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MANUALI
Manuale di Psicologia
dei processi mnestici e motivazionali
EDI
Collana
Il presente volume fa parte della Collana di Manuali di Studi Psicologici, pubblicata dalla Edicusano s.r.l. che si propone quale
ausilio didattico allo studio delle discipline psicologiche, affiancando le lezioni video e le slides che fanno parte del materiale
didattico dei Corsi di Studi dell’Università Niccolò Cusano.
La Collana vuole offrire uno strumento completo che supporti gli studenti nel loro percorso di studio, approfondendo gli argo-
menti più significativi nei vari ambiti e da diversi approcci teorici.
Si viene dunque guidati in un percorso rigoroso e allo stesso tempo facilmente accessibile, che vuole stimolare la curiosità dello
studente e guidarlo nella comprensione degli argomenti fino ad acquisire conoscenze scientifiche che con il supporto delle lezio-
ni video consentiranno, non solo una efficace preparazione per gli esami, ma anche un approfondimento teorico.
Coordinatori Editoriali della Sezione manualistica di “Studi Psicologici”: prof. Bruno Cucchi e prof.ssa Federica Simonelli.
È vietata la riproduzione, anche parziale, non autorizzata in forma scritta dall’editore, realizzata con qualsiasi mezzo, compresa
fotocopia, anche ad uso interno o didattico.
ISBN: 978-88-31258-79-1
Introduzione.........................................................................................9
Conclusione......................................................................................225
Bibliografia........................................................................................227
Introduzione
1
Per una rassegna più esaustiva si veda Kandel et al. (1999, 2014).
12 MANUALE DI PSICOLOGIA DEI PROCESSI MNESTICI E MOTIVAZIONALI
(in particolare i recettori D2) che subiscono una riduzione di numero, co-
sicché affinché compaia l’effetto desiderato provocato dall’assunzione della
droga è necessaria una quantità sempre maggiore (Caretti, 2011). Si stabi-
lisce così il circolo della droga con tutte le sue componenti neurochimiche,
biologiche, psicologiche e sociali. La memoria svolge una funzione quindi
di rinforzo poiché attraverso l’apprendimento si crea un’associazione positi-
va tra sostanza ed esperienza tossicomanica in termini cognitivi ed emotivi,
aumentando la probabilità che tale condotta venga messa nuovamente in
atto in un circolo vizioso che si autorinforza.
Ma perché l’abuso di sostanze è così pericoloso per i sistemi motiva-
zionali di base? La risposta, per quanto complessa, può essere riassunta in
questo modo: assumere sostanze stupefacenti (dagli stimolanti ai sedativi)
in quantità eccessiva e incontrollata provoca cambiamenti strutturali all’in-
terno di aree cerebrali, corticali e sottocorticali, connesse tra loro attraverso
numerose vie neuronali; questi cambiamenti inducono a loro volta all’inibi-
zione dei sistemi motivazionali necessari alla sopravvivenza poiché la droga,
per le sue potenti proprietà chimiche, crea assuefazione e dipendenza, ob-
bligando il soggetto a condotte compulsive di ricerca della sostanza, trala-
sciando così i suoi bisogni di base. Tutta l’attenzione e le risorse sono quindi
impegnate al soddisfacimento di quello che viene definito bisogno indotto
cosicché il soggetto, tarato su un nuovo equilibrio del tutto disfunzionale,
tenterà con tutte le sue forze di appagare tale bisogno per non incorrere a
conseguenze negative sul piano fisico e psicologico a seguito dell’insorgenza
dell’astinenza. Mangiare e dormire divengono bisogni “meno” importanti,
gli effetti deleteri di questi mutamenti sono ormai da tempo conosciuti.
pria facoltà della mente, ma anche che riguardasse una proprietà estesa di
tutta la corteccia cerebrale, ipotesi che era in netto contrasto con l’idea che
si stava progressivamente sviluppando secondo cui specifici processi menta-
li implicano specifiche aree corticali e sottocorticali localizzate nel cervello e
tra loro interconnesse. Grazie agli studi di brillanti scienziati oggi sappiamo
che la memoria non è una funzione unitaria né un ausilio per altri processi
mentali, bensì possiede peculiarità che determinano quello che viene co-
munemente chiamato apprendimento, poiché essa garantisce l’archiviazio-
ne dei dati provenienti dalla pratica e dall’esperienza permettendo il loro
richiamo attraverso l’attivazione di aree e circuiti ben definiti. Imparare il
come si fa, come ad esempio procedure/conoscenze per la risoluzione di un
certo compito o azioni automatizzate che sono divenute abitudini a seguito
della ripetizione (es: guidare l’auto), è un apprendimento di tipo implicito
poiché la messa in atto di tali procedure e/o conoscenze non necessita un’a-
zione volontaria che includa la consapevolezza. Viceversa, l’apprendimento
di tipo esplicito comporta l’immagazzinamento di materiale autobiografi-
co, di eventi del passato in forma dichiarativa e con la consapevolezza di star
ricordando qualcosa 2. Quindi, apprendere il come si fa (implicito) e il cosa
(esplicito) presuppone l’intervento della memoria che con il suo costante
lavoro permette all’uomo di muoversi nell’ambiente con un bagaglio di
conoscenze notevole che lo aiutano ad avere coscienza di ciò che è, ciò che
conosce e ciò che sa fare.
La distinzione tra memoria implicita ed esplicita è stata formulata a
partire dalle osservazioni di pazienti neuropsicologici, individui cioè che
a causa di una lesione o dell’esportazione chirurgica di una porzione di
cervello hanno subito danni a specifiche funzioni mentali. Il caso più noto
per quanto riguarda lo studio dei processi di memoria e apprendimento è
quello del paziente H.M., un uomo che da oltre un decennio soffriva di
un’epilessia resistente a qualsiasi trattamento medico di quei tempi (erano
gli anni Cinquanta) per cui si ritenne necessaria l’esportazione chirurgica
bilaterale della porzione mediale del lobo temporale. A seguito dell’ope-
razione l’epilessia di H.M. si ridusse notevolmente ma non senza effetti
collaterali: subito dopo l’intervento il paziente presentò un deficit della
memoria, divenne cioè incapace di formare nuovi ricordi, nello specifico
era in grado di trattenere la traccia mnestica per una manciata di secondi
(memoria a breve termine), dopodiché a seguito di una minima distrazio-
ne dimenticava ciò che precedentemente aveva appreso. H.M. conservava
tuttavia i ricordi di eventi passati avvenuti prima dell’operazione, era in
2
Fenomeno che Daniel Siegel (2014) chiama ecforia.
Basi neurobiologiche dei processi mnestici e motivazionali 15
3
Per un approfondimento sul condizionamento si veda il capitolo seguente.
16 MANUALE DI PSICOLOGIA DEI PROCESSI MNESTICI E MOTIVAZIONALI
è altro che un sistema a feedback positivo con sensibilità per stimoli che
conducono ad una ricompensa e mobilita l’organismo nell’ambiente verso
obiettivi da cui esperirà emozioni positive.
Il sistema della punizione è invece definito come un sistema di inibizio-
ne comportamentale (Behavioural Inhibition System, BIS) viene considerato
la base causale dell’ansia e si attiva in condizioni in cui viene percepita la
possibilità di una punizione con conseguente inibizione del comportamen-
to; esso impedisce quindi la realizzazione di sequenze motorie quando il
soggetto si trova di fronte a stimoli condizionati in cui o vi è una puni-
zione o una mancanza di rinforzo positivo (condizione in cui l’organismo
esperisce frustrazione), o ancora davanti a stimoli nuovi privi di condizio-
namento: nello specifico, il sistema sonda l’ambiente e se gli eventi non
corrispondono alle aspettative allora arresta il comportamento focalizzando
l’attenzione su altre informazioni contestuali.
Il sistema di risposta alla minaccia è noto con il nome di sistema attac-
co-fuga (Fight-Flight System, FFS), e si attiva in presenza di stimoli nuovi
ritenuti dal soggetto minacciosi. L’animale può avere due reazione per di-
fendersi, ovvero attaccare o scappare nel tentativo di sopravvivere all’av-
versità postagli davanti e che potrebbe arrecargli danno. In una revisione
successiva del modello proposto da Gray sul sistema attacco/fuga è stata
aggiunta un’ulteriore risposta in condizioni avverse in cui lo stimolo non
è atteso, la risposta di congelamento (freezing), rinominando così l’intero si-
stema in attacco- fuga congelamento (Fight-Flight Freezing System, FFFS):
la reazione di congelamento viene attivata nel casi in cui l’evento temuto
appare inevitabile, mentre le altre due reazioni presuppongono un certo
grado di soluzione (attacco in uno stato di rabbia difensiva o scappo in uno
stato di paura in cui il mio organismo valuta la fuga come miglior risposta
per la sopravvivenza). Oltre che di fronte a pericoli reali (un predatore, lo
stesso uomo che può essere riassunto nella celebre locuzione latina “Homo
homini lupus”), il sistema FFFS può attivarsi in condizioni in cui non vi è
una vera e propria minaccia alla vita, bensì una minaccia personale, social-
mente peculiare che espone l’individuo ad un determinato rischio per lui
particolarmente valente (una discussione accesa, la sensazione di star per
essere sopraffatti o al contrario il tentativo di sopraffare l’altro, la percezione
di non aver controllo sulla situazione con inevitabile prevaricazione).
La revisione dell’originale teoria di Gray postula inoltre che il BAS è
sensibile non solo a stimoli condizionati i quali cioè arrecano una ricom-
pensa, ma attiva le sequenze comportamentali anche in condizioni di sti-
moli nuovi e quindi non ancora soggetti a condizionamento di reward; per
di più si ritiene che il BIS si attivi quando il soggetto posto di fronte a un
conflitto tra ricompensa e punizione si ritrova travolto da uno stato ansioso,
quando cioè il conflitto lo investe e la soluzione non è a portata di mano.
Le principali teorie della motivazione 21
1
Per un approfondimento sulla teoria dello sviluppo cognitivo del bambino vedi Piaget
(2000).
Le principali teorie della motivazione 29
2
Avere un locus of control interno significa attribuire la conseguenze di un determinato evento
alle proprie responsabilità e capacità, viceversa un locus of control esterno attribuisce le cause
a fattori esterni.
30 MANUALE DI PSICOLOGIA DEI PROCESSI MNESTICI E MOTIVAZIONALI
obiettivi perseguiti in modo solitario, molti dei compiti e degli scopi che
necessitano di motivazione intrinseca trovano un enorme sostegno quan-
do si è in presenza di relazioni solide che promuovono il comportamento
esplorativo; basti pensare a un fanciullo intento a scoprire il mondo (con la
sicurezza di poter tornare al nido) o un insegnante caloroso e cooperativo
rispetto ad uno freddo e distaccato: in tutti i casi in cui esplorazione, cu-
riosità e creatività vengono promosse, la motivazione ne trae giovamento.
Come è facile intuire, i tre elementi base su cui poggia la SDT (competen-
za, autonomia e relazionalità) sono interconnessi tra loro e sono parimenti
indispensabili. Ma cosa si può dire della regolazione attraverso la motiva-
zione estrinseca?
Nell’esempio precedente riguardo l’adolescente intento a studiare, si
nota come una motivazione proveniente dall’esterno può trasformarsi con
il tempo in una motivazione intrinseca, a seguito dell’inglobamento di nor-
me e valori condivisi e socialmente accettati nell’assetto di personalità di
quel determinato studente. Le motivazioni a impegnarsi in qualcosa pos-
sono originarsi da svariati motivi, come il conformarsi in modo passivo a
regole imposte dall’esterno, l’ammirazione verso qualcuno a cui si aspira di
assomigliare, oppure veri e propri interessi personali che inducono la per-
sona a persistere nel raggiungimento dell’obiettivo che si è posto; secondo
la SDT le diverse motivazioni dipendono dal grado con cui i valori e le
regolamentazioni del comportamento (inizialmente dati dall’esterno) ven-
gono interiorizzati e integrati nel proprio sistema valoriale, permettendo
una successiva regolamentazione comportamentale di tipo intrinseco.
SDT si propone di indagare quali sono i processi attraverso cui com-
portamenti inizialmente non auto-motivati possono realisticamente diveni-
re motivati intrinsecamente e il modo con cui l’ambiente sociale influenza
tali processi. Abbiamo precedentemente detto che motivazioni intrinseche
ed estrinseche si collocano lungo un continuum dove da una parte c’è un
comportamento rigidamente controllato dall’esterno, dall’altra parte invece
il prototipo dell’autodeterminazione, ovvero fare un’attività per il piace-
re di farlo e per il soddisfacimento personale percepito (l’apoteosi dell’au-
tonomia). Per quanto riguarda la motivazione estrinseca, la SDT assume
che esistano quattro tipologie a seconda del grado di interiorizzazione e
integrazione presente. Una prima tipologia, definita regolazione esterna,
è quella che concerne semplicemente rinforzi/ricompense facendo sì che
l’individuo sperimenti un locus of control prettamente esterno e quindi un
comportamento controllato rigidamente. Una seconda tipologia, definita
regolazione introiettata, prevede che la persona introietti una regola senza
tuttavia accettarla pienamente e si presenta in occasioni in cui si tenta di
evitare un senso di colpa, ansia o per cercare di mantenere sentimenti di
orgoglio (dimostrando ad esempio abilità); sebbene sia una forma di regola-
Le principali teorie della motivazione 31
zione meno controllata della prima, il locus of control rimane esterno perché
l’individuo si muove sotto spinte motivazionali che non gli appartengono
interamente. Il terzo tipo è la regolazione attraverso l’identificazione, in cui si
assiste ad una presa di consapevolezza sugli obiettivi ritenuti importanti e
personalmente accettati senza però esserci ancora una spinta intrinseca. In-
fine, la regolazione integrata avviene quando i regolamenti dettati dall’ester-
no vengono resi congrui con il proprio sistema di valori e bisogni; sebbene
possa sembrare un tipo di motivazione intrinseca, quest’ultima regolazione
ha ancora caratteristiche estrinseche poiché l’azione è mossa per ottenere
risultati senza tuttavia il puro soddisfacimento nel solo impegnarsi nell’atti-
vità in questione. Da qui l’idea del continuum per descrivere in modo più
esaustivo possibile la dimensione motivazionale umana.
Più le motivazioni estrinseche vengono interiorizzate più si ottengono
risultati migliori e ciò riguarda non solo il mondo scolastico ma anche la
sanità, la politica, l’esercizio fisico e altre svariate sfaccettature della realtà.
Anche le relazioni trovano vantaggi in quanto l’individuo può sperimentare
maggiore benessere, maggiore efficacia, volontà, persistenza nei compiti e
migliore integrazione all’interno dei gruppi sociali.
di altre materie di studio che vanno dalla biologia, alla chimica, alla me-
dicina, alla psicologia, proprio per il suo ruolo riconosciuto nello studio
dell’Uomo.
Tornando alle motivazioni, sappiamo quindi che esse hanno una straor-
dinaria valenza per la vita animale; sappiamo inoltre che la memoria riveste
un compito importante, poiché motivazione e memoria sono due funzioni
interconnesse: senza memoria non ci potrebbe essere l’apprendimento di
comportamenti motivati ad uno scopo preciso (affinandoli, talvolta sem-
plificandoli, ottenendo così massimi risultati) e senza apprendimento l’uo-
mo si troverebbe incastrato in un limbo perenne, privato della capacità di
imparare strategie di soluzione di problemi, nuovi comportamenti, atteg-
giamenti e nuove possibilità di evoluzione e miglioramento delle proprie
condizioni di vita. Motivato e dotato di sistemi di memoria differenti e
funzionali, l’uomo è in grado di “inventarsi” e “reinventarsi” a seconda delle
circostanze fisiche e psichiche in cui si trova.
gli autori della SDT il mancato raggiungimento del benessere (e nei casi
più gravi di psicopatologia conclamata) può derivare da problematiche col-
legate alla motivazione, in particolare dalla difficoltà di interiorizzare e inte-
grare elementi di motivazione estrinseca nel proprio assetto di personalità,
penalizzando inevitabilmente la motivazione intrinseca. Gli autori inoltre
sottolineando l’importanza dei tre bisogni fondamentali da loro proposti e
che riguardano senso di competenza, autonomia e relazioni, proponendo
che tali bisogni naturali siano da ricercare e soddisfare per l’intero arco della
vita affinché le persone possano sperimentare uno stato di benessere e, in
senso più filosofico, l’eudemonia 3. Concludono affermando che una buona
salute mentale dipende dal soddisfacimento più o meno raggiunto dei tre
bisogni fondamentali e che a veicolare tale processo è l’ambiente sociale in
cui l’individuo è immerso e che ha il compito di fornire supporto all’au-
tonomia, stimolare l’esplorazione e la curiosità allo scopo ultimo dell’au-
todeterminazione; è chiaro che le modalità con cui viene fornito sostegno
dipendono dai contesti e dall’età, è necessario quindi adattare tali modalità
a seconda delle condizioni in corso.
La teoria dell’attaccamento proposta da Bowlby e che ad oggi rappre-
senta la base di alcuni dei più efficaci trattamenti psicoterapici, mostra chia-
ramente quanto sia essenziale per il fanciullo in via di sviluppo muoversi
nel mondo, motivato dalle proprie figure di attaccamento le quali mostrano
non solo supporto all’autonomia, ma anche una base sicura da cui il pic-
colo ha la certezza di poter tornare: sorvegliato senza controllo coercitivo,
il bambino potrà sviluppare pienamente le sue facoltà cognitive, emotive
e autoregolatorie. Lo stesso Piaget descrive gli stadi di sviluppo cognitivo
come una serie di fasi in cui il soggetto impara a muoversi nel mondo,
manipolando progressivamente gli stimoli presenti nell’ambiente e interio-
rizzando l’esperienza.
La mancanza di motivazione diviene quindi un problema grave se per-
dura nel tempo, togliendo energia e vitalità all’individuo che smetterà via
via di nutrire le sue motivazioni intrinseche, le sue relazioni interpersonali
fonte di appagamento, fino alla triste condizione di incuria per la propria
persona.
Un’insufficiente motivazione è stata riscontrata in individui con dia-
gnosi di ADHD (disturbo da deficit di attenzione e iperattività) i quali, ol-
tre ai sintomi patognomici riscontrati, hanno dimostrato una carenza mo-
3
Parola greca che fa riferimento alla dottrina dell’eudemonismo che considera la felicità come
qualcosa di naturale per l’uomo il quale si impegna nel corso della vita al suo raggiungimento.
Tale dottrina va distinta dall’edonismo che rappresenta l’inseguimento del piacere immediato.
38 MANUALE DI PSICOLOGIA DEI PROCESSI MNESTICI E MOTIVAZIONALI
4
Il circuito di reward e i recettori di membrana per la dopamina sono i principali bersagli
della dipendenza patologica
5
In questo caso per freezing si intenda la brusca impossibilità di movimento ed è uno dei
sintomi maggiormente osservabili nella malattia di Parkinson.
40 MANUALE DI PSICOLOGIA DEI PROCESSI MNESTICI E MOTIVAZIONALI
lista di sillabe, dimostrando così ciò che è stato detto in precedenza, ovvero
che la modalità più efficiente è quella di distribuire il tempo dell’esercizio,
evitando di sovraccaricarsi in un unico sforzo.
Un ulteriore esempio di quanto l’esercizio distribuito anziché concen-
trato in poche sessioni è fattore determinante per un buon apprendimento
(inteso sia come rapidità che come miglioramento progressivo) è quello
proposto da Baddeley (1984). A Baddeley, uno dei massimi esperti e stu-
diosi della memoria umana, fu chiesto dal Ministero delle Poste britanni-
co di sviluppare un programma di insegnamento della dattilografia a un
cospicuo numero di dipendenti postali. Insieme ai suoi colleghi divise il
personale in 4 gruppi, ciascuno dei quali rientrava in una specifica modalità
di apprendimento per quanto riguardava il tempo e il numero delle sessioni
giornaliere: 1 sessione di 1 ora al giorno, 2 sessioni di 2 ore al giorno, 1
sessione di 2 ore al giorno, 2 sessioni di 1 ora il giorno. Fu così possibile
osservare sperimentalmente il tempo impiegato per imparare la dattilogra-
fia, in associazione con il numero di sessioni giornaliere. Lo studioso si
chiedeva: chi svolge una sessione al giorno di 2 ore, ad esempio, impara più
velocemente (con relativi miglioramenti nella prestazione) rispetto a chi
svolge 2 sessioni di 1 ora? Il lavoro che il Ministero della Posta britannico
chiese all’equipe di Baddeley fu un’occasione preziosa per verificare empiri-
camente i processi mnestici.
Da subito fu chiaro che il tempo necessario per l’apprendimento e i mi-
glioramenti dipendevano dallo specifico programma di addestramento di
cui ciascun impiegato faceva parte. Nello specifico, i risultati dimostrarono
che gli individui che si esercitavano solo un’ora al giorno avevano bisogno
di un numero inferiore di ore per imparare ad utilizzare la dattilografia
rispetto a coloro che trascorrevano due ore al giorno ad esercitarsi, i quali
a loro volta apprendevano più in fretta di coloro che trascorrevano quattro
ore al giorno ad addestrarsi. Fu inoltre osservato che i miglioramenti erano
più rapidi nel gruppo sottoposto a un’ora giornaliera di esercizio rispetto
agli altri gruppi; in aggiunta, trascorsi alcuni mesi senza ulteriori esercita-
zioni, i primi mostravano una ritenzione della capacità appresa maggiore
del resto dei gruppi che si erano allenati per più ore al giorno.
Sebbene i risultati dell’esperimento di Baddeley ci confermano l’effica-
cia dell’apprendimento distribuito nel tempo anziché concentrato, è anche
vero che non sempre è possibile, per motivi tecnici, metterlo in pratica,
Questo perché, come osservato dallo stesso autore, il grado di soddisfaci-
mento dei gruppi differiva in maniera opposta rispetto all’efficacia dell’ap-
prendimento: i soggetti che mostravano un miglior apprendimento e ri-
tenzione della capacità dattilografica dopo un intervallo di tempo di vari
mesi (1 sessione al giorno di 1 ora) erano coloro che mostravano maggiore
malcontento poiché in termini di numero di giorni essi avevano dovuto
46 MANUALE DI PSICOLOGIA DEI PROCESSI MNESTICI E MOTIVAZIONALI
fici sul valore del significato per i ricordi, valore oggi considerato innegabile,
criticando aspramente l’approccio del suo predecessore (Bartlett, 1932) che
aveva volutamente escluso dallo studio sperimentale materiale con signifi-
cato per creare procedure rigorose e imperturbabili e ottenere così dati og-
gettivi sul funzionamento della memoria. L’intuizione di Bartlett fu quella
di ritenere la natura del ricordo dipendente dal soggetto, ovvero che la me-
moria quando immagazzina l’informazione e successivamente la richiama
alla coscienza lo fa attraverso un processo di ricostruzione che scaturisce da
fattori personali. Più precisamente, quando un individuo ricorda un fatto
lo fa in base al suo punto di vista, alla valenza emotiva dell’accadimento
e ai suoi atteggiamenti peculiari, ricostruendo in modo interpretativo la
realtà e cercando di trovare significati il più possibile in linea con le sue ca-
ratteristiche. Bartlett osservò questa proprietà “ricostruttiva” della memoria
attraverso esperimenti di laboratorio in cui utilizzava materiale costituito
da brevi storie che il soggetto era chiamato a ricordare con più precisione
possibile. Nella vita reale gli assunti dello studioso trovano costanti confer-
me e questo si nota nel quotidiano, dalla descrizione di un match sportivo
(il cui il racconto subirà modifiche a seconda del tifoso che lo ricorda), al
resoconto di una lezione (a seconda del grado di interesse e motivazione del
discente), a casi più delicati come la testimonianza in un tribunale, in cui i
fattori emotivi e personologici svolgono un ruolo rilevante nel richiamo e
nell’affidabilità del ricordo (ci sono esperti del settore forense, ad esempio,
che sono tenuti a confermare o meno l’attendibilità di un testimone dal cui
racconto può dipendere un’intera sentenza).
Gli studi fin qui descritti, dai primi esperimenti di Ebbinghaus a quelli
successivi di Bartlett, fanno riferimento a un tipo di apprendimento di tipo
esplicito, detto anche dichiarativo, che consiste nel richiamo di materiale
precedentemente imparato in modo cosciente, con la sensazione cioè di
star ricordando qualcosa. Sia le sillabe senza senso di Ebbinghaus che le
parole con significato e i racconti di Bartlett, infatti, necessitano di uno
sforzo volontario affinché vengano richiamate alla mente, presupponendo
quindi un’intenzione volta al recupero delle informazioni immagazzinate.
Lo stesso vale per memorie di tipo episodico (che vedremo in seguito) i cui
ricordi che tornano alla mente sono espliciti e riferibili verbalmente, così
come le conoscenze semantiche.
Memoria: le ricerche della psicologia sperimentale 49
Fin qui si è discusso dei primi esperimenti che hanno reso la memoria
oggetto di studio sperimentale, passando in rassegna il ruolo della moti-
vazione, dell’organizzazione del materiale e del significato del ricordo sui
processi di recupero del materiale precedentemente immagazzinato, per poi
descrivere le varie categorie di apprendimento implicito. In questo paragra-
fo verranno approfondite le caratteristiche che consentono di discriminare
la memoria a breve termine (MBT) dalla memoria a lungo termine (MLT),
sopratutto per quanto riguarda la capacità di immagazzinamento dell’infor-
mazione, in termini di quantità e di durata della traccia, che differisce nei
due sistemi mnestici.
Con l’avvento del cognitivismo, la cui formalizzazione viene fatta ri-
salire a Ulric Neisser con la pubblicazione nel 1967 del volume Cognitive
Psychology, la visione della mente umana subisce un cambiamento: essa vie-
ne paragonata ad un elaboratore di informazioni simile ad un computer
e da cui dipendono le funzioni e le attività cerebrali; tutti i processi, dal
pensiero, alla percezione, al movimento, alla memoria ecc., vengono consi-
derati operazioni mentali elaborate in diversi sistemi 1.
Intorno alla fine degli anni Sessanta Atkinson e Shiffrin (1968) propo-
sero una teoria sul funzionamento della memoria basata su diversi processi
che si susseguono ad intervalli di tempo, il modello modale, successivamente
messo in dubbio e rivisto con il progredire degli studi in ambito mnemo-
nico. L’assunto principale di questo modello prevede che le informazioni
provenienti dall’ambiente siano codificate dapprima in una memoria sen-
soriale, da qui poi spostate nella memoria a breve termine e poi registrate in
modo definitivo nella memoria a lungo termine; esistono inoltre dei pro-
cessi di controllo deputati all’elaborazione dell’informazione entro ciascun
magazzino di memoria, tra cui attenzione, codifica, reiterazione e recupero.
La teoria di Atkinson e Shiffrin è senz’altro un’intuizione generale brillan-
te, tuttavia in essa si ritrovano alcuni limiti importanti, il primo dei quali
1
Oggi sappiamo grazie agli straordinari lavori provenienti dalle neuroscienze che, per quanto
esista una distinzione funzionale, i sistemi di elaborazione dell’informazioni sono tra loro
interconnessi
54 MANUALE DI PSICOLOGIA DEI PROCESSI MNESTICI E MOTIVAZIONALI
2
I due termini sono stati coniati da Neisser (1967).
I magazzini temporanei della memoria 55
3
Gli effetti recency e primacy verranno discussi in seguito a proposito della memoria a breve
termine.
I magazzini temporanei della memoria 57
prima tripletta della primissima prova non subiva alcun oblio (o comun-
que poco). Tale effetto che dai Peterson venne interpretato come semplice
dissolvimento della traccia a breve termine, fu analizzato successivamente
da altri autori i quali interpretarono i risultati dell’esperimento come in-
terferenza delle triplette precedenti (Keppel, 1962): se infatti la primissima
tripletta non subisce il fenomeno dell’oblio mentre esso incrementa con
l’aumentare delle prove, vuol dire che le triplette precedenti causano in-
terferenza con il materiale presentato in successione. Partendo da queste
osservazioni e attraverso l’utilizzo del paradigma della rievocazione libera,
è stato possibile rintracciare due noti effetti che avvengono nella MBT:
l’effetto di priorità (priority effect) e l’effetto di recenza (recency effect).
Innanzitutto bisogna descrivere brevemente il paradigma della rievocazione
libera: al soggetto sperimentale viene presentata una lista di parole (10, 20 o
30 parole) a cui poi si chiede (immediatamente o dopo un intervallo breve
di tempo) di rievocare quante più parole riesce a ricordare, senza badare
alla sequenza di presentazione degli item. I risultati ottenuti mostrano che,
indipendentemente dalla lunghezza della lista, gli item in prima posizione
vengono rievocati con maggiore probabilità (effetto di priorità) così come
quelli in ultima posizione (effetto di recenza): l’effetto di recenza ha luogo
solo quando la rievocazione è immediata e si degrada dopo un intervallo di
tempo in cui il soggetto è impegnato in un’altra attività (come il conteg-
gio). Tuttavia sono stati evidenziati effetti di recenza anche dopo un lasso
di tempo più lungo di alcuni secondi (come succede per prove sperimentali
di laboratorio). A livello più generale, infatti, è più facile che un individuo
ricordi meglio l’ultimo viaggio che ha fatto piuttosto che il penultimo, il
terzultimo e via dicendo, nonostante possa essere stato un viaggio non par-
ticolarmente entusiasmante. La memoria in questo caso per gli ultimi even-
ti ci permette di non confonderci e muoverci in modo più efficacie nell’am-
biente: ricordarsi ad esempio dove si è parcheggiata la macchina l’ultima
volta è un chiaro effetto di recenza perché consente di non confondersi con
la volta precedente in cui nello stesso luogo si è parcheggiata la vettura.
canismi alla base di questa processo mnestico a sua volta distinto in varie
sotto-componenti, ognuna con funzioni specifiche.
Come concettualizzato da Baddeley (1983) il termine memoria di lavo-
ro si riferisce a una magazzino temporaneo di informazioni necessarie allo
svolgimento di compiti cognitivi come leggere, trovare una soluzione ad un
problema (problem-solving), imparare qualcosa. Si tratta di una funzione
della memoria che permette di tenere a mente e al contempo elaborare le
informazioni necessarie allo svolgimento di un dato compito (es: eseguire
un’operazione aritmetica dove bisogna ritenere le cifre e manipolarle per
giungere a un risultato). Nell’ottica della psicologia cognitiva la WM fa
parte di quelle che vengono chiamate funzioni esecutive, con sede nei lobi
frontali, che consentono lo svolgimento di una moltitudine di attività tra
cui l’attenzione, la pianificazione (planning), la regolazione del comporta-
mento e delle emozioni. Un danno alle aree frontali può condurre a gravi
deficit comportamentali ed emotivi estremamente invalidanti, come nel
noto caso di Phineas Gage 4.
Quando in voga vi era il modello modale di Atkinson e Shiffrin la me-
moria di lavoro veniva fatta coincidere con la memoria a breve termine, ma
tale modello non spiegava alcune osservazione che via via emergevano dal
campo della neuropsicologia: alcuni pazienti con deficit alla MBT mostra-
vano una capacità di risoluzione di compiti articolati che prevedevano ad
esempio il ragionamento e la comprensione, dimostrando quindi di avere
integre abilità di svolgimento di attività complesse (Shallice, 1970) 5. No-
nostante la WM sia un magazzino temporaneo, in cui quindi le informa-
zioni ritenute sono transitorie, gli studi neuropsicologici indirizzano verso
una considerazione di essa come funzione distinta dalla MBT. Oggi è il
modello di Baddeley e Hitch (1974) quello maggiormente riconosciuto
come capace di descrivere in modo esaustivo la WM sia dal punto di vista
delle sue componenti sia da quello delle funzioni che adempie; passeremo
quindi in rassegna i contributi di questi studiosi che hanno permesso con le
loro ricerca di avere un quadro di funzionamento della memoria di lavoro
chiaro e approfondito.
Secondo il modello multicomponenziale la memoria di lavoro si com-
pone di tre elementi essenziali: il loop fonologico che è deputato alla ri-
tenzione di materiale acustico, il taccuino visuo-spaziale che ha funzione
4
Per un approfondimento sul tema vedi Damasio (1999).
5
Questo caso è l’esempio di un metodo neuropsicologico noto come dissociazione, la quale
può essere semplice o doppia (Làdavas, 1995).
62 MANUALE DI PSICOLOGIA DEI PROCESSI MNESTICI E MOTIVAZIONALI
lingua parlata. In linguistica per prosodia si intende quella parte della lin-
gua parlata che concerne l’intonazione, il ritmo e l’accento con peculiarità
diverse a seconda della lingua presa in esame (es. l’italiano si differenzia
dall’inglese o da qualsiasi altra lingua a livello delle modalità acustiche at-
traverso cui viene parlato). Alcuni studi hanno mostrato che compiti di
tapping (es: battere con le dita su un piano, scandendo un certo tipo di
ritmo) provocano un decremento dell’attività del loop fonologico allo stes-
so modo della similarità fonologica tra item (Saito, 1994), suggerendo che
esistano programmi motori deputati al discorso parlato che possono entrare
in interferenza con le funzioni del loop fonologico; in un secondo studio
è stata osservata una correlazione tra loop fonologico e memoria per il rit-
mo utilizzando compiti di digit span 6 e di tapping (Saito, 2001). Il loop
fonologico come processo fondamentale per la memoria di lavoro e per
l’acquisizione del linguaggio ottiene progressivamente prove significative e
non solo, sembra ampiamente dimostrato che esso sia utilizzato per con-
trollare il proprio comportamento come avviene in compiti di shifting 7, in
cui bisogna passare da un compito all’altro in rapida successione: i compiti
infatti subiscono netto peggioramento nel caso in cui ai soggetti sperimen-
tali viene attivata la soppressione articolatoria (Baddeley, 2001). Sembra
infatti che gli individui utilizzino delle autoistruzioni verbali per orientarsi
nei compiti e controllare i propri comportamenti, come evidenziato già
intorno alla metà del Novecento da Aleksandr Lurija (1959).
La seconda componente della memoria di lavoro è il taccuino vi-
suo-spaziale che al pari del loop fonologico svolge la funzione di ritenzione
ed elaborazione di stimoli, questa volta però di natura visiva. Esso consente
di svolgere compiti che presuppongono la manipolazione di immagini e in
generale il processo di immaginazione e, come nel caso del loop fonologico,
sono stati descritti effetti di interferenza che possono far decrescere le pre-
stazioni nella working memory. Un esempio di manipolazione visiva può
essere quello di creare un’immagine interattiva a partire da due immagini
non correlate tra loro: un coniglio e una buccia di banana possono essere
rappresentati interattivamente immaginando la buccia di banana come un
cappello sopra la testa del coniglio. In compiti sperimentali di immagina-
zione in cui è implicato il taccuino-spaziale si può chiedere ai soggetti di
6
Il Digit Span è un test utilizzato in neuropsicologia come misura della memoria ed è composto
dal Digit Forward (memorizzazione di cifre in avanti) e dal Digit Backward (memorizzazione
di cifre all’indietro).
7
Lo shifting dell’attenzione è utilizzato per valutare la flessibilità cognitiva nell’ambito delle
funzioni esecutive.
64 MANUALE DI PSICOLOGIA DEI PROCESSI MNESTICI E MOTIVAZIONALI
8
Il processo decisionale noto come decision making fa parte delle funzioni esecutive ed è
oggetto di studio delle neuroscienze cognitive.
I magazzini temporanei della memoria 65
9
Per un approfondimento sul WCST vedi Làdavas (1995).
66 MANUALE DI PSICOLOGIA DEI PROCESSI MNESTICI E MOTIVAZIONALI
“Io non verrò. Potrei essere ucciso. I miei parenti non sanno dove sono an-
dato. Ma tu”, disse, rivolgendosi all’altro,”potresti andare con loro”.
Così uno dei due giovani andò, mentre l’altro tornò a casa.
E i guerrieri continuarono su per il fiume, fino ad una città all’altro lato
del Kalama. La gente scese vicino all’acqua, incominciarono a combattere, e
molti vennero uccisi. Ma ben presto il giovane sentì dire da uno dei guerrieri
“Presto, torniamo a casa. L’indiano è stato colpito”. Allora egli pensò “Oh, sono
fantasmi”. Non sentiva dolore, ma essi dicevano che era stato colpito.
Così le canoe ritornarono ad Egulac, ed il giovane alla sua casa sulla spiag-
gia, ed accese il fuoco. E raccontò a tutti: “Pensate, ho accompagnato i fantasmi
e siamo andati a combattere. Molti dei nostri compagni sono stati uccisi, come
pure molti di coloro che ci attaccarono. Essi dicevano che ero stato colpito, ma
io non sentii affatto dolore”.
Raccontò tutto questo e poi si calmò. Quando il sole sorse, cadde a terra.
Qualcosa di nero gli venne fuori dalla bocca. Il suo volto si contrasse. La gente
balzò in piedi e gridò.
Era morto.
nella maggior parte delle condizioni essa risulti la più adatta per un buon
consolidamento delle traccie.
gici con deficit di natura mnestica. Sembra che la memoria semantica non
funzioni esattamente come una struttura gerarchica composta da nodi che
a seconda del grado di connessione si attivano e propagano ad altri nodi;
sembra piuttosto che il processo di categorizzazione semantica sia più com-
plesso e i dati provenienti dalla neuroscienze a dalle ricerche su pazienti am-
nesici dimostrano tale assunto di cui si parlerà in dettaglio nel capitolo 7.
Nel parlare di memoria viene in mente come prima cosa l’idea che essa
rappresenti il passato, che si tratti di conoscenze semantiche, eventi parti-
colari collocati in dimensioni spazio-temporali precise o fatti emotivamente
coinvolgenti. Dei processi mnestici fa parte tuttavia un’ulteriore tipologia
che, a differenza delle altre, ha come caratteristica principale quella di rife-
rirsi ad eventi che devono ancora succedere e quindi appartenenti al futuro.
La memoria prospettiva è quel tipo di magazzino di informazioni che rende
possibile fare programmi, ricordarsi di fare cose, presentarsi ad appuntamen-
ti, mettere in atto un’intenzione: in sintesi permette di realizzare nel futuro
qualcosa stabilito nel passato. Ricordarsi di andare ad una riunione, di pren-
dere il treno alle 13.02, passare in lavanderia a ritirare un vestito, sono tutti
esempi di come la memoria prospettica ci aiuti nel quotidiano. Inoltre si pos-
sono distinguere due categorie di compiti basati sul ricordo futuro: il ricordo
abituale che consiste nel rimembrare di svolgere una certa azione durante la
88 MANUALE DI PSICOLOGIA DEI PROCESSI MNESTICI E MOTIVAZIONALI
1
Per un approfondimento sulle possibili spiegazioni si rimanda alle discussioni dell’articolo
originale.
La memoria a lungo termine 95
cevoli quando si trovano in stati di umore basso, fino alla depressione, vi-
ceversa è più probabile recuperare episodi autobiografici positivi quando lo
stato emotivo è a sua volta positivo. Già Bower agli inizi degli anni Ottanta,
conducendo esperimenti su memoria e umore, ha trovato che la salienza
del ricordo aumenta quando in fase di recupero l’umore è il medesimo di
quello della fase della codifica; inoltre nelle condizioni in cui il il lettore era
impegnato nella lettura di una narrazione con un determinato connotato
emotivo, se il tono dell’umore del soggetto corrispondeva a quello della
storia letta allora il recupero a posteriori risultava maggiore. L’autore parla
di teoria della rete associativa, secondo cui un’emozione fungerebbe da unità
di memoria che può entrare in associazione con eventi in fase di codifica;
una volta attivata essa può fungere da facilitatore per il recupero di eventi
ad essa associati (Bower, 1981). In uno studio successivo, per testare la me-
moria dipendente dall’umore, Eich e colleghi (1994) hanno chiesto ai loro
soggetti di generare ricordi inerenti esperienze del loro passato (partendo da
una parola-suggerimento) inducendo uno stato emotivo piacevole o spia-
cevole in fase di codifica e successivamente inducendo il medesimo umore
nella fase di recupero a due giorni di distanza: gli autori hanno trovato che
nella condizioni in cui gli stati emotivi in codifica e recupero erano corri-
spondenti, la prestazione di richiamo era migliore rispetto ai casi in cui non
vi era congruenza.
principio della connessità tra nodi: più due concetti sono associati maggiore
sarà la probabilità che l’uno attivi l’altro, in un sistema di reti associative.
La memoria autobiografica, intesa come il magazzino in cui sono de-
positate le memorie del proprio passato, i ricordi personali della propria
vita, è considerato un magazzino a sé stante, benché presenti caratteristiche
comuni con i due tipi di memoria precedentemente descritti. L’importanza
dei ricordi autobiografici è ben deducibile dal fatto che l’essere umano sente
la necessità di sapersi raccontare in una storia personale coerente e le traccie
mnestiche legate a episodi particolare che lo riguardano in prima persona
sono elementi imprescindibili per questo processo esistenziale. Sono state
attribuite tre funzioni fondamentali alla memoria autobiografica che ri-
guardano la funzione direttiva (l’utilizzo dei ricordi di esperienze passate
per direzionare il proprio comportamento presente e futuro), la funzione
sociale ritenuta la più importante (attraverso i racconti e la condivisione
delle proprie esperienze personali si instaurano e mantengono relazioni in-
terpersonali e si insegnano ai più piccoli regole e cultura di appartenenza),
la funzione del sé che vede nei ricordi autobiografici una struttura su cui
costruire il proprio senso di identità personale. Quando si tratta di memo-
ria autobiografica bisogna fare accenno alle flashbulb memories, ricordi che
sembrano essere copie fedeli degli eventi accaduti, come scatti fotografici, la
cui accuratezza dipende dal coinvolgimento personale ed emotivo dell’in-
dividuo.
Infine, la memoria prospettica concerne quel magazzino di stimoli
proiettati al futuro, ovvero informazioni memorizzate che dovranno essere
ricordate in un futuro più o meno preciso (es: ricordarsi di ritirare il ve-
stito dalla lavanderia Martedì alle 18). Essa consente di fare programmi e
mettere in atto un’intenzione; sebbene non abbia goduto della medesima
considerazione in ambito sperimentale, gli studi condotti hanno dimo-
strato quanto le prestazioni in compiti di memoria prospettica dipendano
dall’importanza soggettivamente percepita (il compito è importante per
me), dai fattori incentivanti (la possibilità di ottenere incentivi estrinseci)
e dalla componente sociale (il compito è importante per un’altra persona).
In questo capitolo sono stati presi anche in considerazione i processi di
recupero delle informazioni. Affinché si verifichi il recupero è necessario
che la traccia sia accessibile, cosa che può non verificarsi in alcuni casi,
quando la persona ha la percezione di conoscere qualcosa senza tuttavia riu-
scire a richiamarla. Questo fenomeno noto come sulla punta della lingua
si presenta spesso e coinvolge la quasi totalità degli individui, aumenta con
l’età, accade più di frequente con nomi propri.
Quando attingiamo alla nostra memoria andiamo alla ricerca di quello
che viene definito ricordo-bersaglio, la cui elicitazione può essere facilitata
da suggerimenti. Sono state proposte teorie per spiegare il modo attraverso
102 MANUALE DI PSICOLOGIA DEI PROCESSI MNESTICI E MOTIVAZIONALI
cui avviene il processo di recupero, una delle quali afferma che sia la forza
delle associazioni tra stimoli a determinare il recupero di un target; più
il legame tra stimoli è forte maggiore sarà la probabilità con cui avverrà il
processo di propagazione dell’attivazione delle traccie tra loro connesse.
Inoltre il recupero è strettamente legato alla codifica: secondo il principio
della specificità della codifica, affinché un suggerimento risulti valido per
il processo di richiamo esso deve essere presente al momento dell’elabora-
zione del materiale, cosicché una volta attivato possa veicolare la ricerca
del ricordo-bersaglio facilitandone il raggiungimento. Tra i suggerimenti
che agevolano il recupero vi sono i suggerimenti contestuali e questo è par-
ticolarmente importante quando si analizza la memoria dipendente dal
contesto. Sappiamo che il recupero di un particolare ricordo è favorito dal
contesto ambientale, da quello cognitivo, dallo stato fisiologico e dall’umo-
re. Vari studi hanno dimostrato che l’ambiente può favorire il recupero (ma
poche sono le evidenze per compiti di riconoscimento) e ciò è particolar-
mente evidente quando il materiale appreso viene recuperato nel medesimo
ambiente in cui è stato acquisito in precedenza: l’indizio ambientale favo-
risce il processo di richiamo. È stata inoltre osservata l’importanza del con-
testo cognitivo per compiti di recupero e ciò si evince da studi che hanno
indagato l’apprendimento e il richiamo di materiale accademico in studenti
bilingue: quando il materiale appreso viene verificato attraverso test nella
stessa lingua la prestazione è migliore rispetto alle condizioni in cui la mo-
dalità linguistica è differente. Anche lo stato fisiologico sembra giocare un
ruolo sostanziale per il recupero e ciò è stato dimostrato in ricerche in cui è
stata manipolata l’attivazione cardiovascolare in soggetti impegnati in com-
piti di apprendimento: elicitando lo stesso stato fisiologico attivo in fase
di apprendimento il recupero si dimostrava migliore. Infine, la memoria è
correlata allo stato emotivo (si parla di memoria congruente con l’umore),
questo è chiaro se si pensa con quanta facilità tornano in mente ricordi
legati all’umore del momento piuttosto che ad un umore differente; ciò è
stato verificato da studi che hanno controllato lo stato emotivo durante la
codifica e il recupero delle informazioni, osservando una prestazione più
accurata nei casi in cui l’umore corrispondeva nelle due fasi. La memoria
dipendente dal contesto è un’ulteriore prova di quello che Tulving affer-
mava a proposito della specificità della codifica: affinché un suggerimento
contestuale possa risultare opportuno è necessario che esso sia presenta in
fasi di elaborazione dello stimolo, altrimenti non può fungere da innesco
per l’attivazione di un ricordo-bersaglio.
Durante il riconoscimento di un ricordo, sia esso un item di una lista di
parole o un evento del passato, possono essere attivati due processi. Il pri-
mo, chiamato recollection, si riferisce alla capacità di associare la memoria
target a dettagli specifici (quando è successo, dove è successo, che emozioni
La memoria a lungo termine 103
familiare subisce delle modifiche (si spostano i mobili, si cambia casa, cam-
biano le fisionomie delle persone che abbiamo intorno) quel suggerimento
ambientale non potrà più essere in grado di attivare la traccia-bersaglio che
per tante volte è stato capace di innescare, così come un umore presente in
un certo periodo può modificarsi con il tempo e rendere inaccessibili i ri-
cordi codificati in quel particolare stato emotivo. Se il contesto cambia (an-
che a causa dello scorrere del tempo) l’oblio può più facilmente verificarsi.
L’altro elemento correlato al fattore tempo, come responsabile del pro-
gressivo indebolimento della traccia, è l’interferenza, fenomeno che si ve-
rifica con l’accumulo di un numero sempre maggiore di esperienze che
vengono codificate in memoria sotto forma di traccia spesso molto simili
tra loro. Sappiamo infatti che la similarità tra ricordi rende il recupero più
complesso a causa della difficoltà di discriminazione; essendo l’uomo un
essere abitudinario, nella sua memoria verranno codificate per lo più in-
formazioni molto simili tra loro che renderanno il richiamo farraginoso
rispetto ad eventi peculiari meno ricorrenti. Nella ricerca sulla memoria
l’interferenza si riferisce alla ridotta capacità di ricordare un oggetto quando
esso è simile ad altri oggetti memorizzati. Ad esempio, se ogni giorno vado
a lavoro in auto percorrendo la solita strada, sarà difficile per me ricordarmi
ogni singolo giorno trascorso in macchina in quella tratta, ma sarà facile
ricordarmi di quella mattina di Dicembre quando ho fatto tardi a lavoro
perché il motore della macchina si era congelato a causa delle temperatura
scesa sotto zero durante la notte, rimembrano lo stato emotivo e i pensieri
che mi passavano per la testa in quella precisa tratta mentre imbottigliata
nel traffico tentavo di raggiungere il posto di lavoro (magari ricordandomi
anche il colore del piumino che indossavo). Talvolta la nostra capacità di
ricordare viene inibita dall’intrusione di ricordi di episodi simili, cosicché
non siamo in grado di selezionare il ricordo-bersaglio che in un dato mo-
mento occorre recuperare (si pensi al parcheggio di un centro commerciale,
evento abituale che però rischia di impedirci di recuperare l’esatto posto in
cui abbiamo parcheggiato quest’ultima volta poiché il ricordo di episodi
simili e usuali ci impedisce un’utile discriminazione tra eventi).
Gran parte degli studi moderni condotti sul fenomeno dell’interferenza
si rifanno ai lavori dei primi anni del Novecento, un periodo noto come
“epoca dell’interferenza classica” (McGeoch, 1936), successivamente Mi-
chael Anderson e James Neely (1996) hanno fatto dello studio dell’inter-
ferenza, e come essa si verifichi causando oblio, lo scopo delle loro più
importanti ricerche.
Le assunzioni di base della ricerca sull’interferenza descrivono il recupe-
ro come un processo composto da elementi memorizzati mediante collega-
menti associativi, per cui il richiamo di un dato ricordo-bersaglio procede
attraverso l’attivazione di questi segnali presenti al momento della codifica.
108 MANUALE DI PSICOLOGIA DEI PROCESSI MNESTICI E MOTIVAZIONALI
caso in cui andiamo dritti al parcheggio del giorno prima dimenticando per
un istante di aver parcheggiato da un’altra parte).
Le primissime ricerche sul disapprendimento come causa di oblio sono
state condotte negli anni Quaranta da Melton e Irwin (1940) i quali hanno
affermato che il mancato recupero nel compito delle coppie associate (uti-
lizzato per studiare l’interferenza retroattiva) non sia semplicemente causa-
to da un’occlusione, ma che esso si verifichi poiché le associazioni preceden-
temente imparate subiscono indebolimento conseguente l’apprendimento
di nuovo materiale. Il disapprendimento associativo, così chiamato, è stato
considerato simile al processo di estinzione nel paradigma del condiziona-
mento classico, il quale prevede che la diminuzione dell’emissione della
risposta causa la cessazione della stessa. Poiché l’idea di Melton e Irwin
considerava come fattori determinanti l’oblio incidentale sia l’occlusione
che il disapprendimento, la loro teoria è stata definita teoria dei due fattori
di interferenza.
Un’altra proposta per spiegare le cause dell’interferenza e diversificarla
entro quella retroattiva e proattiva parte dall’idea che due risposte a un
compito di memoria non possono essere simultaneamente associate ad un
singolo elemento. Nello specifico del paradigma delle coppie associate, non
possono coesistere in memoria nello stesso momento sia la coppia cane-pie-
tra che quella cane-cielo, dove cane è lo stimolo presentato nel compito di
recupero nel quale si chiede di associare questo item alla lista 1 o alla lista 2.
NB: questo disegno sperimentale è noto anche come paradigma A-B, A-D,
dove A (cane) è inteso come item di partenza a cui, a seconda dell’istruzione
data, dovrà essere associato B (pietra) o D (cielo). A causa di questa restri-
zione, quando ai soggetti che hanno già imparato l’associazione tra coppie
della prima lista si chiede di apprendere una nuova associazione di vocaboli
di una seconda lista, essi vengono costretti a codificare in modo differente
lo stimolo iniziale (lo stimolo cane inizialmente associato a pietra deve es-
sere codificato in associazione con cielo). Se al momento del recupero verrà
utilizzato esclusivamente l’apprendimento della seconda lista, la parola as-
sociata allo stimolo non verrà trovata all’interno del magazzino mnestico
elicitando l’effetto di interferenza retroattiva (l’item pietra non sarà acces-
sibile), viceversa se verrà recuperata solo prima lista allora l’associazione
richiamata sarà unicamente quella precedente causando interferenza proat-
tiva (in questo caso sarà l’item cielo a non essere accessibile). L’idea che sia il
tipo di codifica che viene recuperata al momento del processo di richiamo
ad essere la variabile che determina i due tipi di effetti di interferenza è
nota come Variable Stimulus Encoding Theory (non traducibile in italia-
no), formulata a fine anni Sessanta da Martin (1968). Per chiarire meglio
i principi di questa teoria fuori dall’ambiente di laboratorio si osservi il
seguente esempio. Durante una lezione universitaria incontri una tua vec-
112 MANUALE DI PSICOLOGIA DEI PROCESSI MNESTICI E MOTIVAZIONALI
chia conoscenza, una ragazza di nome Chiara con la quale giocavi a tennis
quando eri alle elementari (conoscenti legati al contesto sportivo) ma che
non hai più rivisto per anni; ancora una volta diventate amici occasionali,
ovvero il vostro rapporto si limita al solo ambito universitario. Vediamo
come questa situazione ecologica può essere la trasposizione del paradig-
ma A-B, A-D. Possiamo affermare che entro la tua memoria esistano due
rappresentazioni associative che si attivano pensando a Chiara (stimolo A),
una dei tempi delle elementari (conoscenze-stimolo B) e una riguardante
il periodo universitario (conoscenze-stimolo D). Quando ti viene posta la
domanda “come si chiama il fratello di Chiara?” due sono i possibili effetti
a seconda di quale tipo di recupero viene messo in atto: se accedo al periodo
universitario (D), attraverso la rappresentazione di Chiara come compagna
di studio, non riuscirò a dare la risposta, cosa che invece riuscirò a fare nel
momento in cui recupero la rappresentazione di Chiara come bambina che
giocava a tennis (B), la bambina che aveva un fratello di nome Luca che
spesso veniva a vedere le sue partite. Secondo la Variable Stimulus Encoding,
ciò che crea interferenza è la modalità di recupero della codifica delle asso-
ciazioni tra stimoli, le persone si muovono continuamente tra le associazio-
ni che possono riguardare stimoli accoppiati in modo differente a seconda
del periodo di tempo in cui è avvenuto l’appaiamento. Nell’esempio pre-
cedente, per rispondere alla domanda sul nome del fratello di Chiara è ne-
cessario recuperare le associazioni consolidate in precedenza, in un periodo
antecedente la formazione delle nuove associazioni dello stimolo Chiara.
Lo studio dei meccanismi di interferenza come fenomeno che danneg-
gia il recupero (a volte momentaneamente, talvolta invece in modo più
duraturo) permettono di tracciare nuovamente alcune caratteristiche della
memoria già menzionate in precedenza, ovvero la sua natura associativa,
l’importanza dei suggerimenti appropriati e di come essi possano mutare
con il tempo il loro grado di utilità e la forza delle connessioni tra item
che vanno a costituire il nostro magazzino di ricordi. L’interferenza causa
l’oblio, sia che si tratti di apprendimento di nuovo materiale, sia attraverso
le conoscenze precedentemente immagazzinate: che si tratti di vecchie o
nuove informazioni l’interferenza causa inaccessibilità alla traccia e impos-
sibilità di recupero.
1
Attualmente sono stati rilevati pochissimi casi di ipertimesia, decine di individui nel mondo.
116 MANUALE DI PSICOLOGIA DEI PROCESSI MNESTICI E MOTIVAZIONALI
era lo stesso, effetto che non si riscontrava nei giovani che richiamavano
la stessa quantità indipendentemente dal contenuto positivo o negativo.
Questo ultimo dato rafforza l’idea del bias di positività, corredandolo di
una caratteristica aggiuntiva: più passa il tempo più le persone tendono a
concentrarsi sulle proprietà positive delle situazioni, probabilmente perché
le motivazioni esistenziali cambiano: più si avanza con l’età e meno ci resta
da vivere per cui è sensato cercare di conservare il proprio benessere invece
che rincorrere scopi personali volti al futuro (cosa che invece, ovviamente,
interessa i più giovani nel pieno della loro vita e dei loro scopi e desideri).
Torneremo su questo punto nel paragrafo 6.7 a proposito di oblio ed età.
In linea generale l’oblio motivato consente all’uomo di dimenticarsi (o
almeno provare a dimenticarsi) di informazioni o eventi episodici sgradevo-
li o quanto meno percepiti come inutili. Nel primo caso si tratta di eventi
personali il cui ricordo può farci tornare alla mente una sofferenza che si
vorrebbe evitare, nel secondo caso l’oblio permette di sgombrare la testa da
informazioni che con il passare del tempo risultano irrilevanti o possibil-
mente dannose a causa di una probabile interferenza che potrebbero creare.
Si pensi, ad esempio, al caso di un cuoco a cui arrivano molte ordinazioni
in breve tempo e con la stessa brevità deve preparare i piatti richiesti: sarà
più vantaggioso per lui dimenticare in fretta le ordinazioni già completa-
te per evitare interferenze con le nuove e portare così a termine un buon
lavoro. Ecco che l’oblio sottolinea ancora una volta la sua natura adattiva.
A proposito dell’oblio motivato, un tipo che è stato grandemente stu-
diato, attraverso esperimenti di laboratorio, è quello definito oblio su istru-
zione (directed forgetting), il quale prevede che le persone siano in grado
di dimenticare intenzionalmente le informazioni rendendole quindi meno
accessibili ai tentativi di richiamo successivi (Bjork, 1968). Molti sono sta-
ti gli studi che hanno utilizzato un paradigma di apprendimento e sono
stati osservati interessanti effetti dovuti alla volontà diretta di dimenticare.
Esistono due varianti della procedura sperimentale usata per le ricerche su
questo tipo di oblio qui di seguito descritte.
L’oblio su istruzione con il metodo degli item: viene presentata una serie
di parole, ognuna di esse è seguita da una precisa istruzione, ovvero quella
di ricordare la parola oppure di dimenticarla, successivamente viene svolto
un compito di recupero su tutti gli elementi della lista proposta (Basden.
1996). Che si tratti di parole o immagini il risultato è lo stesso: i soggetti
recuperano meglio gli item la cui istruzione è stata quella di ricordare ri-
spetto a quelli che non dovevano essere memorizzati e questo è stato osser-
vato sia in compiti di richiamo che di riconoscimento. Molti studiosi sono
concordi nel ritenere che la causa di questo effetto di oblio sia la mancata
o insufficiente codifica del materiale che si verificherebbe a seguito dell’i-
struzione “dimentica” e che per qualche ragione bloccherebbe il processo
118 MANUALE DI PSICOLOGIA DEI PROCESSI MNESTICI E MOTIVAZIONALI
di ritenzione della traccia; alcuni hanno affermato che alla base di questa
dimenticanza ci potrebbe essere l’inibizione del loop fonologico (per item
verbali) e quindi la perdita della traccia per mancato “ripasso”.
L’oblio su istruzione con il metodo delle liste: viene presentata una lista di
parole e dopo una decina/ventina di item viene detto ai soggetti di dimenti-
carsi del materiale appena visto, utilizzando talvolta l’inganno: lo sperimen-
tatore può ad esempio dire che l’elenco di parole appena visto serve solo a
fare pratica, oppure far finta di aver sbagliato la lista da presentare invitando
i soggetti a dimenticarsene. Viene poi presentata una seconda lista senza
alcuna istruzione a dimenticare, successivamente i soggetti vengono sotto-
posti ad una prova di recupero su entrambe le liste oppure esclusivamente
sulla prima (quella cioè che avrebbe dovuto essere dimenticata). Confron-
tati con un gruppo di controllo, a cui sono state mostrate entrambe le liste
senza il compito di dimenticare (né l’una né l’altra), i soggetti del gruppo
sperimentale esibiscono prestazioni di recupero inferiori, effetto chiamato
costi di dimenticanza diretta (Liu, 1999); tuttavia il recupero del materiale
della seconda lista è maggiore, ovvero ricordano più elementi del secondo
elenco rispetto ai soggetti nell’altra condizione, effetto noto come benefici
del dimenticare (Bjork, 1970).
A differenza del primo metodo, il cui effetto di oblio viene attribuito
alla superficialità della codifica degli item “da dimenticare” evitando così il
verificarsi di una interazione proattiva, l’effetto di oblio su istruzione os-
servato con il metodo delle liste pare essere più un problema riguardante
le difficoltà riscontrabili nel processo recupero (ipotesi dell’inibizione del
recupero); tale spiegazione è supportata anche dall’evidenza che l’effetto, in
questo caso, concerne esclusivamente il richiamo ma non il riconoscimen-
to, in aggiunta ricerche successive hanno trovato che le liste “dimenticate
per istruzione” possono influenzare processi di memoria implicita (Bjork,
2003). È stata poi introdotta una nuova ipotesi che riguarda il cambiamen-
to del contesto mentale (ipotesi del cambiamento del contesto), la quale fa
riferimento agli studi già condotti a proposito degli effetti della fluttuazio-
ne contestuale per il processo di recupero (capitolo 5). Sahakyan e Kelley
(2002) non solo hanno ottenuto gli stessi risultati attraverso il metodo delle
liste, ma hanno anche osservato che se al momento della fase di richiamo
viene manipolato il contesto, attraverso un cambiamento di stato mentale
(indotto per mezzo di istruzioni), allora i soggetti sottoposti a questa condi-
zione sperimentale hanno prestazioni peggiori. Sia l’ipotesi di meccanismi
inibitori in fase recupero sia quella basata sul cambio di contesto possono
coesistere senza escludersi a vicenda.
Riguardo ancora il paradigma per indurre oblio attraverso istruzioni,
interessante è il risultato ottenuto da Harnishfeger e Pope (1996) che han-
no condotto la procedura sperimentale su bambini di diverse fasce di età
Quando la memoria non funziona: teorie dell’oblio e controllo cognitivo 119
meccanismi di selezione per mezzo dei quali viene recuperata solo l’infor-
mazione desiderata (il ricordo-bersaglio), quelli relativi all’inibizione del
ricordo che causano oblio incidentale (già discussi) e quelli che concernono
l’oblio motivato, durante il quale vi è un’intenzione a dimenticare.
Secondo le ipotesi più accreditate, a seguito di studi comportamentali,
le tracce mnestiche che vengono abitualmente inibite attraverso un con-
trollo consapevole perdono di forza e quindi divengono più difficili da re-
cuperare successivamente, dal momento che il loro grado di accessibilità si
affievolisce progressivamente. Inizialmente Aderson e colleghi hanno mo-
strato attraverso il paradigma della pratica del recupero (paragrafo prece-
dente) quanto l’effetto riscontrato sia in parte dovuto ad una inibizione di
materiale al fine di favorire l’accessibilità del materiale senza sovraccaricare
la memoria. I ricercatori si sono poi chiesti se alla base della soppressione
di ricordi di tipo intenzionale ci sia un controllo cognitivo e come esso
eserciti il suo ruolo all’interno della memoria. Infatti la funzionalità della
memoria nell’adattamento all’ambiente non si esaurisce con la selezione di
ricordi-bersaglio discriminati da altri ricordi risvegliati da analoghi indizi
contestuali, ma talvolta il suo compito è anche quello di impedire il riaffio-
rare di memorie sgradevoli, da eventi poco piacevoli a quelli francamente
traumatici. Eventi terrificanti come disastri naturali (terremoti, tsunami,
uragani ecc.) che si sono verificati negli ultimi anni hanno avuto un im-
patto forte che non si è limitato alla perdita delle proprietà fisiche (case,
terreni) ma anche alla manifestazione di un profondo effetto psicologico
che ha costretto le persone a un lungo periodo di nuovi adattamenti. Alcu-
ni di questi adattamenti riguardano l’imparare a convivere con ricordi in-
trusivi degli accadimenti che, quando sopraggiungono spontanei, possono
danneggiare la capacità delle persone di far fronte al disastro in corso. La
maggior parte delle persone fortunatamente elabora l’evento in un tempo
ragionevole, un’altra parte può purtroppo andare incontro a veri e proprio
traumi e a quello che in psicopatologia viene chiamato Disturbo da Stress
Post-Traumatico (Post-Traumatic Stress Disorder, PTSD). Molti studiosi,
tra cui Anderson e Levy, affermano che uno dei motivi alla base dell’a-
dattamento al nuovo scenario in cui la persona è immersa a seguito di un
evento negativo (sia di natura ambientale che personale) possa dipendere
dalla capacità di saper inibire ricordi legati all’episodio drammatico, allen-
tando così le associazioni con indizi contestuali e, in generale, indebolendo
l’accesso alla traccia.
Per studiare i meccanismi di inibizione intenzionale è stato proposto
un paradigma sperimentale che è una versione variata della nota procedura
go/no-go task (de-Zubicaray, 2000), il paradigma think/no-think (TNT).
Nel go-no-go task il soggetto deve premere un pulsante ogni volta che sullo
schermo compare una lettera (go), mentre deve arrestare l’azione ogni qual-
Quando la memoria non funziona: teorie dell’oblio e controllo cognitivo 121
Gli studi sullo sviluppo della memoria nel bambino hanno prodotto
innumerevoli risultati concordi nel ritenere che le funzioni mnestiche va-
dano incontro ad un incremento progressivo. Infatti i bambini più grande
codificano e immagazzinano più rapidamente il materiale, hanno tempi
di ritenzione maggiori, fanno un uso più efficacie dei suggerimenti per re-
cuperare le informazioni (dimostrando un uso più flessibile dei ricordi) e
riescono con più facilità a far riaffiorare tracce dimenticate attraverso indizi
appropriati (Hayne, 2004).
Sono stati condotte numerose ricerche sulla memoria autobiografi-
ca dei bambini anche molto piccoli che hanno dimostrato una capacità
molto precoce degli infanti nel ricordare eventi successi loro anche diverso
tempo prima. Ovviamente l’abilità di richiamare alla mente episodi per-
sonali dipende dall’età, bambini molto piccoli hanno prestazioni inferiori
in compiti di memoria episodica se confrontati con bambini più grandi,
sopratutto dai tre anni in su. Sebbene gli studi prodotti siano di grande
utilità per comprendere lo sviluppo delle funzioni mnestiche autobiogra-
fiche, Simcock e Hayne (2003) hanno sottolineato alcune criticità nelle
procedure sperimentali messe a punto in tale ambito: i risultati di molte
ricerche infatti si basano su resoconti verbali, senza tener conto del fatto che
lo sviluppo linguistico procede a tappe e in bambini piccoli ci possono es-
sere differenze sostanziali anche a distanza di pochi anni. Se a un bambino
sotto i due anni di età, con competenze linguistiche ancora limitate, viene
chiesto di raccontare un episodio specifico accadutogli in passato e poi lo
stesso viene chiesto ad un bambino di 4 anni (con competenze linguistiche
adeguate all’età) il risultato ovvio è quello di una prestazione migliore del
secondo. Ma come possiamo attribuire questa differenza nella prestazione
tra i due bambini esclusivamente allo sviluppo della memoria? È possi-
bile che la modalità linguistica possa influire in quanto il primo bambi-
no, ancora poco sviluppato da un punto di vista verbale, trova difficoltà
nell’esprimere i contenuti dell’episodio rievocato? Per testare questa ipotesi,
Simcock e Hayne (ibidem) hanno condotto l’esperimento della “macchina
magica”: in una “macchina” venivano messi oggetti grandi (es: un pupazzo,
una palla) che poi “magicamente” uscivano rimpiccioliti e a distanza di un
giorno i bambini partecipanti all’esperimento, compresi in una fascia di età
tra i 24 e i 48 mesi, venivano testati su tre compiti di memoria relativi a tale
esperienza. Il primo era un test di rievocazione verbale, i bambini cioè do-
vevano raccontare cosa fosse successo il giorno prima; il secondo prevedeva
un test di riconoscimento non verbale, in cui si chiedeva di riconoscere le
fotografie degli oggetti messi dentro la macchina magica; il terzo compito
Quando la memoria non funziona: teorie dell’oblio e controllo cognitivo 123
era una prova comportamentale in cui ai bambini era chiesto di dare una
dimostrazione della modalità di funzionamento della macchina. Come si
aspettavano gli autori, la prestazione al test di resoconto verbale era netta-
mente peggiore nei bambini piccoli rispetto alle capacità esibite negli altri
due test di natura non verbale; solo a partire dai 33 mesi i bambini avevano
una buona performance al primo test. Questi risultati conducono alla con-
clusione che i bambini possano ricordare materiale più di quanto la loro ca-
pacità verbale gli consenta di raccontare, dal momento che già a partire dai
27 mesi mostrano abilità di recupero notevoli che si osservano attraverso
la somministrazione di test di riconoscimento e compiti comportamentali
(che non presuppongono l’utilizzo del linguaggio); tuttavia la differenza
riscontrata tra bambini più piccoli e quelli più grandi (dai 33 mesi in su)
può essere dovuta alla facilità dei due compiti non verbali poiché i soggetti
non solo non necessitano di particolari abilità linguistiche, ma hanno a
disposizione una quantità di suggerimenti maggiore rispetto al test di rie-
vocazione verbale.
Dunque la memoria dei bambini a causa di limiti nelle procedure di
laboratorio è stata per lungo tempo sottostimata, sebbene sia un dato in-
dubbio quello che attesta una differenza sostanziale tra capacità mnestiche
a brevi distanze di età in bambini piccoli.
Gli studi sulla memoria nell’infante sono utili anche perché hanno con-
sentito di elaborare ipotesi circa le cause che sottendono quella che viene
comunemente chiamata amnesia infantile, un fenomeno riscontrabile nella
maggioranza delle persone e che è responsabile della perdita dei primissimi
ricordi dell’infanzia. Per spiegare la natura di questa curiosa dimenticanza
Hayne (2004) propone tre spiegazioni plausibili compatibili tra loro e che
si rifanno alle considerazioni citate all’inizio del paragrafo. La prima spie-
gazione concerne la velocità della codifica: i bambini più grandi codificano
materiale in tempi più rapidi, creando innegabilmente delle rappresenta-
zioni mnestiche più ricche e accurate che possono successivamente guidarli
nel processo di recupero per mezzo di segnali di richiamo (simultaneamen-
te codificati insieme al ricordo-bersaglio) in modo più facilitato, cosa di cui
non possono servirsi i bambini più piccoli. In secondo luogo l’intervallo
di ritenzione delle tracce codificate aumenta considerevolmente con l’età,
quindi in bambini molto piccoli se l’oblio avviene entro pochi giorni o
settimane non sorprende il fatto che i ricordi divengano inaccessibili suc-
cessivamente; inoltre con l’età anche la capacità di recuperare ricordi che
sembravano perduti viene potenziata, assieme all’abilità di utilizzare sugge-
rimenti appropriati e creare associazioni tra indizi e ricordi-target. Infine,
il ruolo del contesto, altamente mutevole, può giocare un ruolo poiché
ricordi molto precoci delle primissime esperienze di vita sono stati codifi-
cati insieme a elementi contestuali peculiari che non è possibile replicare in
124 MANUALE DI PSICOLOGIA DEI PROCESSI MNESTICI E MOTIVAZIONALI
simultaneità (se i risultati delle varie operazioni cognitive non sono sincroni
allora quelli prodotti prima potrebbero non essere più disponibili quando
le altre operazioni vengono completate) ; b) un declino delle risorse atten-
tive; c) una riduzione nell’efficacia dei processi inibitori.
In generale possiamo affermare che il decadimento cognitivo dovuto
all’età è un processo a cui il cervello non può sottrarsi fino in fondo, poi-
ché l’architettura neuronale si depotenzia, le connessioni sinaptiche si in-
deboliscono creando rallentamenti delle funzioni mentali a più livelli. È
pur vero che un cervello allenato avrà meno possibilità di incorrere in un
drammatico declino o quanto meno riuscirà a posticipare la sua sfioritura
per maggior tempo. La memoria è sicuramente una delle funzioni che più
si presta all’evidenza del decadimento, dal momento che essa rappresenta la
nostra identità, la nostra storia di vita, complessivamente il nostro sé, per
cui anche un lieve calo nelle prestazioni mnestiche può essere vissuto con
profondo allarme e angoscia.
Per quanto riguarda la codifica e il richiamo, Jacoby (1999) ha trova-
to un interessante effetto (da lui definito “ironico”) che mostra differenze
importanti tra individui di età diverse. Egli ha sottoposto giovani e anziani
ad un compito di “esclusione” in cui i partecipanti inizialmente leggevano
delle parole e ne udivano altre per poi essere testati successivamente: essi
erano istruiti a rispondere “si” quando sullo schermo del computer com-
pariva una parola che avevano udito precedentemente e rispondere “no”
quando la parola sullo schermo era una di quelle lette prima. I falsi allarmi
(es: rispondere “si” a parole lette o “no” a parole udite) dei soggetti giovani
diminuivano con la ripetizione del compito, mentre un effetto opposto è
stato trovato negli anziani, ovvero la ripetizione degli item causava peggio-
ramento nella performance. Risultati simili sono stati riscontrati da Foley
e colleghi (1997) in un compito di “discriminazione della fonte” in cui
veniva chiesto ai partecipanti di giudicare se le parole presentate erano sta-
te precedentemente lette, ascoltate oppure non studiate: i soggetti anziani
dimostravano una performance peggiore, ovvero avevano meno capacità di
ricordare la modalità con cui lo stimolo era stato presentato in precedenza
(fonte). Il problema della fonte, in senso più ampio, si riscontra con l’a-
vanzamento dell’età; in relazione alla memoria episodica, infatti, affinché
ci sia adeguato richiamo di un evento è necessario il recupero di alcuni
aspetti del contesto originale in cui si è formata la traccia (dove e quando
l’evento ha avuto luogo) e di informazioni fattuali associate alla fonte (es:
se il materiale è stato appreso da una conversazione o da una fonte autore-
vole) e tali abilità si indeboliscono con l’età, decremento associato al decli-
no dell’efficienza dell’attività nei lobi frontali (Craik, 1990). Il gruppo di
lavoro di Craik (2005) ha individuato tre fattori che potrebbero spiegare il
peggioramento della memoria episodica nell’anziano: a) declino complessi-
Quando la memoria non funziona: teorie dell’oblio e controllo cognitivo 127
L’invecchiamento è una tappa con cui tutti noi dobbiamo fare i con-
ti. Che ci piaccia o no, prima o poi i nostri neuroni si impoveriranno, le
connessioni tra loro perderanno di efficacia e assisteremo ad un progressivo
declino di parte delle nostre funzioni cognitive. La memoria non andrà di
certo risparmiata, sebbene nel capitolo 9 verrà rimarcato quanto sia impor-
tante allenare il nostro cervello per tenerlo costantemente in forma, come
un muscolo che va stimolato per evitarne l’atrofizzazione. In questo para-
grafo vedremo come l’invecchiamento influisce sulle prestazione mnestiche
del magazzino a breve termine, in particolare la memoria di lavoro, di con-
seguenza può essere considerato un approfondimento di quello precedente.
La memoria, essendo costituita da una varietà di componenti, non declina
in modo unitario e risente inoltre di un forte fattore individuale; non tutti
decliniamo allo stesso modo, alcuni più altri meno, le cause di questa di-
versità possono avere origini differenti, da fattori genetici, vulnerabilità,
mancanza di allenamento mentale o al contrario potenziamento cognitivo
attraverso attività stimolanti, esperienze di vita stressanti e così via.
Per quanto riguarda la memoria a breve termine, essa sembra preservare
la sua efficienza, infatti nonostante vi sia una diminuzione dello span di me-
moria verbale e di memoria visiva, esso tende a decrescere lentamente e non
in modo brusco. Il problema sembra riguardare non tanto la quantità di
materiale immagazzinabile all’interno dei magazzini a breve termine, quan-
to piuttosto la capacità di manipolare le informazioni, mantenere le infor-
mazioni rappresentate mentalmente e utilizzarle per svolgere un determi-
nato compito, tutte facoltà che implicano il coinvolgimento della working
memory. Sembra che le difficoltà riscontrabili in compiti di WM siano da
attribuire a fenomeni di interferenza, in particolare quella proattiva (Tra-
xler, 1973); i soggetti anziani avrebbero difficoltà a inibire informazioni
irrilevanti (Hasher, 1988) e questo sarebbe causa di un loro declino nelle
prestazioni di memoria di lavoro. Per testare questa ipotesi May e colleghi
(1999) hanno condotto un esperimento con soggetti giovani e anziani che
prevedeva la somministrazione di ripetute prove di sentence span task (legge-
re delle frasi e ricordare l’ultima parola di ciascuna) in cui veniva manipola-
ta l’interferenza proattiva. Infatti, a metà soggetti sono state somministrate
prove crescenti, ovvero la prima conteneva 2 frasi, la seconda 3, la terza 4,
mentre l’altra metà eseguiva le prove in ordine decrescente (4 frasi, 3 frasi,
2 frasi). Nei classici compiti sperimentali si parte da prove più semplici per
poi progredire verso quelle più complesse, in modo da valutare la presta-
zione nel crescere della difficoltà; in questo esperimento invece è stato fatto
l’inverso per metà dei partecipanti ed è stato notato che per il gruppo degli
130 MANUALE DI PSICOLOGIA DEI PROCESSI MNESTICI E MOTIVAZIONALI
traccia viene richiamata tanto maggiore sarà la probabilità che essa incorra
ad oblio. Il controllo cognitivo esercitato su alcuni eventi spiacevoli può
essere altamente adattivo, sopratutto in casi di episodi drammatici, come
disastri naturali, dopo i quali le persone sono costrette ad assimilare la nuo-
va situazione senza perdere la capacità di fronteggiamento della sofferenza
causata dalla condizione stessa in cui si trovano. I dati ottenuti dal paradig-
ma sperimentale think/no-think hanno comprovato l’efficacia dell’intenzio-
ne a dimenticare in compiti di recupero, dimostrando che l’individuo può
attivamente decidere di inibire alcuni ricordi; infatti per gli item che si de-
vono memorizzare si osserva un effetto di controllo positivo, ovvero vengono
richiamati alla mente con più facilità, viceversa gli item di cui è stato detto
di dimenticarsi vanno incontro a oblio con più probabilità, per mezzo di
un effetto di controllo negativo.
Un’esperienza di oblio comune alla maggioranza delle persone è quel-
la che riguarda l’incapacità di accedere ai primissimi ricordi dell’infanzia,
fenomeno noto con il nome di amnesia infantile. Gli studi che si sono
focalizzati sullo sviluppo della memoria nei bambini hanno osservato che le
abilità mnestiche progrediscono con l’età e in particolare pare che i primi
ricordi autobiografici possano formarsi solo a partire dai 33 mesi di vita.
Sono state avanzate tre interpretazioni per spiegare questa forma di oblio:
a) la velocità di codifica: i bambini molto piccoli hanno tempi di elabora-
zione più lenti rispetto ai loro compagni più grandi che possono codificare
materiale con più accuratezza e servirsi di segnali di recupero durante il
processo di richiamo; b) l’intervallo di ritenzione: i bambini molto piccoli
presentano una capacità di ritenzione del materiale appreso molto bassa e
la traccia decade con tempi inferiori, diventando così inaccessibile in un
momento successivo; c) il contesto mutevole: dal momento che il processo
di recupero si serve di suggerimenti e che il contesto in cui vengono fatte
le primissime esperienza di vita ha caratteristiche peculiari impossibili da
riprodurre in tempi successivi, sarà inevitabile una perdita della traccia a
causa della mancanza di indizi per il richiamo.
Ulteriori spiegazioni sono state fornite per illustrare le possibili cause
dell’amnesia infantile. Una spiegazione è quella dello sviluppo del sé co-
gnitivo, senza il quale il bambino non può costruire ricordi autobiografici,
dunque esperienze antecedenti non possono essere registrate in quanto non
ancora percepite come appartenenti alla dimensione personale; un’altra in-
terpretazione è quella fornita dalla teoria socioculturale, secondo cui il
linguaggio e la cultura sono fondamenti imprescindibili per lo sviluppo
di memorie personali. Il ruolo del linguaggio nella genesi di ricordi auto-
biografici è ampiamente suffragato da prove sperimentali: la competenza
linguistica crea il presupposto affinché un individuo riesca a raccontarsi ed
elaborare con più accuratezza gli eventi della sua vita.
134 MANUALE DI PSICOLOGIA DEI PROCESSI MNESTICI E MOTIVAZIONALI
1
All’epoca dell’esperimento, 1970, si era ancora nel pieno degli studi volti a dimostrare
l’esistenza di magazzini di memoria distinti.
140 MANUALE DI PSICOLOGIA DEI PROCESSI MNESTICI E MOTIVAZIONALI
zero Claparède (1911) che racconta di come una volta, durante un giro di
visite, nascose uno spillo nella mano stringendo la mano ad una paziente,
la quale il giorno dopo, pur non ricordando il motivo, si rifiutò di stringere
nuovamente la mano al dottore. L’apprendimento tramite priming è stato
confermato in diversi esperimenti (Warrington, 1968), cosi come l’appren-
dimento motorio (già osservato in H.M.), come ad esempio l’aumento di
abilità a seguito di pratica ripetuta (Brooks, 1976).
nesia come un generale problema nel recupero del materiale non spiega
come mai esistano quadri clinici variegati, pazienti cioè con amnesia sia
anterograda che retrograda (a livelli di gravità diversi), oppure solo con una
o l’altra tipologia di amnesia.
noto scienziato che prima di sviluppare la sindrome aveva scritto la sua au-
tobiografia i cui eventi descritti non erano stati per lui più accessibili negli
anni successivi, a seguito dello sviluppo di un’amnesia retrograda; dal mo-
mento che per scrivere un’autobiografia è necessario aver appreso i ricordi, i
due ricercatori avevano concluso che non vi era la possibilità della presenza
di amnesia anterograda precedente la malattia.
Indipendentemente dalle interpretazioni differenti proposte, un dato
generalmente riscontrato nello studio dell’amnesia retrograda è costituito
dal gradiente temporale, un principio che si rifà alla teoria di Ribot. I mo-
delli proposti come spiegazione di questo fenomeno peculiare riguardano
i meccanismi attraverso cui si verifica il consolidamento, inteso qui non
come processo neurobiologico a livello cellulare, ma in senso più ampio
come consolidamento sistemico (Alvarez, 1994). Per consolidamento si-
stemico si intende il trasferimento di informazione immagazzinata da un
sistema anatomico ad un altro, in particolare il passaggio dall’ippocampo,
in cui l’immagazzinamento è rapido ma temporaneo, alle aree della neo-
corteccia in cui la traccia diviene più solida e permanente. Se non viene
sufficientemente trasferita dalle regioni ippocampali la traccia potrebbe es-
sere vulnerabile al decadimento e quindi agli effetti devastanti dell’amnesia,
mentre potrebbe irrobustirsi una volta raggiunte le aree corticali, un pro-
cesso che, come abbiamo più volte specificato, richiede tempo.
Secondo l’ipotesi delle tracce multiple (Nadel, 1997) il ruolo pro-
minente nel processo di consolidamento è rivestito dall’ippocampo e non
dalla neocorteccia; nell’ippocampo si andrebbero a formare molte repliche
delle esperienze passate per cui un danneggiamento in quest’area condur-
rebbe alla cancellazione di parte dell’informazione, inoltre, dal momento
che i ricordi più vecchi sono più numerosi, essi avrebbero più probabilità di
salvarsi dal decadimento a seguito dell’insorgenza dell’amnesia retrograda.
Gli studi sull’amnesia finora eseguiti non possono per adesso protendere
verso spiegazioni esclusive circa i processi di consolidamento.
brale, nello specifico si sviluppa una atrofia corticale che può essere globale
oppure localizzata ad aree specifiche, in particolare le regioni temporo-pa-
rieto-occipitali e i lobi frontali (Làdavas, 2014). A livello microcellulare i
segni caratteristici che consentono una vera e propria diagnosi sono le plac-
che amiloidi e i gomitoli neurofibrillari. Le placche amiloidi sono il risulta-
to di una scissione anomala della proteina beta-amiloide che si accumula e
che porta al rilascio di un peptide tossico che a sua volta conduce a morte
neuronale; i gomitoli neurofibrillari sono invece fasci di filamenti che si cre-
ano in corrispondenza dei microtubuli che consistono in filamenti di soste-
gno nutritivo ai neuroni e che a causa di questa formazione anomala vanno
incontro a collasso, non potendo quindi più svolgere la loro funzione. Si
stima che la malattia di Alzheimer colpisca il 10% della popolazione al di
sopra del 65 anni di età ed essa rappresenta una condizione estremamen-
te ingravescente sia per il paziente sia per i famigliari e le persone vicine.
L’individuo affetto da questa malattia perde progressivamente la memoria,
non riuscendo più a riconoscere i volti e i luoghi che prima dell’insorgenza
della patologia gli erano familiari, creando un distacco drammatico tra lui
ed il mondo circostante. Quando a proposito della memoria autobiografica
sono state descritte le funzioni principali a cui essa è deputata, sono stati
sottolineati gli scopi sociali, quelli ritenuti cioè più importanti per l’essere
umano: raccontare e sapersi raccontare, condividere esperienze del proprio
passato remoto e recente, permette di incrementare coesione tra individui
e quindi stabilire e mantenere rapporti sociali saldi e appaganti. Le persone
con malattia di Alzheimer devono però fare a meno di questa fondamentale
funzione sociale poiché i loro ricordi si affievoliscono fino a scomparire;
questo crea enorme sofferenza emotiva, incapacità di darsi direzionalità nel-
la vita e perdita di un senso integrato di sé, tutte conseguenze drammatiche
per l’esistenza.
Nel corso della malattia possono comparire sintomi aggiuntivi, come
quelli di natura cognitiva o psichiatrica, tuttavia i segnali più tipici e carat-
terizzanti riguardano comunque la funzione della memoria che può essere
compromessa a livelli diversi. La maggioranza dei pazienti che giungono
alla consultazione medica, infatti, si presenta poiché lamenta problemi le-
gati a disturbi della memoria dapprima riguardanti la quotidianità, come
il dimenticarsi i nomi delle persone o non ricordarsi dove si è riposto un
oggetto. La malattia si manifesta inizialmente con disturbi mnestici relativi
alla sfera episodica, con una amnesia di tipo anterogrado riferita a fatti della
vita quotidiana, un deficit che colpisce un tipo di memoria che gli anglosas-
soni chiamano ongoing memory; il paziente infatti scorda con molta facilità
ciò che ha fatto durante il giorno, dimostrando un mancato immagazzi-
namento della traccia. Si osservano compromissioni anche della memoria
prospettica che si traducono con dimenticanze per appuntamenti presi,
152 MANUALE DI PSICOLOGIA DEI PROCESSI MNESTICI E MOTIVAZIONALI
2
Il soggetto con anomia riconosce l’oggetto ma non sa nominarlo.
L’amnesia e i deficit neuropsicologici 153
dai primi stadi di insorgenza, poiché alcuni autori sostengono che nelle
prime fasi vi sia un certo grado di integrità e che i danni siano associati
alla gravità e alla durata della patologia (Broks, 1996). A questo proposito
una ricerca di Baudic e collaboratori (2006) ha voluto testare le funzioni
esecutive di pazienti affetti da Alzheimer dividendoli in due gruppi (sulla
base dei punteggi ottenuti al Mini-Mental State Examination, un test neu-
ropsicologico che valuta il deterioramento cognitivo): molto lievi e lievi.
Sottoposti ad una varietà di compiti concernenti le funzioni esecutive 3, i
pazienti molto lievi hanno evidenziato deficit su compiti di memoria a bre-
ve termine visuospaziale, memoria episodica, abilità di flessibilità cognitiva
e automonitoraggio, formazione di concetti e ragionamento; i pazienti ca-
tegorizzati come lievi (e quindi in una fase più avanzata di deterioramento
cognitivo) sono risultati compromessi anche in test di similarità. Questo
studio ha il merito di aver dimostrato quanto l’indebolimento delle funzio-
ni esecutive e della memoria possa verificarsi anche a stadi molto precoci
della malattia.
3
Per approfondimenti sulle procedure sperimentali e i test utilizzati per ciasciuna funzione
esecutiva presa in esame si rimanda a Baudic (2006).
154 MANUALE DI PSICOLOGIA DEI PROCESSI MNESTICI E MOTIVAZIONALI
4
Nella sindrome disesecutiva frontale i circuiti della corteccia prefrontale responsabili delle
funzioni esecutive vanno incontro ad alterazioni con conseguente compromissione delle
funzioni cognitive che essi controllano.
L’amnesia e i deficit neuropsicologici 155
unilaterale temporale destra, sebbene non sia del tutto compromessa, dal
momento che questi pazienti sono in grado di eseguire il compiti in modo
corretto se il riconoscimento non è intervallato.
1
Il nome si deve a Paul Broca ed è un insieme di strutture disposte ad anello attorno al tronco
dell’encefalo.
Emozione, motivazione e memoria 163
mozione svolga un ruolo facilitante nel recupero del ricordo e che questo
sia dovuto da un miglioramento che si verifica sia in fase di codifica sia in
fase di consolidamento della traccia. Inoltre all’eccitazione emotiva è stata
attribuita una funzione evolutiva importante poiché essa segnala la natu-
ra di stimoli appetitivi o avversivi, stimoli cioè che potrebbero avere una
rilevanza immediata o futura per la conservazione della specie e dunque
non solo permette una salvaguardia immediata, ma anche la possibilità di
muoversi nell’ambiente con informazioni vitali per la sopravvivenza, attra-
verso il ricordo dell’esperienza (positiva o negativa). Per quanto riguarda
i vantaggi dell’arousal sui processi mnestici, essi vanno talvolta incontro
a incremento nel corso del tempo; è stato infatti osservato che il ricordo
di materiale emotivo rispetto a materiale neutro sia migliore quando la
memoria viene testata dopo un intervallo di tempo lungo (da un’ora a un
giorno) piuttosto che quando il recupero è immediato (LaBar, 1998). Que-
sta osservazione può essere interpretata alla luce del fatto che alla codifica
con la quale si crea un’iniziale rappresentazione della traccia fa seguito un
processo di consolidamento, più lento, che quindi potrebbe giovare dell’ef-
fetto dell’attivazione emotiva man mano che procede gradualmente (Ha-
mann, 2001). Studi neuropsicologici confermano tale assunzione, poiché
pazienti con danni ai lobi temporali mediali non riescono ad usufruire dei
benefici dell’attivazione emotiva che emergono con il tempo facilitando il
processo di consolidamento, mostrando lo stesso grado di dimenticanza sia
per stimoli emotivi che neutrali (Phelps, 1998). Inoltre è ormai indubbio
il ruolo prominente dell’amigdala, struttura che si trova nel lobo temporale
mediale, sull’apprendimento di tipo emotivo. Le prime ipotesi avanzate sul
coinvolgimento dell’amigdala per le emozioni sono state avanzate a seguito
di un’osservazione fatta da Heinrich Klüver e Paul Bucy (1939) a proposito
del comportamento assunto da alcune scimmie selvatiche che dopo l’espor-
tazione bilaterale del lobo temporale divenivano docili e addomesticate,
prive di evidenti reazioni emotive oltre ad avere tendenze orali estese (met-
tevano in bocca tutto ciò che trovavano sia commestibile che non), aumen-
tato appetito sessuale e incapacità di riconoscere stimoli familiari, sebbene
vista e attenzione fossero intatte. Questa sintomatologia definita sindrome
di Klüver-Bucy è stata poi indagata ulteriormente scoprendo che le altera-
zioni emozionali presenti in questo quadro sono dovute principalmente da
lesioni all’amigdala piuttosto che a aree ippocampali più strettamente legate
alla memoria di tipo cognitivo (Kandel, 1999). Successivamente sono state
prodotte numerosissime prove volte a corroborare i risultati e mettere in
relazione emotività e memoria. Pazienti con lesioni all’amigdala infatti non
mostrano suscettibilità a stimoli emotivi, come si evince da esperimenti in
cui viene misurata la conduttanza cutanea che rimane intatta di fronte alla
visione di video che raccontano storie a contenuto emozionale: essi tendo-
Emozione, motivazione e memoria 165
2
Positron Emition Tomografy (PET), una tecnica di neuroimaging che permette di osservare
l’attività del cervello in vivo.
166 MANUALE DI PSICOLOGIA DEI PROCESSI MNESTICI E MOTIVAZIONALI
La ricerca sul recupero di eventi del passato che per molto tempo sono
stati sepolti nella memoria, senza la possibilità di un accesso cosciente, ha
focalizzato le sue indagini per lo più su casi di abuso. La storia recente è
piena di casi in cui dopo anni di dimenticanza un ricordo traumatico di
un abuso subito riaffiora alla memoria con tutto il suo impatto emotivo
e giudiziario. Gli studi sulla memoria dicono che i ricordi non sono copie
esatte di esperienze passate ma ricostruzioni fatte attraverso schemi perso-
nali che orientano la natura del ricordo; è stato inoltre messo in evidenza
quanto ad ogni recupero si creino tracce nuove sul recupero stesso, cosicché
la volta successiva in cui verrà richiamata la traccia l’individuo avrà il ricor-
do in qualche modo modificato dalla precedente esperienza di richiamo.
Questa natura ricostruttiva che, come vedremo nel paragrafo successivo,
è una caratteristica fondamentale nello studio delle false memorie e della
testimonianza, ha portato gli studiosi della memoria a chiedersi se e quan-
do un ricordo può essere recuperato, se cioè da una rimozione (nel senso
psicoanalitico del termine) possa riaffiorare un ricordo perduto da anni.
Baddeley (2011) riporta tre casi di persone che dicono di aver recuperato
un ricordo rimosso per anni di abusi subiti e in ciascun racconto il processo
di recupero del ricordo traumatico avviene secondo modalità distinte. Nel
primo caso, una donna con sintomatologia depressiva dopo essersi rivolta
assieme al marito ad una consulente matrimoniale, nel tentativo salvare il
loro matrimonio giunto ad un punto critico, inizia una terapia psichiatrica
in cui fin da subito le viene detto che per risolvere i suoi problemi occorre
far riaffiorare le memorie rimosse degli abusi del padre senza tuttavia che la
paziente ne abbia ricordo. In questo tipo di terapia suggestiva è il terapeuta
che direziona il processo di recupero di un ricordo, mosso probabilmente
dal desiderio di attestare le sue ipotesi; dopo essersi sottoposta a questo
tipo di trattamento in cui si fa leva proprio sul tentativo di far riemergere
una memoria del passato di cui la paziente non fa nessun tipo di idee a
170 MANUALE DI PSICOLOGIA DEI PROCESSI MNESTICI E MOTIVAZIONALI
3
Affinché un ricordo di abuso venisse ritenuto confermato erano stati considerati tre criteri:
a) un altro individuo riferiva di essere venuto a conoscenza dei fatti entro una settimana
dall’accaduto; b) un’altro individuo affermava di aver subito abusi dalla stessa persona; c)
l’autore dell’abuso ammetteva il suo crimine.
4
Spesso sono i familiari ad affermare che il ricordo che l’individuo ritiene di non aver mai
ricordato prima è invece una memoria già precedentemente raccontata da lui stesso.
172 MANUALE DI PSICOLOGIA DEI PROCESSI MNESTICI E MOTIVAZIONALI
del fatti era consulente legale del presidente Nixon, fornì dei racconti pieni
di dettagli e di considerevole accuratezza riguardanti i suoi colloqui con il
presidente, ma quando un anno dopo furono resi pubblici i nastri dei collo-
qui tra i due fu chiaro che ciò che aveva riferito non corrispondeva alla real-
tà dei fatti. Sebbene nel complesso le conversazioni fornite avessero avuto il
medesimo contenuto (Nixon fu realmente implicato nel caso Watergate), la
testimonianza di Dean non era accurata, talvolta i contenuti erano enorme-
mente distorti o addirittura falsi. Secondo Neisser, che studiò il caso, quello
che Dean ricordava era ciò che lui avrebbe voluto che fosse accaduto, tanto
da imprimergli nella memoria false memorie, i suoi ricordi distorti rappre-
sentavano cioè una distorsione dettata dalle sue fantasie e desideri che lo
vedevano protagonista, piuttosto che una ricostruzione affidabile dei fatti.
Il concetto di memoria testimoniale concerne episodi, di solito con
caratteristiche spiacevoli, che sono stati vissuti in prima persone e delle
quali viene chiesto un resoconto; tali eventi hanno un luogo e una sequenza
temporale ben precisi e sono costituiti da diversi elementi sia verbali (es:
“questa tizio ha detto questo”) o non verbali (es: “la macchina era di colore
rosso”, “ho sentito un suono stridulo” ecc). Le false memorie testimoniali
sono ricordi distorti di episodi accaduti, distorsioni che possono riguardare
elementi dell’episodio raccontati in modo diverso da come erano in realtà,
oppure aggiungendo particolari inesistenti che però appaiono verosimili.
Questi errori possono essere generati nella memoria in qualsiasi delle fasi in
cui il ricordo viene creato, ovvero in fase di codifica dell’episodio, nell’in-
tervallo di ritenzione, o durante il recupero della traccia. Uno degli effet-
ti che conduce alla formazione delle distorsioni maggiormente studiato è
l’effetto dell’informazione fuorviante post-evento che si verifica quando
ad un testimone viene fornita un’informazione inerente l’accaduto prima
che egli abbia testimoniato. Il primo a comprendere quanto la memoria
fosse suscettibile a informazioni esterne è stato Alfred Binet (1990) che ha
condotto numerose ricerche in quest’ambito, tra cui il seguente e brillan-
te esperimento per la verifica empirica della sua ipotesi. Binet presentava
ai soggetti degli oggetti collegati tra loro, come ad esempio una puntina
attaccata su un poster, poi in una fase successiva essi venivano sottoposti a
domande di diverso genere per testare il loro ricordo del materiale visto in
precedenza; alcune domande erano di richiamo libero (descrivi ciò che hai
visto), altre erano dirette (in che modo il bottone era attaccato al poster?),
altre ancora risultavano suggestive in modo moderato (il bottone non era
attaccato al filo?), infine vi erano domande fuorvianti al punto da suggerire
la risposta seppur errata (di che colore era il filo con cui era attaccato il
bottone? Quando il realtà non era presente alcun filo). I risultati di questo
esperimento sono estremamente chiari: nelle condizioni di richiamo libero
Emozione, motivazione e memoria 175
vi era molta più accuratezza nel ricordo rispetto a quando le domande era-
no dirette, suggestive o deliberatamente fuorvianti.
In tempi più recenti Elisabeth Loftus ha ideato una procedura sperimen-
tale volta a riprodurre in laboratorio una potenziale situazione testimoniale
allo scopo di studiarne gli effetti sulle distorsioni indotte dall’informazio-
ne post-evento. Il paradigma dell’informazione fuorviante post-evento
(misinformation post-event) (Loftus, 1975) si compone di tre fasi: nella
prima fase i soggetti guardano un filmato che riproduce un fatto di cronaca,
come un incidente automobilistico, dopodiché nella seconda fase, ad alcuni
viene fornita un’informazione fuorviante (errata ma plausibile) tramite una
domanda (es: hai notato qualcosa mentre la macchina era ferma al segnale
di precedenza? Quando in realtà il segnale era di Stop), ad altri invece viene
data un’informazione corretta (es: hai notato qualcosa quando la macchina
era ferma al segnale di Stop?) oppure nessun’altra. Nella terza fase, dopo un
un breve intervallo di tempo, ai partecipanti viene chiesto di sottoporsi ad
un compiti di riconoscimento in cui viene chiesto di scegliere tra coppie
di diapositive quali siano scene rappresentative dell’accaduto e i risultati
confermano l’effetto dell’informazione fuorviante: più della metà dei sog-
getti a cui era stata data l’informazione errata sceglievano le diapositive rap-
presentanti tale errore (es: l’immagine della macchina ferma al segnale di
precedenza, quando in realtà c’era un segnale di Stop). Nei suoi esperimenti
Loftus ha potuto constatare che l’effetto di distorsione può essere indotto
per qualsiasi tipo di dettaglio, che sia esso verbale o percettivo, trovando
inoltre un riscontro non solo per dettagli periferici, ma anche per quelli più
centrali (quelli cioè più collegati all’evento e che consentono la sua com-
prensione), nonostante nel secondo caso l’effetto sia ridotto (Loftus, 1979).
È stato poi osservato che esistono fattori che possono determinare il peso
con cui l’informazione fuorviante distorcerà il ricordo, Ad esempio è stato
dimostrato che se l’informazione fuorviante viene data dopo un intervallo
più lungo tra quando assistiamo all’evento e il momento in cui dovremo
testimoniare (quindi in fase di ritenzione), l’effetto distorcente aumenta,
presumibilmente a causa del deterioramento della traccia che avviene tra
l’episodio e il momento del recupero; in aggiunta Frost (2000) ha notato
che l’effetto viene incrementato anche se l’intervallo tra quando viene for-
nita l’informazione errata e il momento del resoconto della testimonianza è
allungato. Un altro fattore che può influire è la fonte, in particolare se essa
è di tipo sociale (come la testimonianza di un altra persona presente sulla
scena) rispetto ad una impersonale; in più viene anche dato peso alla credi-
bilità di colui che fornisce l’informazione: se la fonte è ritenuta autorevole o
quantomeno credibile, rispetto ad una ritenuta poco attendibile, allora l’ef-
fetto dell’informazione post-evento sarà più consistente. Tuttavia sembra
che il potere della fonte di influenzare sia correlato all’intervallo di tempo,
176 MANUALE DI PSICOLOGIA DEI PROCESSI MNESTICI E MOTIVAZIONALI
poiché è stato osservato che a distanza di molto tempo anche una fonte che
all’inizio avremmo potuto non considerare diviene maggiormente credibile
(Underwood, 1998). Infine, per tentare di neutralizzare, o quantomeno
minimizzare, l’effetto dell’informazione fuorviante post-evento si può far
leva sugli indizi di recupero, giacché la memoria si affida di frequente a sug-
gerimenti in fase di richiamo della traccia; se essi aiutano a rappresentarsi
nella mente l’episodio nel modo più originario possibile, allora è possibile
ridurre l’effetto distorcente di materiale errato aggiuntivo.
Interessante è anche ciò che è stato osservato attraverso un esperimento
sull’effetto della misinformation in fase di recupero. Dopo la visione di un
filmato su un incidente automobilistico, ai soggetti viene posta una delle
seguenti domande riguardo il tamponamento, a prima vista identiche ma
in verità tra loro assolutamente dissimili: a) a quanto andava l’auto quando
ha tamponato l’altra macchina? b) a quanto andava l’auto quando è venuta
in contatto con l’altra macchina? c) a quanto andava l’auto quando ha fra-
cassato l’altra macchina?. Come si può intuire, la parola (il verbo) utilizzata
era in grado di influire sulla risposta dei partecipanti: nel caso del verbo
fracassare è stata stimata una velocità notevolmente maggiore rispetto a
quando il verbo aveva connotati più miti, come nel caso del verbo venire in
contatto (Loftus, 1974). Questo studio è importante se si considera quan-
to spesso ci viene riferito dalla stessa cronaca giornalistica di interrogatori
eseguiti in modi poco “corretti”, ad esempio suggerendo risposte attraverso
domande tendenziose, perdendo di conseguenza l’oggettività che si dovreb-
be preservare il più possibile durante un interrogatorio.
per la ricerca in questo ambito, uno dei quali è il paradigma del falso racconto
familiare (Loftus, 1993). In questo esperimento a soggetti adulti sono state
fatte leggere brevi storie riguardo episodi che sarebbero accaduti loro durante
l’infanzia, alcuni realmente avvenuti (i cui racconti veri sono stati forniti da
un parente stretto del soggetto, presente al momento dei fatti), altri com-
pletamente inventati ma plausibili. Dopo la lettura veniva chiesto loro di
scrivere ciò che ricordavano di ciascun episodio e qualora il ricordo non fosse
sopraggiunto dovevano solo scrivere di non ricordarsi nulla del fatto. In una
seconda fase, a distanza di un paio di settimane, i soggetti venivano ricon-
tattati e dopo aver riassunto ciascun episodio della volta precedente lo speri-
mentatore chiedeva nuovamente loro di riferire quanti più dettagli possibile
circa ciascun racconto presentato, invitandoli a pensarci ancora nel corso dei
giorni, ma evitando di parlarne con altre persone per evitare influenze ester-
ne. Dopo altre due settimane circa viene ripetuta la stessa procedura della
seconda fase, “pressando” i soggetti a rimembrare gli eventi e rielaborare il
ricordo. Per ragioni di chiarezza verrà qui fornita la descrizione di un tipico
ricordo inventato, seppur plausibile. L’evento infantile di smarrimento in un
centro commerciale era così strutturato: il soggetto si perde nel centro com-
merciale per un tempo piuttosto lungo, piange, arriva un’anziana signora a
confortarlo fino a quando non avviene il ricongiungimento familiare. I risul-
tati di questo esperimento mostrano che è possibile creare un falso ricordo
autobiografico: infatti, seppur di accuratezza peggiore e minor chiarezza nel
resoconto rispetto ai ricordi realmente successi, un quarto dei partecipanti ha
riferito di ricordarsi l’evento inventato.
False memorie autobiografiche sono stata anche indotte attraverso foto-
grafie ritoccate, esperimento in cui al soggetto veniva fatta vedere una foto
(falsa) che lo ritraeva insieme alla famiglia durante una gita in mongolfiera
(Wade, 2002): la metà dei partecipanti ha riferito di ricordarsi dell’evento,
alcuni creandosi falsi ricordi completi, altri invece solo parziali.
Da questi studi è possibile concludere che la formazione di ricordi di
episodi mai accaduti può essere manipolata: ancora una volta, quindi, la
memoria autobiografica risulta fallibile e suscettibile a influenze esterne.
Sicuramente ci sono fattori determinanti come la plausibilità del ricordo
(se un evento non è sufficientemente verosimile per il soggetto sarà difficile
creare una falsa memoria) e l’attendibilità della fonte (un racconto fatto da
un familiare o una fotografia, seppur ritoccata, sono fonti credibili per il
soggetto a cui tenderà a dare credito).
False memorie per parole e oggetti. I falsi ricordi possono non solo riguar-
dare testimonianze di cui dobbiamo fornire un resoconto, o eventi della
nostra vita, ma anche parole e oggetti di uso quotidiano. Il fenomeno che
riguarda questa tipologia di stimoli è stato studiato utilizzando il paradigma
Emozione, motivazione e memoria 179
DRM (acronimo dei nomi dei creatori, Deese, Roediger e Mcdermott) che
ha lo scopo di indurre delle false memorie attraverso associazioni seman-
tiche. Questa procedura prevede tre fasi: 1) ai soggetti vengono lette liste
di parole semanticamente associate ad una parola non presentata, chiama-
ta parola critica, chiedendo loro di memorizzarne quante più possibili; 2)
dopo la lettura di ogni lista viene chiesto ai soggetti di riportare su un foglio
quante più parole ricordano della lista appena presentata; 3) dopo una serie
di cicli di fase 1 e fase 2 (rispettivamente lista-richiamo) i soggetti vengono
sottoposti a un compito di riconoscimento dove sono presentate parole
vecchie (presenti nelle liste) nuove (mai viste) e critiche; oltre che a riferire
se la parola è stata incontrata o no, i partecipanti devono dare un giudizio,
un giudizio Ricordo quando oltre a riconoscere la parola rievocano i dettagli
della presentazione (es: “ho in mente la voce dello sperimentatore mentre
legge questa parola”, oppure “mi ricordo che questa parola era presentata
nella prima lista”), un giudizio Conosco nei casi in cui si ha la sensazione
di averla già incontrata ma senza ricordare dettagli precisi. Al compito di
riconoscimento si osserva che la metà (ed oltre) dei partecipanti riporta
false memorie per parole critiche, il che significa che queste parole, essendo
semanticamente associate a quelle delle liste precedentemente lette, hanno
probabilità di creare rievocazioni errate a causa del loro potere associativo.
Sono state avanzate due ipotesi per spiegare come sia possibile innescare
falsi ricordi attraverso legami semantici. Secondo la prima, chiamata ipotesi
dell’attivazione-monitoraggio, durante la fase di codifica (fase 1) la parola
critica, seppur non presentata, viene mentalmente attivata per associazione
semantica con le altre parole (i “nodi” che si accendono) e quindi codificata
in memoria, poi in fase di riconoscimento essa verrebbe scambiata, per
errore, come parola realmente incontrata a causa del fallimento nella discri-
minazione tra fonte esterna (l’ascolto delle parole) e interna (l’attivazione
mentale). L’ipotesi della distintività invece afferma che l’errore avviene per
effetto della traccia confusa (Reyna, 1995), secondo cui durante la codifi-
ca di uno stimolo con significato vengono create due rappresentazioni in
memoria, una relativa a proprietà superficiali (come il suono dato dalla
pronuncia) e una relativa a proprietà semantiche che tuttavia sono comuni
ad altre parole con le quali condivide il medesimo concetto. Quindi in
fase di riconoscimento l’attivazione della proprietà semantica favorirebbe la
confusione nel recupero, facendo sì che il soggetto scambi per vecchia una
parola che in realtà non appartiene alle liste precedentemente presentate ma
che possiede lo stesso tema concettuale.
Un’altra mole estesa di ricerca nel campo della psicologia della testimo-
nianza ha prodotto numerosi dati che confermano quello che viene chiamato
effetto della focalizzazione sull’arma, la tendenza cioè delle persone espo-
180 MANUALE DI PSICOLOGIA DEI PROCESSI MNESTICI E MOTIVAZIONALI
e dopo circa 10-15 secondo, durante i quali i due parlano, passano degli
operai che trasportano una porta di legno. Coperto dal passaggio della por-
ta la persona che ha fermato il soggetto ignaro si scambia con un individuo
con caratteristiche fisiche differenti e vestito in modo diverso. Gli autori
hanno osservato che circa la metà dei soggetti non si accorge del cambia-
mento, sebbene a leggere queste parole sembri impossibile. Simons e Levin
hanno testato con vari esperimenti la capacità dei soggetti di accorgersi dei
cambiamenti che avvengono, attraverso video costruiti ad hoc, dove detta-
gli palesi cambiano senza tuttavia accorgersene. Trasferito in ambito foren-
se questo effetto può causare non pochi problemi per una testimonianza,
poiché i testimoni non solo possono non accorgersi di dettagli importanti
per la ricostruzione dell’accaduto, ma anche dimostrarsi particolarmente
convincenti nei loro resoconti. Molto spesso questa convinzione è origi-
nata dalla tendenza che le persone hanno di ricordare gli eventi secondo il
loro punto di vista e ciò compromette l’oggettività dell’accaduto. Quando
Bartlett, a proposito della peculiare caratteristica ricostruttiva della memo-
ria, parla di schemi, si riferisce anche alle aspettative che noi abbiamo su
determinati eventi che ci accadono ed è attraverso questi schemi che la
nostra ricostruzione del ricordo subisce delle influenze, distorcendosi in
parte. In un esperimento di Hastofor e Canrtril (1954) è stata fatta vedere
la videoregistrazione di una partita di football americano, tra squadre di
due università, a studenti appartenenti all’una o l’altra, chiedendo loro di
annotare il numero di falli commessi durante il match. I ricercatori hanno
notato che il numero dei falli subiti dipendeva dall’appartenenza all’una o
l’altra squadra: gli studenti della squadra X attribuivano più falli subiti alla
loro squadra, viceversa gli studenti della squadra Y affermavano il contrario.
L’influenza del contesto, delle aspettative, dell’appartenenza e tutte le varia-
bili soggettive che possono presentarsi sono potenziali fattori di distorsione,
per cui un atteggiamento di cautela nel giudizio verso i propri ricordi può
preservarci da errori di memoria troppo spesso commessi.
Il fatto che adulti più anziani abbiano maggiore sensibilità verso stimoli
positivi potrebbe essere effetto di un’attenzione focalizzata verso di essi e
ciò potrebbe essere connesso alla memoria dal momento che è ormai as-
sodato il ruolo del controllo attentivo sui processi mnestici. In uno studio
di Mather e colleghi (2003) è stata verificata la modalità di focalizzazione
attentiva per stimoli a valenza emotiva, presentando ai soggetti giovani e
anziani due facce fianco a fianco, una con espressione emotiva positiva o
negativa e l’altra neutra, su uno schermo per 1 secondo; una volta che i due
stimoli scomparivano compariva un puntino dietro una delle due facce e
i partecipanti erano chiamati ad indicare in quale posizione esso era stato
presentato. I risultati hanno mostrato tempi di reazione più lenti in soggetti
anziani quando il puntino compariva dietro una faccia negativa rispetto ad
una neutra e più veloci quando invece si trattava di una faccia positiva, a
differenza dei giovani che non esibivano alcun pregiudizio di tipo attentivo.
La concentrazione su aspetti positivi è stata inoltre notata in un esperimen-
to dello stesso gruppo di ricerca (Mather, 2005) in cui ai soggetti venivano
date delle informazioni riguardo diversi modelli di auto chiedendo loro
quale avrebbero scelto; gli adulti più anziani passavano più tempo ad esa-
minare le caratteristiche positive piuttosto che quelle negative, osservazione
non riscontrata nel gruppo dei giovani. Sebbene la preferenza per stimoli
positivi è ben documentata tra la popolazione anziana, è anche vero che la
capacità di discriminare stimoli negativi ha un vantaggio evolutivo impor-
tante, dal momento che potrebbe trattarsi di una minaccia nell’ambiente
che è necessario fronteggiare, e che tale abilità non va perduta con l’invec-
chiamento. Alcuni studi hanno rilevato che, nonostante i giovani siano più
veloci a discriminare stimoli negativi, gli anziani conservano questa facoltà
(Ohman, 2001).
Gli effetti di positività sono stati anche osservati per quanto riguarda la
memoria autobiografica, di certo il magazzino di memoria personalmente
più rilevante per l’individuo. Per analizzare gli effetti del bias di positività
per eventi autobiografici Comblain e colleghi (2005) hanno testato il recu-
pero di episodi personali in soggetti giovani e anziani di natura positiva, ne-
gativa e neutra, chiedendo per ciascun tipo di ricordare due episodi specifici
e valutarli su diverse caratteristiche sia sensoriali che inerenti la dimensione
spazio-temporale (contesto). Gli autori hanno trovato in entrami i gruppi
un maggior numero di dettagli raccontati per memorie a contenuto emoti-
vo rispetto a memorie neutre, ma nei più anziani gli episodi negativi esposti
erano associati più a sentimenti positivi con riduzione di quelli spiacevoli,
concludendo che invecchiando si sviluppa la tendenza a rivalutare gli eventi
personali in una luce più favorevole.
Il bias di memoria riscontrato negli anziani per stimoli positivi è stato
messo in relazione alle funzioni esecutive e, come abbiamo già accennato,
l’attenzione viene considerata un fattore essenziale per questo effetto. Que-
sta preferenza permette all’attenzione di focalizzarsi su caratteristiche piace-
voli dell’esperienza passata, tralasciando gli aspetti negativi e aumentando
la probabilità di mantenere uno stato di benessere. Dunque questo bias
può fungere presumibilmente da fattore per la sopravvivenza, concentran-
do l’individuo su obiettivi emotivi e affettivi piuttosto che legati a scopi fu-
turi (secondo la teoria della selettività socioemotiva) e rendendo l’esistenza,
inevitabilmente soggetta allo scorrere del tempo, più piacevole da vivere.
Ricostruire memorie autobiografiche in modo che sembrino più positive di
quanto non siano in realtà aiuta il raggiungimento di tale obiettivo.
5
Una delle aree principalmente coinvolte nel circuito di reward è l’Area Tegmentale Ventrale
(VTA), una porzione del mesencefalo.
Emozione, motivazione e memoria 187
lo shock più alto era correlato a più risposte corrette). In questo caso viene
dimostrato quando una conseguenza negativa possa influire su un compito
di memoria a breve termine, più che un incentivo positivo. È chiaro che
la natura della ricompensa è soggettiva e i dati di certo non possono esse-
re estesi all’intera popolazione umana, ma queste procedure sperimentali
hanno il merito di aver indagato in laboratorio il ruolo della motivazione
nei processi di memoria, ottenendo prove a sostegno del suo ruolo attivo6.
La teoria della motivazione nota come Goal Direction Theory postula
l’esistenza di due principali approcci che possono venir messi in atto per
raggiungere un obiettivo (goal), uno basato sul padroneggiamento (ma-
stery-approach) e l’altro sulla prestazione (performance-approach), ognuno
con i propri vantaggi e i propri limiti (vedi capitolo 2). Per riassumere, l’ap-
proccio di mastery è orientato all’acquisizione di conoscenze o abilità al fine
di incrementarne il padroneggiamento, mentre l’approccio prestazionale ha
un obiettivo volto alla performance e si riferisce al desiderio di primeggiare
facendo meglio degli altri nei compiti consegnati, indipendentemente dalle
conoscenze acquisite; in entrambi i casi tuttavia lo scopo finale è quello di
percepirsi competenti. La competenza riveste un ruolo critico per l’imma-
gazzinamento, la ritenzione e il recupero dell’informazione ed è possibile
che il tipo di competenza ottenuta attraverso uno dei due approcci possa
influire su questi processi mnemonici. Poco si è scritto a proposito dell’as-
sociazione tra motivazione di successo (che può esplicarsi attraverso una
delle due modalità) e memoria, la quale a sua volta può essere valutata
attraverso compiti di varia natura, tra cui troviamo, tra i più utilizzati, il
richiamo e il riconoscimento; per questo motivo Murayama e Elliot (2011)
hanno voluto mettere a punto due esperimenti con lo scopo di verificare
tale probabile associazione e comprenderne gli effetti. Un gruppo di stu-
denti laureandi presso un’università privata giapponese hanno partecipato
ad un esperimento di riconoscimento di parole comuni e simili tra loro
per lunghezza e frequenza d’uso quotidiano e sono stati inoltre indirizzati
verso l’utilizzo di uno dei due approcci. Ai soggetti nella condizione di
mastery-approach è stato detto che li sarebbe stata presentata una serie di
compiti verbali la cui risoluzione avrebbe aumentato le loro capacità cogni-
tive e di concentrarsi sulla prova al fine di sviluppare al meglio tali abilità
cognitive; nella condizione di performance-approach invece ai partecipante
è stato detto che li sarebbe stata presentata una serie di semplici problemi
verbali la cui risoluzione li avrebbe consentito di dimostrare le loro capacità
6
Weiner a Walker hanno modificato le condizioni sperimentali per una serie di esperimenti per
cui si rimanda all’articolo Motivation and memory (Weiner, 1966).
Emozione, motivazione e memoria 189
Fin qui sono stati riportati studi che hanno preso in considerazione
soggetti giovani, in particolar modo studenti. La ragione è piuttosto ovvia:
studiare i fenomeni motivazionali e come essi si inseriscano nelle più am-
pie funzioni cognitive in ambito accademico è un argomento che solleva
enorme interesse dal momento che ognuno di noi, chi più chi meno, ha
avuto, ha o avrà a che fare con il mondo scolastico, base della nostra cultura
194 MANUALE DI PSICOLOGIA DEI PROCESSI MNESTICI E MOTIVAZIONALI
i quali hanno passato una media di ore settimanali maggiore nello studio
rispetto a chi è stato bocciato. Si presuppone che i soggetti che hanno supe-
rato l’esame abbiano allenato le loro abilità spaziali (che per muoversi nelle
strade di Londra devono essere molto alte) e che questo abbia condotto ad
un accrescimento del volume ippocampale, dimostrando il suo ruolo chia-
ve nella codifica di stimoli relativi allo spazio.
Come già accennato nella parte introduttiva a questo capitolo, il cer-
vello possiede una proprietà essenziale detta neuroplasticità che permette il
riadattamento continuo dei circuiti neuronali. Sebbene abbia questa incre-
dibile capacità, il cervello è costituito da cellule che una volta morte non
vengono sostituite, muoiono e basta, e le cause possono essere molteplici,
dal tempo, ai fattori di stress all’atrofizzazione da mancato utilizzo. Tuttavia
questo è vero per i neuroni della corteccia cerebrale, ma sembra che questo
triste destino non coinvolga le cellule dell’ippocampo che sono molto vul-
nerabili ma una volta morte possono lasciare spazio ad altre nuove cellule.
La scoperta della rigenerazione di cellule nell’ippocampo è relativamente
recente e da allora è stata prodotta una cospicua mole di studi a riguardo.
Le cellule appena nate per sopravvivere hanno bisogno di inserirsi nei cir-
cuiti neuronali già esistenti altrimenti morirebbero perché inutilizzate, per
farlo è necessario che venga effettuato un apprendimento, non semplice ma
complesso. In tal senso, l’apprendimento complesso di cui si parla è ciò che
in realtà l’essere umano fa ogni giorno nella sua vita, quando ad esempio
programma la sua giornata, disdice degli appuntamenti, incontra persone
con cui deve organizzare una cena, o colleghi con cui deve confrontarsi al
fine di risolvere un problema di lavoro. È tramite questo apprendimento
continuo che le cellule neonate riescono a inserirsi in circuiti già formati
contribuendo all’espansione e all’affinamento delle capacità; con l’espe-
rienza diveniamo più abili in molti contesti della vita e questo è in gran
parte possibile grazie alla costante attività dell’ippocampo che apprende e
consolida sempre nuovo materiale, permettendoci di fare affidamento sulle
conoscenze acquisite.
A conclusione di questo paragrafo è possibile affermare con un alto
grado di certezza che le cellule del nostro cervello non sono stantie, bensì
dinamiche e sempre pronte a rimodellarsi; non solo, nell’ippocampo, in cui
le cellule sono molto sensibili a fattori stressanti, è stata osservata la nascita
di nuovi neuroni pronti ad inserirsi in circuiti esistenti e potenziarne gli
effetti. Ecco perché è necessario allenare il cervello con particolare atten-
zione alla memoria, custode della nostra identità e del nostro patrimonio
di ricordi.
Allenare la mente 205
sentazione era uditiva); egli era in grado di concentrare gli stimoli in gruppi
di 10-15 elementi per volta così da avere una capacità di memorizzazione
di oltre 30000 cifre: era possibile quindi che egli fosse dotato di una memo-
ria superiore di base che lo distingueva dal resto delle persone (Thomson,
1991). Ericsson (2004) studiò la memoria di Rajan per lo span di simboli,
utilizzandone 10 (es: & # @), notando che inizialmente la sua prestazione
non differiva da quella dei soggetti di controllo, anche se con l’allenamento
riusciva a memorizzare maggiore materiale rispetto alla media, estendendo
il suo span di simboli da 6 a 30. Un altro studio ha dimostrato che la ca-
pacità mnemonica di Rajan poteva non essere straordinaria se si differiva
il compito di memoria. Biederman e colleghi (1992) lo hanno sottoposto
ad un compito spaziale in cui venivano presentate 48 immagini di oggetti
comuni mostrate con un determinato orientamento e poi lo hanno testato
sulla sua capacità di riconoscere le immagini quando venivano presenta-
te con orientamento differente. Confrontato con un gruppo di controllo
Rajan mostrava una prestazione inferiore in questo tipo di prova, eviden-
ziando quindi i limiti della sua memoria che non poteva certo contare su
eccezionali abilità di tipo spaziale.
Nel corso degli anni si sono susseguiti diversi personaggi noti per le loro
imprese mnemoniche e che si sono allenati al fine di battere record mondia-
li; Akira Haraguchi, un consulente di salute mentale giapponese, ha battuto
il record (per altro detenuto da lui stesso) di cifre di pi greco per un totale
di 100000 cifre, una prova senza precedenti. Di mnemonisti si possono
trovare di due tipi, quelli naturali che riferiscono di non aver fatto nulla di
significativo per allenare la propria memoria, ma che semplicemente “sono
nati così”, e gli strategici, coloro cioè che hanno passato lunghe ore ad alle-
narsi al fine di sviluppare le potenzialità mnemoniche che esibiscono. Qui
di seguito verranno illustrate alcune mnemotecniche, sebbene il paragrafo
non possa considerarsi esaustivo di tutto il patrimonio strategico oggi a
disposizione. Le macro-categorie prese in considerazione sono le tecniche
basate sull’immaginazione (di cui fanno parte il metodo del loci, il sistema
della parole appiglio e il ricordo dei nomi) e le tecniche verbali.
trettanto utili per memorizzare liste di parole. Forse una delle più famose
mnemotecniche verbali è quella utilizzata dai giocatori di poker nella frase
“Come Quando Fuori Piove” che serve a ricordarsi la sequenza dei semi,
da quello con più valore (Cuori, Come) a quello minore (Picche, Piove),
attraverso il recupero delle iniziali di ciascuna parola. Questa tecnica può
essere utile per una molteplicità di sequenze da ricordare e servendosi di un
po’ di fantasia è possibile creare frasi, anche bizzarre che ci possono aiutare
nel processo di richiamo.
Le tecniche verbali prevedono anche l’uso di storie che vengono create
inserendo le parole della lista da ricordare all’interno del racconto secondo
la sequenza precisa che va ricordata. Se ad esempio dobbiamo imparare le
parole bambino, elefante, bastone, pipa, palla, ginocchio, urlo, roulotte,
possiamo creare una breve storia contenente queste parole nel medesimo
ordine in cui sono presentate nella lista: “Il bambino andò al circo e vide
un elefante colpito dal bastone di un uomo che fumava la pipa. Si avvicinò
per salvarlo ma inciampò su una palla e si sbucciò il ginocchio. Quando il
proprietario del circo arrivò fece un grosso urlo e si ritirò nella sua roulotte”.
Il metodo delle storie è risultato efficacie in prove di laboratorio, in cui
è stato osservato un richiamo nettamente migliore di liste di parole quan-
do i soggetti utilizzavano questa mnemotecnica verbale (quasi la totalità
degli item recuperati correttamente) rispetto a soggetti di controllo che
avevano un richiamo poco superiore al 10%. Questi risultati sottolineano il
vantaggio dell’organizzazione tematica nell’incrementare l’apprendimento,
attraverso la riduzione delle interferenze e il richiamo ricostruttivo (Bower,
1969). Tuttavia anche per questo metodo non sono escluse criticità, poiché
è una tecnica che presuppone allenamento e un certo periodo di tempo
per creare la storia e memorizzarla; inoltre il recupero può avvenire solo
in modo sequenziale e questo può essere un forte limite in determinati
contesti.
mal allenata) non può esserci d’ausilio, specie in quei compiti valutativi in
cui è necessario studiare una grossa quantità di materiale e sottoporsi ad una
verifica (esame). Come uno span di cifre può essere potenziato (nei limiti
di un individuo medio, non certo di un mnemonista), la codifica resa più
profonda e il recupero facilitato da indizi contestuali, anche la memoria per
il materiale di studio può essere potenziata perché di fatto andiamo a rin-
forzare i processi peculiari del sistema mnestico. Un’elaborazione profonda
infatti, secondo il principio dei livelli di elaborazione di Craik e Lockhart, è
parte integrante dell’apprendimento, l’inizio di un processo il cui prodotto
è l’apprendimento di nuova informazione. E si sa, chi inizia bene ha più
possibilità di terminare altrettanto bene, dunque una codifica in profondità
in cui sia possibile organizzare il materiale in concetti associati, che sfrutti
il magazzino semantico piuttosto che fermarsi a quello a breve termine, è
ciò in cui uno studente diligente dovrebbe impegnarsi. Biggs e collaboratori
(1987) hanno individuato tre stili differenti di apprendimento attraverso
lo Study Process Questionnaire (SPQ) da loro creato sulla base di item che
vanno ad identificare le motivazioni e le procedure sottostanti ciascuno
stile. Lo stile superficiale è incentrato su un apprendimento a memoria e si
caratterizza da poco interesse generale per i contenuti; le motivazioni sono
per lo più legate alla paura di fallire e al desiderio di completare il corso di
studi, per cui vengono utilizzate modalità di apprendimento meccanico che
si incentrano sulle singole componenti senza creare una struttura organiz-
zata del materiale. Lo stile profondo invece presuppone un reale interesse per
la materia e una spinta motivazionale ad una comprensione del materiale
finalizzata ad incrementare le proprie conoscenze; le modalità di appren-
dimento si focalizzano sulla creazione di associazioni di idee, integrando
materiale da più fonti e cercando di individuarne i principi generali. Infine,
nello stile strategico si ha la spinta al raggiungimento di buoni voti e alla
competizione con gli altri per avere successo; lo studente con stile strate-
gico utilizza diverse tecniche di studio allo scopo di massimizzare i risulta-
ti, con una conseguente comprensione irregolare e variabile. Un supporto
alle tre dimensioni individuate attraverso l’SPQ viene fornito da Ramsden
e Entwistle (1981) che qualche anno prima hanno sviluppato L’Approach
to Studying Inventory, uno strumento di valutazione della qualità e della
quantità dei risultati educativo-accademici. L’approccio superficiale risulta
generalmente più scarso rispetto a quello profondo e a quello strategico,
inoltre questi ultimi due tipi correlano con più alte misure di autostima.
Se traduciamo questi tre stili, individuati sia da SPQ che dall’ASI, con
terminologie proprie della goal direction theory è facile intuire quanto tutti
e tre si adattino bene alle motivazioni sottostanti i vari approcci orientati
all’obiettivo; infatti è possibile che uno stile superficiale sia più associato
ad un avoidance-approach, mentre uno stile profondo può rispecchiare un
Allenare la mente 211
stive, è chiaro che coloro che presentano una memoria altamente sviluppata
siano già predisposti e che il loro continuo allenamento sia un fattore di
irrobustimento delle già eccellenti loro capacità.
Chiunque tuttavia può diventare più bravo con la propria memoria,
utilizzando strategie in grado di potenziare gli effetti sul ricordo. Queste
tecniche, di cui la letteratura è piena, sono definite mnemotecniche ed
hanno origini molto antiche; esse si dividono in mnemotecniche basa-
te sull’immaginazione e mnemotecniche verbali. Tra le tecniche basate
sull’immaginazione più conosciute troviamo il metodo dei loci e il sistema
delle parole-appiglio, strategie che sfruttano l’immaginazione per creare
mentalmente rappresentazioni visive salienti, talvolta bizzarre, in grado di
rendere il recupero più accessibile. Le mnemotecniche verbali invece uti-
lizzano codici verbali in grado di richiamare alla mente il materiale, come
l’uso di acronimi o la creazione di storie contenenti le parole target da
ricordare. Benché queste tecniche di memoria siano in certi contesti molto
efficaci, come nel caso di richiamo di liste di parole non correlate tra loro,
esse hanno dei limiti che riguardano sia i materiali da imparare (le parole
concrete si prestano meglio di quelle astratte) sia il tempo necessario per
prendere dimestichezza e allenarsi.
Il ruolo della memoria è anche fondamentale in attività come lo studio,
che di fatto è una forma di apprendimento di nozioni che poi verranno
testate successivamente. La teoria dei livelli di elaborazione si presta senza
alcun dubbio ai riscontri che sono stati ottenuti a livello sperimentale: una
codifica profonda in fase di studio è più efficacie di una codifica superficia-
le e questo si può notare osservando come variano i risultati accademici a
seconda del metodo utilizzato. Dalle ricerche è emerso che esistono alme-
no tre stili di apprendimento: lo stile superficiale, incentrato sull’apprendi-
mento meccanico del materiale e scarso interesse per i contenuti, lo stile
profondo che vede un alto grado di coinvolgimento e interesse per il mate-
riale studiato, lo stile strategico volto a massimizzare i risultati utilizzando
le strategie migliori per perseguire buoni voti. Mentre lo stile superficiale è
associato a risultati negativi, gli altri due sono correlati con migliori presta-
zioni accademiche.
L’apprendimento non può prescindere da un buon funzionamento del-
la working memory che consente di manipolare le informazione e trasfe-
rirle nella memoria a lungo termine in un momento successivo. Secondo
la teoria del carico cognitivo, non tutta l’informazione che giunge alla
WM può essere considerata per l’elaborazione, cosicché è indispensabile
una selezione. Esistono tre tipi di carico cognitivo, quello estraneo che ri-
guarda tutti gli stimoli che non concernono il compito e che possono essere
causa di distrazione, quello intrinseco che concerne la naturale complessità
del compito, infine quello rilevante costituito dai processi di comprensio-
Allenare la mente 215
Le teorie motivazionali che sono state esposte nel capitolo due sono
ottimi riferimenti che ci guidano nella comprensione di come la motivazio-
ne possa presentarsi e svolgere una funzione significativa per la nostra vita,
a partire dall’orientarci verso obiettivi importanti che hanno come scopo
ultimo il benessere. Per giungere ad un scopo finale, come può essere la
sensazione di stare bene, il sentirsi appagati e soddisfatti delle proprie scelte
e del proprio impegno, è necessario scomporre tale scopo in sotto-obiettivi
il cui raggiungimento può essere più immediato e consentire di fare passi
in progressione verso la meta ultima. È più che chiaro quanto la motiva-
zione sia essenziale in questo percorso, ma spesso ci troviamo poco abili nel
riconoscere non solo i nostri scopi finali, ma anche le nostre motivazioni
e ancora di più i nostri interessi. Sebbene (e fortunatamente) la maggior
parte di noi non versa in condizioni di apatia, spesso ci troviamo spaesati
di fronte alle innumerevoli stimolazioni ambientali, inabili nel trovare ge-
rarchie di interesse che potrebbero guidarci verso obiettivi soddisfacenti e
farci assaporare il gusto di un benessere individuale e collettivo. Una società
composta da persone appagate funziona senz’altro meglio, per cui è im-
portante per ciascuno di noi impegnarsi nella ricerca di ciò che può farci
realisticamente sentire bene. Lo dobbiamo a noi stessi e alle persone che ci
stanno intorno, da quelle emotivamente più vicine a quelle più distanti che
tuttavia sono pezzi di quel puzzle chiamato umanità. Saper riconoscere le
nostre motivazioni, da quelle di base a quelle più prettamente individuali e
interpersonali, diviene quindi necessità primaria.
10.1. Sull’interesse.
dalla metà degli anni Settanta del Novecento ad opera di autori come
Schiefele, Hausser e Schneider (1979). Questi autori criticavano l’ap-
proccio alla motivazione al successo, in voga in quegli anni in ambito
educativo, poiché si concentrava esclusivamente sulla prestazione volta
al raggiungimento dell’obiettivo indipendentemente dall’area di studio,
trascurando quindi il contenuto come possibile mezzo per incrementare
l’interesse degli allievi in modo che essi stessi arrivassero ad apprezzare il
processo di acquisizione di informazioni in vari campi della conoscen-
za. Per Schiefele e colleghi l’interesse è correlato a argomenti specifici,
compiti o attività, è una forza direttiva che spiega le scelte degli studenti
di impegnarsi in certe aree più che in altre (in cui inoltre viene esibita
maggiore motivazione intrinseca), può essere duraturo o di breve durata,
generale o specifico.
Coloro che si occupano di ricerca sull’interesse lo distinguono in indi-
viduale e situazionale, il primo inteso come preferenza duratura per deter-
minati argomenti, temi o attività (Hidi, 1990), il secondo invece associato
a stati emotivi temporanei dati da situazioni specifiche (Anderson, 1987).
L’interesse individuale è quello maggiormente trattato dalla ricerca ed è
stato a sua volta distinto in due componenti di differente valenza. La va-
lenza legata al sentimento (feeling-related valence) si riferisce ai sentimenti
associati ad un certo argomento, come ad esempio la piacevolezza esperita
e il coinvolgimento che sono verosimilmente segnali tipici di interesse; la
valenza legata al valore (value-related valence) invece riguarda il significato
personale attribuito ad un determinato oggetto (argomento, attività ecc.) i
cui motivi possono essere molteplici, dall’accrescimento delle proprie cono-
scenze, allo sviluppo di caratteristiche di personalità, all’accrescimento del
senso di autoefficacia percepita. Queste due proprietà dell’interesse indivi-
duale sono tra loro connesse, sebbene sia utile distinguerle dal momento
che alcuni oggetti di interesse possono essere perseguiti per la forte esalta-
zione che provocano oppure per l’elevato valore che la persona attribuisce
loro.
A conclusione di questo paragrafo è possibile notare similarità tra
i concetti di interesse e motivazione, sebbene ci siano sottili caratteristi-
che distintive che non possono essere ignorate. È chiaro che tra interesse
e motivazione intrinseca esistano robuste analogie e i contenuti espressi
in questo paragrafo dovrebbe essere considerati approfondimenti piuttosto
che informazioni divergenti, dunque informazioni aggiuntive su cui poter
costruire una riflessione.
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