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Il Piano Stralcio per l'Assetto Idrogeologico (PAI) è stato redatto alla scala 1:5000 su Cartografia Tecnica Regionale (ed. 2004 - 2005)
GRUPPO DI PROGETTO
SUPPORTO SCIENTIFICO
CIRIAM - Centro Interdipartimentale di Ricerca in Ingegneria DIGA - Dipartimento di Ingegneria Idraulica Geotecnica ed Ambientale
Ambientale della Seconda Università degli Studi di Napoli (conv. 02/2007) dell'Università degli Studi di Napoli Federico II (conv. 01/2007)
IL SEGRETARIO GENERALE
RELAZIONE GENERALE
SOMMARIO
PREMESSA.........................................................................................................................2
1. INTRODUZIONE ...........................................................................................................3
1.1 Gli Enti Territoriali interessati....................................................................................................... 6
1.2 Il quadro normativo di riferimento ................................................................................................ 7
1.3 Gli obiettivi e le finalità del Piano ............................................................................................... 13
2. LA COSTRUZIONE DEL SITEMA DELLE CONOSCENZE .......................................15
2.2 Idrografia.................................................................................................................................... 16
2.3 Aspetti geologici e geomorfologici ............................................................................................. 17
2.4 Aspetti socioeconomici e uso del suolo ..................................................................................... 20
2.5 Caratteri generali del paesaggio................................................................................................ 23
2.6 Strutturazione storica del territorio............................................................................................. 25
3. IL RISCHIO..................................................................................................................27
3.1 Definizione di rischio .................................................................................................................. 28
4. LA PERICOLOSITA’ ...................................................................................................33
4.1 Valutazione della pericolosità dei fenomeni franosi................................................................... 33
4.2 Il modello geometrico del corso d’acqua ................................................................................... 48
4.3 La modellazione idraulica .......................................................................................................... 48
5. IL VALORE ESPOSTO ...............................................................................................68
6. VULNERABILITA’ E DANNO .....................................................................................71
7. LA GESTIONE DEL RISCHIO ....................................................................................73
8. LA VALUTAZIONE DEL DANNO ..............................................................................76
9. GLI INTERVENTI ........................................................................................................87
10. L’ATTUAZIONE DEL PIANO ......................................................................................92
11. MANUTENZIONE DEL PIANO ...................................................................................95
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PREMESSA
1. INTRODUZIONE
3
- studio idraulico finalizzato alla individuazione delle capacità di convogliamento
dei diversi tratti d’alveo nelle loro condizioni attuali ed alla individuazione
dell’estensione delle aree di allagamento, nei tratti soggetti ad esondazione, per i
periodi di ritorno prefissati;
- elaborazione di cartografia tematica relativamente a: carta dell’uso del suolo, carta
della copertura vegetale; carta della permeabilità, carta della zonazione sismica,
carta dei fattori climatici, carta dell’indice di erosione, carta della densità del
drenaggio, carta dell’acclività dei versanti, carta dell’esposizione, ecc.;
- sviluppo ed implementazione di un Sistema Informativo Territoriale attraverso
l’uso di tecnologie GIS;
- costruzione di una norma tecnica attuativa del Piano.
La versione 2002 del PAI già prevedeva una azione di “Manutenzione del Piano” in
relazione a:
- studi specifici corredati da indagini ed elementi informativi a scala di maggior
dettaglio prodotti da pubbliche amministrazioni;
- nuovi eventi idrogeologici da cui venga modificato il quadro della pericolosità
idrogeologica;
- nuove emergenze ambientali;
- significative modificazioni di tipo agrario-forestale sui versanti o incendi su grandi
estensioni boschive;
- realizzazione da parte di un Ente locale di un intervento di mitigazione
(regolarmente collaudato) nel rispetto delle norme vigenti e delle norme di Piano;
- acquisizione di nuove conoscenze in campo scientifico e tecnologico, o storiche,
provenienti da studi o dai risultati delle attività di monitoraggio del piano;
- variazione significativa delle condizioni di rischio o di pericolo derivanti da azioni
ed interventi non strutturali e strutturali di messa in sicurezza delle aree
interessate.
Alla luce delle precedenti considerazioni, L’Autorità di Bacino, con delibera n. 8 del 21
dicembre 2006 ha avviato una attività di aggiornamento del Piano Stralcio per l’Assetto
Idrogeologico.
Per lo svolgimento delle attività tecnico-scientifiche connesse a tale attività, l’Autorità
si è avvalsa della collaborazione del:
- CIRIAM (Centro Interdipartimentale di Ricerca in Ingegneria Ambientale) della
Seconda Università di Napoli, per gli aspetti idraulici;
- DIGA (Dipartimento di Ingegneria Geotecnica e Ambientale) della Università di
Napoli Federico II.
Gli studi ed i rilievi svolti hanno consentito di pervenire ad un aggiornamento della
cartografia tematica del Piano ed in particolare delle carte di pericolosità e di rischio
idraulico e geologico.
La carenza delle risorse economiche disponibili non ha purtroppo consentito alla
Autorità di Bacino di estendere le attività di rilievo e di studio a tutti i numerosi casi critici
presenti nel territorio del Bacino nord-occidentale della Campania. Pertanto, anche se i
risultati raggiunti sono da considerarsi molto significativi, la fase di revisione del PAI
2002 non comprende alcune aree di pericolosità che riguardano, in particolare, una parte
degli alvei vesuviani e una parte delle aree interessate da fenomeni di alluvionamento
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(presenza di flussi iperconcentrati). Dette aree restano perimetrate allo stato attuale solo
come suscettibili di allagamento, nel primo caso, e su base esclusivamente geomorfologica
nel secondo.. Per tali casi, che necessitano di rilievi topografici, geologoci e geotecnici di
dettaglio, è stata tuttavia predisposta una adeguata relazione metodologica che può
agevolare lo sviluppo di studi ed indagini successive.
Un elemento innovato della nuova versione del PAI è rappresentato dalla introduzione
del moderno concetto di “early warning” applicato al caso dei rischio idrogeologico. A tal
fine nella documentazione prodotta viene presentata, in via esemplificativa, una
applicazione delle tecniche di protezione idraulica in termini di “allerta idrogeologica”. In
particolare viene presentato un modello per la gestione delle informazioni di una rete di
monitoraggio e per l’elaborazione dei dati, in grado di fornire elementi quantitativi sulla
pericolosità di un evento nei primi momenti di accadimento e in tempo utile per assumere
misure precauzionali.
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IL PAI 2010
Il PAI 2010, che segue il PAI 2002, ne rappresenta un aggiornamento ed un
approfondimento.
Le attività dell’ aggiornamento hanno riguardato in particolare i seguenti punti:
L’area oggetto del Piano è totalmente ricompresa nella regione Campania ed in essa
sono presenti territori amministrati dalle Provincie di Napoli , Avellino, Benevento (per
una piccola porzione di territorio) e Caserta.
I Comuni interessati dal Piano Stralcio sono: Acerra; Afragola; Airola; Arienzo;
Arpaia; Arzano; Avella; Aversa; Bacoli; Baiano; Barano d'Ischia; Brusciano; Caivano;
Calvizzano; Camposanto; Cancello Arnone; Capodrise; Carbonara di Nola; Cardito;
Carinaro; Casagiove; Casal di Principe; Casalnuovo di Napoli; Casaluce; Casamarciano;
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Casamicciola Terme; Casandrino; Casapesenna; Casapulla; Casavatore; Caserta; Caloria;
Castel Volturno; Castello di Cisterna; Cercola; Cervino; Cesa; Cicciano; Cimatile;
Comiziano; Crispano; Curti; Domicella; Durazzano; Forchia; Forio d'Ischia;
Frattamaggiore; Frattaminore; Frignano; Giugliano in Campania; Gricignano d'Aversa;
Grumo Nevano; Ischia; Lacco Ameno; Lauro; Liveri; Lusciano; Macerata Campania;
Maddaloni; Marano di Napoli; Marcianise; Mariglianella; Marigliano; Marzano di Nola;
Massa di Somma; Melito di Napoli; Mercogliano; Moiano; Monte di Procida; Monteforte
Irpino; Moschiano; Mugnano del Cardinale; Mugnano di Napoli; Napoli; Nola; Orta di
Atella; Ottaviano; Pago del Vallo di Lauro; Palma Campania; Pannarano; Paolisi; Parete;
Pollena Trocchia; Pomigliano d'Arco; Portico di Caserta; Pozzuoli; Procida; Quadrelle;
Qualiano; Quarto; Quindici; Recale; Roccarainola; Rotondi; S. Anastasia; S. Antimo; S.
Arpino; S. Cipriano d'Aversa; S. Felice a Cancello; S. Gennaro Vesuviano; S. Marcellino;
S. Marco Evangelista; S. Maria a Vico; S. Maria Capua Vetere; S. Maria La Fossa; S.
Nicola La Strada; S. Paolo Belsito; S. Sebastiano al Vesuvio; S. Tammaro; S. Vitaliano;
Sant.Agata dei Goti; Saviano; Scosciano; Serrara Fontana; Siringano; Somma Vesuviana;
Sperone; Succivo; Summonte; Taurano; Teverola; Trentola Ducenta; Tufino; Valle di
Maddaloni; Villa Di Briano; Villa Literno; Villaricca ; Visciano; Volla;
PRINCIPI GENERALI
Considerato che la materia della “tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni
culturali” rientra nelle competenze esclusive dello Stato ex art. 117, 2 comma, lett. s),
mentre la “.. protezione civile e il governo del territorio..” costituiscono materie di
legislazione concorrente a mente del 3 comma dello stesso art. 117 Cost., detta esigenza
ha postulato la necessità di premettere alla formulazione delle norme tecniche di
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attuazione del PAI una verifica aggiornata delle fonti normative di riferimento a tutti i
livelli e competenze.
La tutela idrogeologica, secondo la giurisprudenza costituzionale, ha un ambito di
intervento complesso, riguardando una pluralità di materie, tra le quali, in particolare, la
«tutela dell'ambiente», ricompresa nella materia di competenza esclusiva statale (art. 117,
comma 2, rispettivamente, lettera s, Cost.), nonché la «tutela della salute e protezione
civile» nonchè il «governo del territorio», tutte di competenza regionale concorrente (art.
117, comma 3, Cost.).
Al riguardo, tenuto conto che, a mente del D.P.R. n. 616 del 1977, la difesa suolo deve
considerarsi tra le materie di competenza regionale (quale branca concorrente e
complementare con l'urbanistica) (cfr. Corte Cost. n. 418/92), nel precedente assetto
costituzionale -entro il quale era nata la legge n. 183 del 1989, poi abrogata dal T.U.
sull’ambiente- trovava naturale luogo anche la legge regionale della Campania 7 febbraio
1994 n. 8 (Norme in materia di difesa del suolo - attuazione della legge 18 maggio 1989,
n. 183 e successive modificazioni ed integrazioni").
Quest’ultima legge regionale deve ora, invece, considerarsi recessiva sia in materia
ambientale (dove la competenza è esclusivamente statale per quanto innanzi precisato),
sia in materia di difesa suolo, dove, non essendo stata emanata una nuova legge regionale
dopo l’entrata in vigore dei nuovi principi generali introdotti nella parte terza del D.Lgs.
152/06, è superata in parte qua dalle disposizioni di legge statale successive (prevalenti in
virtù del cd. “principio di cedevolezza” come suggellato dall’Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato con la decisione n. 2/08).
Tuttavia, la giurisprudenza costituzionale non ha mancato di osservare che, data la
complessità dei rapporti tra le fonti in oggetto, non potendosi considerare nessuna delle
descritte materie nettamente prevalente sulle altre, si impone l'applicazione del principio
di leale collaborazione per dirimere eventuali conflitti di attribuzione (cfr. Corte Cost.
sent. nn. 211 del 2006, 144 e 378 del 2007 e 168 del 2008).
Il che ha reso doveroso un’attenta analisi alla luce dei principi informatori delle
rispettive materie, tenuto conto dell’indirizzo del giudice delle leggi secondo cui la
potestà di disciplinare l'ambiente nella sua interezza è stata affidata, in riferimento al
riparto delle competenze tra Stato e regioni, in via esclusiva allo Stato, dall'art. 117
comma 2 lett. s) Cost., e perciò, pur se l'ambiente costituisce una "materia trasversale", e
cioè una materia nella quale insistono interessi diversi - quello alla conservazione
dell'ambiente e quelli inerenti alle sue utilizzazioni -, la disciplina unitaria del bene
complessivo ambiente, rimessa in via esclusiva allo Stato, prevale su quella dettata dalle
regioni o dalle province autonome, in materie di competenza propria, ed in riferimento ad
altri interessi, operando come un limite alla disciplina regionale o provinciale che non può
in alcun modo derogare o peggiorare il livello di tutela ambientale stabilito dallo Stato. E
ciò vale anche nel caso in cui vengano in considerazione le competenze delle regioni
speciali o delle province autonome, dovendosi peraltro, in tali casi, tener conto degli
statuti speciali di autonomia, alla luce del criterio per il quale tutto ciò che gli statuti non
riservano all'ente di autonomia resta attribuito alla competenza dello Stato, salvo quanto
stabilito dall'art. 10 l. cost. n. 3 del 2001 (cfr. Corte Cost. sent. n. 378 del 2007).
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CARATTERI DEL P.A.I. E RAPPORTI CON LA PIANIFICAZIONE
URBANISTICA REGIONALE E TERRITORIALE
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ambientale strategica (VAS), cui, secondo il diritto comunitario (direttiva 42/01/CE del 27
giugno 2001) e la stessa legge regionale n. 16 del 2004, vanno sottoposti tutti gli
strumenti di settore aventi ad oggetto il governo del territorio.
La questione è stata risolta, alla luce, della suddetta prevalenza della materia dello
ambiente e della difesa suolo nel caso della tutela idrogeologica sulla disciplina
concorrente del governo del territorio, facendo leva sul dato positivo dell’art. 68, 1
comma, del d.lg. 3 aprile 2006 n. 152 laddove stabilisce espressamente che “… I progetti
di piano stralcio per la tutela dal rischio idrogeologico, di cui al comma 1 dell'art. 67,
non sono sottoposti a valutazione ambientale strategica (VAS) e sono adottati con le
modalità di cui all'art. 66.. ”.
La disposizione richiamata dell’art. 67, 1 comma, del decreto Matteoli, a sua volta,
sancisce che “…Nelle more dell'approvazione dei piani di bacino, le Autorità di bacino
adottano, ai sensi dell'art. 65, comma 8, piani stralcio di distretto per l'assetto
idrogeologico (PAI), che contengano in particolare l'individuazione delle aree a rischio
idrogeologico, la perimetrazione delle aree da sottoporre a misure di salvaguardia e la
determinazione delle misure medesime...”.
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FINALITA’ DEL PAI E FUNZIONE ATTUATIVA DEI LIVELLI DI
PROTEZIONE NELL’AMBITO DELLE COMPETENZE DI PROTEZIONE
CIVILE E TUTELA DEL TERROTORIO
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predisposizione di adeguate misure di prevenzione, idonee alla concreta realizzazione
dietro la previsione di studi di fattibilità.
In mancanza si è codificata la facoltà per l’autorità di Bacino di sollecitare il potere
sostitutivo degli organi centrali di governo e regionali, secondo quanto previsto dallo
stesso D.lg. 152/065 e dalla L.R. 8/94, nonché facendo leva sul potere sostitutivo
generalmente consentito alle autorità gerarchicamente sovrapposte.
Infatti è oramai principio insito nell’ordinamento quello per cui lo Stato esercita il
potere sostitutivo ai sensi dell'art. 120 Cost. dietro specifica verifica della sussistenza dei
presupposti sostanziali contemplati nella norma costituzionale, nonché sul rispetto delle
condizioni procedimentali previste dall'art. 8 l. 5 giugno 2003 n. 131, alla quale si è fatto
richiamo nelle NTA del PAI.
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1.3 Gli obiettivi e le finalità del Piano
Il PAI 2010 del Bacino nord occidentale della Campania, nello spirito della L.183/89 e
s.m.i., evidenzia come la pianificazione non debba limitarsi alla sola “messa in sicurezza”
del territorio ma debba rivolgersi anche alla “conservazione” ed al “recupero” della
naturalità dei luoghi e dei processi in atto, ha le seguenti finalità:
- la sistemazione, la conservazione ed il recupero del suolo nei bacini idrografici ,
con interventi idrogeologici, idraulici, idraulico-forestali, idraulico-agrari
compatibili con i criteri di recupero naturalistico;
- la difesa ed il consolidamento dei versanti e delle aree instabili, nonché la difesa
degli abitati e delle infrastrutture contro i movimenti franosi e gli altri fenomeni di
dissesto;
- il riordino del vincolo idrogeologico;
- la difesa, la sistemazione e la regolazione dei corsi d’acqua;
- la moderazione delle piene, anche mediante, vasche di laminazione, casse di
espansione, scaricatori, scolmatori, diversivi o altro, per la difesa dalle inondazioni
e dagli allagamenti;
- lo svolgimento funzionale dei servizi di polizia idraulica, di piena e di pronto
intervento idraulico, nonché della gestione degli impianti;
- la manutenzione ordinaria e straordinaria delle opere e degli impianti nel settore e
la conservazione dei beni;
- la disciplina delle attività estrattive, al fine di prevenire il dissesto del territorio,
inclusi l’abbassamento e l’erosione degli alvei e delle coste;
- la regolamentazione dei territori interessati dagli interventi ai fini della loro tutela
ambientale, anche mediante la determinazione dei criteri per la salvaguardia e la
conservazione delle aree demaniali e la costituzione di parchi e di aree protette;
- l’attività di prevenzione e di allerta svolta dagli enti periferici operanti sul
territorio.
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- la costituzione di vincoli, di prescrizioni, di incentivi e di destinazioni d’uso del
suolo in relazione al diverso grado di rischio;
- l’individuazione di interventi finalizzati al recupero naturalistico ed ambientale,
nonché alla tutela e al recupero dei valori monumentali ed ambientali presenti e/o la
riqualificazione delle aree degradate;
- l’individuazione di interventi su infrastrutture e manufatti di ogni tipo, anche
edilizi, che determinino rischi idrogeologici, anche con finalità di rilocalizzazione;
- la sistemazione dei versanti e delle aree instabili a protezione degli abitati e delle
infrastrutture adottando modalità di intervento che privilegiano la conservazione e
il recupero delle caratteristiche naturali del terreno;
- la difesa e la regolazione dei corsi d’acqua, con specifica attenzione alla
valorizzazione della naturalità dei bacini idrografici;
- la definizione delle esigenze di manutenzione, completamento ed integrazione dei
sistemi di difesa esistenti in funzione del grado di sicurezza compatibile e del loro
livello di efficienza ed efficacia;
- la definizione di nuovi sistemi di difesa, ad integrazione di quelli esistenti, con
funzioni di controllo dell’evoluzione dei fenomeni di dissesto, in relazione al grado
di sicurezza da conseguire;
- il monitoraggio dello stato dei dissesti.
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2. LA COSTRUZIONE DEL SITEMA DELLE CONOSCENZE
- Regi Lagni
- Alveo Camaldoli
- Campi Flegrei
- Volla
- Bacini delle Isole Ischia e Procida
Il territorio si estende su di una vasta area regionale che gravita intorno ai golfi di
Napoli e Pozzuoli ed è delimitata, ad ovest, dal litorale domitio fino al confine con il
Bacino Nazionale Liri-Garigliano-Volturno, e si protende verso est nell’area casertana,
rientrando nel tenimento della provincia di Napoli, ove include parte del Nolano fino alle
falde settentrionali del Vesuvio.
A nord comprende le aree prossime al tratto terminale del fiume Volturno; a sud ovest si
sviluppano i bacini dei Regi Lagni, del Lago Patria e quello dell’alveo dei Camaldoli.
A sud, fino al mare, il territorio comprende l’area vulcanica dei Campi Flegrei, che si
affaccia sul golfo di Pozzuoli; al largo di quest’ultimo si trovano le isole di Procida e di
Ischia (anch’esse di competenza dell’Autorità di Bacino nord occidentale della Campania).
Nella zona orientale ricadono il bacino dei Regi Lagni, i torrenti vesuviani e la piana di
Volla. Quest’ultima costituisce la valle del fiume Sebeto originariamente paludosa e tra-
sformata, in seguito, da interventi antropici di bonifica, in zona agricola fertile.
I bacini sopra menzionati sono caratterizzati da aree colanti modeste e da un reticolo
idrografico a regime tipicamente torrentizio. Le zone montane e pedemontane presentano
pendenze medie talvolta elevate ed incisioni profonde con un elevato trasporto solido verso
valle. Le zone vallive si sviluppano in aree originariamente paludose in cui la difficoltà di
smaltimento delle acque zenitali è stata migliorata con interventi di bonifica.
In concomitanza con i fenomeni di piena si verificano condizioni di allagamento con
gravi danni alle colture e al patrimonio, sia per insufficienza della rete dei colatori che per
insufficienza delle sezioni idriche.
Tra i bacini della Campania, quello nord-occidentale è caratterizzato dal più alto indice
di edificazione e dal più alto rapporto popolazione/territorio e attività produttive/ territorio.
L’intervento antropico, volto generalmente proprio ad uno sviluppo produttivo del
territorio, ha talvolta contribuito, per carenza di programmazione, ad un aggravio del
dissesto territoriale, creando situazioni conflittuali tra i centri insediativi e infrastrutture di
trasporto da una parte e corsi d’acqua dall’altra. Ad esempio, l’urbanizzazione, spingendosi
fino ai margini dei corsi d’acqua, ha reso pericolose le esondazioni una volta considerate
innocue ed ha causato il costante depauperamento qualitativo delle acque stesse, dovuto
allo smaltimento dei rifiuti e all’emungimento sempre più spinto delle falde.
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2.2 Idrografia
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2.3 Aspetti geologici e geomorfologici
Le aree vulcaniche
Area flegrea
E’ la vasta area ubicata ad Ovest di Napoli e che si estende sino a comprendere le isole
di Procida, Vivara ed Ischia.
La struttura vulcanica è estremamente complessa, infatti in una zona di poco superiore ai
400 km2 si ritrovano più di 60 edifici vulcanici. La porzione continentale è inoltre
caratterizzata dalla presenza di una vasta area calderica
L’attività vulcanica ha avuto inizio circa 150.000 anni fa, mentre le ultime manifestazioni
si sono avute nel 1301 (ad Ischia) e nel 1538 con la formazione del M.te Nuovo. In questo
intervallo temporale si riconoscono secondo alcuni Autori 4 cicli di vulcanismo, così
distinti:
- I ciclo (> 35.000 anni da oggi): in tale ciclo l’attività, di tipo esplosivo, si è
esplicata nel settore occidentale dei Campi Flegrei (M.te di Procida) e nelle isole di
Procida ed Ischia (Tufo Verde di Ischia: 55.000 anni da oggi). I prodotti di tale
attività sulla terraferma sono poco diffusi, mentre si rinvengono morfologie
vulcaniche relitte attribuibili a tale ciclo.
- II ciclo (35.000÷30.000 anni da oggi): si attribuiscono a tale ciclo il Piperno, la
Breccia Museo e l’Ignimbrite Campana (o Tufo Grigio Campano - 80 km3 di
materiali su 10.000 km2)) nonché la formazione della Caldera flegrea.
- III ciclo (18.000÷10.000 anni da oggi): a tale ciclo sono da riferire la formazione
dei tufi biancastri stratificati (Soccavo) ed i prodotti dei vulcani di Solchiaro
(Procida), Trentaremi, M.te Echia, Torregaveta, e quindi del Tufo Giallo
Napoletano (10 km3 di materiali su 350 km2). Tale tufo è, secondo le più recenti
vedute, il prodotto di più eventi di tipo “pliniano”, avvenuti (11.000 anni da oggi)
in ambiente sottomarino, con un’intensa interazione acqua marina-magma (eruzioni
freato-magmatiche).
- IV ciclo (10.000 anni da oggi ÷ 1538 d.C.): in tale ciclo si è avuta un’intensa
attività esplosiva connessa a bocche eruttive apertesi all'interno della Caldera
Flegrea. Ad una fase iniziale vengono attribuiti i Tufi Gialli Stratificati (vulcani del
Gauro, Miseno, Nisida, Mofete), mentre in una seconda fase si sono formati
prodotti piroclastici sciolti, (es.: prodotti dei vulcani di Baia, Fondi di Baia, M.
Spaccata, S. Martino, Agnano, Astroni, Averno). Si segnalano la messa in posto
della cupola lavica trachitica di M.te Olibano (Accademia Aeronautica) (3.900 anni
da oggi) e l'eruzione di M.te Nuovo avvenuta in epoca storica (1538 d.C.).
Isola di Procida
L’isola di Procida è costituita da prodotti piroclastici nella quasi totalità e,
subordinatamente, da lave e brecce laviche. Alcuni Autori, di recente, riconoscono
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sull’Isola alcuni prodotti originati da vulcani locali ed altri provenienti da Ischia e dai
Campi Flegrei. Sui prodotti locali dei vulcani di Vivara, Pozzo Vecchio e Terra Murata
(tufi gialli e grigi) poggiano prodotti di provenienza ischitana (piroclastiti sciolte, tufi di
Fiumicello e la Breccia della Lingua ascrivibile all’eruzione del Tufo Verde) e flegrea
(Breccia di Capo Scotto di Carlo ascrivibile all’eruzione dell’Ignimbrite Campana).
Isola d’Ischia
Le rocce più antiche dell’isola sono vulcaniti (età > 150.000 da oggi) che affiorano nel
settore Sud-Est dell’isola e, assai più limitatamente, in quello Sud-Ovest. Tali materiali
sono stati interessati da un collasso vulcano-tettonico; i margini della struttura collassata
sarebbero gli affioramenti anzidetti. All’interno ed alla periferia della depressione si
svilupparono duomi e colate laviche (trachitici ed alcalitrachitici) nel periodo da 150.000 a
75.000 anni fa.
Si sono quindi succeduti gli eventi di seguito riassunti:
- circa 55.000 anni fa eruzione del Tufo verde (trachitico);
- circa 33.000 anni fa sollevamento del blocco tufaceo del M. Epomeo dovuto alla
risalita di magma trachibasaltico;
- circa 28.000 anni fa eruzione di magma trachibasaltico (zona Grotta di Terra nel
settore Sud-Est dell’isola);
- circa 18.000 anni fa eruzione nel settore Sud-Ovest dell’isola (vulcano di
Campotese): depositi piroclastici alcalitrachitici e limitati flussi lavici trachitici;
- 10.000 anni fa - 1302 d.C: attività vulcanica quasi tutta concentrata sul bordo Est
del blocco di M. Epomeo e legata alla sua risorgenza.
I territori flegrei, continentali ed insulari sono interessati da molteplici frane di varia età
che hanno coinvolto sia i terreni piroclastici sciolti (crolli-scorrimenti talora evolventi a
colata), sia le unità tufacee e laviche (crolli e ribaltamenti i blocchi). Lungo le aree costiere
(falesie attive) sono numerosi gli esempi di gravi dissesti legati al moto ondoso e a
situazioni di crisi dei cigli.
Somma-Vesuvio
Il vulcano è costituito dal più antico edificio del Somma nel quale la formazione della
caldera (avvenuta 17.000 o 4.000 anni da oggi, secondo i diversi Autori) ha determinato il
ribassamento del fianco meridionale, la migrazione verso Sud-Ovest delle successive
manifestazioni e la formazione nel tempo, all’interno della caldera, del cono del Vesuvio.
Dell’edificio del Somma è così rimasto affiorante il solo settore settentrionale mentre il
resto, ribassato, è stato coperto dai prodotti vesuviani. L’attività del vulcano è iniziata
circa 25.000 anni fa, come si evince anche dalla sovrapposizione, riscontrata in
perforazioni realizzate sul fianco settentrionale, dei prodotti del Somma su piroclastiti
riferibili all’Ignimbrite Campana (età 37.000 anni). Fino a 17.000 anni fa l’attività è
proseguita con fasi alterne effusive ed esplosive, per divenire, queste ultime, quasi
prevalenti fino al 1631. Da tale anno (in cui si è avuto un evento esplosivo assai intenso
che provocò più di 6.000 vittime) all’ultima eruzione (1944), le manifestazioni eruttive,
pur con alternanza di fasi, hanno assunto più spesso il carattere di flussi lavici.
Attualmente il vulcano è in fase quiescente. In estrema sintesi i materiali emessi dal
vulcano possono riunirsi nelle seguenti unità (dalle più recenti):
- piroclastiti e scorie del cono vesuviano;
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- colate laviche con interposizione di banchi di terreni piroclastici discontinui e di
varia potenza;
- lave basali del Somma.
L’edificio vulcanico è caratterizzato soprattutto lungo i versanti settentrionali
(M.Somma) e sud-occidentali da un fitto reticolo idrografico attivo in concomitanza di
eventi meteorici intensi. Ne conseguono frequenti fenomeni di alluvionamento e trasporto
solido che coinvolgono soprattutto le fasce pedemontane.
La Piana Campana
Si estende su una superficie di circa 1350 km2 (della quale solo la porzione
settentrionale e nord-orientale ricade nel territorio dell’Autorità) con quote variabili dallo
zero assoluto nei settori costieri ai 40/50 m s.l.m. delle fasce pedemontane dei rilievi
carbonatici che la contornano (M.te Massico a Nord, M.ti Tifatini a Nord-Est, M.ti di
Durazzano e di Avella-Partenio, M.ti di Sarno a Est, M.ti Lattari a Sud).
La Piana corrisponde ad una depressione tettonica impostata su un originario piastrone
carbonatico i cui margini affioranti sono i rilievi che attualmente la bordano (M. Massico,
M. Maggiore, i Tifatini etc.). Lungo le fratture che hanno prodotto la depressione si è
avuta, nel tempo, un’intensa attività vulcanica e si sono sviluppati importanti edifici
vulcanici (Roccamonfina, Somma-Vesuvio); lungo le stesse fratture sono inoltre presenti
sorgenti mineralizzate con alti tenori in CO2 (Sorg. di Triflisco e di Cancello al margine
NE della Piana) e si rinvengono spesso acque termali (M. Massico al margine NW).
Il distretto vulcanico dei Campi Flegrei e il massiccio del Somma-Vesuvio individuano
tre settori della piana: quello settentrionale (basso Volturno); quello mediano (valle del
Sebeto); quello meridionale (piana di Sarno).
Dai dati derivanti da prospezioni geofisiche, da perforazioni profonde eseguite per
ricerche di idrocarburi e da molteplici pozzi perforati soprattutto per ricerche d’acqua,
risulta - per i settori del basso Volturno e della valle del Sebeto - la seguente successione
dall’alto:
- Tufo Grigio Campano per spessori di 30-60 m, con i valori massimi a ridosso dei
massicci carbonatici e dei Campi Flegrei e i valori minimi a ridosso del corso del
Volturno, dove esso è ricoperto da una coltre piroclastico-alluvionale, talora con
livelli torbosi;
- depositi vulcano-sedimentari di varia granulometria e spessore di alcune decine di
metri;
- depositi prevalentemente pelitici di probabile ambiente marino e transizionale
dello spessore di alcune centinaia di metri;
- depositi vulcanici antichi (tufi e lave andesitiche e basaltiche) intercettati da
sondaggi profondi, per spessori notevoli, e con il tetto che risale fino ad alcune
centinaia di metri dal p.c. sulla verticale di Parete;
- depositi clastici di probabile età miopliocenica a profondità superiore ai 3 km;
- piattaforma carbonatica, mai raggiunta dalle perforazioni profonde eseguite nella
zona baricentrica dell’area, ma ricollegabile con gli affioramenti periferici
attraverso successivi importanti gradini di faglia.
La Dorsale carbonatica
I rilievi carbonatici che ricadono nel territorio dell’Autorità di Bacino Nord Occidentale
della Campania appartengono al settore strutturale di catena sud-appenninica. Tale settore
19
è stato caratterizzato da complesse vicende tettoniche prima di tipo compressivo e poi tipo
distensivo. Queste ultime hanno determinato fenomeni differenziati di sollevamento con
conseguente individuazione di alti strutturali (corrispondenti ai rilievi montuosi) e di
depressioni morfologiche (conche intramontane). La Catena sud-appenninica ha la sua
massima espressione morfologica in rilievi montuosi che superano talora i 2000 m di
altezza e che sono costituiti prevalentemente da rocce lapidee calcareo-dolomitiche. Tali
successioni costituiscono l’ossatura della catena e si estendono in modo continuo
dall’Abruzzo alla Calabria settentrionale.
Si tratta di sedimenti di piattaforma carbonatica (cioè di un mare poco profondo ) nel
quale a partire dal Trias e sino al Miocene si sono depositati sedimenti dolomitici e poi
calcarei di natura biochimica e bioclastica. La dorsale carbonatica, in quanto appartenente
al settore di catena, è interessata da una sismicità molto elevata. Con riferimento precipuo
al territorio del Nord Occidentale può affermarsi che il grado di sismicità raggiunge livelli
leggermente inferiori in quanto il territorio stesso è periferico rispetto a quello assiale
appenninico. Per quanto riguarda la stabilità dei versanti i fenomeni più diffusi sono crolli
e/o ribaltamenti di masse lapidee indotte dai vari sistemi di discontinuità negli ammassi.
Laddove sono presenti, in appoggio sul substrato carbonatico, coltri piroclastiche di origine
vesuviana e/o flegrea, sono frequenti fenomeni di scorrimento-colata anche di notevole
volume (vedi eventi franosi di notevole intensità del 1986, del 1997-98, del maggio ’98 e
dicembre ’99 che hanno interessato i territori del Comune di Palma Campania, di Avella,
di Quindici, Moschiano, San Felice a Cancello, ed altri “minori” molto diffusi in vaste
porzioni montane del territorio).
E’ infine da segnalare un aspetto di carattere idrogeologico connesso alla diffusione del
fenomeno carsico ed in generale all’elevata permeabilità dell’acquifero carbonatico. In
questo contesto sussiste una notevole predisposizione alla diffusione nel sottosuolo di
fluidi inquinati che hanno spesso un recapito ultimo nella falda di base. Attualmente la
scarsa urbanizzazione di questo settore montuoso mitiga l’entità del problema, che tuttavia
presenta aspetti di particolare rilievo in punti singolari rappresentati dalle conche carsiche
endoreiche, dalle cave utilizzate come discariche, dalle aree più direttamente a ridosso
delle opere di captazione.
20
2.575 ab/kmq) ai 141, 157 e 309 ab/kmq rispettivamente delle province di Benevento,
Avellino e Caserta. La variabilità demografica si rileva molto sensibile da comune a
comune: i residenti oscillano da un minimo di 893 di Forchia ad un massimo di 79.907 di
Casoria (escluso Napoli che ne conta 1.067.365). La densità pur essendo mediamente
elevata (1934 ab/kmq dell’area a fronte dei 411 ab/kmq a livello regionale e 115 ab/kmq a
livello europeo) varia da 29 ab/Kmq del comune di S. Arpino ad un massimo di 8728
ab/kmq del comune di Arzano (escluso Napoli).
Le forti densità investono decisamente il comune di Napoli ed il suo hinterland: nel
capoluogo il valore di 9.102 ab/kmq è tra i più elevati per le città delle stesse dimensioni.
La densità è ancora molto elevata lungo l’arco costiero da Monte di Procida a
Castellamare, lungo l’asse che collega Napoli con Caserta e lungo la direttrice Marigliano-
Nola-San Giuseppe Vesuviano-Nocera mentre va scemando con gradienti rapidamente
decrescenti, man mano che ci si sposta verso l’interno.
21
Per quanto attiene le classi di età si rileva che i valori accomunano le province di Napoli
e Caserta contro quelle di Benevento ed Avellino i cui valori risultano molto disomogenei
rispetto ai precedenti. Gli indicatori rilevano infatti per la provincia di Napoli una
popolazione di ultrasessantacinquenni pari a ca. il 10% dei residenti e di giovani under 14
che supera il 14% mentre per Avellino e Caserta i valori si attestano, per gli anziani,
intorno al 15, 16% e, per i giovani sotto i 14 anni, intorno al 19%.
Una grande variabilità si rileva anche nell’aspetto produttivo che vede (sempre al 1991)
gli addetti totale ammontare a 787.000 unità con una distribuzione geografica molto
diversificata: da un minimo di 117 a Forchia ad un massimo di 24.713 a Caserta e di
326.000 a Napoli per una densità produttiva media pari a ca. 395 addetti/kmq escludendo
Napoli dove tale indicatore misura il valore di 2.784 addetti/kmq.
L’area napoletana esercita un ruolo fortemente gerarchico dal punto di vista produttivo
rispetto al resto del bacino anche se nel decennio 1981/91 si è registra un maggiore
aumento dell’offerta di lavoro nei comuni del bacino rispetto al capoluogo rispettivamente
pari al 9,7% e al 3,1%.
I caratteri produttivi, inoltre, si differenziano molto anche nella distribuzione dei singoli
settori.
Il settore industriale è fortemente presente nei comuni di Pozzuoli e Napoli con qualche
propaggine nei comuni siti a nord-est del capoluogo, intorno alle pendici del Vesuvio.
Il settore agricolo si sviluppa in modo tutt’altro che complementare a quello industriale
sia per la forte diversificazione degli addetti sul territorio che per la forte disomogeneità
della densità abitativa.
La crescita demografica degli ultimi trent’anni (dal 1961 al 1991) nell’area è pari a ca. il
26% anche se nei singoli comuni si registra un inversione del trend che nel periodo
precedente aveva visto la prevalenza della città di Napoli sul suo hinterland: il comune di
Napoli è interessato da un decremento demografico pari a ca. il 10% della popolazione
mentre il resto del bacino registra un incremento di ca. il 50% della popolazione.
La ricerca di percorsi simili e comuni a territori adiacenti a portato ad individuare
cinque profili di crescita1:
a) aree in crescita stabilmente sostenuta, costituite da comuni che presentano indici di
concentrazione demografica elevati e costanti nei tre decenni (61/71-71/81-81/91);
b) aree in crescita progressiva, costituite da comuni con indici inizialmente inferiori a
quelli della prima categoria, ma in costante aumento;
c) aree in rallentamento demografico, costituite da comuni caratterizzati da fenomeni di
concentrazione all’inizio elevati, ma che sono andati successivamente smorzandosi;
d) aree a crescita contenuta, costituite da comuni con indici positivi, ma sempre inferiori
all’unità;
e) aree a dinamica non identificabile perché caratterizzati da comuni in cui l’andamento
dell’indice non è netto.
1
Da “Tipologie della crescita” in “Mobilità delle residenze, mobilità delle persone”, M. De Luca e B. Rallo, CCIA
PRISMI editore. Napoli, 1998.
22
2.5 Caratteri generali del paesaggio
23
intermontana del nolano; le piane di connessione svolgentisi tra il Vesuvio e le colline
flegree; l’esteso e differenziato sistema costiero.
I valori naturali e culturali riconosciuti nelle dominanti geomorfologiche e nel sistema
costiero hanno condotto a sancirne la tutela.
Tuttavia i valori del paesaggio coinvolgono l’intero insieme territoriale, compresi gli usi
urbani e rurali , attraverso le relazioni spazio-temporali configuratesi, concernenti i tessuti
insediativi consolidati o espressione di nuovi bisogni, aree agricole, aree di naturalità
protetta.
Il cambiamento intercorso nei trascorsi decenni, effettuatasi su basi scarsamente
programmate nelle manifestazioni connesse alla disciplina dell’uso del suolo, ha
comportato un aggravarsi delle condizioni di vivibilità, un accentuarsi degli squilibri nei
modi d’uso delle risorse territoriali, una consistente espansione della periferizzazione della
condizione insediativa. Non a caso, gli anni passati appaiono caratterizzati dalle periodiche
condizioni di emergenze tutte correlate alla condizione ambientale, intendendo con questa
anche le ricadute sull’ambiente naturale, in senso stretto, di quello antropizzato.
Da questo punto di vista la L. 1497/39 e la successiva L.431/85 hanno entrambe
dimostrato dei grossi limiti nella salvaguardia dei beni paesaggistici, da un lato perché
propongono un concetto “vedutistico” e “puro-visibilista” del paesaggio, dall’altro in
quanto supportano un atteggiamento sostanzialmente vincolistico e di tutela passiva dei
beni. D’altra parte, anche la L. 394/91, che istituisce le aree protette al fine di “garantire e
promuovere, in forma coordinata, la conservazione e la valorizzazione del patrimonio
naturale del paese”, non ha ancora prodotto un’azione concreta in questo senso, in quanto
ha fino ad adesso portato solo ad una ennesima perimetrazione dei territori da
salvaguardare.
Risulta, tuttavia, necessario inquadrare le porzioni di territorio, che ricadono nei confini
dell’Autorità di Bacino Nord-Occidentale, vincolate ai sensi delle succitate leggi di tutela
allo scopo di consentire una valutazione del rischio che tenga in debito conto i diversi pesi
del valore esposto.
Nella G.U. n. 37 del 26/04/1985, sono riportate le dichiarazioni di notevole interesse
pubblico, ai sensi della L. 1947/39, di vasti territori della Regione Campania, taluni
rientranti nell’area di competenza dell’Autorità di Bacino Nord-Occidentale:
- le isole di Ischia e di Procida;
- i comuni di Bacoli, Monte di Procida, Pozzuoli, S.Sebastiano al Vesuvio,
Ottaviano, Somma Vesuviana, Sant’Anastasia, Pollena Trocchia, Cercola, Massa di
Somma;
- parte dei comuni di Napoli (Camaldoli, Agnano, Posillipo, Mergellina), Nola,
Marano di Napoli, Castel Volturno, Casagiove, Casapulla, Caserta, Maddaloni, S.
Maria Capua Vetere, Mercogliano, Summonte, Quadrelle;
- parte del litorale dominio.
La disciplina d’uso del suolo attivata dalla L. 431/85 si sarebbe dovuta specificare
attraverso “piani territoriali paesistici”, obbligatori, o “piani urbanistico territoriali con
specifica attenzione ai valori del paesaggio”.
Attualmente, all’interno del perimetro dell’Autorità di Bacino Nord-Occidentale,
ricadono i seguenti Piani Territoriali Paesistici:
- Piano Territoriale Paesistico dell’area dei Campi Flegrei;
- Piano Territoriale Paesistico dell’area Agnano-Camaldoli;
24
- Piano Territoriale Paesistico dell’area di Posillipo;
- Piano Territoriale Paesistico dell’isola di Ischia;
- parte del Piano Territoriale Paesistico del Vesuvio, esteso al comune di Nola-
Castel Cicala:
Un elemento interessante da sottolineare è che la disciplina d’uso del suolo sancita con i
Piani Paesistici è da integrare attraverso azioni svolte attraverso piani urbanistici di
iniziativa comunale, redatti con contenuti di progetto d’uso, intervento ed attuazione idonei
a ricercare la compatibilità tra l’istanza di conservazione e l’istanza di valorizzazione.
La strumentazione per la protezione del paesaggio promuove, di conseguenza,
attraverso le prescrizioni caratterizzanti la disciplina d’uso del suolo, interventi coerenti
con quelli sollecitati o da sollecitare per la prevenzione e la mitigazione del rischio.
La L. 394/91 ha istituito le aree protette di rilievo nazionale o regionale, gestite dagli
Enti Parco.
Interessano l’Autorità di Bacino Nord-Occidentale, interamente o per alcune parti, i
seguenti parchi regionali:
- Foce Volturno e costa di Licola;
- Campi Flegrei;
- Monti del Partenio.
Per concludere, è significativo ricordare, ancora una volta, che “il paesaggio si propone
come manifestazione sensibile dei valori della comunità”, va quindi commentato nella sua
discontinuità tematica, ma contemporaneamente va trattato sinergicamente nella sua
complessità.
La descrizione, sia pure per grandi linee, della strutturazione storica del territorio
oggetto di studio, risulta essere particolarmente importante ai fini di una lettura sinergica
dello stesso.
Ogni innovazione, ogni intervento modificativo, ma anche ogni possibilità di
riqualificazione e di riassetto, finirebbero per conformarsi come estranei avulsi e quindi
non pertinenti, se non rapportati alla struttura “consolidata” di un territorio che comprende,
inevitabilmente, anche ciò che, nel corso dei secoli, è stato “artefatto” dall’uomo, con
particolare riferimento ai beni storico-culturali.
L’Autorità di Bacino Nord-Occidentale si trova ad agire in un ambito territoriale
particolarmente ricco di beni storico-culturali, ed il riferimento ad essi risulta essere
condizione necessaria ai fini di una valutazione del rischio che tenga in debito conto i
diversi pesi del valore esposto.
L’insieme dei beni nell’area flegrea, dall’Anfiteatro Flavio (il più grande dopo quello di
Roma) a Pozzuoli al Palatium di Baia (più noto come complesso termale), al Portus Julius
(ancora sommerso nel golfo di Pozzuoli), alla città di Cuma (sull’acropoli del litorale di
Licola); la città di Calatia nel territorio comunale di Maddaloni; la città di Atella nei
territori dei comuni di Succivo e Sant’Arpino; i numerosi resti archeologici presenti in
forma puntuale su tutto il territorio oggetto di studio, rappresentano una risorsa in parte
poco nota, frammentata, ma di grandissimo valore.
25
In generale, si tratta però di un patrimonio scarsamente valorizzato, non inserito in
circuiti di fruizione organica, gestito da Soprintendenze differenti separate e non
coordinate, poco vigilato e pertanto oggetto di atti vandalici e di rapine, per lo più non
aperto al pubblico oppure, al contrario, alla mercé di un pubblico indiscriminato e non
selezionato.
L’ambito territoriale in esame risulta essere, altresì, caratterizzato da un’eccezionale
sistema difensivo articolato e diffuso che trova i suoi riferimenti già nell’epoca romana
(anche se con la caduta dell’Impero d’Occidente e per gran parte dei secoli fino all’anno
1000 fu travolto e trasformato dalle invasioni barbariche e dalle conseguenti azioni di
controllo sui feudatari che si suddividevano il territorio in aree di influenza e di dominio),
per poi risalire dall’epoca longobarda, in particolare con le aree del beneventano e parte del
casertano; all’epoca normanno-sveva (i castelli di Acerra, Marigliano, Napoli, Somma
Vesuviana); all’epoca quella angiona (i castelli di Nola, Afragola, Palma Campania,
Napoli); a quella aragonese (il castello di Ischia, di Procida, I presidi di Somma Vesuviana,
le residenze fortificate baronali a Marano, il castello di Pomigliano d’Arco); al viceregno
spagnolo con il rafforzamento di nuovi presidi; l’epoca austriaca ed, infine quella
borbonica con la sistemazione e l’ampliamento di tutto il sistema difensivo spagnolo-
austriaco basato sulle piazzeforti, nonché con la realizzazione di palazzi e dimore nobiliari
(il Palazzo Reale di Napoli, la Reggia di Capodimonte, il Palazzo Reale di Caserta); di
grandi edifici pubblici (l’Albergo dei Poveri, L’Osservatorio Vesuviano) e, ancora, di
opere infrastutturali (l’Acquedotto carolino, i sistemi di bonifica, come quelli di irrigazione
dei Regi Lagni).
L’insieme dei beni difensivi – alcuni di eccezionale valore storico-documentario -
appare scarsamente valorizzato quando non oggetto di trasformazione violenta o di usi non
consoni.
Un sistema storico-culturale che intende ricostruire, non solo ai fini testimoniali e
documentari, l’organizzazione complessa di aree territoriali non può prescindere dai modi
in cui i territori stessi avevano stabilito il rapporto con il mare.
Valga come esempio il sistema flegreo in epoca romana, organizzato intorno alla città di
Pozzuoli, con il porto mercantile più importante del Mediterraneo, al presidio militare di
Misero (Bacoli), al golfo di Baia (Bacoli), al Portus Julius (Lucrino, tra Pozzuoli e Baia).
Un elemento fondamentale da sottolineare e che l’ambito territoriale oggetto di studio
presenta una qualità non solo altissima, ma, cosa ancora più importante, diffusa dei beni
storico-culturali. Si tratta, cioè, non di un’area con presenze puntuali, bensì di un “territorio
storico”, dove esiste un intero sistema fortemente strutturato di città storiche, e, a questo
proposito, torna particolarmente utile ricordare il ruolo ordinatore che la centuratio romana
ha avuto nel determinare il disegno produttivo, proprietario, infrastrutturale e urbano di
gran parte della piana di Caserta fino a Quarto e Pozzuoli.
Un’azione di tutela e di difesa del suolo non può non fare i conti con una realtà culturale
così fortemente consolidata ed estesa. Se è vero che il concetto di rischio non passa solo
per la capacità di calcolare la probabilità che un evento “pericoloso” accada, ma anche per
quella di definire la quantità di danno provocato, allora deve essere possibile individuare
delle priorità, oltre a quella delle vite umane, che tengano presente il valore esposto delle
differenti tipologie di beni presenti sul territorio.
26
3. IL RISCHIO
Il rischio idrogeologico è un termine sempre più diffuso a causa del crescente aumento
di danni (e di vittime) che i fenomeni franosi e alluvionali stanno producendo nel mondo
ed in particolare in Italia.
Tale aumento è per lo più causato dall’aumento del “valore esposto” e non tanto da un
reale incremento del numero e dell’intensità degli eventi.
In seguito ai numerosi disastri verificatesi negli ultimi anni ed al riconoscimento della
natura sociale di tali eventi, sono stati intrapresi programmi di ricerca, sia a livello
nazionale che internazionale, mirati ad affrontare tali fenomeni con opportune opere di
previsione e prevenzione.
Uno dei temi più trattati dalla letteratura, e sul quale non c’è ancora una soluzione
condivisa, è quello della metodologia per l’individuazione del “rischio” idrogeologico e
delle sue componenti.
In Italia, una punta avanzata nella ricerca in questo campo è il Gruppo Nazionale per la
Difesa dalle Catastrofi Idrogeologiche (GNDCI), nel quale è attiva una linea di ricerca
denominata “Previsione e Prevenzione di eventi Franosi a Grande Rischio”.
In Francia si registrano forse i migliori risultati nel campo della previsione e
prevenzione dei rischi.
L’ultimo decennio del secolo (1990-2000) è stato designato dalla 42a Assemblea
Generale delle Nazioni Unite come Decennio Internazionale per la Riduzione dei Disastri
Naturali ed è stata istituita una Commissione per il censimento mondiale dei fenomeni
franosi.
Il Working Party on World Landslide Inventory (WP/WLI) dell’UNESCO è nata per
creare una banca dati mondiale che dovrà costituire la base di riferimento per l’analisi della
distribuzione delle frane. Tale gruppo ha quindi predisposto “metodi raccomandati” per la
descrizione delle frane, schede per la rilevazione e glossari finalizzati ad uniformare la
terminologia scientifica relativa.
In Italia , attraverso il Progetto AVI, commissionato dal Dipartimento della Protezione
Civile al GNDCI del CNR, sono stati censiti tutti i territori del paese colpiti da frane e da
inondazioni per il periodo 1918-1990. Gli eventi sono stati catalogati, mediante apposite
schede, per ambiti regionali, aggiornati fino all’anno 2000.
Permane, nonostante questi sforzi, una non condivisone ed incertezza relativa al
significato di pericolosità, vulnerabilità e rischio, nonché alla valutazione dei parametri con
cui tali valori possano essere quantificati.
La protezione idrogeologica, così come affrontata con il Piano Straordinario ex lege
226/99, sembra contenere una certa rigidità e staticità ed evocare un atteggiamento
vincolistico, fatto perlopiù di “divieti”, che è, in definitiva, l’atteggiamento comune alle
numerose leggi, in tema di tutela e salvaguardia ambientale, attualmente vigenti nel nostro
Paese.
L’origine di questo tipo di approccio può essere ricercata in un uso sconsiderato delle
risorse e, dunque, nel confronto tra lo stato attuale delle diverse utilizzazioni territoriali e la
loro compatibilità con il carattere fisico dell’ambiente naturale. Tale confronto chiarisce,
ma certo non giustifica, una politica ambientale permeata sostanzialmente da passività e
scarsa flessibilità, che si è tradotta, nel corso degli ultimi anni, in sterili perimetrazione di
aree rigidamente vincolate. Lo sforzo necessario da compiere dovrebbe concretizzarsi nel
27
superamento di un atteggiamento vincolistico, che il più delle volte finisce per creare
situazioni di stallo e di immobilità altrettanto pericolose di quelle di uso indiscriminato
delle risorse, per adottare, invece, un approccio “attivo” di mitigazione e prevenzione del
rischio legato alle dinamiche ambientali naturali/antropiche.
Una riflessione sulla sostanza delle azioni di protezione idrogeologica conduce così a
ritenere che queste oggi debbano essere orientate prevalentemente alla elaborazione di
proposte che contengano, insieme alla ovvia identificazione delle cause e degli effetti del
dissesto idrogeologico e alla perimetrazione delle aree effettivamente e/o potenzialmente
soggette a tale dissesto, anche e soprattutto gli elementi necessari per la previsione e
prevenzione degli eventi calamitosi. Lo strumento, se pur complesso, per quest’analisi si
identifica nella valutazione del rischio, la cui assunzione presuppone una confluenza
disciplinare di opinioni, criteri e consapevolezze, che consenta di progettare il “piano” non
come “modello”, bensì come “processo”.
La “processualità” è una scelta difficile perché parte dal presupposto che i fenomeni
oggetto di studio non siano riconducibili a schemi predefiniti capaci di spiegarli in modo
completo ed esaustivo, ma al contrario, siano interrelati ad una serie complessa di fattori
che con al loro peculiarità caratterizzano contesti specifici e ogni volta differenziati.
Quando si fa riferimento alla necessità di un piano “pertinente”, si intende sottolineare
proprio l’esigenza di un modus pianificatorio che sia capace di relazionarsi alla peculiarità
dei diversi contesti.
Il rischio (R) è definito come l’entità del danno atteso in una data area e in un certo
intervallo di tempo in seguito al verificarsi di un particolare evento calamitoso.
Per una dato elemento a rischio l’entità dei danni attesi è correlata a2:
• la pericolosità (P) ovvero la probabilità di occorrenza dell’evento calamitoso entro un
certo intervallo di tempo ed in una zona tale da influenzare l’elemento a rischio;
• la vulnerabilità (V) ovvero il grado di perdita prodotto su un certo elemento o gruppo
di elementi esposti a rischio risultante dal verificarsi dell’evento calamitoso temuto.
• il valore esposto (E) ovvero il valore (che può essere espresso in termini monetari o di
numero o quantità di unità esposte) della popolazione, delle proprietà e delle attività
economiche, inclusi i servizi pubblici, a rischio in una data area.
Il danno (D) è definito come il grado previsto di perdita, di persone e/o beni, a seguito
di un particolare evento calamitoso, funzione sia del valore esposto che della vulnerabilità.
2
Nel rapporto UNESCO di VARNES & IAEG (1984) vengono date precise definizioni relative alle diverse componenti
che concorrono nella determinazione del rischio di frana:
a) Pericolosità (hazard H): probabilità che un fenomeno potenzialmente distruttivo si verifichi in un dato periodo
di tempo ed in una data area.
b) Elementi a rischio (element at risk E): popolazione, proprietà, attività economiche, inclusi i servizi pubblici
etc., a rischio in una data area.
c) Vulnerabilità (vulnerability V): grado di perdita prodotto su un certo elemento o gruppo di elementi esposti a
rischio risultante dal verificarsi di un fenomeno naturale di una data intensità. E espressa in una scala da O (nessuna
perdita) a i (perdita totale).
d) Rischio specifico (specifìc Risk Rs): grado di perdita atteso quale conseguenza di un particolare fenomeno
naturale. Può essere espresso dal prodotto di Hper V
e) Rischio totale (total Risk R): atteso numero di perdite umane, feriti, danni alla proprietà, interruzione di attività
economiche, in conseguenza di un particolare fenomeno naturale; il rischio totale è pertanto espresso dal prodotto:
R=HVE=Rs E
28
Di conseguenza:
R=P×E×V
ovvero
R=P×D
dove
D=E×V
Il valore del rischio sul territorio è stato desunto da una combinazione matriciale della
pericolosità (da frana o da esondazione) e del danno.
Pn
Rk = Pn × Dm
P3 P2 P1
D4 R4 R4 R3
D3 R4 R3 R2
Dm
D2 R3 R2 R1
D1 R2 R1 R1
Rischio frana
I valori delle classi del rischio idraulico si ottengono dalle tre matrici riportate di
seguito. In particolare, nella prima, i valori del danno incrociano quelli della pericolosità
nelle aree soggette a fenomeni di allagamento da esondazione; nella seconda, quelli della
pericolosità nelle aree soggette ad invasione di flussi iperconcentrati (colate); nella terza,
quelli della pericolosità nelle aree soggette a fenomeni di trasporto liquido e trasporto
solido da alluvionamento.5:
4
Approfondimenti sulla metodologia di definizione delle classi di pericolosità di frana sono riportati nel paragrafo 5.1
“Valutazione della pericolosità dei fenomeni franosi”.
5
Approfondimenti sulla metodologia di definizione delle classi di pericolosità idraulica sono riportati nel paragrafo 5.2
“Valutazione della pericolosità dei fenomeni da inondazione”.
30
Pn
Rk = Pn × Dm
P4 P3 P2 P1
D4 R4 R4 R3 R2
D3 R4 R4 R2 R1
Dm
D2 R3 R2 R1 R1
D1 R2 R1 R1 R1
Pn
Rk = Pn × Dm
P4 P3 P2 P1
D4 R4 R4 R3 R2
D3 R4 R4 R2 R1
Dm
D2 R3 R2 R1 R1
D1 R2 R1 R1 R1
31
Pn
Rk = Pn × Dm
Pa Pm Pb
D4 R4 R3 R2
D3 R4 R2 R2
Dm
D2 R3 R1 R1
D1 R2 R1 R1
32
4. LA PERICOLOSITA’
Per quanto attiene alla componente collegata agli aspetti geologici (in generale) è da
evidenziare che si è sostituito il concetto di Pericolosità P (inteso come probabilità, in
senso temporale e spaziale, di accadimento dell’evento) con quello di Suscettibilità o
Pericolosità Relativa (intesa come previsione solo “spaziale”, tipologica, dell’intensità ed
evoluzione del fenomeno franoso: Hartlèn & Viberg, 1988). Di fatto, i tipi di frana presenti
sul territorio (di elevata intensità e soggetti per vari motivi a rapida cancellazione delle
forme) rende oltremodo problematica la ricostruzione della franosità storica (e, quindi, la
definizione dei tempi di ritorno).
Di seguito sono riportati gli studi realizzati per ciò che concerne il Rischio frane
relativamente alla determinazione di una metodologia necessaria alla definizione della
pericolosità.
Sulla base delle esperienze maturate per la redazione del PAI 2002 piano l’Autorità di
Bacino ha impostato il seguente iter operativo:
Carta geolitologica
33
Carta degli elementi strutturali
Carta-inventario dei fenomeni franosi
Carta geomorfologica
La carta degli elementi strutturali, intesa come documento che evidenzia i motivi
strutturali delle varie unità del substrato che controllano più direttamente i meccanismi di
deformazione dei pendii. Essa non è stata redatta, in quanto si è ritenuto di rappresentare i
motivi strutturali significativi direttamente sulla carta geolitologica.
34
all’invasione da frana riferite ai contesti geologici rappresentativi del territorio (dorsali
carbonatiche; area flegrea continentale ed insulare, area vesuviana).
L’iter metodologico seguito viene sintetizzato nei paragrafi che seguono.
4.1.3Suscettibilità all’innesco
Ç ÃÄ1 - T - D ÔÕÖ
I ? ÈS Å Ù· L· B ,
É Ú
con:
I = suscettibilità all’innesco
S = acclività dei versanti,
T = spessore della coltre piroclastica
D = distanza dalla linea di scorrimento delle acque superficiali
L = uso del suolo
B = ordine di bacino.
35
D = distanza da sentieri e strade montane
L = uso del suolo
R = distanza dagli orli di scarpate
Per tali dati, che si riferiscono unicamente alle aree di coronamento delle colate, sono
stati calcolati i dati statistici elementari (valore minimo, massimo, medio; deviazione
standard), necessari alle successive elaborazioni. Per ciascun parametro si è altresì allestita
la relativa carta tematica, da incrociare con quella recante l’ubicazione delle aree di
coronamento delle frane.
La carta delle pendenze e la carta di ubicazione delle scarpate sono state ricavate da un
Modello Digitale del Terreno (DTM), con struttura matriciale con passo di 20 m. Nelle
zone in cui per motivi connessi alla risoluzione del DTM non si riuscivano ad estrarre in
modo automatico le rotture di pendenza è stato necessario ricavarle da un’analisi
geomorfologia, riportarle sulla cartografia di base e successivamente digitalizzarle.
La carta-inventario delle aree di coronamento di frana e la carta delle pendenze sono
state utilizzate per definire la pendenza nelle zone di distacco delle frane attraverso
un’operazione di Map Algebra. Definita per ciascun coronamento la relativa pendenza, è
stato elaborato un grafico che evidenziasse la loro distribuzione di frequenza. Questa, in
analogia con quanto già rilevato in diversi contributi scientifici (tra cui quello già citato di
Amanti et alii, 1998), ben si approssima ad una distribuzione di tipo gaussiano. E’ stato
pertanto possibile valutare l’incidenza del fattore pendenza sul potenziale innesco delle
frane da scorrimento-colata attraverso la funzione di densità di probabilità
1 2/u2
1 / *x /o +
S? e 2 .
u 2r
Avendo verificato che, almeno da un punto di vista statistico, la posizione delle scarpate
non determinava sensibili modifiche nella zonazione delle aree suscettibili a franare, in
quanto i dati di riferimento, essenzialmente di tipo geomorfologico, incidono in modo
pressoché uniforme negli areali considerati, si è ritenuto di non includere tale fattore nella
formulazione definitiva, che è risultata quindi così composta:
Ç ÃÄ1 - T - D ÔÕÖ
I ? ÈS Å Ù·L
É Ú
Nelle aree vulcaniche l’espressione sopra indicata è stata modificata in relazione al
diverso ruolo esercitato dai fattori T, D ed L
La suscettibilità all’invasione per frane come quelle tipiche del territorio dell’AdB può
ragionevolmente identificarsi nei due aspetti elementari della previsione della distanza di
propagazione e dell’espansione areale del fenomeno franoso (Hartlèn & Viberg, 1988),
essendo l’eventuale tendenza retrogressiva in qualche modo contemplata nell’analisi della
suscettibilità all’innesco.
In particolare, la previsione della distanza di propagazione è di fondamentale
importanza per frane di crollo o di colate detritico-fangose, le quali possono, come noto,
coprire grandi distanze. Le colate rapide del maggio ’98 anche in questo senso
rappresentano un riferimento imprescindibile, essendosi raggiunte in quell’occasione
distanze massime nell’ordine dei 3.500-4.000 m dal coronamento di alcune frane.
Sia per i crolli che per le colate rapide esistono diversi metodi analitici adatti alla
“simulazione” dei possibili percorsi dei corpi di frana. Nel caso dei crolli, la procedura più
comunemente seguita è quella, di norma basata sull’osservazione della posizione di blocchi
già franati, dell’analisi cinematica o dinamica delle possibili traiettorie dei blocchi, in
funzione della loro forma e dimensione e delle caratteristiche morfologiche del pendio.
Nel caso delle colate rapide un metodo già applicato in diversi contesti è quello delle
linee di energia (noto anche come modello a slitta), originariamente proposto da Heim
(1932) e successivamente ripreso da altri autori, ed in particolare da Sassa (1988). Tale
metodo, basato sull’assunzione che tutta l’energia persa nel movimento è dissipata per
attrito, richiede la stima dell’angolo di attrito apparente (funzione dell’angolo d’attrito
dinamico del materiale) e delle pressioni neutre durante il moto.
Altrettanto complessa è la previsione dell’espansione areale di un fenomeno franoso,
importante nel caso di colate viscose di terra o di fenomeni di liquefazione (Canuti &
Casagli, 1996). Tale previsione dipende infatti da un elevato numero di fattori (morfologia
del versante, granulometria e contenuto d’acqua del materiale, parametri di resistenza al
taglio, pressioni interstiziali, ecc.). Esistono al riguardo approcci analitici propri
dell’ingegneria sia geotecnica (Sassa, 1988) che idraulica (Takahashi, 1991), ed in
entrambi i casi è indispensabile la conoscenza di parametri specifici dei materiali
suscettibili di franare.
La pericolosità di frane a cinematica rapida come crolli e colate detritico-fangose può
essere stimata, in assenza di specifici ed affidabili dati geotecnici ed idraulici, su base
geomorfologica, mediante la determinazione di alcuni parametri morfometrici elementari.
Questo approccio fu per la prima volta introdotto nel 1932 da Heim che, analizzando
alcune frane catastrofiche avvenute nell’Arco Alpino (stürzstroms o rock avalanches),
definì il cosiddetto fahrböschung o angle of reach (traducibile come “angolo di portata o
distanza”), ovvero l’angolo formato (rispetto all’orizzontale) dalla congiungente il punto
posto a quota più alta della zona di distacco con il punto estremo raggiunto dalla massa
37
franata. In seguito (Shrieve, 1968, Scheidegger, 1975) questo angolo è stato definito anche
“coefficiente equivalente di attrito”.
Nel corso degli anni, attraverso un numero ingente di studi, l’angolo di distanza è stato
utilizzato per stimare la mobilità di numerosi tipi di frana (scorrimenti, colate di detrito e di
terra, crolli, rock avalanches), inizialmente di volume imponente (milioni o decine di
milioni di m3), in seguito anche di più modesta dimensione. Il volume mobilizzato è il
parametro morfometrico più di frequente utilizzato in relazione con l’angolo di distanza,
essendosi constatata, su un’ampia casistica, l’esistenza di una relazione di proporzionalità
inversa (l’angolo diminuisce al crescere del volume). La relazione tra massima altezza
verticale di caduta ed angolo di distanza è stato invece oggetto di studi controversi (es.:
Skermer, 1985; Corominas, 1996).
Le varie relazioni sperimentali sono state testate su un’ampia serie di contesti geologici
e geomorfologici (Alpi, Pirenei, Montagne Rocciose, Cordigliera andina, estremo Oriente,
ecc.), costituendo in molti casi un primo criterio di valutazione del potenziale d’invasione e
quindi di pericolosità di frane rapide. Alcuni autori, tuttavia, suggeriscono di utilizzare un
parametro differente, derivato dall’angolo di distanza: l’eccesso di distanza percorsa (Hsü,
1975) o l’eccesso relativo di distanza percorsa (Corominas, 1996). In entrambi i casi, si
tratta di una stima dell’anomala mobilità di frane veloci, in relazione ad un dato standard,
costituito, nei due casi, dal prodotto dell’altezza massima di caduta (H) per tan32°, dove
quest’ultimo valore rappresenta l’angolo d’attrito “normale” per molti tipi di materiali.
L’adozione di questo approccio non può però prescindere dall’evidenziare alcuni limiti,
ad esempio insiti nel valutare il ruolo di ostacoli e deviazioni sulla mobilità delle frane
(soprattutto le colate). E’ altresì il caso di ricordare gli altri fattori che condizionano la
stessa mobilità, ovvero l’altezza della caduta, la regolarità del percorso, la dimensione
della massa in movimento.
Per quanto attiene specificamente l’iter seguito per il territorio dell’Autorità di Bacino,
la procedura di elaborazione adottata parte dalla Carta di suscettibilità all’innesco, già
trattata nel paragrafo precedente. Tale Carta viene utilizzata, in questa fase, per il
tracciamento di sezioni topografiche, passanti per i principali valloni dei vari contesti,
nonché per un numero significativo di versanti “planari”, ovvero privi di incisioni
torrentizie di un certo rilievo, e per lo più coincidenti con le “faccette triangolari” della
Carta geomorfologica.
Contestualmente, si è proceduto alla determinazione dell’angolo di portata specifico per
i vari contesti geologico-geomorfologici. In tal senso, si è operato tenendo conto della
letteratura più recente disponibile sull’argomento, sui territori d’interesse, tra cui, in
particolare Calcaterra et alii (1999), de Riso et alii (1999), Di Crescenzo & Santo (1999).
La valutazione del suddetto angolo è stata condotta considerando esclusivamente i valori di
H ed L, non potendo disporre dei valori di volumi mobilizzati per l’intera area di studio,
scegliendo i più idonei valori rispettivamente per frane generate a monte di impluvi e/o
valloni (e quindi passibili di incanalamento) e per frane lungo versanti planari.
Tali valori sono stati utilizzati, in prima approssimazione, a partire dal punto di
“Suscettibilità molto elevata all’innesco”, posto a quota più alta lungo le prescelte sezioni
di calcolo. In presenza di settori di versante posti a monte del suddetto punto e classificati a
“Suscettibilità elevata o media-moderata”, il primo calcolo è stato reiterato, al fine di
determinare le corrispondenti aree di possibile invasione. In caso di pronunciate anomalie
38
morfologiche lungo la sezione (concavo-convessità, tratti di versante planari che si
raccordano ad incisioni, ecc.), i calcoli sono stati ulteriormente replicati.
Al termine di tale fase, si sono quindi uniti i punti di massima invasione, corrispondenti
ai diversi livelli di suscettibilità, ottenendo quindi degli areali “preliminari”. Questi ultimi
sono stati successivamente controllati con una serie di dati, derivati dalla Carta
geomorfologica, quali frane (e loro effettiva “impronta”), conoidi, glacis d’accumulo
pedemontani, elementi antropici significativi (cave, vasche, rilevati), ecc. L’iniziale
delimitazione è stata quindi ridefinita in modo da pervenire alla versione definitiva della
Carta di suscettibilità all’invasione per frane da scorrimento-colata rapida.
39
40
Per quanto attiene alle frane da crollo in rocce lapidee, la definizione del limite di
massima invasione è affetto da margini di approssimazione connessi alla complessità
oggettiva del tema, ma anche alla vastità dei fronti lapidei considerati. L’elemento di
riferimento, di tipo areale, è mutuato essenzialmente dal rilevamento gemorfologico e
riguarda in particolare la presenza o meno di blocchi franati, nei tratti a valle delle balze
rocciose considerate (vedi zona di Taurano; collina dei Camaldoli e Monte Barbaro;
versanti dell’Epomeo). In un’area singolare, rappresentativa del contesto carbonatico, il
dato geomorfologico è stato confrontato con le risultanze di analisi di dettaglio relativa sia
all’assetto strutturale del fronte, sia alle traiettorie percorse da un blocco di riferimento. Le
risultanze dei dati acquisiti, con i limiti di approssimazione sopra riportati, sembrano
indicare (tenuto conto delle dimensioni prevalenti dei blocchi e della lunghezza dei
percorsi) che il limite massimo ricade, in un buon numero di casi, all’interno o al piede
delle aree di versante. In tali casi, esso viene a coincidere, nelle condizioni più sfavorevoli,
con la zona apicale delle aree a suscettibilità molto elevata all’invasione per frane da colata
rapida.
41
4.2 Valutazione della pericolosità dei fenomeni da allagamento per esondazione, da
flusso iperconcentrato e da trasporto liquido e solido da alluvionamento esondazione,
Le attività di studio eseguite per la perimetrazione delle aree a rischio idraulico sono
descritte nei paragrafi che seguono.
Attività conoscitiva
Questa fase iniziale dello studio è stata necessaria ad acquisire tutte le informazioni utili
per ricostruire lo stato di conservazione delle singole aste del reticolo idrografico del
bacino.
Più in particolare, in base ai risultati di sopralluoghi e di appositi rilievi è stato eseguito
il censimento sistematico, la localizzazione e la collocazione storica degli eventi critici di
allagamento e degli interventi di protezione eseguiti nel tempo ed il cui stato di
conservazione potrebbe essere in grado di influenzare il deflusso delle correnti di piena.
Documentazione prodotta
I documenti di sintesi di tale attività sono rappresentati da:
- catalogo delle ricognizioni del reticolo idrografico esistente riportante le
informazioni fotografiche e cartografiche relative ai sopralluoghi svolti per la
verifica dello stato di conservazione dei diversi tronchi dei corsi d’acqua
ispezionati; tali informazioni sono restituite anche in un data-base su supporto di
semplice utilizzazione (del tipo EXCEL, ACCESS );
- cartografia tematica riportante la localizzazione delle aree interessate da fenomeni
di allagamento per esondazione ricavata dai dati storici del progetto AVI
opportunamente integrati.
Studio idrologico
42
La metodologia utilizzata nello studio idrologico fa riferimento a quella riportata nel
PAI 2002, proposta su scala nazionale dal progetto VAPI del Gruppo Nazionale per la
Difesa dalle Catastrofi Idrogeologiche (GNDCI).
dove:
- z Q è un parametro centrale della distribuzione di probabilità della variabile
idrologica Q, massimo annuale della portata istantanea (ad esempio: la media, la
mediana, il valore modale, etc.)
- K T e’ un coefficiente amplificativo, denominato coefficiente di crescita col
periodo di ritorno T espresso dalla relazione
K T ? K T (T ) (2)
che dipende, per una data regione omogenea rispetto alle portate al colmo di piena,
solo dal particolare modello probabilistico adottato e dallo specifico parametro z Q
preso a riferimento (Tabella 1).
Le elaborazioni relative alla applicazione di tale modello fanno riferimento
ad una procedura di regionalizzazione gerarchica in cui i parametri vengono valutati a
scale regionali differenti, in funzione dell’ordine statistico.
Relativamente al valore da assegnare al periodo di ritorno T, prendendo a
riferimento le tre classi di valori riportate dal DPCM del 29/09/98 (T=20-50 anni; T=100-
200 anni; T=300-500 anni) si e’ fatto riferimento ai valori 20 anni, 100 anni e 300 anni.
La stima dei massimi istantanei delle variabili aleatorie (altezza di pioggia, intensità
di pioggia, portata di piena, etc.) corrispondenti ad assegnati valori del periodo di ritorno T,
è stata effettuata attraverso una metodologia di tipo probabilistico che utilizza il modello
T.C.E.V.
Nel caso specifico la variabile aleatoria presa in esame è il massimo annuale
dell’altezza di pioggia hd,T di assegnata durata d, corrispondente al periodo di ritorno T.
L’espressione
hd ,T ? hd ,T *d , T + (3)
viene, come noto, denominata “curva di probabilità pluviometrica per assegnato periodo
di ritorno T.
La (3) assume notoriamente l’espressione:
hd ,T ? X hd © K T (4)
dove
43
- X h è il parametro centrale della distribuzione di probabilità del massimo annuale
d
I valori del coefficiente di crescita K T delle piogge e delle portate sono indicati,
per i differenti periodi di ritorno T assunti, nella successiva Tabella 1.
T 20 100 300
Piogge KT 1.64 2.36 2.90
Portate KT 2.03 3.07 3.83
che presenta, rispetto alle più diffuse forme di tipo monomio, i seguenti vantaggi:
- per durate d › 0 , risulta o id › I 0 e, quindi, anche per durate ridotte si ottengono
valori non troppo elevati dell'intensità media di pioggia nella durata d;
44
- la derivata di o id rispetto a d si presenta continua in tutto l'intervallo di durate, il
che la rende notevolmente più duttile nella ricerca della durata critica con un
approccio variazionale;
- compare direttamente la quota z sul livello del mare.
Analogamente a quanto riportato nel PAI 2002, per la scelta del modello di
trasformazione afflussi/deflussi si è tenuto conto della estensione e delle caratteristiche
morfometriche dei bacini da esaminare.
In particolare per i bacini montani di superficie inferiore a 15 Km2 per la
valutazione delle portate piena si è ritenuto opportuno fare riferimento al metodo della
corrivazione ed in particolare alla formula razionale:
Q = Cf*i(tc) *S (7)
nella quale tc è il tempo di corrivazione del bacino (ore) calcolato con la nota formula di
Giandotti:
in cui
L = lunghezza dell’asta principale in Km;
S = superficie totale del bacino in Km2;
Hmed = quota media del bacino in m;
Ho = quota della sezione di chiusura in m.
t
Qt ? Ð p (v )u (t / v )dv (9)
0
nel quale la funzione u(t) rappresenta l'IUH del modello, la cui espressione è la
seguente
n /1 t
1 Ã t Ô
ut ? ÄÄ ÕÕ e K0
(10)
(n / 1)! K 0 Å K0 Ö
45
Per la valutazione del coefficiente di afflusso, per i sottobacini già oggetto di studio
idrologico nel PAI 2002 si è fatto riferimento ai valori contenuti nel predetto PAI.
Per i restanti sottobacini, sono stati stimati coefficienti di afflusso prendendo a
riferimento quelli riportati nel PAI 2002 per bacini aventi caratteristiche morfologiche
simili.
Nello studio idrologico, particolare attenzione è stata rivolta agli alvei/canali che, in
parti del tracciato, si presentano pensili rispetto ai terreni circostanti ed hanno una capacità
idrovettrice inferiore alla portata meteorica attesa.
In tale caso, per la stima dei volumi esondabili è stato fatto ricorso ad un modello
idologico di tipo cinematico, ipotizzando, per un assegnato periodo di ritorno, idrogrammi
di durata pari o superiore al tempo di corrivazione nella sezione di interesse che
massimizzassero al variare della durata il valore del volume esondabile.
Gli alvei ricadenti nel bacino Nord Occidentale della Campania sono stati
schematizzati in tre tipologie :
- alvei naturali;
- alvei strada ;
- alvei tombati.
Per quanto concerne gli alvei naturali va evidenziato che le problematiche della
sicurezza idraulica, che rappresentano l’obiettivo principale dello studio idraulico, sono
connesse, come è noto, ai processi morfologici di erosione, trasporto e sedimentazione,
oltre che agli interventi antropici; pertanto, lo studio idraulico è stato accompagnato
prioritariamente da una analisi geomorfologia del reticolo fluviale nella quale i singoli
tronchi d’alveo sono stati caratterizzati come :
- torrenti montani, incisi in formazioni in posto in cui possono verificarsi dissesti di
carattere erosivo localizzati a piede dei versanti e colate rapide di fango o di detrito;
- tratti pedemontani, in cui si verificano processi di deposito nel breve, medio e
lungo periodo, con conseguente incremento del rischio di esondazioni per
restringimento delle sezioni trasversali che possono interessare i coni di deiezione;
- tratti incassati di pianura, in cui si verificano esondazioni delle portate in arrivo dai
bacini a monte per superamento della capacità di convogliamento idrico dell’alveo.
Particolare attenzione è stata posta nei confronti degli alvei strada. Infatti è
abbastanza frequente il verificarsi di alvei naturali che, arrivati in prossimità dei centri
abitati, divengono delle vere e proprie strade con la caratteristica di essere la sola via di
accesso a proprietà private, senza che si rilevi la presenza di opportune opere idrauliche
atte ad allontanare la naturale portata convogliata a monte dall’alveo.
Pertanto, tutti gli alvei strada sono stati perimetrali come zone a massima
pericolosità idraulica.
Infine per quanto concerne l’ultima tipologia che è quella degli alvei tombati va
evidenziato che nel territorio esaminato essa ricorre comunemente Infatti, è frequente il
caso di corsi d’acqua che per alcuni tratti vengono ad essere incanalati in sezioni chiuse.
Questi alvei sono stati studiati con particolare attenzione, in quanto una inadeguata
capacità idrovettrice, a fronte delle portate idrologiche attese, può causare problemi di
notevole rilevanza.
47
4.2 Il modello geometrico del corso d’acqua
La ricostruzione della geometria dei corsi d’acqua e delle aree limitrofe è stata
effettuata sia attraverso l’utilizzo di cartografia di base già esistente, sia attraverso una
campagna di rilievi topografici.
La cartografia di base utilizzata per definire la topografia delle aree oggetto dello
studio è rappresentata dal Rilievo aerofotogrammetrico in scala 1:5000 eseguito nel 2004
dalla Regione Campania;
Negli studi di dettaglio per l’aggiornamento del Piano, si è disposto per ogni alveo
da studiare un apposita campagna di rilievi effettuati secondo le indicazioni contenute nella
Relazione idrologica del PAI 2010.
Durante la campagna di indagini e rilievi particolare cura è stata richiesta nel rilievo
di sottopassi, ponti, alvei strada e per ogni singolarità che potesse risultare importante ai
fini della determinazione della pericolosità.
Tutta la campagna di rilievi è stata poi corredata di una vasta documentazione
fotografica.
c 2 V2 2 c 1 V1 2
Y2 + Z2 + = Y1 + Z1 + + he (11)
2g 2g
dove:
49
g 1, g2 = coefficienti di ragguaglio delle potenze cinetiche;
g= accelerazione di gravità;
he = perdita di energia.
Linea dell'energia he
totale
c4V2²/2g
c3V1²/2g
Linea di pelo libero
Y2
W.S.2 Y1
Linea di fondo W.S.1
Z2
z=0 Piano di riferimento Z1
c 2 V2 2 c1 V12
he = L * Sf + C / (12)
2g 2g
dove:
hfe = L * Sf (13)
2 1
R 3
Sf 2
V= (14)
n
La perdita di energia, dovuta alla contrazione o espansione della corrente, è
calcolata mediante la relazione:
50
c 2 V2 2 c1 V12
hce = C / (15)
2g 2g
Per una descrizione dettagliata delle procedure di calcolo previste dal codice HEC-
RAS si rimanda alla Relazione Idraulica del PAI 2010.
In via preliminare si ricorda che, con riferimento alla normativa del settore e
tenendo conto delle definizioni e dei criteri adottati dalle Autorità di bacino nazionali, la
regione fluviale, cioè quell’area interessata dai fenomeni idraulici ed influenzata dalle
caratteristiche naturalistiche e paesaggistiche connesse al corso d’acqua, si articola nelle
seguenti zone:
- alveo di piena ordinaria;
- alveo di piena standard;
- aree di espansione naturale della piena;
- aree ad elementi di interesse naturalistico, paesaggistico, storico, artistico ed
archeologico.
L’alveo di piena ordinaria, che ai sensi dell’art.822 del C.C. appartiene al Demanio
Pubblico, è definito come quella regione fluviale interessata dal deflusso idrico in
condizioni di piena ordinaria (periodo di ritorno 2-5 anni).
L’alveo di piena standard corrisponde a quella regione fluviale interessata dalla
piena di riferimento. Il periodo di ritorno di quest’ultima viene fissato tenendo conto della
particolare situazione in esame e l’alveo di piena deve essere delimitato sulla base delle
caratteristiche morfologiche del corso d’acqua e delle aree inondabili .
Le aree di espansione naturale della piena vengono incluse nelle fasce di pertinenza
fluviale quando esercitano un significativo effetto di laminazione.
Le aree ad interesse naturalistico, paesaggistico, storico, artistico ed archeologico
comprendono quella parte della regione fluviale appartenente alle aree naturali protette
(parchi e riserva naturali, nazionali, regionali) in base alla normativa vigente a livello
nazionale (art.2 della L.349/91 e s.m.i.) e regionali (piani paesistici e piani di bacino).
Sulla base delle precedenti definizioni e degli studi relativi, vengono identificate le
fasce di pertinenza fluviale la cui importanza, come è noto, è connessa alle ricadute in
termini urbanistici. Prendendo a riferimento per la piena standard un periodo di ritorno di
100 anni, si definiscono poi le seguenti tre fasce di pertinenza fluviale:
1. fascia A: coincide con l’alveo di piena, assicura il libero deflusso della piena
standard, assunta di norma a base del dimensionamento delle opere di difesa; si escludono
da tale fascia le aree i cui tiranti idrici siano modesti (inferiori ad 1.0 m);
51
2. fascia B : comprende le aree inondabili dalla piena standard ed è suddivisa nelle
seguenti tre sottozone:
- sottofascia B1
- sottofascia B2
- sottofascia B3
3. fascia C: coincide con quella compresa tra la sottofascia B3 e le aree inondabili
per portate con periodo di ritorno di 300 anni.
Per la valutazione delle aree allagabili, sono stati utilizzati criteri differenti in
relazione alle caratteristiche geometriche ed idrauliche degli alvei ed all’entità dei
fenomeni (volumi di esondazione).
A tal proposito si evidenzia che, in relazione alle caratteristiche idrauliche del
reticolo idrografico del bacino Nord-Occidentale della Campania (portate di piena
relativamente modeste, sistemazioni con strutture spondali o con vasche di laminazione,
interventi di tombamento dei canali nei centri urbani ecc.) ed alle cause più frequenti dei
fenomeni di dissesto (riduzione delle sezioni idriche per effetto del trasporto solido e
dell’uso improprio dei canali, manutenzione ordinaria carente, trasformazioni idrauliche
delle reti di drenaggio naturale in reti artificiali ecc.), i volumi di esondazione non sono, in
linea generale, quasi mai elevati.
Alla luce di ciò, nello studio idraulico per la delimitazione delle aree di
esondazione, in alternativa ai modelli teorici la cui complessità operativa spesso ne rende
poco proficua l’utilizzazione, sono stati utilizzati alcuni schemi concettuali approssimati,
52
semplici nella applicazione e fisicamente basati su oggettive considerazioni di carattere
idraulico.
In particolare, nel caso di alvei di “pianura” sono state individuate le sezioni
trasversali di rilievo in cui si è stimato che possa manifestarsi l’esondazione ed il lato in cui
le zone circostanti vengono inondate (nel caso in cui il tirante idrico risulta maggiore solo
della quota di una delle due sponde dell’alveo).
Successivamente, considerando le sezioni trasversali interpolate tra le sezioni
originarie di riferimento, sono stati individuati i vari tratti in cui è previsto l’allagamento.
Dalla restituzione del profilo di rigurgito e delle tabelle di output del codice di
calcolo HEC-RAS, in ogni sezione in cui è prevista l’esondazione dell’alveo è stato
individuato il valore dell’altitudine della superficie idrica (in m s.l.m.m.) in corrispondenza
del convogliamento delle portate attese per ognuno dei periodi di ritorno considerati
(T=20, 100 e 300 anni).
Il limite destro e/o sinistro delle aree soggette ad allagamento si è ottenuto
dall’intersezione, in ogni sezione trasversale in cui è prevista l’esondazione dell’alveo, del
piano orizzontale, avente quota pari all’altitudine della superficie idrica valutata nella
sezione di interesse, con la rappresentazione cartografica di rilievo, appoggiata alla
cartografia ufficiale della Regione Campania del 2004.
Nei casi in cui i fenomeni di esondazione si manifestano in tratti “pensili” rispetto al
territorio circostante, ovvero, qualora l’intersezione del piano orizzontale avente quota pari
a quella della superficie idrica della piena con la rappresentazione cartografica disponibile
in scala 1:5.000 si verificasse a distanze troppo elevate dall’asse del canale, si è adottata
una diversa procedura, onde evitare la perimetrazione di aree di estensione eccessiva, non
compatibile con i volumi di esondazione stimati.
In tali casi, si rende indispensabile l’esecuzione di rilievi e sopralluoghi di estremo
dettaglio, finalizzati allo studio particolareggiato della morfologia dell’area interessata, in
modo da poter giungere ad una valutazione realistica della estensione dell’area
potenzialmente soggetta ad allagamento.
Il valore del volume esondabile è stato stimato, per un prefissato periodo di ritorno, a
partire dalla valutazione dell’idrogramma di piena nella sezione idraulicamente
insufficiente, avente una capacità idrovettrice pari ad un valore di portata Q* inferiore alla
portata al colmo di piena QT. In particolare, sono stati assunti idrogrammi di forma
triangolare/trapezia, sulla base della assunzione di un modello cinematico di
trasformazione afflussi-deflussi (metodo della corrivazione).
Per diversi valori della durata D dell’evento meteorico è stato stimato il
corrispondente idrogramma e quindi il volume esondato W. È stato così possibile
individuare il valore della durata che massimizzasse il valore del volume esondato dal
canale/alveo.
La valutazione delle superfici soggette ad allagamento è stata quindi effettuata
utilizzando il modello digitale del terreno (DEM) dell’area interessata dal fenomeno di
allagamento.
Analogamente a quanto già riportato nel PAI del 2002, sono state infine delimitate le
aree inondabili per differenti pericolosità, P, introducendo una matrice di pericolosità in
cui il valore di P viene correlato all’altezza del tirante idrico ed al periodo di ritorno
dell’evento. considerato.
53
Pi = f( T, h)
essendo:
T, il periodo di ritorno dell’evento;
h, il tirante idrico medio nell’area allagata.
Ciascun livello Pi è correlato ad una coppia di valori T,h definiti dalla matrice di
seguito riportata:
PTn
Pericolosità (3 œ n œ 1)
PT1 PT2 PT3
Ph1 P1 P1 P2
Phm
Ph2 P2 P2 P3
(3 œ m œ 1)
Ph3 P3 P4 P4
avendo posto:
54
Tirante idrico (h) Pericolosità relativa Intensità
Studi di dettaglio
Nel PAI 2010, utilizzando la metodologia illustrata sono stati sviluppati studi di
dettaglio per i seguenti alvei:
- Alveo Quindici
- Alveo di Casamarciano
- Alveo Acquaserta
- Alveo Arena a S. Felice a Cancello
- Aste del Bacino Carmignano (Vallone Mandre Papi,Vallone Pompilio, Vallone
Rosciano)
- Aste nel Comune di Liveri
- Aste del Bacino Spirito Santo (Lagno Spirito Santo, Lagno Amendolare, Lagno
Pomentella, Lagno Sorbo, Lagno Cupa dell’Olivella, Lagno Sant’Elmo, Lagno
Spirito Santo Sinistro)
4.2.4 Lo studio idraulico per la valutazione delle aree soggette a fenomeni di flusso
iperconcentrato (colate di tipo fangoso)
In via più specifica gli elementi necessari ad effettuare uno adeguato studio dei
fenomeni in esame possono essere sintetizzati nei seguenti punti:
- magnitudo dell’evento, ovvero volume mobilitabile;
- fangogramma della colata;
- modellazione dei flussi di colata (flussi iperconcentrati), finalizzata alla valutazione
dei percorsi di propagazione ed alla conseguente perimetrazione delle aree soggette
a pericolo di invasione.
55
Magnitudo dell’evento
56
Fig. - Rappresentazione schematica dell’angolo di estensione.
Fig. - (A) - Avanzamento delle frane da scorimento-colata rapida basato sul rapporto H/L per i vari contesti
della Campania. (B) Curve di migliore approssimazione per i valori di H/L: a= regressione lineare; b =
funzione di potenza (CALCATERRA et al., 2004).
Per la valutazione della geometria del corpo di frana viene proposto un criterio di tipo
geomorfologico scaturito dall’analisi di numerose frane e riportato in DI CRESCENZO &
SANTO (2005). Più in particolare, lo studio, derivato dall’analisi delle caratteristiche
57
morfologiche e morfometriche di 172 frane da scorrimento-colata rapida (sia del tipo
incanalato che su versante regolare) che hanno interessato i diversi massicci carbonatici
della Campania, perviene al diagramma di Fig. che è stato tarato sui dati di 46 frane di tipo
incanalato.
Fig. – Relazione tra l’energia del rilievo e l’area della zona di frana nel caso di frane da scorrimento-colata
del tipo incanalato (DI CRESCENZO & SANTO, 2005).
Dopo aver definito la potenziale area in frana si può pervenire alla valutazione del
volume mobilitabile, tenendo conto dello spessore delle coperture presenti sul versante.
Di particolare interesse ai fini dello studio della pericolosità idraulica risulta essere la
definizione della modalità secondo cui il volume mobilitabile Wc è distribuito nel corso di
un evento di colata; si tratta, in estrema sintesi, di ipotizzare quale sia l’idrogramma che
caratterizza una colata di volume assegnato e pari appunto al volume mobilitabile.
Detta Dc la durata dell’evento di colata e Qc,max il massimo valore della portata della
colata durante l’evento stesso, si tratta di valutare le possibili coppie di valori (Dc,
Qc,max)che forniscano un idrogramma della colata di volume pari a Wc.
Non esistendo criteri univoci per la stima dei singoli parametri Dc e Qc,max, è lecito
assumere che la durata Dc dell’evento di colata sia pari a due volte il tempo di corrivazione
Tc del bacino idrografico sotteso, determinabile secondo le classiche formulazioni a base
idrologica. Per conseguenza, ipotizzando un idrogramma di tipo triangolare, di volume pari
a Wc, l’unica incognita Qc,max può essere semplicemente calcolata mediante la relazione:
W
Qc ,max ? c (16)
Tc
Tale relazione, ovviamente, rapportando la grandezza Wc, che può facilmente consistere
in alcune decine di migliaia di metri cubi, al parametro Tc, che per bacini di modesta
estensione è dell’ordine di alcuni minuti, fornisce valori di Qc,max che possono essere
facilmente di alcuni ordini di grandezza superiori al valore della portata al colmo di acqua
58
chiara del bacino stesso, ancorchè assunto per periodi di ritorno elevati. Peraltro tale
circostanza è confermata da numerosi dati reperibili in bibliografia, tra i quali si ritiene
opportuno citare il contributo fornito da VANDINE (1996).
In particolare, per bacini di piccola estensione, la massima portata al colmo della colata
può essere fino a 40 volte superiore alla portate meteorica caratterizzata da periodo di
ritorno duecentennale.
Sulla scorta delle suddette considerazioni, è quindi possibile stimare l’idrogramma della
colata (talvolta anche denominato fangogramma) per l’area in esame esposta al rischio di
colata.
•h • h V x • h V y
+ + = q (17a)
•t •x •y
•h V x • V x V y • V x 1 • V x
J x = ix - - - - (17b)
•x g •x g •y g •t
•h V y • V y V x • V y 1 • V y
J y = iy - - - - (17c)
•y g •y g •x g •t
essendo:
- h il tirante idrico;
- Vx e Vy le componenti della velocità mediata sulla verticale secondo la direzione x e
la direzione y;
- q la portata in ingresso per unità di superficie;
- Jx e Jy le resistenze unitarie al moto;
- ix e iy le pendenze del fondo rispettivamente secondo la direzione x e y.
59
Per quanto riguarda il moto di “flussi iperconcentrati”, ovvero correnti caratterizzate da
elevate concentrazioni di sedimenti, le resistenze al moto dipendono fortemente anche
dalle caratteristiche reologiche della miscela. In tale condizione, infatti, il termine generico
di resistenza J può essere espresso come somma di diverse componenti:
essendo:
- Jlim le resistenze da vincere per avere l’inizio del moto;
- Jvis le resistenze al moto di tipo viscoso;
- Jtur le resistenze al moto dovute agli sforzi turbolenti.
In particolare i termini che compaiono nella precedente equazione possono essere
esplicitati secondo quanto di seguito indicato:
v lim (19)
J lim =
im h
K o V
J vis = (20)
8 i m h2
o = a e bC v
(22)
v lim ? c e d ©C v
(23)
o=aeb Cv vlim=cedCv
a b c d
0.15 15 0.10 15
61
Pn h h* v
(m) (m2 /s)
P4 oppure
h>1.00 h* v >1
P3 oppure
0.30<h<1.00 0.3<h* v<1
P2 e
0.10<h<0.30 h* v < 0.3
P1 e
h<0.10 h* v < 0.3
La analisi del fenomeno di propagazione dei flussi fangosi vengono effettuati mediante
modellistica numerica. Esistono in letteratura diversi approcci al problema. Nelle
calcolazioni effetuate per i “casi studio” del PAI 2010, è stato utilizzato il codice di calcolo
FLO-2Dł (versione 2007.06) messo a punto da Jimmy S. O’ Brien e commercializzato
dalla FLO-2D Software Inc.; tale codice simula il fenomeno di propagazione di un flusso
iperconcentrato nell’ipotesi di propagazione bi-dimensionale.
Studi di dettaglio
Nel PAI 2010, utilizzando la metodologia illustrata sono stati sviluppati studi di
dettaglio per i seguenti casi ricadenti nel contesto carbonatico:
7.1 4.2.5 Lo studio idraulico per la valutazione delle aree soggette a fenomeni di
trasporto liquido e trasporto solido da alluvionamento.
Queste aree, presenti sia nella cartografia del PAI 2002 che in quella del PAI 2010, si
riferiscono a quei casi in cui sono stati rilevati al piede degli alvei montani conoidi attivi a
composizione granulometrica prevalentemente ghiaioso-sabbiosa oppure sabbiosa.
Nelle zone pedemontane la morfologia più evidente, legata all’azione erosiva, di
trasporto e deposito dei materiali da parte dei corsi d’acqua torrentizi, è rappresentata dalle
conoidi alluvionali. Esse possono essere definite come forme di deposito torrentizio, con
superficie a forma di segmento di cono, che si irradiano sottopendio dal punto in cui il
corso d’acqua esce da un’area montuosa, ovvero dove cambia il gradiente topografico
62
(RICCI LUCCHI, 1978). Singole conoidi possono congiungersi lateralmente formando
conoidi composite o fasce pedemontane.
Nell’ambito di una conoide è possibile distinguere diversi elementi, d’ordine per lo più
geomorfologico e sedimentologico, che consentono di zonare il corpo d’accumulo in
settori omogenei, a partire dal suo apice. In tal senso, è possibile distinguere settori apicali,
intermedi e distali.
Le conoidi che hanno una genesi per trasporto in massa, con formazione di flussi ad alto
contenuto di carico solido, mostrano alcune evidenze morfologiche e sedimentologiche
(AULITZKY, 1982; PIERSON & COSTA, 1987; COSTA, 1988; BLAIR & MC PHERSON, 1994a;
HUNGR, 2001), tra cui (Fig. 1.2): depositi massivi, caotici, a matrice prevalente, in cui la
frazione grossolana è disposta in modo casuale nella matrice più fine (HOOKE, 1987) ed in
cui non sono presenti evidenze di stratificazione; ampio fuso granulometrico (dalle argille
ai blocchi); clasti con angoli a spigoli vivi o smussati; assenza di orientazione per i clasti di
maggiore dimensione; argini laterali costituiti da depositi grossolani e superfici di
terminazione lobate; presenza di molti blocchi sulla superficie della conoide; presenza di
canali sepolti a forma di “U”; danni alla vegetazione d’alto fusto (cicatrici da impatto e da
abrasione).
I fenomeni del tipo debris-flows in genere danno luogo alla deposizione della maggior
parte del materiale sulla conoide ed in special modo nella sua parte apicale, con un
deposito che presenta gradazione da inversa (alla base) a normale (verso l’alto) della
sequenza sedimentaria.
Le conoidi generate da processi di trasporto fluviale selettivo presentano corpi
sedimentari stratificati e gradati sia trasversalmente, sia longitudinalmente rispetto
all’alveo (BULL, 1977; BLAIR & MC PHERSON, 1994a, 1999a). I depositi più grossolani
infatti sono sedimentati nella parte apicale, mentre quelli più fini si rinvengono più a valle.
A causa dell’alto valore percentuale della componente liquida, i flussi sono in grado di
convogliare fino al corso d’acqua principale rilevanti apporti di sedimenti sottili. In genere
danno origine a pellicole di depositi poco spesse, con assenza di forme quali lobi ed argini.
Gli elementi si presentano arrotondati in quanto trasportati per rotolamento e
trascinamento.
Nelle conoidi di tipo misto sono evidenti alternanze di forme e depositi indicativi di
entrambe le precedenti tipologie e talora attribuibili a frane (colate detritiche).
A ciascuno di questi processi corrispondono flussi dotati di una diversa capacità
distruttiva, dal che derivano differenti effetti sulle eventuali strutture antropiche esistenti
nella zona pedemontana. In materia di processi geomorfici del tipo flusso/colata è
opportuno ricordare che esiste un ulteriore criterio classificativo su base reologica,
proposto nel 1987 da PIERSON & COSTA (Fig.).
63
Fig. - Principali processi geomorfici del tipo flusso/colata secondo lo schema di PIERSON & COSTA (1987).
In occasione della redazione del PAI 2002 sono stati riconosciuti e cartografati circa
120 corpi di conoide, per i quali sono state distinte le aree attive dai settori reincisi ed
ormai fossilizzati. La distribuzione delle conoidi segue fedelmente la base dei massici
carbonatici, con presenza di accumuli detritico-alluvionali soprattutto nella valle del Clanio
e nel Vallo di Lauro, nei monti di Caserta e Maddaloni, su entrambi i versanti della valle
tra Maddaloni ed Arpaia. Sono altresì presenti conoidi lungo il perimetro basale
dell’edificio del Somma-Vesuvio ed ai piedi dei principali rilievi collinari dell’area flegrea
(es.: Camaldoli).
64
Le stesse conoidi sono state oggetto di nuovi approfondimenti nella predisposizione del
PAI 2010, durante la quale sono stati eseguiti nuovi rilievi geomorfologici ed ulteriori
indagini speditive (scavi e trincee) e sono state consultate fotografie aeree ed ortofoto più
recenti.
Le osservazioni di campagna e le indagini hanno dimostrato che, nell’ambito del
distretto carbonatico, le conoidi possono rientrare in due differenti tipologie e più
precisamente:
- conoidi alluvionali di tipo selettivo, accresciute esclusivamente a seguito di
trasporto torrentizio di sedimenti per lo più ghiaioso-sabbiosi;
- conoidi “miste”, legate alla deposizione di sedimenti di varia granulometria ora
legati a correnti idriche, ora a fenomeni di trasporto in massa (frane).
Al primo gruppo fanno capo le conoidi che si riscontrano in corrispondenza di bacini
imbriferi (talora di diversi km2) che presentano coperture piroclastiche discontinue e di
limitato spessore (< 0,5 m). Situazioni analoghe si ritrovano soprattutto sui versanti
meridionali dei massicci carbonatici ubicati a notevole distanza dai centri eruttivi; esempi
in tal senso sono le conoidi di S. Maria a Vico, Avella, Roccarainola, Maddaloni, ecc..
Al secondo gruppo fanno capo numerose conoidi (generalmente di dimensioni più limitate)
che si sviluppano alla base di bacini imbriferi caratterizzati da versanti con copertura continua
e spessa (1-2 m) di piroclastiti da caduta. Esse si ritrovano soprattutto lungo i settori
settentrionali di strutture carbonatiche più prossime al Somma-Vesuvio; esempi sono le
conoidi di Quindici, Lauro, Arpaia, Carbonara e Marzano di Nola, ecc..
Per quanto riguarda i distretti vulcanici, in relazione al diverso impianto
morfostrutturale delle due aree (edificio centrale nel caso del Somma-Vesuvio; caldera
policentrica per i Campi Flegrei), sono state riscontrate caratteristiche alquanto
differenziate.
Ai piedi dei versanti settentrionali del Somma-Vesuvio è presente un’ampia fascia a
debole pendenza di raccordo con la piana, definita apron (SBRANA et al., 1997), dove sono
prevalenti i fenomeni di accumulo di depositi piroclastici sia primari che rimaneggiati. In
tale area sono riconoscibili diverse generazioni di conoidi detritico-alluvionali, reincise, la
cui attività è stata fortemente ridotta dalla realizzazione di canali artificiali (Regi Lagni).
Nell’area flegrea, invece, alla base dei principali rilievi collinari (es.: Camaldoli, Conca
di Agnano) si rinvengono conoidi per lo più miste, di modesta estensione planimetrica, da
ricondurre a versanti dotati di una minore energia di rilievo, se confrontata con quella del
distretto carbonatico.
Anche in questo settore, a causa delle notevoli modifiche nella morfologia originaria dei
luoghi, le forme di accumulo sono difficilmente riconoscibili in superficie. Inoltre, molti
impluvi nel loro decorso verso valle perdono la propria evidenza morfologica, coincidendo
di frequente con strade ed assumendo pertanto il carattere di alvei-strade.
Nella predisposizione del PAI 2010, sono state globalmente riviste tutte le conoidi
ricadenti nel territorio di competenza dell’Autorità di Bacino. In tal modo è stato possibile
ridefinire con maggiore precisione il perimetro delle conoidi, i settori di conoidi reincisi e
non più attivi, i settori di conoidi ormai totalmente urbanizzati, le nuove opere realizzate.
Per quanto concerne la valutazione della pericolosità da fenomeni di alluvionamento va
evidenziato che, se per le frane e per le esondazioni sono stati messi a punto diversi metodi
di valutazione della pericolosità, per i suindicati fenomeni in ambito di conoide si risente
65
ancora di un certo ritardo in campo scientifico, con conseguenti difficoltà nella risoluzione di
problematiche di notevole impatto territoriale ed urbanistico.
La pericolosità di questi processi deriva principalmente dalle ingenti quantità di
materiale solido che possono essere mobilitate e giungere sino a valle, e dal breve
intervallo di tempo entro il quale solitamente si innescano e si esauriscono le onde di piena.
Tali caratteri derivano a loro volta dall’elevata acclività dei pendii dei bacini torrentizi, cui
si associa spesso un’alta produttività di detrito (coperture alteritiche sciolte, falde detritico-
colluviali sospese), e dall’elevata inclinazione degli alvei che conferisce ai flussi idrici
grandi velocità ed energia, permettendo di prendere in carico detrito anche di notevole
dimensione.
Pi = f( G, d)
essendo:
G = granulometria dei depositi
d =ubicazione dell’area critica rispetto all’apice del conoide
Ciascun livello Pi è correlato ad una coppia di valori definiti dalla matrice di seguito
riportata:
66
Pdn
Pericolosità (2 œ n œ 1)
Pd1 Pd2
PG1 Pa Pm
PGm
PG2 Pb Pb
(2 œ m œ 1)
67
5. Il Valore esposto
Per valore esposto si intende il valore che è possibile associare agli elementi “da
difendere” sul territorio e pertanto alla costituzione di detto fattore parteciperanno non solo
le vite umane e i beni immobili ma anche le risorse ambientali e culturali così come dettato
dalla legge 183/1989 e successive integrazioni.
La determinazione del valore esposto rappresenta un’attività particolarmente complessa
in quanto si basa su una difficoltà fondamentale che è quella di definire in maniera
tendenzialmente omogenea categorie di elementi estremamente differenziati tra loro.
In linea generale potremmo definire i seguenti criteri per la determinazione del valore
esposto:
‚ quando gli elementi presenti sul territorio sono beni monetizzabili il loro valore
esposto è rappresentato dal loro valore monetario;
‚ quando gli elementi presenti sul territorio sono persone il loro valore esposto è
rappresentato dal loro valore numerico;
‚ quando gli elementi presenti sul territorio sono risorse e beni ambientali e culturali,
ecc. unici e di così grande rilevanza da costituire un patrimonio irrinunciabile per la
collettività, il loro valore esposto è rappresentato dal bene stesso.
Il panorama dei dati ottenuti con l’applicazione dei suddetti criteri si presenta molto
vario e differenziato6, per cui risulta essere particolarmente utile una semplificazione delle
procedure da attuare accorpando categorie d’uso del territorio in classi omogenee per
ciascuna delle quali si ipotizza un differente livello di valore esposto:
‚ valore esposto altissimo: comprende i centri urbani, le zone di completamento ed
espansione, le zone di attrezzature esistenti e di progetto, i nuclei ad edificazione
diffusa non presenti nei PRG, le infrastrutture principali, i laghi e le aree di riserva
integrale e generale delle aree protette. In queste aree un evento catastrofico può
provocare la perdita di vite umane, di ingenti beni economici e di valori ambientali
inestimabili;
‚ valore esposto alto: comprende le aree attraversate da linee di comunicazione
secondarie e da servizi di rilevante interesse, le aree archeologiche, i SIC e le aree di
riserva controllata delle aree protette. In queste aree si possono avere problemi per
l’incolumità delle persone e per la funzionalità del sistema economico;
‚ valore esposto medio: comprende le aree extra urbane, poco abitate, sede di
edificazione sparsa, di infrastrutture secondarie, destinate sostanzialmente ad attività
agricole o a verde pubblico. In queste aree sono improbabili problemi per
l’incolumità delle persone e sono limitati gli effetti che possono derivare al tessuto
socio economico;
‚ valore esposto basso o nullo: comprende le aree libere da insediamenti e incolte. In
queste aree non esistono problemi per l’incolumità delle persone e sono limitati gli
effetti che possono derivare al tessuto socio economico.
E’ possibile elencare gli elementi appartenenti alle differenti classi di valore esposto
sopra riportate:
6
vedi anche il paragrafo “ricerca sulla valutazione del danno”
68
‚ E4: valore esposto altissimo
- centri urbani, zone di completamento e di espansione (come delimitate da
PRG/PUC);
- zone industriali, commerciali e artigianali esistenti e di progetto (come delimitate
da PRG/PUC o Aree di Sviluppo Industriale);
- zone con attrezzature esistenti e di progetto (come delimitate da PRG/PUC);
- zone turistiche esistenti e di progetto (come delimitate da PRG/PUC);
- siti archeologici;
- nuclei ad edificazione diffusa non previsti nel PRG (fonte CTR 2004/05);
- case sparse (fonte CTR 2004/05);
- zone militari (come delimitate da PRG/PUC);
- laghi;
- autostrade, strade extraurbane principali, linee ferroviarie principali;
- aree protette (area di riserva integrale e generale);
‚ E3: valore esposto alto
- Cimiteri ed aree di rispetto cimiteriale;
- cave;
- depuratori e impianti idrici;
- strade extraurbane secondarie,
- linee ferroviarie secondarie;
- aeroporti;
- metanodotti;
- aree archeologiche, aree protette: (SIC, ZPS e aree di riserva controllata).
‚ E2: valore esposto medio
- zone agricole (come delimitate da PRG/PUC);
- verde urbano e parchi urbani (come delimitati da PRG/PUC);
- aree soggette a vincolo idrogeologico (R.D.L. 3267/23).
‚ E1: valore esposto basso o nullo
- zone incolte
70
6. VULNERABILITA’ e DANNO
La vulnerabilità (V), come già detto, rappresenta il grado di perdita prodotto su un certo
elemento o gruppo di elementi esposti a rischio risultante dal verificarsi dell’evento
calamitoso temuto, in altri termini, la percentuale del valore di un elemento o di un gruppo
di elementi che andrà perduto nel caso si verificasse l’evento calamitoso.
La vulnerabilità si esprime con un numero compreso tra 0 (nessun danno) ed 1 (perdita
totale).
La stima della vulnerabilità è molto complessa e dipende dall’intensità dell’evento
calamitoso e dal livello di protezione degli elementi presenti sul territorio oggetto di studio.
Ad esempio, la disponibilità di un adeguato piano di emergenza in grado di consentire
l’evacuazione della popolazione a rischio, ed il trasferimento dei beni trasportabili, incide
sul valore della vulnerabilità.
Quando le aree vulnerabili sono molto estese e densamente antropizzate la valutazione
della vulnerabilità può dimostrarsi troppo complessa ed onerosa. Risulta estremamente
difficoltoso assegnare classi di vulnerabilità per ciascuna categoria di valore omogenea, in
quanto non è possibile sempre, e soprattutto in maniera puntuale, valutare il livello di
protezione dei beni. Pertanto, in generale, si rinuncia ad una stima della vulnerabilità,
operando una “messa in sicurezza” e, dunque, ipotizzandola sempre massima cioè pari a 1.
Si è detto che il danno (D) dipende, per ogni evento critico, dall’uso del territorio e
quindi dal valore esposto (E) degli elementi presenti, e dalla loro vulnerabilità (V), intesa
come aliquota che va effettivamente persa durante l’evento catastrofico:
D=E×V
Il danno (D) così calcolato corrisponde al danno effettivo che è rappresentato dalla
percentuale del valore (esposto) complessivo degli elementi presenti sul territorio che
andrà perduto nel caso si verifiche l’evento catastrofico:
D = D(effettivo) = E × V
Il danno (D), inteso come danno effettivo, può essere anche rappresentato dal prodotto
del danno potenziale per la vulnerabilità:
D = D(effettivo) = D(potenziale) × V
e cioè
D(potenziale) = E
In altri termini, il danno potenziale finisce con il coincidere con il valore esposto, il che
è concettualmente evidente essendo il danno potenziale rappresentato non da un
percentuale di valore (esposto), bensì dalla totalità di esso, in quanto si riferisce al caso
limite dell’assenza di fattori di protezione (caso di vulnerabilità massima), in cui gli
elementi sono interamente esposti all’evento catastrofico.
Si è detto anche che, in generale, si rinuncia ad una stima della vulnerabilità,
ipotizzandola sempre massima cioè pari a 1. Questa approssimazione per eccesso, che
corrisponde ad una “messa in sicurezza” di tutti gli elementi presenti sul territorio oggetto
di studio, comporta un’assimilazione del danno effettivo al danno potenziale, per cui:
D = D(effettivo) = D(potenziale) × V
posto
V=1
71
si ottiene, appunto
D = D(effettivo) = D(potenziale)
Seguendo tale logica semplificativa, i livelli di valore esposto possono essere
considerati come livelli di danno, così:
- D4 danno altissimo: comprende i centri urbani, le zone di completamento ed
espansione, le zone di attrezzature esistenti e di progetto, i nuclei ad edificazione
diffusa non presenti nei PRG, le case sparse, le aree attraversate da linee di
comunicazione e da servizi di rilevante interesse, i laghi e le aree di riserva
integrale e generale delle aree protette. In queste aree un evento catastrofico può
provocare la perdita di vite umane, di ingenti beni economici e di valori
ambientali inestimabili;
- D3 danno alto:, le aree archeologiche, i SIC e le aree di riserva controllata delle
aree protette. In queste aree si possono avere problemi per l’incolumità delle
persone e per la funzionalità del sistema economico;
- D2 danno medio: comprende le aree extra urbane, poco abitate, di infrastrutture
secondarie, destinate sostanzialmente ad attività agricole o a verde pubblico. In
queste aree sono improbabili problemi per l’incolumità delle persone e sono
limitati gli effetti che possono derivare al tessuto socio economico;
- D1 danno basso o nullo: comprende le aree incolte libere da insediamenti. In
queste aree non esistono problemi per l’incolumità delle persone e sono limitati
gli effetti che possono derivare al tessuto socio economico.
72
7. LA GESTIONE DEL RISCHIO
La zonazione del rischio in un dato territorio, costituisce la base della gestione del
rischio (risk management); questa prevede l'interpretazione delle informazioni ed il quadro
delle decisioni operative per l'eventuale riduzione del rischio (risk mitigation). La fase
gestionale è di natura essenzialmente politico-amministrativa; tuttavia il ruolo dei tecnici e
della comunità scientifica è fondamentale nell'individuazione delle priorità di intervento e
nella messa a punto delle strategie di mitigazione.
Facendo riferimento alle classi di rischio come sopra definite, si possono implementare
delle strategie per la gestione adeguate ai differenti livelli di rischio individuati.
In aree caratterizzate da valori di rischio elevato e molto elevato (R4, R3), è possibile
operare una strategia mirata alla mitigazione del rischio.
In aree caratterizzate da valori di rischio medio e moderato (R2, R1), ricadenti in
porzioni di territorio classificate dal piano a pericolosità P4 e P3 è possibile operare delle
strategie mirate alla riduzione della pericolosità (che costituisce una strategia specifica di
quella più generale di mitigazione del rischio) ed alla determinazione delle soglie di
rischio accettabile.
73
- installazione di misure dì protezione quali reti o strutture paramassi (parapetti,
gallerie, rilevati o trincee), in modo da determinare una riduzione della
probabilità che l'elemento a rischio venga interessato dalla frana (senza tuttavia
limitare la probabilità di occorrenza di questa).
74
- per costi si intendono i costi pari al valore economico del danno che la
collettività dovrebbe assumersi e che è pari al valore del danno presunto diviso il
periodo di ritorno, In tal senso si possono prevedere formule che riducono il
costo per la collettività attribuendole all’eventuale soggetto privato interessato
all’iniziativa (come ad esempio alcuni tipi di polizze assicurative);
- per benefici si intende il valore economico dei benefici apportati
dall’insediamento di quel bene o attività alla collettività.
75
8. LA VALUTAZIONE DEL DANNO
7
La metodologia qui riportata per la valutazione del danno fa riferimento al filone di studi sviluppatosi negli USA sul finire
degli anni ottanta.
76
7.3 8.1 Danni valutabili e non valutabili in termini di mercato
Danni diretti
Danni diretti alla proprietà
E’ uno delle categorie di danni più rilevanti prodotti dalle catastrofi naturali. Come già
accennato i danni diretti alla proprietà sono anche la categoria di danno più facilmente
valutabile, potendosi ricorrere ai valori di mercato, prestando comunque grande attenzione
ad evitare le duplicazioni contabili.8
Lo schema seguente esemplifica le possibili procedure per la valutazione con metodi
diretti dei danni ai manufatti:
8
Quello delle duplicazioni contabili è un problema ricorrente quando si possono considerare, come nel caso dei danni alla
proprietà, sia i valori finanziari dei beni, sia i valori economici ad essi sottesi.
77
Distruzione parziale di beni di vecchia acquisizione
Sarà ristrutturato?
- Sì: danni = variazione del valore attuale degli investimenti
- No: danni = valore attuale della riduzione del valore aggiunto a seguito della
distruzione parziale del bene.
Danni diretti alla produzione
“I danni causati dalla perdita o dal ritardo di produzione sono equivalenti al valore
attuale del reddito perduto, ovvero ritardato.” Anche in questo caso bisogna prestare molta
attenzione ad evitare le duplicazioni, considerando ad esempio, sia la variazione del
reddito, sia la perdita di valore dei beni.
78
unicamente al cosiddetto valore del capitale umano, ma al valore della riduzione del
rischio per la vita o valore dell’aumento della sicurezza. Appare in ogni caso accettato
che i costi per la prevenzione di perdite di vite umane in caso di disastro devono essere
confrontati con altri problemi e bisogni sociali rilevanti.
Anche in questo caso il ricorso al calcolo della disponibilità a pagare della collettività
per la riduzione del rischio per la vita può rappresentare un approccio preferibile9.
9
In numerosi studi compiuti negli Stati Uniti, sebbene questi metodi siano controversi, i risultati indicano che il valore di una
vita statistica è pari a circa 3 milioni di dollari.
79
7.5 8.4Individuazione di un metodo coerente con i principi esposti e
empiricamente applicabile
La metodologia che più coerentemente si sposa con i principi esposti e quella nota come
Analisi Costi Benefici.
L’analisi costi benefici potrà essere sviluppata con i principi della metodologia FIO,
tramite gli schemi in uso per le richieste di finanziamento a carico della legge 64/86.
Com'è noto, il criterio FIO assume a base della valutazione la determinazione del
Valore Attuale Netto (attraverso l'uso di un prefissato tasso sociale di sconto) e del Saggio
di Rendimento Interno.
Nella metodologia FIO si perviene ai costi economici attraverso la depurazione degli
importi finanziari con opportuni fattori di conversione. Detti fattori di conversione saranno
da noi valutati in relazione a tutte quelle voci di costo che pur costituendo un onere
finanziario per chi realizza l'intervento, non costituiscono una reale sottrazione di risorse
economiche per la collettività, rappresentando invece dei trasferimenti al suo interno.
L'elenco completo dei fattori di conversione che saranno utilizzati, e il loro procedimento
di calcolo, saranno allegati alle singole valutazioni.
Per il calcolo dei benefici ci si riferirà al criterio della "disponibilità a pagare" per
stimare il surplus del consumatore relativo ai beni e ai servizi generati dalle alternative di
interventi proposti per la mitigazione del rischio.
Tale surplus sarà ottenuto differenziando i valori della situazione "senza" intervento da
quelli della situazione "con" intervento, ovviamente per tutte le alternative di mitigazione
da valutare.
Poiché le diverse politiche di mitigazione del rischio sono classificabili tra i "cosiddetti
interventi di risanamento ambientale" un'ultima notazione è relativa proprio al ruolo
dell'analisi costi-benefici su queste categorie di progetti.
Nel caso dei beni e delle risorse ambientali ci si trova di fronte ad un eclatante esempio
di "fallimento del mercato" connesso all'esistenza di effetti negativi scaricati sull'ambiente
esterno, in conseguenza della crescita della produzione e del consumo privato.
Proprio nel settore ambientale, infatti, si verificano con maggiore frequenza divergenze
fra il costo sopportato dai privati per l'utilizzo delle risorse ed il loro valore sociale. Si
producono in tal modo fenomeni distorsivi nell'allocazione delle risorse, associati ad un
progressivo degrado dell'ambiente naturale ed all'eccessivo sfruttamento di risorse di cui la
collettività dispone.
L'obiettivo dell'analisi costi-benefici applicata a progetti di mitigazione del rischio va
perciò individuato nella valutazione dei danni prodotti dal mancato intervento su tutti
coloro che usufruiscono dell'ambiente teoricamente impattato dall’evento calamitoso.
La quantizzazione dei benefici economici, per quanto detto, costituisce perciò il passo
più delicato della procedura di analisi dei progetti di mitigazione del rischio.
Va anzitutto premesso che le tecniche di definizione del valore di progetti ambientali
hanno carattere simmetrico in quanto valutano i benefici o in base all'uso delle risorse
generate e preservate, o sulla base del costo delle risorse stesse quando non siano più
utilizzabili; in altri termini il valore del beneficio generato può coincidere in parte o in tutto
con il costo del danno evitato.
I benefici economici possono ovviamente essere interni al mercato o esterni ad esso.
I benefici interni al mercato sono usualmente misurati attraverso le variazioni di valore
aggiunto dei settori di attività economica interessati dalla realizzazione del progetto.
80
I benefici esterni al mercato scaturiscono dagli effetti reali ed estetici prodotti dal
rischio su tutte le attività di tipo ricreativo e di tempo libero svolte dall'uomo direttamente
o indirettamente nell'ambiente interessato. L'alterazione delle qualità delle risorse
ambientali modifica anche la quantità e la qualità dei servizi resi come beni pubblici fruiti
al di fuori di un rapporto di mercato e senza il pagamento del corrispettivo di un prezzo.
I soggetti cui si fa riferimento nella quantificazione dei benefici esterni sono i
componenti della società in senso lato; oggetto della misurazione e la loro disponibilità a
pagare per mantenere intatti tutti gli aspetti dell'ambiente esterno che sono influenzati.
7.6 8.5Coerenza del metodo proposto con lo stato attuale della predisposizione
degli strumenti di piano dell’Autorità di bacino Nord Occidentale.
Vtot = £
81
Conosciuto il valore totale di ogni particella, valore che il metodo proposto fornisce in
lire, si può passare alla trasformazione del valore in indici, con riferimento alle particelle di
rilevazione, o a loro aggregati. L’indice del valore totale della particella “i” considerata,
sarà dato da:
dove
IVALsoc(i) - Valore totale insediato dei beni culturali e sociali.
Per calcolare tutti i parametri necessari si utilizzeranno i criteri definiti nei paragrafi
precedenti.
Il peso da dare agli indici IVALtot(i) e IVALsoc(i) è una scelta dell’autorità politica
preposta al governo del rischio.
Anche il peso da dare alla perdita di vite umane e alla perdita i valori irripetibili (parchi
e aree protette ad esempio, o emergenze monumentali) è una scelta di natura politica.
In sede tecnica pare però opportuno suggerire che la presenza di rischi connessi a
categorie di valori come la perdita di vite umane o di beni irripetibili possa essere assunta
come vincolo di massimo rischio, applicando alla porzione di territorio la max
protezione10.
Per tali aree, considerate a rischio, viene fornito il cosiddetto valore totale insediativo
(Vtot) risultante dalla seguente formula:
10
Corrispondente alla classificazione “R4” nella tassonomia utilizzate per i piani di bacino.
82
Rzona = Reddito procapite insediato per abitanti insediati
I singoli valori saranno dunque riferiti alla cella di superficie minima utilizzata per la
classificazione dell’uso urbano del suolo.
Per il calcolo del valore della superficie edificata insediata (Vsupe) si è moltiplicato il
dato relativo alla superficie edificata per il valore medio di costruzione dell’edificato
espresso in £/mq.
Il dato si riferisce alla superficie edificata a meno delle infrastrutture viarie e ferroviarie
e delle aree destinate ad attività produttive (industriali, artigianali, commerciali e
turistiche) desumibile dalle planimetrie dei PRG comunali, ove presenti; infatti per i
Comuni non dotati di P.R.G. è stato utilizzato lo strumento urbanistico vigente (Piano di
Fabbricazione). Nell’analisi effettuata, non si è tenuto conto delle emergenze monumentali
o di edifici di pregio o di particolare interesse, considerando per tutto l’edificato un unico
valore medio di costruzione.
Un’analisi più puntuale, che intenda attribuire il valore economico agli edifici di
particolare valore presenti nell’area, richiederebbe tempi molto lunghi non in coerenza con
la metodologia proposta che intende essere uno strumento di indirizzo e di
programmazione di base utile per ulteriori approfondimenti.
83
Analoga operazione è stata effettuata per il calcolo del valore esposto delle infrastrutture
(Vinfra). Per infrastrutture, in tale studio, sono da intendersi essenzialmente le strutture
viarie di collegamento (autostrade, strade principali, strade secondarie e trasporti su rotaia).
I dati relativi ai valori medi di costruzione sia per l’edificato che per le infrastrutture
sono stati forniti da terzi.
I dati relativi alle superfici sono ottenuti da elaborazioni tramite GIS su precedenti
elaborazioni cartografiche fornite da terzi.
Le elaborazioni in GIS sono state effettuate sulla base dello shape file dei confini
comunali e quello della maglia suddivisa in celle quadrate di 100 x 100 metri.
Nel secondo shape file ad ogni cella erano già stati attribuiti i seguenti valori:
- superficie del Consolidato urbanizzato delle zone A e B dei PRG;
- superficie delle zone di espansione;
- superficie delle zone destinate a Commercio e Turismo;
- superficie delle zone destinate ad attrezzature;
- superficie delle zone E (agricole);
84
- lunghezza in metri delle infrastrutture a sviluppo lineare (autostrade, strade
principali, strade secondarie e trasporti su rotaia).
85
Le elaborazioni numeriche e cartografiche derivano dall’applicazione della metodologia
sopra descritta e rappresentano una sperimentazione in una fase dell’indagine conoscitiva
del territorio ancora in itinere e perciò suscettibile di ulteriori approfondimenti.
86
9. GLI INTERVENTI
Con riferimento a quanto finora detto, risulta evidente la necessità di sviluppare una
coerente ed efficace politica di tutela del paesaggio e dell’ambiente che veda, accanto a
forme di sistemazioni intensive, interventi attivi di rinaturalizzazione di diversi ambiti del
territorio nel suo complesso.
Tale obiettivo è perseguibile attraverso il ricorso a tecniche di ingegneria naturalistica,
preferibili in quanto di basso impatto e rispettose degli equilibri ecologici-ambientali.
Gli interventi di ingegneria naturalistica sono raggruppabili in tre categorie
relativamente omogenee:
- interventi che hanno per obiettivo la limitazione e la prevenzione dell’erosione
superficiale del suolo;
- interventi che prevedono l’impiego della vegetazione eventualmente associata ad
altre tecniche per ridurre il rischio frane;
- interventi volti a limitare l’erosione delle sponde degli alvei dei corsi d’acqua.
Gli interventi di tipo strutturale più adatti alla sistemazione idraulica della rete
idrografica e dei versanti del bacino nord occidentale della Campania sono:
- manutenzione straordinaria degli alvei e dei versanti dopo ogni evento eccezionale;
- briglie e soglie di stabilizzazione del fondo alveo;
- briglie di trattenuta del trasporto solido;
- difese spondali longitudinali;
- difese arginali;
- modellamento dell’alveo;
- vasche di laminazione;
- interventi estensivi integrati di rinaturazione e recupero dei suoli;
- interventi di stabilizzazione e consolidamento di aree singolari.
Gli interventi di tipo strutturale più adatti alla mitigazione del rischio da frana sono:
- interventi di manutenzione idraulico-forestale
- interventi di ingegneria naturalistica
- interventi puntuali (opere di sostegno, drenaggi)
-
Tali interventi terranno conto delle indicazioni del “Quaderno delle Opere Tipo” e della
“Carta degli Interventi Strutturali”.
88
7.8 9.2Il Quaderno delle opere tipo
Il Quaderno, che è associato alla Carta degli Interventi Strutturali, fornisce una elencazione
commentata delle tipologie di interventi che possono essere impiegati per il risanamento
idrogeologico ed il recupero ambientale delle aste fluviali critiche e dei versanti in frana.
Vengono riportate in particolare le descrizioni degli interventi strutturali e non strutturali
più adatti al caso del bacino nord occidentale della Campania, precisando per gli interventi
di tipo strutturale, le categorie di opere basate sul principio della difesa attiva e di quella
passiva. Il Quaderno, fermo restando le valutazioni di dettaglio e le scelte tecniche proprie
delle fasi di progettazione, è da considerare un documento di indirizzo che suggerisce tra
l’altro, in accordo con le moderne tendenze del settore, il ricorso ad opere a basso impatto
ambientale, proponendo a tal fine, ove possibile, interventi di ingegneria naturalistica.
Tale elaborato deriva dall’accorpamento per ciascun ambito geomorfologico (di versante;
montano,pedemontano e di pianura) dei settori a vari livelli di pericolosità (da frana e
idraulica) così come rappresentati nei rispettivi elaborati tematici originali e per i quali
sono state prefigurate determinate categorie di intervento.
I bacini incombenti su aree a rischio per l’incolumità delle persone (enucleate dalla carta
tematica finalizzata ad esigenze di Protezione Civile) sono stati distinti dagli altri bacini in
quanto considerati di interesse prioritario ai fini della programmazione degli interventi.
Gli interventi di tipo non strutturale, descritti nel quaderno delle opere, sono
rappresentati da:
- monitoraggio, predisposizione di sistemi di allarme, early warning;
- adeguamento del servizio di polizia idraulica;
- programmi di manutenzione;
- indirizzi alla pianificazione urbanistica e territoriale;
- copertura assicurativa dei beni esposti al rischio non coperti dalle misure
strutturali;
- delimitazione delle fasce fluviali;
- incentivazione alla delocalizzazione di manufatti e infrastrutture realizzati in aree a
rischio.
89
La ricerca di coerenza tra obiettivi del Piano ed esigenze di sviluppo economico-
territoriale è uno degli aspetti determinanti la reale capacità di efficacia del Piano. Va
quindi affrontato con estrema attenzione, al fine di raggiungere una forte condivisione
delle scelte operate ai diversi livelli di pianificazione, ma anche con estrema fermezza
rispetto agli obiettivi di sicurezza e di integrità fisica del bacino che il Piano deve
perseguire.
Nell’individuazione delle priorità la salvaguardia delle popolazioni è ovviamente
determinante. Saranno poi privilegiati gli interventi di manutenzione o di completamento
di opere e quelli che consentono il superamento delle situazioni di dissesto mediante il
ripristino o il riequilibrio delle situazioni naturali preesistenti.
La manutenzione delle opere di difesa è sicuramente fondamentale e non solo quella
delle opere ma anche quella del territorio stesso per preservare equilibri territoriali e
ambientali. Non è vero che un’area priva di pressioni antropiche, lasciata allo stato
“naturale” mantiene il suo equilibrio solo perché non interviene l’uomo: l’abbandono della
manutenzione dei territori boscati ha portato in molto casi, al degrado delle coperture e dei
suoli con inevitabile innesco di fenomeni di instabilità dei versanti e dei suoli in genere
(aumento dell’erosione superficiale, diminuzione della permeabilità, ecc.);
La norma prevede che ogni progetto di intervento strutturale sia descritto almeno con gli
elaborati di seguito elencati:
- un testo sintetico con la giustificazione del progetto alla luce di quanto chiarito
nelle precedenti fasi di studio del Piano e la descrizione dei risultati che con esso si
intende raggiungere;
- una cartografia in scala adeguata, con la localizzazione delle opere e degli
interventi proposti;
- una serie di schede con l’indicazione delle caratteristiche delle opere e degli
interventi; il grado di dettaglio nella descrizione delle opere deve essere sufficiente
per una ragionata stima dei costi;
- una scheda con l’elenco delle opere e degli interventi e relativa stima dei costi,
nonché l’indicazione degli stralci realizzativi;
- ove possibile, una sintetica analisi costi-benefici dell’intervento proposto.
Analogamente ciascun progetto di intervento non strutturale è descritto almeno con gli
elaborati di seguito elencati:
- un testo sintetico con la giustificazione del progetto alla luce di quanto chiarito
nelle precedenti fasi di studio del Piano e la descrizione dei risultati che con esso si
intende raggiungere, sotto l’aspetto tecnico, ambientale, economico e sociale;
- una descrizione dei provvedimenti normativi e/o amministrativi proposti per la
soluzione del problema;
- bozze dei testi delle disposizioni normative delle quali è proposta l’adozione;
- una sintetica analisi costi-benefici dell’intervento previsto.
7.10 9.4Carte del rischio elevato e molto elevato (solo incolumità delle
persone) finalizzate alle azioni di protezione civile
La differenza sostanziale fra la carta del rischio redatta per il PAI e quella allestita in
sede di Piano straordinario consiste, oltre che negli approfondimenti fisici, nel fatto che,
90
nel calcolo del valore esposto, ha contribuito oltre che l’incolumità delle persone anche
l’analisi di altri beni esposti quali quelli ambientali (parchi, aree protette) e culturali. Ciò
ha comportato sovente l’attribuzione a livelli di rischio elevato o molto elevato di porzioni
di territori non urbanizzate ma di alto valore ambientale e/o culturale.
Per tal motivo si è ritenuto utile procedere alla realizzazione di un ulteriore elaborato
finalizzato ai problemi di protezione civile nel senso che esso reca la distribuzione sul
territorio dei beni esposti che comportano l’incolumità per le persone (centri urbani e
infrastrutture principali) assieme agli altri areali classificati in vari livelli di pericolosità
idraulica o per eventi franosi.
In tali carte i valori di rischio rappresentati sono RA, R3 ed R4.
I criteri di definizione degli areali associati a RA (aree da approfondire) sono scaturiti
dall’osservazione di aree che, anche se non rientranti nel modello utilizzato, presentano
connotati tali da suggerire indagini puntuali di densità ben superiore a quella prevista per le
finalità precipue di uno studio di area vasta quale è quello condotto per la realizzazione del
Piano Stralcio.
91
10. L’ATTUAZIONE DEL PIANO
Gli elaborati individuati dal n°1 al n° 5 sono già stati descritti nei paragrafi di
riferimento ai quali si rimanda per una completa interpretazione e lettura.
93
Ai fini della programmazione degli interventi di manutenzione verranno costituiti e
aggiornati appositi archivi presso l’Autorità di bacino, sulla base delle indicazioni delle
Amministrazioni competenti e degli elementi derivanti dal catasto delle opere; gli archivi
conterranno:
‚ il censimento e la caratterizzazione dei tratti fluviali aventi maggiori necessità di
manutenzione periodica;
‚ il parco dei progetti di manutenzione, redatti a livello preliminare. I progetti sono
ordinati secondo un parametro di priorità definito in base alle linee di intervento del
Piano.
Il Programma triennale di manutenzione sarà redatto sulla base dell’elenco progetti di
manutenzione" e terrà conto della programmazione finanziaria.
94
11. MANUTENZIONE DEL PIANO
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