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N. GALANTINO* - A.

MATTEO*

LA SFIDA EDUCATIVA
IN UN MONDO CHE CAMBIA
Gli Orientamenti pastorali della Chiesa italiana
per il decennio 2010-2020

«Tra i compiti affidati dal Maestro alla Chiesa c’è la cura


del bene delle persone, nella prospettiva di un umanesimo
integrale e trascendente. Ciò comporta la specifica respon-
sabilità di educare al gusto dell’autentica bellezza della vita»
(EVBV, n. 5).

1 EDUCARE ALLA VITA BUONA:


RIPENSARE L’EDUCAZIONE
COME COMPITO E COME PASSIONE

Educare alla vita buona del Vangelo (EVBV): questo è il titolo intri-
gante e azzeccato del documento che i Vescovi Italiani hanno recente-
mente varato, al fine di indicare gli orientamenti pastorali per il prossi-
mo decennio. Ma sarebbe più preciso dire: l’orientamento pastorale.
Il documento dei Vescovi è stato approvato dall’Assemblea della CEI
(maggio 2010), licenziato nella stesura definitiva dal Consiglio Perma-
nente (settembre 2010) e pubblicato alla fine del mese di ottobre. Per la
prima volta negli anni Settanta con il titolo Evangelizzazione e Sacra-
menti si diede avvio a questa riflessione comune. A partire da questa
riflessione pastorale iniziò anche la stagione dei Convegni ecclesiali na-
zionali: il primo di questi si è tenuto a Roma nell’ottobre del ’76. Suc-
cessivamente fu la volta di Comunione e comunità, orientamenti pasto-
rali per gli anni ’80 sulla scia dei quali venne organizzato il Convegno
ecclesiale di Loreto (9-13 aprile 1985). Gli anni ’90 sono stati segnati
da Evangelizzazione e testimonianza della carità, che ispirò in maniera
decisa i lavori del Convegno ecclesiale di Palermo (20-24 novembre

*
Nunzio Galantino, docente di Antropologia filosofica presso la Pontificia Facoltà
Teologica dell’Italia Meridionale – Sez. San Luigi, Via Petrarca 115 – 80122 Napoli.
Responsabile del Servizio nazionale per gli Studi Superiori di Teologia e Scienze Religio-
se della Conferenza Episcopale Italiana. Parroco in Cerignola (Fg), ngalantino@tin.it;
*
Armando Matteo, docente di Teologia fondamentale presso la Pontificia Università
Urbaniana, Via Urbano VIII, 16 – 00165 Roma, Assistente nazionale della FUCI,
armando.matteo@gmail.com

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1995). Gli anni Duemila si aprirono con gli Orientamenti dal titolo
Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia e si sono intrecciati con
il Convegno Ecclesiale nazionale di Verona svoltosi nell’ottobre del 2006.
La scelta di dedicare un’attenzione specifica al campo educativo affon-
da le radici proprio nel 4° Convegno ecclesiale che si tenne nella città
scaligera.
Con il nuovo documento ciò che i Vescovi auspicano con ogni forza
è che ogni singola comunità cristiana – dalla famiglia alla parrocchia,
dalle antiche associazioni alle più recenti realtà aggregative – proceda a
un’attenta verifica dell’agire educativo messo all’opera, in vista di una
«crescita concorde delle Chiese in Italia». È questo l’obiettivo indicato
dal Presidente dei Vescovi Italiani nella Presentazione del documento
programmatico e ribadito nelle Indicazioni per la progettazione pasto-
rale (EVBV, 52). Costituisce una novità, quella delle Indicazioni esplici-
te contenute nell’ultimo capitolo degli Orientamenti: in esse i Vescovi
presentano le “esigenze fondamentali” con le quali le singole realtà
devono misurarsi in quanto soggetti chiamati «ad assumere consape-
volmente la responsabilità educativa nell’orizzonte culturale e sociale»
contemporaneo.
Non è, quello che i Vescovi chiedono, un semplice invito a tornare a
educare. La Chiesa non ha mai smesso di coltivare questa speciale at-
tenzione nella sua vita ordinaria1. Si tratta piuttosto di una verifica cir-
ca la qualità dell’educazione che essa esprime, nelle mille forme di pre-
senza dentro la città degli uomini e di un invito a ripartire dai frutti di
questa verifica. Certo, la qualità dell’azione educativa non si misura
sulla base, o solo sulla base, di metodi e strategie, soprattutto quando
queste non maturano nel contesto di una responsabilità condivisa. L’azio-
ne educativa, infatti, o è frutto di un’azione concorde e sinergica oppu-
re si condanna da sola all’irrilevanza. Anzi è proprio la forza che le
viene dal suo carattere sinergico – affermano i Vescovi – a rendere pos-
sibile anche oggi la missione educativa2. Una possibilità messa in dub-
bio dal modo postmoderno di pensare e di vivere. L’orizzonte culturale
dominante nel quale ci muoviamo, infatti, è costituito – come ha con-

Una eco attenta al compito educativo della Chiesa è possibile trovarla già in un
1

prezioso numero speciale (Educazione, pratiche pastorali e omelia) della rivista Servizio
della Parola (n. 330/settembre 2001). Basta scorrere i titoli dei contributi e i nomi dei
loro autori per apprezzarne il valore: «Educazione e società complessa: è ancora possibi-
le educare?» (G. Ambrosio); «Che cosa significa educare?» (P. Triani); «Pastorale e educa-
zione: un’attenzione necessaria» (S. Lanza); «La riforma della scuola italiana dal punto
di vista della pastorale» (G. Bertagna); «Le abitudini religiose e le abitudini sociali» (V.
Boldini); «Nuovi media, nuova mentalità» (D. Viganò); «Pratiche pastorali e conseguen-
ze educative: scelte ed effetti dell’agire pastorale» (R. Laurita); «Educazione e qualità
degli educatori» (G. Gillini - M. Zattoni); «Omelia come evento educativo» (B. Borsato).
2
Cf, tra gli altri, i nn. 42, 50 di EVBV.

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fermato anche l’ultimo rapporto del Censis3 sul Paese Italia – dalla fram-
mentazione e dalla scomposizione: «Il mito dell’uomo “che si fa da sé”
finisce – scrivono i Vescovi nel n. 9 degli Orientamenti – con il separare
la persona dalle proprie radici e dagli altri, rendendola alla fine poco
amante anche di se stessa e della vita».
La ricaduta più evidente, nell’ambito educativo, è il diffondersi di
un pesante “scetticismo” che, nella migliore delle ipotesi, propone «pro-
getti educativi [che] diventano dei programmi a breve termine» (EVBV,
5), causando la rinuncia di molti adulti a proporre alle nuove genera-
zioni significati, ragioni e regole per vivere con libertà e responsabilità.
Il primo passo per uscire dall’impasse di una cultura del frammento
e della scomposizione, il primo passo per non lasciarsi paralizzare sul
piano dell’azione educativa e quindi il primo passo per assicurare effi-
cacia all’azione educativa è costituito dalla conoscenza4 dei grandi ri-
schi connessi alla progressiva frammentazione cui è sottoposto il sog-
getto in un contesto confuso e contradditorio e nel quale risulta proble-
matica la stessa definizione dell’uomo come persona, come fine, come
interiorità, come libertà (EVBV, 8.10) e come “soggetto-in-relazione”,
aperto a Dio e agli altri (EVBV, 15).
Gli Orientamenti mostrano di non ignorare questo contesto proble-
matico e travagliato, sul quale noi stessi torneremo, ma mostrano an-
che di non arrendersi all’inquietante deserto educativo. Se da una par-
te, infatti, viene chiesto il superamento di quell’atteggiamento rinunciata-
rio in base al quale “nessuno ha più niente da dire o da insegnare”; se
da una parte, cioè, viene chiesto di reagire a quella rassegnazione che
sembra essere una moderna ripresentazione del fatalismo pagano, per
cui, tanto, non possiamo nulla rispetto a quello che accade e ci accade;
dall’altra parte, è proprio la presa d’atto del contesto in cui ci troviamo
a escludere che la questione educativa possa essere ridotta a sterile ri-
proposizione di valori, norme, insegnamenti e lezioni5.

A proposito della presentazione del 44° Rapporto sulla situazione sociale del Paese
3

della Fondazione Censis, cf L. LIVERANI, «Italia, un Paese frenato dall’apatia», in Avveni-


re del 4 Dicembre 2010, 11.
«Così sostenuti e incoraggiati vogliamo prendere coscienza, insieme a tutti gli edu-
4

catori, di alcuni aspetti problematici della cultura contemporanea – come la tendenza a


ridurre il bene all’utile, la verità a razionalità empirica, la bellezza a godimento effime-
ro – cercando di riconoscere anche le domande inespresse e le potenzialità nascoste, e
di far leva sulle risorse offerte dalla cultura stessa» (EVBV, 7).
5
«Educare richiede un impegno nel tempo, che non può ridursi a interventi pura-
mente funzionali e frammentati; esige un rapporto personale di fedeltà tra soggetti
attivi, che sono protagonisti della relazione educativa, prendono posizione e mettono
in gioco la propria libertà. Essa si forma, cresce e matura solo nell’incontro con un’altra
libertà; si verifica solo nelle relazioni personali e trova il suo fine adeguato nella loro
maturazione» (EVBV, 26).

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Gli aspetti problematici che viviamo e nei quali più forte si avverte
l’urgenza dell’azione educativa non sono oggetto di ricercate indagini
socio-culturali da parte dei Vescovi; al n. 30 degli Orientamenti, essi
vengono piuttosto letti nell’ottica dell’assunzione della responsabilità,
soprattutto in risposta a una diffusa mentalità «che induce a dubitare
del valore della persona umana, del significato stesso della vita e del
bene e, in ultima analisi, della bontà della vita, indebolendo l’impegno
– scrivono ancora i Vescovi, citando Benedetto XVI – a trasmettere da
una generazione all’altra qualcosa di valido e di certo, regole di com-
portamento, obiettivi credibili intorno ai quali costruire la propria vita».
Così facendo i Vescovi confermano quanto – a proposito degli aspetti
problematici in cui viviamo – aveva già detto Benedetto XVI, per il
quale essi non sono insuperabili, «sono piuttosto il rovescio della me-
daglia di quel dono grande e prezioso che è la nostra libertà, con la
responsabilità che giustamente l’accompagna»6.
Richiamando e riformulando, nella prospettiva dell’educazione a
un’esperienza integrale della fede (n. 8), gli ambiti del vissuto umano
già indicati dal Convegno ecclesiale di Verona (n. 33), gli Orientamenti
aprono impreviste opportunità per chi sa mettersi in gioco con impe-
gno e responsabilità. «A noi sta a cuore – scrivono i Vescovi – la propo-
sta esplicita e integrale della fede, posta al centro della missione che la
Chiesa ha ricevuto dal Signore. Questa fede vogliamo annunciare senza
alcuna imposizione, testimoniando con gioia la bellezza del dono rice-
vuto, consapevoli che esso porta frutto solo quando è accolto nella li-
bertà» (n. 4). E la fede che si vuole annunciare e testimoniare è la pro-
posta di una sequela che cambia l’uomo e lo rende ancora più umano,
aiutandolo a ritrovare la strada per essere se stesso e per vivere bene,
superando ogni dualismo fra ciò che è umano e ciò che è cristiano.
Cuore dell’incontro con Cristo e paradigma di tutta l’esperienza cri-
stiana è l’intensa relazione che si stabilisce grazie allo sguardo di Gesù
sul giovane che lo interpella come Maestro buono (EVBV, 16) o sulla
folla che lo cerca (EVBV, 17). È l’incontro con Cristo, è cioè l’incrocia-
re il nostro con il suo sguardo a introdurci al senso pieno della realtà e
a quello di una vita “bella” e “buona” da vivere.
La parte propositiva più efficace degli Orientamenti pastorali è costi-
tuita dall’invito a gestire le relazioni educative in modi nuovi, superando
quella visione che fa del relativismo una sorta di verità indiscussa (EVBV,
11); un relativismo che tende a dissolvere la realtà e le relazioni nel gioco
senza fine delle interpretazioni e che apre la strada al dubbio, come si è
già detto, sulla possibilità stessa dell’educare e sulla sua “convenienza”.

6
BENEDETTO XVI, Lettera alla Diocesi e Città di Roma sul compito urgente dell’edu-
cazione (21 gennaio 2008).

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A fronte di questa deriva, «il primo contributo che possiamo offrire


– aveva già detto Benedetto XVI ai Vescovi italiani radunati in Assem-
blea generale – è quello di testimoniare la nostra fiducia nella vita e
nell’uomo, nella sua ragione e nella sua capacità di amare. Essa non è
frutto di un ingenuo ottimismo, ma ci proviene da quella “speranza
affidabile” (Spe salvi, n. 1) che ci è donata mediante la fede nella reden-
zione operata da Gesù Cristo»7.
L’impegno a sentire forte l’urgenza educativa poggia contemporane-
amente sulla coscienza del “deserto di insensatezza” in cui ci troviamo,
ma anche sull’affermazione di chiara indole antropologica della educa-
bilità dell’uomo, capace sempre di stabilire legami e di fornire risposte
a tutte quelle esperienze vitali che interpellano la sua libertà (EVBV, 8).
In una “società-caleidoscopio” o – come da altri è stato detto – in
una “società mercatone”, che presenta sempre “nuove frontiere” ai tanti
navigatori cross-mediali, si tratta di ripensare l’educazione come com-
pito e come passione dell’uomo per l’uomo (EVBV, 30), a partire dal
suo significato originario e dalla sua matrice antropologica. Si tratta
cioè di offrire tutti quegli strumenti necessari per consentire di intercet-
tare e di interagire con la complessità dei flussi relazionali sia di quelli
reali sia di quelli virtuali (EVBV, n. 51), questi ultimi sempre più nume-
rosi e invadenti.
La complessità del contesto esige – come viene più volte indicato nel
documento dei Vescovi – una adeguata consapevolezza dell’importanza
dell’educare da parte di tutta la società, «favorendo condizioni e stili di
vita sani, rispettosi dei valori, in cui sia possibile promuovere lo svilup-
po integrale della persona» (EVBV, 50). Al di là delle singole espressioni
cui i Vescovi ricorrono, dalle pagine del documento si avverte la netta
percezione che quanto oggi viene chiesto alle comunità cristiane sia
molto di più che nel recente passato. I molteplici cambiamenti interve-
nuti ai vari livelli hanno davvero investito, turbato e modificato il modo
di pensare e di vivere propri della società occidentale, iniziando a farsi
sentire – al modo di una «corrente fredda» (EVBV, 5) – dentro e sui più
elementari luoghi deputati all’educazione: la famiglia e la scuola. Pro-
ducendo poi – e questo è il punto saliente dell’intero documento – una
prassi adulterata dell’“adultità”, che a sua volta compromette di netto
il dialogo tra le generazioni, vero perno dell’agire educativo.

7
BENEDETTO XVI, Discorso all’Assemblea Generale della CEI (28 maggio 2009),
citato al n. 15 di EVBV.

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2 EDUCARSI PER EDUCARE...


ALLA SCUOLA DEL MAESTRO BUONO

Lo scenario nel quale oggi le singole comunità cristiane si trovano a


continuare la loro missione educativa viene sinteticamente evocato ne-
gli Orientamenti grazie all’ausilio, come si è già detto, del magistero di
Benedetto XVI. A Papa Ratzinger va riconosciuto il merito di aver per
primo svegliato la domanda circa quale educazione l’intera società stia
oggi offrendo alle nuove generazioni, bloccando con decisione la peri-
colosa deriva di un continuo unidirezionale scarico di responsabilità su
queste ultime8, strategia che tanto alletta quel mondo adulto descritto
con parole di fuoco dai Vescovi come demotivato, poco autorevole, e
incapace di testimoniare ragioni di vita: «Molte delle difficoltà speri-
mentate oggi nell’ambito educativo – si legge al n. 12 – sono riconduci-
bili al fatto che le diverse generazioni vivono spesso in mondi separati
ed estranei. All’impoverimento e alla frammentazione delle relazioni si
aggiunge la difficoltà con cui avviene la trasmissione da una generazio-
ne all’altra. I giovani si trovano spesso a confronto con figure adulte
demotivate e poco autorevoli, incapaci di testimoniare ragioni di vita
che suscitino amore e dedizione».
Dietro le categorie di relativismo, autoreferenzialità, eclissi del sen-
so di Dio, spontaneismo – evocate direttamente o indirettamente nel
documento dei Vescovi – non si cela chissà quale filosofo o agile pensa-
tore postmoderno; dietro e dentro queste categorie scorre ormai la vita
del cittadino medio dell’Occidente. E questo vale persino per il cittadi-
no di un Paese tradizionalmente vicino, per ethos condiviso, alle buone
ragioni del Vangelo e all’affidabile compagnia della Chiesa. Dai Vesco-
vi non viene una sterile quanto scontata denuncia di queste categorie e
delle relative prassi; descrivendoli, gli Orientamenti intendono richia-
mare a un più attento discernimento tra ciò che nelle prassi delle nostre
comunità è ancora vivo e buono e ciò che invece si è reso più precario
e insicuro.
È vivo senz’altro il principio ispiratore dell’agire ecclesiale in campo
educativo: nulla di veramente umano è alieno al cristiano e perciò nes-
sun tentennamento nel sostegno alle famiglie, specie a quelle più giova-
ni, alla scuola, all’università, agli oratori, allo sport, al mondo del lavo-
ro, ai nuovi “cittadini” di questo Paese sempre più senza culle. È senz’al-
tro viva la ragione ultima della missione evangelizzatrice della Chiesa,
la consapevolezza cioè che l’uomo è degno di Dio e per questo deve
essere accompagnato a rintracciare tale sua speciale destinazione nei

8
Cf Lettera del Santo Padre Benedetto XVI alla Diocesi e alla Città di Roma sul
compito urgente dell’educazione, 21 gennaio 2008.

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risvolti interiori del suo cammino di vita: perciò largo spazio alla cate-
chesi, a una vita liturgica piena, all’associazionismo, alla pietà popola-
re, e a quanto lo Spirito suscita nel tempo.
Meno sicuro e quindi più precario risulta invece l’affidamento a un
contesto di senso e di prassi educative – dalla famiglia alla scuola, dalla
cultura di massa ai modi e mondi dell’intrattenimento – naturalmente
accordato all’ispirazione evangelica della dignità suprema della perso-
na; meno sicura e quindi più precaria è l’effettiva disponibilità di risor-
se umane (preti, religiosi, animatori) da destinare agli spazi di una pre-
senza cristiana, capillarmente diffusa sul territorio nazionale.
L’orientamento pastorale pertanto – che i Vescovi lanciano alle co-
munità cristiane circa la qualità educativa che esse, dati i tempi correnti,
riescono a esprimere, al fine dunque di «procedere alla verifica degli
itinerari formativi esistenti e al consolidamento delle buone pratiche
educative in atto» (EVBV, 6) – si sostanzia ancora di una felice ripresa
dello stile educativo di Gesù e di una più poderosa meditazione del
gesto elementare dell’educazione. Ogni autentico inizio è per il cristia-
no in verità sempre un ritorno alle sorgenti del suo stesso essere e agire:
un ritorno dunque alle parole e alla prassi di Gesù, le quali illuminano,
riqualificandole, le parole e la prassi dei suoi discepoli nel tempo. Il
numero 25 del documento programmatico dei Vescovi per il decennio
in corso appare perciò come la sua punta di diamante: «In Gesù, Mae-
stro di verità e di vita che ci raggiunge nella forza dello Spirito – vi si
legge – noi siamo coinvolti nell’opera educatrice del Padre e siamo ge-
nerati come uomini nuovi, aperti a stabilire relazioni vere con ogni per-
sona. È questo il punto di partenza e il cuore di ogni azione educativa».
Non solo i credenti, non solo i consacrati, non solo coloro che han-
no specifiche responsabilità educative all’interno della comunità eccle-
siale, ma ogni adulto veramente appassionato delle sorti delle nuove
generazione dovrebbe tenere fisso lo sguardo su Gesù che genera i suoi
primi discepoli a un amore per la vita e a una vita per amore, a un
desiderio di pienezza e a una pienezza del desiderio, a una crescita del-
l’interiorità e a un’interiorità della crescita. Tenere lo sguardo fisso sul-
lo stile educativo di Gesù9.

9
In questi primi mesi si sono registrate già numerose mediazioni al documento dei
Vescovi italiani per il decennio in corso. Molte di queste mediazioni vanno efficace-
mente, e come auspicato dagli stessi Vescovi, al di là della semplice riproposizione dei
contenuti presenti negli Orientamenti. Tra i tanti possibili esempi: la Lettera pastorale
di Mons. Felice di Molfetta “Perché mi cercavate?”. Nel testo proposto alla sua comu-
nità, il presule va al di là del metodo deduttivo sostanzialmente sposato dal documento
dei Vescovi italiani e propone – con precisi riferimenti storici – l’esperienza che ha
portato Gesù a “crescere in età, sapienza e grazia”. Gesù di Nazaret si è messo alla
scuola e ha interagito in maniera creativa e intelligente con il suo ambiente socio-reli-
gioso e con il clima di famiglia che caratterizzava la sua casa. Ne scaturisce un invito,

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Quale educazione, dunque? Eccola qui, in presa diretta. Un’educa-


zione che suscita e riconosce il desiderio, che non difetta del coraggio
della proposta, che conosce il gusto e la sfida della pazienza, della gra-
dualità, della reciprocità, che non si arrende lungo il cammino, ma per-
severando continuamente apre spazi d’amore, ripetendo nei gesti oltre
che con le parole: “Tu mi interessi”.
Per Gesù, insomma, l’altro esiste. È persona. È latore di domande e
di desideri. Non si riduce, il suo incontro, a fugace contatto o a transi-
torio scambio di opinioni. Per Gesù l’altro è persona, che cerca ragioni
di vita, sentieri non interrotti verso quella suprema dignità che abita
ogni umano: l’essere degno di Dio; una dignità scoperta in sé che illu-
mina anche il rapporto con ogni altro essere umano.
Su questo sfondo si delinea la direttrice fondamentale della passione
educatrice che la Chiesa da sempre esprime e che oggi è chiamata a
verificare con maggiore consapevolezza e senso critico, non solo in re-
lazione al mutato contesto culturale ma anche in piena ispirazione al-
l’agire stesso di Gesù.

3 QUALE EDUCAZIONE
IN UN MONDO CHE CAMBIA?

Quale educazione, allora? Un’educazione quale cammino capace di


generare l’uomo al mistero del suo essere “persona”, un’educazione
che lo renda ospitale nei confronti degli altri con amore e con fiducia in
un «mondo che cambia – avvertono i Vescovi al n. 7 degli Orientamenti
pastorali – [e che] è ben più di uno scenario in cui la comunità cristiana
si muove: con le sue urgenze e le sue opportunità, provoca la fede e la
responsabilità dei credenti».
«Oggi basta avere almeno quarant’anni – osserva a questo proposito
A. Schiavone – per percepire la sensazione di distacchi epocali da interi
mondi di abitudini e di comportamenti perduti, e che si stanno comple-
tamente dimenticando»10.

per quanto è dato di capire, a valorizzare e moltiplicare le fonti che possono e devono
contribuire all’educazione, con un occhio attento alla storia nella quale ciascun uomo è
inserito. Facendo eco, in questo, a quanto scrive M. Buber nel suo saggio Sull’educati-
vo: «Il mondo, cioè tutto il mondo circostante, natura e società, “educa” l’uomo: ne
suscita le forze, lascia che esse afferrino e compenetrino i suggerimenti del mondo. Ciò
che noi chiamiamo educazione, quella consapevole e voluta, significa selezione del mondo
agente operata dall’uomo; significa attribuire potere decisivo ed efficace a una selezio-
ne del mondo raccolta e mostrata nell’educatore» (M. BUBER, «Sull’educativo», in ID., Il
principio dialogico e altri saggi, San Paolo, Cinisello Balsamo 1993, 168).
10
A. SCHIAVONE, Storia e destino, Einaudi, Torino 2007, 52.

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È da una tale osservazione dello storico del diritto e noto intellettua-


le italiano, che deve prendere avvio una seria riflessione sul tema del-
l’educazione in un mondo che cambia. È proprio così: siamo cambiati,
siamo cambiati nelle nostre abitudini e nei nostri comportamenti, sia-
mo cambiati nel nostro modo di vivere e di sognare, di amare e di
viaggiare, di lavorare e di attendere alla ricerca della felicità. Una muta-
zione rapida, repentina, radicale.
Siamo in cammino in uno scenario antropologico – Schiavone parla
non a caso di abitudini (abiti) e comportamenti (portarsi/stare insieme)
– nuovo, inedito, nel quale ciascuno è sollecitato a tornare a “casa”, per
evitare una condizione permanente di estraneità.
E la domanda di fondo sarà appunto quella circa lo stile con cui
abitare il cambiamento che ci ha investiti, quasi di soprassalto e di sor-
presa; e di riflesso, pensando alle nuove generazioni, la domanda di
fondo investe pure la questione intorno a quale educazione sia all’altez-
za di una tale nuova situazione.
«Negli ultimi anni abbiamo corso così velocemente che ora dobbia-
mo sostare un attimo per consentire alle nostre anime di raggiungerci».
Ha davvero ragione Michael Ende: dobbiamo sostare un attimo, per
provare a prendere consapevolezza del veloce cammino e cambiamento
che il nostro mondo, sotto il profilo umano, ha realizzato in questi ulti-
mi quarant’anni. Cammino e cambiamento che non di rado ci tolgono il
fiato: ci lasciano senza parole, tra le tante opportunità che ci sono offer-
te e le mille tragedie di ogni giorno, tra le numerosissime possibilità a
nostra disposizione e la fatica di arrivare a sera con un minimo di sere-
nità, tra le cento vite che non abbiamo ancora vissuto e che titillano di
continuo il nostro cuore e quell’unica nostra storia di vita dove non
sempre i capitoli seguono un’auspicabile trama lineare e sensata.
Gli Orientamenti pastorali rischiano l’irrilevanza e quindi l’ineffica-
cia se non vengono accolti e tradotti in maniera consapevole e alla luce
dei dinamismi che segnano il nostro tempo. È questo il tempo, anche
per i credenti, di un loro sostare su tale nuovo volto del mondo, per poi
saper stare con un volto nuovo di Chiesa in esso.
Sono almeno quattro i vettori da tenere presenti al fine di cogliere
alla moviola il volto di questo mondo che è cambiato. Sono vettori che
possono contribuire a riscattare i passaggi più significativi degli Orienta-
menti dal novero delle pie aspirazioni, trasformandoli invece in volani
significativi per la vita dei credenti. Proponendoli, si vuole contribuire a
cogliere quella serie di domande inespresse, ma che sono sullo sfondo di
scelte e comportamenti che non possono essere ignorati da chi intende
vivere in maniera responsabile e consapevole il compito educativo. Pos-
siamo così individuare quelli che abbiamo chiamato “vettori”: 1) le rela-
zioni intergenerazionali; 2) l’individualismo diffuso; 3) le nuove aspet-
tative di felicità; 4) la mutazione del senso del tempo e del lavoro.

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3.1. Le relazioni intergenerazionali

Siamo diventati più longevi. Soprattutto la popolazione maschile. È


aumentato il numero degli anziani presenti nelle città, mentre è diminu-
ito il numero dei giovani (15-29 anni): nel 1950 rappresentavano un
quarto della società, oggi solo un settimo. Una perdita secca del 27 per
cento (M. Livi Bacci). Ci sono meno giovani anagrafici, ma in compenso
ci sono più giovani “culturali”. L’aumento dell’età media, grazie alla
medicina ed ai nuovi confort abitativi e lavorativi, è infatti accompagna-
to da un nuovo sentimento di giovanilismo, che già aveva trovato la sua
celebrazione culturale nel Sessantotto. Questi fenomeni hanno ovvia-
mente ampie ricadute sullo “spirito” che vive e vigila tra le generazioni.
Se una volta la bassa soglia della mortalità maschile era quasi un
calmiere sociale (per molte situazioni familiari difficili non c’era biso-
gno del divorzio, bastava avere pazienza...), oggi l’aver a che fare con
una vita lunga richiede tanti adattamenti e porta tanti turbamenti. Biso-
gna amarla una vita lunga, non si può più presentare la vita oltre i
cinquanta come vita “da vecchi”: come pensare di trascorrere altri trenta,
quaranta anni “da vecchi”?
Ed ecco allora che è sparita – culturalmente sparita – da noi la vec-
chiaia. Quando si diventa vecchi? Per la maggior parte degli italiani
dopo gli ottant’anni; peccato che la vita media degli italiani è di appena
81 anni. Da noi quindi si diventerebbe vecchi solo dopo la morte11.
E quali contraccolpi ha una tale convinzione! Essa implica una sva-
lutazione dell’essere adulto. L’accoglienza della possibilità della vec-
chiaia e della morte è la condizione per un esercizio autentico della
libertà – è questo che la saggezza filosofica ci ha sempre raccontato da
Platone sino a Heidegger. L’assunzione della possibilità della morte è la
premessa di ogni autenticità. Morirò: cioè ho una vita. Oggi assistiamo
all’imporsi di un concetto di libertà quale continua possibilità di poter
sempre revocare le proprie scelte. Di poter annullare le scelte. Cancel-
lare gli inestetismi e le ferite del tempo. In questo modo però si mina e
si svuota il concetto di “adultità”, inteso come sintesi di memoria, di
responsabilità e di onesta resa dei conti con l’esistenza. E ovviamente si

11
Afferma Ilvo Diamanti: «[...] colpisce che il 35 per cento degli italiani con più di
quindici anni (indagine Demos) si definisca “adolescenti” (5 per cento) oppure “giova-
ni” (30 per cento). Anche se coloro che hanno meno di trent’anni non superano il 20
per cento. Peraltro, solo il 15 per cento si riconosce “anziano”. Anche se il 23 per cento
della popolazione ha più di sessantacinque anni. D’altronde, da noi, quasi nessuno
“ammette” la vecchiaia. Che, secondo il giudizio degli italiani (come mostra la stessa
indagine condotta pochi anni fa: settembre 2003), comincerebbe solo dopo gli ot-
tant’anni. In altri termini, vista l’aspettativa di vita, in Italia si “diventa” vecchi solo
dopo la morte» (I. DIAMANTI, Sillabario dei tempi tristi, Feltrinelli, Milano 2009, 64).

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mette a repentaglio il rapporto con le generazioni più giovani: chi è un


adolescente? Uno che è chiamato a diventare “adulto” e per far questo
guarda agli adulti; ma se gli adulti non vogliono più diventare ed essere
“adulti”, come potranno diventare adulti coloro che nel nome portano
questo destino?
E questa è una cosa che ogni giorno sentiamo. Si pensi alla pubblici-
tà delle creme per donna. Avere belle donne è un piacere per tutti... Ma
la pubblicità si riferisce di più alle donne e alle mamme, soprattutto: se
vuoi che nessuno riesca a distinguere la differenza tra te e tua figlia, usa
questa crema. Ora, che un uomo qualsiasi non colga la differenza –
artificiosamente annullata – tra una mamma e sua figlia, non fa diffe-
renza, ma se la figlia non coglie più la differenza tra sé e sua mamma,
questo fa differenza e iniziano i guai: infatti crescere significa diventare
altro da sé (già sul livello biologico), guardando a modelli significativi
(come una mamma per una figlia). Una mamma, ma una mamma che
vuole diventare come sua figlia, è come se dicesse: “rimani te stessa”.
Cioè: non crescere!
Ed è per questo che nelle nostre famiglie si vive come “stranieri resi-
denti”: le generazioni non riescono più a parlarsi, si invertono – a volte
sino ad annullarsi – i ruoli. D’altro canto, se i giovani non vedono altro
e oltre nei loro adulti rispetto a quella corsa per un’impossibile giovi-
nezza, che li sta consumando, che cosa avrebbero da imparare da loro,
vivendo essi sulla loro pelle una giovinezza vera e non artificiale? Un
adulto che non ama essere adulto cancella quella differenza, che l’età, la
natura, l’esperienza predispongono, e che è la condizione autentica di
ogni dialogo. Ove non ci sia asimmetria – che la diversità dell’adulto
dovrebbe rappresentare – non ci può essere dialogo educativo.
Quanta ambivalenza: vita più lunga, più sana e poi biografie impos-
sibili e impensabili.

3.2. L’individualismo diffuso

Il secondo vettore per cogliere il nuovo volto dell’umano che siamo


diventati è l’individualismo diffuso, frutto spicciolo di quel cambiamento
capitale della nostra cultura che ha sdoganato il narcisismo. Dopo seco-
li vissuti all’ombra di Edipo e quindi di una colpa che tocca con la
nascita a ciascuno, oggi viviamo alla luce di Narciso: tutti sono uguali e
ciascuno di noi è unico (slogan dello stesso Sessantotto).
Da qui nasce una nuova cura di sé, del proprio corpo, della propria
igiene psichica, del modo di vestirsi, di organizzare gli spazi abitativi e
il proprio tempo libero, del proprio corpo, dei propri interessi, della
propria carriera e dei propri soldi. Tutto ciò è poi possibile anche grazie
ai progressi della medicina, delle applicazioni della bioingegneria, del-

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l’estetica. Non sono di per sé cose negative. Ma ogni fenomeno ha


molte prospettive e ricadute.
Da questo narcisismo diffuso deriva quel tratto di individualismo,
che segna i nostri palazzi (nessuno conosce quasi più il proprio vicino
di casa), deriva quel tratto di cinismo (non mi interesso delle ricadute
delle mie scelte), deriva infine quel concetto di indispensabilità che ognu-
no oggi nutre nei propri riguardi: certi posti e posizioni di potere e di
rendita non si lasciano mai con grande problema per la popolazione
giovanile.
Le discussioni degli adulti riguardano sempre e solo i loro problemi.
Si hanno occhi solo per sé e i giovani diventano letteralmente “invisibi-
li”. Perché i giovani amano la notte – si è chiesto giustamente Umberto
Galimberti? Perché di giorno nessuno si prende cura di loro. Basta guar-
dare alle leggi che si approvano nei parlamenti, alla situazione precaria
della scuola e dell’università, ai mutui, alla mancata politica per il lavo-
ro, per le famiglie giovani, per la casa, per gli asili nido.
E così i giovani non possono onorare il nome che portano. Giovane
deriverebbe, infatti, dal latino iuvare, essere d’aiuto, e tale nome è loro
assegnato perché hanno il meglio della forza fisica, riproduttiva, intel-
lettiva e del desiderio di cambiamento. Ma la nostra società, sempre più
vecchia, più lenta nei ricambi, tende a fare a meno di questo aiuto. Con
un grave danno per tutti, a partire dalla terribile crisi della natalità.
Un adulto narciso può essere autorevole, può insegnare la violenza e
la durezza della vita, la finitezza dell’essere? Chi non sopporta su di sé
la bellezza dura e la durezza bella della vita, non può insegnarla agli
altri, non può essere un’autorità che incanala e che sappia anche sbloc-
care, autorizzare, altri a diventare autori e attori del loro corso di vita.

3.3. Le aspettative di felicità

Registriamo poi ancora il sorgere di un rapporto radicalmente di-


verso tra i sessi, grazie ed a causa del nuovo protagonismo delle donne.
Le donne hanno finalmente conquistato una consapevolezza di loro
stesse nuova, piena, totale, grazie alla conquista di prerogative politi-
che, sociali, culturali e infine economiche, sino a metà del secolo scorso
semplicemente negate.
Ciò le ha portate da circa quarant’anni a non accettare più il sempli-
ce status di “madre dei figli” del proprio marito. Questo cambiamento
si ripercuote proprio sul vero grande perno della società: l’istituto fa-
miliare.
Sappiamo tutti che nel passato le cose non andavano meglio o che
oggi non c’è una colpa delle donne, ma non si può non prendere co-
scienza dell’emergenza del nuovo e di ciò che non ci è più dato: la

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famiglia e l’esercizio della genitorialità riescono raramente a esaurire il


bisogno di realizzazione degli adulti, degli uomini come delle donne.
La stessa relazione affettivo-sessuale non è più quel “cielo in una stan-
za, quando tu sei qui con me”.
La ricerca della felicità migra “altrove”. Altrove rispetto alle mura
domestiche.
Da qui la mancanza di tempo per stare con i figli, e uno impara ad
abitare il tempo solo se c’è qualcun altro che perda tempo con lui. Ed
ecco in arrivo invece l’esercito di babysitter e poi quella che è la baby-
sitter delle babysitter: mamma tv, come giustamente stigmatizza da
tempo Galimberti. Da qui la scarsa riproduttività, l’aumento di divor-
zi, l’imprevedibilità dei corsi di vita, e ancora un’ulteriore necessità e
utilizzo di risorse per soddisfare una ricerca di felicità all’altezza della
nuova consapevolezza raggiunta dagli adulti, con danno per le nuove
generazioni. Una tale felicità “oltre le mura di casa” costa moltissimo
e distrae risorse.

3.4. Il nuovo rapporto con il tempo e con il lavoro

L’ultima caratteristica di questo mondo che è cambiato è data dal


fatto che si è modificato il rapporto diffuso con il tempo, con il lavoro
e la relazione pubblico/privato. Ci sono offerte tante possibilità: lavo-
rare più velocemente grazie ai computer, viaggiare più facilmente, spo-
stare denaro in un nulla, comunicazioni super veloci. Ma poi siamo
pure diventati prigionieri di questo mito dell’efficienza, della perfor-
mance, del dinamismo: sempre in movimento, in affanno.
Tendiamo a programmare più di quanto sarebbe sensato fare e la
vita ci appare come qualcosa da conquistare, da consumare, una specie
di lotta. Per favorire tutti questi tempi singoli sempre più veloci e brevi,
sono aumentate la standardizzazione e la burocratizzazione del lavoro
e dei servizi: procedure semplici, veloci, snelle. Puoi prenotare e pren-
dere un aereo o un treno senza parlare mai con nessuna persona!
E per contraccolpo al lavoratore si chiede solo di corrispondere alla
funzione che gli è assegnata. Nessuno investimento emotivo o creati-
vo. Il lavoro perde moltissimo in questo: non è più uno spazio di uma-
nizzazione.
Quello pubblico poi è diventato uno spazio freddo, fatto di falsa e
gelida gentilezza, abitato da funzionari che rispondono a schemi pre-
stabiliti e dove l’unica lingua da tutti accettata è il denaro.
La cosa ha, non può non avere, grandi ricadute sulla sfera privata,
sulla sfera della famiglia e della coppia, sempre più investita da eccessive
attese. Una sfera privata, che come si è accennato prima, ha subìto già
tante modifiche: è attraversata da ciò che A. Giddens chiama la “demo-

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crazia degli affetti”, e più isolata nel contesto urbano e più affaticata per
la cura da prestare ai suoi membri anziani, e tutto questo poi sfocia – non
raramente – nel dato inquietante per il quale in Italia la famiglia diventa
spesso luogo di violenze inaudite, che vanno, come si capisce, in tutt’al-
tra direzione rispetto a quanto domanda lo sviluppo della persona.

4 LA DOMANDA DI RAGIONI PER VIVERE:


GIOBBE, OVVERO LA RICERCA
DI RISPOSTE SENSATE A DOMANDE REALI

Perché – in presenza dei vettori che segnano questo nostro tempo –


lo sviluppo integrale della persona non venga confinato tra gli slogan di
sicura efficacia linguistica ma di altrettanta inconsistenza pratica, è ne-
cessario ricordare di nuovo che educare vuol dire trasmettere, comuni-
care e testimoniare, in modo credibile12 ed efficace, ragioni per vivere
in maniera significativa. «Un’autentica educazione deve essere in grado
– scrivono i Vescovi – di parlare al bisogno di significato e di felicità
delle persone [...]. Il compito dell’educatore cristiano è diffondere la
buona notizia che il Vangelo può trasformare il cuore dell’uomo, resti-
tuendogli ragioni di vita e di speranza» (EVBV, 8).
Uno degli aspetti più preoccupanti dell’“emergenza educativa” è, dal
punto di vista antropologico, proprio la distanza tra la domanda di ra-
gioni per vivere – che può cambiare nei modi d’essere posta, ma che non
è mai venuta meno – e le risposte che a questa domanda vengono forni-
te da quelle che – con un’espressione certamente poco felice e forse
anche fin troppo enfatica – vengono chiamate “agenzie educative”.
A proposito di coerenza tra la richiesta di ragioni per vivere e le
risposte a essa fornite – ma a proposito anche dei cortocircuiti che pos-
sono crearsi tra richiesta di ragioni per vivere e risposte che a esse ven-
gono fornite – da più parti e in maniera abbastanza efficace viene ricor-
data una frase riportata da G. Bernanos e presente in uno dei suoi di-
scorsi sulla libertà. Ricordando le vittime della Prima Guerra Mondia-
le, soprattutto quelle perite presso la trincea del bacino parigino del
fiume Marna, lo scrittore francese attribuisce ai più giovani, tra i morti,
un’amara constatazione: «abbiamo chiesto ai nostri padri una ragione
per vivere ed essi ci hanno mandato a morire nelle trincee».

12
EVBV, 29. La forza di ciò che si comunica non è direttamente proporzionale alla
coerenza di vita di chi comunica. Certo, la coerenza del comunicatore rende più credi-
bile ciò che comunica. La forza di ciò che si comunica sta nel fatto che ciò che si
comunica è vero per me. E lo è con la stessa forza del “fuoco” del quale parla Geremia
(20,9b): «Ma nel mio cuore – scrive il profeta – c’era come un fuoco ardente, trattenuto
nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo».

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La domanda di ragioni per vivere, la domanda cioè di ragioni per


non morire, rivolta da quei giovani – ma che appartiene anche alle
nostre generazioni – non solo non è stata accolta nel suo carattere più
profondo, ma è stata dirottata, simbolicamente, sulla Marna, cioè su
una trincea che ha visto nel corso di due giorni interi la morte di trecen-
tomila giovani francesi e tedeschi.
Dinanzi ai preoccupanti segni dell’emergenza educativa, non ci si
deve infatti rassegnare un po’ tutti all’ineluttabilità della Marna, che, a
questo punto, diventa quasi come simbolo della non accoglienza di
domande reali, anzi come simbolo del tradimento di quelle domande.
Certo, mentre ci interroghiamo sull’emergenza educativa, non si può
non notare come il gran parlare che si fa, oggi, di emergenza educativa
segua a un periodo in cui – più che confrontarci su questo o quel mo-
dello di educazione o su questo o quel contenuto dell’azione educativa
– siamo stati chiamati a confrontarci con (e qualche volta a far argine
nei confronti di) chi ha sostenuto a gran voce che l’educazione è impos-
sibile, inutile o, come ha affermato il laicismo moderno fin quasi a oggi
– e facendo malamente il verso alla pedagogia illuministica e idealista –
che l’educazione è dannosa e che la vera educazione consiste nell’eman-
ciparsi e nel liberarsi dall’educazione13. Nei confronti di simili atteggia-
menti, molto più diffusi di quanto non si pensi, non è pensabile che ci si
presenti con aggiustamenti più o meno accorti in questo o in quell’am-
bito (EVBV, 26).
I fallimenti sul piano educativo e la conseguente dichiarata emer-
genza educativa14, prima di essere il frutto amaro di strategie pedagogi-
che poco accorte (talvolta addirittura obsolete), rappresentano il prez-
zo che si paga tutte le volte in cui, pur continuando a proclamare la
centralità della persona, se ne semplificano (se non proprio banalizza-
no) i caratteri.
Rimandando ad altri contesti l’analisi dei caratteri dell’universo per-
sonale che devono fungere da punti di riferimento per una corretta azione

13
Posizione – per altri versi e con ben altri risvolti sul piano antropologico – presen-
te nello strutturalismo, movimento culturale non più di moda tra gli studiosi ma i cui
effetti sono evidenti e forti nell’opinione comune e che è facile ritrovare nella costru-
zione del “politicamente corretto” agnostico e relativista che sembra aver contaminato
ogni forma di pensiero. L’iniziatore di questa forma di strutturalismo è C. Lévi-Strauss.
A conferma di questo giudizio si può leggere quanto ha scritto E. Lévinas: «l’ateismo
moderno – ha scritto il filosofo ebreo – non è la negazione di Dio, ma l’indifferentismo
assoluto di Tristi Tropici. Penso che sia il libro più ateo che sia stato scritto al giorno
d’oggi, il più disorientato e disorientante» (Riportato in L. SCARAFFIA, «L’antropologia
senza centro», in Avvenire del 24 luglio 2008, 26).
14
Discorso di Benedetto XVI in occasione del Convegno ecclesiale diocesano di
Roma.

RdT 52 (2011) 19-38 33 N. GALANTINO - A. MATTEO


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formativa15, ci limitiamo a rileggere un segmento della vicenda umana


di Giobbe, con l’intento di cogliere uno dei caratteri fondamentali del-
l’uomo contemporaneo e quindi un punto di partenza imprescindibile,
dal punto di vista antropologico, per affrontare la sfida educativa.
Conosciamo un po’ tutti i contenuti drammatici della vicenda uma-
na del personaggio biblico, il quale si vede gradualmente ed inesorabil-
mente distruggere le cose che costituivano la sua ricchezza e i figli che
rappresentavano il segno della benedizione di Dio, fino a vedere il suo
corpo ridotto a una piaga. Giobbe, di fronte a tutto questo, vuole capi-
re. Piagato nel corpo e nello spirito, va alla ricerca di risposte sensate a
domande reali, conficcate nella sua pelle. Quando tre suoi amici vanno
a trovarlo per consolarlo, Giobbe si ribella e rifiuta in maniera decisa le
loro spiegazioni, teologiche nella forma, ma ideologiche nella sostanza.
Nello stesso tempo, però, e in questa terribile condizione, il personag-
gio biblico non smette di porre domande a Dio, non smette cioè di
cercare la relazione con Lui.
Giobbe smette di porre domande a Dio – domande che in certi mo-
menti hanno il carattere della sfida e che rasentano anche la disperazio-
ne – solo quando Dio stesso apre la sua bocca e riapre il dialogo con lui.
Giobbe smette di porre domande solo quando il Signore riapre con lui
la relazione.
Come il personaggio biblico, l’uomo contemporaneo è un uomo sem-
pre più capace (talvolta, obbligato a...) di porre domande di senso; è un
uomo che ha tanti modi per esprimere il suo bisogno di relazioni auten-
tiche. Quando al realismo delle domande e al bisogno di relazione fan-
no seguito risposte poco o per niente sensate, si innescano quei mecca-
nismi che trovano sintesi nella categoria di “emergenza educativa”. E,
se è vera la continuità tra la vicenda di Giobbe e uno dei caratteri fon-
damentali dell’uomo contemporaneo, si può affermare che, dal punto
di vista antropologico, il primo passo per mostrare di aver seriamente
accolto la sfida educativa è il recupero della relazione che, nel nostro
contesto, assume il carattere di una “relazione educativa”16.

5 LA PERSONA: TRA RELAZIONE EDUCATIVA


E PROGETTO DI VITA

Ma, quando una relazione può definirsi “relazione educativa”? E,


quali contenuti devono transitare attraverso una relazione perché que-

15
N. GALANTINO, Sulla via della persona. La riflessione sull’uomo: storia, epistemo-
logia, figure e percorsi, San Paolo, Cinisello Balsamo 2006, 113-200.
16
Più volte negli Orientamenti pastorali si fa riferimento alla “relazione educativa”
(EVBV, 13.25.26.29.31).

N. GALANTINO - A. MATTEO 34 RdT 52 (2011) 19-38


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sta possa dirsi “relazione educativa”? Assodato che «la relazione educa-
tiva si sviluppa lungo tutto il corso dell’esistenza umana e subisce tra-
sformazioni specifiche a seconda delle fasi» (EVBV, 31) – una relazione
può definirsi “relazione educativa” quando al suo interno transita, da
uno all’altro e con carattere di reciprocità, un progetto di vita da sotto-
porre costantemente a verifica (EVBV, 10). Non è “relazione educati-
va” quella attraverso la quale transitano diktat ideologici più o meno
affascinanti oppure una serie di imposizioni più o meno eticamente
rassicuranti (EVBV, 29).
Certo, bisogna riconoscere che un progetto di vita, che costituisce il
cuore di una relazione educativa, fa sempre più fatica a maturare in un
contesto come il nostro «afflitto – come ha affermato Dario Antiseri17 –
dalla mancanza di una visione generale della propria identità»18. È per
questo che, nel contesto di una relazione educativa, l’azione dell’educa-
re deve configurarsi essenzialmente come un accompagnare l’altro e ac-
compagnarsi all’altro, fornendogli strumenti critico-esistenziali utili per
verificare se questo progetto di vita (fatto di gesti, di parole, di vicinan-
za, di relazione) ha un senso ed è in grado di rendere adulta la persona.
Sono due le malattie mortali che impediscono il raggiungimento del
carattere adulto alla persona: la pura e acritica ripetizione di ciò che
viene dato e il rifiuto pregiudiziale di ogni punto di riferimento che è
fuori o prima di me. Se la prima forma di malattia mortale è facilmente
assimilabile al “tradizionalismo”; la seconda malattia mortale che im-
pedisce il raggiungimento del carattere adulto della persona e che si
nutre di una sottile forma di arroganza e di autoreferenzialità, si confi-
gura, sul piano antropologico, come una sorta di rifiuto della storicità.
Intesa, questa, come la intendono – pur partendo da prospettive diver-
se – sia Popper sia Pareyson19.

17
Cf A. GIULIANO, «Scuola italiana, quale identità?», in Avvenire del 22 Agosto 2008, 29.
All’interno della Chiesa e in vista di un suo superamento, l’emergenza educativa
18

deve fare i conti con una situazione sulla quale ha invitato a porre attenzione il Cardinale
Martini (cf A. GIULIANO, «Scuola italiana, quale identità?», in Avvenire del 22 Agosto
2008, 29). All’interno di una lettura sapienziale e tutto sommato positiva del periodo
attuale, il Cardinale Martini ferma la sua attenzione sulla fatica pedagogica (è il nome che
il porporato dà all’emergenza educativa) che caratterizza il nostro tempo. È una fatica
accentuata dal fatto che «non siamo tutti veri contemporanei». E nel tentativo di esplici-
tare questa constatazione dai forti risvolti pedagogici, egli scrive: «A volte sembra possi-
bile immaginare che non tutti stiamo vivendo nello stesso periodo storico. Alcuni è come
se stessero ancora vivendo nel tempo del Concilio di Trento, altri in quello del Concilio
Vaticano Primo. Alcuni hanno bene assimilato il Concilio Vaticano Secondo, altri molto
meno; altri ancora sono decisamente proiettati nel terzo millennio». E qui conclusione
che colpisce particolarmente: «Non siamo tutti veri contemporanei», scrive il Cardinale.
19
«La storia – scrive Pareyson in Esistenza e persona – è l’essere nel tempo. Il suo
significato è la novità e la conquista. Ogni sviluppo che deduca ciò che non è ancora da

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Confermando una concezione della storia e della storicità che rico-


nosce alla persona la consapevolezza del limite e, nello stesso tempo, la
capacità di proiettarsi in maniera creativa verso il futuro, così ha scritto
K. Popper nelle pagine che accompagnano l’edizione in lingua russa
della sua opera Società aperta:
«Molti considerano la storia come un fiume possente che fa scorrere sotto
il nostro sguardo le sue acque. Vediamo come questo fiume fluisce dal pas-
sato, e se siamo abbastanza esperti, possiamo predire, almeno per grandi
linee, come fluirà oltre. A molti questa sembra un’analogia felice. Io invece
ritengo che essa sia non soltanto falsa, ma anche immorale. La storia finisce
oggi. Ne possiamo trarre sì delle lezioni, ma il futuro non esiste ancora, ed
è proprio questa circostanza a riporre su di noi un’enorme responsabilità
poiché possiamo influire sul futuro, possiamo applicare tutte le nostre for-
ze per farlo migliore»20.
Una storia quindi all’interno della quale la persona è vista come
soggetto capace di stare in maniera vigile e con la consapevole respon-
sabilità del ruolo che in essa riveste: quello di farla avanzare.
Come è avanzata, e in maniera del tutto inaspettata, la storia della
donna samaritana che incrocia Gesù, il “Maestro buono” al pozzo di
Giacobbe (Gv 4,1-14) e come è cresciuta la capacità di interrogarsi de-
gli interlocutori del Battista nel deserto. Quello che avviene sul bordo
di quel pozzo e la serie di domande che vengono poste a Giovanni dopo
le sue parole sono metafora di relazioni autenticamente educative.
A quel pozzo ci va la Samaritana, ma sul bordo di quel pozzo si siede
anche Gesù! Il tenore dell’incontro tra i due e la piega che prende il
loro dialogo ci aiutano a capire che il vero pozzo che sta alimentando
quell’incontro – quella relazione educativa – e che sta favorendo il na-
scere e lo svilupparsi del dialogo è la storia concreta di quella donna.
Intorno e a partire da quella storia concreta, fatta di reticenze e di mez-
ze verità, ma fatta anche di desiderio di rimettere in piedi una vita com-
promessa – intorno e a partire da quella storia – si mette in moto quel
processo virtuoso, che per noi è il dinamismo della fede. E la pagina
dell’evangelista Giovanni è straordinaria nel descrivere questo dinami-
smo: c’è la meraviglia dei discepoli che si trovano di fronte a una scena
inconsueta (Gv 4,27); c’è la donna che, lasciata la brocca, – dimentica-
to cioè il motivo iniziale per cui lei stessa si era recata al pozzo – torna

ciò che è già non è storia, ma divenire biologico o ritmo logico: la storia è inesauribile
innovazione e radicale imprevedibilità. Ogni fluire che disperda i suoi momenti non è
storia, ma dissipazione e rovina: la storia è risparmio e conservazione. [...]. Si può dire
che la storia, se è coincidenza di novità e conquista, è ritmo di esigenza e giudizi,
decisioni e validità. [...]. La storia, come nascita dell’opera e della persona, è iniziativa.
La storia, che è l’essere nel tempo, è iniziativa» (L. PAREYSON, Esistenza e persona, Il
Melangolo, Genova 1985, 159).
20
Traduzione anticipata sul Corriere della sera del 4 agosto 1993.

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in città per raccontare l’incontro fatto e la possibilità offertale di rimet-


tere in piedi la sua vita compromessa (4,28a). E in quel brano è descrit-
to anche il ruolo di mediazione della Samaritana per la fede di altri (Gv
4,28b), i quali «andarono a cercare Gesù e lo pregarono di rimanere
con loro» (Gv 4,40).
Dopo il pozzo di Giacobbe, e a proposito di “relazione educativa”,
ecco il deserto e il rapporto che nel deserto si stabilisce tra Giovanni
Battista e i suoi ascoltatori (Lc 3,10-18)21. Quello che colpisce in quel
deserto è la capacità di Giovanni nel far sorgere domande nei suoi ascol-
tatori. La sua azione pedagogica mentre presenta il Cristo e mentre dà
testimonianza del nuovo da Lui portato provoca interrogativi di forte
impatto nella vita delle varie categorie di persone che sono lì ad ascol-
tarlo. «[...] e noi, che cosa dobbiamo fare?». Ciò che Giovanni dice e
testimonia non solo viene capito, ma trova eco nel cuore degli ascolta-
tori, provoca passione e fa scaturire domande.
La comunità educante che intende trarre da queste due icone bibli-
che indicazioni per la sua azione è la comunità che si propone di provo-
care e di far crescere il coraggio dell’interrogazione radicale; è la comu-
nità che si sente impegnata a liberare dalla paura di interrogarsi sul
senso della presenza di Dio nella storia dell’uomo, anche o proprio a
partire dai veri o presunti silenzi di Dio22.
Far consistere in questo la relazione educativa vuol dire prendere le
distanze dall’atteggiamento dei tre amici (teologi) di Giobbe i quali,
alle lancinanti domande del personaggio biblico, oppongono risposte
ben architettate e con un solo difetto: quello di essere risposte cinica-
mente estranee alla storia reale e quindi alla speranza e alla sofferenza
conficcate nella carne di quell’uomo23. Sappiamo che, con fare amara-
mente ironico, Giobbe invita i suoi amici a tacere e a prendere atto
della inutilità delle loro parole: «[...] perché dunque vi perdete in cose
vane?» (Gb 27,12).

21
«Le folle lo interrogavano: “Che cosa dobbiamo fare?”. Rispondeva loro: “Chi ha
due tuniche, ne dia a chi non ne ha; e chi ha da mangiare faccia altrettanto”. Vennero
anche dei pubblicani a farsi battezzare e gli chiesero: “Maestro, che cosa dobbiamo
fare?”. Ed egli disse loro: “Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato”. Lo
interrogavano anche alcuni soldati: “E noi, che cosa dobbiamo fare?”. Rispose loro:
“Non maltrattate e non estorcete niente (lett. non accusate per soldi) a nessuno, accon-
tentatevi delle vostre paghe”».
22
Il pastore luterano Dietrich Bonhoeffer ci ha consegnato, a questo proposito,
pagine straordinarie, valorizzate in un contesto più ampio da A. Trupiano, nella secon-
da parte del suo recente La via della sapienza in Josef Pieper e Dietrich Bonhoeffer.
Interpretazione della realtà e discernimento del bene, Cittadella, Assisi 2010, 229-449.
23
Gb, cc. 4-27.

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Per concludere. Una lettura degli Orientamenti che accetti di misu-


rarsi con le dinamiche in atto in un “mondo che cambia” e che abbiamo
cercato di tratteggiare nei loro aspetti più evidenti avrà poco o nulla da
temere nel proporsi in un contesto di rigorosa e sana laicità. Purché si
impari a distinguere tra la sacrosanta laicità degli spazi e un’improbabi-
le laicità dei contenuti. Non esistono contenuti “laici”, quando per “lai-
cità” si intende, come ritiene gran parte del laicismo nostrano, indiffe-
renza ed equivalenza di posizioni. Quando la laicità è intesa così, non
solo risulta inutile ogni riferimento all’azione educativa, ma parlare di
stato, di scuola e di società “laici” equivale a considerare lo stato, la
scuola e la società come i diversi banchi di un grande mercato sui quali
ognuno espone la propria merce; con la convinzione però che, non
solo quella esposta dagli altri, ma anche nel caso della propria, si tratti
in fondo di merce priva di forza contrattuale, priva di progettualità
forti, priva di una sua razionalità e quindi incapace di giustificare l’in-
vestimento di energie significative.
Mentre, stato, società sanamente “laici” – se vogliamo conservare la
metafora del mercato – sono i diversi spazi nei quali, chi espone la
propria merce, lo fa con convinzione, puntando sulla forza, sulla sensa-
tezza e sulla ragionevolezza di quello che espone. Lo fa con la convin-
zione del valore pleromatico di quello che va proponendo e interpre-
tando il suo come il ruolo di chi accompagna l’interlocutore offrendo-
gli strumenti criticamente testati in ordine alla verifica di senso di quanto
viene proposto.
«In una società caratterizzata dalla molteplicità di messag-
gi e dalla grande offerta di beni di consumo, il compito
più urgente diventa, dunque educare a scelte responsabili»
(EVBV, 10).

N. GALANTINO - A. MATTEO 38 RdT 52 (2011) 19-38

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