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Software e disuguaglianza digitale

L'Italia ha un significativo problema legato alla mancanza di competenze digitali,


a tutti i livelli, dagli insegnanti che dovrebbero educare le nuove generazioni a una
vita dove il digitale – in tutte le sue declinazioni – ha un ruolo fondamentale, agli
adulti che dovrebbero utilizzare le tecnologie digitali sia al lavoro che in casa
(possibilmente in linea con quello che viene insegnato), ai politici che avrebbero il
ruolo fondamentale di indirizzare la crescita delle competenze digitali in modo da
ridurre le potenziali disuguaglianze tra cittadini (e invece fanno esattamente il
contrario).
Ogni anno, la Commissione Europea ci ricorda le dimensioni del problema con la
pubblicazione dell'indice DESI (Digital Economy and Society Index). Nel 2021,
l'Italia è al 20° posto fra i 27 Stati membri dell'Unione Europea, con 45,5 punti
rispetto a una media di 50,7 punti.
Il commento ai dati evidenzia in modo particolare due lacune:
L'Italia è significativamente in ritardo rispetto ad altri paesi dell'UE in termini di
capitale umano. Rispetto alla media UE, registra infatti livelli di competenze
digitali di base e avanzate molto bassi.
La percentuale di utenti online italiani che utilizzano servizi di amministrazione
online (e-government) è aumentata dal 30 % nel 2019 al 36 % nel 2020, ma è
ancora nettamente al di sotto della media UE. Anche l'uso dei fascicoli sanitari
elettronici da parte dei cittadini e degli operatori sanitari rimane disomogeneo su
base regionale.
In particolare, è il capitale umano – ovvero, le competenze digitali dei singoli
individui – a rimanere significativamente al di sotto della media UE, e ben lontano
dalla sufficienza:
Per quanto riguarda il capitale umano, l'Italia si colloca al 25o posto su 27 paesi
dell'UE. Solo il 42 % delle persone di età compresa tra i 16 e i 74 anni possiede
perlomeno competenze digitali di base (56 % nell'UE) e solo il 22 % dispone di
competenze digitali superiori a quelle di base (31 % nell'UE). La percentuale di
specialisti TIC in Italia è pari al 3,6 % dell'occupazione totale, ancora al di sotto
della media UE (4,3 %). Solo l'1,3 % dei laureati italiani sceglie discipline TIC,
un dato ben al di sotto della media UE. Le prestazioni dell'Italia sono più vicine
alla media UE per quanto riguarda invece gli specialisti TIC di sesso femminile,
che rappresentano il 16 % degli specialisti TIC (la media UE è del 19 %). Solo il
15 % delle imprese italiane eroga ai propri dipendenti formazione in materia di
TIC, cinque punti percentuali al di sotto della media UE.
Queste scarse competenze influiscono in modo negativo anche in aree dove la
posizione dell'Italia rispetto alla media europea è migliore, come i servizi pubblici
digitali, dove ci troviamo al 18° posto con un punteggio di 63,2 contro una media
europea del 68,1. Purtroppo, avere i servizi pubblici digitali serve a poco se i
cittadini non hanno le competenze necessarie per utilizzarli.
E infatti, il giudizio finale del rapporto DESI 2021 è abbastanza chiaro:
In conclusione, l'Italia deve far fronte a notevoli carenze nelle competenze digitali
di base e avanzate, che rischiano di tradursi nell'esclusione digitale di una parte
significativa della popolazione e di limitare la capacità di innovazione delle
imprese.
Paghiamo, e rischiamo di pagarla molto cara, la colpevole assenza della politica
durante tutto il periodo pre-internet – ovvero dal 1981, anno dell'annuncio del PC
IBM, fino alla metà degli anni '90 –, quando alcune delle attuali Big Tech hanno
posto le basi della situazione di cartello, o addirittura di monopolio, che ha portato
all'attuale configurazione del mercato.
E quando parlo di assenza dei politici, mi riferisco a un'assenza globale, dagli
Stati Uniti – che all'epoca erano al centro dell'innovazione tecnologica – fino alla
periferia dell'impero. Assenza che in Europa è terminata nei momenti e nei modi
più diversi – per una presa di coscienza, un movimento d'opinione, un politico
particolarmente sensibile o la rivelazione del fatto che i cittadini europei venivano
profilati e controllati da un programma del governo degli Stati Uniti – e in Italia
non è mai terminata.
Forse è solo una coincidenza, ma i Paesi dove la politica ha intrapreso una propria
strada, indipendente – almeno in parte – da quella delle Big Tech, sono quelli che
si trovano nelle prime posizioni dell'indice DESI, e dove la presenza e l'uso degli
strumenti digitali è più diffusa a tutti i livelli.
L'assenza della politica dal 1981 alla metà degli anni '90 ha permesso alle Big
Tech dell'epoca di creare una situazione di monopolio rispetto alle tecnologie che
ha avuto, tra le altre, due conseguenze che stiamo pagando ancora oggi:
un'influenza non proporzionale nel mondo dell'istruzione, che dovrebbe garantire
un accesso e un'educazione completamente slegate dagli obiettivi commerciali di
qualsiasi azienda, e dalle possibilità economiche di qualsiasi nucleo familiare, e
livelli di fatturato tali da poter consentire attività di lobby focalizzate sul
mantenimento di questa situazione.
Ovviamente, le Big Tech nate da internet, che sono arrivate successivamente, non
hanno fatto altro che riprodurre le stesse strategie. E se da un lato questo ha spinto
a una gara al ribasso per la fornitura di soluzioni sempre più complete alle scuole
di ogni ordine e grado, per formare sugli strumenti che gli stessi individui
avrebbero poi utilizzato per lavoro, dall'altro ha spinto a una gara al rialzo negli
investimenti in attività di lobby.
Oggi, secondo la ricerca "The Lobby Network: Big Tech's Web of Influence in
the EU", pubblicato da Corporate Europe Observatory and LobbyControl e.V nel
mese di agosto 2021, le Big Tech spendono più di 32 milioni di euro solo a
Bruxelles, con più di 140 professionisti a tempo pieno. Il sospetto che questa cifra
enorme venga usata solo per difendere gli interessi commerciali presenti e futuri
delle aziende – che non coincidono con quelli dei cittadini europei – è più che
legittimo.
Mancano dati altrettanto precisi per l'Italia, ma non ci sono motivi per pensare che
la situazione sia diversa da quella dell'UE, se non addirittura peggiore, visto che i
ministeri sottoscrivono allegramente protocolli con le Big Tech, a cui affidano
addirittura anche la formazione (che ovviamente non sarà mai una formazione alle
tecnologie digitali, ma sempre alle specifiche soluzioni della Big Tech di turno).
Con buona pace dei risultati dell'indice DESI, visto che l'utilizzo di uno specifico
software non rende automaticamente competenti sulle tecnologie digitali.
Certo, i politici sono incompetenti, con pochissime eccezioni, per cui non
possiamo certo pretendere che conoscano la differenza tra un "concetto" come il
foglio elettronico e un file di Microsoft Excel, un documento in formato standard
aperto e un file proprietario, la sicurezza digitale e l'uso di file che trasportano il
70% del malware a livello globale, e così via. Il problema è che l'ignoranza di
questi argomenti si traduce nell'attuale incompetenza digitale diffusa.
Faccio un esempio: quando il MIUR ha deciso che dal registro cartaceo si doveva
passare al registro elettronico, la prima cosa che avrebbe dovuto fare era quella di
definire – e imporre – un formato standard dei dati, in modo tale che fossero le
scuole e non i produttori di software a controllare i dati stessi.
Oggi, se una scuola vuole passare da un fornitore di registro elettronico a un altro,
deve prima convertire i dati in un formato come il CSV, e poi importarli, con tutti
i problemi del caso (chi ha un po' di esperienza sa che nell'importazione di grandi
quantità di dati c'è sempre qualcosa che non funziona come dovrebbe).
Se il formato dei dati fosse standard, basterebbe configurare il nuovo software in
modo tale da agire sullo stesso database, che ovviamente è e deve essere proprietà
della scuola, e deve rimanere tale senza mai passare dalle mani del produttore del
software, per effettuare la migrazione e avere una soluzione funzionante.
L'educazione alle tecnologie digitali dovrebbe essere tale, ovvero agnostica
rispetto al produttore delle tecnologie stesse. Un documento di testo, un database,
un foglio elettronico, un disegno o una presentazione dovrebbero essere spiegati a
prescindere dal software con cui sono stati elaborati, perché le caratteristiche sono
sempre le stesse (anche se talvolta cambia il numero e il tipo di funzionalità), e i
file dovrebbero essere sempre in formato standard, in modo da essere gestiti anche
essi in modo agnostico rispetto al software.
Ovviamente, essendo un sostenitore del software open source, sono certo che se
l'educazione alle tecnologie digitali venisse fatta utilizzando questi programmi ci
sarebbero degli evidenti vantaggi rispetto al software proprietario, come la
possibilità di utilizzare le applicazioni anche da parte di chi ha possibilità di spesa
inferiori alla media (una volta acquisito un PC, anche datato, il costo del software
sarebbe pari a zero, a partire dal sistema operativo), e l'adozione di formati aperti
e standard (perché il software open source predilige i formati aperti e standard).
In ogni caso, è l'utilizzo di formati aperti e standard a fare la differenza
(d'altronde, gli standard sono nati per difendere gli utenti, così come sottolinea
ISO: gli standard ISO toccano tutti: dall'uso delle carte di credito a livello
globale alla garanzia che i giocattoli non abbiano bordi taglienti, vengono usati
ovunque e sono rispettati dalle aziende per garantire che prodotti e servizi siano
come desiderano gli utenti), per cui potrebbe andar bene anche la formazione su
software proprietario – purché sia chiaro che l'applicazione è solo un esempio e
non il riferimento assoluto – basata su formati aperti e standard.
Probabilmente, un'educazione alle tecnologie digitali basata su questi presupposti
riuscirebbe a sollecitare la curiosità degli individui più aperti alle tecnologie, e far
comprendere agli altri che non esistono solo le Big Tech ma anche altre realtà che
magari vale la pena di conoscere. Naturalmente, tutto questo non farebbe piacere
alle Big Tech ma svilupperebbe quel minimo di conoscenza che oggi purtroppo
non esiste, e tiene l'Italia saldamente ancorata al 25° posto dell'indice DESI.

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