv. 03/2007)


Autorità di Bacino Nord Occidentale della Campania
geol. Stefania Coraggio

Consulenza giuridica ing. Luigi Iodice


ing. Pasquale Laezza
avv. Angelo Marzocchella (Avvocatura Regionale)
arch. Pietro Paolo Picone
geol. Antonella Riccio

geol. Assunta Maria Santangelo

SUPPORTO SCIENTIFICO

CIRIAM - Centro Interdipartimentale di Ricerca in Ingegneria DIGA - Dipartimento di Ingegneria Idraulica Geotecnica ed Ambientale

Ambientale della Seconda Università degli Studi di Napoli (conv. 02/2007) dell'Università degli Studi di Napoli Federico II (conv. 01/2007)

responsabili: responsabile: prof. geol. Domenico Calcaterra


prof. ing. Corrado Gisonni, prof. ing. Alessandro Mandolini coordinatore: prof. geol. Antonio Santo

collaboratori convenzionati dal CIRIAM collaboratori convenzionati dal DIGA

ing. Agostino Santillo geol. Melania De Falco

ing. Luca Cristiano geol. Sossio Del Prete

ing. Diego Di Martire arch. Maria De Rosa

ing. Anna Di Mauro geol. Giuseppe Di Crescenzo

arch. Valeriano Pesce geol. Luca Di Iorio

ing. Eleonora Quaranta geol. Vittorio Emanuele Iervolino

ing. Liberata Tufano geol. Biagio Palma

geol. Marcello Rotella

società convenzionate dal CIRIAM:

Tecnorilievi s.r.l. per il rilievo topografico

Idrogeo s.r.l. per l'indagine geotecnica

IL SEGRETARIO GENERALE

dott. Giuseppe Catenacci

RELAZIONE GENERALE
SOMMARIO

PREMESSA.........................................................................................................................2
1. INTRODUZIONE ...........................................................................................................3
1.1 Gli Enti Territoriali interessati....................................................................................................... 6
1.2 Il quadro normativo di riferimento ................................................................................................ 7
1.3 Gli obiettivi e le finalità del Piano ............................................................................................... 13
2. LA COSTRUZIONE DEL SITEMA DELLE CONOSCENZE .......................................15
2.2 Idrografia.................................................................................................................................... 16
2.3 Aspetti geologici e geomorfologici ............................................................................................. 17
2.4 Aspetti socioeconomici e uso del suolo ..................................................................................... 20
2.5 Caratteri generali del paesaggio................................................................................................ 23
2.6 Strutturazione storica del territorio............................................................................................. 25
3. IL RISCHIO..................................................................................................................27
3.1 Definizione di rischio .................................................................................................................. 28
4. LA PERICOLOSITA’ ...................................................................................................33
4.1 Valutazione della pericolosità dei fenomeni franosi................................................................... 33
4.2 Il modello geometrico del corso d’acqua ................................................................................... 48
4.3 La modellazione idraulica .......................................................................................................... 48
5. IL VALORE ESPOSTO ...............................................................................................68
6. VULNERABILITA’ E DANNO .....................................................................................71
7. LA GESTIONE DEL RISCHIO ....................................................................................73
8. LA VALUTAZIONE DEL DANNO ..............................................................................76
9. GLI INTERVENTI ........................................................................................................87
10. L’ATTUAZIONE DEL PIANO ......................................................................................92
11. MANUTENZIONE DEL PIANO ...................................................................................95

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PREMESSA

L’aggiornamento del Piano di Assetto Idrogeologico rappresenta, per questa Autorità di


Bacino, la scelta strategica del modello di pianificazione ricercata attraverso un continua
verifica, monitoraggio, manutenzione del proprio sistema delle conoscenze. Tale strategia
si è tradotta in un progetto di manutenzione territoriale riconducibile sia agli aspetti legati
alla migliore comprensione delle criticità ambientali espresse da un sempre più diffuso
dissesto idrogeologico, sia a quelli legati a un progetto complessivo di assetto territoriale.
La filosofia di approccio alla problematica dell’assetto e della sicurezza idrogeologica si
ritrova nella stessa natura “ordinaria” dell’Autorità di Bacino che risulta coerente con il
concetto della sostenibilità delle politiche di vincolo e trasformazione territoriale.
Tale indirizzo complessivo si pone in antitesi alla pratica dell’emergenza e della
straordinarietà degli interventi che al di là dell’impegno economico esorbitante si
dimostrano fallimentari per la non riproducibilità di un modello che risulta non coerente
agli indirizzi di sostenibilità ambientale e allo sviluppo culturale della protezione integrata
del territorio. Queste esperienze passate ci hanno indotto a ricercare un modello di
intervento che possa coniugare l’assetto idrogeologico del territorio con la sostenibilità
ambientale delle azioni di Piano finalizzate a una forte politica territoriale per la gestione
del rischio idrogeologico.
Questa linea di indirizzo deriva dalla conoscenza della diffusa fragilità del nostro
territorio e dagli indirizzi di natura comunitaria che prevedono che le azioni della pubblica
amministrazione siano strutturate in modo da privilegiare la tutela degli aspetti di carattere
ambientale.
Per tali ragioni questo Piano nel rispondere al mandato istituzionale che prevede
l’aggiornamento delle conoscenze delle criticità di carattere idrogeologico, nuovi studi di
carattere tecnico–scientifico, l’aggiornamento cartografico, l’individuazione di modelli di
studio per gli approfondimenti successivi in aree ad elevata complessità idrogeologica,
vuole delineare una generale politica di trasformazione territoriale da coniugarsi con il
concetto di manutenzione territoriale per la gestione del rischio idrogeologico.
In sintesi l’articolazione dell’assetto del territorio che viene di volta in volta richiamato
nella normativa di attuazione e negli elaborati di Piano fa riferimento ancora una volta in
prima battuta ad un grande opera di manutenzione del territorio finalizzata al ripristino ed
al recupero del sistema idrografico naturale e artificiale. Sono quindi ipotizzabili, a scala di
bacino, solo alcuni interventi di manutenzione straordinaria finalizzati alla mitigazione del
rischio idraulico che possano prevedere in luogo dei diffusi fenomeni di esondazione non
controllata un contesto di interventi ed azioni per garantire un controllo ed un disciplina di
tali fenomeni in equilibrio con la salvaguardia ambientale del territorio.
Un altro importante indirizzo normativo del Piano, che peraltro ripropone in sintesi
tematiche normative regionali e nazionali (D.Lgs. 152/2006 e L.R. 16/2004), prevede che
la pianificazione urbanistica recepisca direttamente i contenuti del Piano di Assetto
Idrogeologico ed in particolare possa prevedere: azioni finalizzate all’abbattimento dei
manufatti che non risultino legittimi dal punto di vista edilizio ed urbanistico;
individuazione di infrastrutture e manufatti da ricollocare fuori dalle aree a rischio (art. 67
comma 6 del D.Lgs. 152/2006); adozione di strumenti urbanistici che prevedano la piena
compatibilità della pianificazione comunale attraverso piani di prevenzione del rischio
idrogeologico (art. 23 comma 9 della L.R. 16/2004); Piani di emergenza finalizzati alle
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azioni di protezione civile del territorio interessato dai fenomeni di dissesto idrogeologico
(art. 67 comma 5 del D.Lgs. 152/2006).
Proprio per la redazione del Piano di emergenza questa Autorità di Bacino ha inteso
elaborare una cartografia del “Rischio finalizzato alle azioni di protezione Civile” e uno
studio per la strumentazione di un sito pilota con finalità early-warning, in modo da
individuare direttamente i manufatti e le infrastrutture esposti al rischio idrogeologico che
siano soggetti a possibile perdita di vite umane o di danno grave alle stesse e predisporre le
necessarie azioni per la mitigazione del rischio. Questo Piano di emergenza assume, in
coerenza con quanto sopra illustrato, valore di indirizzo per l’ assetto idrogeologico inteso
come quadro strategico degli interventi strutturali e non che, con la verifica della
procedibilità economica e tempistica, diventino uno strumento di pianificazione per la
mitigazione del rischio. Tale Piano può avere concreta attuazione solo attraverso la crescita
culturale delle comunità locali che assumano come valore la protezione del territorio e la
salvaguardia della vita umana.

1. INTRODUZIONE

Il Piano per l’Assetto Idrogeologico è un documento programmatorio che si propone di


prevedere (valutazione ex ante) scenari di rischio e di associare ad essi limitazioni nell’uso
del suolo e tipologie di interventi, strutturali e non, finalizzati alla mitigazione dei danni
(valutazione ex ante causa-effetto).
Il Piano non è un documento “statico” in quanto il territorio evolve nel tempo, per
cause naturali ed antropiche, e, di conseguenza, si modificano le condizioni di rischio
idrogeologico. Il processo di pianificazione deve pertanto seguire le fasi di un processo
dinamico e a tale scopo deve caratterizzarsi per un continuo aggiornamento delle ipotesi di
previsione.

L’Autorità di Bacino Nord-Occidentale della Campania, con delibera del Comitato


Istituzionale n.11 del 10 maggio 2002, adottò il Piano Stralcio per l’Assetto Idrogeologico
(denominato nel seguito PAI 2002) redatto ai sensi della legge 183/89 sulla Difesa del
Suolo e successive integrazioni.
Nella elaborazione del PAI 2002 l’analisi territoriale venne condotta a un livello di
approfondimento di gran lunga superiore da quanto previsto dalla normativa. In particolare
furono svolti:
- studi e allestimento di cartografia in scala 1: 5.000, di carattere geologico-
geomorfologico estesi alle aree perimetrate ad alto rischio ed alta attenzione (circa
500 Kmq) con approfondimenti mediante una campagna di indagini in situ (prove
penetrometriche, pozzetti, trincee esplorative e sondaggi) finalizzati alla redazione
della carta della suscettibilità e del rischio di frane;
- rilievi topografici delle aste fluviali per circa 300 Km lineari;
- ricognizioni speditive del reticolo idrografico;
- studio idrologico finalizzato alla elaborazione di un modello afflussi-deflussi in
grado di stimare le portate di piena con prefissati periodi di ritorno che possono
verificarsi in una generica sezione idrica;

3
- studio idraulico finalizzato alla individuazione delle capacità di convogliamento
dei diversi tratti d’alveo nelle loro condizioni attuali ed alla individuazione
dell’estensione delle aree di allagamento, nei tratti soggetti ad esondazione, per i
periodi di ritorno prefissati;
- elaborazione di cartografia tematica relativamente a: carta dell’uso del suolo, carta
della copertura vegetale; carta della permeabilità, carta della zonazione sismica,
carta dei fattori climatici, carta dell’indice di erosione, carta della densità del
drenaggio, carta dell’acclività dei versanti, carta dell’esposizione, ecc.;
- sviluppo ed implementazione di un Sistema Informativo Territoriale attraverso
l’uso di tecnologie GIS;
- costruzione di una norma tecnica attuativa del Piano.

La versione 2002 del PAI già prevedeva una azione di “Manutenzione del Piano” in
relazione a:
- studi specifici corredati da indagini ed elementi informativi a scala di maggior
dettaglio prodotti da pubbliche amministrazioni;
- nuovi eventi idrogeologici da cui venga modificato il quadro della pericolosità
idrogeologica;
- nuove emergenze ambientali;
- significative modificazioni di tipo agrario-forestale sui versanti o incendi su grandi
estensioni boschive;
- realizzazione da parte di un Ente locale di un intervento di mitigazione
(regolarmente collaudato) nel rispetto delle norme vigenti e delle norme di Piano;
- acquisizione di nuove conoscenze in campo scientifico e tecnologico, o storiche,
provenienti da studi o dai risultati delle attività di monitoraggio del piano;
- variazione significativa delle condizioni di rischio o di pericolo derivanti da azioni
ed interventi non strutturali e strutturali di messa in sicurezza delle aree
interessate.

Alla luce delle precedenti considerazioni, L’Autorità di Bacino, con delibera n. 8 del 21
dicembre 2006 ha avviato una attività di aggiornamento del Piano Stralcio per l’Assetto
Idrogeologico.
Per lo svolgimento delle attività tecnico-scientifiche connesse a tale attività, l’Autorità
si è avvalsa della collaborazione del:
- CIRIAM (Centro Interdipartimentale di Ricerca in Ingegneria Ambientale) della
Seconda Università di Napoli, per gli aspetti idraulici;
- DIGA (Dipartimento di Ingegneria Geotecnica e Ambientale) della Università di
Napoli Federico II.
Gli studi ed i rilievi svolti hanno consentito di pervenire ad un aggiornamento della
cartografia tematica del Piano ed in particolare delle carte di pericolosità e di rischio
idraulico e geologico.
La carenza delle risorse economiche disponibili non ha purtroppo consentito alla
Autorità di Bacino di estendere le attività di rilievo e di studio a tutti i numerosi casi critici
presenti nel territorio del Bacino nord-occidentale della Campania. Pertanto, anche se i
risultati raggiunti sono da considerarsi molto significativi, la fase di revisione del PAI
2002 non comprende alcune aree di pericolosità che riguardano, in particolare, una parte
degli alvei vesuviani e una parte delle aree interessate da fenomeni di alluvionamento
4
(presenza di flussi iperconcentrati). Dette aree restano perimetrate allo stato attuale solo
come suscettibili di allagamento, nel primo caso, e su base esclusivamente geomorfologica
nel secondo.. Per tali casi, che necessitano di rilievi topografici, geologoci e geotecnici di
dettaglio, è stata tuttavia predisposta una adeguata relazione metodologica che può
agevolare lo sviluppo di studi ed indagini successive.

Un elemento innovato della nuova versione del PAI è rappresentato dalla introduzione
del moderno concetto di “early warning” applicato al caso dei rischio idrogeologico. A tal
fine nella documentazione prodotta viene presentata, in via esemplificativa, una
applicazione delle tecniche di protezione idraulica in termini di “allerta idrogeologica”. In
particolare viene presentato un modello per la gestione delle informazioni di una rete di
monitoraggio e per l’elaborazione dei dati, in grado di fornire elementi quantitativi sulla
pericolosità di un evento nei primi momenti di accadimento e in tempo utile per assumere
misure precauzionali.

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IL PAI 2010
Il PAI 2010, che segue il PAI 2002, ne rappresenta un aggiornamento ed un
approfondimento.
Le attività dell’ aggiornamento hanno riguardato in particolare i seguenti punti:

a. per la cartografia di base:

- l’adeguamento cartografico degli elaborati di Piano mediante l’utilizzo della nuova


cartografia tecnica regionale ed. 2004/2005.

b. per gli aspetti idraulici:


- la revisione dello studio idrologico;
- il rilievo topografico di dettaglio di alcuni alvei e delle opere di mitigazione del
rischio idraulico realizzati sugli stessi dopo il 2002;
- l’applicazione di un nuovo modello di calcolo per la stima delle aree soggette a
fenomeni di esondazione, tenendo sempre conto della presenza di nuove strutture
eseguite;
- lo studio dei fenomeni di invasione da flussi iperconcentrati in alcuni dei valloni
soggetti a pericolosità da colata di fango, considerando anche le opere di
mitigazione realizzate;
- la predisposizione di un documento tecnico che illustra le metodologie di analisi
utilizzate e rappresenta un riferimento da adottare per l’elaborazione degli studi di
compatibilità idraulica necessari per la redazione di ulteriori studi per la
riperimetrazione delle aree rischio e per la valutazione del rischio residuo a seguito
della realizzazione di nuove opere di mitigazione.

c. per la valutazione del valore esposto:


- l’aggiornamento puntuale, effettuata sulla nuova cartografia regionale, degli
elementi utili alla definizione dei valori esposti sul territorio ha permesso un
approfondimento indispensabile per la successiva definizione del rischio

1.1 Gli Enti Territoriali interessati

L’area oggetto del Piano è totalmente ricompresa nella regione Campania ed in essa
sono presenti territori amministrati dalle Provincie di Napoli , Avellino, Benevento (per
una piccola porzione di territorio) e Caserta.

I Comuni interessati dal Piano Stralcio sono: Acerra; Afragola; Airola; Arienzo;
Arpaia; Arzano; Avella; Aversa; Bacoli; Baiano; Barano d'Ischia; Brusciano; Caivano;
Calvizzano; Camposanto; Cancello Arnone; Capodrise; Carbonara di Nola; Cardito;
Carinaro; Casagiove; Casal di Principe; Casalnuovo di Napoli; Casaluce; Casamarciano;
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Casamicciola Terme; Casandrino; Casapesenna; Casapulla; Casavatore; Caserta; Caloria;
Castel Volturno; Castello di Cisterna; Cercola; Cervino; Cesa; Cicciano; Cimatile;
Comiziano; Crispano; Curti; Domicella; Durazzano; Forchia; Forio d'Ischia;
Frattamaggiore; Frattaminore; Frignano; Giugliano in Campania; Gricignano d'Aversa;
Grumo Nevano; Ischia; Lacco Ameno; Lauro; Liveri; Lusciano; Macerata Campania;
Maddaloni; Marano di Napoli; Marcianise; Mariglianella; Marigliano; Marzano di Nola;
Massa di Somma; Melito di Napoli; Mercogliano; Moiano; Monte di Procida; Monteforte
Irpino; Moschiano; Mugnano del Cardinale; Mugnano di Napoli; Napoli; Nola; Orta di
Atella; Ottaviano; Pago del Vallo di Lauro; Palma Campania; Pannarano; Paolisi; Parete;
Pollena Trocchia; Pomigliano d'Arco; Portico di Caserta; Pozzuoli; Procida; Quadrelle;
Qualiano; Quarto; Quindici; Recale; Roccarainola; Rotondi; S. Anastasia; S. Antimo; S.
Arpino; S. Cipriano d'Aversa; S. Felice a Cancello; S. Gennaro Vesuviano; S. Marcellino;
S. Marco Evangelista; S. Maria a Vico; S. Maria Capua Vetere; S. Maria La Fossa; S.
Nicola La Strada; S. Paolo Belsito; S. Sebastiano al Vesuvio; S. Tammaro; S. Vitaliano;
Sant.Agata dei Goti; Saviano; Scosciano; Serrara Fontana; Siringano; Somma Vesuviana;
Sperone; Succivo; Summonte; Taurano; Teverola; Trentola Ducenta; Tufino; Valle di
Maddaloni; Villa Di Briano; Villa Literno; Villaricca ; Visciano; Volla;

Le Comunità Montane sono: Montedonico-Tribucco Roccarainola (NA), Serinese


Solofrana (AV), Valle di Lauro Baianese (AV).
I Consorzio di Bonifica sono: Paludi di Napoli e Volla (NA), Conca di Agnano (NA),
Bacino Inferiore del Volturno (CE), Alto Calore (AV), Agro Sarnese Nocerino (AV).

BACINO NORD-OCCIDENTALE DELLA CAMPANIA


Categoria REGIONALE
Regioni interessate CAMPANIA
Superficie (Kmq) 1500 Kmq circa
Popolazione 3.000.000 ab. Circa
Provincie 4 (Napoli, Avellino, Benevento e Caserta)
Comuni interesssati 127
Regi Lagni, alveo Quarto, Camaldoli,
Corsi d’acqua principali Alveo Pollena e Volla
(e relativi reticoli idrografici)

1.2 Il quadro normativo di riferimento

PRINCIPI GENERALI
Considerato che la materia della “tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni
culturali” rientra nelle competenze esclusive dello Stato ex art. 117, 2 comma, lett. s),
mentre la “.. protezione civile e il governo del territorio..” costituiscono materie di
legislazione concorrente a mente del 3 comma dello stesso art. 117 Cost., detta esigenza
ha postulato la necessità di premettere alla formulazione delle norme tecniche di

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attuazione del PAI una verifica aggiornata delle fonti normative di riferimento a tutti i
livelli e competenze.
La tutela idrogeologica, secondo la giurisprudenza costituzionale, ha un ambito di
intervento complesso, riguardando una pluralità di materie, tra le quali, in particolare, la
«tutela dell'ambiente», ricompresa nella materia di competenza esclusiva statale (art. 117,
comma 2, rispettivamente, lettera s, Cost.), nonché la «tutela della salute e protezione
civile» nonchè il «governo del territorio», tutte di competenza regionale concorrente (art.
117, comma 3, Cost.).
Al riguardo, tenuto conto che, a mente del D.P.R. n. 616 del 1977, la difesa suolo deve
considerarsi tra le materie di competenza regionale (quale branca concorrente e
complementare con l'urbanistica) (cfr. Corte Cost. n. 418/92), nel precedente assetto
costituzionale -entro il quale era nata la legge n. 183 del 1989, poi abrogata dal T.U.
sull’ambiente- trovava naturale luogo anche la legge regionale della Campania 7 febbraio
1994 n. 8 (Norme in materia di difesa del suolo - attuazione della legge 18 maggio 1989,
n. 183 e successive modificazioni ed integrazioni").
Quest’ultima legge regionale deve ora, invece, considerarsi recessiva sia in materia
ambientale (dove la competenza è esclusivamente statale per quanto innanzi precisato),
sia in materia di difesa suolo, dove, non essendo stata emanata una nuova legge regionale
dopo l’entrata in vigore dei nuovi principi generali introdotti nella parte terza del D.Lgs.
152/06, è superata in parte qua dalle disposizioni di legge statale successive (prevalenti in
virtù del cd. “principio di cedevolezza” come suggellato dall’Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato con la decisione n. 2/08).
Tuttavia, la giurisprudenza costituzionale non ha mancato di osservare che, data la
complessità dei rapporti tra le fonti in oggetto, non potendosi considerare nessuna delle
descritte materie nettamente prevalente sulle altre, si impone l'applicazione del principio
di leale collaborazione per dirimere eventuali conflitti di attribuzione (cfr. Corte Cost.
sent. nn. 211 del 2006, 144 e 378 del 2007 e 168 del 2008).
Il che ha reso doveroso un’attenta analisi alla luce dei principi informatori delle
rispettive materie, tenuto conto dell’indirizzo del giudice delle leggi secondo cui la
potestà di disciplinare l'ambiente nella sua interezza è stata affidata, in riferimento al
riparto delle competenze tra Stato e regioni, in via esclusiva allo Stato, dall'art. 117
comma 2 lett. s) Cost., e perciò, pur se l'ambiente costituisce una "materia trasversale", e
cioè una materia nella quale insistono interessi diversi - quello alla conservazione
dell'ambiente e quelli inerenti alle sue utilizzazioni -, la disciplina unitaria del bene
complessivo ambiente, rimessa in via esclusiva allo Stato, prevale su quella dettata dalle
regioni o dalle province autonome, in materie di competenza propria, ed in riferimento ad
altri interessi, operando come un limite alla disciplina regionale o provinciale che non può
in alcun modo derogare o peggiorare il livello di tutela ambientale stabilito dallo Stato. E
ciò vale anche nel caso in cui vengano in considerazione le competenze delle regioni
speciali o delle province autonome, dovendosi peraltro, in tali casi, tener conto degli
statuti speciali di autonomia, alla luce del criterio per il quale tutto ciò che gli statuti non
riservano all'ente di autonomia resta attribuito alla competenza dello Stato, salvo quanto
stabilito dall'art. 10 l. cost. n. 3 del 2001 (cfr. Corte Cost. sent. n. 378 del 2007).

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CARATTERI DEL P.A.I. E RAPPORTI CON LA PIANIFICAZIONE
URBANISTICA REGIONALE E TERRITORIALE

L’esigenza di coordinare le materie e le norme in esse ricomprese si traduce in un fatto


concreto in riferimento alla portata derogatoria delle norme dei piani di bacino e dei piani
stralcio, che di essi rappresentano una costola, rispetto alla pianificazione urbanistica ai
vari livelli territoriali.
Al riguardo va rammentato che la Corte Costituzionale era già intervenuta (sent. n. 524
del 2002), dichiarando l'illegittimità costituzionale dell'art. 1 bis comma 5, del d.l. n. 279
del 2000, poiché la disposizione considerata, attribuendo alle determinazioni assunte in
sede di Comitato istituzionale delle Autorità di bacino - di rilievo nazionale - il valore di
variante agli strumenti urbanistici, veniva a porsi in contrasto con le competenze regionali
in materia di pianificazione urbanistica.
Il legislatore – aggiunge la Consulta - aveva del resto previsto la possibilità di
introdurre misure di salvaguardia o inibitorie e cautelative (art. 17, commi 6-bis e 6-ter,
della citata legge n. 183 del 1989), ed un obbligo generale per le autorità competenti di
adeguare i piani territoriali e i programmi regionali nei vari settori.
Inoltre - precisa il Giudice delle leggi -già sussisteva un obbligo specifico delle regioni
di emanare le necessarie disposizioni per l'attuazione del piano di bacino nel settore
urbanistico entro un termine assai contenuto, decorso il quale scattava il dovere degli enti
territorialmente interessati di rispettare le prescrizioni nel settore urbanistico, con poteri
sostitutivi regionali (art. 17, commi 4 e 6, della legge n. 183 del 1989). In argomento, la
Consulta si rifaceva ad un proprio precedente (cfr. sent. n. 206 del 2001), con il quale
venne dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 25 comma 2 lett. g) del d.lg. n. 112
del 1998, nella parte in cui prevedeva che, ove la conferenza di servizi registri un accordo
sulla variazione dello strumento urbanistico, la determinazione costituisce proposta di
variante sulla quale si pronuncia definitivamente il consiglio comunale, anche quando vi
sia il dissenso della regione, con conseguente lesione della sua competenza in materia
urbanistica.
Deve, altresì, rammentarsi che, sempre in tempi antecedenti la riforma del Titolo V
della Costituzione (l. 3 del 2001), la Consulta (cfr. Corte Cost. sent. n. 85 del 1990),
dichiarando infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Regione
Veneto e dalle province autonome di Trento e Bolzano circa gli artt. 17 e 18 della l. n. 183
del 1989, aveva affermato sui rapporti tra pianificazione di bacino e competenze
legislative regionali in materia di assetto del territorio, precisando che i piani di bacino
non rientrano nella disciplina urbanistica (di competenza regionale o provinciale), ma
sono piani che pongono vincoli e limiti immediatamente obbligatori per le
amministrazioni competenti (statali e regionali), le quali sono tenute ad osservarli e ad
operare di conseguenza.
La problematica è stata, perciò, risolta dal legislatore nazionale, nel solco della più
recente giurisprudenza costituzionale, con la disciplina generale introdotta nel D.lgs. 152
del 2006 (art. 65 e ss.) (Testo unico sull’ambiente) nel senso che le Regioni e gli enti
territoriali devono adeguare la propria strumentazione urbanistica alle disposizioni del
piano stralcio a pena, in mancanza, dell’esercizio del potere sostitutivo del Ministero ivi
codificato.
La complessa articolazione legislativa, in cui il Piano Stralcio si è venuto a trovare, ha
perciò messo in conto di ponderare se esso fosse o non soggetto anche alla valutazione

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ambientale strategica (VAS), cui, secondo il diritto comunitario (direttiva 42/01/CE del 27
giugno 2001) e la stessa legge regionale n. 16 del 2004, vanno sottoposti tutti gli
strumenti di settore aventi ad oggetto il governo del territorio.
La questione è stata risolta, alla luce, della suddetta prevalenza della materia dello
ambiente e della difesa suolo nel caso della tutela idrogeologica sulla disciplina
concorrente del governo del territorio, facendo leva sul dato positivo dell’art. 68, 1
comma, del d.lg. 3 aprile 2006 n. 152 laddove stabilisce espressamente che “… I progetti
di piano stralcio per la tutela dal rischio idrogeologico, di cui al comma 1 dell'art. 67,
non sono sottoposti a valutazione ambientale strategica (VAS) e sono adottati con le
modalità di cui all'art. 66.. ”.
La disposizione richiamata dell’art. 67, 1 comma, del decreto Matteoli, a sua volta,
sancisce che “…Nelle more dell'approvazione dei piani di bacino, le Autorità di bacino
adottano, ai sensi dell'art. 65, comma 8, piani stralcio di distretto per l'assetto
idrogeologico (PAI), che contengano in particolare l'individuazione delle aree a rischio
idrogeologico, la perimetrazione delle aree da sottoporre a misure di salvaguardia e la
determinazione delle misure medesime...”.

COMPETENZE DELL’AUTORITA’ DI BACINO


Poste tali premesse generali, sul piano esecutivo l’analisi normativa si è doverosamente
concentrata sulla potestà attuale dell’Autorità di Bacino.
Infatti, con la prima stesura del decreto Matteoli sull’Ambiente (T.U. d.lg. 3 aprile
2006 n. 152), il legislatore statale [v. art. 63, comma 3, (Le autorità di bacino previste
dalla legge 18 maggio 1989, n. 183, sono soppresse a far data dal 30 aprile 2006 e le
relative funzioni sono esercitate dalle Autorità di bacino distrettuale)], nel quadro dei
principi generali in soggetta materia, aveva addirittura ritenuto di abrogare, tra l’altro,
anche le autorità di Bacino regionali di cui alla vecchia legge 183 del 1989 (v. art. 175,
comma, 1 lett. l).
Ciò rientrava all’interno di un più ampio progetto di riordino delle competenze (v. artt.
54 e ss. del D.lg. 152/06) che trasferiva su un piano nazionale esigenze di vigilanza
territoriale mediante l’istituzione in ciascun distretto idrografico dell'Autorità di bacino
distrettuale, quale ente pubblico non economico che informa la propria attività a criteri di
efficienza, efficacia, economicità e pubblicità.
Lo stesso legislatore statale, tenuto conto tuttavia della natura concorrente della
materia in questione (art. 117, 1 comma, Cost.) e del principio di sussidiarietà (cui si
ispira lo stesso decreto Matteoli), è tornato sui suoi passi provvedendo con l’art. 170,
comma 2 bis del medesimo decreto n. 152 del 2006, come modificato dall'articolo 1,
comma 3 del D.Lgs. 8 novembre 2006 n. 284, a disporre che le Autorità di bacino,
soppresse espressamente dall'articolo 63, comma 3 del D.Lgs. 152 del 2006, sono
prorogate fino alla data di entrata in vigore del decreto che definisca la disciplina dei
distretti idrografici. Deve, altresì, tenersi presente che con D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 112
erano state devolute alle regioni e agli enti locali tutte le funzioni amministrative inerenti
alla materia delle risorse idriche e della difesa del suolo, ad eccezione di quelle
espressamente mantenute allo Stato.

10
FINALITA’ DEL PAI E FUNZIONE ATTUATIVA DEI LIVELLI DI
PROTEZIONE NELL’AMBITO DELLE COMPETENZE DI PROTEZIONE
CIVILE E TUTELA DEL TERROTORIO

La funzione dell’Autorità di Bacino si è incentrata sulla perimetrazione e classificazine


degli indici di rischio nelle diverse zone indicate nella cartografia, stilata da ultimo dalla
Regione Campania nel 2004.
Premessa la definizione del Piano Stralcio come “.. strumento conoscitivo, normativo e
tecnico-operativo mediante il quale sono pianificate e programmate le azioni, le norme
d’uso del suolo e gli interventi riguardanti l’assetto idrogeologico del territorio.. ” la
finalità, alla cui realizzazione si è indirizzata l’attività di normazione, è stata quella di
conferire un testo chiaro e più dettagliato agli operatori degli enti locali che si troveranno
ad applicare il piano sulla base della cartografia.
Il PAI, redatto in ottica essenzialmente conservativa, si pone l’obiettivo di
salvaguardare le risorse ambientali in funzione del principio di sviluppo sostenibile e di
tutela antropica.
Esso, organizzando il territorio – in chiave geomorfologia – nel senso di circoscrivere
la implementazione dell’azione umana, intende prevenirne un uso non coerente ed
antitetico con la dinamica degli elementi naturali, imponendo massivamente la
mitigazione del rischio idrogeologico e la delocalizzazione degli insediamenti e manufatti
incompatibili, soprattutto in zona di rischio R3-R4.
Il rapporto con gli enti locali è stato, perciò, posto al centro dell’attenzione sia con
riferimento alla intersezione tra pianificazione territoriale e normativa del PAI, per quanto
innanzi detto, nonchè in riferimento all’esigenza capillare di repressione del fenomeno
dell’abusivismo edilizio, sia con riferimento alla responsabilità dei Comuni nelle funzioni
di protezione civile, sia, infine, con riferimento alla necessità di reperire e gestire i fondi
disponibili a tali fini.
Tolta la funzione di pianificazione dell’Autorità di Bacino, l’attuazione pratica del PAI
spetta ai diversi organi della Protezione civile a livello nazionale e territoriale.
E' opportuno rammentare che l'art. 107, comma 1, lettere b) e c), del suddetto D.lgs. 31
marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle
regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59), a sua
volta, chiarisce che le funzioni di protezione civile e difesa suolo, di cui alla legge n. 225
del 1992, hanno rilievo nazionale, escludendo che il riconoscimento di poteri straordinari
e derogatori della legislazione vigente possa avvenire da parte di una legge regionale.
Di talchè, il potere di ordinanza del Governo in materia di protezione civile, di cui
all'art. 5 l. n. 225 del 1992, che richiama l'art. 2 comma 1 lett. c) della stessa legge,
riguarda le sole ipotesi di eventi straordinari, mentre il potere di ordinanza del Presidente
della Giunta concerne gli eventi calamitosi che possono essere fronteggiati con
l'intervento di più enti o amministrazioni competenti in via ordinaria, ai sensi dell'art. 2
comma 1 lett. b) l. n. 225 del 1992, sicché deve escludersi in radice la possibilità di
invasione di competenze della protezione civile ai vari livelli.
La funzione di concreta attuazione del PAI si è tradotta in primo luogo nella necessità
di indurre gli enti locali ad adeguare la propria strumentazione urbanistica alle cogenti
norme del piano stralcio ed a redigere i piani di protezione civile previsti dalla l. 225/92;
in secondo luogo nella finalità di indirizzare la destinazione dei fondi disponibili in tal
senso, in ambito di mitigazione del rischio più alto, alla delocalizzazione ed alla

11
predisposizione di adeguate misure di prevenzione, idonee alla concreta realizzazione
dietro la previsione di studi di fattibilità.
In mancanza si è codificata la facoltà per l’autorità di Bacino di sollecitare il potere
sostitutivo degli organi centrali di governo e regionali, secondo quanto previsto dallo
stesso D.lg. 152/065 e dalla L.R. 8/94, nonché facendo leva sul potere sostitutivo
generalmente consentito alle autorità gerarchicamente sovrapposte.
Infatti è oramai principio insito nell’ordinamento quello per cui lo Stato esercita il
potere sostitutivo ai sensi dell'art. 120 Cost. dietro specifica verifica della sussistenza dei
presupposti sostanziali contemplati nella norma costituzionale, nonché sul rispetto delle
condizioni procedimentali previste dall'art. 8 l. 5 giugno 2003 n. 131, alla quale si è fatto
richiamo nelle NTA del PAI.

12
1.3 Gli obiettivi e le finalità del Piano

Il PAI 2010 del Bacino nord occidentale della Campania, nello spirito della L.183/89 e
s.m.i., evidenzia come la pianificazione non debba limitarsi alla sola “messa in sicurezza”
del territorio ma debba rivolgersi anche alla “conservazione” ed al “recupero” della
naturalità dei luoghi e dei processi in atto, ha le seguenti finalità:
- la sistemazione, la conservazione ed il recupero del suolo nei bacini idrografici ,
con interventi idrogeologici, idraulici, idraulico-forestali, idraulico-agrari
compatibili con i criteri di recupero naturalistico;
- la difesa ed il consolidamento dei versanti e delle aree instabili, nonché la difesa
degli abitati e delle infrastrutture contro i movimenti franosi e gli altri fenomeni di
dissesto;
- il riordino del vincolo idrogeologico;
- la difesa, la sistemazione e la regolazione dei corsi d’acqua;
- la moderazione delle piene, anche mediante, vasche di laminazione, casse di
espansione, scaricatori, scolmatori, diversivi o altro, per la difesa dalle inondazioni
e dagli allagamenti;
- lo svolgimento funzionale dei servizi di polizia idraulica, di piena e di pronto
intervento idraulico, nonché della gestione degli impianti;
- la manutenzione ordinaria e straordinaria delle opere e degli impianti nel settore e
la conservazione dei beni;
- la disciplina delle attività estrattive, al fine di prevenire il dissesto del territorio,
inclusi l’abbassamento e l’erosione degli alvei e delle coste;
- la regolamentazione dei territori interessati dagli interventi ai fini della loro tutela
ambientale, anche mediante la determinazione dei criteri per la salvaguardia e la
conservazione delle aree demaniali e la costituzione di parchi e di aree protette;
- l’attività di prevenzione e di allerta svolta dagli enti periferici operanti sul
territorio.

- In previsione del perseguimento delle finalità sopra enunciate, il PAI disciplina:


- le azioni riguardanti la difesa idrogeologica e della rete idrografica del bacino
nord-occidentale della Campania, nei limiti territoriali di competenza dell’Autorità
di Bacino;
- le norme riguardanti le fasce fluviali di rispetto e la programmazione degli
interventi

Il PAI 2010 persegue l’obiettivo di garantire al territorio del Bacino Nord-Occidentale


della Campania un livello di sicurezza adeguato rispetto ai fenomeni di dissesto idraulico e
idrogeologico, attraverso il ripristino degli equilibri idrogeologici e ambientali, il recupero
degli ambiti idraulici e del sistema delle acque, la programmazione degli usi del suolo ai
fini della difesa, della stabilizzazione e del consolidamento dei terreni.

Le finalità richiamate sono perseguite mediante:


- la definizione del quadro del rischio idraulico e idrogeologico in relazione ai
fenomeni di dissesto evidenziati;
- l’adeguamento della strumentazione urbanistico-territoriale;

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- la costituzione di vincoli, di prescrizioni, di incentivi e di destinazioni d’uso del
suolo in relazione al diverso grado di rischio;
- l’individuazione di interventi finalizzati al recupero naturalistico ed ambientale,
nonché alla tutela e al recupero dei valori monumentali ed ambientali presenti e/o la
riqualificazione delle aree degradate;
- l’individuazione di interventi su infrastrutture e manufatti di ogni tipo, anche
edilizi, che determinino rischi idrogeologici, anche con finalità di rilocalizzazione;
- la sistemazione dei versanti e delle aree instabili a protezione degli abitati e delle
infrastrutture adottando modalità di intervento che privilegiano la conservazione e
il recupero delle caratteristiche naturali del terreno;
- la difesa e la regolazione dei corsi d’acqua, con specifica attenzione alla
valorizzazione della naturalità dei bacini idrografici;
- la definizione delle esigenze di manutenzione, completamento ed integrazione dei
sistemi di difesa esistenti in funzione del grado di sicurezza compatibile e del loro
livello di efficienza ed efficacia;
- la definizione di nuovi sistemi di difesa, ad integrazione di quelli esistenti, con
funzioni di controllo dell’evoluzione dei fenomeni di dissesto, in relazione al grado
di sicurezza da conseguire;
- il monitoraggio dello stato dei dissesti.

I Programmi e i Piani nazionali, regionali e degli Enti locali di sviluppo economico, di


uso del suolo e di tutela ambientale, devono essere coordinati con il Piano. Di conseguenza
le Autorità competenti, con apposita Conferenza Programmatica da indire ai sensi del
comma 3 art. 1-bis della legge 365/2000, provvedono ad adeguare gli atti di pianificazione
e di programmazione territoriale alle prescrizioni del Piano che una volta adottato entro il
31 ottobre 2001 diventano immediatamente operativi in variante agli strumenti di
pianificazione territoriale vigenti.
Allorché il Piano, riguardante l’assetto della rete idrografica e dei versanti, detta
disposizioni di indirizzo o vincolanti per le aree interessate dall’antecedente Piano
Straordinario le previsioni del piano stralcio abrogano e sostituiscono le discipline previste
per detto Piano Straordinario.
Sono fatte salve in ogni caso le disposizioni più restrittive di quelle previste nelle norme
del Piano, contenute nella legislazione statale in materia di beni culturali e ambientali e di
aree naturali protette, negli strumenti di pianificazione territoriale di livello regionale,
provinciale e comunale ovvero in altri piani di tutela del territorio ivi compresi i Piani
Paesistici.
Le previsioni e le prescrizioni del Piano hanno valore a tempo indeterminato. Esse sono
verificate almeno ogni 2 anni in relazione allo stato di realizzazione delle opere
programmate e al variare della situazione morfologica, ecologica e territoriale dei luoghi
ed all’approfondimento degli studi conoscitivi.
L’aggiornamento degli elaborati del Piano è operato con deliberazione del Comitato
Istituzionale sentiti i soggetti interessati.

14
2. LA COSTRUZIONE DEL SITEMA DELLE CONOSCENZE

2.1 Caratteristiche del territorio


Il bacino nord-occidentale della Campania, che si estende per circa 1500 kmq,
comprende 127 comuni, per un totale di circa 3 milioni di abitanti, e risulta essere
costituito dai seguenti bacini idrografici:

- Regi Lagni
- Alveo Camaldoli
- Campi Flegrei
- Volla
- Bacini delle Isole Ischia e Procida

Il territorio si estende su di una vasta area regionale che gravita intorno ai golfi di
Napoli e Pozzuoli ed è delimitata, ad ovest, dal litorale domitio fino al confine con il
Bacino Nazionale Liri-Garigliano-Volturno, e si protende verso est nell’area casertana,
rientrando nel tenimento della provincia di Napoli, ove include parte del Nolano fino alle
falde settentrionali del Vesuvio.
A nord comprende le aree prossime al tratto terminale del fiume Volturno; a sud ovest si
sviluppano i bacini dei Regi Lagni, del Lago Patria e quello dell’alveo dei Camaldoli.
A sud, fino al mare, il territorio comprende l’area vulcanica dei Campi Flegrei, che si
affaccia sul golfo di Pozzuoli; al largo di quest’ultimo si trovano le isole di Procida e di
Ischia (anch’esse di competenza dell’Autorità di Bacino nord occidentale della Campania).
Nella zona orientale ricadono il bacino dei Regi Lagni, i torrenti vesuviani e la piana di
Volla. Quest’ultima costituisce la valle del fiume Sebeto originariamente paludosa e tra-
sformata, in seguito, da interventi antropici di bonifica, in zona agricola fertile.
I bacini sopra menzionati sono caratterizzati da aree colanti modeste e da un reticolo
idrografico a regime tipicamente torrentizio. Le zone montane e pedemontane presentano
pendenze medie talvolta elevate ed incisioni profonde con un elevato trasporto solido verso
valle. Le zone vallive si sviluppano in aree originariamente paludose in cui la difficoltà di
smaltimento delle acque zenitali è stata migliorata con interventi di bonifica.
In concomitanza con i fenomeni di piena si verificano condizioni di allagamento con
gravi danni alle colture e al patrimonio, sia per insufficienza della rete dei colatori che per
insufficienza delle sezioni idriche.
Tra i bacini della Campania, quello nord-occidentale è caratterizzato dal più alto indice
di edificazione e dal più alto rapporto popolazione/territorio e attività produttive/ territorio.
L’intervento antropico, volto generalmente proprio ad uno sviluppo produttivo del
territorio, ha talvolta contribuito, per carenza di programmazione, ad un aggravio del
dissesto territoriale, creando situazioni conflittuali tra i centri insediativi e infrastrutture di
trasporto da una parte e corsi d’acqua dall’altra. Ad esempio, l’urbanizzazione, spingendosi
fino ai margini dei corsi d’acqua, ha reso pericolose le esondazioni una volta considerate
innocue ed ha causato il costante depauperamento qualitativo delle acque stesse, dovuto
allo smaltimento dei rifiuti e all’emungimento sempre più spinto delle falde.

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2.2 Idrografia

Nell’ambito territoriale in esame possono essere individuati i seguenti bacini


idrografici:
‚ bacino dei Regi Lagni: delimitato a nord dall’argine sinistro del fiume Volturno e dai
monti Tifatini, a sud dai Campi Flegrei e dal massiccio Somma-Vesuvio e ad est
dalle pendici dei monti Avella, sottende una superficie di circa 1300 kmq che, dal
punto di vista morfologico, può essere suddivisa in un’area montana e pedemontana,
dell’estensione di circa 550 kmq, caratterizzata da pendici piuttosto acclivi (i
sottobacini di maggiore interesse sono quelli del torrente Boscofangone, del Gaudo,
del Quindici, del lagno di Somma, di Spirito Santo, di Avella), e da una zona di
pianura, estesa cir-ca 750 kmq, caratterizzata dalla presenza del canale dei Regi
Lagni, di lunghezza di circa 55 km, che costituisce in pratica l’unico recapito delle
acque meteoriche provenienti dalle campagne attraversate e dalla maggior parte dei
comuni presenti nell’area;
‚ bacino del Lago Patria: il lago, che ha un’estensione di circa 200 ha e profondità
modesta (non superiore al-l’incirca a 1.50 m), sottende un bacino di circa 120 kmq.
Gli afflussi al lago provengono essenzialmente dallo scarico della centrale idrovora
Patria, dai canali Vico Patra - Cavone Amore, dal Canale Vessa e da alcune sorgenti;
‚ bacino dell’alveo dei Camaldoli: l’alveo dei Camaldoli attraversa i territori comunali
di Mugnano, Calvizzano e Qualiano, indi si affaccia sulla strada provinciale Ripuaria
fin al ponte di Ferro, a partire dal quale lascia il vecchio tracciato che sfociava
nell’emissario del lago Patria e, seguendo la strada provinciale di S. Maria al
Pantano, attraversa con alveo pensile la zona di Licola fino al mare. La superficie
complessiva del bacino è di circa 70 kmq. L’alveo dei Camaldoli è ormai ad uso
promiscuo, in gravi condizioni d’inquinamento, a causa d’immissioni di acque reflue
civili ed industriali e dello sversamento incontrollato di rifiuti solidi e materiali di
risulta, che talvolta determinano localmente pericolose situazioni di restringimento
dell’alveo;
‚ bacino di Volla: la piana di Volla, situata nella zona orientale di Napoli, era
originariamente interessata da una copiosa circolazione idrica superficiale in gran
parte alimentata da antiche sorgenti ormai prosciugate. L’antico F. Sebeto costituiva
il recapito principale di tali deflussi. Gli interventi antropici degli ultimi decenni
hanno determinato un grave stato di dissesto idrogeologico, cancellando di fatto la
rete idrografica superficiale che risulta, oggi, praticamente irriconoscibile per le
numerose deviazioni e gli interrimenti realizzati. Il bacino (esteso circa 20 kmq) è
oggi attraversato ad ovest dal canale Sbauzone e, nell’area industriale orientale, dai
fossi Volla, Cozzone e Reale che, parzialmente in-terrati e deviati, sversano nell’area
portuale di Napoli (l’ex area dei Granili), ove un tempo sfociava l’alveo del Pollena.
La piana di Volla, attualmente priva di una re-te idrografica superficiale efficiente
per lo smaltimento delle acque meteoriche, risulta soggetta a fenomeni
d’allagamento, divenuti di recente più gravosi anche a seguito del cessato
emungimento e della conseguente risalita della falda freatica, in precedenza utilizzata
per scopi acquedottistici.

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2.3 Aspetti geologici e geomorfologici

Nel territorio dell’Autorità di Bacino della Campania Nord-Occidentale ricadono tre


grandi contesti geologico-strutturali: le aree vulcaniche (Somma-Vesuvio p.p. e Campi
Flegrei continentali ed insulari); la Piana Campana p.p.; le dorsali carbonatiche
appenniniche p.p. Le fasce costiere costituiscono, infine, un ambito geomorfologico del
tutto particolare per quanto attiene agli aspetti connessi alla vulnerabilità del territorio.

Le aree vulcaniche

Area flegrea
E’ la vasta area ubicata ad Ovest di Napoli e che si estende sino a comprendere le isole
di Procida, Vivara ed Ischia.
La struttura vulcanica è estremamente complessa, infatti in una zona di poco superiore ai
400 km2 si ritrovano più di 60 edifici vulcanici. La porzione continentale è inoltre
caratterizzata dalla presenza di una vasta area calderica
L’attività vulcanica ha avuto inizio circa 150.000 anni fa, mentre le ultime manifestazioni
si sono avute nel 1301 (ad Ischia) e nel 1538 con la formazione del M.te Nuovo. In questo
intervallo temporale si riconoscono secondo alcuni Autori 4 cicli di vulcanismo, così
distinti:
- I ciclo (> 35.000 anni da oggi): in tale ciclo l’attività, di tipo esplosivo, si è
esplicata nel settore occidentale dei Campi Flegrei (M.te di Procida) e nelle isole di
Procida ed Ischia (Tufo Verde di Ischia: 55.000 anni da oggi). I prodotti di tale
attività sulla terraferma sono poco diffusi, mentre si rinvengono morfologie
vulcaniche relitte attribuibili a tale ciclo.
- II ciclo (35.000÷30.000 anni da oggi): si attribuiscono a tale ciclo il Piperno, la
Breccia Museo e l’Ignimbrite Campana (o Tufo Grigio Campano - 80 km3 di
materiali su 10.000 km2)) nonché la formazione della Caldera flegrea.
- III ciclo (18.000÷10.000 anni da oggi): a tale ciclo sono da riferire la formazione
dei tufi biancastri stratificati (Soccavo) ed i prodotti dei vulcani di Solchiaro
(Procida), Trentaremi, M.te Echia, Torregaveta, e quindi del Tufo Giallo
Napoletano (10 km3 di materiali su 350 km2). Tale tufo è, secondo le più recenti
vedute, il prodotto di più eventi di tipo “pliniano”, avvenuti (11.000 anni da oggi)
in ambiente sottomarino, con un’intensa interazione acqua marina-magma (eruzioni
freato-magmatiche).
- IV ciclo (10.000 anni da oggi ÷ 1538 d.C.): in tale ciclo si è avuta un’intensa
attività esplosiva connessa a bocche eruttive apertesi all'interno della Caldera
Flegrea. Ad una fase iniziale vengono attribuiti i Tufi Gialli Stratificati (vulcani del
Gauro, Miseno, Nisida, Mofete), mentre in una seconda fase si sono formati
prodotti piroclastici sciolti, (es.: prodotti dei vulcani di Baia, Fondi di Baia, M.
Spaccata, S. Martino, Agnano, Astroni, Averno). Si segnalano la messa in posto
della cupola lavica trachitica di M.te Olibano (Accademia Aeronautica) (3.900 anni
da oggi) e l'eruzione di M.te Nuovo avvenuta in epoca storica (1538 d.C.).

Isola di Procida
L’isola di Procida è costituita da prodotti piroclastici nella quasi totalità e,
subordinatamente, da lave e brecce laviche. Alcuni Autori, di recente, riconoscono

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sull’Isola alcuni prodotti originati da vulcani locali ed altri provenienti da Ischia e dai
Campi Flegrei. Sui prodotti locali dei vulcani di Vivara, Pozzo Vecchio e Terra Murata
(tufi gialli e grigi) poggiano prodotti di provenienza ischitana (piroclastiti sciolte, tufi di
Fiumicello e la Breccia della Lingua ascrivibile all’eruzione del Tufo Verde) e flegrea
(Breccia di Capo Scotto di Carlo ascrivibile all’eruzione dell’Ignimbrite Campana).

Isola d’Ischia
Le rocce più antiche dell’isola sono vulcaniti (età > 150.000 da oggi) che affiorano nel
settore Sud-Est dell’isola e, assai più limitatamente, in quello Sud-Ovest. Tali materiali
sono stati interessati da un collasso vulcano-tettonico; i margini della struttura collassata
sarebbero gli affioramenti anzidetti. All’interno ed alla periferia della depressione si
svilupparono duomi e colate laviche (trachitici ed alcalitrachitici) nel periodo da 150.000 a
75.000 anni fa.
Si sono quindi succeduti gli eventi di seguito riassunti:
- circa 55.000 anni fa eruzione del Tufo verde (trachitico);
- circa 33.000 anni fa sollevamento del blocco tufaceo del M. Epomeo dovuto alla
risalita di magma trachibasaltico;
- circa 28.000 anni fa eruzione di magma trachibasaltico (zona Grotta di Terra nel
settore Sud-Est dell’isola);
- circa 18.000 anni fa eruzione nel settore Sud-Ovest dell’isola (vulcano di
Campotese): depositi piroclastici alcalitrachitici e limitati flussi lavici trachitici;
- 10.000 anni fa - 1302 d.C: attività vulcanica quasi tutta concentrata sul bordo Est
del blocco di M. Epomeo e legata alla sua risorgenza.
I territori flegrei, continentali ed insulari sono interessati da molteplici frane di varia età
che hanno coinvolto sia i terreni piroclastici sciolti (crolli-scorrimenti talora evolventi a
colata), sia le unità tufacee e laviche (crolli e ribaltamenti i blocchi). Lungo le aree costiere
(falesie attive) sono numerosi gli esempi di gravi dissesti legati al moto ondoso e a
situazioni di crisi dei cigli.

Somma-Vesuvio
Il vulcano è costituito dal più antico edificio del Somma nel quale la formazione della
caldera (avvenuta 17.000 o 4.000 anni da oggi, secondo i diversi Autori) ha determinato il
ribassamento del fianco meridionale, la migrazione verso Sud-Ovest delle successive
manifestazioni e la formazione nel tempo, all’interno della caldera, del cono del Vesuvio.
Dell’edificio del Somma è così rimasto affiorante il solo settore settentrionale mentre il
resto, ribassato, è stato coperto dai prodotti vesuviani. L’attività del vulcano è iniziata
circa 25.000 anni fa, come si evince anche dalla sovrapposizione, riscontrata in
perforazioni realizzate sul fianco settentrionale, dei prodotti del Somma su piroclastiti
riferibili all’Ignimbrite Campana (età 37.000 anni). Fino a 17.000 anni fa l’attività è
proseguita con fasi alterne effusive ed esplosive, per divenire, queste ultime, quasi
prevalenti fino al 1631. Da tale anno (in cui si è avuto un evento esplosivo assai intenso
che provocò più di 6.000 vittime) all’ultima eruzione (1944), le manifestazioni eruttive,
pur con alternanza di fasi, hanno assunto più spesso il carattere di flussi lavici.
Attualmente il vulcano è in fase quiescente. In estrema sintesi i materiali emessi dal
vulcano possono riunirsi nelle seguenti unità (dalle più recenti):
- piroclastiti e scorie del cono vesuviano;

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- colate laviche con interposizione di banchi di terreni piroclastici discontinui e di
varia potenza;
- lave basali del Somma.
L’edificio vulcanico è caratterizzato soprattutto lungo i versanti settentrionali
(M.Somma) e sud-occidentali da un fitto reticolo idrografico attivo in concomitanza di
eventi meteorici intensi. Ne conseguono frequenti fenomeni di alluvionamento e trasporto
solido che coinvolgono soprattutto le fasce pedemontane.

La Piana Campana
Si estende su una superficie di circa 1350 km2 (della quale solo la porzione
settentrionale e nord-orientale ricade nel territorio dell’Autorità) con quote variabili dallo
zero assoluto nei settori costieri ai 40/50 m s.l.m. delle fasce pedemontane dei rilievi
carbonatici che la contornano (M.te Massico a Nord, M.ti Tifatini a Nord-Est, M.ti di
Durazzano e di Avella-Partenio, M.ti di Sarno a Est, M.ti Lattari a Sud).
La Piana corrisponde ad una depressione tettonica impostata su un originario piastrone
carbonatico i cui margini affioranti sono i rilievi che attualmente la bordano (M. Massico,
M. Maggiore, i Tifatini etc.). Lungo le fratture che hanno prodotto la depressione si è
avuta, nel tempo, un’intensa attività vulcanica e si sono sviluppati importanti edifici
vulcanici (Roccamonfina, Somma-Vesuvio); lungo le stesse fratture sono inoltre presenti
sorgenti mineralizzate con alti tenori in CO2 (Sorg. di Triflisco e di Cancello al margine
NE della Piana) e si rinvengono spesso acque termali (M. Massico al margine NW).
Il distretto vulcanico dei Campi Flegrei e il massiccio del Somma-Vesuvio individuano
tre settori della piana: quello settentrionale (basso Volturno); quello mediano (valle del
Sebeto); quello meridionale (piana di Sarno).
Dai dati derivanti da prospezioni geofisiche, da perforazioni profonde eseguite per
ricerche di idrocarburi e da molteplici pozzi perforati soprattutto per ricerche d’acqua,
risulta - per i settori del basso Volturno e della valle del Sebeto - la seguente successione
dall’alto:
- Tufo Grigio Campano per spessori di 30-60 m, con i valori massimi a ridosso dei
massicci carbonatici e dei Campi Flegrei e i valori minimi a ridosso del corso del
Volturno, dove esso è ricoperto da una coltre piroclastico-alluvionale, talora con
livelli torbosi;
- depositi vulcano-sedimentari di varia granulometria e spessore di alcune decine di
metri;
- depositi prevalentemente pelitici di probabile ambiente marino e transizionale
dello spessore di alcune centinaia di metri;
- depositi vulcanici antichi (tufi e lave andesitiche e basaltiche) intercettati da
sondaggi profondi, per spessori notevoli, e con il tetto che risale fino ad alcune
centinaia di metri dal p.c. sulla verticale di Parete;
- depositi clastici di probabile età miopliocenica a profondità superiore ai 3 km;
- piattaforma carbonatica, mai raggiunta dalle perforazioni profonde eseguite nella
zona baricentrica dell’area, ma ricollegabile con gli affioramenti periferici
attraverso successivi importanti gradini di faglia.

La Dorsale carbonatica
I rilievi carbonatici che ricadono nel territorio dell’Autorità di Bacino Nord Occidentale
della Campania appartengono al settore strutturale di catena sud-appenninica. Tale settore

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è stato caratterizzato da complesse vicende tettoniche prima di tipo compressivo e poi tipo
distensivo. Queste ultime hanno determinato fenomeni differenziati di sollevamento con
conseguente individuazione di alti strutturali (corrispondenti ai rilievi montuosi) e di
depressioni morfologiche (conche intramontane). La Catena sud-appenninica ha la sua
massima espressione morfologica in rilievi montuosi che superano talora i 2000 m di
altezza e che sono costituiti prevalentemente da rocce lapidee calcareo-dolomitiche. Tali
successioni costituiscono l’ossatura della catena e si estendono in modo continuo
dall’Abruzzo alla Calabria settentrionale.
Si tratta di sedimenti di piattaforma carbonatica (cioè di un mare poco profondo ) nel
quale a partire dal Trias e sino al Miocene si sono depositati sedimenti dolomitici e poi
calcarei di natura biochimica e bioclastica. La dorsale carbonatica, in quanto appartenente
al settore di catena, è interessata da una sismicità molto elevata. Con riferimento precipuo
al territorio del Nord Occidentale può affermarsi che il grado di sismicità raggiunge livelli
leggermente inferiori in quanto il territorio stesso è periferico rispetto a quello assiale
appenninico. Per quanto riguarda la stabilità dei versanti i fenomeni più diffusi sono crolli
e/o ribaltamenti di masse lapidee indotte dai vari sistemi di discontinuità negli ammassi.
Laddove sono presenti, in appoggio sul substrato carbonatico, coltri piroclastiche di origine
vesuviana e/o flegrea, sono frequenti fenomeni di scorrimento-colata anche di notevole
volume (vedi eventi franosi di notevole intensità del 1986, del 1997-98, del maggio ’98 e
dicembre ’99 che hanno interessato i territori del Comune di Palma Campania, di Avella,
di Quindici, Moschiano, San Felice a Cancello, ed altri “minori” molto diffusi in vaste
porzioni montane del territorio).
E’ infine da segnalare un aspetto di carattere idrogeologico connesso alla diffusione del
fenomeno carsico ed in generale all’elevata permeabilità dell’acquifero carbonatico. In
questo contesto sussiste una notevole predisposizione alla diffusione nel sottosuolo di
fluidi inquinati che hanno spesso un recapito ultimo nella falda di base. Attualmente la
scarsa urbanizzazione di questo settore montuoso mitiga l’entità del problema, che tuttavia
presenta aspetti di particolare rilievo in punti singolari rappresentati dalle conche carsiche
endoreiche, dalle cave utilizzate come discariche, dalle aree più direttamente a ridosso
delle opere di captazione.

2.4 Aspetti socioeconomici e uso del suolo

Il territorio oggetto di analisi presenta una complessità decisamente rilevante a tutti i


livelli di analisi (economica, sociale, relazionale, urbanistica, demografica, funzionale)
necessarie e rispetto alle quali la difesa del suolo trova continue e non trascurabili relazioni
che non possono essere taciute.
Come detto sono presenti 127 comuni di 4 province (Napoli, Caserta, Avellino e
Benevento) per una superficie pari a circa kmq 1.791 ed una popolazione totale di circa
3,58 milioni di abitanti.
Nel bacino si alternano aree strutturate funzionalmente ad aree prive di vocazione
funzionale; alte densità in via di ridimensionamento ad alte densità ancora in crescita;
dismissioni industriali a nuove concentrazioni produttive;
L’area compresa nel bacino di competenza risulta fortemente squilibrata dal punto di
vista delle densità insediative infatti i valori oscillano dai più alti della Nazione (l’area
metropolitana napoletana vede in circa milleduecento kmq oltre 3 milioni di abitanti –

20
2.575 ab/kmq) ai 141, 157 e 309 ab/kmq rispettivamente delle province di Benevento,
Avellino e Caserta. La variabilità demografica si rileva molto sensibile da comune a
comune: i residenti oscillano da un minimo di 893 di Forchia ad un massimo di 79.907 di
Casoria (escluso Napoli che ne conta 1.067.365). La densità pur essendo mediamente
elevata (1934 ab/kmq dell’area a fronte dei 411 ab/kmq a livello regionale e 115 ab/kmq a
livello europeo) varia da 29 ab/Kmq del comune di S. Arpino ad un massimo di 8728
ab/kmq del comune di Arzano (escluso Napoli).
Le forti densità investono decisamente il comune di Napoli ed il suo hinterland: nel
capoluogo il valore di 9.102 ab/kmq è tra i più elevati per le città delle stesse dimensioni.
La densità è ancora molto elevata lungo l’arco costiero da Monte di Procida a
Castellamare, lungo l’asse che collega Napoli con Caserta e lungo la direttrice Marigliano-
Nola-San Giuseppe Vesuviano-Nocera mentre va scemando con gradienti rapidamente
decrescenti, man mano che ci si sposta verso l’interno.

21
Per quanto attiene le classi di età si rileva che i valori accomunano le province di Napoli
e Caserta contro quelle di Benevento ed Avellino i cui valori risultano molto disomogenei
rispetto ai precedenti. Gli indicatori rilevano infatti per la provincia di Napoli una
popolazione di ultrasessantacinquenni pari a ca. il 10% dei residenti e di giovani under 14
che supera il 14% mentre per Avellino e Caserta i valori si attestano, per gli anziani,
intorno al 15, 16% e, per i giovani sotto i 14 anni, intorno al 19%.
Una grande variabilità si rileva anche nell’aspetto produttivo che vede (sempre al 1991)
gli addetti totale ammontare a 787.000 unità con una distribuzione geografica molto
diversificata: da un minimo di 117 a Forchia ad un massimo di 24.713 a Caserta e di
326.000 a Napoli per una densità produttiva media pari a ca. 395 addetti/kmq escludendo
Napoli dove tale indicatore misura il valore di 2.784 addetti/kmq.
L’area napoletana esercita un ruolo fortemente gerarchico dal punto di vista produttivo
rispetto al resto del bacino anche se nel decennio 1981/91 si è registra un maggiore
aumento dell’offerta di lavoro nei comuni del bacino rispetto al capoluogo rispettivamente
pari al 9,7% e al 3,1%.
I caratteri produttivi, inoltre, si differenziano molto anche nella distribuzione dei singoli
settori.
Il settore industriale è fortemente presente nei comuni di Pozzuoli e Napoli con qualche
propaggine nei comuni siti a nord-est del capoluogo, intorno alle pendici del Vesuvio.
Il settore agricolo si sviluppa in modo tutt’altro che complementare a quello industriale
sia per la forte diversificazione degli addetti sul territorio che per la forte disomogeneità
della densità abitativa.
La crescita demografica degli ultimi trent’anni (dal 1961 al 1991) nell’area è pari a ca. il
26% anche se nei singoli comuni si registra un inversione del trend che nel periodo
precedente aveva visto la prevalenza della città di Napoli sul suo hinterland: il comune di
Napoli è interessato da un decremento demografico pari a ca. il 10% della popolazione
mentre il resto del bacino registra un incremento di ca. il 50% della popolazione.
La ricerca di percorsi simili e comuni a territori adiacenti a portato ad individuare
cinque profili di crescita1:
a) aree in crescita stabilmente sostenuta, costituite da comuni che presentano indici di
concentrazione demografica elevati e costanti nei tre decenni (61/71-71/81-81/91);
b) aree in crescita progressiva, costituite da comuni con indici inizialmente inferiori a
quelli della prima categoria, ma in costante aumento;
c) aree in rallentamento demografico, costituite da comuni caratterizzati da fenomeni di
concentrazione all’inizio elevati, ma che sono andati successivamente smorzandosi;
d) aree a crescita contenuta, costituite da comuni con indici positivi, ma sempre inferiori
all’unità;
e) aree a dinamica non identificabile perché caratterizzati da comuni in cui l’andamento
dell’indice non è netto.

1
Da “Tipologie della crescita” in “Mobilità delle residenze, mobilità delle persone”, M. De Luca e B. Rallo, CCIA
PRISMI editore. Napoli, 1998.
22
2.5 Caratteri generali del paesaggio

Il riferimento agli aspetti naturali (idrografia, geomorfologia, ecc.) ed antropici


(struttura demografica, socioeconomica, ecc.) del territorio oggetto di studio ha già, in
parte, consentito di individuare alcuni caratteri tipici del paesaggio, inteso in senso
complesso, cioè come sistema di componenti interrelate.
L’assetto del paesaggio è condizionato, infatti, dalle correlazioni tra l’ambiente naturale
- con gli specifici caratteri che assumono il suolo, le acque, l’atmosfera - e l’ambiente
antropico - con i suoi aspetti relativi al sistema insediativo, della mobilità, socio produttivo.
Il territorio di competenza dell’Autorità di Bacino Nord-Occidentale presenta degli
aspetti paesaggistici molto diversificati e complessi, sia dal punto di vista naturalistico che
da quello antropico.
Le macrostrutture paesistiche del territorio, conseguenti alla storia geologica ed al ruolo
delle relazioni terra-mare, sono riconosciute nelle unità geomorfologiche dominanti nella
razionalità paesistica, ovvero i sistemi vulcanici del Vesuvio e dei Campi Flegrei; le dorsali
carbonatiche di Avella-Partenip; nelle unità geomorfologiche di pianura o intervallive, di
connessione tra unità dominanti, quali la Piana Campana; la pianura e la successiva valle

23
intermontana del nolano; le piane di connessione svolgentisi tra il Vesuvio e le colline
flegree; l’esteso e differenziato sistema costiero.
I valori naturali e culturali riconosciuti nelle dominanti geomorfologiche e nel sistema
costiero hanno condotto a sancirne la tutela.
Tuttavia i valori del paesaggio coinvolgono l’intero insieme territoriale, compresi gli usi
urbani e rurali , attraverso le relazioni spazio-temporali configuratesi, concernenti i tessuti
insediativi consolidati o espressione di nuovi bisogni, aree agricole, aree di naturalità
protetta.
Il cambiamento intercorso nei trascorsi decenni, effettuatasi su basi scarsamente
programmate nelle manifestazioni connesse alla disciplina dell’uso del suolo, ha
comportato un aggravarsi delle condizioni di vivibilità, un accentuarsi degli squilibri nei
modi d’uso delle risorse territoriali, una consistente espansione della periferizzazione della
condizione insediativa. Non a caso, gli anni passati appaiono caratterizzati dalle periodiche
condizioni di emergenze tutte correlate alla condizione ambientale, intendendo con questa
anche le ricadute sull’ambiente naturale, in senso stretto, di quello antropizzato.
Da questo punto di vista la L. 1497/39 e la successiva L.431/85 hanno entrambe
dimostrato dei grossi limiti nella salvaguardia dei beni paesaggistici, da un lato perché
propongono un concetto “vedutistico” e “puro-visibilista” del paesaggio, dall’altro in
quanto supportano un atteggiamento sostanzialmente vincolistico e di tutela passiva dei
beni. D’altra parte, anche la L. 394/91, che istituisce le aree protette al fine di “garantire e
promuovere, in forma coordinata, la conservazione e la valorizzazione del patrimonio
naturale del paese”, non ha ancora prodotto un’azione concreta in questo senso, in quanto
ha fino ad adesso portato solo ad una ennesima perimetrazione dei territori da
salvaguardare.
Risulta, tuttavia, necessario inquadrare le porzioni di territorio, che ricadono nei confini
dell’Autorità di Bacino Nord-Occidentale, vincolate ai sensi delle succitate leggi di tutela
allo scopo di consentire una valutazione del rischio che tenga in debito conto i diversi pesi
del valore esposto.
Nella G.U. n. 37 del 26/04/1985, sono riportate le dichiarazioni di notevole interesse
pubblico, ai sensi della L. 1947/39, di vasti territori della Regione Campania, taluni
rientranti nell’area di competenza dell’Autorità di Bacino Nord-Occidentale:
- le isole di Ischia e di Procida;
- i comuni di Bacoli, Monte di Procida, Pozzuoli, S.Sebastiano al Vesuvio,
Ottaviano, Somma Vesuviana, Sant’Anastasia, Pollena Trocchia, Cercola, Massa di
Somma;
- parte dei comuni di Napoli (Camaldoli, Agnano, Posillipo, Mergellina), Nola,
Marano di Napoli, Castel Volturno, Casagiove, Casapulla, Caserta, Maddaloni, S.
Maria Capua Vetere, Mercogliano, Summonte, Quadrelle;
- parte del litorale dominio.

La disciplina d’uso del suolo attivata dalla L. 431/85 si sarebbe dovuta specificare
attraverso “piani territoriali paesistici”, obbligatori, o “piani urbanistico territoriali con
specifica attenzione ai valori del paesaggio”.
Attualmente, all’interno del perimetro dell’Autorità di Bacino Nord-Occidentale,
ricadono i seguenti Piani Territoriali Paesistici:
- Piano Territoriale Paesistico dell’area dei Campi Flegrei;
- Piano Territoriale Paesistico dell’area Agnano-Camaldoli;

24
- Piano Territoriale Paesistico dell’area di Posillipo;
- Piano Territoriale Paesistico dell’isola di Ischia;
- parte del Piano Territoriale Paesistico del Vesuvio, esteso al comune di Nola-
Castel Cicala:

Un elemento interessante da sottolineare è che la disciplina d’uso del suolo sancita con i
Piani Paesistici è da integrare attraverso azioni svolte attraverso piani urbanistici di
iniziativa comunale, redatti con contenuti di progetto d’uso, intervento ed attuazione idonei
a ricercare la compatibilità tra l’istanza di conservazione e l’istanza di valorizzazione.
La strumentazione per la protezione del paesaggio promuove, di conseguenza,
attraverso le prescrizioni caratterizzanti la disciplina d’uso del suolo, interventi coerenti
con quelli sollecitati o da sollecitare per la prevenzione e la mitigazione del rischio.
La L. 394/91 ha istituito le aree protette di rilievo nazionale o regionale, gestite dagli
Enti Parco.
Interessano l’Autorità di Bacino Nord-Occidentale, interamente o per alcune parti, i
seguenti parchi regionali:
- Foce Volturno e costa di Licola;
- Campi Flegrei;
- Monti del Partenio.

Per concludere, è significativo ricordare, ancora una volta, che “il paesaggio si propone
come manifestazione sensibile dei valori della comunità”, va quindi commentato nella sua
discontinuità tematica, ma contemporaneamente va trattato sinergicamente nella sua
complessità.

2.6 Strutturazione storica del territorio

La descrizione, sia pure per grandi linee, della strutturazione storica del territorio
oggetto di studio, risulta essere particolarmente importante ai fini di una lettura sinergica
dello stesso.
Ogni innovazione, ogni intervento modificativo, ma anche ogni possibilità di
riqualificazione e di riassetto, finirebbero per conformarsi come estranei avulsi e quindi
non pertinenti, se non rapportati alla struttura “consolidata” di un territorio che comprende,
inevitabilmente, anche ciò che, nel corso dei secoli, è stato “artefatto” dall’uomo, con
particolare riferimento ai beni storico-culturali.
L’Autorità di Bacino Nord-Occidentale si trova ad agire in un ambito territoriale
particolarmente ricco di beni storico-culturali, ed il riferimento ad essi risulta essere
condizione necessaria ai fini di una valutazione del rischio che tenga in debito conto i
diversi pesi del valore esposto.
L’insieme dei beni nell’area flegrea, dall’Anfiteatro Flavio (il più grande dopo quello di
Roma) a Pozzuoli al Palatium di Baia (più noto come complesso termale), al Portus Julius
(ancora sommerso nel golfo di Pozzuoli), alla città di Cuma (sull’acropoli del litorale di
Licola); la città di Calatia nel territorio comunale di Maddaloni; la città di Atella nei
territori dei comuni di Succivo e Sant’Arpino; i numerosi resti archeologici presenti in
forma puntuale su tutto il territorio oggetto di studio, rappresentano una risorsa in parte
poco nota, frammentata, ma di grandissimo valore.

25
In generale, si tratta però di un patrimonio scarsamente valorizzato, non inserito in
circuiti di fruizione organica, gestito da Soprintendenze differenti separate e non
coordinate, poco vigilato e pertanto oggetto di atti vandalici e di rapine, per lo più non
aperto al pubblico oppure, al contrario, alla mercé di un pubblico indiscriminato e non
selezionato.
L’ambito territoriale in esame risulta essere, altresì, caratterizzato da un’eccezionale
sistema difensivo articolato e diffuso che trova i suoi riferimenti già nell’epoca romana
(anche se con la caduta dell’Impero d’Occidente e per gran parte dei secoli fino all’anno
1000 fu travolto e trasformato dalle invasioni barbariche e dalle conseguenti azioni di
controllo sui feudatari che si suddividevano il territorio in aree di influenza e di dominio),
per poi risalire dall’epoca longobarda, in particolare con le aree del beneventano e parte del
casertano; all’epoca normanno-sveva (i castelli di Acerra, Marigliano, Napoli, Somma
Vesuviana); all’epoca quella angiona (i castelli di Nola, Afragola, Palma Campania,
Napoli); a quella aragonese (il castello di Ischia, di Procida, I presidi di Somma Vesuviana,
le residenze fortificate baronali a Marano, il castello di Pomigliano d’Arco); al viceregno
spagnolo con il rafforzamento di nuovi presidi; l’epoca austriaca ed, infine quella
borbonica con la sistemazione e l’ampliamento di tutto il sistema difensivo spagnolo-
austriaco basato sulle piazzeforti, nonché con la realizzazione di palazzi e dimore nobiliari
(il Palazzo Reale di Napoli, la Reggia di Capodimonte, il Palazzo Reale di Caserta); di
grandi edifici pubblici (l’Albergo dei Poveri, L’Osservatorio Vesuviano) e, ancora, di
opere infrastutturali (l’Acquedotto carolino, i sistemi di bonifica, come quelli di irrigazione
dei Regi Lagni).
L’insieme dei beni difensivi – alcuni di eccezionale valore storico-documentario -
appare scarsamente valorizzato quando non oggetto di trasformazione violenta o di usi non
consoni.
Un sistema storico-culturale che intende ricostruire, non solo ai fini testimoniali e
documentari, l’organizzazione complessa di aree territoriali non può prescindere dai modi
in cui i territori stessi avevano stabilito il rapporto con il mare.
Valga come esempio il sistema flegreo in epoca romana, organizzato intorno alla città di
Pozzuoli, con il porto mercantile più importante del Mediterraneo, al presidio militare di
Misero (Bacoli), al golfo di Baia (Bacoli), al Portus Julius (Lucrino, tra Pozzuoli e Baia).
Un elemento fondamentale da sottolineare e che l’ambito territoriale oggetto di studio
presenta una qualità non solo altissima, ma, cosa ancora più importante, diffusa dei beni
storico-culturali. Si tratta, cioè, non di un’area con presenze puntuali, bensì di un “territorio
storico”, dove esiste un intero sistema fortemente strutturato di città storiche, e, a questo
proposito, torna particolarmente utile ricordare il ruolo ordinatore che la centuratio romana
ha avuto nel determinare il disegno produttivo, proprietario, infrastrutturale e urbano di
gran parte della piana di Caserta fino a Quarto e Pozzuoli.
Un’azione di tutela e di difesa del suolo non può non fare i conti con una realtà culturale
così fortemente consolidata ed estesa. Se è vero che il concetto di rischio non passa solo
per la capacità di calcolare la probabilità che un evento “pericoloso” accada, ma anche per
quella di definire la quantità di danno provocato, allora deve essere possibile individuare
delle priorità, oltre a quella delle vite umane, che tengano presente il valore esposto delle
differenti tipologie di beni presenti sul territorio.

26
3. IL RISCHIO

Il rischio idrogeologico è un termine sempre più diffuso a causa del crescente aumento
di danni (e di vittime) che i fenomeni franosi e alluvionali stanno producendo nel mondo
ed in particolare in Italia.
Tale aumento è per lo più causato dall’aumento del “valore esposto” e non tanto da un
reale incremento del numero e dell’intensità degli eventi.
In seguito ai numerosi disastri verificatesi negli ultimi anni ed al riconoscimento della
natura sociale di tali eventi, sono stati intrapresi programmi di ricerca, sia a livello
nazionale che internazionale, mirati ad affrontare tali fenomeni con opportune opere di
previsione e prevenzione.
Uno dei temi più trattati dalla letteratura, e sul quale non c’è ancora una soluzione
condivisa, è quello della metodologia per l’individuazione del “rischio” idrogeologico e
delle sue componenti.
In Italia, una punta avanzata nella ricerca in questo campo è il Gruppo Nazionale per la
Difesa dalle Catastrofi Idrogeologiche (GNDCI), nel quale è attiva una linea di ricerca
denominata “Previsione e Prevenzione di eventi Franosi a Grande Rischio”.
In Francia si registrano forse i migliori risultati nel campo della previsione e
prevenzione dei rischi.
L’ultimo decennio del secolo (1990-2000) è stato designato dalla 42a Assemblea
Generale delle Nazioni Unite come Decennio Internazionale per la Riduzione dei Disastri
Naturali ed è stata istituita una Commissione per il censimento mondiale dei fenomeni
franosi.
Il Working Party on World Landslide Inventory (WP/WLI) dell’UNESCO è nata per
creare una banca dati mondiale che dovrà costituire la base di riferimento per l’analisi della
distribuzione delle frane. Tale gruppo ha quindi predisposto “metodi raccomandati” per la
descrizione delle frane, schede per la rilevazione e glossari finalizzati ad uniformare la
terminologia scientifica relativa.
In Italia , attraverso il Progetto AVI, commissionato dal Dipartimento della Protezione
Civile al GNDCI del CNR, sono stati censiti tutti i territori del paese colpiti da frane e da
inondazioni per il periodo 1918-1990. Gli eventi sono stati catalogati, mediante apposite
schede, per ambiti regionali, aggiornati fino all’anno 2000.
Permane, nonostante questi sforzi, una non condivisone ed incertezza relativa al
significato di pericolosità, vulnerabilità e rischio, nonché alla valutazione dei parametri con
cui tali valori possano essere quantificati.
La protezione idrogeologica, così come affrontata con il Piano Straordinario ex lege
226/99, sembra contenere una certa rigidità e staticità ed evocare un atteggiamento
vincolistico, fatto perlopiù di “divieti”, che è, in definitiva, l’atteggiamento comune alle
numerose leggi, in tema di tutela e salvaguardia ambientale, attualmente vigenti nel nostro
Paese.
L’origine di questo tipo di approccio può essere ricercata in un uso sconsiderato delle
risorse e, dunque, nel confronto tra lo stato attuale delle diverse utilizzazioni territoriali e la
loro compatibilità con il carattere fisico dell’ambiente naturale. Tale confronto chiarisce,
ma certo non giustifica, una politica ambientale permeata sostanzialmente da passività e
scarsa flessibilità, che si è tradotta, nel corso degli ultimi anni, in sterili perimetrazione di
aree rigidamente vincolate. Lo sforzo necessario da compiere dovrebbe concretizzarsi nel
27
superamento di un atteggiamento vincolistico, che il più delle volte finisce per creare
situazioni di stallo e di immobilità altrettanto pericolose di quelle di uso indiscriminato
delle risorse, per adottare, invece, un approccio “attivo” di mitigazione e prevenzione del
rischio legato alle dinamiche ambientali naturali/antropiche.
Una riflessione sulla sostanza delle azioni di protezione idrogeologica conduce così a
ritenere che queste oggi debbano essere orientate prevalentemente alla elaborazione di
proposte che contengano, insieme alla ovvia identificazione delle cause e degli effetti del
dissesto idrogeologico e alla perimetrazione delle aree effettivamente e/o potenzialmente
soggette a tale dissesto, anche e soprattutto gli elementi necessari per la previsione e
prevenzione degli eventi calamitosi. Lo strumento, se pur complesso, per quest’analisi si
identifica nella valutazione del rischio, la cui assunzione presuppone una confluenza
disciplinare di opinioni, criteri e consapevolezze, che consenta di progettare il “piano” non
come “modello”, bensì come “processo”.
La “processualità” è una scelta difficile perché parte dal presupposto che i fenomeni
oggetto di studio non siano riconducibili a schemi predefiniti capaci di spiegarli in modo
completo ed esaustivo, ma al contrario, siano interrelati ad una serie complessa di fattori
che con al loro peculiarità caratterizzano contesti specifici e ogni volta differenziati.
Quando si fa riferimento alla necessità di un piano “pertinente”, si intende sottolineare
proprio l’esigenza di un modus pianificatorio che sia capace di relazionarsi alla peculiarità
dei diversi contesti.

3.1 Definizione di rischio

Il rischio (R) è definito come l’entità del danno atteso in una data area e in un certo
intervallo di tempo in seguito al verificarsi di un particolare evento calamitoso.
Per una dato elemento a rischio l’entità dei danni attesi è correlata a2:
• la pericolosità (P) ovvero la probabilità di occorrenza dell’evento calamitoso entro un
certo intervallo di tempo ed in una zona tale da influenzare l’elemento a rischio;
• la vulnerabilità (V) ovvero il grado di perdita prodotto su un certo elemento o gruppo
di elementi esposti a rischio risultante dal verificarsi dell’evento calamitoso temuto.
• il valore esposto (E) ovvero il valore (che può essere espresso in termini monetari o di
numero o quantità di unità esposte) della popolazione, delle proprietà e delle attività
economiche, inclusi i servizi pubblici, a rischio in una data area.
Il danno (D) è definito come il grado previsto di perdita, di persone e/o beni, a seguito
di un particolare evento calamitoso, funzione sia del valore esposto che della vulnerabilità.

2
Nel rapporto UNESCO di VARNES & IAEG (1984) vengono date precise definizioni relative alle diverse componenti
che concorrono nella determinazione del rischio di frana:
a) Pericolosità (hazard H): probabilità che un fenomeno potenzialmente distruttivo si verifichi in un dato periodo
di tempo ed in una data area.
b) Elementi a rischio (element at risk E): popolazione, proprietà, attività economiche, inclusi i servizi pubblici
etc., a rischio in una data area.
c) Vulnerabilità (vulnerability V): grado di perdita prodotto su un certo elemento o gruppo di elementi esposti a
rischio risultante dal verificarsi di un fenomeno naturale di una data intensità. E espressa in una scala da O (nessuna
perdita) a i (perdita totale).
d) Rischio specifico (specifìc Risk Rs): grado di perdita atteso quale conseguenza di un particolare fenomeno
naturale. Può essere espresso dal prodotto di Hper V
e) Rischio totale (total Risk R): atteso numero di perdite umane, feriti, danni alla proprietà, interruzione di attività
economiche, in conseguenza di un particolare fenomeno naturale; il rischio totale è pertanto espresso dal prodotto:
R=HVE=Rs E

28
Di conseguenza:
R=P×E×V
ovvero
R=P×D
dove
D=E×V

Dalle relazioni riportate discende che il rischio da associare ad un determinato evento


calamitoso dipende dalla intensità e dalla probabilità di accadimento dell’evento, dal valore
esposto degli elementi che con l’evento interagiscono e dalla loro vulnerabilità.
La valutazione del rischio comporta non poche difficoltà per la complessità e
l’articolazione delle azioni da svolgere ai fini di una adeguata quantificazione dei fattori
che lo definiscono. E’, infatti, assai complicato giungere ad una parametrizzazione, in
termini probabilistici, della pericolosità e della vulnerabilità e, in termini monetari, del
valore esposto.
Per lo stesso motivo, anche la mitigazione del rischio - che può essere attuata, a seconda
dei casi, agendo su uno o più elementi tra quelli sopra riportati – risulta essere
un’operazione molto complessa.
Allo stato attuale, il Piano classifica i territori amministrativi dei comuni e le aree
soggette a dissesto, individuati in funzione del rischio, valutato sulla base della pericolosità
connessa ai fenomeni di dissesto idraulico e idrogeologico, della vulnerabilità e dei danni
attesi.
La perimetrazione delle aree a rischio è redatta sulla base delle conoscenze finora
acquisite dall’Autorità di bacino. Al fine di mantenere aggiornato il quadro delle
conoscenze sulle condizioni di rischio, i contenuti del Piano sono aggiornati a cura
dell’Autorità di bacino almeno ogni due anni, mediante specifiche procedure in base alle
quali gli Enti locali interessati sono tenuti a comunicare all’Autorità di bacino i dati e le
variazioni, sia in relazione allo stato di realizzazione delle opere programmate, sia in
relazione al variare dei rischi del territorio.
Sono individuate le seguenti classi di rischio idraulico e idrogeologico3:
- R1 – moderato, per il quale sono possibili danni sociali ed economici marginali;
- R2 – medio, per il quale sono possibili danni minori agli edifici e alle infrastrutture
che non pregiudicano l’incolumità delle persone, l’agibilità degli edifici e lo
svolgimento delle attività socio- economiche;
- R3 – elevato, per il quale sono possibili problemi per l’incolumità delle persone,
danni funzionali agli edifici e alle infrastrutture con conseguente inagibilità degli
stessi e l’interruzione delle attività socio - economiche, danni al patrimonio
culturale;
- R4 – molto elevato, per il quale sono possibili la perdita di vite umane e lesioni
gravi alle persone, danni gravi agli edifici e alle infrastrutture, danni al patrimonio
culturale, la distruzione di attività socio - economiche.
Il Piano individua, all’interno dell’ambito territoriale di riferimento, le aree interessate
da fenomeni di dissesto idraulico e idrogeologico. Le aree sono distinte in relazione alle
seguenti tipologie di fenomeni prevalenti, rispetto ai quali definire i differenti livelli di
pericolosità:
- frane;
3
D.P.C.M. 11 giugno 1998 n°180.
29
- esondazione e dissesti morfologici di carattere torrentizio lungo le aste dei corsi
d’acqua.

Il valore del rischio sul territorio è stato desunto da una combinazione matriciale della
pericolosità (da frana o da esondazione) e del danno.

3.2 Rischio frana

I valori delle classi di rischio si ottengono dalla matrice riportata di seguito4:

Pn
Rk = Pn × Dm
P3 P2 P1

D4 R4 R4 R3

D3 R4 R3 R2
Dm
D2 R3 R2 R1

D1 R2 R1 R1

Rischio frana

3.3 Rischio idraulico

I valori delle classi del rischio idraulico si ottengono dalle tre matrici riportate di
seguito. In particolare, nella prima, i valori del danno incrociano quelli della pericolosità
nelle aree soggette a fenomeni di allagamento da esondazione; nella seconda, quelli della
pericolosità nelle aree soggette ad invasione di flussi iperconcentrati (colate); nella terza,
quelli della pericolosità nelle aree soggette a fenomeni di trasporto liquido e trasporto
solido da alluvionamento.5:

4
Approfondimenti sulla metodologia di definizione delle classi di pericolosità di frana sono riportati nel paragrafo 5.1
“Valutazione della pericolosità dei fenomeni franosi”.
5
Approfondimenti sulla metodologia di definizione delle classi di pericolosità idraulica sono riportati nel paragrafo 5.2
“Valutazione della pericolosità dei fenomeni da inondazione”.
30
Pn
Rk = Pn × Dm
P4 P3 P2 P1

D4 R4 R4 R3 R2

D3 R4 R4 R2 R1
Dm
D2 R3 R2 R1 R1

D1 R2 R1 R1 R1

Rischio idraulico da esondazione

Pn
Rk = Pn × Dm
P4 P3 P2 P1

D4 R4 R4 R3 R2

D3 R4 R4 R2 R1
Dm
D2 R3 R2 R1 R1

D1 R2 R1 R1 R1

Rischio idraulico da flusso iperconcentrato

31
Pn
Rk = Pn × Dm
Pa Pm Pb

D4 R4 R3 R2

D3 R4 R2 R2
Dm
D2 R3 R1 R1

D1 R2 R1 R1

Rischio idraulico da trasporto liquido e trasporto solido da alluvionamento

Sia la valutazione che la mitigazione del rischio richiedono, comunque, l’acquisizione


di informazioni territoriali sui caratteri geologico-idraulico-ambientali e su quelli socio-
economici ed uso suolo dell’area in esame.
In altre parole, risulta essere fondamentale una fase di analisi estesa e puntuale che
riesca a costruire un quadro, quanto più possibile completo, delle aree oggetto di studio,
per ciò che concerne sia gli aspetti naturali che quelli antropici. Ovviamente, si deve
trattare di un’analisi mirata e quindi capace di focalizzare quei fattori che più e meglio di
altri concorrono alla valutazione dei livelli di rischio ed alla sua eventuale mitigazione.

32
4. LA PERICOLOSITA’

La valutazione della pericolosità di un evento calamitoso è possibile solo a seguito di


accurate indagini di rilevante impegno economico, che pongano in relazione l’intensità
dell’evento con la sua periodicità. In altre parole, alla pericolosità può attribuirsi un valore
numerico se è nota la relazione che intercorre tra il tempo di ritorno (T) dell’evento e
l’intensità del fenomeno (funzione della velocità, del volume mobilitato, dell’energia, del
tirante idrico ecc.).
Di seguito sono riportati gli studi realizzati per ciò che concerne il rischio frane ed il
rischio idraulico, relativamente alla determinazione di una metodologia necessaria alla
definizione della pericolosità.

4.1 Valutazione della pericolosità dei fenomeni franosi

Per quanto attiene alla componente collegata agli aspetti geologici (in generale) è da
evidenziare che si è sostituito il concetto di Pericolosità P (inteso come probabilità, in
senso temporale e spaziale, di accadimento dell’evento) con quello di Suscettibilità o
Pericolosità Relativa (intesa come previsione solo “spaziale”, tipologica, dell’intensità ed
evoluzione del fenomeno franoso: Hartlèn & Viberg, 1988). Di fatto, i tipi di frana presenti
sul territorio (di elevata intensità e soggetti per vari motivi a rapida cancellazione delle
forme) rende oltremodo problematica la ricostruzione della franosità storica (e, quindi, la
definizione dei tempi di ritorno).

Di seguito sono riportati gli studi realizzati per ciò che concerne il Rischio frane
relativamente alla determinazione di una metodologia necessaria alla definizione della
pericolosità.
Sulla base delle esperienze maturate per la redazione del PAI 2002 piano l’Autorità di
Bacino ha impostato il seguente iter operativo:

Aggiornamento e rivisitazione delle carte geotematiche di base già prodotte in scala


1/25.000 (Carta Geolitologica, Carta delle coperture, Carta strutturale, Carta Inventario dei
fenomeni franosi, Carta geomorfologica finalizzata alla valutazione del rischio di frana);
Approfondimenti degli stessi tematismi di cui sopra con relativa restituzione
cartografica in scala 1/5.000 per una superficie totale di circa 270 km2 corrispondenti alle
aree già classificate di “alta attenzione” e a “rischio molto elevato”;
Analisi di altri fattori influenti sulle condizioni di equilibrio dei versanti e relativa
redazione di cartografia tematica in scala 1/5.000 (Carta dell’uso del suolo, Carta
dell’acclività);
Esecuzione di indagini in sito (scavi esplorativi e prove penetrometriche) per
l’approfondimento delle stratigrafie e degli spessori delle corti piroclastiche interessate da
frane del tipo colata rapida;

4.1.1 Le carte geotematiche


Sono rappresentate dai seguenti elaborati

Carta geolitologica
33
Carta degli elementi strutturali
Carta-inventario dei fenomeni franosi
Carta geomorfologica

La carta geolitologica contiene le informazioni standard della cartografia geologica


ufficiale inerenti alla litologia ed agli aspetti strutturali, ma si distingue per un aspetto
fondamentale, ovvero la rappresentazione planimetrica, nell’ambito delle dorsali
carbonatiche, delle coperture (di origine vulcanica e detritico-colluviale) a tetto delle unità
del substrato, distinte per classi di spessore (< 0.5 m; 0.5-2.0 m; 2.0-5.0 m; 5.0-20.0 m).
Nella cartografia in scala 1:5.000, relativa alle aree vulcaniche, la differenziazione delle
classi di spessore è prevista nel caso in cui lo spessore delle coperture non superi i 20 m,
con individuazione di due sole classi di spessore ( 10 m, > 10 m).

La carta degli elementi strutturali, intesa come documento che evidenzia i motivi
strutturali delle varie unità del substrato che controllano più direttamente i meccanismi di
deformazione dei pendii. Essa non è stata redatta, in quanto si è ritenuto di rappresentare i
motivi strutturali significativi direttamente sulla carta geolitologica.

La carta-inventario dei fenomeni franosi, intesa come documento recante la


distribuzione sul territorio delle frane classificate secondo Varnes (1978) e seguendo – per
gli aspetti terminologici - i contributi WP/WPLI (1990/91/93/94), non è stata redatta in
quanto si è ritenuto di trasferire tale tematismo direttamente sulla Carta geomorfologica.

La carta geomorfologica finalizzata al rischio di frana è stata impostata seguendo gli


standard proposti dal GNG e dal Servizio Geologico Nazionale, ma tenendo altresì conto
delle impostazioni seguite dal C.U.G.Ri. per le finalità precipue previste dal Piano
Straordinario e valide anche per il Piano Stralcio (vedi peculiarità degli indicatori
geomorfologici connessi alle zone di innesco e di accumulo degli eventi franosi che
caratterizzano il territorio: crolli di rocce lapide; colate rapide in terreni piroclastici).
Per le aree vulcaniche (Vesuvio e siti singolari dell’area Flegrea) l’impianto della
cartografia geomorfologica in scala 1:5.000 ha previsto anche il ricorso ai metodi
dell’analisi geomorfica quantitativa ai fini della stima del tasso di erosione di alcuni
sottobacini.
Per quanto attiene ai contesti caratterizzati da rocce lapidee e quindi all’individuazione
degli indicatori utili ai fini della definizione dei meccanismi di innesco di frane da crollo e
delle aree d’invasione, nella carta geomorfologica in scala 1:5.000 si è proceduto
all’individuazione di un congruo numero di siti singolari, ove sono stati effettuati studi
geostrutturali di dettaglio.

4.1.2 Le carte di Suscettibilità

Il confronto incrociato, mediante GIS, dei vari “strati” di informazione corrispondenti


alle carte di base (geologica, geomorfologia, delle coperture, dell’acclività, dell’uso del
suolo) ha comportato la produzione di alcune centinaia di elaborati in scala 1:5.000, che a
loro volta hanno condotto alla redazione di Carte di Suscettibilità all’innesco ed

34
all’invasione da frana riferite ai contesti geologici rappresentativi del territorio (dorsali
carbonatiche; area flegrea continentale ed insulare, area vesuviana).
L’iter metodologico seguito viene sintetizzato nei paragrafi che seguono.

4.1.3Suscettibilità all’innesco

Per la realizzazione della carta della suscettibilità all’innesco di frane da scorrimento-


colata rapida nel territorio dell’Autorità si è partiti dall’esperienza condotta dal Servizio
Geologico Nazionale all’indomani dell’evento del 5 maggio 1998 in Campania (Amanti et
alii, 1998) modificato in funzione dei diversi contesti geologici e geomorfologici
considerati. Per quanto concerne la suscettibilità per frane in roccia (crolli e/o
ribaltamenti), in considerazione dell’estensione dei fronti potenzialmente instabili e della
difficoltà di procedere, come da metodologie consolidate, ad analisi strutturali puntuali, si
è dato un peso prevalente all’assetto geostrutturale “in grande”, evidenziando le forme più
significative (scarpate di origine erosionale e/o tettonica, falesie, fronti di cava) ed in
particolare le balze rocciose ad elevata acclività, peraltro oggetto di rilevamenti singolari.
Il metodo relativo agli scorrimenti-colate nei depositi piroclastici si basa sul calcolo
della frequenza degli eventi franosi noti riguardo ad alcuni fattori territoriali che possono
svolgere un ruolo di “controllo” nell’innesco di tali fenomeni. Nella formulazione proposta
da Amanti et alii (1998), i parametri ritenuti significativi sono i seguenti:

Ç ÃÄ1 - T - D ÔÕÖ
I ? ÈS Å Ù· L· B ,
É Ú
con:
I = suscettibilità all’innesco
S = acclività dei versanti,
T = spessore della coltre piroclastica
D = distanza dalla linea di scorrimento delle acque superficiali
L = uso del suolo
B = ordine di bacino.

Le grandezze S, T e D sono frequenze percentuali e probabilità, mentre L e B sono state


utilizzate come fattori peggiorativi (e quindi con valore uguale o superiore all’unità).
Partendo dalla suddetta formulazione, si è proceduto alla verifica dell’effettiva
incidenza dei parametri considerati da Amanti et alii (1998) come potenziali fattori
predisponesti all’innesco di frane da scorrimento-colata, attraverso l’analisi statistica dei
dati inizialmente disponibili per alcune aree particolarmente significative (dorsale di
Avella e territorio di Quindici - Lauro per l’area dei massicci carbonatici; collina dei
Camaldoli e versante settentrionale di Monte Epomeo per il distretto vulcanico flegreo).
Sulla scorta di tali test, si è in un primo momento pervenuti alla seguente espressione:
Ç ÃÄ1 - T - D ÔÕÖ
I ? ÈS Å Ù· L· R,
É Ú
con:

S = acclività dei versanti


T = spessore della coltre piroclastica

35
D = distanza da sentieri e strade montane
L = uso del suolo
R = distanza dagli orli di scarpate

Per tali dati, che si riferiscono unicamente alle aree di coronamento delle colate, sono
stati calcolati i dati statistici elementari (valore minimo, massimo, medio; deviazione
standard), necessari alle successive elaborazioni. Per ciascun parametro si è altresì allestita
la relativa carta tematica, da incrociare con quella recante l’ubicazione delle aree di
coronamento delle frane.
La carta delle pendenze e la carta di ubicazione delle scarpate sono state ricavate da un
Modello Digitale del Terreno (DTM), con struttura matriciale con passo di 20 m. Nelle
zone in cui per motivi connessi alla risoluzione del DTM non si riuscivano ad estrarre in
modo automatico le rotture di pendenza è stato necessario ricavarle da un’analisi
geomorfologia, riportarle sulla cartografia di base e successivamente digitalizzarle.
La carta-inventario delle aree di coronamento di frana e la carta delle pendenze sono
state utilizzate per definire la pendenza nelle zone di distacco delle frane attraverso
un’operazione di Map Algebra. Definita per ciascun coronamento la relativa pendenza, è
stato elaborato un grafico che evidenziasse la loro distribuzione di frequenza. Questa, in
analogia con quanto già rilevato in diversi contributi scientifici (tra cui quello già citato di
Amanti et alii, 1998), ben si approssima ad una distribuzione di tipo gaussiano. E’ stato
pertanto possibile valutare l’incidenza del fattore pendenza sul potenziale innesco delle
frane da scorrimento-colata attraverso la funzione di densità di probabilità
1 2/u2
1 / *x /o +
S? e 2 .
u 2r

Avendo verificato che, almeno da un punto di vista statistico, la posizione delle scarpate
non determinava sensibili modifiche nella zonazione delle aree suscettibili a franare, in
quanto i dati di riferimento, essenzialmente di tipo geomorfologico, incidono in modo
pressoché uniforme negli areali considerati, si è ritenuto di non includere tale fattore nella
formulazione definitiva, che è risultata quindi così composta:

Ç ÃÄ1 - T - D ÔÕÖ
I ? ÈS Å Ù·L
É Ú
Nelle aree vulcaniche l’espressione sopra indicata è stata modificata in relazione al
diverso ruolo esercitato dai fattori T, D ed L

A chiusura dell’iter come sopra descritto, si è operata la suddivisione della suscettibilità


all’innesco (I) in tre classi, rispettivamente definite molto elevata, elevata e medio-
moderata, prendendo in considerazione particolari valori di S, T, L. Per quanto riguarda il
fattore S, sono stati assunti i valori corrispondenti a o ± 3u (tra suscettibilità bassa e
media) e o ± u (tra suscettibilità media ed elevata), con o = valore medio e u =
deviazione standard; per il parametro T stato invece considerato il valore minimo, mentre
per il parametro L è stato assunto il valore massimo.

L’influenza della sismicità è stata valutata preliminarmente adottando un metodo


suggerito dalla Comunità scientifica (curve di Keefer). I risultati ottenuti, che peraltro
36
evidenziano soprattutto l’incidenza degli eventi sismici sulle frane da crollo in roccia (non
esiste infatti una casistica relativa alle frane per colata rapida), non forniscono un
sostanziale contributo aggiuntivo alle indicazioni fornite dalla Legge sismica nazionale.
Nel caso del territorio dell’Autorità la gran parte dei Comuni ricade nella 2a categoria
sismica. Pertanto, la sismicità non costituisce un fattore discriminante ai fini della
definizione del grado di suscettibilità. Dunque non se n’è tenuto conto.

4.1.4 Suscettibilità all’invasione

La suscettibilità all’invasione per frane come quelle tipiche del territorio dell’AdB può
ragionevolmente identificarsi nei due aspetti elementari della previsione della distanza di
propagazione e dell’espansione areale del fenomeno franoso (Hartlèn & Viberg, 1988),
essendo l’eventuale tendenza retrogressiva in qualche modo contemplata nell’analisi della
suscettibilità all’innesco.
In particolare, la previsione della distanza di propagazione è di fondamentale
importanza per frane di crollo o di colate detritico-fangose, le quali possono, come noto,
coprire grandi distanze. Le colate rapide del maggio ’98 anche in questo senso
rappresentano un riferimento imprescindibile, essendosi raggiunte in quell’occasione
distanze massime nell’ordine dei 3.500-4.000 m dal coronamento di alcune frane.
Sia per i crolli che per le colate rapide esistono diversi metodi analitici adatti alla
“simulazione” dei possibili percorsi dei corpi di frana. Nel caso dei crolli, la procedura più
comunemente seguita è quella, di norma basata sull’osservazione della posizione di blocchi
già franati, dell’analisi cinematica o dinamica delle possibili traiettorie dei blocchi, in
funzione della loro forma e dimensione e delle caratteristiche morfologiche del pendio.
Nel caso delle colate rapide un metodo già applicato in diversi contesti è quello delle
linee di energia (noto anche come modello a slitta), originariamente proposto da Heim
(1932) e successivamente ripreso da altri autori, ed in particolare da Sassa (1988). Tale
metodo, basato sull’assunzione che tutta l’energia persa nel movimento è dissipata per
attrito, richiede la stima dell’angolo di attrito apparente (funzione dell’angolo d’attrito
dinamico del materiale) e delle pressioni neutre durante il moto.
Altrettanto complessa è la previsione dell’espansione areale di un fenomeno franoso,
importante nel caso di colate viscose di terra o di fenomeni di liquefazione (Canuti &
Casagli, 1996). Tale previsione dipende infatti da un elevato numero di fattori (morfologia
del versante, granulometria e contenuto d’acqua del materiale, parametri di resistenza al
taglio, pressioni interstiziali, ecc.). Esistono al riguardo approcci analitici propri
dell’ingegneria sia geotecnica (Sassa, 1988) che idraulica (Takahashi, 1991), ed in
entrambi i casi è indispensabile la conoscenza di parametri specifici dei materiali
suscettibili di franare.
La pericolosità di frane a cinematica rapida come crolli e colate detritico-fangose può
essere stimata, in assenza di specifici ed affidabili dati geotecnici ed idraulici, su base
geomorfologica, mediante la determinazione di alcuni parametri morfometrici elementari.
Questo approccio fu per la prima volta introdotto nel 1932 da Heim che, analizzando
alcune frane catastrofiche avvenute nell’Arco Alpino (stürzstroms o rock avalanches),
definì il cosiddetto fahrböschung o angle of reach (traducibile come “angolo di portata o
distanza”), ovvero l’angolo formato (rispetto all’orizzontale) dalla congiungente il punto
posto a quota più alta della zona di distacco con il punto estremo raggiunto dalla massa

37
franata. In seguito (Shrieve, 1968, Scheidegger, 1975) questo angolo è stato definito anche
“coefficiente equivalente di attrito”.
Nel corso degli anni, attraverso un numero ingente di studi, l’angolo di distanza è stato
utilizzato per stimare la mobilità di numerosi tipi di frana (scorrimenti, colate di detrito e di
terra, crolli, rock avalanches), inizialmente di volume imponente (milioni o decine di
milioni di m3), in seguito anche di più modesta dimensione. Il volume mobilizzato è il
parametro morfometrico più di frequente utilizzato in relazione con l’angolo di distanza,
essendosi constatata, su un’ampia casistica, l’esistenza di una relazione di proporzionalità
inversa (l’angolo diminuisce al crescere del volume). La relazione tra massima altezza
verticale di caduta ed angolo di distanza è stato invece oggetto di studi controversi (es.:
Skermer, 1985; Corominas, 1996).
Le varie relazioni sperimentali sono state testate su un’ampia serie di contesti geologici
e geomorfologici (Alpi, Pirenei, Montagne Rocciose, Cordigliera andina, estremo Oriente,
ecc.), costituendo in molti casi un primo criterio di valutazione del potenziale d’invasione e
quindi di pericolosità di frane rapide. Alcuni autori, tuttavia, suggeriscono di utilizzare un
parametro differente, derivato dall’angolo di distanza: l’eccesso di distanza percorsa (Hsü,
1975) o l’eccesso relativo di distanza percorsa (Corominas, 1996). In entrambi i casi, si
tratta di una stima dell’anomala mobilità di frane veloci, in relazione ad un dato standard,
costituito, nei due casi, dal prodotto dell’altezza massima di caduta (H) per tan32°, dove
quest’ultimo valore rappresenta l’angolo d’attrito “normale” per molti tipi di materiali.
L’adozione di questo approccio non può però prescindere dall’evidenziare alcuni limiti,
ad esempio insiti nel valutare il ruolo di ostacoli e deviazioni sulla mobilità delle frane
(soprattutto le colate). E’ altresì il caso di ricordare gli altri fattori che condizionano la
stessa mobilità, ovvero l’altezza della caduta, la regolarità del percorso, la dimensione
della massa in movimento.

Per quanto attiene specificamente l’iter seguito per il territorio dell’Autorità di Bacino,
la procedura di elaborazione adottata parte dalla Carta di suscettibilità all’innesco, già
trattata nel paragrafo precedente. Tale Carta viene utilizzata, in questa fase, per il
tracciamento di sezioni topografiche, passanti per i principali valloni dei vari contesti,
nonché per un numero significativo di versanti “planari”, ovvero privi di incisioni
torrentizie di un certo rilievo, e per lo più coincidenti con le “faccette triangolari” della
Carta geomorfologica.
Contestualmente, si è proceduto alla determinazione dell’angolo di portata specifico per
i vari contesti geologico-geomorfologici. In tal senso, si è operato tenendo conto della
letteratura più recente disponibile sull’argomento, sui territori d’interesse, tra cui, in
particolare Calcaterra et alii (1999), de Riso et alii (1999), Di Crescenzo & Santo (1999).
La valutazione del suddetto angolo è stata condotta considerando esclusivamente i valori di
H ed L, non potendo disporre dei valori di volumi mobilizzati per l’intera area di studio,
scegliendo i più idonei valori rispettivamente per frane generate a monte di impluvi e/o
valloni (e quindi passibili di incanalamento) e per frane lungo versanti planari.
Tali valori sono stati utilizzati, in prima approssimazione, a partire dal punto di
“Suscettibilità molto elevata all’innesco”, posto a quota più alta lungo le prescelte sezioni
di calcolo. In presenza di settori di versante posti a monte del suddetto punto e classificati a
“Suscettibilità elevata o media-moderata”, il primo calcolo è stato reiterato, al fine di
determinare le corrispondenti aree di possibile invasione. In caso di pronunciate anomalie

38
morfologiche lungo la sezione (concavo-convessità, tratti di versante planari che si
raccordano ad incisioni, ecc.), i calcoli sono stati ulteriormente replicati.
Al termine di tale fase, si sono quindi uniti i punti di massima invasione, corrispondenti
ai diversi livelli di suscettibilità, ottenendo quindi degli areali “preliminari”. Questi ultimi
sono stati successivamente controllati con una serie di dati, derivati dalla Carta
geomorfologica, quali frane (e loro effettiva “impronta”), conoidi, glacis d’accumulo
pedemontani, elementi antropici significativi (cave, vasche, rilevati), ecc. L’iniziale
delimitazione è stata quindi ridefinita in modo da pervenire alla versione definitiva della
Carta di suscettibilità all’invasione per frane da scorrimento-colata rapida.

L’esplicitazione dell’intero iter metodologico seguito per la redazione della carta di


pericolosità relativa (suscettibilità) da frana (innesco-transito-invasione) è visualizzata
nelle tre figure seguenti (la distribuzione dei valori di acclività delle aree di distacco si
riferisce al Vallo di Lauro).

39
40
Per quanto attiene alle frane da crollo in rocce lapidee, la definizione del limite di
massima invasione è affetto da margini di approssimazione connessi alla complessità
oggettiva del tema, ma anche alla vastità dei fronti lapidei considerati. L’elemento di
riferimento, di tipo areale, è mutuato essenzialmente dal rilevamento gemorfologico e
riguarda in particolare la presenza o meno di blocchi franati, nei tratti a valle delle balze
rocciose considerate (vedi zona di Taurano; collina dei Camaldoli e Monte Barbaro;
versanti dell’Epomeo). In un’area singolare, rappresentativa del contesto carbonatico, il
dato geomorfologico è stato confrontato con le risultanze di analisi di dettaglio relativa sia
all’assetto strutturale del fronte, sia alle traiettorie percorse da un blocco di riferimento. Le
risultanze dei dati acquisiti, con i limiti di approssimazione sopra riportati, sembrano
indicare (tenuto conto delle dimensioni prevalenti dei blocchi e della lunghezza dei
percorsi) che il limite massimo ricade, in un buon numero di casi, all’interno o al piede
delle aree di versante. In tali casi, esso viene a coincidere, nelle condizioni più sfavorevoli,
con la zona apicale delle aree a suscettibilità molto elevata all’invasione per frane da colata
rapida.

41
4.2 Valutazione della pericolosità dei fenomeni da allagamento per esondazione, da
flusso iperconcentrato e da trasporto liquido e solido da alluvionamento esondazione,

Le attività di studio eseguite per la perimetrazione delle aree a rischio idraulico sono
descritte nei paragrafi che seguono.

Attività conoscitiva
Questa fase iniziale dello studio è stata necessaria ad acquisire tutte le informazioni utili
per ricostruire lo stato di conservazione delle singole aste del reticolo idrografico del
bacino.
Più in particolare, in base ai risultati di sopralluoghi e di appositi rilievi è stato eseguito
il censimento sistematico, la localizzazione e la collocazione storica degli eventi critici di
allagamento e degli interventi di protezione eseguiti nel tempo ed il cui stato di
conservazione potrebbe essere in grado di influenzare il deflusso delle correnti di piena.

Documentazione prodotta
I documenti di sintesi di tale attività sono rappresentati da:
- catalogo delle ricognizioni del reticolo idrografico esistente riportante le
informazioni fotografiche e cartografiche relative ai sopralluoghi svolti per la
verifica dello stato di conservazione dei diversi tronchi dei corsi d’acqua
ispezionati; tali informazioni sono restituite anche in un data-base su supporto di
semplice utilizzazione (del tipo EXCEL, ACCESS );
- cartografia tematica riportante la localizzazione delle aree interessate da fenomeni
di allagamento per esondazione ricavata dai dati storici del progetto AVI
opportunamente integrati.

Studio idrologico

Lo studio idrologico ha lo scopo di elaborare un modello afflussi-deflussi in grado di


stimare le portate di piena con prefissati periodi di ritorno che possono verificarsi in una
generica sezione di un tronco d’alveo.

Nelle elaborazioni eseguite vengono evidenziati i seguenti aspetti:


- analisi e sviluppo di modelli probabilistici presi a riferimento;
- metodologia utilizzata per la stima dei parametri dei suddetti modelli;
- metodologia utilizzata per l’elaborazione statistica dei dati a disposizione;
- risultati delle elaborazioni effettuate a partire dai dati pluviografici e pluviometrici
a disposizione (medie aritmetiche, scarti quadratici medi, valori modali,ecc.);
- valutazione, nell’ambito delle zone pluviometriche omogenee, dei fattori di
crescita col periodo di ritorno T;
- determinazione, per ciascuna delle sottozone pluviometriche, delle relative curve
di probabilità pluviometriche;
- analisi e sviluppo dei modelli di trasformazione afflussi/deflussi prescelti per la
valutazione delle massime portate e dei massimi volumi di piena corrispondenti ad
assegnato periodo di ritorno;

42
La metodologia utilizzata nello studio idrologico fa riferimento a quella riportata nel
PAI 2002, proposta su scala nazionale dal progetto VAPI del Gruppo Nazionale per la
Difesa dalle Catastrofi Idrogeologiche (GNDCI).

In via più dettagliata, i valori della portata QT , corrispondenti al periodo di ritorno T,


possono essere stimati a partire da una relazione del tipo:
QT ? z Q © K T (1)

dove:
- z Q è un parametro centrale della distribuzione di probabilità della variabile
idrologica Q, massimo annuale della portata istantanea (ad esempio: la media, la
mediana, il valore modale, etc.)
- K T e’ un coefficiente amplificativo, denominato coefficiente di crescita col
periodo di ritorno T espresso dalla relazione
K T ? K T (T ) (2)

che dipende, per una data regione omogenea rispetto alle portate al colmo di piena,
solo dal particolare modello probabilistico adottato e dallo specifico parametro z Q
preso a riferimento (Tabella 1).
Le elaborazioni relative alla applicazione di tale modello fanno riferimento
ad una procedura di regionalizzazione gerarchica in cui i parametri vengono valutati a
scale regionali differenti, in funzione dell’ordine statistico.
Relativamente al valore da assegnare al periodo di ritorno T, prendendo a
riferimento le tre classi di valori riportate dal DPCM del 29/09/98 (T=20-50 anni; T=100-
200 anni; T=300-500 anni) si e’ fatto riferimento ai valori 20 anni, 100 anni e 300 anni.

La stima dei massimi istantanei delle variabili aleatorie (altezza di pioggia, intensità
di pioggia, portata di piena, etc.) corrispondenti ad assegnati valori del periodo di ritorno T,
è stata effettuata attraverso una metodologia di tipo probabilistico che utilizza il modello
T.C.E.V.
Nel caso specifico la variabile aleatoria presa in esame è il massimo annuale
dell’altezza di pioggia hd,T di assegnata durata d, corrispondente al periodo di ritorno T.
L’espressione

hd ,T ? hd ,T *d , T + (3)

viene, come noto, denominata “curva di probabilità pluviometrica per assegnato periodo
di ritorno T.
La (3) assume notoriamente l’espressione:
hd ,T ? X hd © K T (4)

dove

43
- X h è il parametro centrale della distribuzione di probabilità del massimo annuale
d

della altezza di pioggia in assegnata durata (per es. il valore modale ( g ) o la


media ( o ), ovvero parametri legati a momenti del primo ordine).
- K T è il coefficiente di crescita col periodo di ritorno T, che dipende per una data
regione omogenea rispetto ai massimi annuali delle altezze di pioggia, dal modello
probabilistico adottato e dal parametro X hd preso a riferimento.
Per quanto concerne la variabile X hd essa si assume comunemente corrispondente
al valore della media o hd dei massimi annuali di pioggia di durata d
X h » oh
d d
(5)

I valori del coefficiente di crescita K T delle piogge e delle portate sono indicati,
per i differenti periodi di ritorno T assunti, nella successiva Tabella 1.

T 20 100 300
Piogge KT 1.64 2.36 2.90
Portate KT 2.03 3.07 3.83

Tabella 1: Coefficienti di crescita K T per differenti valori del periodo di ritorno T

Al fine di conseguire valutazioni del parametro o hd (media dei massimi annuali


dell'intensità media di pioggia di durata d), si è fatto riferimento ai dati delle stazioni
pluviometriche di cui alla Tabella II allegata alla Relazione Idrologica del PAI 2002.
Sulla base delle condizioni geomorfologiche, l’intera area di studio è stata divisa in
tre diverse sottozone indicate nella planimetria schematica di figura 1, come sottozone n. 1
n. 2 e n. 3.
A partire da tali dati, si è innanzitutto individuato il tipo di modello di regressione
in base al quale caratterizzare il legame esistente tra i valori dell'intensità media di pioggia
oh
oi ? d
, le durate d prese a riferimento e le quote z sul livello del mare relative alle
d
d
singole stazioni di misura considerate; successivamente, si è passati a stimare i parametri in
esso contenuti eseguendo una analisi di gruppo (cluster analysis) attraverso la
massimizzazione del coefficiente di determinazione della regressione multipla.
Per quanto riguarda la forma del legame di regressione, si è fatto riferimento
all'espressione:
I0
o id ? C - Dz
(6)
à d Ô
Ä 1- Õ
Ä d Õ
Å c Ö

che presenta, rispetto alle più diffuse forme di tipo monomio, i seguenti vantaggi:
- per durate d › 0 , risulta o id › I 0 e, quindi, anche per durate ridotte si ottengono
valori non troppo elevati dell'intensità media di pioggia nella durata d;

44
- la derivata di o id rispetto a d si presenta continua in tutto l'intervallo di durate, il
che la rende notevolmente più duttile nella ricerca della durata critica con un
approccio variazionale;
- compare direttamente la quota z sul livello del mare.

Analogamente a quanto riportato nel PAI 2002, per la scelta del modello di
trasformazione afflussi/deflussi si è tenuto conto della estensione e delle caratteristiche
morfometriche dei bacini da esaminare.
In particolare per i bacini montani di superficie inferiore a 15 Km2 per la
valutazione delle portate piena si è ritenuto opportuno fare riferimento al metodo della
corrivazione ed in particolare alla formula razionale:

Q = Cf*i(tc) *S (7)

nella quale tc è il tempo di corrivazione del bacino (ore) calcolato con la nota formula di
Giandotti:

tc = (4 * S0.5+1.5*L)/ 0.8*(Hmed – Ho)0.5 (8)

in cui
L = lunghezza dell’asta principale in Km;
S = superficie totale del bacino in Km2;
Hmed = quota media del bacino in m;
Ho = quota della sezione di chiusura in m.

Per gli altri bacini il modello di trasformazione afflussi/deflussi utilizzato è quello


di Nash a tre serbatoi.
L’idrogramma di piena è fornito dalla risoluzione dell’integrale di convoluzione

t
Qt ? Ð p (v )u (t / v )dv (9)
0

nel quale la funzione u(t) rappresenta l'IUH del modello, la cui espressione è la
seguente
n /1 t
1 Ã t Ô
ut ? ÄÄ ÕÕ e K0
(10)
(n / 1)! K 0 Å K0 Ö

È possibile dimostrare che K 0 ? t r n , essendo t r il tempo di ritardo del bacino ed


n il numero di serbatoi. Ne consegue che, nel caso in esame, avendo scelto n=3, è stato
necessario valutare solo il tempo di ritardo t r di ciascuno dei bacini sottesi dalle singole
sezioni prese a riferimento, che può essere valutato con i diversi approcci riportati nella
Relazione Idrologica allegata al PAI 2002.

45
Per la valutazione del coefficiente di afflusso, per i sottobacini già oggetto di studio
idrologico nel PAI 2002 si è fatto riferimento ai valori contenuti nel predetto PAI.
Per i restanti sottobacini, sono stati stimati coefficienti di afflusso prendendo a
riferimento quelli riportati nel PAI 2002 per bacini aventi caratteristiche morfologiche
simili.

Nello studio idrologico, particolare attenzione è stata rivolta agli alvei/canali che, in
parti del tracciato, si presentano pensili rispetto ai terreni circostanti ed hanno una capacità
idrovettrice inferiore alla portata meteorica attesa.
In tale caso, per la stima dei volumi esondabili è stato fatto ricorso ad un modello
idologico di tipo cinematico, ipotizzando, per un assegnato periodo di ritorno, idrogrammi
di durata pari o superiore al tempo di corrivazione nella sezione di interesse che
massimizzassero al variare della durata il valore del volume esondabile.

Note le caratteristiche geometriche ed i materiali costituenti la sezione


dell’alveo/canale nel tratto in cui si presenta pensile rispetto ai terreni circostanti, è stata
valutata la sua massima capacità idrovettrice Q* (portata di soglia).
Il volume esondato può essere stimato mediante un processo di massimizzazione
della differenza tra le aree poste al di sotto dell’idrogramma trapezioidale in ingresso e la
fissata portata in uscita Q* (portata di soglia). Se la durata D dell’evento è pari al
tempo di corrivazione, il volume esondato è rappresentato dalla porzione di idrogramma
triangolare caratterizzata da valori delle portate superiori al valore di soglia Q. Assumendo
valori della durata D dell’evento superiori al tempo di corrivazione, il volume esondato è
rappresentato dall’area dell’idrogramma trapezoidale posta al di sopra del valore di soglia
Q*.
La stima del massimo volume esondabile è stata quindi riferita alla ricerca della
durata D che massimizza il valore del volume esondato in corrispondenza di un prefissato
valore della portata di soglia Q* e di un assegnato periodo di ritorno T.

4.2.3 Lo studio idraulico per la valutazione delle aree soggette a fenomeni di


allagamento per esondazione

Lo studio idraulico è stato finalizzato sia alla valutazione delle capacità di


convogliamento dei diversi tratti d’alveo nelle loro condizioni attuali, sia alla
individuazione della estensione delle aree di allagamento, nei tratti soggetti ad
esondazione.
In particolare nell’ambito dell’aggiornamento sono stati condotti studi di dettaglio
in aree per le quali si sono rese disponibili informazioni più dettagliate rispetto al PAI 2002
(ad esempio, rilievi topografici approfonditi), o nei casi in cui fossero stati compiutamente
realizzati interventi o manufatti i cui effetti possono comportare una significativa
mitigazione della pericolosità idraulica.
La modellazione idraulica dei fenomeni di propagazione delle piene in alveo e’
stata effettuata con riferimento ad uno schema di moto permanente monodimensionale, per
valori delle portate pari a quelli al colmo di piena con periodo di ritorno T= 20, 100 e 300
anni.
Nelle aree soggette ad allagamenti i calcoli idraulici sono stati condotti con
differenti criteri a seconda delle caratteristiche morfologiche degli alvei e dell’entità dei
46
fenomeni di allagamento (volume di acqua che può fuoriuscire dall’alveo), utilizzando
modelli semplificati basati sulla valutazione della distribuzione statica dei volumi esondati
e sul criterio della conservazione del carico idraulico nelle sezioni di esondazione.

Aspetti geomorfologici del reticolo idrografico

Gli alvei ricadenti nel bacino Nord Occidentale della Campania sono stati
schematizzati in tre tipologie :
- alvei naturali;
- alvei strada ;
- alvei tombati.

Per quanto concerne gli alvei naturali va evidenziato che le problematiche della
sicurezza idraulica, che rappresentano l’obiettivo principale dello studio idraulico, sono
connesse, come è noto, ai processi morfologici di erosione, trasporto e sedimentazione,
oltre che agli interventi antropici; pertanto, lo studio idraulico è stato accompagnato
prioritariamente da una analisi geomorfologia del reticolo fluviale nella quale i singoli
tronchi d’alveo sono stati caratterizzati come :
- torrenti montani, incisi in formazioni in posto in cui possono verificarsi dissesti di
carattere erosivo localizzati a piede dei versanti e colate rapide di fango o di detrito;
- tratti pedemontani, in cui si verificano processi di deposito nel breve, medio e
lungo periodo, con conseguente incremento del rischio di esondazioni per
restringimento delle sezioni trasversali che possono interessare i coni di deiezione;
- tratti incassati di pianura, in cui si verificano esondazioni delle portate in arrivo dai
bacini a monte per superamento della capacità di convogliamento idrico dell’alveo.

Particolare attenzione è stata posta nei confronti degli alvei strada. Infatti è
abbastanza frequente il verificarsi di alvei naturali che, arrivati in prossimità dei centri
abitati, divengono delle vere e proprie strade con la caratteristica di essere la sola via di
accesso a proprietà private, senza che si rilevi la presenza di opportune opere idrauliche
atte ad allontanare la naturale portata convogliata a monte dall’alveo.
Pertanto, tutti gli alvei strada sono stati perimetrali come zone a massima
pericolosità idraulica.
Infine per quanto concerne l’ultima tipologia che è quella degli alvei tombati va
evidenziato che nel territorio esaminato essa ricorre comunemente Infatti, è frequente il
caso di corsi d’acqua che per alcuni tratti vengono ad essere incanalati in sezioni chiuse.
Questi alvei sono stati studiati con particolare attenzione, in quanto una inadeguata
capacità idrovettrice, a fronte delle portate idrologiche attese, può causare problemi di
notevole rilevanza.

47
4.2 Il modello geometrico del corso d’acqua

La ricostruzione della geometria dei corsi d’acqua e delle aree limitrofe è stata
effettuata sia attraverso l’utilizzo di cartografia di base già esistente, sia attraverso una
campagna di rilievi topografici.
La cartografia di base utilizzata per definire la topografia delle aree oggetto dello
studio è rappresentata dal Rilievo aerofotogrammetrico in scala 1:5000 eseguito nel 2004
dalla Regione Campania;
Negli studi di dettaglio per l’aggiornamento del Piano, si è disposto per ogni alveo
da studiare un apposita campagna di rilievi effettuati secondo le indicazioni contenute nella
Relazione idrologica del PAI 2010.
Durante la campagna di indagini e rilievi particolare cura è stata richiesta nel rilievo
di sottopassi, ponti, alvei strada e per ogni singolarità che potesse risultare importante ai
fini della determinazione della pericolosità.
Tutta la campagna di rilievi è stata poi corredata di una vasta documentazione
fotografica.

4.3 La modellazione idraulica

La modellazione idraulica dei fenomeni di propagazione delle piene in alveo per i


corsi d’acqua per i quali si è svolto uno studio di approfondimento, è stata effettuata con
riferimento ad uno schema di moto permanente monodimensionale.
Le simulazioni sono state condotte con l’ausilio del codice di calcolo HEC-RAS
(Hydrologic Engineering Center - River Analysis System).
Per l’implementazione del codice di calcolo è necessario di tutto l’insieme di dati
che caratterizzano il sistema idrografico; in particolare necessitano i dati geometrici che
includono sia quelli topografici (coordinate planimetriche, quote altimetriche, ponti,
tombinature ecc) che le caratteristiche fisiche, quali i valori dei coefficienti di scabrezza e
delle portate.
Per la valutazione della scabrezza nella formula di resistenza si sono utilizzati i
seguenti coefficienti di Gauckler -Strickler:
- K=30 m1/3/s per i tronchi d’alveo in terra (corrispondente al coefficiente di
Manning pari a 0.033 m-1/3s);
- K=40 m1/3/s per i tronchi d’alveo in pietrame (corrispondente al coefficiente di
Manning pari a 0.025 m-1/3s);
- K=50 m1/3/s per i tronchi d’alveo sistemati in calcestruzzo e per fondo in asfalto
(corrispondente al coefficiente di Manning pari a 0.02 m-1/3s).

In merito alle condizioni al contorno, si è proceduto in diversi modi tenendo conto


delle caratteristiche idrauliche della corrente e dei manufatti eventualmente presenti a
monte e a valle dei tratti studiati.

Il codice di calcolo HEC-RAS utilizzato per lo studio idraulico è stato predisposto


dall’Hydrologic Engineering Center (HEC), dell’U.S. Army Corps of Engineers. In
particolare esso consente il calcolo del profilo del pelo libero sia in caso di moto
stazionario (steady flow) che in condizioni di moto non stazionario (unsteady flow).
48
Il programma è in grado di effettuare l’analisi di più profili contemporaneamente,
prevedendo la possibilità di inserire punti singolari (ponti, sottopassi, ecc.) e portate con
vari tempi di ritorno; é possibile, inoltre, un loro confronto per sovrapposizione. Inoltre
esso è in grado di simulare indifferentemente sia canali singoli che reti di canali naturali od
artificiali, integrando profili di moto permanente in regime di corrente lenta, veloce o di
tipo “misto”.
Per quanto concerne le ipotesi di base del codice di calcolo, con specifico
riferimento alla sussistenza della condizione di moto permanente assunta nei calcoli
effettuati,esse possono essere così riassunte:
- portata costante nel tempo nei vari tratti di canale/alveo (steady flow);
- moto della corrente idrica monodimensionale;
- canale/alveo con una pendenza sufficientemente piccola da poter ritenere che tiranti
idrici siano misurabili secondo una direzione verticale, piuttosto che
ortogonalmente alla linea di fondo
- corrente gradualmente variata.
-
Ovviamente, l’ipotesi di moto permanente preclude la possibilità di considerare
idrogrammi variabili nel tempo sia in termini input che come output del codice di calcolo.
Tale circostanza risulta comunque essere cautelativa ai fini della valutazione della capacità
idrovettrici del reticolo idrografico e, quindi, della delimitazione delle aree soggette a
fenomeni di allagamento.
L’ipotesi di corrente idrica gradualmente varia, oltre che monodimensionale, limita
la possibilità di analizzare fenomeni idraulici in cui queste ipotesi perdono di validità; ad
esempio, in corrispondenza di brusche variazioni planimetriche della linea d’asse del
canale/alveo, possono instaurarsi sensibili valori di sovralzo della superficie libera che
dovranno essere opportunamente sommati ai valori dei tiranti idrici valutati dal codice di
calcolo.
Inoltre l’ipotesi di piccola pendenza comporterà la necessità di valutare
separatamente gli effetti della eventuale insorgenza di fenomeni idraulici caratteristici di
canali/alvei ad elevata pendenza, quali, ad esempio, formazione di onde di traslazione a
fronte ripido e rigonfiamento della corrente per effetto dell’elevato trascinamento d’aria.
Relativamente alle equazioni idrodinamiche di base, il profilo del pelo libero in
condizioni di moto stazionario è calcolato, tra una sezione traversale e quella successiva,
risolvendo l’equazione dell’energia, con una procedura iterativa. L’equazione dell’energia
è la seguente:

c 2 V2 2 c 1 V1 2
Y2 + Z2 + = Y1 + Z1 + + he (11)
2g 2g
dove:

Y1, Y2 = altezza d’acqua nella sezione trasversale;


Z1, Z2 = quota del fondo del canale, rispetto ad un generico piano orizzontale di
riferimento;
V1, V2 = velocità media di portata;

49
g 1, g2 = coefficienti di ragguaglio delle potenze cinetiche;
g= accelerazione di gravità;
he = perdita di energia.

Linea dell'energia he
totale
c4V2²/2g
c3V1²/2g
Linea di pelo libero
Y2
W.S.2 Y1
Linea di fondo W.S.1

Z2
z=0 Piano di riferimento Z1

La somma di Z e Y, che rappresenta la quota del pelo libero rispetto ad un piano


orizzontale di riferimento, viene indicata con il termine W.S. (Water Stage).
La perdita di energia (he) tra due sezioni trasversali è costituita da due aliquote: una
dovuta all’attrito ed una dovuta all’espansione o contrazione della corrente. L’equazione
della perdita di energia è la seguente:

c 2 V2 2 c1 V12
he = L * Sf + C / (12)
2g 2g

dove:

L = distanza tra le due sezioni;


Sf = perdita di energia per unità di lunghezza, che può essere vista come la pendenza della
linea rappresentativa delle perdite di energia per attrito;
C = coefficiente per le perdite di espansione o contrazione

Le perdita di energia per attrito è calcolata con la seguente formula:

hfe = L * Sf (13)

La cadente Sf è determinata con la formula di Manning.

2 1
R 3
Sf 2

V= (14)
n
La perdita di energia, dovuta alla contrazione o espansione della corrente, è
calcolata mediante la relazione:

50
c 2 V2 2 c1 V12
hce = C / (15)
2g 2g

in cui C è un coefficiente di espansione o contrazione.


Il programma presume che si verifichi una contrazione ogni qual volta che la
velocità nella sezione di valle è maggiore della velocità nella sezione di monte;viceversa,
quando la velocità nella sezione di monte è maggiore della velocità nella sezione di valle, il
programma suppone che verifichi un’espansione.

Per una descrizione dettagliata delle procedure di calcolo previste dal codice HEC-
RAS si rimanda alla Relazione Idraulica del PAI 2010.

La determinazione delle aree allagabili

In via preliminare si ricorda che, con riferimento alla normativa del settore e
tenendo conto delle definizioni e dei criteri adottati dalle Autorità di bacino nazionali, la
regione fluviale, cioè quell’area interessata dai fenomeni idraulici ed influenzata dalle
caratteristiche naturalistiche e paesaggistiche connesse al corso d’acqua, si articola nelle
seguenti zone:
- alveo di piena ordinaria;
- alveo di piena standard;
- aree di espansione naturale della piena;
- aree ad elementi di interesse naturalistico, paesaggistico, storico, artistico ed
archeologico.

L’alveo di piena ordinaria, che ai sensi dell’art.822 del C.C. appartiene al Demanio
Pubblico, è definito come quella regione fluviale interessata dal deflusso idrico in
condizioni di piena ordinaria (periodo di ritorno 2-5 anni).
L’alveo di piena standard corrisponde a quella regione fluviale interessata dalla
piena di riferimento. Il periodo di ritorno di quest’ultima viene fissato tenendo conto della
particolare situazione in esame e l’alveo di piena deve essere delimitato sulla base delle
caratteristiche morfologiche del corso d’acqua e delle aree inondabili .
Le aree di espansione naturale della piena vengono incluse nelle fasce di pertinenza
fluviale quando esercitano un significativo effetto di laminazione.
Le aree ad interesse naturalistico, paesaggistico, storico, artistico ed archeologico
comprendono quella parte della regione fluviale appartenente alle aree naturali protette
(parchi e riserva naturali, nazionali, regionali) in base alla normativa vigente a livello
nazionale (art.2 della L.349/91 e s.m.i.) e regionali (piani paesistici e piani di bacino).
Sulla base delle precedenti definizioni e degli studi relativi, vengono identificate le
fasce di pertinenza fluviale la cui importanza, come è noto, è connessa alle ricadute in
termini urbanistici. Prendendo a riferimento per la piena standard un periodo di ritorno di
100 anni, si definiscono poi le seguenti tre fasce di pertinenza fluviale:
1. fascia A: coincide con l’alveo di piena, assicura il libero deflusso della piena
standard, assunta di norma a base del dimensionamento delle opere di difesa; si escludono
da tale fascia le aree i cui tiranti idrici siano modesti (inferiori ad 1.0 m);

51
2. fascia B : comprende le aree inondabili dalla piena standard ed è suddivisa nelle
seguenti tre sottozone:
- sottofascia B1
- sottofascia B2
- sottofascia B3
3. fascia C: coincide con quella compresa tra la sottofascia B3 e le aree inondabili
per portate con periodo di ritorno di 300 anni.

Il reticolo idrografico del bacino nord occidentale della Campania è


schematicamente rappresentato da:
- il sistema idrografico dei Regi Lagni costituito dal canale artificiale dei Regi Lagni
nel quale convergono una serie di “lagni” disposti a raggiera (Avella, Gaudo,
Quindici, Somma, Spirito Santo);
- numerosi valloni, generalmente incisi, che spesso non recapitano in un reticolo
idrografico vero e proprio, ma sversano le acque nelle zone di contatto con le aree
pianeggianti.
Alla luce di queste caratteristiche del reticolo, si evidenzia come nel caso in esame
appare non applicabile in senso stretto il concetto di regione fluviale e quindi quello di
fascia fluviale. Infatti, i fenomeni di esondazione sono caratterizzati generalmente da
allagamenti delle aree prossime alla sponde dei lagni o dei canali artificiali per effetto di:
- insufficienza idraulica dovuta a riduzione delle sezioni idriche utili causate
dall’apporto di detriti ovvero da materiale sversato impropriamente negli alvei;
- crisi idrauliche localizzate dovute a restringimenti di sezione (tombini, ponticelli,
ecc.);
- cedimenti di arginature e muretti spondali;
- utilizzo improprio degli alvei come sedi viarie (alvei-strada).
In definitiva, con riferimento alle precedenti considerazioni, si è preferita, nel caso
in esame, la dizione di “aree allagabili” a quella di “fasce fluviali”, caratterizzando (come
meglio esplicitato in seguito) ciascuna area in funzione del periodo di ritorno (T)
dell’evento di piena ed in funzione del tirante idrico medio (h) dell’acqua nell’area
allagata.

Per la valutazione delle aree allagabili, sono stati utilizzati criteri differenti in
relazione alle caratteristiche geometriche ed idrauliche degli alvei ed all’entità dei
fenomeni (volumi di esondazione).
A tal proposito si evidenzia che, in relazione alle caratteristiche idrauliche del
reticolo idrografico del bacino Nord-Occidentale della Campania (portate di piena
relativamente modeste, sistemazioni con strutture spondali o con vasche di laminazione,
interventi di tombamento dei canali nei centri urbani ecc.) ed alle cause più frequenti dei
fenomeni di dissesto (riduzione delle sezioni idriche per effetto del trasporto solido e
dell’uso improprio dei canali, manutenzione ordinaria carente, trasformazioni idrauliche
delle reti di drenaggio naturale in reti artificiali ecc.), i volumi di esondazione non sono, in
linea generale, quasi mai elevati.
Alla luce di ciò, nello studio idraulico per la delimitazione delle aree di
esondazione, in alternativa ai modelli teorici la cui complessità operativa spesso ne rende
poco proficua l’utilizzazione, sono stati utilizzati alcuni schemi concettuali approssimati,

52
semplici nella applicazione e fisicamente basati su oggettive considerazioni di carattere
idraulico.
In particolare, nel caso di alvei di “pianura” sono state individuate le sezioni
trasversali di rilievo in cui si è stimato che possa manifestarsi l’esondazione ed il lato in cui
le zone circostanti vengono inondate (nel caso in cui il tirante idrico risulta maggiore solo
della quota di una delle due sponde dell’alveo).
Successivamente, considerando le sezioni trasversali interpolate tra le sezioni
originarie di riferimento, sono stati individuati i vari tratti in cui è previsto l’allagamento.
Dalla restituzione del profilo di rigurgito e delle tabelle di output del codice di
calcolo HEC-RAS, in ogni sezione in cui è prevista l’esondazione dell’alveo è stato
individuato il valore dell’altitudine della superficie idrica (in m s.l.m.m.) in corrispondenza
del convogliamento delle portate attese per ognuno dei periodi di ritorno considerati
(T=20, 100 e 300 anni).
Il limite destro e/o sinistro delle aree soggette ad allagamento si è ottenuto
dall’intersezione, in ogni sezione trasversale in cui è prevista l’esondazione dell’alveo, del
piano orizzontale, avente quota pari all’altitudine della superficie idrica valutata nella
sezione di interesse, con la rappresentazione cartografica di rilievo, appoggiata alla
cartografia ufficiale della Regione Campania del 2004.
Nei casi in cui i fenomeni di esondazione si manifestano in tratti “pensili” rispetto al
territorio circostante, ovvero, qualora l’intersezione del piano orizzontale avente quota pari
a quella della superficie idrica della piena con la rappresentazione cartografica disponibile
in scala 1:5.000 si verificasse a distanze troppo elevate dall’asse del canale, si è adottata
una diversa procedura, onde evitare la perimetrazione di aree di estensione eccessiva, non
compatibile con i volumi di esondazione stimati.
In tali casi, si rende indispensabile l’esecuzione di rilievi e sopralluoghi di estremo
dettaglio, finalizzati allo studio particolareggiato della morfologia dell’area interessata, in
modo da poter giungere ad una valutazione realistica della estensione dell’area
potenzialmente soggetta ad allagamento.
Il valore del volume esondabile è stato stimato, per un prefissato periodo di ritorno, a
partire dalla valutazione dell’idrogramma di piena nella sezione idraulicamente
insufficiente, avente una capacità idrovettrice pari ad un valore di portata Q* inferiore alla
portata al colmo di piena QT. In particolare, sono stati assunti idrogrammi di forma
triangolare/trapezia, sulla base della assunzione di un modello cinematico di
trasformazione afflussi-deflussi (metodo della corrivazione).
Per diversi valori della durata D dell’evento meteorico è stato stimato il
corrispondente idrogramma e quindi il volume esondato W. È stato così possibile
individuare il valore della durata che massimizzasse il valore del volume esondato dal
canale/alveo.
La valutazione delle superfici soggette ad allagamento è stata quindi effettuata
utilizzando il modello digitale del terreno (DEM) dell’area interessata dal fenomeno di
allagamento.
Analogamente a quanto già riportato nel PAI del 2002, sono state infine delimitate le
aree inondabili per differenti pericolosità, P, introducendo una matrice di pericolosità in
cui il valore di P viene correlato all’altezza del tirante idrico ed al periodo di ritorno
dell’evento. considerato.

Il livello di pericolosità, Pi, è stato definito in funzione di due parametri T ed h:

53
Pi = f( T, h)
essendo:
T, il periodo di ritorno dell’evento;
h, il tirante idrico medio nell’area allagata.

Relativamente al valore da assegnare al periodo di ritorno T, prendendo a riferimento le


tre classi di valori riportate nel DPCM del 29/09/98.(T=20-50anni; T=100-200anni;
T=300-500anni) si è fatto riferimento ai valori T= 20; T= 100; T=300 anni.

Ciò detto, sono stati introdotti i seguenti livelli di pericolosità:


- P4 – pericolostà molto elevata;
- P3 - pericolostà elevata;
- P2 - pericolostà media;
- P1 - pericolostà moderata.

Ciascun livello Pi è correlato ad una coppia di valori T,h definiti dalla matrice di
seguito riportata:

PTn
Pericolosità (3 œ n œ 1)
PT1 PT2 PT3

Ph1 P1 P1 P2
Phm
Ph2 P2 P2 P3
(3 œ m œ 1)
Ph3 P3 P4 P4

avendo posto:

Periodo di ritorno Pericolosità relativa Intensità

300 anni PT1 Bassa


100 anni PT2 Media
20 anni PT3 Alta

54
Tirante idrico (h) Pericolosità relativa Intensità

h < 0.50 m Ph1 Bassa


1.00 m > h > 0.50 m Ph2 Media
h > 1.00 m Ph3 Alta

Studi di dettaglio

Nel PAI 2010, utilizzando la metodologia illustrata sono stati sviluppati studi di
dettaglio per i seguenti alvei:
- Alveo Quindici
- Alveo di Casamarciano
- Alveo Acquaserta
- Alveo Arena a S. Felice a Cancello
- Aste del Bacino Carmignano (Vallone Mandre Papi,Vallone Pompilio, Vallone
Rosciano)
- Aste nel Comune di Liveri
- Aste del Bacino Spirito Santo (Lagno Spirito Santo, Lagno Amendolare, Lagno
Pomentella, Lagno Sorbo, Lagno Cupa dell’Olivella, Lagno Sant’Elmo, Lagno
Spirito Santo Sinistro)

4.2.4 Lo studio idraulico per la valutazione delle aree soggette a fenomeni di flusso
iperconcentrato (colate di tipo fangoso)

La valutazione della pericolosità idraulica in aree di conoide esposte ad eventi di colata


detritico-fangosa richiede, in via preliminare, la stima di alcuni parametri fondamentali che
possono caratterizzare l’evento, oltre che una scrupolosa attività di campo, consistente
nella raccolta della necessaria documentazione tecnica e delle indagini in sito.

In via più specifica gli elementi necessari ad effettuare uno adeguato studio dei
fenomeni in esame possono essere sintetizzati nei seguenti punti:
- magnitudo dell’evento, ovvero volume mobilitabile;
- fangogramma della colata;
- modellazione dei flussi di colata (flussi iperconcentrati), finalizzata alla valutazione
dei percorsi di propagazione ed alla conseguente perimetrazione delle aree soggette
a pericolo di invasione.

55
Magnitudo dell’evento

Il volume mobilitabile (magnitudo dell’evento) è una grandezza che va intesa come il


limite superiore del volume potenzialmente coinvolto in un evento di colata. Tale volume
si compone generalmente di due aliquote:
- volume proveniente dai versanti del bacino di alimentazione sotteso dalla sezione
di interesse;
- volume eventualmente mobilitato durante l’evento per effetto del trasporto
innescato dalla colata lungo il suo percorso all’interno delle incisioni.
La letteratura tecnico-scientifica fornisce alcune indicazioni sulle procedure di stima
del volume mobilitabile che, come è noto, dipende da molteplici parametri legati alla
natura geologica, geotecnica ed idraulica dei versanti interessati. Nel seguito si illustra
sinteticamente l’approccio metodologico qui previsto per analizzare questo aspetto,
rimandando per maggiori dettagli alla Relazione metodologica - Pericolosità geologica ed
idraulica in aree di conoide
Per la valutazione dei volumi potenzialmente mobilitabili ad opera di eventi franosi si
suggerisce una procedura basata sull’individuazione di alcuni parametri caratteristici del
fenomeno. In primo luogo, attraverso la redazione della Carta della Suscettibilità
all’innesco, occorre definire i settori del bacino da cui un ipotetico evento franoso può
raggiungere il fondovalle ed interessare il centro abitato. In tal modo si valuta il volume
della frana di maggiori dimensioni (“frana di progetto”), sulla base della sua energia di
rilievo e dello spessore delle coperture, ed ipotizzando la geometria del corpo di frana.
La metodologia per la valutazione della suscettibilità all’innesco è quella già adottata
nel PAI 2002 per i massicci carbonatici (AA. VV., 2002; CALCATERRA et al., 2003).
Il potenziale d’invasione della “frana di progetto” viene calcolato adottando il metodo
dell’ angle of reach (angolo di estensione - HEIM, 1932).
Esso è dato dal rapporto di due grandezze (Fig. ):
H = dislivello misurato dalla quota massima del coronamento di frana (qn) e la quota
assoluta dell’unghia del cumulo di frana (qfc);
L = distanza orizzontale misurata a partire dal coronamento fino all’unghia del cumulo
di frana.
In pratica quindi:
angolo di estensione (y) = arctg H/L = arctg (qn-qfc)/L

56
Fig. - Rappresentazione schematica dell’angolo di estensione.

Il valore dell’angolo di estensione è stato correlato da diversi autori ai volumi


mobilizzati da varie tipologie di frane (cfr.: SHREVE, 1968; SCHEIDEGGER, 1973; HSÜ,
1975, 1978; COROMINAS, 1996). E’ stato altresì dimostrato, sulla base di numerosi casi,
che esso diminuisce con l’aumentare del volume al di sopra del valore di 100.000 m3
mentre si mantiene costante per valori più bassi.
Per quanto attiene agli studi svolti sull’argomento da ricercatori che hanno lavorato nei
contesti appenninici campani, un’analisi statistica del rapporto H/L delle numerose frane
verificatesi nell’area flegrea, in Penisola Sorrentina, nei M.ti di Avella e sul Pizzo D’Alvano
ha evidenziato che in ambito flegreo e nella Penisola Sorrentina si riscontrano valori di angle
of reach più alti rispetto ai versanti del Pizzo d’Alvano (Fig. )
Dal grafico cumulativo di Fig. risulta invece che, indipendentemente dal volume
mobilitato, i vari eventi censiti possono essere interpolati secondo una relazione lineare o,
meglio ancora, secondo una funzione di potenza (CALCATERRA et al., 2004).

Fig. - (A) - Avanzamento delle frane da scorimento-colata rapida basato sul rapporto H/L per i vari contesti
della Campania. (B) Curve di migliore approssimazione per i valori di H/L: a= regressione lineare; b =
funzione di potenza (CALCATERRA et al., 2004).

Per la valutazione della geometria del corpo di frana viene proposto un criterio di tipo
geomorfologico scaturito dall’analisi di numerose frane e riportato in DI CRESCENZO &
SANTO (2005). Più in particolare, lo studio, derivato dall’analisi delle caratteristiche

57
morfologiche e morfometriche di 172 frane da scorrimento-colata rapida (sia del tipo
incanalato che su versante regolare) che hanno interessato i diversi massicci carbonatici
della Campania, perviene al diagramma di Fig. che è stato tarato sui dati di 46 frane di tipo
incanalato.

Fig. – Relazione tra l’energia del rilievo e l’area della zona di frana nel caso di frane da scorrimento-colata
del tipo incanalato (DI CRESCENZO & SANTO, 2005).
Dopo aver definito la potenziale area in frana si può pervenire alla valutazione del
volume mobilitabile, tenendo conto dello spessore delle coperture presenti sul versante.

Fangogramma della colata

Di particolare interesse ai fini dello studio della pericolosità idraulica risulta essere la
definizione della modalità secondo cui il volume mobilitabile Wc è distribuito nel corso di
un evento di colata; si tratta, in estrema sintesi, di ipotizzare quale sia l’idrogramma che
caratterizza una colata di volume assegnato e pari appunto al volume mobilitabile.
Detta Dc la durata dell’evento di colata e Qc,max il massimo valore della portata della
colata durante l’evento stesso, si tratta di valutare le possibili coppie di valori (Dc,
Qc,max)che forniscano un idrogramma della colata di volume pari a Wc.
Non esistendo criteri univoci per la stima dei singoli parametri Dc e Qc,max, è lecito
assumere che la durata Dc dell’evento di colata sia pari a due volte il tempo di corrivazione
Tc del bacino idrografico sotteso, determinabile secondo le classiche formulazioni a base
idrologica. Per conseguenza, ipotizzando un idrogramma di tipo triangolare, di volume pari
a Wc, l’unica incognita Qc,max può essere semplicemente calcolata mediante la relazione:
W
Qc ,max ? c (16)
Tc
Tale relazione, ovviamente, rapportando la grandezza Wc, che può facilmente consistere
in alcune decine di migliaia di metri cubi, al parametro Tc, che per bacini di modesta
estensione è dell’ordine di alcuni minuti, fornisce valori di Qc,max che possono essere
facilmente di alcuni ordini di grandezza superiori al valore della portata al colmo di acqua

58
chiara del bacino stesso, ancorchè assunto per periodi di ritorno elevati. Peraltro tale
circostanza è confermata da numerosi dati reperibili in bibliografia, tra i quali si ritiene
opportuno citare il contributo fornito da VANDINE (1996).
In particolare, per bacini di piccola estensione, la massima portata al colmo della colata
può essere fino a 40 volte superiore alla portate meteorica caratterizzata da periodo di
ritorno duecentennale.
Sulla scorta delle suddette considerazioni, è quindi possibile stimare l’idrogramma della
colata (talvolta anche denominato fangogramma) per l’area in esame esposta al rischio di
colata.

Modellazione dei flussi di colata

Il fenomeno di propagazione di una colata detritico-fangosa è fondamentalmente


controllato dalle resistenze al moto agenti sul flusso e dalla topografia caratteristica del
dominio spaziale entro cui evolve il fenomeno.
La modellazione numerica, per lo specifico caso di studio, può essere condotta mediante
codici di calcolo per la simulazione di flussi bi-dimensionali a superficie libera che
prevedano la possibilità di modellare anche fluidi non newtoniani.
Le equazioni che canonicamente vengono utilizzate per la simulazione di flussi bi-
dimensionali a superficie libera, sono costituite da un sistema di equazioni differenziali alle
derivate parziali (equazione di continuità ed equazioni di conservazione della quantità di
moto), di seguito riportato (O'BRIEN et al., 1993):

•h • h V x • h V y
+ + = q (17a)
•t •x •y

•h V x • V x V y • V x 1 • V x
J x = ix - - - - (17b)
•x g •x g •y g •t

•h V y • V y V x • V y 1 • V y
J y = iy - - - - (17c)
•y g •y g •x g •t

essendo:
- h il tirante idrico;
- Vx e Vy le componenti della velocità mediata sulla verticale secondo la direzione x e
la direzione y;
- q la portata in ingresso per unità di superficie;
- Jx e Jy le resistenze unitarie al moto;
- ix e iy le pendenze del fondo rispettivamente secondo la direzione x e y.

59
Per quanto riguarda il moto di “flussi iperconcentrati”, ovvero correnti caratterizzate da
elevate concentrazioni di sedimenti, le resistenze al moto dipendono fortemente anche
dalle caratteristiche reologiche della miscela. In tale condizione, infatti, il termine generico
di resistenza J può essere espresso come somma di diverse componenti:

J = J lim - J vis - J tur (18)

essendo:
- Jlim le resistenze da vincere per avere l’inizio del moto;
- Jvis le resistenze al moto di tipo viscoso;
- Jtur le resistenze al moto dovute agli sforzi turbolenti.
In particolare i termini che compaiono nella precedente equazione possono essere
esplicitati secondo quanto di seguito indicato:
v lim (19)
J lim =
im h

dove v lim è lo sforzo di soglia della miscela e i m è il suo peso specifico;

K o V
J vis = (20)
8 i m h2

dove o è la viscosità dinamica della miscela, e K è il parametro di resistenza che per


moto laminare in alveo rettangolare larghissimo è pari a 24;
2
n V2
J tur = M 4/3 (21)
R
dove n M è il coefficiente di Manning per la valutazione delle resistenze al moto in
condizioni di moto uniforme, il cui valore va definito in funzione della scabrezza delle
pareti e della concentrazione del materiale solido.
Per la definizione numerica dei parametri precedentemente richiamati, ci si è avvalsi di
dati reperibili in letteratura, e, laddove possibile, a casi di studio specificamente riferiti alle
colate fangose che colpirono l’area sarnese nel maggio del 1998.
In linea generale tra le equazioni maggiormente utilizzate per la caratterizzazione
reologica della miscela fangosa si ricordano le:

o = a e bC v
(22)

v lim ? c e d ©C v
(23)

dove, appunto, Cv è la concentrazione volumetrica dei sedimenti e a, b , c e d sono


coefficienti sperimentali tipici della miscela considerata.
Dunque le colate fangose sono modellate come flussi non omogenei e non newtoniani,
in cui le proprietà del fluido possono variare significativamente durante la propagazione su
60
superfici molto ripide o su conoidi alluvionali; di particolare importanza sono le proprietà
della miscela fluida, che si compone di acqua e sedimenti fini, della geometria del canale,
della pendenza e della scabrezza. Per alte concentrazioni di sedimenti, si alterano le
proprietà del fluido quali la densità, la viscosità e gli sforzi di taglio e quindi il suo
comportamento reologico.
Nelle simulazioni da effettuarsi, le caratteristiche reologiche della colata fangosa sono
state assunte sulla base di quelle indicate nel rapporto EC.1 (ROSSI & BOVOLIN, 1998)
dell’Unità Operativa 2.38 dell’Università degli Studi di Salerno (Gruppo Nazionale per la
Difesa dalle Catastrofi Idrogeologiche, C.N.R. – G.N.D.C.I.).
I valori dei coefficienti nelle relazioni che caratterizzano il comportamento reologico
del fango ipotizzato sono riportati nella tabella che segue

o=aeb Cv vlim=cedCv
a b c d
0.15 15 0.10 15

Valori dei coefficienti a,b, c,d

assumendo per la concentrazione Cv valori variabili tra 0.30 e 0.40.


Le modellazione dei flussi iperconcentrati, nei limiti dell’approssimazione propri della
“sperimentazione numerica”, sono certamente utili ai fini della perimetrazione delle aree
soggette ad invasione da parte dei volumi fangosi mobilitati.
I valori dei tiranti della colata h e delle velocità di propagazione V, caratterizzanti i
flussi fangosi nel dominio di calcolo, consentono quindi di stimare i livelli di pericolosità
nelle aree soggette ad invasione, sulla base di una opportuna classificazione.
Nel caso specifico delle colate, a differenza dei criteri utilizzati per la definizione dei
livelli di pericolosità in aree soggette a fenomeni di allagamento, si è ritenuto opportuno
considerare attentamente anche la quantità di moto del flusso oltre che i tiranti. Infatti, la
capacità distruttiva di un fronte di colata dipende dalle sue caratteristiche impulsive e
dinamiche oltre che dalla altezza del fronte. Per tale motivo i livelli di pericolosità in aree
soggette all’invasione di colate detritico fangose sono stati stimati secondo lo schema di
seguito riportato.

61
Pn h h* v
(m) (m2 /s)

P4 oppure
h>1.00 h* v >1
P3 oppure
0.30<h<1.00 0.3<h* v<1
P2 e
0.10<h<0.30 h* v < 0.3
P1 e
h<0.10 h* v < 0.3

La analisi del fenomeno di propagazione dei flussi fangosi vengono effettuati mediante
modellistica numerica. Esistono in letteratura diversi approcci al problema. Nelle
calcolazioni effetuate per i “casi studio” del PAI 2010, è stato utilizzato il codice di calcolo
FLO-2Dł (versione 2007.06) messo a punto da Jimmy S. O’ Brien e commercializzato
dalla FLO-2D Software Inc.; tale codice simula il fenomeno di propagazione di un flusso
iperconcentrato nell’ipotesi di propagazione bi-dimensionale.
Studi di dettaglio

Nel PAI 2010, utilizzando la metodologia illustrata sono stati sviluppati studi di
dettaglio per i seguenti casi ricadenti nel contesto carbonatico:

- Arpaia (in provincia di Benevento)


- S.Maria a Vico (in provincia di Benevento)
- San Felice a Cancello (in provincia di Benevento)

I risultati degli studi sono riportati nella Relazione metodologica - Pericolosità


geologica ed idraulica in aree di conoide. L’approccio calcolativo proposto potrà essere
applicato in tutti gli altri casi in cui non è stato possibile estendere attualmente l’analisi.

7.1 4.2.5 Lo studio idraulico per la valutazione delle aree soggette a fenomeni di
trasporto liquido e trasporto solido da alluvionamento.

Queste aree, presenti sia nella cartografia del PAI 2002 che in quella del PAI 2010, si
riferiscono a quei casi in cui sono stati rilevati al piede degli alvei montani conoidi attivi a
composizione granulometrica prevalentemente ghiaioso-sabbiosa oppure sabbiosa.
Nelle zone pedemontane la morfologia più evidente, legata all’azione erosiva, di
trasporto e deposito dei materiali da parte dei corsi d’acqua torrentizi, è rappresentata dalle
conoidi alluvionali. Esse possono essere definite come forme di deposito torrentizio, con
superficie a forma di segmento di cono, che si irradiano sottopendio dal punto in cui il
corso d’acqua esce da un’area montuosa, ovvero dove cambia il gradiente topografico

62
(RICCI LUCCHI, 1978). Singole conoidi possono congiungersi lateralmente formando
conoidi composite o fasce pedemontane.
Nell’ambito di una conoide è possibile distinguere diversi elementi, d’ordine per lo più
geomorfologico e sedimentologico, che consentono di zonare il corpo d’accumulo in
settori omogenei, a partire dal suo apice. In tal senso, è possibile distinguere settori apicali,
intermedi e distali.
Le conoidi che hanno una genesi per trasporto in massa, con formazione di flussi ad alto
contenuto di carico solido, mostrano alcune evidenze morfologiche e sedimentologiche
(AULITZKY, 1982; PIERSON & COSTA, 1987; COSTA, 1988; BLAIR & MC PHERSON, 1994a;
HUNGR, 2001), tra cui (Fig. 1.2): depositi massivi, caotici, a matrice prevalente, in cui la
frazione grossolana è disposta in modo casuale nella matrice più fine (HOOKE, 1987) ed in
cui non sono presenti evidenze di stratificazione; ampio fuso granulometrico (dalle argille
ai blocchi); clasti con angoli a spigoli vivi o smussati; assenza di orientazione per i clasti di
maggiore dimensione; argini laterali costituiti da depositi grossolani e superfici di
terminazione lobate; presenza di molti blocchi sulla superficie della conoide; presenza di
canali sepolti a forma di “U”; danni alla vegetazione d’alto fusto (cicatrici da impatto e da
abrasione).
I fenomeni del tipo debris-flows in genere danno luogo alla deposizione della maggior
parte del materiale sulla conoide ed in special modo nella sua parte apicale, con un
deposito che presenta gradazione da inversa (alla base) a normale (verso l’alto) della
sequenza sedimentaria.
Le conoidi generate da processi di trasporto fluviale selettivo presentano corpi
sedimentari stratificati e gradati sia trasversalmente, sia longitudinalmente rispetto
all’alveo (BULL, 1977; BLAIR & MC PHERSON, 1994a, 1999a). I depositi più grossolani
infatti sono sedimentati nella parte apicale, mentre quelli più fini si rinvengono più a valle.
A causa dell’alto valore percentuale della componente liquida, i flussi sono in grado di
convogliare fino al corso d’acqua principale rilevanti apporti di sedimenti sottili. In genere
danno origine a pellicole di depositi poco spesse, con assenza di forme quali lobi ed argini.
Gli elementi si presentano arrotondati in quanto trasportati per rotolamento e
trascinamento.
Nelle conoidi di tipo misto sono evidenti alternanze di forme e depositi indicativi di
entrambe le precedenti tipologie e talora attribuibili a frane (colate detritiche).
A ciascuno di questi processi corrispondono flussi dotati di una diversa capacità
distruttiva, dal che derivano differenti effetti sulle eventuali strutture antropiche esistenti
nella zona pedemontana. In materia di processi geomorfici del tipo flusso/colata è
opportuno ricordare che esiste un ulteriore criterio classificativo su base reologica,
proposto nel 1987 da PIERSON & COSTA (Fig.).

63
Fig. - Principali processi geomorfici del tipo flusso/colata secondo lo schema di PIERSON & COSTA (1987).

Il territorio dell’Autorità di Bacino Nord Occidentale della Campania è in gran parte


caratterizzato da rilievi collinari e montuosi impostati prevalentemente in rocce
carbonatiche e terreni vulcanici, ai cui piedi ricadono numerosi centri abitati. Le alte
energie di rilievo e le elevate acclività dei bacini imbriferi favoriscono fenomeni erosionali
e gravitativi, che a loro volta sono responsabili di significativi accumuli pedemontani,
talora identificabili come conoidi detritico-alluvionali.
Queste ultime si presentano di dimensioni variabili, più limitate in corrispondenza degli
affioramenti vulcanici, come nel caso dell’area flegreo-napoletana, dove il trasporto solido
è prevalentemente legato al rimaneggiamento di sedimenti a granulometria fine, quali
sabbie e ceneri vulcaniche. Viceversa, nei contesti carbonatici i corpi di conoide assumo
dimensioni maggiori, sino a circa 1 km2, con granulometria tipicamente ghiaiosa e talora
con presenza di blocchi calcarei nelle zone apicali. L’estensione delle conoidi dipende
chiaramente dall’ampiezza del bacino imbrifero che le alimenta e che normalmente non
supera i pochi km2; in media, le lunghezze dei lobi di conoide sono contenute tra i 500 m
ed il km.

In occasione della redazione del PAI 2002 sono stati riconosciuti e cartografati circa
120 corpi di conoide, per i quali sono state distinte le aree attive dai settori reincisi ed
ormai fossilizzati. La distribuzione delle conoidi segue fedelmente la base dei massici
carbonatici, con presenza di accumuli detritico-alluvionali soprattutto nella valle del Clanio
e nel Vallo di Lauro, nei monti di Caserta e Maddaloni, su entrambi i versanti della valle
tra Maddaloni ed Arpaia. Sono altresì presenti conoidi lungo il perimetro basale
dell’edificio del Somma-Vesuvio ed ai piedi dei principali rilievi collinari dell’area flegrea
(es.: Camaldoli).
64
Le stesse conoidi sono state oggetto di nuovi approfondimenti nella predisposizione del
PAI 2010, durante la quale sono stati eseguiti nuovi rilievi geomorfologici ed ulteriori
indagini speditive (scavi e trincee) e sono state consultate fotografie aeree ed ortofoto più
recenti.
Le osservazioni di campagna e le indagini hanno dimostrato che, nell’ambito del
distretto carbonatico, le conoidi possono rientrare in due differenti tipologie e più
precisamente:
- conoidi alluvionali di tipo selettivo, accresciute esclusivamente a seguito di
trasporto torrentizio di sedimenti per lo più ghiaioso-sabbiosi;
- conoidi “miste”, legate alla deposizione di sedimenti di varia granulometria ora
legati a correnti idriche, ora a fenomeni di trasporto in massa (frane).
Al primo gruppo fanno capo le conoidi che si riscontrano in corrispondenza di bacini
imbriferi (talora di diversi km2) che presentano coperture piroclastiche discontinue e di
limitato spessore (< 0,5 m). Situazioni analoghe si ritrovano soprattutto sui versanti
meridionali dei massicci carbonatici ubicati a notevole distanza dai centri eruttivi; esempi
in tal senso sono le conoidi di S. Maria a Vico, Avella, Roccarainola, Maddaloni, ecc..
Al secondo gruppo fanno capo numerose conoidi (generalmente di dimensioni più limitate)
che si sviluppano alla base di bacini imbriferi caratterizzati da versanti con copertura continua
e spessa (1-2 m) di piroclastiti da caduta. Esse si ritrovano soprattutto lungo i settori
settentrionali di strutture carbonatiche più prossime al Somma-Vesuvio; esempi sono le
conoidi di Quindici, Lauro, Arpaia, Carbonara e Marzano di Nola, ecc..
Per quanto riguarda i distretti vulcanici, in relazione al diverso impianto
morfostrutturale delle due aree (edificio centrale nel caso del Somma-Vesuvio; caldera
policentrica per i Campi Flegrei), sono state riscontrate caratteristiche alquanto
differenziate.
Ai piedi dei versanti settentrionali del Somma-Vesuvio è presente un’ampia fascia a
debole pendenza di raccordo con la piana, definita apron (SBRANA et al., 1997), dove sono
prevalenti i fenomeni di accumulo di depositi piroclastici sia primari che rimaneggiati. In
tale area sono riconoscibili diverse generazioni di conoidi detritico-alluvionali, reincise, la
cui attività è stata fortemente ridotta dalla realizzazione di canali artificiali (Regi Lagni).
Nell’area flegrea, invece, alla base dei principali rilievi collinari (es.: Camaldoli, Conca
di Agnano) si rinvengono conoidi per lo più miste, di modesta estensione planimetrica, da
ricondurre a versanti dotati di una minore energia di rilievo, se confrontata con quella del
distretto carbonatico.
Anche in questo settore, a causa delle notevoli modifiche nella morfologia originaria dei
luoghi, le forme di accumulo sono difficilmente riconoscibili in superficie. Inoltre, molti
impluvi nel loro decorso verso valle perdono la propria evidenza morfologica, coincidendo
di frequente con strade ed assumendo pertanto il carattere di alvei-strade.

Nella predisposizione del PAI 2010, sono state globalmente riviste tutte le conoidi
ricadenti nel territorio di competenza dell’Autorità di Bacino. In tal modo è stato possibile
ridefinire con maggiore precisione il perimetro delle conoidi, i settori di conoidi reincisi e
non più attivi, i settori di conoidi ormai totalmente urbanizzati, le nuove opere realizzate.
Per quanto concerne la valutazione della pericolosità da fenomeni di alluvionamento va
evidenziato che, se per le frane e per le esondazioni sono stati messi a punto diversi metodi
di valutazione della pericolosità, per i suindicati fenomeni in ambito di conoide si risente

65
ancora di un certo ritardo in campo scientifico, con conseguenti difficoltà nella risoluzione di
problematiche di notevole impatto territoriale ed urbanistico.
La pericolosità di questi processi deriva principalmente dalle ingenti quantità di
materiale solido che possono essere mobilitate e giungere sino a valle, e dal breve
intervallo di tempo entro il quale solitamente si innescano e si esauriscono le onde di piena.
Tali caratteri derivano a loro volta dall’elevata acclività dei pendii dei bacini torrentizi, cui
si associa spesso un’alta produttività di detrito (coperture alteritiche sciolte, falde detritico-
colluviali sospese), e dall’elevata inclinazione degli alvei che conferisce ai flussi idrici
grandi velocità ed energia, permettendo di prendere in carico detrito anche di notevole
dimensione.

Un approccio metodologico per affrontare lo studio di questo complesso fenomeno è


stato illustrato al precedente paragrafo 4.2.4 mentre, una applicazione della stessa
metodologia è stata effettuata per due “casi studio”esaminati. Per approfondimenti ulteriori
si rimanda alla Relazione metodologica - Pericolosità geologica ed idraulica in aree di
conoide
Allo stato attuale per la perimetrazione delle aree di conoide non è stato possibile
effettuare uno studio di dettaglio ma si è fatto ricorso sostanzialmente ad un approccio di
tipo geomorfologico.
Il livello di pericolosità relativa, Pi, è stato definito in funzione di due parametri G e d:

Pi = f( G, d)

essendo:
G = granulometria dei depositi
d =ubicazione dell’area critica rispetto all’apice del conoide

Relativamente alla caratterizzazione dei parametri G e d si è posto

G1 = materiali grossolani (ghiaia e sabbia)


G2 = materiali sottili ( limo e sabbia)

d1= zona apicale


d2= zona distale

Sono stati introdotti i seguenti livelli di pericolosità:

‚ Pa = pericolosità molto elevata;


‚ Pm = pericolosità media;
‚ Pb = pericolosità bassa.

Ciascun livello Pi è correlato ad una coppia di valori definiti dalla matrice di seguito
riportata:

66
Pdn
Pericolosità (2 œ n œ 1)
Pd1 Pd2

PG1 Pa Pm
PGm
PG2 Pb Pb
(2 œ m œ 1)

7.2 4.2.6 Individuazione di altre aree soggette a fenomeni di trasporto liquido e di


alluvionamento.

Utilizzando sempre l’approccio geomorfologico è stato possibile individuare altre


tipologie di aree pericolose per fenomeni di trasporto liquido e per processi di
alluvionamento. Più in particolare. Con riferimento alla Carta della Pericolosità Idraulica
sono stati individuati i seguenti casi:

- area di cava a suscettibilità alta per fenomeni di trasporto liquido e solido da


alluvionamento (Pa);
- conche endoreiche e zone a falda sub-affiorante (Pb).

Le aree definite “conche endoreiche e zone a falda sub-affiorante” intersecate con la


carta del valore esposto determinano sempre un rischio moderato (R1).

67
5. Il Valore esposto

Per valore esposto si intende il valore che è possibile associare agli elementi “da
difendere” sul territorio e pertanto alla costituzione di detto fattore parteciperanno non solo
le vite umane e i beni immobili ma anche le risorse ambientali e culturali così come dettato
dalla legge 183/1989 e successive integrazioni.
La determinazione del valore esposto rappresenta un’attività particolarmente complessa
in quanto si basa su una difficoltà fondamentale che è quella di definire in maniera
tendenzialmente omogenea categorie di elementi estremamente differenziati tra loro.
In linea generale potremmo definire i seguenti criteri per la determinazione del valore
esposto:
‚ quando gli elementi presenti sul territorio sono beni monetizzabili il loro valore
esposto è rappresentato dal loro valore monetario;
‚ quando gli elementi presenti sul territorio sono persone il loro valore esposto è
rappresentato dal loro valore numerico;
‚ quando gli elementi presenti sul territorio sono risorse e beni ambientali e culturali,
ecc. unici e di così grande rilevanza da costituire un patrimonio irrinunciabile per la
collettività, il loro valore esposto è rappresentato dal bene stesso.
Il panorama dei dati ottenuti con l’applicazione dei suddetti criteri si presenta molto
vario e differenziato6, per cui risulta essere particolarmente utile una semplificazione delle
procedure da attuare accorpando categorie d’uso del territorio in classi omogenee per
ciascuna delle quali si ipotizza un differente livello di valore esposto:
‚ valore esposto altissimo: comprende i centri urbani, le zone di completamento ed
espansione, le zone di attrezzature esistenti e di progetto, i nuclei ad edificazione
diffusa non presenti nei PRG, le infrastrutture principali, i laghi e le aree di riserva
integrale e generale delle aree protette. In queste aree un evento catastrofico può
provocare la perdita di vite umane, di ingenti beni economici e di valori ambientali
inestimabili;
‚ valore esposto alto: comprende le aree attraversate da linee di comunicazione
secondarie e da servizi di rilevante interesse, le aree archeologiche, i SIC e le aree di
riserva controllata delle aree protette. In queste aree si possono avere problemi per
l’incolumità delle persone e per la funzionalità del sistema economico;
‚ valore esposto medio: comprende le aree extra urbane, poco abitate, sede di
edificazione sparsa, di infrastrutture secondarie, destinate sostanzialmente ad attività
agricole o a verde pubblico. In queste aree sono improbabili problemi per
l’incolumità delle persone e sono limitati gli effetti che possono derivare al tessuto
socio economico;
‚ valore esposto basso o nullo: comprende le aree libere da insediamenti e incolte. In
queste aree non esistono problemi per l’incolumità delle persone e sono limitati gli
effetti che possono derivare al tessuto socio economico.

E’ possibile elencare gli elementi appartenenti alle differenti classi di valore esposto
sopra riportate:

6
vedi anche il paragrafo “ricerca sulla valutazione del danno”
68
‚ E4: valore esposto altissimo
- centri urbani, zone di completamento e di espansione (come delimitate da
PRG/PUC);
- zone industriali, commerciali e artigianali esistenti e di progetto (come delimitate
da PRG/PUC o Aree di Sviluppo Industriale);
- zone con attrezzature esistenti e di progetto (come delimitate da PRG/PUC);
- zone turistiche esistenti e di progetto (come delimitate da PRG/PUC);
- siti archeologici;
- nuclei ad edificazione diffusa non previsti nel PRG (fonte CTR 2004/05);
- case sparse (fonte CTR 2004/05);
- zone militari (come delimitate da PRG/PUC);
- laghi;
- autostrade, strade extraurbane principali, linee ferroviarie principali;
- aree protette (area di riserva integrale e generale);
‚ E3: valore esposto alto
- Cimiteri ed aree di rispetto cimiteriale;
- cave;
- depuratori e impianti idrici;
- strade extraurbane secondarie,
- linee ferroviarie secondarie;
- aeroporti;
- metanodotti;
- aree archeologiche, aree protette: (SIC, ZPS e aree di riserva controllata).
‚ E2: valore esposto medio
- zone agricole (come delimitate da PRG/PUC);
- verde urbano e parchi urbani (come delimitati da PRG/PUC);
- aree soggette a vincolo idrogeologico (R.D.L. 3267/23).
‚ E1: valore esposto basso o nullo
- zone incolte

La suddivisione del territorio in esame secondo le quattro classi precedentemente


esposte si è articolata nel seguente modo:
1 Individuazione delle aree interessate dalla pericolosità dei fenomeni franosi e di
esondazione.
2 Per le suddette aree, ricerca, acquisizione ed individuazione degli elementi descritti
nelle classi del valore esposto ricorrendo alle seguenti fonti:
- Piani Regolatori Generali o Programmi di Fabbricazione dei comuni interessati;
- Ortofotocarta in scala 1:10.000 aggiornata al 1998;
- Cartografia 1:5.000 aggiornata al 2004;
- Consorzi ASI di Napoli, Caserta, Benevento e Avellino;
- Soprintendenza ai Beni Archeologici di Salerno, Avellino e Benevento;
- Soprintendenza ai BAAS di Napoli e Caserta;
- Soprintendenza BAAAS di Caserta e Benevento ;
- Soprintendenza BAAAS di Salerno - Avellino;
- Soprintendenza archeologica di Napoli e Caserta;
- Soprintendenza Archeologica per le province di Salerno, Avellino e Benevento;
- Sogesid;
69
- S.T.A.P.F. – Regione Campania –Province di Napoli. Avellino, Benevento e
Caserta;
- ATO 2 e ATO 3 della Regione Campania;
- ENI Acqua;
- T.E.R.N.A. S.p.A. Gruppo ENEL;
- Rete Gas Italia – ENI Group;
- ITALFER;
- Testo “Natura 2000”, a cura di Assessorato ai Parchi, Riserve Naturali e
conservazione della Natura – Regione Campania;
- CD Rom sulle aree protette e sui Parchi Regionali – Regione Campania.
3 Studio, verifica e sistemizzazione della documentazione acquisita.
In particolare:
- si è considerato quale fonte attendibile gli strumenti urbanistici approvati o
almeno adottati e trasmessi agli Enti preposti per l’approvazione. Per le aree
ricadenti nei comuni sprovvisti di strumento urbanistico si è fatto riferimento
alla L.R. n. 17 del 20/03/1982 “Norme transitorie per le attività urbanistico-
edilizie nei Comuni della Regione”;
- si è inoltrata richiesta, alle amministrazioni comunali, delle ultime versioni degli
strumenti urbanistici al fine di disporre di una documentazione ufficiale
aggiornata;
- si è mirata l’attività di fotointerpretazione e studio cartografico a controllare la
corrispondenza degli strumenti urbanistici con lo “stato di fatto” e ad integrare
eventuali informazioni non riportate dagli stessi (ad esempio, la presenza di
agglomerati edilizi in alcuni casi non riportati dagli strumenti urbanistici, in
quanto di recente edificazione ma presenti sull’ortofotocarta e sulla cartografia
di base aggiornata).
4 Digitalizzazione delle informazioni utilizzando il Programma GIS Arc View della
ESRI su base cartografica 1: 5.000 georiferita;
5 Calcolo delle intersezione dei tematismi con le classi predefinite con algoritmi ad
hoc.

70
6. VULNERABILITA’ e DANNO

La vulnerabilità (V), come già detto, rappresenta il grado di perdita prodotto su un certo
elemento o gruppo di elementi esposti a rischio risultante dal verificarsi dell’evento
calamitoso temuto, in altri termini, la percentuale del valore di un elemento o di un gruppo
di elementi che andrà perduto nel caso si verificasse l’evento calamitoso.
La vulnerabilità si esprime con un numero compreso tra 0 (nessun danno) ed 1 (perdita
totale).
La stima della vulnerabilità è molto complessa e dipende dall’intensità dell’evento
calamitoso e dal livello di protezione degli elementi presenti sul territorio oggetto di studio.
Ad esempio, la disponibilità di un adeguato piano di emergenza in grado di consentire
l’evacuazione della popolazione a rischio, ed il trasferimento dei beni trasportabili, incide
sul valore della vulnerabilità.
Quando le aree vulnerabili sono molto estese e densamente antropizzate la valutazione
della vulnerabilità può dimostrarsi troppo complessa ed onerosa. Risulta estremamente
difficoltoso assegnare classi di vulnerabilità per ciascuna categoria di valore omogenea, in
quanto non è possibile sempre, e soprattutto in maniera puntuale, valutare il livello di
protezione dei beni. Pertanto, in generale, si rinuncia ad una stima della vulnerabilità,
operando una “messa in sicurezza” e, dunque, ipotizzandola sempre massima cioè pari a 1.

Si è detto che il danno (D) dipende, per ogni evento critico, dall’uso del territorio e
quindi dal valore esposto (E) degli elementi presenti, e dalla loro vulnerabilità (V), intesa
come aliquota che va effettivamente persa durante l’evento catastrofico:
D=E×V
Il danno (D) così calcolato corrisponde al danno effettivo che è rappresentato dalla
percentuale del valore (esposto) complessivo degli elementi presenti sul territorio che
andrà perduto nel caso si verifiche l’evento catastrofico:
D = D(effettivo) = E × V
Il danno (D), inteso come danno effettivo, può essere anche rappresentato dal prodotto
del danno potenziale per la vulnerabilità:
D = D(effettivo) = D(potenziale) × V
e cioè
D(potenziale) = E
In altri termini, il danno potenziale finisce con il coincidere con il valore esposto, il che
è concettualmente evidente essendo il danno potenziale rappresentato non da un
percentuale di valore (esposto), bensì dalla totalità di esso, in quanto si riferisce al caso
limite dell’assenza di fattori di protezione (caso di vulnerabilità massima), in cui gli
elementi sono interamente esposti all’evento catastrofico.
Si è detto anche che, in generale, si rinuncia ad una stima della vulnerabilità,
ipotizzandola sempre massima cioè pari a 1. Questa approssimazione per eccesso, che
corrisponde ad una “messa in sicurezza” di tutti gli elementi presenti sul territorio oggetto
di studio, comporta un’assimilazione del danno effettivo al danno potenziale, per cui:
D = D(effettivo) = D(potenziale) × V
posto
V=1
71
si ottiene, appunto
D = D(effettivo) = D(potenziale)
Seguendo tale logica semplificativa, i livelli di valore esposto possono essere
considerati come livelli di danno, così:
- D4 danno altissimo: comprende i centri urbani, le zone di completamento ed
espansione, le zone di attrezzature esistenti e di progetto, i nuclei ad edificazione
diffusa non presenti nei PRG, le case sparse, le aree attraversate da linee di
comunicazione e da servizi di rilevante interesse, i laghi e le aree di riserva
integrale e generale delle aree protette. In queste aree un evento catastrofico può
provocare la perdita di vite umane, di ingenti beni economici e di valori
ambientali inestimabili;
- D3 danno alto:, le aree archeologiche, i SIC e le aree di riserva controllata delle
aree protette. In queste aree si possono avere problemi per l’incolumità delle
persone e per la funzionalità del sistema economico;
- D2 danno medio: comprende le aree extra urbane, poco abitate, di infrastrutture
secondarie, destinate sostanzialmente ad attività agricole o a verde pubblico. In
queste aree sono improbabili problemi per l’incolumità delle persone e sono
limitati gli effetti che possono derivare al tessuto socio economico;
- D1 danno basso o nullo: comprende le aree incolte libere da insediamenti. In
queste aree non esistono problemi per l’incolumità delle persone e sono limitati
gli effetti che possono derivare al tessuto socio economico.

72
7. LA GESTIONE DEL RISCHIO

La zonazione del rischio in un dato territorio, costituisce la base della gestione del
rischio (risk management); questa prevede l'interpretazione delle informazioni ed il quadro
delle decisioni operative per l'eventuale riduzione del rischio (risk mitigation). La fase
gestionale è di natura essenzialmente politico-amministrativa; tuttavia il ruolo dei tecnici e
della comunità scientifica è fondamentale nell'individuazione delle priorità di intervento e
nella messa a punto delle strategie di mitigazione.
Facendo riferimento alle classi di rischio come sopra definite, si possono implementare
delle strategie per la gestione adeguate ai differenti livelli di rischio individuati.
In aree caratterizzate da valori di rischio elevato e molto elevato (R4, R3), è possibile
operare una strategia mirata alla mitigazione del rischio.
In aree caratterizzate da valori di rischio medio e moderato (R2, R1), ricadenti in
porzioni di territorio classificate dal piano a pericolosità P4 e P3 è possibile operare delle
strategie mirate alla riduzione della pericolosità (che costituisce una strategia specifica di
quella più generale di mitigazione del rischio) ed alla determinazione delle soglie di
rischio accettabile.

7.1 Mitigazione del Rischio

Si è più volte sottolineato che la pianificazione, soprattutto quella ambientale, dovrebbe


mirare al superamento di un atteggiamento vincolistico, che il più delle volte finisce per
creare situazioni di stallo e di immobilità altrettanto pericolose di quelle di uso
indiscriminato delle risorse, per adottare, invece, un approccio “attivo” di mitigazione e
prevenzione del rischio legato alle dinamiche ambientali naturali/antropiche.
La mitigazione del rischio può essere attuata secondo tre strategie.
- Riducendo la pericolosità: l'incidenza dei fenomeni franosi o di esondazione in
una determinata zona può essere ridotta in due modi:
- i) intervenendo sulle cause della fenomeni franosi o di esondazione, per
esempio mediante opere di bonifica e di sistemazione idrogeologica del
territorio, oppure attraverso la razionalizzazione delle pratiche agricole o di
utilizzo del suolo.
- ii) intervenendo direttamente sui fenomeni franosi o di esondazione esistenti al
fine di prevenire la loro riattivazione o limitare la loro evoluzione.
- Riducendo gli elementi a rischio: tale strategia si esplica soprattutto in sede di
pianificazione territoriale e di normativa, nell'ambito delle quali possono essere
programmate le seguente azioni:
- evacuazione di aree instabili e trasferimento dei centri abitati soggetti a pericolo;
- interdizione o limitazione dell'espansione urbanistica in zone pericolose;
- definizione dell'utilizzo del suolo più consono per le aree pericolose (es. prato-
pascolo, parchi, etc.)
- Riducendo la vulnerabilità: la vulnerabilità può essere ridotta mediante interventi
di tipo tecnico oppure intervenendo sull'organizzazione sociale del territorio:
- consolidamento degli edifici, che determina una riduzione della probabilità di
danneggiamento dell'elemento interessato dalla frana;

73
- installazione di misure dì protezione quali reti o strutture paramassi (parapetti,
gallerie, rilevati o trincee), in modo da determinare una riduzione della
probabilità che l'elemento a rischio venga interessato dalla frana (senza tuttavia
limitare la probabilità di occorrenza di questa).

7.2 . Rischio accettabile

La definizione delle soglie di “rischio accettabile” rappresenta un elemento


particolarmente importante nell'ambito delle attività di prevenzione del rischio e di
programmazione dello sviluppo del territorio, in quanto essa consente l’individuazione
delle priorità di intervento sia nell’uno che nell’altro caso.
Quando si parla di rischio accettabile si intende fare particolare riferimento alle aree R1
ed R2 soggette a pericolosità P4, P3 e Pa (nelle aree a rischio idraulico) e a pericolosità P3,
P2 (nelle aree a rischio frane). Si tratta di aree che presentano livelli elevato o molto
elevato di pericolosità che però incrociano livelli medio o basso di valore esposto per cui i
relativi livelli di rischio risultano medio o moderato.
Qualora però, si preveda in queste aree la realizzazione di opere e/o attività, allora ci si
troverebbe ad avere un incremento del valore esposto e, di conseguenza, un incremento del
livello di rischio.
E’ necessario, a questo punto, ricordare quanto più volte sottolineato e cioè che l’attività
di pianificazione deve prevedere, coerentemente con i propri presupposti, l’evoluzione del
territorio oggetto di studio. Quando si parla di “piano come processo” si intende
evidenziare il superamento di modelli statici che fissano il territorio al suo “stato di fatto” e
che non sono adatti a gestire il cambiamento.
Da questo punto di vista, le suddette aree R2 ed R1 vedono collegato l’eventuale
aumento del livello di rischio all’incremento delle possibilità di sviluppo. Sarebbe
paradossale innescare processi di sviluppo senza conoscerne i rischi o ancora peggio, per
evitare quest’ultimi, negare che i primi abbiano luogo. Pertanto si pongono due
problematiche:
- la prima che è quella che il Piano non controlli adeguatamente porzioni di
territorio con livelli elevati e molto elevati di pericolosità, perchè oggi rientranti in
aree a rischio medio e moderato;
- la seconda è quella di non ingessare tali aree impedendo la realizzazione di opere e/o
attività perchè produrrebbe comunque un incremento del livello di rischio.

Il primo problema può essere affrontato riducendo la pericolosità con le modalità


sopra riportate. In questo caso, si rende necessario l’uso della carta delle pericolosità (dei
fenomeni franosi e dei fenomeni di esondazione) non solo come studio propedeutico alla
costruzione della carta del rischio, ma anche, come elaborato finale di Piano.

Il secondo problema viene risolto con l’introduzione, nelle norme di salvaguardia


relative a queste aree, delle soglie di rischio accettabile
Secondo questo concetto, tali norme prevedono la possibilità di insediare nuovi beni e/o
attività in tali aree , ma solo qualora vengano verificate le seguenti condizioni:
- esistenza di un grado di rischio non superiore a R2 o comunque riportato a quel
livello da adeguati interventi di mitigazione del livello di pericolosità;
- un adeguato studio che dimostri che i costi superano i benefici dove:

74
- per costi si intendono i costi pari al valore economico del danno che la
collettività dovrebbe assumersi e che è pari al valore del danno presunto diviso il
periodo di ritorno, In tal senso si possono prevedere formule che riducono il
costo per la collettività attribuendole all’eventuale soggetto privato interessato
all’iniziativa (come ad esempio alcuni tipi di polizze assicurative);
- per benefici si intende il valore economico dei benefici apportati
dall’insediamento di quel bene o attività alla collettività.

75
8. LA VALUTAZIONE DEL DANNO

La valutazione del danno è un elemento irrinunciabile per la formulazione della politica


ambientale e degli strumenti ad esso connessa, quelli di piano in primis.
Allo stato attuale, l’Autorità di Bacino Nord-Occidentale della Campania ha definito,
nell’ambito del presente Piano di Assetto Idrogeologico, le classi di valore esposto e quelle
di danno (che nel caso di “messa in sicurezza” del territorio e cioè per V = 1 coincidono)
fornendo così, insieme ai differenti livelli di pericolosità, gli elementi base per la
individuazione sul territorio delle aree a rischio, nel rispetto della classificazione riportata
dal DPCM del 29/09/1998.
Tuttavia, si è più volte sottolineato che un corretto approccio ad un tema tanto
complesso come quello della valutazione del rischio presuppone una confluenza
disciplinare di opinioni, criteri e consapevolezze, che consenta di progettare il “piano” non
come “modello”, bensì come “processo”.
La “processualità” è una scelta difficile perché riconosce il valore della flessibilità: i
fenomeni oggetto di studio non sono riconducibili a schemi predefiniti capaci di spiegarli
in modo completo ed esaustivo, essi, al contrario, sono interrelati ad una serie complessa di
fattori che con al loro peculiarità caratterizzano contesti specifici e ogni volta differenziati.
Nonostante ciò, il ricorso a schemi e modelli risulta necessario quando il fine ultimo è
una concreta operatività. Progettare un piano come “processo” significa, però, partire dal
presupposto che la ricerca possa costantemente migliorare gli schemi e i modelli di
riferimento allo scopo di renderli sempre più articolati e quindi più adeguati alla
complessità dei fenomeni che intendono gestire.
D’altra parte anche nelle premesse al DPCM del 29/09/1998 si legge: “La
individuazione delle aree a rischio [...] vanno perciò intese come suscettibili di revisione e
perfezionamento, non solo dal punto di vista delle metodologie di individuazione e
perimetrazione, ma anche, conseguentemente, nella stessa scelta sia delle aree collocate
nella categoria di prioritaria urgenza, sia delle altre”.
In tale direzione l’Autorità di Bacino continua la sua attività di studio e ricerca al fine di
perfezionare i modelli, le tecniche e le tecnologie con le quali opera.
Tra le varie attività di ricerca in essere quella sulla “valutazione del danno” ha iniziato a
definire una nuova metodologia in corso di sperimentazione.
In particolare, tale ricerca è mirata alla elaborazione di una metodologia che consenta di
ricalibrare le classi di valore esposto, così come definite in precedenza, fornendo gli
strumenti necessari ad una più dettagliata valutazione dello stesso7.

7
La metodologia qui riportata per la valutazione del danno fa riferimento al filone di studi sviluppatosi negli USA sul finire
degli anni ottanta.
76
7.3 8.1 Danni valutabili e non valutabili in termini di mercato

Gli impatti generati da un disastro naturale hanno ripercussioni dirette e ripercussioni


indirette.
L’esistenza del mercato rende relativamente semplice valutare il danno diretto alle
strutture costruite dall’uomo: trattasi della categoria di danno meno problematica, ma tale
danno rappresenta solo una piccola parte del problema della valutazione come si può
meglio comprendere analizzando la tabella seguente:

Danni valutabili Danni non valutabili


in termini di mercato in termini di mercato
Danni Danni Capitale Capitale Beni Capitale
diretti secondari umano sociale culturali ambientale
Proprietà: Valore Vita Perdita del Perdita di Acqua
- aggiunto Salute senso di patrimonio Clima
commerciale Salute appartenenza Opzioni Capitale
- residenziale mentale Lascito genetico
- pubbliche Paesaggio
Produzione Habitat

Danni diretti
Danni diretti alla proprietà
E’ uno delle categorie di danni più rilevanti prodotti dalle catastrofi naturali. Come già
accennato i danni diretti alla proprietà sono anche la categoria di danno più facilmente
valutabile, potendosi ricorrere ai valori di mercato, prestando comunque grande attenzione
ad evitare le duplicazioni contabili.8
Lo schema seguente esemplifica le possibili procedure per la valutazione con metodi
diretti dei danni ai manufatti:

Valori alternativi per i beni


- Valori contabili (in gran parte irrilevanti in quanto espressi al netto degli
ammortamenti fiscali)
- Valore di sostituzione
- Valori di mercato di beni analoghi

Distruzione completa di beni di vecchia acquisizione


Sarà sostituito?
- Sì: danni = variazione del valore attuale degli investimenti di una impresa o di un
ente statale, o valore di mercato di un bene simile
- No: danni = valore attuale del valore aggiunto perso sulla eventuale vita operativa
rimanente.

8
Quello delle duplicazioni contabili è un problema ricorrente quando si possono considerare, come nel caso dei danni alla
proprietà, sia i valori finanziari dei beni, sia i valori economici ad essi sottesi.
77
Distruzione parziale di beni di vecchia acquisizione
Sarà ristrutturato?
- Sì: danni = variazione del valore attuale degli investimenti
- No: danni = valore attuale della riduzione del valore aggiunto a seguito della
distruzione parziale del bene.
Danni diretti alla produzione
“I danni causati dalla perdita o dal ritardo di produzione sono equivalenti al valore
attuale del reddito perduto, ovvero ritardato.” Anche in questo caso bisogna prestare molta
attenzione ad evitare le duplicazioni, considerando ad esempio, sia la variazione del
reddito, sia la perdita di valore dei beni.

Le misurazioni indirette dei danni diretti: la disponibilità a pagare


A volte, specie nelle valutazioni ex ante, o quando il mercato non riesce a riflettere
compiutamente un sistema di prezzi adeguati alla valutazione del danno, può risultare utile
chiedersi quanto un contribuente sia disposto a pagare per evitare il rischio di perdite e
danni dovuti ad eventi geofisici: si utilizzano in questi casi i cosiddetti metodi indiretti
per calcolare il danno. In altri termini il valore della sicurezza viene misurato
indirettamente, osservando la risposta del mercato immobiliare ai vari gradi di rischio (le
valutazioni di questo tipo derivano da quelle che gli economisti definisco tecniche
edeniche di elaborazione dei prezzi.

8.2 Danni economici indiretti


Oltre alle perdite dirette, i disastri naturali sono forieri di attivare danni indiretti
riconducibili alla riduzione dei redditi familiari a causa di crisi, fallimenti, debiti insoluti:
si tratta dei cosiddetti effetti indotti o moltiplicatori.
In termini di contabilità complessiva, tuttavia, non ci si può limitare a considerare la
riduzione dei redditi familiari, dovendosi invece contabilizzare anche le spese governative
(contributi) per gli interventi di recupero, e i benefici che tali spese attiveranno nelle zone
di produzione dei beni il cui acquisto essi alimenteranno, e gli stessi effetti moltiplicativi
che in genere si verificano nelle fasi di ricostruzione nei territori colpiti. Che l’effetto netto
sia positivo, o negativo, dipende dalla variazione della domanda a livello regionale e dai
relativi effetti moltiplicatori. Poiché è impossibile definire ex ante le politiche di intervento
che saranno adottate, e di conseguenza i loro effetti, è meglio presupporre “che i risultati
positivi derivanti dagli aiuti governativi e dall’espansione della produzione vengano
compensati dagli effetti secondari negativi” che si verificheranno nelle aree colpite.
Ovviamente ove si potesse disporre di tavole input – output multiregionali e di matrici
di contabilità sociale territorializzate, ci si potrebbe spingere ad una analisi più di
dettaglio, senza assumere a priori la compensazione del danno coi i benefici da effetti
moltiplicatore. La costruzione di tali strumenti analitici può ricadere senz’altro nei compiti
istituzionali attribuiti all’Autorità di bacino, tuttavia, data la complessità e l’onerosità
dell’operazione, parrebbe assai più opportuno che essa fosse avviata da parte della
Regione.

Valutazione della perdita di vite umane


Pur trattandosi di valutazioni che implicano forti principi etici, la letteratura in materia
ha fatto notevoli passi avanti, pervenendo alla messa a punto di criteri che non riferiscono

78
unicamente al cosiddetto valore del capitale umano, ma al valore della riduzione del
rischio per la vita o valore dell’aumento della sicurezza. Appare in ogni caso accettato
che i costi per la prevenzione di perdite di vite umane in caso di disastro devono essere
confrontati con altri problemi e bisogni sociali rilevanti.
Anche in questo caso il ricorso al calcolo della disponibilità a pagare della collettività
per la riduzione del rischio per la vita può rappresentare un approccio preferibile9.

Danni a monumenti o beni storici


Il ricorso ai prezzi di mercato non risolve il problema della valutazione del danno
connesso alla perdita totale di tali beni, poiché essi spesso sono unici e insostituibili, hanno
un grande valore sociale, e spesso non hanno mercato.
Anche in questo caso può essere utile il ricorso al calcolo della disponibilità a pagare
espressa dalla stima dei costi – opportunità che la società è disposta a sostenere per la
conservazione di un bene. A tal fine i metodi più utilizzati appaiono essere quello del costo
di viaggio e quello della valutazione di contingenza attraverso sondaggi.

Danni agli ecosistemi


“Il fatto che un evento di disturbo causi un impatto ecologico dipende da come la
società valuta i cambiamenti derivanti dall’evento stesso. Quindi un evento naturale viene
definito calamità quando minaccia le persone o i beni a cui i soggetti e la società
attribuiscono un valore…Sono dunque i danni evitabili, non il cambiamento totale, a
rappresentare il danno…Gli effetti possono essere diretti o ritardati, indiretti o cumulativi e
quindi richiedono una previsione”.
Anche in questo caso la disponibilità di una sistemica ed organizzata contabilità
ambientale potrebbe aiutare molto, ma valgono le stesse considerazioni già esposte per le
tavole input – output e per le matrici di contabilità sociale.

7.4 8.3 Principi per la valutazione del danno – una sintesi

- Stimare i danni con e senza l’evento, non prima e dopo.


- Evitare le duplicazioni contabili.
- Calcolare i danni previsti al patrimonio edilizio inquadrandolo in una prospettiva
dinamica.
- Basare le politiche di intervento preventivo sui danni evitabili e non sul danno
totale.
- E’ possibile valutare buona parte delle categorie di danno attraverso una serie di
approcci semplici messi a disposizione da una specifica e rodata letteratura.

9
In numerosi studi compiuti negli Stati Uniti, sebbene questi metodi siano controversi, i risultati indicano che il valore di una
vita statistica è pari a circa 3 milioni di dollari.
79
7.5 8.4Individuazione di un metodo coerente con i principi esposti e
empiricamente applicabile

La metodologia che più coerentemente si sposa con i principi esposti e quella nota come
Analisi Costi Benefici.
L’analisi costi benefici potrà essere sviluppata con i principi della metodologia FIO,
tramite gli schemi in uso per le richieste di finanziamento a carico della legge 64/86.
Com'è noto, il criterio FIO assume a base della valutazione la determinazione del
Valore Attuale Netto (attraverso l'uso di un prefissato tasso sociale di sconto) e del Saggio
di Rendimento Interno.
Nella metodologia FIO si perviene ai costi economici attraverso la depurazione degli
importi finanziari con opportuni fattori di conversione. Detti fattori di conversione saranno
da noi valutati in relazione a tutte quelle voci di costo che pur costituendo un onere
finanziario per chi realizza l'intervento, non costituiscono una reale sottrazione di risorse
economiche per la collettività, rappresentando invece dei trasferimenti al suo interno.
L'elenco completo dei fattori di conversione che saranno utilizzati, e il loro procedimento
di calcolo, saranno allegati alle singole valutazioni.
Per il calcolo dei benefici ci si riferirà al criterio della "disponibilità a pagare" per
stimare il surplus del consumatore relativo ai beni e ai servizi generati dalle alternative di
interventi proposti per la mitigazione del rischio.
Tale surplus sarà ottenuto differenziando i valori della situazione "senza" intervento da
quelli della situazione "con" intervento, ovviamente per tutte le alternative di mitigazione
da valutare.
Poiché le diverse politiche di mitigazione del rischio sono classificabili tra i "cosiddetti
interventi di risanamento ambientale" un'ultima notazione è relativa proprio al ruolo
dell'analisi costi-benefici su queste categorie di progetti.
Nel caso dei beni e delle risorse ambientali ci si trova di fronte ad un eclatante esempio
di "fallimento del mercato" connesso all'esistenza di effetti negativi scaricati sull'ambiente
esterno, in conseguenza della crescita della produzione e del consumo privato.
Proprio nel settore ambientale, infatti, si verificano con maggiore frequenza divergenze
fra il costo sopportato dai privati per l'utilizzo delle risorse ed il loro valore sociale. Si
producono in tal modo fenomeni distorsivi nell'allocazione delle risorse, associati ad un
progressivo degrado dell'ambiente naturale ed all'eccessivo sfruttamento di risorse di cui la
collettività dispone.
L'obiettivo dell'analisi costi-benefici applicata a progetti di mitigazione del rischio va
perciò individuato nella valutazione dei danni prodotti dal mancato intervento su tutti
coloro che usufruiscono dell'ambiente teoricamente impattato dall’evento calamitoso.
La quantizzazione dei benefici economici, per quanto detto, costituisce perciò il passo
più delicato della procedura di analisi dei progetti di mitigazione del rischio.
Va anzitutto premesso che le tecniche di definizione del valore di progetti ambientali
hanno carattere simmetrico in quanto valutano i benefici o in base all'uso delle risorse
generate e preservate, o sulla base del costo delle risorse stesse quando non siano più
utilizzabili; in altri termini il valore del beneficio generato può coincidere in parte o in tutto
con il costo del danno evitato.
I benefici economici possono ovviamente essere interni al mercato o esterni ad esso.
I benefici interni al mercato sono usualmente misurati attraverso le variazioni di valore
aggiunto dei settori di attività economica interessati dalla realizzazione del progetto.

80
I benefici esterni al mercato scaturiscono dagli effetti reali ed estetici prodotti dal
rischio su tutte le attività di tipo ricreativo e di tempo libero svolte dall'uomo direttamente
o indirettamente nell'ambiente interessato. L'alterazione delle qualità delle risorse
ambientali modifica anche la quantità e la qualità dei servizi resi come beni pubblici fruiti
al di fuori di un rapporto di mercato e senza il pagamento del corrispettivo di un prezzo.
I soggetti cui si fa riferimento nella quantificazione dei benefici esterni sono i
componenti della società in senso lato; oggetto della misurazione e la loro disponibilità a
pagare per mantenere intatti tutti gli aspetti dell'ambiente esterno che sono influenzati.

La procedura classica inerente l’applicazione dell’analisi costi – benefici potrebbe


essere arricchita con il ricorso a procedure proprie della valutazione di impatto, soprattutto
per quanto attiene la definizione del danno relativo alle categorie per le quale appare di più
difficile applicazione la monetizzazione dei vantaggi e degli svantaggi (beni culturali e
ambientali soprattutto).

7.6 8.5Coerenza del metodo proposto con lo stato attuale della predisposizione
degli strumenti di piano dell’Autorità di bacino Nord Occidentale.

L’analisi costi – benefici, arricchita ove necessario da valutazioni di impatto per


l’internalizzazione di costi e benefici non monetizzabili, potrà essere compiutamente
applicata allorquando saranno disponibili i diversi scenari e le alternative di intervento
prospettati dagli strumenti di piano generali e attuativi.
In questa fase del lavoro, essendo ancora in corso le analisi fisiche del territorio al fine
di tabularne compiutamente le problematiche connesse ai rischi naturali, la metodologia
evidenziata potrà essere sperimentata soprattutto per i suoi aspetti di metodo.
La proposta è quella di corredare, per tutte le aree interessate da rischi naturali, i risultati
delle indagini fisiche in corso con una informazione relativa al cosiddetto valore totale
insediato (Vtot).
Per tutte le aree che al termine delle indagini in corso saranno classificate a rischio, con
dettaglio di riferimento alla cella di superficie minima utilizzata per la classificazione
dell’uso urbano del suolo, sarà quindi fornito un valore di Vtot:

Vtot = Rzona + Vsupe.+ Vinfra. + Vsupa. + Rlav

Rzona = Reddito procapite insediato per abitanti insediati

Vsupe.= Valore superficie edificata insediata

Vinfra. = Valore infrastrutture insediate

Vsupa. = Valore suoli agricoli insediati

Rlav = Redditi da lavoro in opifici produttivi insediati

Vtot = £

81
Conosciuto il valore totale di ogni particella, valore che il metodo proposto fornisce in
lire, si può passare alla trasformazione del valore in indici, con riferimento alle particelle di
rilevazione, o a loro aggregati. L’indice del valore totale della particella “i” considerata,
sarà dato da:

IVAL(i) = IVALtot(i) + IVALsoc(i)

dove
IVALsoc(i) - Valore totale insediato dei beni culturali e sociali.

IVALtot(i) = Vtot(i) / Vtotmax = 80%

IVALsoc(i) = Vsoc(i) / Vsocmax = 20%

Per calcolare tutti i parametri necessari si utilizzeranno i criteri definiti nei paragrafi
precedenti.

Il peso da dare agli indici IVALtot(i) e IVALsoc(i) è una scelta dell’autorità politica
preposta al governo del rischio.

Anche il peso da dare alla perdita di vite umane e alla perdita i valori irripetibili (parchi
e aree protette ad esempio, o emergenze monumentali) è una scelta di natura politica.

In sede tecnica pare però opportuno suggerire che la presenza di rischi connessi a
categorie di valori come la perdita di vite umane o di beni irripetibili possa essere assunta
come vincolo di massimo rischio, applicando alla porzione di territorio la max
protezione10.

8.6Il metodo proposto per il calcolo del valore totale insediato


Di seguito viene descritta la metodologia di lavoro per la determinazione del valore
totale insediato relativo alla cella i-esima. Il territorio interessato dall’Autorità di Bacino
Nord Occidentale, formato da 69 Comuni, è stato infatti suddiviso in una maglia reticolare
composta da celle di dimensioni pari 100 x 100 mt. Il calcolo del valore totale insediativo
si riferisce alle porzioni di territorio definite come “zone rosse” e dunque non riguarda
l’intero territorio dell’Autorità di Bacino.

Per tali aree, considerate a rischio, viene fornito il cosiddetto valore totale insediativo
(Vtot) risultante dalla seguente formula:

Vtot = Rzona + Vsupe.+ Vinfra. + Vsupa. + Rlav

10
Corrispondente alla classificazione “R4” nella tassonomia utilizzate per i piani di bacino.
82
Rzona = Reddito procapite insediato per abitanti insediati

Vsupe.= Valore superficie edificata insediata

Vinfra. = Valore infrastrutture insediate

Vsupa. = Valore suoli agricoli insediati

Rlav = Redditi da lavoro in opifici produttivi insediati

I singoli valori saranno dunque riferiti alla cella di superficie minima utilizzata per la
classificazione dell’uso urbano del suolo.

Rzona = Reddito procapite insediato per abitanti insediati


Per il calcolo del Reddito relativo alla cella i-esima (Rzona) si è proceduto alla ricerca
del reddito procapite per abitanti insediati nella cella stessa.
Innanzitutto, da fonte ISTAT, sono stati rilevati i dati relativi alla popolazione residente
al 1 gennaio 2000 nei 69 comuni dell’area. Il dato della popolazione del comune è stato
spalmato nelle celle.
Individuata la percentuale di superficie edificata nella singola cella, l’ipotesi consiste
nel far coincidere tale percentuale con la popolazione residente. In altri termini, è stata
rapportata la superficie urbanizzata della cella alla superficie urbanizzata dell’intero
territorio comunale; ricavata tale percentuale è stato possibile attribuire il dato di
popolazione residente alla cella i-esima. Il reddito procapite a livello comunale, è calcolato
a partire dai dati forniti dall’Istituto Tagliacarne.

Vsupe (Valore superficie edificata insediata)


Vinfra (Valore infrastrutture insediate)

Per il calcolo del valore della superficie edificata insediata (Vsupe) si è moltiplicato il
dato relativo alla superficie edificata per il valore medio di costruzione dell’edificato
espresso in £/mq.
Il dato si riferisce alla superficie edificata a meno delle infrastrutture viarie e ferroviarie
e delle aree destinate ad attività produttive (industriali, artigianali, commerciali e
turistiche) desumibile dalle planimetrie dei PRG comunali, ove presenti; infatti per i
Comuni non dotati di P.R.G. è stato utilizzato lo strumento urbanistico vigente (Piano di
Fabbricazione). Nell’analisi effettuata, non si è tenuto conto delle emergenze monumentali
o di edifici di pregio o di particolare interesse, considerando per tutto l’edificato un unico
valore medio di costruzione.
Un’analisi più puntuale, che intenda attribuire il valore economico agli edifici di
particolare valore presenti nell’area, richiederebbe tempi molto lunghi non in coerenza con
la metodologia proposta che intende essere uno strumento di indirizzo e di
programmazione di base utile per ulteriori approfondimenti.

83
Analoga operazione è stata effettuata per il calcolo del valore esposto delle infrastrutture
(Vinfra). Per infrastrutture, in tale studio, sono da intendersi essenzialmente le strutture
viarie di collegamento (autostrade, strade principali, strade secondarie e trasporti su rotaia).
I dati relativi ai valori medi di costruzione sia per l’edificato che per le infrastrutture
sono stati forniti da terzi.

Vsupa (Valore suoli agricoli insediati)


Relativamente al valore dei suoli agricoli insediati (Vsupa), sono stati considerati i
valori medi per ettaro dei terreni agrari delle province campane per zone agrarie omogenee
espressi in migliaia di lire, Legge 590/65 art. 4 e Legge Regionale 42/82 art. 43.
Il valore dei suoli agricoli insediati per comune è stato ricavato moltiplicando il valore
medio per ettaro dei terreni agrari destinati a seminativo (seminativi, seminativi irrigui,
seminativi arborati, seminativi arborati irrigui, orti irrigui) per le relative superfici
sommato al valore medio dei terreni agrari destinati a coltivazioni permanenti (agrumeto,
agrumeto irriguo, vigneto, frutteto, frutteto irriguo, oliveto, noccioleto, castagneto da
frutto) moltiplicato per le relative superfici; tale valore è stato poi rapportato alla superficie
complessiva di seminativi e coltivazioni permanenti. Considerato che per molti comuni si è
riscontrata l’assenza di prati e pascoli e che quando presenti, il loro valore medio per ettaro
risulta basso, dalla SAU (Superficie Agricola Utilizzata) sono stati detratti gli ettari ad essi
relativi in quanto il dato non incide in maniera rilevante sul valore finale. I dati delle
superfici sono stati ricavati dal Censimento Generale dell’Agricoltura del 1990.

Rlav (Redditi da lavoro in opifici produttivi insediati)


Per ogni Comune è stato individuato il numero di addetti nell’industria e nell’artigianato
(fonte Censimento intermedio dell’industria al 1996). Il numero di addetti della cella i-
esima è stato attribuito attraverso l’individuazione della percentuale di suolo della cella
occupato da opifici industriali e attività produttive (artigianali, commerciali e turistiche).
Analogamente al calcolo per la popolazione residente, l’ipotesi consiste nel far coincidere
tale percentuale con il numero di addetti nel settore industriale.
Per tenere conto che non tutte le attività produttive ricadono nel tessuto edilizio urbano
il dato degli addetti è stato ridotto del 50%.
Si perviene al calcolo del reddito da lavoro in opifici produttivi insediati (Rlav),
utilizzando il PIL procapite a livello comunale, derivato da fonti CCIAA, e moltiplicandolo
per il numero di addetti.

I dati relativi alle superfici sono ottenuti da elaborazioni tramite GIS su precedenti
elaborazioni cartografiche fornite da terzi.

Le elaborazioni in GIS sono state effettuate sulla base dello shape file dei confini
comunali e quello della maglia suddivisa in celle quadrate di 100 x 100 metri.
Nel secondo shape file ad ogni cella erano già stati attribuiti i seguenti valori:
- superficie del Consolidato urbanizzato delle zone A e B dei PRG;
- superficie delle zone di espansione;
- superficie delle zone destinate a Commercio e Turismo;
- superficie delle zone destinate ad attrezzature;
- superficie delle zone E (agricole);
84
- lunghezza in metri delle infrastrutture a sviluppo lineare (autostrade, strade
principali, strade secondarie e trasporti su rotaia).

La prima operazione realizzata con il GIS, è stata l’identificazione delle celle


relativamente al Comune di appartenenza tramite overlay dei dati.
Per effettuare correttamente tutte le elaborazioni relative al valore socio-economico
dell’area si è resa necessaria la suddivisione delle celle sui confini.
Dai dati così ricavati per cella si è proceduto alle elaborazioni numeriche tramite
Access.
Nel database denominato TB9_2001.dbf sono riportati i dati di base e le elaborazioni
effettuate per determinare il valore totale insediato. I campi dei dati di base, ricavati dalle
precedenti elaborazioni cartografiche, sono di seguito riportati:
- Identificativo della maglia (MAGLIE_ID)
- Codice ISTAT del Comune (COD_COM)
- Nome del Comune (COMUNE)
- Superficie del Consolidato urbanizzato delle zone A e B dei PRG
(ZONAA_BSAT)
- Superficie delle zone di espansione (ZONAESPANS)
- Superficie delle zone destinate ad attrezzature (ATTREZZATU)
- Superficie delle zone agricole E (ZONAE)
- Strade e ferrovie (STRADE_FER)
- Superficie delle zone destinate a commercio e turismo (COMM_TURIS)
- Superficie delle zone destinate a opifici industriali ed artigianali (ARTIGIANAL)

Le elaborazioni effettuate per la determinazione del valore totale insediato riguardano i


campi sotto elencati
- Reddito procapite insediato per abitanti insediati (REDDITO_CE)
- Valore superficie edificata insediata (VAL_SUPED)
- Valore suoi agricoli insediati (VAL_AG_CE)
- Valore infrastrutture insediate (VAL_INFR_C)
- Redditi da lavoro in opifici produttivi insediati (REDDITO_LA)
- Valore totale insediato (VALORE_TOT)
- Valore insediato normalizzato (VALORE)

Relativamente al campo Valore insediato normalizzato (VALORE) si è dovuti ricorrere


ad una semplificazione, cioè sono state individuate tutte le celle della maglia che avevano
la stessa numerazione (quelle sui confini) e doppio valore di Valore Insediato. Ad
entrambe le celle è stato attribuito il valore massimo tra i due.
Tramite il supporto del GIS è stato possibile rappresentare cartograficamente il Valore
Totale Insediato.
Tale tematismo (Valore Totale Insediato) non intende rappresentare la carta del rischio
ma solo il valore totale insediato calcolato in termini socio-economici con l’unica funzione
di supporto alla metodologia precedentemente descritta.

L’elaborazione cartografica del valore totale insediato è stata rappresentata in 5 classi


che visualizzano la distribuzione del valore nell’area oggetto di analisi.

85
Le elaborazioni numeriche e cartografiche derivano dall’applicazione della metodologia
sopra descritta e rappresentano una sperimentazione in una fase dell’indagine conoscitiva
del territorio ancora in itinere e perciò suscettibile di ulteriori approfondimenti.

86
9. GLI INTERVENTI

Un approccio basato sull’emergenza ha privilegiato negli ultimissimi decenni la


realizzazione di opere intensive per la riduzione del rischio nella parte inferiore del bacino
ove più elevato si presenta il livello di urbanizzazione, trascurando spesso un approccio al
problema basato sull’intervento a lungo termine con opere estensive ed intensive nella
parte superiore del bacino, ove il fenomeno erosivo inizia a manifestarsi e ove la
sistemazione agisce sulle cause del dissesto.
Ne consegue la necessità di intervenire nelle zone montane e collinari, ove più estese ed
intense sono le azioni erosive, con opere diffuse di rimboschimento, di miglioramento di
boschi esistenti, di sistemazione delle frane e con opere concentrate sui corsi d’acqua per la
loro regimazione idraulica anche nelle zone di pianura.
Esistono, comunque, delle priorità nella realizzazione degli interventi. Tali priorità
riguardano le aree che presentano un livello elevato o molto elevato di rischio (R3 ed R4) e
che coincidono spesso con quelle porzioni di territorio caratterizzate da un livello elevato o
molto elevato di valore esposto (E3 ed E4), quasi sempre aree di pianura e pedemontane
fortemente urbanizzate e densamente popolate.
Tuttavia, il mancato o non adeguato intervento sui bacini montani comporta un
incremento delle portate di piena a valle unitamente all’aumento del trasporto solido, con
conseguente necessità di arginature sempre più elevate e/o di più vaste aree di espansione e
laminazione delle piene.
Con interventi di tipo diffuso sul territorio si può ottenere una maggiore efficacia delle
misure di riduzione della probabilità di accadimento dell’evento calamitoso e sulla
riduzione dell’intensità dello stesso; il perdurare dell’abbandono della montagna e della
collina, invece, ha come conseguenza un aumento della vulnerabilità e della pericolosità
del territorio anche a valle con conseguente richiesta di aumento delle difese passive
(argini, casse d’espansione, ecc.), con notevole aumento dei costi diretti ed indiretti.
La sistemazione della parte superiore dei bacini idrografici, dunque, non assume solo un
valore intrinseco, ma comporta il miglioramento delle condizioni idrauliche della pianura
che ospita la maggioranza della popolazione e del patrimonio, infrastrutturale e insediativo,
pubblico e privato.
La sistemazione dei bacini idrografici nelle aree montane, collinari e di pianura, va
considerata quindi, secondo la legge sulla difesa del suolo (L. 183/89), come un intervento
unitario da affrontare con un approccio sistemico attraverso, per esempio:
- interventi finalizzati al recupero, manutenzione e rinaturalizzazione delle superfici
boscate del territorio montano e collinare, con particolare riferimento al
rimboschimento, al miglioramento della funzionalità idraulica dei suoli forestali,
alla regimazione idraulica ed alla rinaturalizzazione della rete idrografica minore;
- interventi finalizzati al recupero, manutenzione e rinaturalizzazione delle superfici
erbacee del territorio montano e collinare, con particolare riferimento agli incentivi
per la riconversione colturale di attività agro-pastorali ai fini del miglioramento
della resistenza all’erosione dei suoli, nonché alla regimazione idraulica ed alla
rinaturalizzazione della rete di scolo superficiale basata sulle fosse livellari;
- interventi integrati per il ripristino e il miglioramento delle funzionalità idrauliche
del reticolo idrografico nei territori di pianura e dei tratti terminali in prossimità
della foce, connessi con la ricostruzione delle fasce di vegetazione ripariale,
necessarie per il miglioramento delle caratteristiche autodepurative dei corsi
87
d’acqua ed alla funzionalità delle reti ecologiche per l’aumento della biodiversità e
per l’attenuazione dell’effetto serra;
- interventi integrati per la depurazione, il drenaggio e l’assetto naturalistico nei
territori di pianura.

Con riferimento a quanto finora detto, risulta evidente la necessità di sviluppare una
coerente ed efficace politica di tutela del paesaggio e dell’ambiente che veda, accanto a
forme di sistemazioni intensive, interventi attivi di rinaturalizzazione di diversi ambiti del
territorio nel suo complesso.
Tale obiettivo è perseguibile attraverso il ricorso a tecniche di ingegneria naturalistica,
preferibili in quanto di basso impatto e rispettose degli equilibri ecologici-ambientali.
Gli interventi di ingegneria naturalistica sono raggruppabili in tre categorie
relativamente omogenee:
- interventi che hanno per obiettivo la limitazione e la prevenzione dell’erosione
superficiale del suolo;
- interventi che prevedono l’impiego della vegetazione eventualmente associata ad
altre tecniche per ridurre il rischio frane;
- interventi volti a limitare l’erosione delle sponde degli alvei dei corsi d’acqua.

Nei paragrafi successivi vengono individuati, relativamente al territorio di pertinenza


dell’Autorità di Bacino Nord-Occidentale, gli interventi strutturali e quelli non strutturali.

7.7 9.1Interventi strutturali

Gli interventi di tipo strutturale più adatti alla sistemazione idraulica della rete
idrografica e dei versanti del bacino nord occidentale della Campania sono:
- manutenzione straordinaria degli alvei e dei versanti dopo ogni evento eccezionale;
- briglie e soglie di stabilizzazione del fondo alveo;
- briglie di trattenuta del trasporto solido;
- difese spondali longitudinali;
- difese arginali;
- modellamento dell’alveo;
- vasche di laminazione;
- interventi estensivi integrati di rinaturazione e recupero dei suoli;
- interventi di stabilizzazione e consolidamento di aree singolari.

Gli interventi di tipo strutturale più adatti alla mitigazione del rischio da frana sono:
- interventi di manutenzione idraulico-forestale
- interventi di ingegneria naturalistica
- interventi puntuali (opere di sostegno, drenaggi)
-
Tali interventi terranno conto delle indicazioni del “Quaderno delle Opere Tipo” e della
“Carta degli Interventi Strutturali”.

88
7.8 9.2Il Quaderno delle opere tipo

Il Quaderno, che è associato alla Carta degli Interventi Strutturali, fornisce una elencazione
commentata delle tipologie di interventi che possono essere impiegati per il risanamento
idrogeologico ed il recupero ambientale delle aste fluviali critiche e dei versanti in frana.
Vengono riportate in particolare le descrizioni degli interventi strutturali e non strutturali
più adatti al caso del bacino nord occidentale della Campania, precisando per gli interventi
di tipo strutturale, le categorie di opere basate sul principio della difesa attiva e di quella
passiva. Il Quaderno, fermo restando le valutazioni di dettaglio e le scelte tecniche proprie
delle fasi di progettazione, è da considerare un documento di indirizzo che suggerisce tra
l’altro, in accordo con le moderne tendenze del settore, il ricorso ad opere a basso impatto
ambientale, proponendo a tal fine, ove possibile, interventi di ingegneria naturalistica.

7.9 9.3La Carta degli Interventi Strutturali

Tale elaborato deriva dall’accorpamento per ciascun ambito geomorfologico (di versante;
montano,pedemontano e di pianura) dei settori a vari livelli di pericolosità (da frana e
idraulica) così come rappresentati nei rispettivi elaborati tematici originali e per i quali
sono state prefigurate determinate categorie di intervento.
I bacini incombenti su aree a rischio per l’incolumità delle persone (enucleate dalla carta
tematica finalizzata ad esigenze di Protezione Civile) sono stati distinti dagli altri bacini in
quanto considerati di interesse prioritario ai fini della programmazione degli interventi.

Interventi non strutturali

Gli interventi di tipo non strutturale, descritti nel quaderno delle opere, sono
rappresentati da:
- monitoraggio, predisposizione di sistemi di allarme, early warning;
- adeguamento del servizio di polizia idraulica;
- programmi di manutenzione;
- indirizzi alla pianificazione urbanistica e territoriale;
- copertura assicurativa dei beni esposti al rischio non coperti dalle misure
strutturali;
- delimitazione delle fasce fluviali;
- incentivazione alla delocalizzazione di manufatti e infrastrutture realizzati in aree a
rischio.

La regolamentazione d’uso del territorio comporta diversi livelli ed ambiti di


applicazione: ambiti di carattere generale (relativi alle linee di assetto idrogeologico a scala
di bacino) ed ambiti di carattere specifico (relativi alle specifiche situazioni di dissesto,
alle modalità di realizzazione di interventi interferenti con l’assetto idrogeologico ed alla
regolamentazione dell’uso del suolo in ambito di pianificazione urbanistica). Quest’ultimo
aspetto appare di natura complessa in quanto comporta una diretta influenza sulla
pianificazione urbanistica a scala comunale e quindi richiede spesso adeguamenti e varianti
che incidono sul contesto insediativo e produttivo, realizzato e programmato.

89
La ricerca di coerenza tra obiettivi del Piano ed esigenze di sviluppo economico-
territoriale è uno degli aspetti determinanti la reale capacità di efficacia del Piano. Va
quindi affrontato con estrema attenzione, al fine di raggiungere una forte condivisione
delle scelte operate ai diversi livelli di pianificazione, ma anche con estrema fermezza
rispetto agli obiettivi di sicurezza e di integrità fisica del bacino che il Piano deve
perseguire.
Nell’individuazione delle priorità la salvaguardia delle popolazioni è ovviamente
determinante. Saranno poi privilegiati gli interventi di manutenzione o di completamento
di opere e quelli che consentono il superamento delle situazioni di dissesto mediante il
ripristino o il riequilibrio delle situazioni naturali preesistenti.
La manutenzione delle opere di difesa è sicuramente fondamentale e non solo quella
delle opere ma anche quella del territorio stesso per preservare equilibri territoriali e
ambientali. Non è vero che un’area priva di pressioni antropiche, lasciata allo stato
“naturale” mantiene il suo equilibrio solo perché non interviene l’uomo: l’abbandono della
manutenzione dei territori boscati ha portato in molto casi, al degrado delle coperture e dei
suoli con inevitabile innesco di fenomeni di instabilità dei versanti e dei suoli in genere
(aumento dell’erosione superficiale, diminuzione della permeabilità, ecc.);
La norma prevede che ogni progetto di intervento strutturale sia descritto almeno con gli
elaborati di seguito elencati:
- un testo sintetico con la giustificazione del progetto alla luce di quanto chiarito
nelle precedenti fasi di studio del Piano e la descrizione dei risultati che con esso si
intende raggiungere;
- una cartografia in scala adeguata, con la localizzazione delle opere e degli
interventi proposti;
- una serie di schede con l’indicazione delle caratteristiche delle opere e degli
interventi; il grado di dettaglio nella descrizione delle opere deve essere sufficiente
per una ragionata stima dei costi;
- una scheda con l’elenco delle opere e degli interventi e relativa stima dei costi,
nonché l’indicazione degli stralci realizzativi;
- ove possibile, una sintetica analisi costi-benefici dell’intervento proposto.

Analogamente ciascun progetto di intervento non strutturale è descritto almeno con gli
elaborati di seguito elencati:
- un testo sintetico con la giustificazione del progetto alla luce di quanto chiarito
nelle precedenti fasi di studio del Piano e la descrizione dei risultati che con esso si
intende raggiungere, sotto l’aspetto tecnico, ambientale, economico e sociale;
- una descrizione dei provvedimenti normativi e/o amministrativi proposti per la
soluzione del problema;
- bozze dei testi delle disposizioni normative delle quali è proposta l’adozione;
- una sintetica analisi costi-benefici dell’intervento previsto.

7.10 9.4Carte del rischio elevato e molto elevato (solo incolumità delle
persone) finalizzate alle azioni di protezione civile

La differenza sostanziale fra la carta del rischio redatta per il PAI e quella allestita in
sede di Piano straordinario consiste, oltre che negli approfondimenti fisici, nel fatto che,

90
nel calcolo del valore esposto, ha contribuito oltre che l’incolumità delle persone anche
l’analisi di altri beni esposti quali quelli ambientali (parchi, aree protette) e culturali. Ciò
ha comportato sovente l’attribuzione a livelli di rischio elevato o molto elevato di porzioni
di territori non urbanizzate ma di alto valore ambientale e/o culturale.
Per tal motivo si è ritenuto utile procedere alla realizzazione di un ulteriore elaborato
finalizzato ai problemi di protezione civile nel senso che esso reca la distribuzione sul
territorio dei beni esposti che comportano l’incolumità per le persone (centri urbani e
infrastrutture principali) assieme agli altri areali classificati in vari livelli di pericolosità
idraulica o per eventi franosi.
In tali carte i valori di rischio rappresentati sono RA, R3 ed R4.
I criteri di definizione degli areali associati a RA (aree da approfondire) sono scaturiti
dall’osservazione di aree che, anche se non rientranti nel modello utilizzato, presentano
connotati tali da suggerire indagini puntuali di densità ben superiore a quella prevista per le
finalità precipue di uno studio di area vasta quale è quello condotto per la realizzazione del
Piano Stralcio.

Gli areali associati, in queste carte, ai valori R3 ed R4 scaturiscono sempre dall’incrocio


matriciale tra Pericolosità e Danno ma calcolando il Danno solo riferito all’incolumità
delle persone. Pertanto alla definizione del Danno, per queste carte e solo per queste, si
sono ridefinite le classi di valore esposto così come descritto di seguito:

‚ E4: valore esposto altissimo


- centri urbani, zone di completamento e di espansione (come delimitate da PRG);
- zone industriali, commerciali e artigianali esistenti e di progetto (come delimitate
da PRG);
- zone con attrezzature esistenti e di progetto (come delimitate da PRG);
- zone turistiche esistenti e di progetto (come delimitate da PRG);
- nuclei ad edificazione diffusa non previsti nel PRG (fonte aggiornamento ortofoto
del 1998);
- zone militari (come delimitate da PRG);
-
‚ E3: valore esposto alto
- Cimiteri e relative aree di rispetto (come delimitati da PRG);
- autostrade;
- strade principali;

Essendo stata considerata la vulnerabilità pari a 1 è stato ridefinito il Danno come


corrispondente al nuovo valore esposto.

91
10. L’ATTUAZIONE DEL PIANO

10.1 Strumenti di attuazione del Piano


Il Piano Stralcio per l’Assetto Idrogeologico ha prodotto e consiste in una notevole
quantità di elaborati (vedi elenco elaborati allegato) in formato cartografico, fotografico e
alfanumerico. Buona parte di questi documenti sono stati finalizzati allo studio del
territorio e dei fenomeni di carattere idrogeologico e sono stati propedeutici alla redazione
di quelli che possiamo chiamare elaborati finali di piano ovvero quelli che determinano e
regolano l’attuazione delle disposizioni del Piano sul territorio. Tali ultimi elaborati
definiscono gli strumenti di attuazione del Piano come i mezzi prescelti per dare attuazione
alle determinazioni assunte con la scelta delle linee di intervento.

Essi sono costituiti da:


1 Carte della Pericolosità
2 Carte del Rischio
3 Carte degli Interventi Strutturali ed indicazione degli interventi prioritari
4 Quaderno delle opere tipo
5 Carte del rischio elevato e molto elevato (solo incolumità delle persone) finalizzate
alle azioni di protezione civile
6 Norme di attuazione
7 Piano finanziario (piano che sarà redatto in fase successiva all’adozione del PAI in
relazione alle risorse finanziarie di provenienza Comunitaria, Statale, Regionale
rese disponibili)

Gli elaborati individuati dal n°1 al n° 5 sono già stati descritti nei paragrafi di
riferimento ai quali si rimanda per una completa interpretazione e lettura.

Le Norme di attuazione definiscono l’uso del territorio ritenuto coerente con le


risultanze delle Carte della Pericolosità e del Rischio e le modalità di attuazione di tutti gli
interventi, strutturali e non individuati nel PAI (interventi di manutenzione idraulica ed
idrogeologica, di sistemazione e difesa del suolo, di rinaturalizzazione, di forestazione, gli
indirizzi di pianificazione urbanistica, gli interventi di realizzazione e di adeguamento delle
principali infrastrutture pubbliche o di interesse pubblico).

10.2 Attuazione degli interventi e formazione dei Programmi triennali


Gli interventi previsti dal Piano sono attuati in tempi successivi, anche per singole parti
del territorio, attraverso Programmi triennali di intervento, ai sensi dell’articolo 21 e
seguenti della L. 18 maggio 1989, n. 183, redatti tenendo conto delle finalità e dei
contenuti del Piano stesso e dei suoi allegati.
I Programmi triennali di cui sopra riguardano principalmente le seguenti categorie di
intervento:
‚ manutenzione degli alvei, delle opere di difesa e dei versanti;
‚ opere di sistemazione e difesa del suolo;
‚ interventi di rinaturazione dei sistemi fluviali e dei versanti;
‚ opere nel settore agricolo e forestale finalizzate alla difesa idraulica e idrogeologica;
‚ adeguamento delle opere viarie di attraversamento.
92
Il Piano può essere attuato, per gli interventi che coinvolgono più soggetti pubblici e
privati ed implicano decisioni istituzionali e risorse finanziarie statali, regionali, delle
province nonché degli enti locali, anche mediante le forme di accordo tra i soggetti
interessati secondo i contenuti definiti dall’art. 1 della L. 7 aprile 1995, n.104 (Accordi di
programma, Contratti di programma, Programmazione negoziata, Intese istituzionali di
programma).
Nell’ambito delle procedure innanzi richiamate, l’Autorità di bacino può assumere il
compito di promozione delle intese e demandare al Settore Difesa Suolo della Giunta
regionale il coordinamento degli interventi programmati.
L’Autorità di bacino, sulla base degli indirizzi e delle finalità del Piano di bacino e dei
suoi stralci, tenuto conto delle indicazioni delle Amministrazioni competenti, redige i
Programmi triennali di intervento ai sensi degli artt. 21 e seguenti della L. 18 maggio 1989,
n. 183 e aggiorna le direttive tecniche concernenti i criteri e gli indirizzi di formulazione
della programmazione triennale, nonché di progettazione degli interventi oggetto di
programmazione.
L’Autorità di bacino definisce e aggiorna un quadro del fabbisogno di interventi
tenendo conto delle linee di intervento di cui al Piano, anche sulla base delle indicazioni
delle Amministrazioni territorialmente competenti. Il quadro del fabbisogno di interventi
individua le opere strutturali da realizzare e i relativi costi di massima ed è ordinato
secondo criteri di priorità.
Le Amministrazioni competenti, ai fini della programmazione triennale, sviluppano a
livello di progetto preliminare gli interventi prioritari di cui al quadro del fabbisogno di
interventi. L’Autorità di bacino, su tale base, predispone un elenco progetti.
I Progetti preliminari costituenti l’elenco progetti devono garantire un corretto
inserimento paesaggistico-ambientale. A tal fine:
‚ i progetti delle opere strutturali di modesta rilevanza devono uniformarsi alle
indicazioni del Quaderno delle opere tipo;
‚ i progetti delle opere strutturali rilevanti devono contenere uno studio di inserimento
ambientale che tenga conto degli elementi di rilevanza naturalistica e paesaggistica
presenti, con riferimento ai Caratteri paesistici e beni naturalistici, storico - culturali
e ambientali.
Il Programma triennale sarà redatto sulla base dell’elenco progetti e terrà conto della
programmazione finanziaria, con priorità per gli interventi sui nodi critici individuati
nell’ambito del Piano stralcio; potranno inoltre essere considerati interventi di rilevanza
locale sulla base di necessità documentate e in coerenza con le linee di intervento fissate
dallo stesso Piano
I progetti preliminari inseriti nel Programma triennale di cui al precedente comma,
qualora riguardino o interferiscano con le aree o i beni tutelati ai sensi del T.U. 490/99,
dovranno ottenere preventivo parere favorevole dagli Uffici competenti alla tutela
archeologica, architettonica, storico-artistica, paesaggistica e ambientale.
I progetti degli interventi inseriti nel Programma triennale dovranno contenere,
unitamente alla definizione delle opere strutturali previste, la perimetrazione delle aree di
dissesto conseguente alla realizzazione delle opere stesse e le relative norme d’uso del
suolo. A opere realizzate, l’Amministrazione comunale provvederà all’adeguamento
eventuale dello strumento urbanistico sulla base degli effetti delle nuove opere realizzate.

93
Ai fini della programmazione degli interventi di manutenzione verranno costituiti e
aggiornati appositi archivi presso l’Autorità di bacino, sulla base delle indicazioni delle
Amministrazioni competenti e degli elementi derivanti dal catasto delle opere; gli archivi
conterranno:
‚ il censimento e la caratterizzazione dei tratti fluviali aventi maggiori necessità di
manutenzione periodica;
‚ il parco dei progetti di manutenzione, redatti a livello preliminare. I progetti sono
ordinati secondo un parametro di priorità definito in base alle linee di intervento del
Piano.
Il Programma triennale di manutenzione sarà redatto sulla base dell’elenco progetti di
manutenzione" e terrà conto della programmazione finanziaria.

94
11. MANUTENZIONE DEL PIANO

Il redigendo Piano Stralcio è un documento programmatorio che si propone di


prevedere (valutazione ex ante) scenari di rischio e di associare ad essi limitazioni nell’uso
del suolo e tipologie di interventi, strutturali e non, finalizzati alla mitigazione dei danni
(altra valutazione ex ante causa-effetto). Pertanto è necessario considerare il Piano solo
come lo stadio iniziale di un processo dinamico che prevede un continuo aggiornamento
delle ipotesi di previsione.
Il Piano Stralcio può essere integrato e sottoposto a varianti dall’Autorità di Bacino ed
anche a seguito di istanze di soggetti pubblici e privati, corredate da documentazione e
rappresentazione cartografica idonea, con le stesse procedure necessarie per la sua
adozione ed approvazione, in relazione a:
a) studi specifici corredati da indagini ed elementi informativi a scala di maggior
dettaglio prodotti da pubbliche amministrazioni;
b) nuovi eventi idrogeologici da cui venga modificato il quadro della pericolosità
idrogeologica;
c) nuove emergenze ambientali;
d) significative modificazioni di tipo agrario-forestale sui versanti o incendi su grandi
estensioni boschive;
e) realizzazione da parte di un Ente locale di un intervento di mitigazione
(regolarmente collaudato) nel rispetto delle norme vigenti e delle norme di Piano;
f) acquisizione di nuove conoscenze in campo scientifico e tecnologico, o storiche,
provenienti da studi o dai risultati delle attività di monitoraggio del piano;
g) variazione significativa delle condizioni di rischio o di pericolo derivanti da azioni
ed interventi non strutturali e strutturali di messa in sicurezza delle aree
interessate.

Il Piano Stralcio ha valore a tempo indeterminato ed è comunque periodicamente


aggiornato con le stesse procedure necessarie per la sua adozione ed approvazione alla
decorrenza di due anni solari dall’adozione del Piano.

95

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