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. BIBLiO .EJA 1
NORBERTO BOBBIO
Centro Studi Piero Gobetti

BOBBIO
GARIN

JEMOLO
SPIRITO

P R O S P ETTIV E DI C U LTU R A 1959

I N C O N T R I DI C U L T U R A B R E S C IA
BOBBIO

Q u aledem
ocrazia ?

]fJ o dato a questa mia conferenza, quasi senza pensarci, lo


stesso titolo di uno dei miei primi articoli scritti nel ’45 su
« Giustizia e libertà », quotidiano torinese del Partito d’Azione.
Ma allora la ragione di quel titolo era evidente: si trattava,
nel ’45, di costruire quasi dalle fondamenta la nuova casa, e d p
era naturale che ognuno, bene o male, facesse i suoi.progetti,
e si domandasse quale strada fosse meglio percorrere, tra le
tante che gli ideologi e i politici ci offrivano. Ora, invece, dopo
tanti anni, che senso ha il porsi ancora una volta quella do-
.manda? Non può avere altro senso che questo: non siamo del
tutto soddisfatti della casa che ci siamo costruiti. E perchè?
Nella conferenza di stasera cercherò di rispondere all’interro­
gativo che ho posto prima che a voi a me stesso.
Ricordate, subito dopo la liberazione, la discussione tra
Ferruccio Farri e Benedetto Croce su questo problema: era
esistita in Italia una democrazia prima del fascismo? A quin­
dici anni di distanza siamo costretti a domandarci: esiste oggi
la democrazia in Italia? Può darsi che questo stato di delusio­
ne dipenda dal fatto- che ci eravamo creati, negli anni della
resistenza al fascismo, alcune illusioni, o per lo meno ci era­ 89
vamo fatta della democrazia un’idea troppo facile, semplificata,
schematizzata. Credevamo, ad esempio, che la democrazia fos­
se, semplicemente, l ’autogoverno del popolo, come aveva inse­
gnato Rousseau, e che in un paese come l’Italia, provato da
tante sventure, bastasse attuare l ’autogoverno del popolo per­
chè ogni difficoltà, quasi per incanto, si dissolvesse. La rivolu­
zione democratica, almeno per gli adepti del Partito d’Azione,
era una parola magica: caduta la dittatura, instaurata la de­
mocrazia, il rinnovamento della vita civile italiana sarebbe av­
venuto attraverso un processo quasi fatale. Le cose non sono
andate precisamente in questo modo. Le vie della Storia sono
più complicate di quel che appaia di solito alle generose illu­
sioni degli oppressi che si vanno liberando da secolari catene.
• Che la democrazia consista nell’autogoverno del popolo è
un mito che la Storia continuamente smentisce. In tutti gli
Stati chi governa — e qui parliamo di « governare » nel senso
di prendere le decisioni ultime che vengono imposte a tutti
i membri di un gruppo — è sempre una minoranza, un piccolo
gruppo, o più gruppi minoritari in concorrenza tra loro. La
teoria della classe politica, o della classe dirigente o delle
élites (che risale al Mosca e al Pareto, e che è più nota e più
utilizzata all’estero che da noi) è una teoria sempre valida,
anzi, sempre più valida, perchè le democrazie si estendono in
tutto il mondo, ma le classi politiche rimangono. Ciò vuol dire
che la democrazia non è mai esistita o non esisterà mai in av­
venire? che parlare di democrazia è commettere un errore di
giudizio e un errore storico imperdonabili? Non direi. Basta
rinunciare a definire la democrazia Come autogoverno del po­
polo, e por mente al fatto che i regimi che chiamiamo demo­
cratici si distinguono da quelli che non consideriamo tali non
per la mancanza negli uni e nella presenza negli altri delle
minoranze dirigenti, ma^per il modo con cui queste minoranze
emergono,; governano,-..^.cadòna_ In manièra molto 'incisiva,
Filippo Burzio scrisse nel libro Essenza e attualità del libera­ BOBBIO
lismo (pubblicato nel 1945) che tutte le classi politiche si auto-
costituiscono, ma le une, dopo essersi autocostituite, si impon­
gono, le altre, dopo essersi autocostituite, si propongono.
Se si osserva il rapporto tra minoranze dirigenti e maggio­
ranza, il regime democratico può essere caratterizzato, rispetto
al regime autocratico, soprattutto sotto tre aspetti.
Il primo aspetto riguarda il modo di formazione della classe
dirigente, cioè il cosiddetto principio di legittimità del potere.
Si tratta di rispondere alla domanda: coloro che governano,
donde traggono la ' gustificazione del loro potere? L a càràife-
nsììca"dil~regim e democratico, sotto questo aspetto, è il prin
cipio eletti v o Ià classe" politica, in regime democratico, trae
la giustificazione del suo potere dalla elezione popolare. V i
sono due'mòdi, tra loro profondamente diversi, di dar vita ad
una classe dirigente : la elezione e la ereditarietà. Una classe
politica che si impone, se vogliamo usare l ’espressione del Bur­
zio, è generalmente una classe politica che trasmette il potere
attraverso l ’ereditarietà; una classe politica che si propone si
rinnova attraverso il metodo elettivo. I due metodi di forma­
zione della classe dirigente rispecchiano due principi antite­
tici che si avvicendano nella storia delle istituzioni politiche,
il principio aristocratico e quello democratico. N elle Riflessio­
ni sulla rivoluzione francese (1790), il Burke, attaccando il prin­
cipio della sovranità popolare, difese l ’ereditarietà come me-^
todo per la trasmissione del potere. Quando si dice che la de- j
mocrazia è quel regime in cui il potere è fondato sul consenso,/
non si fa che formulare con altre parole il principio della for- 1
>
mazione elettiva e non ereditaria della classe politica.
I l secondo aspetto della democrazia si ricollega al primo,
e lo integra. Perchè si possa parlare di democrazia, non basta
che la classe politica sia eletta, in altre parole che il suo potere
sia fondato sopra un consenso iniziale originario. E’ necessario 91
che questo consenso sia periodicamente ripetuto. Si dice che
non basta il consenso, ma è necessaria anche una periodica veri­
fica del consenso. Una classe politica che avesse derivato il suo
potere da un’elezione iniziale, e pòi non fosse sottoposta á
nessun ulteriore controllo, darebbe luogo ad un regime che non
si potrebbe più chiamare democratico. Qualsiasi elezione a v i­
ta, come ad esempio quella del Papa, non dà luogo a una
forma democratica di regime. L ’elezione in regime democra­
tico ha sempre una durata circoscritta; non può essere fatta
una tantum, ma dev’essere periodicamente ripetuta. Questo
secondo aspetto spiega un altro principio fondamentale della
democrazia, quello della responsabilità dell’eletto di fronte agli
elettori; Senza verifica del consenso „non .ci^sarebbe^-resDonsa-
bilità politica di fronte al corno..elettorale. E senza questo rap­
porto di responsabilità, non c’è democrazia. Gli antichi scrit­
tori politici medioevali distinguevano la trasmissione del potere
fatta dal popolo al sovrano una volta tanto, o translati o impe­
rtí, con cui il popolo trasmettendo il potere se ne spogliava de­
finitivamente, dalla concessione del potere fatta a titolo tem­
poraneo, e con la condizione che fosse revocabile in caso di
inadempienza, da parte del sovrano, degli obblighi assunti di
fronte al popolo, o concessio imperii. Se vogliamo riprendere
queste antiche formule, possiamo dire che nel regime democra­
tico il potere della classe dirigente non è stato ad essa trasfe­
rito, ma soltanto concesso, ed è sempre revocabile.
I l terzo aspetto della democrazia riguarda la mobilità del­
la classe politica. Pareto parlava della circolazione delle élites.
Il regime democratico è caratterizzato, rispetto a quello aristo­
cratico, da una più facile, più continua e rapida circolazione
nell’ambito della classe politica. Generalmente noi chiamiamo
regime democratico quel regime in cui non vi è una sola classe
politica, ma v e ne sono due o più in concorrenza, e là dove
l’una sopravanza ,la seconda, si verifica un rinnovamento radi-
F

cale del gruppo dirigente. Là dove le-classi politiche si cristal­ BOBBIO


lizzano, e non si rinnovano, là dove non vi sono più classi poli­
tiche in concorrenza, ci troviamo di fronte a un regime che è
o tende a divenire aristocratico. Caratteristica del regime de­
mocratico è l ’alternanza delle classi politiche al potere, senza
che il mutamento, anche radicale, avvenga con spargimento di
sangue. Per questa ragione sinora non possiamo considerare
l ’Unione Sovietica come una democrazia, nonostante le elezio­
ni periodiche: non sappiamo se e sino a qual punto il rinno­
vamento o il mutamento della classe politica possa avvenire
con mezzi pacifici.
Se accettiamo di definire la democrazia attraverso questi
tre aspetti (principio, del consenso-popolare, principio della re-
sppnsabilità politica, mobilità della classe dirigente), alla do-
m andadà cui siamo partiti : « Esiste attualmente una democra­
zia in Italia? » si può rispondere, ponendo via via queste tre
domande particolari :
1) La classe politica deriva il suo potere direttamente dal con­
senso popolare?
2) £ integralmente attuato il principio della responsabilità
di chi detiene il potere di governare?
3) Qual è l’intensità e rapidità della circolazione della classe
politica?
Vedremo che a nessuna di queste tre domande siamo in
grado di dare una risposta del tutto tranquillante.
Cominciamo dalla prima domanda. In Italia, come del re­
sto in ogni altro regime democratico, il rapporto tra corpo
elettorale e classe politica non è uri rapporto diretto. Tra l'uno
e l’altra si sono frapposti i partiti organizzati. Con l ’organizza­
zione dei grandi partiti — fenomeno del resto naturale, là dove
il suffragio universale ha elevato a grandi cifre il numero degli
elettori — la fonte di derivazione del potere non è più costi­
tuita soltanto dal corpo elettorale, e il metodo elettivo è qual- 93
BOBBIO che volta in parte soltanto una finzione. Accanto al metodo
elettivo e a quello ereditario, v i è un terzo metodo per la scelta
degli appartenenti a un gruppo governante: il metodo della __
cooptazione. È noto che da noi le liste dei candidati alle ele­
zioni non sono generalmente formate attraverso la designazio­
ne degli aderenti ad un partito: sono preparate dalle direzioni
dei rispettivi partiti mediante la cooptazione. Dire che il corpo
elettorale sceglie i suoi rappresentanti è dire soltanto una
mezza verità. In realtà la scelta viene^atta_con__un_ procedi­
mento misto di cooptazione e di elezione. La scelta del corpo
elettorale è rigidamente limitata. dallardesignazione_delle dire­
zioni dei partiti. Non diciamo che questo sia un male, nè che
sia un bene. Ci limitiamo a constatare che, se uno dei baratteri
del regime democratico è il metodo elettivo, questo metodo
non è applicato integralmente. Oltre a tutto, coi mezzi di pro­
paganda oggi in uso, spesso la macchina del partito riesce nel­
l’intento di far eleggere questo piuttosto che quel deputato,
mostrando così che l’elezione più che una libera designazione /
da parte dell’elettore è la conferma di una designazione già ;
precedentemente avvenuta.
Per quanto riguarda la seconda domanda, relativa al rap­
porto di responsabilità che dovrebbe intercorrere tra elettori e
eletti, è noto che in Italia come altrove questo rapporto è osta­
colato dalla interferenza nelle decisioni politiche di un corpo i
compatto, sempre più imponente e potente, che è la burocrazia. \
Anche qui siamo ben lontani dal negare la funzione della bu­
rocrazia nello stato moderno: una delle caratteristiche dello
stato moderno, in tutta la storia della sua formazione e del
suo sviluppo, è la costituzione di un corpo di funzionari stabili
addetti al disbrigo delle pratiche amministrative. Questo corpo
di funzionari, aumentando i compiti dello Stato, ha accresciuto
enormemente la sua potenza. Là dove la sua potenza è aumen­
94 tata sino al punto che decisioni politiche vengono direttamente
prese o indirettamente influenzate da esso, la responsabilità po­ BOBBIO
litica della classe dirigente è distorta o viene meno. Ciò che
distingue il funzionario dal rappresentante del corpo eletto­
rale è la mancanza di responsabiltià politica: non già che il
funzionario non possa essere sottoposto a controlli per ciò che
egli decide o opera; ma sono controlli tecnici o magari giuri­
dici. Non sono mai controlli di natura politica. Così avviene che
la burocrazia, o almeno la parte più influente di essa, possa
avere un potere politico senza che a questo potere corrisponda
il tipo di controllo che in un regime democratico è proprio
del potere politico, ciò che abbiamo chiamato la verifica del
consenso. Si potrebbe parlare, in casi estremi, di un potere
politico irresponsabile, il che è esattamente l ’opposto„di_quel
che dovrebbe accadere in un Regime, .democratico.
Venendo alla terza domanda, relativa alla concorrenza tra
classi politiche diverse, anche qui la risposta non può essere
del tutto rassicurante. V i è una situazione in Italia che rende
difficile, per non dire impossibile, il ricambio della classe diri­
gente : è__la situazione del centrismo politico. I'^i Italia non c’è
in quésti anni la possibilità di un’alternativa tra destra e si­
nistra; v i è bensì un partito di centro che può governare, a
seconda delle circostanze, ora volgendosi a destra, ora volgen­
dosi a sinistra, ora da solo. Il che porta alla conseguenza della
staticità della classe politica. Naturalmente questa staticità non
dipende dal fatto che esista nel nostro paese un grande partito
di centro, cioè che il più grande partito sia un partito che, pro­
clamandosi interclassista, tende ad abbracciare in un’unica po­
litica interessi diversi e magari contrapposti. Se l ’esistenza di
un grande partito di centro è nuova, la vocazione centrista
della politica di governo in Italia, ovvero la vocazione del go­
verno, anziché ad accentuare le antitesi, a conciliare le oppo­
sizioni minori verso un compromesso instabile e sempre rin­
novabile, è antica: il vecchio trasformismo, che è stato per 95
decenni la caratteristica della vita parlamentare in Italia, era
una manifestazione dello stesso bisogno, e ha condotto alle
stesse conseguenze, cioè alla mancanza di una vera e propria
alternativa di governo, e in ultima analisi ad uno snaturamen­
to del regime parlamentare. Ma se il difetto è antico, ciò signi­
fica che bisogna ricercarne la ragione profonda nella stessa
struttura della società italiana: io credo che questa ragione sia
^la scarsa omogeneità della nostra_società. V i sono,' in Italia,
differenze enormi tra le varie classi e tra le stesse classi nel
Nord e nel Sud. Ora in una società eterogenea, come la nostra,
le opposizioni tendono a diventare estreme, radicali, e là dove
vi sono opposizioni estreme e radicali, si viene naturalmente
formando tra di esse una certa zona di interessi intermedi che
tendono a coalizzarsi e a contrapporsi agli estremismi da una
parte e dall’altra. La vocazione centrista della Democrazia Cri­
stiana è indubbiamente orientata e garantita da una società in
cui, attraverso la radicalizzazione delle opposizioni, le alterna­
tive non sono possibili, o sono possibili soltanto al di fuori
del gioco democratico. :
Ci sono rimedi? La mia idea è che se ci sono rimedi, que­
sti sono a lunga scadenza. I vizi del regime democratico in
Italia, quali sono venuto indic5ndò” nòn~sòno difetti istituzio­
nali; e"pertantó” nòri si possono correggere con riforme istitu
'zlonali, cioè con quelle riforme che si attuano con procedi­
ménti di carattere legislativo. Può darsi che il mio discorso
possa sembrare troppo pessimistico. Ma credo sia meglio guar­
dare in faccia alla realtà, per non lasciarsi cullare, ancora una
volta, da puerili illusioni. Un po’ di realismo, come è stato
acutamente osservato, giova anche ai democratici. Il realismo
è stato per lo più il segno della reazione o della rivoluzione.
¿^Perché non si può essere insieme realisti e d em o c ra tici^
Procedendo in senso inverso rispetto all'enumerazione dei
problemi, cominciamo dal terzo punto, cioè cominciamo a do­
mandarci se vi sia un rimedio istituzionale alla mancanza del­
la alternativa parlamentare. Che io sappia, l’unico rimedio- isti­
tuzionale, di cui si sente parlare di tanto in tanto, è l’abban­
dono del sistema elettorale proporzionale e il ripristino del si­
stèma' del collegio uninominale. Non credo alla bontà del rime­
dio. È certo che in un collegio uninominale le forze si polariz­
zano verso due formazioni politiche contrapposte, i partiti mi­
nori tendono a scomparire, il centrismo come soluzione inter­
media o di compromesso tra due estremi perde la sua ragion
d’essere. Ma proprio a causa della scarsa omogeneità della so­
cietà italiana, donde son derivati partiti tanto numerosi e tanto
diversi, la polarizzazione avverrebbe verso gli estremi. I l col­
legio uninominale ci regalerebbe, sì, una diminuzione di partiti
o la scomparsa totale dei frammenti di partiti, ma altresì la
costituzione di due fronti compatti e contrapposti. E sarebbe­
ro due fronti incomunicabili, il Fronte popolare, da un lato,
e il Blocco nazionale dall’altro; il che costituirebbe non già una
situazione di alternativa democratica, ma di rottura rivoluzio­
naria. Fronte popolare e Blocco delle destre non costituiscono
due gruppi politici in concorrenza democratica, ma due regimi
in potenza. Oltretutto il collegio uninominale costringerebbe
vari partiti ad alleanze forzate, e queste porterebbero alla con­
fusione delle idee: se la costituzione di blocchi può valere in
situazioni particolari, come è avvenuto nella elezione regiona­
le della Valle d’Aosta, estesa a tutto il paese sarebbe, ai fini
dello sviluppo democratico in Italia, un rimedio peggiore del
male. I l centrismo_„è l'espressione di una democrazia malatic­
cia, ma non moribonda; la contrapposizione di blocchi incomu­
nicabili è per .la democrazia, una^malattia mortale. La verità
e~che se la causa della mancanza di alternativa democratica
sta, come abbiamo detto, nella scarsa omogeneità della società
italiana, il rimedio non può essere che quello di rendere la
nostra società più omogenea: ma questo è un problema non di
BOBBIO riforma elettorale, ma di riforma sociale, economica, scolastica^
non di riforma_pro c e d u r a le, a
m« sost anzi a1e ;_e quindi è u n p r o
blema, come volevasi dimostrare, non risolu bilejejgqn giu n ga..-
scadenza. ;
Il secondo punto riguardava, come si è detto, l’irrespon­
sabilità della burocrazia. C’è un rimedio formale a questo ma­
lanno? L ’unico rimedio proposto, e di cui si riparla ad ogni
campagna elettorale, ma con la convinzione da parte di tutti
che alle parole non seguiranno mai i fatti, è l ’istituzione delle
regioni, il cosiddetto decentramento regionale. Ma anche que­
sto è un rimedio che qualora fosse attuato non potrebbe dare
il risultato che ci si attende. Io non so se la riforma regionale,
si farà: io sono convinto che non si farà. Ma se si .facesse?
/L’eliminazione dell’accentramento non significa l’eliminazione
f della burocrazia come corpo politicamente irresponsabile. Il pro­
blema da risolvere è molto più grave, è iljproblema del rapp
orto
d i fo r z e fr a c la s s e p o lit ic a e classe dei funzionari. Ancora
una volta non è un problema istituzionale. Si tratta di sapere
se nei prossimi vent’anni in Italia, attraverso la libera compe­
tizione democratica, si formerà una classe politica che abbia
tanta competenza, tanto prestigio, tanta autonomia da essere
capace di dirigere la vita politica della nazione senza dipen­
dere dai funzionari. È un problema che investe alcune questio­
ni di fondo della società italiana, a cominciare dalle vie di
accesso al potere. E siccome il prestigio di una classe dirigente
prima di tutto è un prestigio morale, direi che è prima di tutto
un problema morale. E siamo ben lontani dall’averlo risolto.
La classe politica oggi in Italia non è all’altezza del compito
enorme di trasformare un paese, in gran parte arretrato, in un
paese moderno, e di inserirlo nella competizione che si va svol­
gendo tra le grandi nazioni per l ’attuazione della seconda rivo­
luzione industriale. E parlo di classe politica in senso molto

98 largo, comprendendovi i rappresentanti dei partiti che sono al


governo e di quelli che sono all’opposizione. Io sono convinto,
e lo vado ripetendo ad ogni occasione, che l’instabilità della
democrazia in Italia dipende principalmente dalla mancata for­
mazione di una classe politica degna di un grande paese civile.
Perchè questa classe non si sia formata attraverso la crisi del
Fascismo, e questi primi anni di democrazia sperimentale, non
saprei dire. Quello che so è che la generazione uscita negli
anni della maturità dalla grande crisi — è la mia generazione
e per questo ne parlo, se pure sconsolatamente, per conoscenza
diretta — è pienamente fallita nel compito di dare all’Italia
una classe politica egregia per dignità, probità, intelligenza
politica, forza di carattere, e competenza amministrativa. E se
pur non arriverei a dire col Dorso che la formazione di una
classe politica è un mistero divino, mi pare indubbio che è un
processo lento, faticoso, soprattutto diffìcilmente prevedibile e
orientabile.
Risalendo al primo problema relativo, se vi ricordate* alla
interposizione dei partiti tra classe politica e corpo elettorale,
il problema che la democrazia italiana dovrà risolvere per non
soccombere, è non meno grave. Ma anche qui non vedo come
la soluzione possa essere ottenuta con riforme immediate, dal­
l’oggi al domani. Non sto parlando male dei partiti: i partiti
organizzati, diciamo pure, i partiti di massa, sono l ’espressio­
ne più genuina della democrazia che, in seguito al suffragio
universale, è diventata un regime di massa. Chi non vuole i
partiti, non vuole la democrazìa. Non si tratta dunque di chie­
dere l ’abolizione dei partiti, e tanto meno la riforma delle loro
strutture. Anche in questo caso chi crede di risolvere il pro­
blema della formazione del consenso con rimedi legislativi si
illude. È sempre aperta la discussione sulla cosiddetta regola­
mentazione dei partiti, la quale è nata dal fatto che la nostra
Costituzione in un articolo piuttosto vago, come l ’articolo 49,
si è ricordata che i partiti esistono e ha disposto che devono

'£ ? t °N2E POLITICHE


L 'IS T IT U T O O DI T O R I!- 0
DCuL UN ' - 527.66*
BOBBIO concorrere con metodo democratico a determinare la politica
nazionale. È opinione comune che da questo articolo non si
possa ricavare nessuna intenzione di attribuire allo stato il con­
trollo dei partiti, nè quello cosidetto interno, nè tanto meno
quello ideologico. Ma se così fosse? O il controllo incide sulla
potenza organizzativa dei partiti, e diminuisce la loro libertà,
e allora è lo stesso regime democratico che ne soffre; o lascia
intatto l’uno e l’altra, e allora è un’arma spuntata, che sarebbe
pericoloso impugnare. Non è questione di controllo giuridico, e
quindi, ancora una volta, di riforma istituzionale. Il problema,
anche in questo caso, è più profondo: tocca non l ’organizzazio- .
ne, ma la natura stessa del partito in Italia. I grandi partiti in i
Italia non sono partiti nè di opinione nè di interessi: sono par­
titi ideologici, che hanno una verità da imporre ai loro fedeli.
E sino a che i partiti saranno prevalentemente ideoloffici. ten­
deranno.-fL .trasformare la libera .adesione in obbedienza for­
male, la persuasione in imbonimento, la partecipazione attiva
in disciplina passiva, tutti atteggiamenti delet e r i. per la vita
democratica del paese. È possibile mutare questo stato di cose?
Non so se sia possibile: so soltanto che se è possibile, molte
cose devono mutare, che non sono modificabili dall’oggi al do­
mani. E cominciamo pure dall’orientamento stesso della nostra
vita culturale.
La responsabilità della nostra cultura nei confronti..della
infatuazione ideologica, e . n ell’esasperazione .deL_ centrasti in
contrasti ideologici,,è,, enprme. Non mi stanco mai dal mettere
in rilievo i caratteri negativi di questa_ideologizzazione univer­
/ sale. Si crede che il compito dell’intellettuale, — parlo, s’inten­
de, dell’intellettuale militante (per l'uomo di cultura accade­
mica v i sarebbero altri discorsi da fare) — sia quello di ela­
borare ideologie. Ma ideologizzando, non si degna di mettere
gli occhi sulla realtà, e di farsi un’idea più chiara delle situa­

100 zioni reali di cui la sua ideologia dovrebbe essere una specie di
I risoluzione prescrittiva. La cultura italiana è ancora malata, BOBBIO
è incredibile dirlo dopo tante finestre aperte sul mondo di pae-
| si più progrediti, in questi quindici anni, di ambizione specu-
' lativa. Si comincerà dalla scuola a cercar qualche rimedio con
un insegnamento più aderente alla realtà e aU’esperienza? Lo
spero, per quanto basti gettare uno sguardo sullo stile dei libri
di lettura delle scuole elementari per essere sfiduciati. Ma pur
con la più grande fiducia nel fatto che si sia cominciato e si sia
cominciato bene, è chiaro che se dobbiamo aspettarci i benefici
effetti sull’orientamento di tutta una cultura dalla riforma sco­
lastica, dobbiamo essere rassegnati ad aspettare per un pezzo.
Il mio discorso è troppo scoraggiante? Credo di no. La de­
mocrazia è in travaglio; ma proprio perchè è in travaglio, dob­
biamo sentirci maggiormente impegnati a salvarla. Del resto
i guai della democrazia non sono soltanto italiani. Non ho biso­
gno di richiamare la vostra attenzione su quello che è acca­
duto, e su quello che continua ad accadere, nella vicina Francia.
L ’Unione Sovietica non è uno stato democratico; eppure Lenin
era convinto di istituire uno stato m ille volte più democratico
di quelli occidentali. Gli Stati Uniti sono un paese democra­
tico: da Toqueville in poi sono agli occhi degli Europei il mo­
dello della democrazia. Ma ogni tanto nel paese ideale della
democrazia le istituzioni democratiche sono insidiate (si pensi
al maccartismo) o almeno non funzionano come dovrebbero (si
pensi al problema negro), senza contare che salta fuori ogni
tanto qualche enfant terrible (penso al libro recentemente tra­
dotto in italiano di Wright M ill, sulle Élites al potere), a solle­
vare qualche dubbio sulla corrispondenza della realtà al mo­
dello ideale.
Ma vi è un motivo più profondo per non scoraggiarsi. Le
difficoltà della democrazia non derivano soltanto da una parti­
colare situazione in cui si trovi l ’Italia o la Francia o la Russia
o l ’America. Ci sono difficoltà intrinseche alla stessa forma del 101
regime democratico. La democrazia è certamente la più perfetta
delle forme di governo, o almeno la più perfetta tra quante
gli uomini siano riusciti ad escogitare e in parte a realizzare;
ma appunto perchè è la più perfetta, è anche la più difficile.
Il suo meccanismo è il più complicato; ma, appunto perchè è
il più complicato, è anche il più fragile. La ragione per cui là
democrazia è il regime più desiderabile, ma insieme è anche
il più difficile da far funzionare e il più facile a guastarsi, è
questa: essa si propóne il compito di conciliare due cose con­
trastanti come la libertà e il potere. Non è possibile uno stato
senza un solido potere organizzato. Ma un solido potere si
organizza tanto più facilmente quanto meno tien conto del con­
senso e della libertà. La difficoltà della democrazia sta nel tro­
vare una soluzione soddisfacente a questa tensione dramma^
tica tra la vocazione dell’uomo alla libertà e la necessità asso­
luta in cui si trova, se vuol sopravvivere, di istituire una so­
cietà con un potere efficiente. Il tallone di Achille della demo­
crazia è, in una parola, l’efficienza del potere. Il metodo'dèmo-
cratico ci r isolve egregiamente il problema della l egittimità
del potere. Ma non basta che il potere sia legittimo. È neces­
sario anche che sia efficiente. Un potere legitimo che non fosse
efficiente finirebbe, presto o tardi, di non essere più “un potere.
D ^ S o ' ca^ò,'~ un^poÌCTÓ 'efficiente /finisce, presto o tardi, in
ragione della^sua stessa efficienza, di diventare legittime. Ora
la storia ci insegna che quanto più un potere è fondato sulla
libertà e non sulla soggezione, tanto più la sua stabilità e la
sua efficacia sono continuamente messe in questione. La for­
mula del regime democratico potrebbe essere riassunta in que­
sta massima : fare in modo, per un verso, che la libertà con­
cessa ai singoli cittadini non sia tanto ampia da rendere im­
possibile l’unità del potere, e per l ’altro verso, che l ’unità del
potere non sia tanto compatta da rendere impossibile l ’espan-1
sione della libertà. Ma, appena pronunciata, questa formula BOBBIO
mostra la sua astrattezza: l’attuazione è problema delicatissi­
mo di equilibrio sempre instabile, di compromesso sempre in­
soddisfacente, di dosatura mai definitiva.
Istituzionalmente, il problema del rapporto fra legittima­
zione democratica ed efficienza del potere è stato risolto in due
modi. I l primo modo è quello dettato dalla celebre, sempre di­
scussa ma non mai tramontata, teoria della separazione dei
poteri: la separazione netta del potere esecutivo da quello legi­
slativo, quale è attuata nel regime presidenziale degli Stati
Uniti, rendendo il governo indipendente dalle maggioranze par­
lamentari, gli dà la stabilità necessaria per prendere decisioni
durature e realmente trasformatrici (com’è avvenuto, ad esem­
pio, con la politica del N ew Deal di Roosevelt). L ’altro modo
non è stato elaborato a tavolino dai teorici della politica, ma
è il risultato di una lunga tradizione storica formatasi in un
paese che è diventato maestro a tutti di vita civile: è il siste­
ma parlamentare dei due partiti. Dove ci sono due partiti, uno
dei due ha necessariamente la maggioranza e il governo, ema­
nazione di quella maggioranza, non corre il rischio di essere
rovesciato, almeno per tutta la durata della legislatura. La pri­
ma condizione dell’efficienza, per un governo, è la stabilità.
Dove ci sono due partiti, la stabilità è assicurata; dove ve ne
sono molti, siccome difficilmente uno di essi riesce ad avere
la maggioranza assoluta, il governo nasce sempre da alleanze
tra partiti maggiori e minori, e abbiamo visto troppo spesso
che queste alleanze durano lo spazio di un mattino. Non da
oggi, il maggior nemico della democrazia è l ’instabilità del go­
verno, cui fanno corona i vizi della fiacchezza, della sterilità,
dell’immobilità, della mancanza di audacia nelle riforme, del
rimandare a domani quello che si è sicuri di non poter farè
oggi- 103

•■'ISTITUTO D! Ti??®
'BQQBIO I l problema principale della nostra democrazia sempre va­
cillante è di trovare la formula della stabilità. E l ’unica for­
mula buona in un regime parlamentare è, piaccia o non piaccia,
il sistema dei due partiti. Arrivo sino a dire che là dove ci sono
più partiti, il regime democratico è un regime sempre provvi­
sorio, una fortunata e casuale pausa tra due dittature. I l regi­
me parlamentare per funzionare ha bisogno di due partiti, So
che non è una definizione ortodossa : ma sarei tentato di defi­
nire il regime parlamentare come il regime dell’alternativa di
due partiti. Dove ce n’è uno solo, la democrazia non c’è; dove
ce ne sono troppi, la democrazia non c’è stata o non ci sarà.
Concludo: tra i due estremi dell'effìcienza senza consenso
e del consenso senza efficienza, la democrazia cerca -una via
intermedia. Ma le vie intermedie sono le più incerte e più
grave è il pericolo di smarrirle. Se incerta è la strada su cui
ci troviamo, in Italia, non dobbiamo peraltro abbandonarci ad
una completa disperazione. Meglio essere incerti sulla via buo­
na, che sicuri, come eravamo vent’anni fa, su quella cattiva.
Ma v i è un altro aspetto della democrazia di cui devo anco­
ra parlarvi. Col termine « democrazia » com’è noto, intendia­
mo tante cose diverse, ma soprattutto due che dobbiamo tener
ben distinte, perchè dalla loro confusione nascono discussioni
oziose. Intendiamo in primo luogo un complesso di istituzioni
o di tecniche di governo: ed è ciò di cui v i ho parlato sinora.
Suffragio universale, regime parlamentare, riconoscimento dei
diritti civili, principio della maggioranza, protezione della mi
noranza, sono tutte istituzioni caratteristiche di un regime
| democratico. Possiamo su questa base definire il regime demo­
cratico come quel regime che si vale, per organizzare la socie­
tà, di certe istituzioni piuttosto che di altre. Ma molto spesso,
parlando di democrazia, non ci riferiamo a certe istituzioni
104 ma ad un centro ideale da perseguire, non ai mezzi o ai proce-
dimenti impiegati, ma al fine che con quei procedimenti si BOBBIO
vuole raggiungere. In questo modo il regime democratico vie­
ne caratterizzato non tanto per le istituzioni di cui si vale,
quanto per i valori fondamentali che lo ispirano e. a cui tende.
L e istituzioni sono soltanto dei mezzi per raggiungere certi fini.
Ma perchè noi preferiamo certi mezzi ad altri? Perchè, per
esempio, preferiamo il sistema elettivo a quello ereditario?
Evidentemente, perchè crediamo che certi mezzi siano più adat- **
ti a raggiungere il fine desiderato. E allora è chiaro che se vo­
gliamo non soltanto capire che cos’è la democrazia, ma darne
una giustificazione, passare, come direbbe un filosofo, dal giu­
dizio di fatto al giudizio di valore, dobbiamo, dopo aver discorso
dei mezzi, discorrere, se pur brevemente, anche del fine. Il fine
da cui siamo mossi quando vogliamo un regime organizzato
democraticamente è, in una parola sola, l ’eguaglianza. Così
possiamo definire la democrazia, non più rispetto ai mezzi, ma
rispetto al fine, come il regime che mira a realizzare, quanto
più è possibile, l ’eguaglianza tra gli uomini.
Soltanto ora ci rendiamo conto perchè tutti, e le persone
semplici in primo luogo, capiscono ciò che è la democrazia. Es­
se, parlando di democrazia, pensano al fine piuttosto che ai
mezzi. E l’eguaglianza è uno di quei valori supremi che non
si discutono, ma si credono. Non è che gli uomini siano eguali.
Sarebbe un’imperdonabile 'ingenuità, da parte di chi si è pre­
sentato come portatore di esigenze realistiche e ha fatto dinan­
zi a voi la parte del machiavellico più di quanto in verità gli
si addica, venirvi a dire che l’eguaglianza di cui si parla per
giustificare la democrazia sia un punto di partenza. L ’egua­
glianza è un punto di arrivo. Non è, ripeto, che gli uomini siano
■eguali. Gli uomini devono essere eguali. L ’eguaglianza non è
un fatto da constatare, ma un dovere da compiere. Purtroppo.,
se consideriamo la democrazia in Italia anche da questo punto
di vista, dobbiamo convenire che il nostro paese è ancora ben 105
BOBBIO lontano dall’essere una società democratica. L ’Italia è un paese
dove vi sono enormi disuguaglianze. Qualche armo fa, scriven­
do l ’introduzione a Banditi a Partinico di Danilo Dolci, dissi
che quelle pagine, dov’era documentata senza veli la miseria
scandalosa di un paese della Sicilia, avrebbero potuto essere
considerate come una iniziazione allo studio della vita politica
in Italia. Volevo parlare della democrazia come ideale, come
idea dell’uguaglianza, di cui quelle pagine erano la più cru­
dele confutazione. Anche rispetto a questo modo di intendere
la democrazia, il cammino che dobbiamo percorrere è ancora
lungo, e nessuno creda di poterlo percorrere bruciando le tappe.
Parlandovi della democrazia non più come di una tecnica
di governo, ma come ideale, vi faccio anche una professione
di fede. Sono democratico perchè credo, anzitutto, che l’egua­
glianza fra gli uomini sia un ideale nobile, in secondo luogo
credo che una diminuzione delle disuguaglianze sociali (ed
entro certi limiti anche di quelle naturali) sia, attraverso l ’ope­
ra dell’uomo, possibile. .
Se la politica non servisse a migliorare la condizione uma­
na, sarebbe pura espressione di potenza. Non interesserebbe
minimamente nè me nè voi. Ciò che ci spinge alla vita politica,
nonostante le delusioni, le amarezze, le quotidiane stanchezze,
è la coscienza che la politica non è soltanto intrigo e spirito di
dominio. Non abbiamo perso tutte le speranze che la politica
serva anche alla giustizia, a combattere il sopruso del più ric­
co, a resistere alla prepotenza del più forte, a mortificare la
libido dominando, e non soltanto, come si crede, ad eccitarla.
Mi avete detto che Carlo Bo vi ha tenuto una conferenza la
settimana scorsa intitolata: Quale fede? Anch’io ho posto una
domanda. Ma una domanda con la quale mi sentirei di rispon­
dere alla domanda di Bo: la democrazia è una fede. Dunque,
106 quale fede? La fede nella democrazia, s’intende, se democrazia
significa eguaglianza. Parlo di fede mondana, della fede che BOBBIO
ci sorregge nella costruzione del mondo umano.
Si dice che viviamo in un mondo senza ideali, e i giovani
sono scontenti e spietati. Eppure viviamo in un’epoca storica
che ha dinanzi a sè il compito straordinario di attuare la de­
mocrazia in tutto il mondo abitato. Quale ideale più alto, quale
fede più battagliera e creatrice? Se ci mettiamo dal punto di
vista di una filosofia generale della storia, e ci chiediamo : « La
storia umana ha una direzione che dia un senso all’immenso
travaglio di secoli di lotte, guerre, sangue e stragi? E se ha
una direzione, qual’è? », mi pare che non si possa dare che una
risposta: la storia umana va verso una sempre più progressiva
eguaglianza tra gli uomini, tra classe e classe, tra nazione e
nazione, tra razza e razza, tra uomo e uomo. M i sono interro­
gato più volte intorno a questa domanda, ma non riesco a tro­
vare altra risposta che questa: il senso della storia è l’egua­
glianza fra gli uomini. Se non ha questo senso, è un’assurda
follia. Quando si fanno paragoni tra epoche antiche e l’epoca
moderna, quando distinguiamo società barbare da società ci­
vili, ciò che ci colpisce profondamente è la diminuzione delle
disuguaglianze. Il segno infallibile a cui riconosciamo il pro­
gresso civile è il livellamento degli ordini estremi della società,
la limitazione del dominio dell’uomo sull’uomo. Oggi viviamo
in un’epoca in cui l'umanità potrebbe fare nell’attuazione di
questo compito un passo decisivo, mai prima d’oggi compiuto.
Lo sviluppo tecnico ha assunto tali dimensioni da porci di
fronte a questa alternativa: o la autodistruzione o la democra­
zia universale. Basta porre i termini dell’alternativa per capi­
re che è un’alternativa soltanto apparente. Nessuno può volere,
infatti, la prima soluzione.
Mi rivolgo ai giovani perchè sono giovani coloro che mi
hanno invitato. A costoro dico che non vedo compito più alto,
oggi nel mondo, che l ’attuazione, nel nostro paese e nei paesi 107
BÓBBIO più arretrati, dell’ideale democratico. È un ideale che ha dietro
di sè tutta la parte migliore della storia dell’uomo e ha di­
nanzi a sè la possibilità di attuare quella direzione dello svi­
luppo storico, per cui la nostra storia è storia di uomini e non
dei « bestioni » vichiani. Per questo, concludendo, v i dico : qua­
le fede? La fede nella democrazia. Quale democrazia? La de­
mocrazia come ideale di eguaglianza e compito di giustizia.

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