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DIRITTO COMMERCIALE

21/09

Mentre l’art.2135 del Codice civile ci dice chi sono gli imprenditori agricoli, non c’è un corrispettivo articolo che
ci dice chi sono gli imprenditori commerciali, anzi solitamente contrapponiamo i due imprenditori, identificando
l’imprenditore commerciale in quelli che sono identificati nell’art.2195, che è in un certo senso contrapposto al
2135.

Se non che, la rubrica dell’art.2195 dice “imprese soggette a registrazione”, cioè soggette a iscrizione nel
registro dell’imprese, queste sono tutte soltanto imprenditori commerciali?

Nel nostro ordinamento abbiamo un imprenditore agricolo identificato, e di riflesso tutti coloro che non erano
agricoli erano imprenditori commerciali.

Solitamente lo si identificava nelle imprese citate nell’art.2195 (bancarie, dei trasporti, industriali, di
produzione, di assicurazione).

C’è questo orientamento della dottrina (che si contrappone alla giurisprudenza), della quale una parte degli
studiosi riteneva che tutte le imprese che non fossero agricole o commerciale, fossero imprese civili, una
categoria ibrida.
È però rimasta una categoria dottrinale, concettuale, perché non ha trovato seguito nella giurisprudenza né
nelle future normative, non c’è quindi nessuna norma che ha recepito questa impresa civile.

Tutte le imprese che non sono agricole sono di riflesso imprese commerciali, su questo concorda sia la dottrina
sia la giurisprudenza.

Esaminiamo la figura dell’imprenditore agricolo, sancita dall’art. 2135 del Codice civile:
Egli gode di una serie di agevolazioni di carattere tributario, lavoristico e anche in ambito commerciale, perché è
soggetto solo a quello statuto generale dell’imprenditore, ma non anche allo statuto di imprenditore
commerciale (che si ricollega ad ogni imprenditore commerciale NON PICCOLO).
L’imprenditore agricolo non è soggetto al fallimento o a determinate procedure contrattuali, tranne per la
procedura di liquidazione da sovraindebitamento.

Perché gode di queste agevolazioni?


Perché egli è soggetto a un rischio fisiologico/atmosferico che non connota l’imprenditore commerciale, soffre
una serie di rischi maggiori, e questo è il motivo storico che ha giustificato questa agevolazione. Ad oggi si
contesta questo regime di favore, perché oggi l’imprenditore agricolo non è solo contadino/allevatore di
animale, oggi esiste anche quell’impresa agro-industriale; quindi, la dottrina si chiede perché dobbiamo
agevolare un imprenditore che di agricolo ha quasi soltanto il nome.
L’imprenditore agricolo ha ancora oggi un trattamento di favore, che non è sempre giustificato data l’evoluzione
tecnica dell’impresa agricola.

Il fallimento, in alcuni casi, può anche essere un escamotage per un imprenditore, perché offre la possibilità di
ricominciare e ripartire con una nuova attività, addirittura offre la possibilità di esdebitazione, cioè paga solo
una parte dei suoi debiti, ovviamente sotto determinate circostanze.
Ciò per dire che la non-soggezione al fallimento è tendenzialmente un beneficio, ma non assoluto.

La nozione di imprenditore agricolo è stata profondamente modificata e rinnovata nel 2001, e generalmente
comprende due tipi di attività:

 Essenziali o primarie, (senza le quali non si può essere imprenditori agricoli): coltivazione del fondo
(vigneti, frutteti), selvicoltura, e allevamento di animali (e non bestiame perché animali comprende anche
l’itticoltura o allevamento di cani da corsa, è comunque più ampio, ci fa capire l’innovazione e l’ampliamento
avuti dal 2001).
Il secondo comma dell’art.2135 disciplina il cosiddetto concetto di ciclo biologico, cioè: ai fini dell’acquisto della
qualità dell’imprenditore agricolo, non è necessario che venga svolta l’intera fase di produzione di quelle
mucche o altro, è sufficiente e necessario che l’imprenditore si dedichi alla cura e lo sviluppo di un ciclo
biologico.
Seconda precisazione, l’art. specifica che l’imprenditore può utilizzare le acque marine etc., la parola “può”
significa che non è necessario che egli usi questo fondo (il campo, suolo, lago in cui pescare), questa è una
modifica inizialmente percepita come molto considerevole, perché significa che è venuto meno il legame con la
terra, con un terreno ecc. Ecco perché l’allevamento in batteria, le coltivazioni in serra, sono svolte da
imprenditori agricoli.

 Connesse: sono attività di per sé, oggettivamente, commerciali, ma che se svolte in connessione da un
soggetto che già svolge una delle attività essenziali, diventa agricola per derivazione e per disciplina. Sono tutte
le attività che prevedono la commercializzazione, alienazione, trasformazione, di prodotti ottenuti
prevalentemente dall’attività agricola essenziale. L’agricoltore che ha i vigneti e produce e vende vino, se utilizza
i propri vigneti e fa lui la produzione, quell’attività diventa agricola per connessione, nonostante sia di per sé
commerciale. Non basta, però, che queste attività siano svolte da un progetto che è un imprenditore agricolo, o
meglio è necessaria una connessione duplice. La connessione può essere soggettiva o oggettiva, quella
soggettiva significa che per considerarsi connesse è necessario che quell’imprenditore (lui stesso) svolga già
un’attività essenziale; la connessione oggettiva, invece, riguarda proprio un collegamento tra l’attività essenziale
e connessa, c’è coerenza. Se il viticoltore vendesse formaggio, questa potrebbe essere un’attività connessa che
potrebbe essere considerata agricola per chi ha un allevamento.

Importante è il concetto della prevalenza, cioè che quei prodotti siano ottenuti impiegando prevalentemente
un’attività essenziale. Il grande esempio di un imprenditore agricolo è agriturismo, perché un agriturista è
considerato agricolo se lo fa utilizzando prevalentemente un’attività essenziale, che lui svolge. Sottolineiamo
prevalenza, non esclusività (non è che se la pasta che vende la compra e non la produce, non è un’attività
agricola, se tutto il resto o la maggior parte delle materie prime che usa provengono dalla sua attività
essenziale).

Tutte queste classificazioni, spiegazioni non è che nascono e muoiono lì, hanno sempre una rilevanza pratica,
concreta, perché il caso più classico è quello dell’imprenditore agricolo che fa finta di svolgere un’attività
agricola, ma in realtà l’attività essenziale è assolutamente non prevalente, ma prevale l’attività connessa; quindi,
di fatto quello è un imprenditore commerciale, che cerca però di apparire come agricolo in forza di un’attività
essenziale molto minimale. Casi come questo vanno molto frequentemente in tribunale.
Ecco perché applicare il concetto di prevalenza nella pratica potrebbe essere difficile.

È possibile che l’imprenditore agricolo venga dichiarato fallito per le sole attività connesse? Ovviamente no, non
può, se quelle attività connesse vengono attratte nella sfera dell’impresa agricola, è ovvio che
quell’imprenditore non potrà essere dichiarato fallito in qualità di imprenditore commerciale perché magari
vende le bistecche che ha prodotto dai suoi manzi.

Ci sono però stati molti tribunali che hanno dichiarato il fallimento solo perché le attività connesse erano
palesemente e sfacciatamente commerciali.

L’imprenditore agricolo si iscrive nel registro delle imprese, ma in una sezione speciale, e lo fa con efficacia di
pubblicità legale (dal 2001, prima era efficacia di mera pubblicità notizia).
Pubblicità legale e notizia si contrappongono, perché il registro delle imprese nasce come strumento di
pubblicità legale, non solo notizia.

 Pubblicità notizia: le imprese si sono iscritte per essere conosciute da terzi, serve per informarli, e i terzi
possono anche affermare di non conoscerla, di ignorarla.

 Pubblicità legale: quelle informazioni sono opponibili ai terzi, cioè non sono contestabili da parte dei
terzi.

L’imprenditore agricolo non è tenuto alla redazione di scritture contabili (diversamente dal commerciale); non è
soggetto al fallimento, è viceversa assoggettato allo statuto generale dell’imprenditore; quindi, per esempio la
concorrenza deve avvenire in maniera leale.

-Azienda: concetto statico, complesso di beni per l’esercizio dell’attività di impresa


-Società: è la veste giuridica con cui viene svolta un’attività d’impresa in senso tendenzialmente collettivo, non
c’entra niente con l’imprenditore agricolo

In base alle dimensioni dell’impresa, abbiamo piccolo imprenditore e medio-grande imprenditore

Anche all’interno della legge fallimentare troviamo una sorta di imprenditori piccoli. Si pensava che ci fosse un
piccolo imprenditore nel Codice civile e un altro nella legge fallimentare.
In realtà, il piccolo imprenditore lo troviamo solo nel Codice civile, nella legge fallimentare non ce n’è una nozione, ci
sono solo delle soglie dimensionali inerenti il fatturato, i debiti e l’attivo patrimoniale.

Non confondiamo il piccolo imprenditore, identificato nel Codice civile, dall’imprenditore sottosoglia, che
troviamo nella legge fallimentare.

I piccoli imprenditori, ai sensi del Codice civile, sono i coltivatori diretti del fondo, (senza collaboratori), gli
artigiani e i piccoli commercianti. A queste si aggiunge un’altra categoria generale meno specifica, che individua
tutti gli imprenditori che impiegano in prevalenza il lavoro proprio o dei propri familiari. Questa quarta
categoria deve essere interpretata, un imprenditore che non si serve di collaboratori può essere identificato
come piccolo imprenditore, così come piccoli commercianti (anche se, cosa significa?), e gli artigiani. Ma
bisogna fare attenzione: il piccolo imprenditore non è automaticamente non commerciale, bisogna scindere
questi due piani, non confonderli mai.

La nozione di piccolo imprenditore, aspetto importante, non rileva ai fini civilistici né soprattutto ai fini del
diritto fallimentare, cioè per stabilire se un imprenditore commerciale (perché solo loro falliscono) è soggetto al
fallimento, dobbiamo fare riferimento solo alle soglie dimensionali previste nella legge fallimentare; quindi, è
sbagliato dire che ai sensi del Codice civile il piccolo imprenditore non fallisce. Lo si pensava, però, perché c’era
un vecchio articolo 2221 del Codice civile che diceva “i piccoli imprenditori sono esonerati dal fallimento”

I dubbi della dottrina: il fatto che il 1221 diceva che i piccoli imprenditori sono esonerati dal fallimento, significa
che sono esonerati quelli del Codice civile o gli imprenditori sottosoglia?

La risposta è che la nozione di piccolo imprenditore non rileva ai fini della fallibilità o meno, quello che rileva ai
fini della fallibilità o meno, è esclusivamente l’art.1 della legge fallimentare, che prevede quelle soglie
dimensionali in termini di ricavi, attivo patrimoniale e debiti, gli imprenditori che non superano quelle soglie
non sono fallibili.

Il problema derivava da un difetto di coordinamento tra la nozione di piccolo imprenditore presente nel Codice
civile, le soglie di fallibilità previste nella legge fallimentare, e l’articolo 2221 che esonera dal fallimento i piccoli
imprenditori, e si chiedeva quali: quelli nel Codice civile o nella legge fallimentare?

Questo discorso, sulla rilevanza della nozione di piccolo imprenditore, vale esattamente anche per
l’imprenditore artigiano

L’artigiano è tradizionalmente una delle categorie identificate tra i piccoli imprenditori, ciò che contraddistingue
l’impresa artigiana è l’oggetto dell’attività, abbiamo una legge chiamata legge quadro sull’artigianato, che
individua e distingue gli imprenditori artigiani in base alla natura artistica o usuale dei servizi prodotti.

L’articolo 2, comma 1 della legge quadro sull’artigianato ci dice che l’artigiano presta in misura prevalente il
proprio lavoro anche manuale nel processo pubblico. L’artigiano è quell’imprenditore creativo, che partecipa in
primo piano allo svolgimento dell’attività d’impresa, e l’attività realizzata è di tipo artistico o usuale.

I barbieri, i parrucchieri, gli estetisti anche sono artigiani.

In passato, la nozione di imprenditore artigiano rilevava a tutti gli effetti di legge, quindi anche del fallimento, e
in particolare l’artigiano non era soggetto al fallimento.
Oggi invece, la nozione di imprenditore artigiano rileva solo a fini previdenziali, lavoristici, tributari (anche lì ci
sono agevolazioni, come contributo più basso per i dipendenti, ecc.), ma non è rilevante ai fini del diritto
fallimentare.
Ciò significa che un imprenditore artigiano che non svolge un’attività commerciale, se supera quei requisiti
dimensionali, sarà assoggettabile al fallimento.

Questa è la novità più grande della riforma della legge quadro sull’artigianato, si parla diciamo di fine di un
privilegio.
Rispetto alla nozione di imprenditore agricolo, quella nozione rileva molto di più, perché l’imprenditore agricolo
è esonerato dal fallimento e dalle altre procedure processuali, eccezion fatta solo per la procedura della
liquidazione da esdebitamento

L’impresa familiare viene molto spesso confusa col piccolo imprenditore, perché in questa impresa collaborano
anche il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini (non c’è legame di sangue, cognati) entro il secondo
grado.

L’impresa familiare è detta anche nucleare proprio per questo motivo. Essa non è una società, né un’impresa
collettiva, resta un’impresa individuale in cui l’imprenditore è il cosiddetto capofamiglia.
Il fatto che il piccolo imprenditore può essere contraddistinto anche dal prevalente lavoro del proprio familiare
non implica che sia un’impresa familiare.
Possiamo avere piccolo imprenditore ai sensi l’art.2083 del Codice civile che non sono però impresa familiare, e
non viceversa.

Pensiamo a un’impresa che non svolge una di quelle attività puntualmente identificate dal piccolo
imprenditore, ed è vero che ci lavora un familiare, ma non lo fa in prevalenza, cioè magari ci lavorano altri 500
dipendenti, c’è un massiccio impiego di capitali. Sarà viceversa un’impresa familiare.

Sembra ci sia una specie di maschilismo, in realtà l’istituto dell’impresa familiare è stato introdotto proprio per
tutelare i familiari dell’imprenditore che di fatto lavoravano all’interno dell’impresa senza ricevere alcun
beneficio né di tipo patrimoniale né amministrativo. (Concetto principale, importante)

-Era previsto il diritto alla partecipazione agli utili, in proporzione alle ore di lavoro prestate nell’impresa; il
diritto di mantenimento laddove questo familiare prestasse attività lavorativa; e questo da un punto di vista
patrimoniale.

-Da un punto di vista amministrativo, anche si riconoscono una serie di prerogative, nel senso che gli atti di
straordinaria amministrazione relativi a quell’impresa devono essere attuati anche con il consenso dei familiari
che prestano la propria opera all’interno dell’impresa.

Mentre gli atti di ordinaria amministrazione restano di spettanza esclusiva dell’imprenditore, gli atti di
straordinaria di amministrazione, queste devono essere adottate anche dai familiari, e in particolare le decisioni
vengono prese a maggioranza.

22/09

Statuto dell’imprenditore commerciale

Lo statuto dell’imprenditore in generale comprende una serie di profili e di aspetti di cui tutti gli imprenditori
devono tenere conto.

Il primo aspetto è il registro delle imprese, che oggi è tenuto in formato digitale e non cartaceo presso le
camere di commercio delle province, esso contiene tutta una serie di informazioni relative agli imprenditori non
soltanto commerciali.
È nato come registro per gli imprenditori commerciali, ma col tempo ospita anche, ad esempio, gli imprenditori
agricoli, tra l’altro con efficacia di pubblicità legale.
Il registro è pubblico, è unico ma strutturato in diverse sezioni:

 Ordinaria, in cui sono iscritti in linea generale tutti gli imprenditori che svolgono attività commerciale,
non piccoli;

 Speciali, che prima erano 3, poi 4, adesso sono 6.

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1) Il registro delle imprese nasce con l’esigenza di ridurre quell’asimmetria informativa che coinvolge
l’imprenditore e i consumatori, o in generale tutti coloro che entrano in affare con lui.
Il terzo deve poter sapere qual è la sede dell’imprenditore, qual è il titolare effettivo, se ha dei
dipendenti, degli ausiliari (ad esempio subordinati), ecc.;

2) Il secondo obiettivo principale del registro delle imprese: il mercato deve poter conoscere una serie di
informazioni veritiere, e dall’altro lato c’è l’esigenza degli imprenditori di rendere queste informazioni
incontestabili o non attaccabili da parte dei terzi.

La pubblicità legale si distingue da quella notizia perché, mentre quest’ultima rileva solamente ai fini della
conoscibilità da parte dei terzi, la pubblicità legale registra anche l’opponibilità nei confronti dei terzi, quindi
quell’informazione non sarà contestabile, o addirittura sarà opponibile;
è come se avesse una funzione di prova.

La pubblicità legale, quindi il fatto che un fatto si scriva con pubblicità legale e che sia opponibile ai terzi, non è
l’unica specificità.

La pubblicità ha 3 divaricazioni:

1. Efficacia dichiarativa, cioè la forma più elementare di pubblicità legale, perché il fatto che ci sia questa
efficacia altro non significa che quel fatto sia opponibile ai terzi in seguito all’iscrizione nel registro;

2. Efficacia normativa, l’iscrizione di quell’atto o fatto dà luogo all’applicazione di un regime normativo


specifico, cioè se non è iscritto non soltanto non sarà opponibile, ma non determinerà nemmeno
l’applicazione di un regime normativo peculiare;

3. Efficacia costitutiva (livello massimo), l’iscrizione di quell’atto o fatto è causa dell’esistenza dell’atto o
fatto stesso. Cioè quello esiste perché iscritto nel registro delle imprese.

1)Quindi, nell’efficacia dichiarativa, l’iscrizione determina l’opponibilità.

2)Nell’efficacia normativa, l’iscrizione determina l’opponibilità e l’applicazione di un regime giuridico-normativo


peculiare.
3)Nell’efficacia costitutiva, l’iscrizione determina non soltanto tutto questo, ma è la stessa iscrizione che
legittima l’esistenza dell’atto stesso.

Esempio (pensiamo all’ambito delle società): la società in nome collettivo, la principale tra le società di persone,
quando è iscritta nel registro delle imprese determina l’applicazione di una serie di norme previste dalla società
in nome collettivo; quando invece non è iscritta è una società irregolare, cioè significa che comunque esiste, ma
questo comporta l’applicazione di una disciplina diversa, ma la società esiste comunque. Si applicheranno in
questo caso le norme di una società semplice.

Esempio classico dell’efficacia costitutiva: società per azioni, perché questa viene a esistere nel momento stesso
in cui l’atto costitutivo, cioè i contratti di società della S.p.A., viene iscritto nel registro delle imprese, solo così
produce effetti.

La sezione ordinaria accoglie tutti gli imprenditori commerciali non piccoli.

Ci sono poi 6 sezioni speciali, per ognuna si iscrivono:

1. Gli imprenditori agricoli e i piccoli imprenditori;

2. Gruppi di società, che sono un fenomeno che si caratterizza dal punto di vista di pubblicità (registro
delle imprese) per una doppia iscrizione. Cioè, il gruppo inteso come società capogruppo, e anche
quelle soggette alla capogruppo si iscrivono alla sezione speciale in quanto componenti del gruppo; al
contempo però si scrivono come singole realtà anche nella sezione ordinaria;

3. Società tra professionisti, a tal proposito apriamo una parentesi: la società è una forma organizzativa di
esercizio collettivo di attività d’impresa (quindi è solo la veste giuridica), e nel nostro ordinamento c’è
una netta separazione, più di principio che di altro, tra imprenditore e professionista. Nonostante
questo, i professionisti non sono imprenditori ma è ammessa la costituzione di una società tra
professionisti, quindi la veste giuridica società può essere utilizzata tra professionisti, che comunque
non diventano imprenditori;

4. Start-up innovative hanno un’altra sezione speciale, aggiunta di recente.

L’art.2196 richiede che entro 30 giorni dall’inizio dell’attività d’impresa, l’imprenditore deve iscrivere
informazioni riguardo la sede, il cognome e nome, l’oggetto e la sede dell’impresa, e anche il nome di ausiliari
come institori e procuratori.

Scritture contabili

Hanno una funzione economica e una giuridica

La funzione economica delle scritture contabili è, da un lato, determinare il risultato economico, finanziario,
patrimoniale dell’impresa. Non vanno confuse con il bilancio, che è una scrittura obbligatoria per le società di
capitali e, per derivazione, anche per le società di persone. Ma l’imprenditore commerciale individuale non è
obbligato a redigere il bilancio, è solo tenuto a redigere il libro degli inventari e il libro giornale, ovvero le
scritture obbligatorie.

Capiamo che assolvono esattamente alla funzione di determinare il risultato economico, finanziario e
patrimoniale dell’esercizio, ma anche quello di costruire un’informazione su questi dati.

In aggiunta a queste due scritture contabili obbligatorie per tutti gli imprenditori commerciali, definite
“nominate”, abbiamo una scrittura contabile obbligatoria “innominata”: il libro mastro.
Il libro mastro non è menzionato tra i libri obbligatori, ma lo definiamo obbligatorio innominato, perché non
segue un ordine cronologico che ha invece il libro giornale, infatti è una sorta di riformulazione, una diversa
esposizione del libro giornale.

Il legislatore stabilisce anche un’altra clausola generale nell’art.2214, che l’imprenditore commerciale deve
altresì tenere le scritture contabili richieste dalla natura e dalle dimensioni dell’impresa. Questa è una clausola
molto importante perché introduce una sorta di criterio pratico, perché dice che a seconda della complessità
dell’attività che hai, devi tenere anche altre strutture contabili (libro dei dipendenti, libro cassa, libro magazzino;
che non sono obbligatori per tutti, bensì lo sono a seconda della natura e dimensioni dell’impresa, ovvio che se
non ho dipendenti non dovrò tenere il libro contenenti le buste paga).

Il libro giornale è un registro che contiene le operazioni compiute dall’imprenditore giorno per giorno, ma non
vanno registrate contestualmente al loro compimento, è solo necessario che sia rispettato l’ordine cronologico.
Posso anche registrare tutto alla fine della settimana purché siano in ordine cronologico.

Il libro degli inventari viene redatto all’inizio dell’attività e successivamente alla fine dell’esercizio, e contiene le
attività e le passività dell’imprenditore, intese nella lingua della ragioneria, cioè elementi dell’attivo e del
passivo.

Ecco perché si è ipotizzato che il libro degli inventari altro non fosse che lo stato patrimoniale, questo in realtà
non è vero: questo libro a proposito degli imprenditori individuali indica non solo le attività e passività
dell’impresa, ma anche quelle estranee all’esercizio di impresa, cioè attività e passività dell’imprenditore, ma
che non utilizza, cioè se l’imprenditore ha un immobile, ha un appartamento, una barca, tutto questo viene
iscritto nel libro degli inventari. Questo perché il libro, con riferimento a un imprenditore individuale che quindi
risponde illimitatamente col suo patrimonio, deve offrire quest’informazione ai terzi; perciò, non contiene solo
gli elementi dell’attivo e del passivo dell’impresa. Ecco perché non coincide col bilancio o lo stato patrimoniale.
C’è stata questa confusione perché nell’art.2215/16 boh si dice che il libro degli inventari si chiude con il conto
profitti e perdite (risalente col conto economico), ma comunque non coincide con lo S.P., o il bilancio.

Ci sono una serie di norme sulla corretta tenuta dei libri contabili: non devono contenere abrasioni, non devono
esserci pagine bianche, è possibile fare delle cancellature ma è necessario che si riesca a leggere la parola
cancellata, è possibile anche fare delle rettifiche contabili, che si fanno semplicemente registrando
un’operazione di segno opposto.
Le scritture devono essere tenute in modalità informatica, e la mancata tenuta assume rilevanza perché non si
può chiedere di essere ammesse al concordato preventivo (procedura processuale minore), che è richiesta
dall’imprenditore stesso, e può rappresentare un beneficio perché meglio del fallimento.

La regolarità della tenuta delle scritture contabili ha anche una rilevanza giuridica:

La funzione giuridica risiede nel l’efficacia probatoria, cioè queste rappresentano un mezzo di prova
generalmente contro l’imprenditore, cioè le scritture fanno sempre prova contro l’imprenditore, se un terzo
vuole provare una pretesa e ha bisogno che venga dimostrata, le scritture saranno sempre prova contro
l’imprenditore; infatti, la dottrina le paragona ad una confessione.

Il terzo però che usa queste scritture non può scinderne il contenuto, cioè non può avvalersi solo della parte a
lui favorevole.
Se sono tenute irregolarmente sarà un’ulteriore prova che ho sbagliato qualcosa.

Le scritture contabili possono anche fare prova a favore dell’imprenditore, cioè può utilizzarli per far valere dei
diritti nei confronti dei terzi, però a delle condizioni:

1. Devono essere regolarmente tenute, ovviamente;

2. La controparte deve essere necessariamente un imprenditore commerciale: la ragione di fondo è


pratica, cioè così facendo in giudizio si potranno confrontare le scritture contabili dell’attore e del
convenuto.

3. La controversia dev’essere inerente all’attività d’impresa:

Inerente alla funzione giuridica (non c’è sul manuale) parliamo del modo di utilizzo nell’ambito della
controversia, due profili strettamente processuali ma differenti:

 Esibizione, che viene fatta al giudice e riguarda le singole scritture;

 Comunicazione, una forma più grave ed eccezionale, perché la comunicazione viene fatta alla
controparte, non al giudice. È un mezzo eccezionale perché può essere utilizzato solo in casi
tassativamente previsti dal legislatore, come lo scioglimento dell’azienda, divisione ereditaria che
coinvolge quell’impresa, ecc.

Rappresentanza commerciale

L’imprenditore, soprattutto commerciale, nell’esercizio dell’attività d’impresa si avvale di una serie di


collaboratori, ausiliari, soggetti che partecipano anche ad attività di direzione.
A proposito della rappresentanza, l’imprenditore è coadiuvato da una serie di ausiliari:

 Esterni, collaborano in maniera occasionale o stabile in base a rapporti contrattuali, non sono inseriti
nella struttura organizzativa;

 Interni, sono soggetti inseriti stabilmente nello schema organizzativo aziendale per effetto proprio di un
subordinato, troviamo gli institori, i procuratori e i commessi. C’è una gerarchia discendente, alla base
abbiamo i commessi, tra i meno titolati, i procuratori sono intermedi, e al top ci sono gli institori, che
hanno doveri e poteri molto più ampi dei commessi, però c’è un filo generale che li lega, e quello è la
rappresentanza.

Nonostante la differenza gerarchica, essi sono accomunati dalla rappresentanza dell’imprenditore, dire che
l’institore ha potere di rappresentanza dell’imprenditore significa che egli può agire in nome e per conto
dell’imprenditore (la commessa di zara agisce in nome dell’azienda)

Ci sono ovviamente margini in questa rappresentanza, il commesso ha poteri limitati, non può per esempio
assumere dipendenti.

L’institore (detto anche alter-ego dell’imprenditore) è preposto dall’imprenditore all’esercizio di un’impresa


commerciale, e questa preposizione può riguardare una sede secondaria o un ramo dell’impresa stessa.
Non è detto che ce ne sia solo uno, ce ne possono essere vari, che agiranno disgiuntamente senza dover
consultare gli altri, anche perché se ci sono più institori vuol dire che ognuno gestisce una specifica cosa, a
meno che non ci sia un’azienda così complessa da richiedere più institori per le stesse cose, fermo restando che
la procura institoria può stabilire che agiscano congiuntamente.

L’institore è tendenzialmente un dirigente che ha un potere di gestione generale; quindi, può generalmente
compiere tutti gli atti rientranti nella procura institoria, senza distinzione tra atti di ordinaria o straordinaria
amministrazione, ovvero non soffre della limitazione nei confronti degli atti di straordinaria amministrazione.
Tuttavia, ci sono limitazioni ex lege, ma riguardano casi specifici, per esempio l’institore non può alienare
l’impresa, non può ipotecare i beni immobili relativi all’imprenditore, a meno che non sia stato specificamente
autorizzato in forza da una procura speciale.

Quella appena descritta è una rappresentanza sostanziale, abbiamo anche una rappresentanza processuale,
cioè può stare in una controversia al posto dell’imprenditore, ovviamente relativo all’attività di impresa.

La nomina dell’institore va iscritta nel registro dell’impresa ed è contenuta nella procura institoria. Può però
avere delle modifiche: di default l’institore ha una rappresentanza processuale attica e passiva, ma nella procura
si può anche escludere la rappresentanza processuale attiva. Questa cosa si può fare perché è volta a tutelare i
terzi: se l’imprenditore vuole prendersela con qualcuno, dovrà essere lui a chiamare in causa i terzi, limitando la
capacità attiva all’institore significa dirgli non sei legittimato perché vai in causa. Non si esclude la
rappresentanza processuale passiva perché sarebbe un danno enorme per i terzi, che sono entrati magari in
affare con l’institore, che chiamano in causa, e poi si trovano messi davanti al muro, ecco perché non può
essere esclusa, i terzi devono avere la possibilità di chiamare in causa l’institore.

L’institore ha un potere e un dovere di gestione generale; quindi, può compiere tutti gli atti relativi all’impresa o
alla sede o al ramo, ma ci sono anche una serie di obblighi specifici: la tenuta delle scritture contabili insieme
all’imprenditore, l’esecuzione degli obblighi di iscrizione nel registro delle imprese insieme all’imprenditore.
L’institore non è assoggettato al fallimento, tuttavia potrebbe essere destinatario delle sanzioni penali, perché
potrebbe aver concorso a compiere pagamenti nei confronti di terzi che non doveva compiere.

27/09

L’azienda e trasferimento d’azienda

L’azienda non è sinonimo di impresa, di società o di imprenditore. Essa è intesa come il complesso dei beni
organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’attività d’impresa.
Emerge subito una concezione statica, perché è solo un complesso di beni che viene organizzato apportando
una serie di competenze e capacità.

Un primo aspetto da capire è che nell’azienda non ci sono soltanto beni di proprietà dell’imprenditore, quindi ai
fini della determinazione dei beni aziendali, non rileva tanto il vincolo giuridico che vige su quei beni quanto
l’aspetto sostanziale.

Esempio: i beni

I beni aziendali prescindono dal titolo giuridico che l’imprenditore ha, perché ci sono tanti beni inseriti nel
complesso aziendale ma con un diverso titolo, pensiamo ai beni che ha preso in affitto, anche ad esempio i
macchinari presi in leasing.

Noi ci occupiamo dell’azienda soprattutto con riferimento al trasferimento d’azienda perché essa può essere
oggetto di atti di trasposizione sia a titolo definitivo (venduta, donata) sia a titolo temporaneo (affitto, usufrutto,
oggetto di conferimento).

Nell’ambito della disciplina del trasferimento d’azienda ci occupiamo di 5 aspetti:

1. Forma dell’atto di trasferimento (forma scritta, atto pubblico, liberamente, ecc.)

2. Concorrenza, quindi in profilo di anti-concorrenza che riguardano l’imprenditore che ha ceduto l’azienda;

3. Successione nei contratti aziendali;

4. Crediti aziendali;

5. Debiti aziendali.

Per quanto riguarda la Forma, dobbiamo fare una prima distinzione:

 Forma prevista ai fini probatori: per poter dimostrare in una controversia o una causa, che io ho
trasferito quell’azienda. Il legislatore stabilisce che per le aziende soggette a registrazione, cioè
commerciali il trasferimento dev’essere provato per iscritto. Ciò significa che per queste imprese, ai fini
dell’opponibilità, il trasferimento dovrà essere fatto per iscritto ai fini probatori.

 Forma prevista per la validità: se non si rispetta, quel requisito l’atto è nullo. Ai fini della validità del
trasferimento d’azienda il nostro legislatore non prevede una forma specifica o standard, ma richiede
che sia osservata la forma prevista per i singoli beni che compongono l’azienda, o per il tipo di atto con
cui l’azienda viene ceduta. Ma ciò non basta, è richiesta anche la forma prevista in base alla natura del
contratto. Esempio: decido di donare l’azienda, se io faccio la donazione dovrà avvenire per atto
pubblico a pena di nullità, perché previsto dal Codice civile. Viceversa, se vendo un’azienda che non ha
beni immobili o beni mobili registrati, quel trasferimento d’azienda non richiede alcuna forma specifica.
Ecco perché dobbiamo tenere presente le forme richieste in base al trasferimento di beni o del tipo di
atto.

Qual è la ratio di queste norme? Risolvere eventuali conflitti tra più acquirenti della stessa azienda,
immaginiamo che si venda a più persone in maniera fraudolenta, dev’essere in forma scritta, perché chi sarà il
vero acquirente? Colui che ha firmato.

Divieto di concorrenza

Chi aliena un’azienda, deve astenersi per un periodo di 5 anni da iniziare una nuova attività d’impresa che, per
l’oggetto o per l’ubicazione, sia idonea a sviare la clientela.

Se ho un’impresa che produce latticini in Campania, non potrò avviare una nuova attività di impresa che
produce latticini in Campania, ma potrò avviarne una che magari produce scarpe, pasta, ecc., in Campania.
Allo stesso modo, posso avviare un’attività di impresa che produce latticini ma in Lombardia.
Parliamo di iniziare un’attività di impresa, cioè se io avevo due imprese e ne alieno solo una, posso continuare a
svolgere l’altra attività d’impresa, anche se svia la clientela.
Tutto questo il legislatore lo fa perché il suo interesse è tutelare l’acquirente, che potrebbe non acquisire la
clientela dell’impresa che gli è stata venduta.

Il divieto del periodo di 5 anni è derogabile, perché le parti possono sia scegliere di eliminare il divieto, sia di
modellarlo, magari modificandone la durata. È un divieto derogabile e anche relativo. Se nel patto è indicata
una durata superiore ai 5 anni, in realtà il divieto varrà comunque per 5.
Se l’alienante e l’acquirente sono d’accordo, è possibile ampliare leggermente il divieto, ad esempio
estendendolo a prodotti affini (nell’esempio dei latticini, se vendeva solo mozzarella ora possono scegliere di
estenderla anche magari a tutti i formaggi ecc.)

Questo divieto viene definito anche “a fisarmonica”, perché si può restringere fino ad eliminarlo, le ragioni
dell’acquirente in questo caso potrebbero essere di volere un prezzo più basso, e può anche ampliarsi (non nella
durata, ma nel contenuto).
Si può anche estendere nell’ubicazione.

L’unico limite è che questo divieto non può in nessun caso arrivare a precludere l’inizio di una qualsiasi attività
d’impresa, cioè questo divieto si può ampliare ma fino a un certo punto, perché contrasterebbe con l’art.41
della costituzione, che prevede che l’iniziativa di un’attività economica è libera.

Ci sono alcuni casi in cui formalmente non avviene una cessione d’azienda, ma sostanzialmente sì.
Immaginiamo una divisione ereditaria con assegnazione dell’azienda a uno solo degli ereditari: l’assegnazione è
sostanzialmente una cessione d’azienda anche se formalmente è un’eredità. L’altro erede può iniziare un’attività
d’impresa in concorrenza col fratello che l’ha avuto in eredità? La giurisprudenza tende a dare risposta negativa,
cioè tende ad estendere il divieto anche in questi casi controversi.

Immaginiamo una società di capitali, in cui io sono socio, se io cedo l’intera partecipazione sociale e vendo tutte
le mie azioni, io potrò iniziare un’attività d’impresa in concorrenza con l’azienda che viene esercitata da quella
società? Se dobbiamo guardare l’elemento formale, io non ho ceduto l’azienda, che resta della società (veste
giuridica con cui viene svolta l’attività d’impresa), ma ho ceduto le azioni. Da un punto di vista sostanziale, se io
ero titolare dell’intero pacchetto azionario, in realtà ero io che avevo diritti sociali in quella società, ero io che
esercitavo l’attività d’impresa, ecco allora che anche questo caso, secondo orientamento prevalente, è soggetto
al divieto di concorrenza, perché da un punto di vista sostanziale e concreto, anche in questo caso implica una
cessione di fatto.

Andiamo agli altri 3 aspetti, nella successione dei contratti aziendali e per quanto riguarda la funzione di debiti e
crediti, noi abbiamo delle vistose deroghe alla disciplina di diritto privato, che sono giustificate da un’esigenza
ben precisa: favorire la continuazione dell’attività d’impresa, e soprattutto quella di provare a mettere
l’acquirente dell’azienda nella medesima posizione in cui si trovava l’alienante:
Nel Codice civile si parla di subingresso dell’acquirente nei contratti in corso di esecuzione, questo vuol dire che
il legislatore punta a garantire una continuità tra l’alienante e l’acquirente, perché se vendo un’azienda, il
legislatore si preoccupa che l’acquirente riesca ad avere già una serie di rapporti commerciali, di contratti, in
modo tale che non deve ricominciare da capo.

Quindi, l’art.2558 del codice civile stabilisce che, se non è pattuito diversamente, l’acquirente dell’azienda
subentra nei contratti stipulati che non abbiano carattere personale, ovvero tutti quei contratti in cui non si
rileva il cosiddetto “intuitu personae”, cioè quella formula che comprende le caratteristiche e abilità personali
dell’imprenditore, che in alcuni contratti possono essere rilevanti; pensiamo al contratto di appalto: la rilevanza
dell’appaltatore è tale per cui non è indifferente la persona che lo compie.

Il nostro legislatore consente che le parti stabiliscano diversamente, per esempio che non avvenga la
successione automatica di contratti, perché magari non c’è l’esigenza di farlo.

La successione automatica vale per i contratti di carattere non personale.

Per i contratti che invece hanno carattere personale, si applica la disciplina del diritto privato: la cessione del
contratto si ha con il consenso del terzo contraente (contraente ceduto), invece è questa la vera deroga nella
successione dei contratti aziendali: avviene senza che sia necessario il consenso del terzo contraente, viceversa
se c’è carattere personale ritorna la disciplina del diritto privato.

Nel caso dei contratti aziendali, il terzo è totalmente senza tutela? (L’ENEL pensava di fare un contratto con me
ma si ritrova come contraente un altro) Una forma di tutela c’è: diritto di recesso, purché però sussista una
giusta causa da dimostrare (ad esempio che il contraente è inadempiente, non offre le stesse garanzie ecc.) e
dev’essere dimostrato entro 3 mesi dalla notizia.

Il recesso, se viene validamente esercitato, porta ad uno scioglimento del contratto.

Questa disciplina particolare in ambito di successione dei contratti aziendali, di divieto di concorrenza e di debiti
e crediti, vale solamente se si trasferisce un’azienda o un ramo d’azienda. Il ramo d’azienda è una frazione della
stessa che però sia dotata di organicità, dev’essere almeno tendenzialmente idonea a svolgere un’attività di
impresa, che può poi essere integrata da altro personale o strutture ecc.

Trasferire un’azienda ha una serie di effetti che possono convenire all’acquirente o all’alienante o ad entrambi
ma con danno a terzi. Acquirente e alienante potrebbero mascherare come trasferimento d’azienda qualcosa
che non lo è davvero, e anche viceversa. Voglio evitare che scatti la disciplina speciale del trasferimento
d’azienda, allora magari ti trasferisco vari macchinari, dipendenti, crediti/debiti, ma nel contratto non scrivo
trasferimento d’azienda, lo faccio passare come cessione di singoli beni, in modo da non dover sottostare al
divieto di concorrenza ad esempio. Chiaramente ci vanno a perdere i creditori dell’azienda.

La disciplina del trasferimento d’azienda ha alcune vistose regole rispetto alla disciplina di diritto privato, allora
occorre che le parti non mascherino il trasferimento di singoli beni come trasferimento d’azienda, perché in
quel caso diventa un abuso; poiché potrebbero esserci soggetti danneggiati.

Crediti aziendali

Pensiamo all’impresa che produce latticini, io ce l’ho ed ho molti crediti, e vendo la mia azienda ad un altro, chi
deve riscuotere quei crediti? Io o l’acquirente?

La cessione dei crediti nel diritto privato avviene o con la notifica al debitore, oppure con l’accettazione da parte
del debitore.

Nel trasferimento d’azienda non c’è questo sistema, ma c’è la cosiddetta notifica collettiva, cioè la cessione di
crediti ha effetto nei confronti di terzi dal momento di registrazione del trasferimento d’azienda nel registro
delle imprese.
La ratio è che dato che in un’azienda i crediti possono essere tanti, se dovessi notificare tutti i debitori per ogni
credito non ce la si farebbe più, anche a livello tempistico.

Ovviamente, il debitore deve pagare al nuovo imprenditore, ecco l’importanza dell’iscrizione del trasferimento
nel registro delle imprese.

Se io pago il debito non in buona fede all’alienante, dovrò pagare di nuovo, ovviamente se invece dimostro che
era in buona fede, non ho più quel debito.

Debiti aziendali
La legge stabilisce che l’alienante non è liberato dai debiti inerenti all’azienda anteriori al trasferimento se non
c’è il consenso da parte dei creditori. Se i fornitori, miei creditori, sono d’accordo e mi liberano, io cesso di
rispondere di quei debiti.

Se si tratta di un’impresa commerciale, l’acquirente dell’azienda risponde solidamente dei debiti, i quali
risultano dall’iscrizione delle scritture contabili obbligatorie. Se non c’è stata la liberazione, non soltanto ne
risponde l’alienante, ma anche l’acquirente se i debiti sono state iscritte nelle scritture contabili obbligatorie.

Perché il legislatore richiede che siano iscritte nelle scritture contabili? Perché così si presume che l’acquirente
ne fosse stato a conoscenza.
Se un debito non risulta iscritto e l’acquirente lo sapeva, quindi c’è la malafede di acquirente ed alienante,
potrebbe capitare che l’acquirente comunque sia chiamato a risponderne se si riesce a dimostrare che ne era a
conoscenza.
Quindi, non è ammesso il cambiamento del debitore senza consenso del creditore, in aggiunta a questo c’è una
responsabilità solidale con l’acquirente dell’azienda (se commerciale) con i debiti iscritti nelle scritture contabili
obbligatorie.

Quest’ultima condizione non vale per una particolare categoria di debiti: i debiti verso i lavoratori, per i quali ci
sarà sempre una responsabilità solidale tra acquirente e alienante. Indipendentemente dal fatto che siano o
meno iscritti, l’acquirente ne risponde insieme all’alienante per tutelare i lavoratori.

28/09

I segni distintivi

I segni distintivi sono elementi che servono all’imprenditore per rendersi riconoscibile sul mercato. Ciò vuol dire
che per distinguere un imprenditore dall’altro, al di là di altri elementi, noi consumatori facciamo riferimento
prevalentemente al marchio dei prodotti.

I segni distintivi principali tipici sono:

- Ditta: segno che contraddistingue la persona dell’imprenditore, non a caso è anche definita
“nome commerciale dell’imprenditore”, che sostituisce il suo nome in ambito delle sue
relazioni d’affari;

- Insegna: segno che contraddistingue i locali, dove viene svolta l’attività;

- Marchio: il segno principale in quanto riguarda i prodotti, li contraddistingue, in particolare beni


e servizi realizzati dall’imprenditore

Abbiamo anche segni distintivi atipici, cioè che non sono normati o legiferati, come per esempio uno slogan
pubblicitario.
Ulteriore segno distintivo è il cosiddetto “domain name” (o nome a dominio), ovvero il nome del sito, ad
esempio www.“domaine name”.
Tralasciando la classificazione, tutti i segni distintivi hanno degli elementi in comune:

1. Tendenzialmente possono essere scelti in maniera libera, cioè sono liberamente utilizzabili nonostante
ci siano una miriade di condizioni.

2. Vi è il diritto all’uso esclusivo, cioè chi utilizza validamente un segno distintivo lo può usare
esclusivamente; cioè non posso utilizzare un marchio identico a quello che utilizza un’altra persona.

3. Tutti questi segni hanno dei requisiti di validità, che devono essere leciti, originali, nuovi, e
contraddistinguono tutti i segni distintivi.

4. L’imprenditore può trasferirli, però qui c’è una differenza, perché il marchio può essere trasferito
liberamente anche senza l’azienda, ma la ditta no.

La ditta

La ditta non è il segno distintivo principale, ma è l’unico essenziale perché l’imprenditore non può operare in un
mercato senza la ditta. Essa compare sugli scontrini.
La ditta deve contenere almeno il nome o la sigla (iniziali) dell’imprenditore, questa è l’unica richiesta del
legislatore.

Molte sigle non saranno così originali, e il motivo è che la ditta è un segno distintivo che guarda una cerchia più
attenta di quella dei consumatori; quindi, si richiede un livello di originalità più basso.
Nella ditta il pubblico di riferimento è quello degli imprenditori.
Al nome o alla sigla possono essere aggiunti liberamente altri contenuti opzionali di fantasia, che servono
proprio a conferire originalità o novità alla ditta.

È chiaro che se ho una ditta “frutta e verdura di Giuseppe Esposito” non potrà esserci un altro Giuseppe
Esposito che ha questa ditta, dev’esserci almeno una minima differenziazione, e questo rappresenta il principio
di verità.

Abbiamo dei requisiti di validità della ditta:

1) Verità: la ditta dev’essere vera, e lo è quando contiene almeno il cognome o la sigla dell’imprenditore.
Però sappiamo che la ditta può essere trasferita insieme all’azienda, ma se io cedo la mia azienda e la
mia ditta, l’acquirente potrà utilizzare legittimamente la mia ditta ma la verità piena, non sarà attuale (in
quanto il nome sarà mio, precedente proprietario), ma sarà una verità storica. Questa si verifica proprio
nelle cosiddette ditte derivate, che sono state costituite da un precedente imprenditore, che sono poi
state trasferite ad un altro imprenditore che però continua ad utilizzarla. È anche possibile che il nuovo
imprenditore decida di non voler utilizzare la ditta precedente, o anche di utilizzarla ma con qualche
piccola modifica;

2) Novità: la ditta dev’essere nuova nel senso che non dev’essere uguale o simile a quella utilizzata da un
altro imprenditore laddove possa causare confusione, anche in base all’oggetto e all’ubicazione. La ditta
va iscritta all’interno del registro delle imprese, se due imprenditori che operano nello stesso settore
utilizzano la stessa ditta, non ci sono sanzioni particolari, ma colui che l’ha iscritta per secondo è
obbligato ad aggiungere degli elementi, anche minimi, che possano differenziarla (obbligo di
differenziazione). Ha anche una rilevanza giuridica perché chi l’ha iscritta per prima può usarla
liberamente, viceversa il secondo.

3) Liceità: la ditta deve essere lecita, cioè non deve contenere segni o parole contrari all’ordine pubblico o
al costume; e quando parliamo di non contrarietà alla legge e al buon costume dobbiamo tenere a
mente che sono parametri in continua evoluzione.

È ammissibile una ditta irregolare, ovvero utilizzata ma non iscritta nel registro delle imprese? C’è chi dice no, in
quanto violazione di una norma imperativa; e chi dice sì, ma è fatta salva la necessità che chi l’ha utilizzata
senza iscriverla debba dimostrarne l’utilizzo, e debba anche dimostrare che un terzo conosceva che lui la stava
utilizzando pur senza averla registrata. Ciò si potrebbe fare dimostrando che hanno avuto dei rapporti
commerciali per i quali sono arrivate fatture o scontrini, devono diciamo emergere degli elementi da cui si può
dimostrare.

La ditta può essere trasferita, ma necessariamente con l’azienda.

C’è una disciplina diversa a seconda se sia trasferita con atto tra vivi o atto mortis causa, fermo restante che in
entrambi i casi essa può essere trasferita:

o Nel primo caso, ad esempio vendita d’azienda, se il contratto non dice nulla a riguardo, la ditta rimane
al cedente, non viene trasferita.

o Nel caso di trasferimento per causa di morte, al contrario, in assenza di diversa pattuizione si dà per
scontato che la ditta venga ceduta, tranne se nel testamento non ci sia scritto che si ceda l’azienda ma
non la ditta.

È la disciplina legale (ciò che accade in assenza di diversa pattuizione) del primo atto esattamente opposta a
quella del secondo atto.

Il marchio

È il segno distintivo principale innanzitutto per normativa, perché è disciplinato da circa 7 articoli del Codice
civile più una 50ina di articoli del Codice di attività industriale.

Dobbiamo distinguere tra:

 Marchi di fabbrica, posto da quello che produce il prodotto;

 Marchio di commercio, posto da quello che vende il prodotto.

 Altra distinzione verte tra marchio generale e marchi speciali: Fiat 500, fiat è marchio generale, fiat 500
è marchio speciale.

La cosa fondamentale è che è il segno che contraddistingue prodotti, quindi beni e servizi realizzati
dall’imprenditore.

Oltre alla sua base normativa, è il più importante anche perché, nella prospettiva dei consumatori, il marchio è
ciò che permette loro di agire da arbitri nella lotta concorrenziale, molte volte noi scegliamo un prodotto invece
di un altro prevalentemente in base al marchio. (Pensiamo a Versace, Fendi, Gucci, ecc.) In questi casi, il valore
dell’azienda è dato quasi esclusivamente dal marchio.

Quindi dal punto di vista normativo, dal punto di vista sostanziale, e infine dal punto di vista dei consumatori, il
marchio è il segno distintivo principale.

Requisiti di validità:

 Lecito: non deve contenere segni contrari alla legge, al buon costume ecc., ma non solo: non deve
contenere nomi e cognomi di persone famose, ma può utilizzarlo solo per prodotti che non siano vili e
spregevoli (ad esempio un lassativo). Anche se non sono vili e spregevoli, il nome può essere utilizzato
solo con il consenso, anche nel caso di una persona famosa. Allo stesso tempo, bandiere non possono
essere utilizzate per fare un marchio.

 Verità: mentre a proposito della ditta è molto blanda, la verità nel marchio è molto rilevante. L’art.14
del codice di proprietà industriale dice che il marchio non deve contenere segni idonei a ingannare il
pubblico sulla provenienza geografica, sulla natura e sulla qualità; quindi, ogni informazione che è
inerente alla provenienza geografica, la natura o la qualità dei prodotti se siano ingannevoli o decettivi.
La provenienza geografica c’entra perché in alcuni casi la provenienza di un prodotto è indicativo della
qualità o di alcuni pregi del prodotto stesso. Essa non può essere utilizzata quando non corrisponde alla
realtà solo nei casi in cui è indicativa, ma ci sono dei casi in cui non c’è nessun legame tra il luogo e il
prodotto; quindi, un marchio del genere (tipo sigarette capri) sarebbe considerato valido.

 Originalità/Capacità distintiva: il legislatore dice che il marchio non può essere formato da
denominazioni generiche del prodotto, da indicazioni descrittive, dalla provenienza, non può essere
formato da segni di uso comune.

Per denominazioni generiche si intende proprio il nome comune di quello che fa (se produco sedie il marchio
“sedie” non può essere utilizzato). Casi come poltrone sofà, divani&divani ecc., sono validi perché alla
denominazione generica ne aggiungiamo un’altra, oppure un prefisso o un suffisso.

Per quanto riguarda la provenienza geografica, il marchio non è solo la mera provenienza geografica, ma è essa
sola tranne alcuni casi rari in cui non può essere utilizzata come tale.

Non possono essere utilizzati come marchio, sempre dal punto di vista dell’originalità, segni divenuti di uso
comune (come super, extra, ecc.)

La novità del marchio viene imposta in maniera abbastanza rigorosa, non può essere utilizzato un marchio che
si chiama intimissima per produrre prodotti affini a quello che fa intimissimi. Il marchio è nuovo quando non è
né uguale né simile a quello utilizzato da altri imprenditori che producono prodotti affini.

La novità è semplicemente la diversità.

L’originalità, invece, riguarda il fatto di avere carattere distintivo. Un marchio del tipo “acqua fresca di sorgente”
è un marchio nuovo ma non è originale, e viceversa possono esserci marchi originali ma magari non sono nuovi,
perché già utilizzati da altri imprenditori.
L’originalità vieta che denominazioni generiche vengano utilizzate come marchio, ma l’accostamento di più
denominazioni generiche è valido. Viceversa, una denominazione generica di per sé può essere utilizzata come
marchio qualora non ci sia alcun legame col prodotto che identifica (uso “sedia” come marchio di lenticchie).

Nell’ambito dei vari marchi abbiamo una distinzione tra marchi deboli e marchi forti.
Questa distinzione non va presa come oro colato, in quanto non esiste alcuna norma che dice quali marchi sono
deboli o forti, è una distinzione di fatto e non di diritto:

-Il marchio è tanto più forte quanto più è originale, e ovviamente la massima originalità è un’ambizione
dell’imprenditore.
-Marchi deboli sono ad esempio prodotti per pulire il bagno/la cucina, per quei prodotti l’originalità è minima,
sono tutti nomi simili per prodotti simili.
-Oltre a marchi deboli e forti, abbiamo dei marchi che potrebbero definirsi fortissimi, ma che dal punto di vista
normativo si definiscono celebri, o di rinomanza.

Il marchio celebre è disciplinato dall’art.12, lett. E del codice di proprietà industriale; e riguarda tutti quei
marchi che hanno una proprietà, una rilevanza, una notizierà talmente elevata che non può essere utilizzato
nemmeno per prodotti totalmente diversi da quelli utilizzati da quell’imprenditore, perché potrei trarre un
indebito vantaggio dal carattere distintivo di quel marchio, o potrei addirittura recare pregiudizio a quel
marchio.
Ci sono eccezioni, come il marchio Ferrari.

L’originalità è l’ambizione di tutti gli imprenditori, tuttavia il caso estremo dell’originalità è rappresentata dalla
volgarizzazione del marco, dove addirittura il marchio diventa esso stesso una denominazione generica. Ad
esempio, Nutella, o il Nailon, che era un marchio. Sono tutti casi in cui il marchio subisce la volgarizzazione, che
però è un danno per l’imprenditore dato che perde di originalità, in quanto diviene una denominazione
generica. Un imprenditore, per evitare la volgarizzazione, secondo la giurisprudenza deve essere attivo e sveglio
nell’effettuare una serie di provvedimenti, per esempio deve controllare che il marchio non venga inserito nei
dizionari; in questo caso l’imprenditore deve verificare che non ci sia, e se lo trova deve fare causa, ad esempio,
alla Zanichelli.
L’HAG ha fatto causa molte volte a un bar perché un cliente chiede un HAG e il bar gli vende un caffè
decaffeinato, simile all’HAG.

Se il marchio perde uno dei requisiti di validità, esso decade.


Le cause di decadenza sono:

I. Sopravvenuta illiceità,

II. sopravvenuta mancanza di originalità;

III. Abbiamo poi la decadenza per il non-uso, cioè c’è un onere di uso, e se viene registrato e non usato per
5 anni, decade. A ciò, fanno eccezione i marchi difensivi, perché sono molto simili al marchio principale,
che vengono registrati dallo stesso imprenditore per evitare a priori la registrazione di marchi simili.

Il marchio viene registrato, la registrazione dura 10 anni, e può essere rinnovato un numero illimitato di volte,
qui vedremo la differenza con il brevetto, che può essere registrato e dura 20 anni ma poi non è più rinnovabile.
Il nostro ordinamento tutela il marchio registrato, ma esiste la possibilità che un imprenditore utilizzi un
marchio senza registrarlo, ciò è possibile ed è anche prevista una forma lieve di tutela, ma il problema è che se
uso un marchio senza registrarlo, poi viene Caio che usa lo stesso marchio e lo registra per gli stessi prodotti, lo
può fare proprio perché il nostro ordinamento tutela prevalentemente marchi registrati.

Due considerazioni:

1. Dal punto di vista normativo, chi ha utilizzato un marchio senza registrarlo, dopo la registrazione del
secondo ha la possibilità di utilizzarlo, ma nei limiti in cui l’ha fatto in precedenza, quindi nei limiti
merceologici e territoriali. Se lui lo utilizzava per fare scarpe, lo potrà ancora fare ma, se lo faceva solo
in Campania, solo in Campania potrà continuare. Viceversa, il registrante potrà utilizzarlo, per i prodotti
di cui ha chiesto registrazione, su tutto il territorio italiano. Può capitare che nella zona in cui operava e
tuttora continua ad operare il pre-utente, si trovano a coesistere prodotti uguali con lo stesso marchio,
ma proveniente da imprenditori diversi; in questo caso la giurisprudenza dice che il registrante, arrivato
per secondo, avrà obbligo di inserire un piccolo elemento di differenziazione, anche soltanto nel
territorio in cui coesistono.

2. Può capitare che il secondo, registrante, magari sapeva che quel marchio era utilizzato ancorché non
registrato; in quel caso il pre-utente potrà dimostrare la malafede, e in quel caso ottenere la nullità del
marchio registrato, ma è una cosa difficile ed è anche un caso eccezionale perché il nostro ordinamento
tutela tendenzialmente il marchio registrato.

29/09

Trasferimento del marchio

Il marchio è l’unico segno distintivo, dal 1992, che può essere trasferito anche separatamente dall’azienda o
ramo d’azienda, e anche in via del tutto autonoma. In questo modo, quindi, il titolare del marchio può
monetizzare il valore commerciale di quel marchio, e in altri casi può rappresentare la stragrande quota-parte
del valore di quell’azienda.
Il marchio può essere trasferito in varie forme, i due grandi mondi sono:

 Trasferimento a titolo definitivo: il classico caso di vendita del marchio che magari viene anche
associato alla vendita dell’azienda.

 Trasferimento a titolo temporaneo: molto diffuse ed eterogenee le fattispecie relative a questo


trasferimento, pensiamo ai casi di licenza del marchio data in contesto di franchising; in quei casi la
peculiarità e il fenomeno che si viene a creare è che c’è uno stesso marchio dato in licenza, quindi
temporanea, che può essere non esclusiva. Il pericolo è che si determina un inganno nei confronti del
pubblico, o comunque che si venda lo stesso prodotto con lo stesso marchio a qualità diverse. La legge
dice che i licenziatari devono mantenere degli standard qualitativi non inferiori a quelli dati dal titolare
del marchio.

La tutela di cui gode il concedente nel momento in cui vede violati gli standard qualitativi è che intanto può
revocare la licenza, e poi esistono anche altre forme di risarcimento del danno.

L’insegna

Essa non deve essere uguale o simile a quella utilizzata da un altro imprenditore concorrente, soprattutto il
legislatore detta una sola norma per l’insegna, dettata peraltro in via indiretta, cioè si richiama quella norma
inerente alla ditta che riguarda un obbligo di differenziazione, cioè: non possono esistere due ditte identiche, e
chi l’ha iscritta per secondo deve apportare delle modifiche anche molto lievi per differenziarle, e questo si
applica anche all’insegna.

Dopodiché non ci sono altre norme, è un segno distintivo molto poco importante, si può liberamente trasferire
insieme all’azienda. Il problema nella pratica è che quello che non è normato crea problemi, cioè il fatto che
non sia specificato provoca incomprensioni.

Opere dell’ingegno e invenzioni industriali

Queste sembrano per certi aspetti simili ai segni distintivi, ma in realtà hanno un qualcosa di più, in quanto
mentre i primi rappresentano soltanto gli elementi idonei a differenziare l’imprenditore o il prodotto o i locali,
le opere dell’ingegno e invenzioni industriali sono delle idee creative, ma mentre le prime lo sono nel campo
industriale, le seconde lo sono nel campo della tecnica.

Quindi, le opere dell’ingegno arricchiscono solo il patrimonio culturale, ma non risolvono sostanzialmente
problemi (libri, canzoni, opere d’arte, ecc.)
Invece, le invenzioni industriali sono idee creative nell’ambito della tecnica (telefonini, computer, ecc.)

Queste due ricevono grande protezione dal diritto industriale, rispettivamente le opere dal diritto d’autore, e le
invenzioni dai brevetti.
Il tema delle invenzioni industriali e in via connessa quello dei brevetti è molto popolare, se ne parla tanto
nell’ambito della pandemia.

A. Il problema fonda le radici in quelle che sono le due opposte esigenze delle opere dell’ingegno e le
invenzioni industriali:
Promuovere e incentivare l’attività creativa dei privati, perché il brevetto garantisce un diritto. È chiaro
se ho questa possibilità sono più incentivato a sviluppare questa invenzione.

B. Consentire che queste scoperte diventano, in un futuro prossimo, fruibili ed utilizzabili da tutti è
l’esigenza opposta.

Da un lato vogliamo far sì che tutti possano godere delle migliorie e le invenzioni, d’altro lato vogliamo
riconoscere un premio, un guadagno a chi le ha inventate.

Solo tramite brevetto è possibile concretamente incentivare l’abilità creativa.


Ci sono alcune eccezioni, ad esempio abbiamo alcune invenzioni che, per il particolare ambito in cui si trovano,
non sono brevettate
Opere dell’ingegno

Le opere dell’ingegno sono appunto tutelate dal diritto d’autore, ma l’unica condizione richiesta è l’originalità,
deve avere un minimo di creatività rispetto alle opere già esistenti. Quest’originalità può essere anche una
rielaborazione di un qualcosa di già esistente (film tratto da un romanzo, o un remix di canzoni). Ciò che
determina l’insorgere del diritto d’autore non richiede una richiesta da parte di chi l’ha fatto, ma nasce già da
quando è stata creata l’opera.

Le opere dell’ingegno sono coperte dal diritto d’autore anche se si tratta di opere illegali (per qualche dottrina)
e sicuramente da opere immorali. Da queste opere sorgono due diritti:

- Morali: diritto di rivendicare la paternità dell’opera, il diritto di esserne l’autore, di pubblicarla, o di non
pubblicarla (diritto di inedito). Questi, in quanto legati alla personalità, sono irrinunciabili ed
inalienabili. Se io ho creato una canzone, non posso vendere il mio diritto d’autore

- Patrimoniali: possono essere alienati e ceduti in generale, corrispondono ai proventi e guadagni


provenienti da quell’opera. Essi hanno una durata limitata nel tempo, cessano 70 anni dopo la morte
dell’autore, poi spettano agli eredi.

Non sempre un’opera è legata a una persona, possono essere legate a più persone (pensiamo a un film, a un
libro, una canzone), e in questi casi si pone il problema di disciplinare i diritti patrimoniali, perché i diritti morali
spetteranno a tutti, ma con i patrimoniali è differente.

Invenzioni industriali

Sono più importanti delle opere dell’ingegno dal punto di vista pratico, perché rappresentano delle soluzioni
originali di un problema tecnico.
Si distinguono in:

 Di prodotto: hanno come oggetto i prodotti.

 Di processo: nuovo procedimento per realizzare prodotti già noti, viene scoperto un modo migliore.

 Derivate: sempre soluzioni originali, ma che derivano da un prodotto già esistente.

Ci sono alcune idee che, per la loro rilevanza e il loro impatto, non sono brevettate: ad esempio metodi
matematici, invenzioni scientifiche, determinate formule; perché il tema è che ciò che già esiste in natura e ce
l’uomo ha solo scoperto non è brevettabile, al contrario di quello che viene ideato e progettato.
Non sono neanche brevettabili i metodi per trattamenti chirurgici o terapeutici legati alle cure, perché avere un
brevetto porta all’uso esclusivo di quella cosa, e non può applicarsi ad esempio ad una cura medica

Bisogna distinguere tra il metodo e la macchina:


La macchina è ciò che può essere oggetto di brevetto, viceversa il funzionamento della macchina, ovvero il
procedimento, non può esserlo.

Per poter essere brevettate, le invenzioni devono avere requisiti simili a quelli già visti per i segni distintivi, ma
solo simili, devono:
a) Essere nuove: non devono essere già compreso del cosiddetto stato della tecnica, ovvero tutto ciò che è
già accessibile in quel momento;

b) Avere attività inventiva: devono presentare un aspetto che non risulta in maniera evidente all’occhio di
una persona esperta.

c) Avere industrialità: l’idoneità perché quel prodotto abbia applicazione industriale, cioè che possa
concretamente essere utilizzato in un’industria, ad esempio.

Anche in questo caso distinguiamo diritti morali e patrimoniali, simili a quelli descritti nel diritto d’autore.

Tendenzialmente, il soggetto legittimato a richiedere il brevetto (quindi a chiedere il deposito della domanda di
brevettazione e quindi dell’uso esclusivo) è l’autore dell’invenzione, ma ci sono casi frequenti in cui l’idea
invenzione viene da un soggetto diverso da colui che ne sfrutterà legittimamente i diritti economici. Un esempio
è quello che riguarda le invenzioni fatte dai dipendenti di un’impresa. Immaginiamo un’azienda che si occupa di
ricerca per la plastic-free, ci sono team di ricercatori che lavorano a una serie di migliorie, il dipendente che
inventa qualcosa non per forza ha i diritti economici.

A tal proposito distinguiamo:

i. Invenzioni di servizio: fatte da un dipendente nell’ambito dell’attività che lui svolge secondo il contratto
di lavoro, è l’attività inventiva che rappresenta proprio il suo contratto di lavoro. In questo caso le
invenzioni spetteranno al datore di lavoro, che ne sfrutterà i diritti economici, in quanto parliamo di un
rapporto di lavoro fondato proprio sull’attività inventiva che il lavoratore esercita, e soprattutto il datore
di lavoro sopporta tutti i costi dell’attività

ii. Invenzione aziendale: realizzata nell’ambito dello svolgimento di un accordo di lavoro, ma non è
prevista una specifica retribuzione per quell’attività. Non è esattamente basato su quell’attività
inventiva, in questo caso i diritti patrimoniali spettano al datore di lavoro, ma se quest’ultimo decide di
brevettare quell’invenzione, allora il lavoratore avrà diritto ad un certo premio, determinato in base agli
accordi di lavoro.

iii. Invenzione occasionale: viene sempre svolta dal lavoratore, ma non c’entra nulla col rapporto di lavoro,
viene realizzata da un dipendente ma in un ambito totalmente differente da quello in cui esercita. In
questo caso i diritti patrimoniali spettano al dipendente.

La procedura di brevettazione è simile a quella del marchio: viene presentata una domanda, la durata è di
massimo 20 anni, e in alcuni casi particolari addirittura 10. La grande differenza col marchio è che il brevetto
non è rinnovabile, ed è qui che ritroviamo quell’esigenza di incentivare, da un lato, l’attività inventiva e la ricerca
e lo sviluppo tecnologico, dall’altro lato di evitare che questo si traduca in situazioni di monopolio tecnologico,
cioè l’idea di fondo è di consentire di sfruttare i diritti economici per un certo periodo, poi basta.

La Concorrenza

Esistono diverse fattispecie, diversi fenomeni anche concorrenziali illeciti, ma non vanno confusi:
Quando parliamo di legislazione antimonopolistica, facciamo riferimento a una normativa di derivazione
comunitaria, che è stata poi recepita anche in Italia; le cosiddette fattispecie del diritto antitrust.
Queste fattispecie vengono controllate e giudicate e sanzionate (tripla funzione) dall’Autorità Garante della
Concorrenza e del Mercato (AGCM)

Viceversa, quando invece parliamo di concorrenza sleale, lì è competenza del Giudice ordinario; infatti, vengono
disciplinati solo ed esclusivamente dal Codice civile.

L’art.41 della costituzione disciplina la libertà dell’iniziativa economica, ci sono dei casi in cui lo stato può però
prevedere delle limitazioni alla concorrenza (per esempio: monopoli di stato).

La disciplina antimonopolistica, che ha una matrice comunitaria europea, poi recepita in Italia dalla legge 1990,
n.287, ha proprio l’obiettivo di tutelare la libera competizione tra imprese, e soprattutto tutelare la libertà del
mercato concorrenziale. Quindi, l’obiettivo primario delle fattispecie del diritto antitrust è quello di tutelare il
mercato inteso come tutto il contesto in cui operano imprenditori, concorrenti e consumatori.

Viceversa, la disciplina della concorrenza sleale (Codice civile) è volta a tutelare gli imprenditori concorrenti, e
SOLO in via derivata e secondaria i consumatori.

Le fattispecie disciplinate dal diritto antitrust sono:

1) Intese: comportamenti concordati tra imprese fondate anche su contatti o accordi, volti a limitare la
concorrenza sul mercato. Sono accordi tra imprenditori che per esempio stabiliscono uno stesso prezzo
di comune intesa, la fissazione dello stesso prezzo fra più imprenditori è un’intesa vietata perché viola
la concorrenza, il prezzo non può essere uguale a più imprenditori. Altri casi di imprese sono i patti di
contingentamento della produzione, quando più imprese si mettono d’accordo su quanto produrre per
poi limitare l’offerta sul mercato e stabilire il prezzo che vogliono. Sono tutti esempi di intese vietate. Le
intese sono vietate quando hanno come effetto quello di restringere o falsare in misura rilevante la
concorrenza all’interno del mercato. L’intesa viene sanzionata con la nullità. Esistono le intese minori,
che dato che non incidono in maniera rilevante sul mercato, sono lecite; o anche intese per un periodo
di tempo limitato e quindi lecite.

2) Abuso di posizione dominante: non è vietato il conseguimento di questa posizione, bensì l’abuso. Ciò
che è vietato è l’abuso, in quanto si traduce in un danno. Per esempio: l’imposizione di prezzi o altre
condizioni contrattuali inique gravose. L’abuso viene fatto da un solo imprenditore. Un altro esempio è
subordinare la conclusione di un contratto all’accettazione di determinate prestazioni supplementari.
Questo non ammette eccezioni, è sempre vietato, non esistono abusi minori.

3) Concentrazioni: rappresentano delle unioni tra più imprenditori, qui l’unione è particolarmente incisiva,
è un’unione che rappresenta una compenetrazione anche decisiva di patrimoni. Un esempio classico
sono le fusioni, che danno luogo ad un’unica entità, tendenzialmente forte, che potrebbe ridurre in
maniera sostanziale il gioco della concorrenza. Per capire se lecita o meno, bisogna vedere che siano
preventivamente comunicate all’AGCM, oppure (se si tratta di fusioni che riguardano imprese anche
comunitarie) bisogna comunicarlo preventivamente addirittura alla comunità europea, l’organo
competente in sede comunitaria. Ci sono delle soglie dimensionali di fatturato (come per le intese),
anche molto elevate, superate le quali occorre dare corso a questa comunicazione preventiva all’AGCM.
Quest’ultima può adottare un provvedimento di triplice natura: può vietare la concentrazione, perché
ritiene che possa determinare una posizione dominante troppo forte nei confronti della concorrenza,
oppure può utilizzare l’accettazione e basta, o può utilizzarla a determinate condizioni, ad esempio per
due banche autorizza la fusione ma la banca X deve cedere 50 sportelli. (Quest’ultima è la soluzione
solitamente più frequente)

Sappiamo che L’AGCM, nell’ambito del diritto antitrust, è volto a tutelare il gioco della concorrenza.

Viceversa, l’istituto che tutela in via diretta i consumatori è, in parte la pubblicità, ma soprattutto quello delle
cosiddette pratiche commerciali scorrette.

Le pratiche commerciali scorrette sono state prodotte in Italia dal 2007, con il recepimento di una direttiva
comunitaria del 2006 sulle pratiche commerciali sleali.
Queste pratiche commerciali scorrette (o sleali) sono tutte quelle pratiche commerciali, quei messaggi
promozionali, quelle comunicazioni e prassi politiche commerciali, che vanno a danneggiare i consumatori.
Questa disciplina è volta a tutelare i consumatori in via diretta e specifica, anche qui la giurisdizione spetta
all’AGCM.
Queste pratiche si distinguono in due categorie, che a loro volta presentano due black lists (elenchi di pratiche
individuate dal legislatore e che rappresentano comportamenti sicuramente lesivi):

 Ingannevoli: si ritrovano principalmente nell’ambito delle compagnie aeree, perché è stato ritenuto
ingannevole il fatto che viene esibito un prezzo che non comprende nemmeno il bagaglio a mano, c’è
infatti una controversia in corso; un secondo esempio è una compagnia aerea che faceva pagare il
supplemento per la scelta del posto vicino ad un figlio minore o disabile, anche questa è pratica
commerciale scorretta.
Queste pratiche sono tutte quelle comunicazioni che trattano il destinatario in inganno o sul prezzo o su
altre caratteristiche del servizio.

 Aggressive: comportamenti molesti, anche insistenti che vengono attuati nei confronti dei consumatori,
un esempio classico sono gli operatori telefonici. Sovente vengono applicate delle sanzioni.

Sia nella pubblicità, sia nelle pratiche commerciali scorrette, il punto di riferimento per determinare se una
pratica è scorretta o meno, non è quella dell’esperto o del consumatore ignorante, ma è quella del consumatore
medio. La giurisprudenza comunitaria ha elaborato questo parametro di consumatore medio, ovvero colui
ragionevolmente informato e mediamente attento. C’è chi diceva che il parametro era quello della persona
quasi ritardata, orientamento che non è stato condiviso.

04/10
(Un continuo della lezione precedente)

Il tema della concorrenza può essere esaminato attraverso diversi punti di vista, tra cui la concorrenza
antimonopolistica, che è finalizzata alla tutela della concorrenza, intesa come bene di per sé perché il nostro
legislatore mira ad un regime di concorrenza perfetta. Ci sono poi casi particolari, anche disciplinati di
monopoli, ma il regime preferenziale è quello della concorrenza perfetta.

Viceversa, il tema della concorrenza sleale è di origine e di normativa civilistica, perché la ritroviamo nel Codice
civile, e in particolare gli articoli fondamentali sono il 2598 e i seguenti, dove il nostro legislatore stabilisce quali
sono i casi, le ipotesi concrete di concorrenza sleale, fermo restando che non è un numero chiuso, anzi
individua anche una clausola generale che tende a ricomprendere tutta una serie di fattispecie che non possono
essere menzionate.

Concorrenza sleale

Per quanto riguarda questa disciplina, uno dei profili generali attiene al profilo del cosiddetto danno potenziale.
Gli atti di concorrenza sleale non è necessario che cagionino necessariamente un danno, per essere considerati
tali, ma basta la mera potenzialità dannosa perché si configuri e sia sanzionato come tale.

Questa disciplina è volta a tutelare in via diretta ed espressa gli imprenditori concorrenti, è chiaro che anche i
consumatori ricevono una tutela indiretta da questa disciplina, ma non è lo scopo principale, in quanto questi
ultimi ricevono tutela dalla disciplina antimonopolistica (per quanto riguarda soprattutto la concorrenza) e dalla
disciplina delle pratiche commerciali scorrette, così come anche la disciplina della pubblicità ingannevole.

Sono esattamente gli imprenditori concorrenti a ricevere un potenziale danno diretto nelle fattispecie di
concorrenza sleale, che sono disciplinate dall’art.2598, divise in 3/4 gruppi con rispettivi sottogruppi:

1. Fattispecie di confusione, che viene compiuto quando si utilizzano nomi o segni distintivi idonei a
produrre confusione con nomi o segni distintivi di un altro imprenditore. L’utilizzo di segni distintivi
simili o uguali a quelli di altri concorrenti è disciplinato già nel Codice civile, già nella concorrenza sleale,
oltre alla disciplina vista a proposito dei marchi, però questa confusione viene sanzionata e viene
vietata già nella disciplina standard sulla concorrenza sleale, anche perché ci sono alcuni segni distintivi
che potrebbero non essere tutelati (ad esempio marchio non registrato). Un secondo sottotipo degli atti
di confusione è l’imitazione servile, una fattispecie molto subdola e peculiare perché non verte
sull’imitazione del prodotto, ma della scatola, dell’involucro, dell’aspetto esteriore, ed induce quindi in
una confusione. Ecco perché questa disciplina tutela in via indiretta anche i consumatori. C’è un terzo
sottotipo di concorrenza cosiddetta confusoria, ovvero il compimento con qualsiasi altro mezzo di atti
idonei a creare confusione con prodotti e attività di un concorrente. In realtà questo terzo sottotipo è
una sorta di residuo, una sorta di una clausola generale che porta a ricomprendere tutta una serie di
ipotesi di concorrenza, che pure operano al fine di confondere i consumatori, che però non è basata né
sui segni distintivi né sull’imitazione servile, e riguarda fattispecie atipiche. Un esempio sono le scritte
che si usano per slogan, slogan simili, eventuali scritte su un pullman

2. Diffusione di notizie o apprezzamenti su prodotti o attività di un concorrente idoneo a determinarne il


discredito, e appropriazione dei pregi dei prodotti o dell’impresa di un concorrente. Denigrazione e
appropriazione dei pregi (o vanteria) sono due fattispecie diverse ricomprese all’interno dello stesso
gruppo nell’articolo, ma che hanno in comune il fatto che l’atto di concorrenza sleale avviene mediante
delle comunicazioni che possono determinare discredito o una vanteria non vera. La denigrazione è una
serie di diffusione di notizie, informazioni, peculiarità negative sulla produzione di un concorrente. È
necessario che la denigrazione sia volta ad un pubblico numeroso? Dipende, sicuramente non è
sufficiente che io lo racconti ad un conoscente; quindi, da un lato l’apprezzamento (negativo) o notizia
vuole un certo numero di persone, ma ci sono determinati casi in cui una notizia è potenzialmente
molto dannosa anche se viene data a un solo soggetto, come ad esempio al direttore di una banca al
quale è affidato l’imprenditore. Se le notizie che vengono diffuse sono vere, la denigrazione è tale o è
un atto quasi dovuto? Ci sono due orientamenti: secondo una parte di dottrina e giurisprudenza, non è
denigrazione in quanto comunicazione di messaggio vero e che fa chiarezza, secondo invece un’altra
parte, è comunque denigrazione perché la diffusione di notizie in questo modo non è giusto, cioè
dovresti fare una denuncia senza dover “sputtanare”. L’altro sottotipo di atto di concorrenza sleale è
l’appropriazione di pregi, anche definita vanteria, perché è la comunicazione con la quale si afferma che
i propri prodotti hanno determinati pregi e caratteristiche che in realtà appartengono ad un
concorrente.

3. Una fattispecie molto simile a quella appena detta, la vanteria, riguarda la comunicazione con cui
l’imprenditore vanta di avere pregi che non appartengono a nessuno nel mercato, parliamo di
comunicazione ingannevole. L’art.2598, a proposito del terzo gruppo, dice che compie atti di
concorrenza sleale chiunque si avvale di ogni altro mezzo contrario alla correttezza professionale, e
idoneo a danneggiare l’altrui azienda. Questa è una clausola generale, una norma di chiusura della
disciplina della concorrenza reale, che secondo la dottrina è volutamente ambigua, comprende tutto e
niente. Qual è la correttezza professionale? Ci sono state varie posizioni e orientamenti perché secondo
vari studiosi si faceva riferimento ai canoni etici, noi ci limitiamo a dire che questa clausola generale
oggi serve solamente a ricomprendere una serie di fattispecie atipiche che il legislatore non va
compreso nel n.1 e 2, ma che per la loro frequenza possiamo ritenere tipizzate dalla prassi, dalla
diffusione pratica, dalla casistica giurisprudenziale, ma non dalla legge. Quindi, il n.3 in origine è stato
pensato come norma residuale, volta a ricomprendere una serie di fattispecie che il legislatore non
poteva prevedere nei primi 2 gruppi; anche perché la concorrenza è un mondo in evoluzione. Queste
fattispecie tipizzate che generalmente la dottrina riconduce al n.3 sono lo storno dei dipendenti, le
comunicazioni ingannevoli (che ingannano il pubblico e che attribuiscono pregi ai propri prodotti che
non appartengono a nessuno, confine labile tra questo e la vanteria). Lo storno di dipendenti è molto
diffuso, e si concreta nella sottrazione in modo fraudolento di dipendenti a un imprenditore
concorrente. Ovviamente un dipendente può cambiare imprenditore, però lo storno è quell’atto
finalizzato tendenzialmente a danneggiare l’imprenditore concorrente; quindi, viene sottratto un
dipendente non perché serva, ma semplicemente perché si vuole arrecare un danno all’imprenditore
concorrente. La linea di confine tra lo storno di dipendenti come atto di concorrenza sleale e la semplice
scelta del dipendente di cambiare datore di lavoro, è stata definita dalla min.27. Un primo aspetto è la
numerosità dei dipendenti, un secondo è l’utilità o inutilità presso l’azienda di colui che ha sottratto il
dipendente, un terzo indicatore è dato dalle modalità con cui avviene lo storno, cioè se magari avviene
in combinazione con denigrazione (diffusione di notizie negative). Non è facile dimostrarlo, quindi
occorre dimostrare il cosiddetto animus nocendi (intenzione di danneggiare)

Ci sono altri casi di concorrenza sleale ricondotti al n.3, perché la clausola generale è appunto molto generale,
come ad esempio la vendita di sottocosto, in quanto danneggia i concorrenti. È un atto magari non tanto
apprezzabile dai consumatori, ma danneggia i concorrenti perché significa vendere ad un livello che non
consente neanche la copertura dei costi. Magari io sono un imprenditore florido quindi posso permettermelo,
ma elimino completamente dal mercato altri concorrenti. Ci sono però dei casi in cui è ammesso, come vendita
promozionale di durata limitata, o anche il caso che ha ad oggetto beni deperibili che hanno una scadenza,
come beni alimentari, la ratio sarebbe evitare che appunto questi beni rimangano inutilizzati, quindi meglio
venderli sottocosto piuttosto di avere uno spreco e non venderli proprio. Questa norma riguarda tutto ciò che
non è compreso nel n.1 e 2, c’è anche il boicottaggio

Sanzioni di questi atti di concorrenza sleale, dobbiamo distinguere:

 C’è stato un danno: il legislatore prevede anche la possibilità di risarcimento del danno;

 Atto potenzialmente ma non realmente dannoso: abbiamo due rimedi che possono essere utilizzati sia
come alternativi sia come cumulativi: 1) azione di rimozione degli effetti, che guarda al passato perché
volta a rimuovere gli effetti di quell’atto di concorrenza sleale. Rimuovere gli effetti non è sempre
possibile, quindi ci si ripiega sulla rimozione dei mezzi con cui ho provocato quell’effetto. Si presta bene
per quegli atti di concorrenza sleale in cui c’è un mezzo tangibile e concreto su cui intervenire, ad
esempio la stampa di dépliant o volantini, quest’azione di rimozione degli effetti è utile perché
consisterà nella distruzione della produzione di altri dépliant; 2) azione inibitoria, che guarda al futuro,
in quanto è un provvedimento con cui viene inibito, vietato il comportamento di un determinato
imprenditore.

Queste due azioni sono utili in base al tipo di atto sleale che è stato utilizzato, ad esempio una denigrazione
potrà più efficacemente essere colpita dall’azione inibitoria, così come la vendita sottocosto. Per rimuovere gli
effetti della vendita sottocosto, ad esempio, serve un’azione inibitoria.

C’è una quarta fattispecie di sanzione, ovvero la cosiddetta pubblicazione della sentenza. Nei casi in cui un
imprenditore ottenga una sentenza favorevole, vantaggiosa, che quindi condanna l’imprenditore concorrente,
l’imprenditore può ottenere che questa venga pubblicata su un quotidiano. È una sorta di pubblicità
denigratoria, però lecita, ed è molto ambita dagli imprenditori, perché il fatto che tutti vengono a sapere che un
mio concorrente è stato condannato perché si è comportato in modo sleale può essere di grande vantaggio per
me.
La pubblicazione della sentenza si può avere a prescindere dal danno, cioè sia se c’è stato sia se non c’è stato.

Di tutti questi rimedi, dobbiamo dire che uno non esclude l’altro, però è chiaro che chiedere l’inibitoria per un
atto che non serve a niente, è appunto inutile. Un esempio è nel caso dello storno di dipendenti, che è una
fattispecie molto particolare, dato che in realtà sia l’inibitoria sia la rimozione degli effetti non serve a nulla.
Questo perché lo storno di dipendenti non prevede il ritorno automatico del dipendente in capo all’ex
imprenditore, servirà poi un nuovo accordo, ma se si dimostra che il dipendente stornato è stato sottratto al
solo fine di danneggiare l’azienda, ciò verificato, non ne determina il ritorno.

Pubblicità

Il nostro ordinamento disciplina due fattispecie di pubblicità, abbastanza differenti:


 Ingannevole: ricomprende tutti quei messaggi promozionali, le forme pubblicitarie con cui si
ingannano i consumatori, è ovviamente non lecita, illegale. Bisogna però far attenzione, la pubblicità
ingannevole e anche la comparativa sono finalizzati a non danneggiare i consumatori, ma solo gli
imprenditori concorrenti. È sempre vietata perché si tratta di diffondere notizie che traggono in
inganno il pubblico, e così facendo possono comportare una sottrazione ingiusta di clienti a un
imprenditore che si comporta in maniera corretta.

 Comparativa: ancora più subdola in quanto lecita in alcuni casi. Può però rappresentare un atto sleale
perché si fonda sulla comparazione con altri imprenditori. Se la pubblicità comparativa si fonda su un
confronto che genera esclusivamente discredito di un altro imprenditore, allora è illecita perché io sto
generando discredito, uno svantaggio al mio concorrente. Viceversa, se si basa su una comparazione
fondata su elementi oggettivi, seri, non genera confusione sul mercato, non genera discredito al
concorrente, allora in questo caso è lecita. Ad esempio: se un’azienda di casa automobilistica diffonde
dei dati inerenti ai consumi, alla produzione di anidride carbonica, e dice che invece l’altro
concorrente fa così, non è una pubblicità comparativa perché si stanno diffondendo semplicemente
dei dati che sono oggettivi e veri; quindi, sto solo attuando una comparazione lecita.

Abbiamo detto che:

L’autorità competente a giudicare e sanzionare gli atti di concorrenza sleale, quindi art. 2598, è il giudice
ordinario.
Viceversa, pubblicità ingannevole e comparativa, pratiche commerciali scorrette e anche la disciplina
antimonopolistica (antitrust), la competenza è dell’AGCM.

Abbiamo una concorrenza diversa, e ciò è importante perché se esaminiamo la pubblicità ingannevole, per
esempio, se ci pensiamo, la diffusione di notizie ingannevoli è anche una fattispecie di concorrenza sleale di cui
al 2598 n.3. Quindi, se l’imprenditore diffonde notizie ingannevoli che generano discredito, posso invocare la
disciplina della pubblicità ingannevole o quella della concorrenza sleale? Entrambe. Posso adire (rivolgermi a)
sia il giudice ordinario, sia l’AGCM; tendenzialmente è possibile anche instaurare un doppio giudizio, proprio
perché le fattispecie presentano dei confini non sempre individuati e precisi.

Così come anche la vanteria e semplice diffusione di notizie ingannevoli, in realtà sono molto simili, però in quel
caso il problema è irrilevante, perché stiamo parlando di due fattispecie previste entrambe dalla disciplina della
concorrenza sleale, uno dal n.2 e uno dal n.3. Il problema è irrilevante perché cambia il nome con cui lo
chiamiamo, ma comunque devo rivolgermi al giudice ordinario, e comunque le sanzioni sono quelle previste;
quindi, a quel punto è irrilevante la qualificazione dell’atto.
È invece rilevante se voglio presentarlo come pubblicità ingannevole o come atto di concorrenza sleale, perché
lì cambia tutto, ma cambia se non altro il giudice a cui mi rivolgo.

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