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Carattere, idee, poetica

Tra il 1815 e il 1816, Leopardi matura, dopo anni passati a studiare disperatamente nella biblioteca
paterna, la propria “conversione letteraria”, che lo porterà alla scoperta del bello, come stesso lui
dirà nello Zibaldone: “dall’erudizione al bello”. Ciò comportò anche l’abbandono del modello
paterno e un distacco dal conservatorismo cattolico: di conseguenza, la città natale a Leopardi
comincia a stare stretta e la visuale che ha del mondo esterno sembra solo vuota e volgare, fin
troppo per lui che aspirava a nobili ideali.
Tali condizioni del mondo esterno nell’ottica leopardiana, lo porteranno ad una profonda
meditazione sulla natura, che lo caratterizzerà per tutta la vita e in qualsiasi opera, sia da quelle
da fanciullo, sino a quelle da adulto. In un primo tempo, cioè dal 1817 al 1822 circa, la natura è
vista dalla autore come una madre benigna, che ha donato all’uomo il piacere più grande, cioè
le illusioni. Per l’autore, esse sono valori che danno senso all’esistenza, il conforto, il
risarcimento per un mondo deludente e povero di ideali.
Leopardi però non nega la controparte, ponendo la ragione come la forza distruttrice di tale
capacità fantastica, che strugge la sua vena poetica e lo rende infelice. Tale idea si rafforza nel
dibattito tra classicisti e romantici, dove Leopardi, nonostante si dichiari a favore dei primi, si
avvicina ai secondi rifiutando il canone dell’imitazione ed elogiando l’originalità del poeta. Infatti, il
“sommo poeta” è colui che sente “l’ardore” di una “scintilla celeste”: essere un poeta
classicista non significa ricalcare modelli passati, ma trovare la propria purezza, ritornando a quello
stato di natura puro che la ragione ha gradualmente soffocato. Nel Discorso di un italiano
intorno alla poesia romantica (1818) si ha la più grande dimostrazione di tale convinzione, dove
Leopardi afferma che anche la moderna poesia romantica, in un mondo dove tutto è ragione e
calcolo, non può sfuggire ad una poesia arida e intellettualistica, o incline all’orrido e al brutto.
Bisogna ripartire dai grandi classici, dove veniva celebrata la bellezza e la forza della vita. Ergo, il
compito del poeta non è quello di istruire gli uomini, bensì di illuderli, così da impedire alla ragione
di allontanarli dalla fantasia. Il classicismo di Leopardi, così facendo, aspira una componente
edonistica, sensistica e materialistica, che si sintetizza nella celebrazione dell’esperienza
fisica e umana, rifiutando qualsiasi riferimento metafisico, mistico o spiritualistico.
Si ha la definizione di “pessimismo storico”, ovvero la prima fase del pensiero leopardiano: una
visione negativa e pessimistica della realtà e dell’esistenza, la critica all’Italia della
Restaurazione. Ed è proprio la fase in cui Leopardi si distacca da un’epoca di ideali di eroismo e
liberalità, trovando nell’antichità la purezza e tranquillità, mentre nel mondo presente solo
dolore. Quindi, la storia è un processo inesorabile di decadenza e allontanamento dalla
felicità.

Lo sviluppo del “pessimismo cosmico”


Nel 1819, come Leopardi ci dice in una lettera a Pietro Giordani, la sua mutazione, il passaggio
dallo stato antico al moderno, fu spinto dalle condizioni fisiche peggiorate e della continua
distrazione della lettura, che lo portarono ad accusar di più la propria infelicità, conducendolo poi a
riflettere profondamente sopra le cose… e a divenir filosofo di professione. Il poeta vive una
fase di abbattimento e prostrazione, con cenni di moti di ribellione, come il tentativo di fuga da
Recanati. In questo anno, Leopardi si avvicina “alla ragione e al vero”, e si realizza così nella sua
poetica la drammatica dialettica tra la realtà e le illusioni, le quali sopravvivono solo per allievar
il dolore umano.
Al 1820-21 risale la “teoria del piacere”, così chiamata da Leopardi e punto portante di alcune
pagine dello Zibaldone. Egli vede l’amore di sé, caratteristica di ogni essere umano, come un
desiderio illimitato di piacere, destinato però a rimanere sempre insoddisfatto. In parole
povere, appena si riesce a provare il piacere per aver realizzato un proprio desiderio, tale piacere
tenderà ad affievolirsi e a scomparire, facendo sorgere un altro desiderio: ergo, anche quando non
ci sono motivi concreti di dolore, l’essere umano è ugualmente triste e sofferente a causa della sua
natura. Si ha una nuova fase del pessimismo leopardiano, dove la sofferenza non si tramuta
più nel processo storico, bensì come una caratteristica vera e propria della natura umana. E’ la
circolarità del meccanismo desiderio-insoddisfazione-desiderio a renderlo sofferente, non
ragioni contingenti. Si passa, quindi, ad un pessimismo di tipo psicologico-esistenziale.
Si ha la concezione di infinito, esigenza dell’essere umano: le situazioni visive e sonore, in
quanto “vaghe e indefinite”, sono capaci di procurare piacere nell’immaginazione: laddove non
si riesce più a vedere o a sentire, la forza fantastica dell’essere umano agisce per procurare
soddisfazione.
Nel 1823 si ha la completa distruzione del pessimismo storico, percorso alimentato dalla lettura
del Viaggio del giovane Anacarsi in Grecia, opera di Jean-Jacques Barthélemy, dove si trovano
costanti citazione sul dolore della vita tratte da autori classici come Pindaro, Sofocle etc. Trovata
una corrispondenza anche nella bibbia, come nel libro di Giobbe, Leopardi giunge ad una
conclusione: la felicità non esiste e non è mai esistita. Ergo, non è lo sviluppo della storia, non
sono le condizioni civili, bensì è proprio lo stato di natura a rendere l’uomo sofferente. L’antitesi
fra natura e ragione si annulla, e si instaura nel pensiero leopardiano un contrasto insuperabile
tra natura e individuo.
Si ha quindi un ripensamento della concezione della natura: la ricerca del piacere non è altro
che un meccanismo architettato dalla natura per il perpetuarsi della specie umana. Dato che
ciò comporta sconforto nell’uomo, la natura perde la propria concezione di benigna. Nell’operetta
morale Dialogo della Natura e di un Islandese, la natura si presenta in “forma smisurata di
donna”, non più forza protettrice degli umani, bensì una matrigna indifferente che divora la
propria prole. Essa si limita ad assecondare, come lei stessa spiega all’Islandese, quel “perpetuo
circuito di produzione e distruzione” in cui si risolve la vita dell’universo.
Nasce il “pessimismo cosmico”, che si basa su una visione rigorosamente materialistica della
realtà. L’infelicità umana è parte della realtà, perché tutto ciò che esiste non è che un anonimo
ingranaggio nel ciclo meccanicistico di “produzione e distruzione”, regolato dalla natura
stessa. La sofferenza dell’uomo è necessaria alla sopravvivenza della specie, e Leopardi,
abbandonato lo slancio polemico nei confronti dei contemporanei, rivolge la propria invettiva contro
la causa della sofferenza umana, cioè la natura.
Questo clima alquanto cupo, porta il poeta, nel 1827, a scrivere il Dialogo di Plotino e Porfirio, che
tratta il tema del suicidio. L’autore lo giustifica razionalmente, descrivendolo come liberatorio e
salvifico, ma rifiutandolo di fatto in nome del “senso dell’animo”, ossia quel gusto di vivere che
risorge costantemente nonostante le sofferenze, grazie al confronto dell’amicizia e al sostegno
delle persone care. Tale pensiero, che sembra “allievare” il cuore del poeta, lo porterà alla
composizione delle sue opere più celebri, cioè i cosiddetti “canti pisano-recanatesi”, come A
Silvia, Le ricordanze, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio, Canto notturno di un
pastore errante dell’Asia.
Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere
L’ambientazione realistica che caratterizza “Dialogo di un venditore di almanacchi e di un
passeggere” nasconde in realtà un potente simbolismo, che fa emergere le illusioni da cui
l’esistenza umana è gestita. Da questa conversazione, che sembra apparentemente banale,
affiora uno dei temi leopardiani più forti che si ritrova nell’affermazione che esclude la felicità
dell’uomo dalla legge naturale. La felicità è naturalmente preclusa all’uomo, per cui la positività
va ricercata nelle illusioni rivolte al passato e nelle aspettative per il futuro. La felicità non è
realizzabile: l’uomo ama ricordare il passato, ma non vorrebbe che si ripetesse e questo sta a
simboleggiare la negatività della vita e dell’inevitabile dolore che essa comporta.

La prima parte dello scritto richiama il modello platonico, in base al quale attraverso le domande
si esprimono tesi filosofiche. Il passante, infatti, attraverso i suoi quesiti incalzanti, accompagna il
lettore verso la propria tesi, che introdurrà nella parte finale dello scritto. 

La prima domanda è relativa all’aspettativa di felicità per l’anno a venire, domanda alla quale il
venditore non può rispondere negativamente sia per educazione e anche perché ne andrebbe dei
suoi affari.

A questa seguono domande ben mirate che permettono al passante di concludere ironicamente


(affermando che l’anno nuovo sarà migliore), mettendo il venditore di fronte ad una realtà che
ignorava e chiudere con l’acquisto del calendario più bello e costoso.

Il fulcro di questa operetta è racchiuso in una frase citata dal Leopardi nello Zibaldone “… nella
vita che abbiamo sperimentata e che conosciamo con certezza, tutti abbiamo provato più male
che bene; e se noi ci contentiamo ed anche desideriamo di vivere ancora, ciò non è che per
l’ignoranza del futuro, e per una illusione della speranza, senza la quale illusione o ignoranza non
vorremmo più vivere, come noi non vorremmo rivivere nel modo che siamo vissuti.” 

 La felicità può solo essere cercata nell’attesa di quello che non si conosce e che non si è
vissuto, in quella stessa attesa in cui l’uomo geneticamente è portato a sperare. Il Dialogo è
strettamente correlato al pessimismo storico leopardiano: l’uomo ha necessità di crearsi illusioni
per sperare in un futuro migliore, illusioni che però non hanno né speranza, né valore.

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