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Nell’orgoglio dell’uomo, secondo voi, c’è qualcosa di mistico.

Bisogna smetterla con questa autoesaltazione.


Bisogna soltanto lavorare.
ANTON ČECHOV (1860 – 1904)

La commedia mancata, l’immagine dolente della precarietà e meschinità


dell’uomo, il frutto estremo della penna triste di un genio che credeva di
vestire di comicità le sue opere. Il poeta russo che ha donato individualità ai
personaggi del teatro tradizionale, che ha immaginato una realtà fatta di
infinite, latenti possibilità di vita, che ha trasmesso a ogni lettore negli
ultimi cento anni il gusto meraviglioso del quotidiano.
IL GIARDINO
DEI CILIEGI
Anton Čechov

A cura di
LUIGI LUNARI

Con le note di regia di


GIORGIO STREHLER
Proprietà letteraria riservata
© 1995 R.C.S. Libri & Grandi Opere S.p.A., Milano
© 2000 RCS Libri S.p.A., Milano

ISBN 978-88-586-5187-2

Prima edizione digitale 2013

Copertina: progetto grafico Mucca Design

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È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
INTRODUZIONE ALLA LETTURA
DEL «GIARDINO DEI CILIEGI»

LA VITA E LE OPERE

Anton Pavlovic Cechov nacque il 17 gennaio del 1860 a Taganròg, in


Ucraina, da una famiglia di umili origini. Il nonno – Egor Michailovic Cech
– era stato servo della gleba e aveva comperato la propria libertà versando
al padrone 3500 rubli; il padre, Pavel Egorovic, aveva aperto nel 1857 a
Taganròg una piccola drogheria. L’infanzia di Cechov si svolse in un clima
dominato dalla severità e dalle manie del padre, uomo intransigente e
dispotico, che non lesinava le punizioni fisiche, ma che non era privo di
sensibilità e di fantasia; suonatore dilettante di violino, appassionato di
canto religioso, aveva costituito con i figli un piccolo complesso polifonico
che convocava nelle ore più impensate e che fu per tutti in famiglia un vero
e proprio tormento. Il talento di Pavel Egorovic, che diventerà genio
autentico in Anton Cechov, fu ereditato anche dagli altri figli: Aleksandr,
che diventerà uno scrittore, Nikolaj, che si dedicherà alla pittura, Michail,
Ivan e Maria. Anton Cechov frequentò a Taganròg la scuola primaria e il
ginnasio, fu assiduo al locale teatro di prosa, partecipò agli spettacoli
allestiti dalla scuola interpretando – ricordano i biografi – la parte del
Governatore nell’Ispettore generale di Gogol. Nel 1876 la famiglia di
Cechov si trasferì a Mosca, dove Anton Pavlovic la raggiunse nel 1879, una
volta terminato il ginnasio. In quell anno si iscrisse alla facoltà di medicina,
donde uscì laureato nel 1884.
Assai pochi, e pochissimi quelli di un certo rilievo, gli eventi esteriori
della sua vita. Per qualche tempo, d’estate, frequentò con la famiglia la
campagna di Voskresensk (Istra), non lontano da Mosca, dove prestò
servizio all’ospedale. Nell’aprile del 1890 intraprese un lungo viaggio fino
all’isola di Sachalin, dove studiò le condizioni di vita dei deportati che vi si
trovavano, e di dove tornò a Mosca attraverso il Pacifico e l’Oceano
Indiano; le sue impressioni di viaggio saranno raccolte nel 1895 in un
volume – Lߣisola di Sachalin – che porterà all’attenzione della pubblica
opinione il problema delle condizioni di vita nelle colonie penali. Nel 1891,
nel 1894, nel 1897, e poi ancora nel 1900 e nel 1901 compì alcuni viaggi in
Austria, in Italia, in Francia. Nel 1892 acquistò la tenuta di Melichovo,
presso Mosca, dove rimarrà fino a che nel 1898 il pieno manifestarsi della
tubercolosi non lo obbligherà a trasferirsi a Yalta, in Crimea. In quello
stesso 1892 si adoperò attivamente contro la carestia e l’epidemia di colera
che avevano colpito le regioni di Niznyi Novgorod e di Voronez. Nel 1901
sposò l’attrice Olga Knipper, conosciuta tre anni prima durante le prove del
Gabbiano. Nel febbraio del 1904, aggravandosi le sue condizioni, si recò
nella stazione termale di Badenweiler, nella Selva Nera, dove morì il 2
luglio di quello stesso anno.
La sua attività di scrittore, oltre al reportage sull’isola Sachalin, si
svolse per intero nell’ambito del racconto e del teatro. Fin dal 1880, quando
ancora frequentava la facoltà di medicina, Anton Cechov aveva preso a
pubblicare brevi racconti umoristici su varie riviste della capitale, tra le
quali in particolare «Le schegge», diretta da N.A. Lejkin, cui contribuì
assiduamente dal 1882 al 1887. Nel 1881 si era cimentato per la prima volta
nella composizione drammatica, completando la stesura di un interminabile
dramma in quattro atti, che sperò invano di far rappresentare al Teatro
Malyi, e che venne pubblicato postumo e privo di titolo nel 1920. A partire
dal 1884 Cechov prese a raccogliere in volume i racconti che era andato
pubblicando con crescente successo: i primi due volumi – Le fiabe di
Melpomene (1884) e Racconti variopinti (1886) – recano ancora lo
pseudonimo di Antoscia Cechonté dietro il quale egli si era fino ad allora
trincerato; ma già il terzo volume – Nel crepusco lo (1887), che gli varrà il
Premio Puskin dell’Accademia Imperiale delle Scienze – reca il suo vero
nome, così come lo recheranno l’unico romanzo che egli scrisse (Una
caccia tragica, 1889), e da allora in poi tutta la copiosissima produzione di
racconti che lo rese celebre sia presso il vasto pubblico che nei circoli
letterari, e nel cui ambito vanno citati almeno – per gli echi autobiografici e
per la rilevanza dei contenuti, oltre che per le qualità poetiche – La steppa
(1887), La corsia n. 6 (1892), La mia vita (1892), Una storia noiosa (1893),
La casa col mezzanino (1895), La signora col cagnolino (1898), Il vescovo
(1902).
Al teatro, dopo la non compiuta esperienza del 1881, Cechov tornò nel
1885 con un atto unico – Sulla via maestra – tratto da un proprio racconto,
ma bocciato dalla censura zarista che ne definì le vicende «lugubri e
sordide», cui seguirono sette atti unici (l’ultimo è del 1892, e i più noti sono
Il canto del cigno e il monologo II tabacco fa male!) e sei composizioni
maggiori in quattro atti.
La carriera teatrale di Cechov fu più contrastata di quella di narratore, e
gli fu causa di molte delusioni che concorsero ad aggravare le sue
condizioni di salute. Ivanov, il suo primo lavoro in quattro atti che giunse
alle scene, cadde nel 1887 al Teatro Kors di Mosca, e si impose solo in una
nuova stesura, presentata al Teatro Aleksandrinskij di Pietroburgo l’anno
seguente. Irrimediabile invece risultò l’insuccesso di Liesci (1889), dopo il
quale Cechov esitò a lungo prima di riaccostarsi al teatro con opere di
maggior respiro che non l’atto unico. Ci riprovò comunque nel 1896,
presentando all’Aleksandrinskij di Pietroburgo II gabbiano, letteralmente
subissato dal pubblico che si aspettava un’opera comica e che non era
riuscito a liberarsi dall’equivoco: violenta e amarissima la delusione di
Cechov, che si ripropose di non scrivere più per il teatro. Ma nel 1898,
quando Stanislavskij e Nemirovic-Dancenko fondarono il Teatro d’Arte, Il
gabbiano fu ripreso e il suo clamoroso successo – 17 dicembre 1898 –
segnò la definitiva affermazione della drammaturgia cechoviana, determinò
le sorti del Teatro d’Arte, e costituisce dunque una delle date più importanti
e significative della storia del teatro moderno. Ancora al Teatro d’Arte di
Stanislavskij e Nemirovic-Dancenko sono legati i tre ultimi capolavori di
Cechov: Zio Vania, scritto nel 1897 e approdato al Teatro d’Arte nel 1899
dopo un battesimo in provincia, Le tre sorelle (1901) e Il giardino dei
ciliegi (1904) che al Teatro d’Arte ebbero invece la loro prima
rappresentazione assoluta.

L’ARTE DI CECHOV

Uno dei più radicati e diffusi luoghi comuni della letteratura critica su
Cechov è quello che divide la sua attività di scrittore, e di narratore in
particolare, in due periodi ben distinti e quasi antitetici tra loro: il primo,
che va dagli esordi al 1886, ci offre un Cechov allegro e umorista, il
secondo, che va dal 1887 alla fine, ci presenta invece un Cechov
malinconico e pessimista. Ogni luogo comune ha un suo fondamento di
verità, per quanto parziale e unilaterale essa sia, e una sua precisa
giustificazione storica. Il 1886 è effettivamente – come abbiamo visto –
l’anno in cui Cechov abbandona gli pseudonimi usati fino a quel momento
(Antoscia Cechonté, Il fratello di mio fratello, Un medico senza pratica) e
pubblica la prima raccolta di racconti con il proprio vero nome. Si può
supporre che l’abbandono degli pseudonimi rappresenti la definitiva scelta
di quel mestiere di scrittore iniziato durante gli studi di medicina, certo per
vocazione, ma anche per divertimento e soprattutto per dare una mano alla
famiglia; mestiere svolto all’ombra di un pur riconoscibile nom de plume,
come ad assumere non più che una responsabilità limitata per la generosa
faciloneria di tante pagine scritte per far ridere, aneddoti, parodie di autori
alla moda o di stili correnti… Può essere dunque vero che Anton Cechov
svolgesse, dopo il 1886, il proprio mestiere di scrittore con più rigore di
quanto non aveva fatto il giovane e spensierato Antoscia Cechonté, ma
rigore non significa né malinconia né pessimismo, né questo può
autorizzare l’assunzione del 1886 come rigoroso spartiacque tra un Cechov
allegro e un Cechov malinconico.
Da molti anni a questa parte, peraltro, questo luogo comune è ricordato
più che altro per dimostrarne l’inconsistenza, cosa del resto abbastanza
agevole ove si prendano in esame tutte le pagine malinconiche antecedenti
il 1886, e che si collocano cioè nel «periodo allegro», e tutte le pagine
allegre che si collocano invece nel «periodo malinconico»; ma a quel primo
luogo comune ne è subentrato un altro, che senza stabilire confini
cronologici parla però di due diversi umori, quasi due diversi modi d’essere,
che si alternano – prima o dopo l’86 che sia – a guidare la mano di Cechov
sulla carta. Secondo questa nuova opinione non esistono due periodi di
Cechov, ma due Cechov, in stretta coabitazione nella stessa persona, che si
alternano di pagina in pagina, ora il Cechov umoristico e allegro, ora il
pessimista-malinconico, al più con un certo prevalere statistico del secondo
sul primo man mano che il progredire della malattia lo avvicinava alla
morte. Anche questo luogo comune ha un suo fondamento di verità: esso si
fonda su un dato di fatto inoppugnabile – quello dell’effettiva esistenza di
opere comiche e di opere drammatiche – ma si limita a constatare questo
fatto senza fornirne la minima spiegazione, ed è quindi di scarsa utilità. La
stessa indicazione della morte imminente che piegherebbe in senso
drammatico la fantasia dello scrittore regge poco all’indagine, ove si pensi
che l’ultima opera teatrale di Cechov – proprio II giardino dei ciliegi – reca
insistita l’indicazione di «commedia», ed egli la sentiva tanto ricca di spunti
comici o umoristici da rifiutare ogni responsabilità nello spettacolo cupo e
malinconico che Stanislavskij ne trasse.
Una terza e più raffinata formulazione di questa conciliazione degli
opposti pone invece il confine tra comico e drammatico a metà strada – per
così dire – del procedimento creativo: Cechov cioè «vede» comicamente
ma «sente» tristemente, e l’immagine umoristica che gli suscita un dato
frammento della realtà dei suoi simili gli si trasforma, allatto pratico della
stesura letteraria, in una dolente e amara immagine della precarietà e della
meschinità dell’uomo, Questa tesi si trova avallata da quanto Cechov stesso
ebbe a scrivere alla scrittrice L.A. Avilova («Voi vi lamentate che i miei
personaggi siano tristi e cupi. Ahimè, non è colpa mia! Questo avviene
contro la mia volontà; quando scrivo, a me non pare di scrivere cose tristi, e
comunque, quando lavoro, sono sempre di ottimo umore. Ma provate a
osservare, e vedrete che gli uomini malinconici scrivono sempre cose
allegre, e quelli che sono allegri nella vita fanno venire invece la
malinconia!»), ed è illustrata da tutta una serie di indubitabili aneddoti,
quale il famoso episodio degli attori del Teatro d’Arte di Mosca che si
commuovono alla lettura delle Tre sorelle, malgrado Cechov fosse convinto
di avere scritto una commedia allegra; ma neppure questa risulta molto
convincente, se non altro perché ci ripropone l’immagine dei due Cechov
che a turno prevalgono, anche se in virtù di questa curiosa teoria della
«proporzionalità inversa» al Cechov triste spettano le pagine allegre e al
Cechov spensierato quelle malinconiche.
Al di là di questi luoghi comuni e delle loro parziali verità, avanzeremo
l’ipotesi che l’innegabile duplicità di Cechov rappresenti soltanto i due
momenti opposti di una ricerca che tende in realtà a superarli entrambi, i
due poli entro i quali questa ricerca si sviluppa. Non esistono cioè né i due
periodi di Cechov, né i due Cechov che lottano tra di loro, ma esiste bensì il
travaglio di un grande scrittore che – al di là dei racconti d’occasione e
della produzione di mestiere – persegue costantemente la più intima fusione
possibile di quei contrapposti elementi che convivono nell’esistenza umana:
il senso comico e il tragico. La letteratura dei generi ha sempre semplificato
questa realtà, deformandola sotto questo o quel profilo. Nascono così la
tragedia e la farsa, la commedia e il dramma, che rappresentano
convenzionali quadri di vita presi da questa o quella angolatura, un poco
come le fotografie scattate con lastre sensibili solo a una ristretta gamma di
lunghezze d’onda, che danno dell’oggetto un’immagine puntuale e
riconoscibile ma fortemente parziale e monocromatica. Anche il mestiere
letterario di Cechov inizia – né potrebbe essere altrimenti – con l’adesione a
questa convenzione: francamente comici e farseschi i più dei racconti di
Antoscia Cechonté, francamente drammatico e melodrammatico
l’interminabile dramma in quattro atti che egli scrisse a vent’anni e che
prese poi il titolo dal suo protagonista Platonov; l’adesione alla
convenzione si estende addirittura all’adozione dello stile drammatico per la
prima opera di sicuro impegno, in ossequio alla comune voce che vuole lo
stile «serio» più nobile e degno del «comico». Ma tutti i grandi poeti – da
Ruzzante, a Shakespeare, a Molière, per limitare ora il discorso al teatro –
hanno sempre sentito, non dirò l’impaccio delle convenzioni, poiché non vi
è segno d’impaccio nelle grandi opere, ma la necessità di superarle,
adattando la convenzionalità dei generi e delle forme alle loro superiori e
più profonde esigenze, onde attingere meglio quella verità deli uomo e della
storia che non può essere spiegata per intero come pura commedia o pura
tragedia, e dunque lasciando intendere sempre anche l’altra faccia della
medaglia. Mentre dunque la tragedia dell’Alfieri è pura convenzione
letteraria, e altrettanto lo è la commedia di Feydeau, fin dai banchi di scuola
si attira l’attenzione sul senso tragico di tanti personaggi comici di Molière
e sul carattere comico e grottesco di tante scene delle tragedie di
Shakespeare. Queste forme rigorose, d’antica origine classica ma riprese e
fatte proprie dalla cultura aristocratica dell’Europa umanistica e
rinascimentale, vennero attaccate con distruttiva violenza nel XVIII secolo
dalla nascente cultura borghese. In tutte le città in cui un ceto medio
mercantile aveva raggiunto un sufficiente grado di autonomia (e cioè nelle
città «mercantili» di Venezia, di Amburgo, di Londra) sorsero autori che
alle opposte cosmogonie della tragedia e della commedia opposero un
diverso genere drammaturgico in cui dialogo e situazioni si sforzavano di
riprodurre la verità dell’esistenza quotidiana, ordinata sì secondo criteri
d’arte, ma con quel carattere di medietà che è proprio dei casi della vita, e
dunque con elementi comici ed elementi tragici tanto più rari quanto più
estremi ed esasperati.
Tra i coscienti e coerenti fondatori di questa drammaturgia – Goldoni a
Venezia, Lessing ad Amburgo, Lillo a Londra – e l’attività teatrale di
Cechov, non passano più di centocinquant’anni. In quest’arco di tempo la
borghesia ha esteso la propria egemonia all’Europa, e quale base economica
del proprio potere ha sostituito al precario esercizio della mercatura la ben
più solida struttura dell’industria capitalistica, alimentata da un più
scientifico e fruttuoso sfruttamento coloniale; ma sotto il profilo che qui ci
interessa, quei centocinquant’anni sono caratterizzati dai continui attentati a
quel delicato equilibrio di comico e tragico nella verosimiglianza, dal suo
rovesciamento, dalla sua precaria e ricorrente restaurazione: una «vita
difficile» che si era del resto annunciata fin dall’inizio, quando
all’affermazione del teatro borghese i generi tradizionali avevano reagito
con un irrigidimento intransigente, opponendo alla nuova commedia del
Goldoni – per rimaner nell ambito del teatro italiano – la favola di Gozzi e
la tragedia integrale dell’Alfieri. Questa intransigenza proseguirà dovunque
per tutto l’Ottocento, attraverso l’opera di Shelley, di Manzoni, di
Tennyson; ma è ormai un puro esercizio letterario che ha rinunciato al
palcoscenico e che non minaccia quella ricerca d’equilibrio di cui stiamo
parlando. Gli attentati a questo equilibrio nascono invece dall’interno stesso
del teatro realistico e borghese, un po’ per l’ovvia circostanza che non tutti
possono essere grandi autori, ma anche e soprattutto per il prevalere di
interessi «impuri» su quello puro e semplice dello studio sui «libri del teatro
e del mondo», come Goldoni ebbe a scrivere: l’interesse ideologico e
sociologico che è all’origine del dramma a tesi, la ricerca dello
stupefacente, del caso limite, del patologico che sta alla base del dramma
naturalistico di Zola e dello stesso Ibsen, la caccia al più facile gradimento
del pubblico che determina la dozzinale produzione di tutti i boulevards
d’Europa.
Ma la più profonda ragione di questa perigliosa esistenza del teatro
borghese è nella storia stessa della borghesia, e cioè nella sua crescente
difficoltà a conciliare la pretesa della ricerca della verità con la realtà della
vita sociale quale si andava determinando man mano che la borghesia
estendeva e radicalizzava la propria egemonia. L’ottimismo dei Goldoni e
dei Lessing, portavoce di una nuova classe che prometteva di creare un
mondo di liberi e di eguali, fondato sulla libera iniziativa, sul libero
scambio, industre e industrializzato, che avrebbe prodotto un benessere
crescente e sempre più diffuso, diventa cent’anni dopo manifestamente
insostenibile. Illustrare le proprie tesi e al tempo stesso rispecchiare la
realtà, diventa per la borghesia un irresolubile problema di conciliazione
degli opposti. Qualcuno vi insiste, e da questa insistenza nasce la sterminata
produzione di commedie edulcorate, dal lieto fine ad ogni costo, in cui, con
i tratti esteriori della verosimiglianza, si parla del mondo come se tutte le
promesse del sistema fossero state realizzate e nessuna contraddizione fosse
sorta invece a turbarle; ma ad un livello meno banale e stolido, la strada che
si apre all’autore borghese che si accorge dell’inconciliabilità tra la propria
ideologia di classe e la realtà sociale, è quella del ritorno alla convenzione
letteraria e all’invenzione autonoma. Tennyson e Boucicault, Feydeau e
Leopoldo Marenco, Ibsen e Gilbert & Sullivan hanno in comune – pur
nell’ovvia diversità dei valori, della sincerità individuale, della sofferta
partecipazione al problema – la tendenza verso un modo d’essere che
sostituisca al criterio della tangibile verosimiglianza criteri e interessi meno
compromettenti per la cosmogonia borghese e meno pericolosi per la sua
credibilità. All’estremo di questa evoluzione – e al polo opposto di quella
commedia evasiva di cui abbiamo fatto cenno – l’estrema Tule sarà toccata
dal teatro di Pirandello, che risolverà quell’inconciliabilità svalutando la
realtà tangibile e affermando la superiore attendibilità della letteratura e
dell’invenzione estetica sul controllabile dato dell’esperienza.
Nell’ambito di questa problematica si colloca la ricerca di Cechov.
Abbiamo detto di come all’inizio egli aderisse alla logica dei generi e delle
forme classiche; anche se – per ipotesi – le tradizionali distinzioni non
fossero state criticamente superate dalla pièce borghese; è lecito pensare che
la genialità di Cechov lo avrebbe portato a superarne gli intrinseci limiti,
mostrando sempre nelle vicende comiche quel che vi è di tragico o d’amaro,
e viceversa, come abbiamo più sopra ricordato esser vero per Shakespeare o
Molière. Ma la ricerca di Cechov fu qualcosa di più radicale e di più
coerente di una semplice «correzione» di toni: fu veramente la ricerca di un
valore esatto, della pièce impregiudicata, dell’atto o dell’azione teatrale
senz’altra precisazione, che «ordinasse» vicende e personaggi della realtà
quotidiana senza alterare l’aurea proporzione con cui il comico e il
drammatico, il tragico e il farsesco, l’umoristico e il serioso concorrono all’
indefinibile sapore della vita.
Elemento indicativo – seppur esteriore – di questa ricerca è la questione
delle definizioni che Cechov appose alle proprie opere teatrali. Platonov
(1880-81) è priva di titolo e l’edizione nazionale la riporta con la
definizione neutra di pièce, mentre tra gli atti unici taluni sono stati
sottotitolati da Cechov «studi drammatici» (Sulla via maestra, 1885, e Il
canto del cigno, 1886), altri «scherzi» (L’orso, 1888; Una domanda di
matrimonio, 1889; Tragico contro voglia, 1890, e L’anniversario, 1892),
tutte indicazioni, a voler guardare, un poco prudenti e solo relativamente
impegnative: «studi drammatici» che, come nella letteratura musicale, non
pretendono quasi a un risultato estetico quanto all’approfondimento tecnico
di un problema, e «scherzi», che vanno dunque presi per quel che sono. Ma
l’indiscusso capolavoro di queste composizioni «minori» –Il tabacco fa
male (1886) –riceve la definizione neutra di «monologo», mentre Le nozze
(1890) e soprattutto L’anniversario (1892), in cui sembra essere più audace
la convivenza di elementi farseschi e senso tragico e ossessivo, viene
definito dall’autore con il termine altrettanto neutro di «scena». Per quel
che riguarda i componimenti in quattro atti, Ivanov (1888) è un «dramma»,
perfettamente aderente allo spirito del genere, e come tale viene definito;
ma già Liesci (1889), pur nel suo carattere di opera poco riuscita, o anzi:
proprio per questo, rivela con estrema chiarezza gli opposti elementi che
Cechov tenderà a fondere. La definizione di «commedia» è smentita dai
primi tre atti, che si comportano in tutto e per tutto come atti di un dramma,
ed è riconfermata però nel quarto atto da un improvviso lieto fine, che a sua
volta smentisce le premesse poste durante i tre atti precedenti. Liesci rivela
chiaramente come Cechov perseguisse il superamento di convenzionali
andamenti del comico e del tragico, anche se qui non gli riesce che di farli
coabitare, senza intaccare la loro autonomia e senza fonderli,
distruggendoli, in un qualcosa di nuovo. A tanto riuscirà invece sette anni
dopo nel Gabbiano (1896), per il quale il sottotitolo di «commedia» appare
senz’altro limitativo e insufficiente; ma mentre nel Liesci la definizione di
commedia era insufficiente perché del tutto pertinente al quarto atto e del
tutto errata per i primi tre, nel Gabbiano l’insufficienza è qualcosa di più
sottile, che non tocca questo o quell’atto ma tutto il clima dell’opera: un
clima misto di umorismo e di dramma – diciamo, senza paura, un clima di
verità – che non si lascia ricondurre a nessuna delle consuete convenzioni.
È pensabile che con la definizione di «commedia» Cechov volesse attirare
l’attenzione su quella componente comica che era più facile sfuggisse al
lettore, tanto più che sappiamo da Stanislavskij che la prima impressione
alla lettura di un’opera di Cechov era sempre più drammatica e malinconica
di quanto poi l’opera non si rivelasse. Ma il testo successivo – Zio Vania
(1897) – riceve la definizione neutra di «scene di vita di campagna»; quasi
Cechov sentisse ormai – dopo un drammacommedia e un dramma comico –
di poter affidare le proprie opere a una definizione incondizionata ed
oggettiva, che più avvertiva rispondente alla propria ricerca. Le tre sorelle
(1901) è definito «dramma»; e questa volta è evidente come Cechov tenti il
giochetto inverso di quello tentato con II gabbiano: là sapeva che la prima
impressione sarebbe stata quella di un dramma, e vi appone il sottotitolo di
«commedia» per controbilanciare quell’impressione; con Le tre sorelle egli
è invece convinto non tanto di avere scritto una commedia (poiché egli non
intende scrivere, è chiaro, né drammi né commedie) quanto un’opera
abbastanza ricca di spunti comici e umoristici da dover creare nel lettore la
«prima impressione» che di una commedia si tratti; e vi appone la
definizione di «dramma», anche qui per controbilanciare quell’impressione
e stimolare il lettore (e il regista) alla ricerca della componente drammatica,
dei risvolti tragici, di una realtà insomma più articolata e profonda di quella
solitamente proposta dai singoli generi. La delusione per Cechov fu
abbastanza cocente, e il suo errore di calcolo risultò subito evidente, fin da
quando la compagnia del Teatro d’Arte – come già abbiamo avuto modo di
ricordare – lesse Le tre sorelle per la prima volta. «Ci scambiammo le
impressioni a proposito dell’opera appena letta – scrive Stanislavskij nella
Mia vita nell’arte – e alcuni la definivano un dramma, altri una tragedia,
senza notare che queste denominazioni stupivano Cechov… Risultò che
l’autore era certo di avere scritto una commedia allegra, mentre durante la
lettura tutti avevano preso il lavoro per un dramma e avevano pianto
ascoltandolo.» E il risultato fu che alla sua opera successiva, l’ultima, Il
giardino dei ciliegi (1903), Anton Cechov appose la definizione di
«commedia»…
Questo gioco dei sottotitoli e delle definizioni, che avrebbe potuto
fornire lo spunto per una delle satire letterarie di Antoscia Cechonté, è in
realtà l’esteriore manifestazione di una ricerca travagliata e difficile, che
oscilla tra dramma e commedia alla ricerca di un qualcosa di esattamente
mediano e superiore, un poco come eli antichi geometri tentavano di
stabilire l’esatto valore di pi greco iscrivendo in una circonferenza poligoni
sempre più grandi e circoscrivendovi poligoni sempre più piccoli. Ma come
questo esatto valore rimaneva sempre un po’ più grande di quello ottenibile
dal maggior poligono inscritto, e sempre un po’ più piccolo di quello
ottenibile dal minor poligono circoscritto, così tra la più drammatica delle
commedie possibili e il più comico dei possibili drammi vi è un qualcosa
che non possiamo definire né commedia né dramma, perché è un qualcosa
di radicalmente diverso, per il quale soccorrono i termini antichi e oggettivi
di pièce, o azione teatrale, o scena, o atto. Bisogna però guardarsi dal
credere che questa oscillazione dei sottotitoli e delle definizioni tra i poli
opposti di «commedia» e «dramma», con tutte le finte e i trucchi e le
seconde intenzioni con cui Cechov li ha usati, riguardi qualcosa di più che i
sottotitoli stessi e le preoccupazioni strategiche di Cechov per gli
avvertimenti da dare al lettore e al regista; ad eccezione del Liesci, che è
chiaramente un dramma che conclude in commedia, tutte le altre opere
maggiori del teatro di Cechov non sono né commedie spinte al limite del
drammatico né drammi spinti al limite del comico, ma sono esattamente
quel qualcosa di mediano e di superiore cui abbiamo accennato: più
fortunato degli antichi geometri, Cechov non ha difficoltà nell’afferrare il
trascendente.
Sotto questo profilo, bisogna però anche correggere il diffuso luogo
comune che Cechov ricercasse una nuova forma e abbia inventato una
forma nuova; nel senso più sopra chiarito, la ricerca di Cechov si muove
nell’ambito dei generi, ma dal punto di vista formale e strutturale non vi è
nessuna differenza tra Le tre sorelle o II giardino dei ciliegi e Le baruffe
chiozzotte di Goldoni, La dama dalle camelie di Dumas, La cagnotte di
Labiche, o La morte civile di Giacometti, per citare una serie di esempi
abbastanza vari e disparati. Identiche sono le premesse del realismo
borghese, identico il tipo di linguaggio perseguito, identico l’ossequio al
criterio guida della verosimiglianza, reale o apparente che sia, fondata o
meno. Solo che in Cechov questa ricerca è perseguita con un rigore
assoluto: essa non cede né a preoccupazioni ideologiche, come in Dumas o
in Giacometti, né al gusto della caricatura critica (e/o commerciale) come in
Labiche, e neppure alla convenzionale concessione del «finale», come
fatalmente avviene nelle Baruffe chiozzotte che pure è un altissimo esempio
di autonomia innovatrice rispetto ai generi tradizionali. La ricerca di
Cechov sotto questo profilo ha un carattere di drastica intransigenza, i suoi
risultati un valore assoluto: nella storia del teatro moderno, opere come Zio
Vania e Il gabbiano, Le tre sorelle e II giardino dei ciliegi rappresentano la
più compiuta, rigorosa e matura espressione nata dalle premesse poste da
Goldoni e da Lessing.

IL MESTIERE DI CECHOV

Come nascevano le opere di Cechov? Konstantin Stanislavskij, in una


pagina dell’autobiografia, afferma di aver potuto osservare, per una serie di
fortunate circostanze, il processo di creazione del Giardino dei ciliegi e la
genesi dei vari personaggi: «Un giorno, parlando di pesca con Cechov, il
nostro attore A.R. Artem spiegava come si infila un verme sull’amo, come
si lancia la lenza di profondità e quella con il galleggiante. Interpretava la
scenetta con grande talento, e Cechov era dispiaciuto che il grande pubblico
non potesse vederla a teatro. Qualche tempo dopo, Cechov, vedendo un
altro dei nostri attori fare il bagno in un fiume, disse: Sentite, bisogna che
nel mio nuovo dramma Artem peschi, e N. faccia il bagno lì vicino,
sguazzando e gridando, in modo che Artem si arrabbi perché quello gli
spaventa i pesci… Trascorsi alcuni giorni, Anton Pavlovic ci raccontò di
aver amputato un braccio al bagnante, ma che questi, nonostante tutto,
aveva la mania del biliardo e continuava a giocare con un braccio solo. Il
pescatore, dal suo canto, si era trasformato in un vecchio servitore, che
aveva messo da parte qualche soldo. Dopo un altro po’ di tempo, nella
fantasia di Cechov prese a delinearsi la finestra di una vecchia casa di
campagna, attraverso la quale si vedevano rami d’alberi che poi si
coprirono di fiori bianchi, e in quella casa venne ad abitare una signora…
Una vecchia strana – rifletteva Cechov – che corre continuamente dal
vecchio cameriere a farsi prestare dei soldi… A fianco di questa signora
spuntò a un tratto un suo fratello, o uno zio: un uomo senza un braccio, gran
giocatore di biliardo, un bambinone che non poteva vivere senza il
cameriere. Un giorno, il cameriere era uscito di casa senza preparargli i
calzoni, e lui se ne era stato tutto il giorno a letto.
Noi ora sappiamo che cosa di tutto questo è rimasto nel dramma e che
cosa invece si è disperso senza lasciare traccia.
Analoghe indicazioni Stanislavskij fornisce per gli altri personaggi:
Charlotte trae origine da «una governante inglese, piccola e magrolina» che
Cechov aveva conosciuto nel 1902 quando abitava alla Liubimovka, il
modello di Trofimov è un altro vicino di quel periodo, mentre Epichodov
nasce da un impiegato che abitava nella stessa dacia, e che quando Cechov
persuase a studiare si comprò una cravatta rossa e una grammatica
francese…
Quando Stanislavskij raccontò tutto questo a Cechov, questi si adirò
moltissimo e respinse come inconsistente e assurdo ogni tentativo di
collegare quei piccoli e concreti aneddoti con i personaggi del Giardino dei
ciliegi; ma per quanto possano sembrare banali le genealogie di
Stanislavskij, egli non aveva tutti i torti, e per quanto Cechov difendesse
l’autonomia dei propri personaggi, è del tutto credibile che la loro prima
intuizione, il loro primo configurarsi nella fantasia dell’autore con un certo
gesto o un certo atteggiamento o un qualsiasi tic nervoso fosse legato a una
piccola esperienza pratica, a uno studente incontrato per strada o a un attore
sentito parlare di pesca: ogni opera d’arte è in senso lato autobiografica
(mentre ciò che è «letteratura» sì, può essere inventato di sana pianta), e
tutto ciò che il poeta scrive è frutto di esperienza, anche se evidentemente il
processo creativo è lungo, complesso e misterioso, e il meccanismo
dell’elaborazione degli spunti, del loro combinarsi, del loro levitare
nell’intuizione è tale che non sempre è possibile né remunerante tracciarne
il percorso. Ma certo non è possibile, leggendo della vita di Cechov e della
sua famiglia e scorrendo II giardino dei ciliegi, non chiedersi che cosa, del
ricordo del nonno e del padre, può aver presieduto alla creazione di
personaggi come Firs e come Lopachin.
Ma al di là di queste evidenti assonanze che nascono da esperienze
profonde e indimenticabili, Cechov era un grande e fantasioso osservatore
di piccole cose. Nelle settimane che precedettero la sua morte, a
Badenweiler, seduto su un terrazzino, «egli guardava» è ancora
Stanislavskij che scrive «il lavoro che si svolgeva nell’ufficio postale
dall’altra parte della strada. La gente vi affluiva da tutte le parti, vi portava i
propri pensieri fermati sulla carta, e di là quei pensieri venivano portati in
tutto il mondo. E Cechov esclamava: È meraviglioso!»
Questa capacità di trovare meraviglioso il quotidiano è la prova di
un’abitudine acquisita ad immaginare per ogni proprio simile incontrato
quella realtà che è sempre «meravigliosa» ricchezza e possibilità di vita. Per
ogni utente che varcava la soglia dell’ufficio postale di Badenweiler – una
vecchietta, una redingote, la cuffietta di una cameriera – Cechov doveva
immaginare una situazione, un caso umano, una storia di irripetibile
interesse, il possibile spunto di una novella o di un’opera teatrale. Queste,
ahimè, sono illazioni di scarsa autorevolezza critica, ma ogni autore
richiede un proprio particolare metodo d’indagine, e questo è quello che
l’opera di Cechov sembra utilmente suggerire, se si vuole penetrarne le più
profonde – e al tempo stesso più semplici – ragioni. Queste illazioni ci
portano al cuore della genesi delle opere di Cechov. I personaggi e le
situazioni nascevano da un’osservazione liberamente interpretata e
arricchita: e anche se alla fine del processo di elaborazione il personaggio è
una tal somma di osservazioni che l’osservazione originaria è irrilevante o
addirittura contraddetta, le illazioni di Stanislavskij che abbiamo ricordato
più sopra conservano tutta la loro validità e rilevanza metodologica. I
personaggi, nella fantasia di Cechov, si uniscono l’uno all’altro, sposandosi
in una storia alla quale tutti concorrono, ma nella quale tutti conservano la
loro autonomia, il loro carattere di autosufficienza, di veri e propri
«protagonisti», reali o possibili. Sotto questo profilo, le differenze con le
convenzioni della commedia e del dramma tradizionali sono evidenti: nelle
commedie e nei drammi della tradizione i vari personaggi entrano nel
quadro generale con un ben determinato ruolo, con una funzione che – per
quanto esauriente ai fini dell’economia generale – da un punto di vista
individuale è fortemente limitatrice. Un notaio di Molière avrà al più una
propria peculiarità fisica, un comico tic nervoso, ma sarà un notaio puro e
semplice, che si esaurisce nel proprio contributo alla storia dei protagonisti,
e di cui nulla d’altro sappiamo perché nulla vi è da sapere. Nelle opere
teatrali di Cechov, invece, coerentemente con le premesse del realismo
borghese, nessun personaggio si esaurisce nel proprio apporto alla
meccanica della vicenda; entro certi limiti, ciascuno di essi potrebbe essere
assunto come protagonista del quadro generale, e il quadro generale
angolato di conseguenza. La materia del Giardino dei ciliegi avrebbe potuto
facilmente essere ordinata in modo da avere il suo punto focale su questo o
quel personaggio, ed è del resto abbastanza agevole narrare il dramma come
storia di Ania, o di Lopachin, o di Firs, se non addirittura di Varia o di
lascia. Ma il fatto che questa materia sia stata ordinata da Cechov attorno al
personaggio di Liuba (ammesso che ciò sia vero, e in che misura) non
comporta poi una grande differenza, né soprattutto tocca la ricchezza e
l’autonoma pienezza degli altri personaggi.
Questi personaggi noi li incontriamo in quattro diversi momenti
nell’arco di alcuni mesi, e li vediamo compiere cose assai semplici, poco
più complicate o interessanti di quelle che Cechov vedeva compiere ai
clienti dell’ufficio postale di Badenweiler; ma come per quelli, anche per i
personaggi del Giardino la loro storia è «tutta dietro», tutta «al di là», ed è
una storia tanto ricca di eventi, di trasformazioni, di evoluzioni, da risultare
del tutto insospettabile per chi si limitasse a guardare quello che essi
«fanno» in scena. Così, da un lato, la storia del Giardino dei ciliegi può
sembrare di una povertà sconcertante (Atto primo: c’è il pericolo di dover
vendere il giardino; Atto secondo: bisogna vendere il giardino; Atto terzo:
si vende il giardino; Atto quarto: il giardino è stato venduto), ma dall’altro
lato i quattro momenti echeggiano, sono riempiti dalle singole, ricchissime
storie. Così, di Liuba vediamo una pausa di vacanza, ma sappiamo e
sentiamo la sua vita tormentata e romanzesca; di Lopachin vediamo un
momento d’ozio, ma sappiamo e sentiamo tutta la straordinaria,
emblematica carriera; di Firs vediamo lo stanco tramonto, ma sappiamo e
sentiamo la tragica storia attraverso le inquietudini della società russa; di
Ania e di Trofimov vediamo solo i primi passi, ma certo non li
immaginiamo senza un luminoso, pericoloso futuro…
La naturalezza del caso sembra determinare le frasi e gli eventi di quei
quattro «momenti» che Cechov par quasi pretendere aver soltanto
«fotografato». Non per nulla, e non senza civetteria, quando attori e registi
gli chiedevano indicazioni o chiarimenti su questo o quel personaggio,
Cechov si schermiva dicendo «Io sono un medico»; e per chi insisteva
aggiungeva «Ho già scritto tutto…». Come a dire che la propria funzione
era quella di analizzare, di raccogliere dati, di descrivere, e che una volta
fatto questo altro non vi era da fare che guardare la pagina scritta come un
esatto frammento di realtà: e immaginarne semmai la stessa ricca coerenza
di vita che Cechov immaginava dietro i gesti e le parvenze dei cittadini di
Badenweiler.
Ma tutto questo rientra, evidentemente, nella convenzione del
naturalismo. Quei quattro «momenti» fotografati rappresentano in realtà il
punto d’arrivo di quel misterioso processo di creazione che abbiamo visto
iniziare nel racconto di Stanislavskij: una lenta gestazione, la paziente
coagulazione di ogni gesto e di ogni parola attorno al tema, il cauto
adattarsi di ogni personaggio agli altri, l’eliminazione graduale di ogni
elemento superfluo e di ogni interesse «impuro», hanno prodotto alla fine
quattro «momenti» di altissimo peso specifico, in cui tutto ha una ragione,
un’economicità ottimale, un’intima rispondenza e una precisa correlazione
con tutto il resto, come in un compiuto sistema di monadi. Il teatro di
Cechov ha rari esempi nella storia della poesia, per quel che riguarda il
prodigioso rapporto tra la semplicità della veste esteriore, della parvenza,
dei mezzi impiegati, e la complessa pregnanza dei significati, dei contenuti,
della materia, nel rispetto più rigoroso della verosimiglianza.
Un esempio, tra i tanti possibili, di questa ricchissima semplicità e di
questa essenziale pregnanza: il personaggio di Firs. Come già abbiamo
detto in generale, anche Firs ha una sua storia, che va ben al di là della sua
funzione nella meccanica del dramma: una storia più che sufficiente a farne
l’emblematico protagonista di un romanzo che copra – sia pure visto da un
particolare punto d’osservazione – quasi un secolo di storia della Russia.
Potrebbe, ancora, essere il protagonista del Giardino dei ciliegi: storia di
una proprietà che passa di mano, da una classe oziosa e ormai esautorata, a
una nuova classe fattiva e un po’ brutale, vista attraverso gli occhi di un
vecchio servo che quarantanni prima ha abdicato alla libertà, e che alla fine
viene dimenticato, e muore prigioniero di quella casa da cui non ha voluto
uscire. Ma la storia di Firs è tutta racchiusa in quell’una o due battute del
second atto in cui egli rivela qualcosa di sé; ed è fin troppo evidente che
anche se si sopprimessero quegli accenni la meccanica del dramma non ne
riceverebbe il minimo danno. Ai fini della meccanica del dramma basta la
presenza di quello che Firs è nel 1903: un vecchio brontolone, un po’
ottuso, che insegue Gaiev con la costanza di un efficace tormentone,
completamente alienato alla sua funzione, che alla fine lamenterà di non
aver vissuto. In realtà, la «storia di Firs», il suo passato di servo alienato, si
ripercuotono per tutta la vicenda, condizionando i suoi rapporti con gli altri
personaggi, al punto che se egli stesso non ci fornisse quelle precise
indicazioni biografiche noi dovremmo poter «dedurre» dal presente
comportamento di Firs esattamente «quel» passato e non altro. Quel
passato, in un certo senso, si impone come l’unica soluzione ammessa per
la x di una data equazione; è l’unico che spieghi con esauriente e chiara
semplicità tutto quello che Firs fa o dice: la sua devozione per Gaiev e la
sua diversa devozione per Liuba, così come la sua disapprovazione per la
voracità di Piscik; l’antipatia che lo divide da Lopachin («servo» che ha
tradito l’ordine naturale facendosi padrone), così come il rimpianto per le
ciliege di un tempo e per i soldi che procuravano: l’impotente tirannia
esercitata sugli inferiori (quale peggior padrone del servo diventato «primo
mastro di casa anziano»?) così come il fatto che Ania e Trofimov sono gli
unici due personaggi con cui Firs – nell’economia del Giardino – non ha né
può avere rapporti di sorta.
L’affermazione che la «storia» di Firs possa essere dedotta
matematicamente dal confronto di tutti i dati forniti dalle interazioni che lo
riguardano, va presa naturalmente con qualche grano di sale, ma non
sottovalutata. Essa corrisponde perfettamente al metodo e allo spirito con
cui Cechov – che per scrivere le sessanta pagine del Giardino impiegò dieci
mesi di intensa concentrazione – soleva levigare e ordinare la materia dei
propri testi teatrali. Questa interdipendenza reciproca di tutti i particolari,
anche i più sottili e minuti, è tale che l’errata traduzione scenica di uno di
essi può ripercuotersi in misura determinante sul personaggio cui si
riferisce, alterandone l’essenza e alterando di conseguenza tutti i suoi
rapporti con gli altri. Cechov era ben cosciente di questo, al punto di
rifiutare ogni chiarimento e ogni aggiunta ai propri testi: nei quali – come
già abbiamo ricordato – affermava di aver «già scritto tutto».
Solo in rare occasioni fece eccezione. Una volta, nel 1899, dopo avere
assistito a una rappresentazione del Gabbiano che gli attori del Teatro
d’Arte avevano organizzato espressamente per lui, Cechov si avvicinò a
Stanislavskij, interprete dello scrittore Trigorin, e gli disse: «Siete stato
meraviglioso! Però… ci vogliono le scarpe bucate e i pantaloni a quadri».
«Non riuscii a farmi dire altro» racconta Stanislavskij. «Ma che cos’era? Un
modo come un altro per non esprimere un giudizio, una boutade per
togliermi di torno, una presa in giro?… Ma come! Trigorin, uno scrittore
sulla cresta dell’onda, il beniamino delle donne, con dei pantalonacci a
quadri e scarpe bucate? Io invece, proprio al contrario, avevo pensato per
quel personaggio un vestito elegantissimo: calzoni bianchi, scarpette a
punta, gilet e cappello bianchi, e un trucco altrettanto elegante e raffinato.
Passò un anno e forse più. Continuai a recitare la parte di Trigorin e
improvvisamente, un giorno, durante una rappresentazione, fui folgorato da
un’idea:
”Ma vero! Trigorin ha le scarpe bucate, i pantaloni a quadri e non è
affatto un uomo affascinante! Proprio in questo è il dramma: per le fanciulle
ciò che colpisce è il fatto che quell’uomo sia uno scrittore, autore di storie
commoventi; ed è per questo che tutte le Nine gli si getteranno tra le
braccia, luna dopo l’altra, senza accorgersi che lo scrittore’ è un uomo
insignificante, non è bello, ha i pantaloni a quadri é le scarpe bucate. Solo in
un secondo tempo, finito il romanzo d’amore di questi gabbiani, esse
cominceranno a capire che è stata la loro fantasia a creare qualcosa che in
realtà non è mai esistito”.»

L’IDEOLOGIA DI CECHOV

Abbiamo detto più sopra che un fondamentale elemento di differenza tra


Cechov e gli autori della decadenza borghese è il fatto che nel teatro di
Cechov l’interesse per la «verità» non è mai offuscato, neppure per un
istante, da nessun altro interesse: né di natura politica o etica, né tanto meno
di natura letteraria o commerciale. Questa constatazione potrebbe far
pensare ad Anton Cechov come a uno scrittore privo di una concreta
ideologia: sdegnosamente superiore a ogni mischia, chiuso con le proprie
Muse in una torre d’avorio, che volta le spalle alle inquietudini e ai
problemi dei suoi simili per miniare le proprie pagine e preparare con cura
la propria fama presso i posteri.
In realtà, nulla di più sbagliato di questo, e nulla di più facile che
dimostrare il contrario, sia per l’uomo che per il poeta. L’uomo Cechov
visse nel suo tempo con gli occhi non meno aperti di chiunque altro, e
aveva abbastanza umanità, intelligenza e cultura per valutare la situazione,
avvertirne le incongruenze, partecipare insomma alle vicende di quella
Russia in cui era nato l’anno prima dell’emancipazione dei servi della
gleba, e in cui morirà alla vigilia della prima inequivoca esplosione
rivoluzionaria. Alla causa del progresso aveva contribuito con il viaggio
all’isola di Sachalin, e con il libro che ne aveva tratto, prima che il
manifestarsi della malattia non lo obbligasse a rinunciare a ogni sorta di
impegno diretto.
Anton Cechov, il poeta, rivela il suo impegno nella fedeltà alla verità
della storia. La sua ideologia non si sostanzia né nell’esaltare la borghese
concretezza di Lopachin, che abbatte i ciliegi per far posto alle case, né nél
condannarne la brutale insensibilità alla bellezza che il giardino
rappresenta; non lo induce né a satireggiare l’aristocratica inettitudine di
Liuba e di Gaiev, né a sposarne le lamentazioni per la fine di quel simbolo
di bellezza; non lo porta a fare di Trofimov l’eroe di un nuovo verbo e a
porgli sulle labbra battute troppo precise o lungimiranti, né – al contrario –
a svalutarne le ragioni in una verbosità caricaturale e fine a se stessa. Nel
testo, ogni personaggio ha la sua equa parte di positività e di negatività: la
concretezza di Lopachin è intimamente connessa alla sua brutalità, la
raffinatezza di Gaiev e di Liuba è l’altra faccia della loro parassitarla
inettitudine, Trofimov è un rivoluzionario che potrebbe anche esaurirsi nelle
cose che dice… Cechov non prende parte: nascosto dietro i personaggi e le
loro vicende – giusta l’essenza del naturalismo – si limita a «fotografarne» i
gesti e a «registrarne» le parole, e tanto fedele e completo è il quadro di
questa realtà «quale essa è», che non vi è modo di sapere che cosa – di
questa realtà – l’uomo Cechov approva o disapprova, che cosa spera da
essa, per quale via d’uscita egli lotta o è disposto a lottare.
Ma supponiamo – al di là di quello che sappiamo sull’uomo Cechov –
che il dottor Anton Pavlovic Cechov fosse in realtà un intransigente zarista,
un fautore del ritorno alla servitù della gleba, oppure – al contrario – un
impaziente giacobino, un rivoluzionario impegnato a preparare la vittoria
del comunismo. Cambierebbe forse una virgola del Giardino dei ciliegi? In
quale pagina, in quale battuta, Cechov rinuncerebbe al «puro» interesse per
la verità, per inserire una propria opinione, una propria speranza, una
propria voce di protesta? Nell’impossibilità di questa ipotesi consiste la
straordinaria onestà della poesia: per nulla al mondo – per nessuna ragione
ideologica, etica, politica o strategica – il poeta tradisce i propri personaggi
creati al punto da far loro dire una parola o compiere un gesto che non
discenda con assoluta coerenza da tutto il loro essere, dalle loro esperienze,
dalle loro possibilità di conoscenza.
E da questa sublime giustizia emerge naturalmente un’ideologia, che è
la scientifica e oggettiva constatazione del senso di marcia della storia. I
quattro «momenti» del Giardino dei ciliegi fotografano quattro momenti di
una realtà in movimento, o meglio – al di fuori della convenzione del
naturalismo – ne colgono l’intima essenza ordinandoli in forma d’arte e
secondo criteri di rigorosa verosimiglianza. Questa realtà ha una sua logica,
e quel movimento una sua direzione: il constatarle con assoluta onestà, il
riprodurle con altrettanta fedeltà, vuol dire immedesimare all’opera d’arte
l’ideologia di una Storia che non è un casuale procedere tra una rivoluzione
e una guerra, una carestia e una scoperta, ma un univoco e inequivocabile
avanzare – sia pure tra mille contraddizioni e difficoltà – tra un punto di
partenza e un punto d’arrivo. E tutto questo è perfettamente vero anche per
II giardino dei ciliegi, anche se del lungo cammino della storia non viene
qui considerato che il piccolo tragitto di un’estate in cui l’aristocratica
signora Ranievskaia cede la casa avita all’intraprendente mercante
Lopachin, mentre un vecchio inascoltato parla di un passato ormai sepolto,
e un giovane studente parla di un futuro di cui però non può sapere più che
tanto.

LA FORTUNA DI CECHOV

Le origini della fortuna di Cechov nel teatro sono indissolubilmente legate


ai nomi di Konstantin Stanislavskij e di Vladimir Nemirovic-Dancenko, al
Teatro d’Arte che essi fondarono nel 1898, e alle teorie del naturalismo di
cui il Teatro d’Arte divenne – certo anche per la sua identificazione con la
drammaturgia cechoviana – il più rigoroso e al tempo stesso il più
illuminato divulgatore.
Abbiamo più sopra ricordato come gli esordi teatrali di Cechov siano
stati tutt’altro che pacifici e piani: la causa di queste difficoltà è stata
indicata da Stanislavskij essenzialmente nell’incompatibilità tra la scrittura
di Cechov e quelli che egli definisce «i vecchi metodi di recitazione», o – in
altre parole – tra la rigorosa e spoglia «verosimiglianza» cechoviana e una
convenzione teatrale ancora legata alle distinzioni dei generi e dei loro
caratteristici usi e costumi. È evidente che, alla luce di queste convenzioni,
il teatro di Cechov non regge il paragone con le «pièces bien faites» di
Sudermann o di Sardou: abituato a mettere sotto i denti le roboanti scene
madri del repertorio di successo o le stesse verbose e turgide torture
psicologistiche di Ibsen, qualsiasi attore della vecchia scuola avrebbe potuto
far osservare a Cechov che lo scontro tra Liuba e Trofimov nel terz’atto del
Giardino dei ciliegi è una scena madre mancata, con un risvolto finale a
doccia fredda, che non conclude, e che distrugge anzi l’atmosfera creatasi
fino a quel momento; così come un occasione non sfruttata è la scena tra
Lopachin e Varia al quart’atto, e come manca uno scontro chiarificatore tra
Lopachin e Gaiev, e come bea altre possibilità di assolo si offrono a Liuba
nel second’atto, quand’essa rievoca il proprio passato… «Le opere di
Cechov» scrive Stanislavskij «sono ricchissime di azione, ma non di tipo
esteriore, bensì interiore. Anche quando sembra che i personaggi non stiano
facendo nulla, essi sono impegnati in realtà in una complessa azione
interiore. Cechov ha dimostrato – come nessun altro ha fatto – che l’azione
scenica deve essere intesa in questo significato, e che solo su questo,
purificato di tutto il manierismo convenzionale, si possono costruire vere
opere drammatiche… Ecco perché si sbagliano coloro che rappresentano
nelle opere di Cechov la trama in sé e per sé, mantenendosi alla superficie,
limitandosi alle linee esteriori della vicenda, senza dedicare attenzione alle
immagini interne, alla vita interiore dei personaggi».
La ricerca di Stanislavskij sul «come rappresentare Cechov» contribuì
in misura determinante alla formulazione di quel «metodo» che consisteva
nel sollecitare l’attore verso la più intima, profonda e vissuta comprensione
del personaggio, verso la totale immedesimazione e partecipazione alla sua
vicenda. «Sbagliano» scrisse ancora Stanislavskij «coloro che nelle opere di
Cechov tentano di recitare, di rappresentare: bisogna essere, cioè vivere,
esistere, procedendo lungo l’arteria principale dell’anima, profondamente
nascosta sotto la superficie». Su queste premesse, il lavoro scenico di
Stanislavskij attore e regista di attori consisteva in una meticolosa e
paziente indagine sulle motivazioni psicologiche di ogni battuta, di ogni
gesto, in modo da creare tutte le più favorevoli premesse alla conclusiva
identificazione con il personaggio, «sulla linea dell’intuizione e del
sentimento». È noto come Stanislavskij, durante le prove, solesse
interrompere gli attori non sufficientemente immedesimati, gridando loro
«Non ci credo!», come a dire che in un dato gesto o in un dato tono l’attore
aveva preso il sopravvento sul personaggio, e la recitazione sulla verità.
Naturalmente, così come la verosimiglianza della pagina di Cechov non è
fotografia o documento, la «verità» che Stanislavskij chiedeva agli attori era
pur sempre una questione di convenzione e di tecnica: non diversamente
dall’attore epico, anche l’attore del naturalismo «recita» e «rappresenta», e
mai si immedesimerà tanto con il proprio personaggio da dimenticare di
trovarsi su un palcoscenico, di fronte a un pubblico: la sola differenza è che
l’attore naturalistico ha come traguardo la verosimiglianza della realtà
tangibile, e del proprio bagaglio tecnico di toni e di gesti userà quelli che
più potranno dare al pubblico l’illusione di quella realtà. Sia il
procedimento che i risultati collimano alla perfezione con l’opera
drammaturgica di Cechov, di cui abbiamo più sopra descritto in termini
analoghi il processo creativo e l’essenza; e questo spiega a sufficienza la
fecondità di un incontro tra un autore e un teatro, che ha rarissimi eguali
nella storia dell’arte drammatica. Tuttavia, Cechov non ebbe che un
moderato entusiasmo per il lavoro che Stanislavskij e il Teatro d’Arte
svolgevano, con tanta passione e devozione, sulle sue opere. Certo egli
sapeva di dover loro il determinante successo del Gabbiano, sapeva che
nessun altro avrebbe potuto in quel momento leggere con maggior
correttezza critica e maggior adesione affettiva opere tanto lontane dalla
consueta produzione drammaturgica, ed espressamente per quella
compagnia e quel regista scrisse Le tre sorelle e II giardino dei ciliegi,
confortato nella sua difficile ricerca dalle garanzie che l’una e l’altro gli
offrivano. Ma altrettanto certamente egli disapprovava il fatto che la regia
di Stanislavskij sentisse nelle sue opere soprattutto la loro componente
malinconica e drammatica, a scapito di quel miracoloso equilibrio di
allegria e di tristezza, di riso e di pianto nel cui clima esse si muovevano.
Questo (relativo) fraintendimento era il prodotto di varie ragioni: ragioni di
sensibilità e di gusto, ragioni tecniche (poiché l’approfondimento
psicologico comporta quasi necessariamente un rallentamento del ritmo, un
abbondare nelle pause e uno scivolare frequente in toni intimistici e
malinconici), e infine ragioni ideologiche: come poteva essere, ad esempio,
che Stanislavskij, membro di quella stessa élite di cui facevano parte Gaiev
e Liuba, non sentisse come un’invasione barbarica l’avvento dei Lopachin,
con le loro asce calate sui ciliegi e i loro programmi di lottizzazione per il
turismo di massa? Ed ecco che Il giardino dei ciliegi fin dal suo primo
apparire recò l’ombra di una lettura fatalmente limitàtrice e parziale, che lo
sottraeva sia al suo delicato e perfetto equilibrio di generi, sia all’imparziale
storicismo della sua ideologia, per farne la storia malinconica della fatale
decadenza di un mondo.
Sul piano ideologico questo «errore» ebbe conseguenze solo
nell’ambito dell’Unione Sovietica, dove esso fu alla base dell’equivoco che
per qualche tempo dopo la Rivoluzione d’Ottobre bandì Cechov dai
palcoscenici dell’URSS, quale autore zarista non adatto alla
rappresentazione per una società proletaria; finché una nuova lettura, poco
meno equivoca ma di segno opposto, non lo rivalutò come esponente del
realismo critico e dunque come precursore del realismo socialista. Fuori
dell’Unione Sovietica, l’interpretazione della drammaturgia di Cechov – e
del Giardino dei ciliegi in particolare – come funebre lamentazione di una
belle époque perduta fu abbastanza frequente laddove il pubblico poteva
identificarsi con Liuba e con Gaiev e aver ragione di temere, se non ancora
le parole di Trofimov, i soldi di Lopachin: ma di questo, naturalmente, non
si può far colpa a Konstantin Stanislavskij.
Sul piano estetico e critico, invece, l’impronta che l’opera di Cechov
ricevette al suo primo apparire, ebbe conseguenze assai più durature e
profonde. La fama del Teatro d’Arte, l’assunzione dei suoi spettacoli a veri
e propri «modelli» per il teatro naturalistico e realistico di tutta Europa,
collocate per di più nell’ambito di una dilagante mania per tutto ciò che
veniva dalla Russia, principi o balletti che fossero, favorirono il formarsi di
un luogo comune che legò indissolubilmente il teatro di Cechov, le sue
vicende, i suoi personaggi, a un clima di maniera, che prese ben presto il
nome di «atmosfera cechoviana»: un clima fatto di pause, di intimismi, di
silenzi, di sospiri, di ricordi appassiti e di nostalgie strazianti, cui non
mancarono – per giunta – epigoni e imitazioni. A questo luogo comune
contribuì in misura determinante una vera e propria diaspora di
richiestissimi registi russi – da Peter Sharoff e Tatiana Pavlova allo stesso
Nemirovic-Dancenko – che si sparsero in Italia, in Francia, in Svizzera, in
Germania, ad esibire dovunque l’autentico Cechov della tradizione
Stanislavskiana.
Non è il caso qui di seguire passo passo la storia delle fortune teatrali di
Cechov, che del resto furono dovunque – secondo giustizia – rapide e
indiscusse. Innumerevoli gli allestimenti di assoluta eccellenza in tutti i
Paesi del mondo, sia nell’ex Unione Sovietica – dove la persistente
tradizione del Teatro d’Arte non sembra, in questo campo, essere stata posta
in discussione – sia fuori di quella, dove II gabbiano, Zio Vania, Le tre
sorelle e II giardino dei ciliegi fanno parte del più consolidato repertorio, e
dove è ancora recente la riscoperta – in varie e necessarie rielaborazioni –
del giovanile e per molti aspetti affascinante Platonov. Sia pure con diverse
modalità e gradazioni, lo stile delle rappresentazioni cechoviane non si è
mai discostato gran che dalle indicazioni del metodo di Stanislavkij: con
maggiore o minore indugio sui particolari esotici, esso è rimasto quasi
sempre fedele ai criteri della riproduzione naturalistica, e quando anche ne è
uscito – come negli allestimenti francesi di Pitoeff – non per questo ha
abbandonato la ricerca di quel clima di maniera che più sopra abbiamo
descritto.
Solo a partire dagli anni Sessanta l’arco delle possibilità interpretative
del teatro di Cechov si è improvvisamente aperto in una dialettica varietà di
soluzioni. In una discussa ma notevolissima e interessante edizione delle
Tre sorelle, il regista cecoslovacco Krejca ha proposto l’immagine di un
Cechov inaspettato, assai più corposo e sanguigno del consueto, in cui il
realismo si spoglia di molte componenti sentimentali e liriche per farsi
concreto e a volte brutale. Al polo opposto – o comunque in tutt’altra
direzione – Il giardino dei ciliegi di Giorgio Strehler libera lo spettacolo da
ogni minuziosa precisazione ambientale, e in una scenografia essenziale e
suggestiva in cui il «bianco» è la nota dominante ricostruisce attraverso una
rigorosa lettura oggettiva la «verosimile» serenità del difficile equilibrio
cechoviano.
LUIGI LUNARI
TESTIMONIANZE

Le opere di Cechov non rivelano immediatamente tutta la loro importanza


poetica. Leggendole, ti viene da dire: «Bene, ma… niente di speciale, niente
di sbalorditivo. Tutto come deve essere. Noto… verosimile… non
nuovo…».
Spesso il primo approccio con le sue opere è persino deludente. Sembra,
a lettura finita, che non si possano raccontare. La trama, il soggetto? Si
possono esporre in due parole. Le parti? Molto buone, ma non di quelle
vantaggiose, dietro le quali corrono gli attori di ruoli primari (esiste anche
un tal genere di attori). Per lo più sono piccole parti, «senza filo», (ossia su
un unico foglio che non richiede il filo per la cucitura). Ti vengono in mente
singole parole di un’opera, di una scena…
Ma strano: quanto più ti abbandoni alla memoria, tanto più ti vien
voglia di pensare alla parte. Alcuni passi ti costringono, grazie al loro
legame interno, a ricordarti di altri ancora migliori, e infine di tutta l’opera.
La leggi e la rileggi e dentro vi senti strati profondi.
Nei lavori di Cechov mi toccò recitare la stessa parte parecchie
centinaia di volte, ma non ricordo uno spettacolo durante il quale non abbia
scoperto nella mia anima nuove sensazioni e nell’opera stessa nuove
profondità o finezze, che prima non avevo mai notato. Cechov è
inesauribile, poiché nonostante le banalità che continuamente egli sembra
rappresentare, parla sempre attraverso il suo fondamentale Leitmotiv
spirituale, non del casuale, non del particolare, ma dell’Umano scritto con
la lettera maiuscola. Ecco perché anche il suo concetto della vita futura
sulla terra non è meschino, filisteo, angusto, ma al contrario ampio, grande,
ideale, un sogno che probabilmente rimarrà tale, al quale si deve aspirare,
ma la cui realizzazione è irraggiungibile…
Tutto ciò appartiene al campo dell’eterno, cui non ci si può riferire
senza commozione.
La potenza teatrale di Cechov si manifestò in modo panico larmente
convincente in uno spettacolo da noi dato quasi alla vigilia del colpo di
Stato d’ottobre. Quella sera si stavano facendo preparativi misteriosi; alcuni
battaglioni si dirigevano verso Cremlino, una folla silenziosa si dirigeva
non si sa dove. Certe strade erano completamente vuote; le luci erano
spente, la polizia invisibile. Ma al Teatro Solodovnikov numerosi spettatori
erano venuti a vedere Il giardino dei ciliegi che rappresentava proprio la
vita di coloro contro i quali si preparava la rivolta.
La platea, rumoreggiante e nervosa, era piena quasi esclusivamente di
pubblico popolare. Al di qua e al di là della ribalta cera dell’inquietudine.
Già truccati noi ascoltavamo attraverso il sipario l’agitazione di una platea
dall’atmosfera carica.
«Non ci lasceranno finire» dicevamo «e ci cacceranno dal
palcoscenico.» Quando il sipario si aprì i nostri cuori cominciarono a
battere più forte per la paura. Non accadde nulla. Raramente l’attenzione
degli spettatori ci apparve così intensa. Si sarebbe detto che essi volessero
sostare ancora un attimo in quell’ambiente poetico; congedarsi per sempre
da un passato che, malgrado la sua bellezza, esigeva un sacrificio
espiatorio. La rappresentazione terminò con un’appassionata ovazione. E fu
veramente una fine.
Gli spettatori uscirono in silenzio. Forse tra loro cera qualcuno che si
preparava a combattere per la vita nuova. Presto cominciò la fucileria. Non
senza fatica, riparandoci dai colpi, ritornammo alle nostre case. (Konstantin
Stanislavskij, La mia vita nell’arte, Torino, 1963.)

Di pochi scrittori si può dire che abbiano conservato l’immagine più intima
della loro epoca, come di Cechov, il quale pure non ne trasportò nelle sue
opere gli avvenimenti esteriori come fu invece il caso di Gor’kij e in
generale degli scrittori realisti russi non solo della seconda metà del secolo
XIX ma anche dei primi anni del nuovo secolo. È interessante rilevare anzi
che non meno che al patriarca del realismo russo Tolstoj che tuttavia amò la
sua narrativa, non il suo teatro, Cechov fu caro anche proprio
all’«annunziatore della tempesta», al quale forse egli dovette anche un suo
orientamento politico-sociale, sebbene amasse – come tanti dei suoi eroi
«sospirano» o «predicano» – pensare ad un mondo migliore «fra duecento-
trecento anni». «Un allegro malinconico» lo chiamò Vladimir Korolenko,
quando cercò di conciliare i due aspetti più caratteristici dell’autore dei
Racconti variopinti e de La corsìa numero 6, conciliazione che a noi pare
possibile nella formula che Cechov vedeva «comicamente» ma sentiva
«tragicamente», nel senso che già attraverso i suoi «racconti comici» era
evidente la tragicità della vita e quelli tragici non erano mai privi di qualche
singolare battuta comica. Ciò si mantenne si può dire in tutta l’opera
cechoviana, non escluso ii teatro. (Ettore Lo Gatto, Teatro russo, Milano,
1960.)

Cechov descrive una realtà dove, della vita, non rimane che il peso immane
della mediocrità, la lentezza impassibile del tempo e la bellezza del dolore
umano. Un mondo, con ciò, miracolosamente sereno e semplice:
miracolosamente sensato e compassionevole, laddove non sembra rimanere
senso alcuno, tranne l’estremo e incomprensibile «ordine delle cose», né
esservi posto per altro sentimento che d’indifferente desolazione. Ma, se per
mondo ha da intendersi congruenza delle cose in un possibile significato,
Cechov, piuttosto che un mondo, ha descritto l’assenza di un mondo. In
questo deserto, la vita umana, «che non fa che continuare».
Orrore e pietà: l’essenziale della tragedia, cui non si giunge se non si è
veramente vista, o intravista, la forma silenziosa del destino. Con in più (o
in meno, se si vuole) il sor riso di Cechov, così perfettamente glaciale e così
completa mente umano. Al teatro, infatti, giunse infine Cechov. Non tanto
per necessità, quanto per completa maturità, da grande scrittore: quando fu
certo di poter affrontare faccia a faccia un pubblico e dire: «le cose stanno
così, questi siete voi» (Nicola Chiaromonte, La situazione drammatica,
Milano, 1960.)

Fin dalle sue prime novelle Anton Cechov ha saputo scoprire nel glauco
oceano della mediocrità un «comico» lugubrmente tragico. Basta leggere
attentamente i suoi racconti umoristici per convincersi che l’autore aveva
dolorosamente individuato ciò che esisteva d atroce e di odioso dietro il
comico delle parole e delle situazioni, sentendo nello stesso momento il
pudore di tacerlo.
Aveva un ritegno quasi da signorina e non si permetteva mai di gridare
apertamente al suo prossimo: «Ma cercate di comportarvi come si deve!»
nella vana speranza che venisse sentita l’urgenza di un nuovo
comportamento. Nemico di ogni mediocrità e di ogni volgarità, dipingeva le
turpitudini della vita con il nobile linguaggio del poeta e con l’ironia
leggera dell’umorista, così che, dietro la bellezza della forma, non si
distingueva quasi l’amaro rimprovero contenuto nell’idea. In ogni novella
umoristica di Anton Pavlovic io av verto il profondo sospiro soffocato di un
cuore puro e autenticamente umano, un sospiro di pietà senza speranza per
gii esseri che non sanno rispettare la loro dignità umana e, docilmente
sottomessi alla forza bruta, vivono come schiavi senza credere a niente che
non sia la necessità d’inghiottire ogni giorno un pasticcio il più grosso
possibile, senza nulla sentire salvo la paura che qualche svergognato
potente li batta. E non basta. Nessuno ha capito così chiaramente e così
finemente come Cechov la tragicità dei piccoli aspetti dell’esistenza;
nessuno prima di lui ha saputo con tanta spietata verità mostrare agli uomini
il quadro avvilente e vergognoso della loro vita nel fosco caos della
quotidianità borghese. Nemico della mediocrità, egli ha lottato per tutta la
vita contro di essa. L’ha schernita, l’ha disegnata con una matita tagliente ed
impassibile, scoprendone la muffa proprio là dove a prima vista ogni cosa
sembra appropriata, confortante e perfino brillante… E la mediocrità si è
vendicata con uno scherzo crudele, collocando la salma del poeta in un
vagone adibito al trasporto delle ostriche.
La macchia verde sporco di tale veicolo mi parve allora l’enorme
sorriso della mediocrità che trionfa finalmente del suo nemico stanco,
mentre dietro gli innumerevoli «ricordi» della stampa in orgasmo, si
indovinava il respiro gelido e mefitico proprio di questa stessa mediocrità,
interiormente lieta della morte del suo nemico.
Davanti a una folla sinistra e grigia d’impotenti è passato un uomo, un
grande uomo che capiva e al quale nulla era indifferente. Ha guardato i
malinconici abitanti della sua terra e, con un triste sorriso sulle labbra,
dolcemente, ma con un accento di profondo rimprovero, un dolore senza
speranza nel cuore e sul suo volto sincero, ha detto con la sua bella voce:
«Voi vivete male, signori!». (Maksim Gorkij, Ricordi.)
Il giardino dei ciliegi è stato spesso accusato di non avere alcun intreccio,
ed è vero che la vicenda indica ben poco del contenuto o del significato del
dramma; non accade nulla, come spesso hanno notato i recensori di
Broadway. E neppure ha una tesi, sebbene siano stati fatti molti tentativi per
attribuirgliene una, per collocarlo nel quadro o per intenderlo come una
difesa nostalgica del vecchio regime. Il dramma non possiede molto
intreccio in nessuno di questi significati della parola, perché non è
indirizzato al pensiero raziocinante ma alla sensibilità poetica e istrionica. È
imitazione di un’azione nel senso più stretto, ed il suo intreccio si sviluppa
secondo il primo significato di questa parola così come l’ho precisato
altrove. Gli avvenimenti sono selezionati e disposti in modo tale da definire
un’azione in un certo modo; un’azione completa, con un principio, un
centro e una fine nel tempo. La sua libertà dall’ordine meccanico delle tesi
o dell’intrigo è il segno della perfezione dell’arte realistica di Cechov. E i
suoi avvenimenti apparentemente casuali sono in realtà composti con la più
raffinata e consapevole abilità per rilevare la vita che anima il dramma, e la
sua forma naturale e obiettiva. (Francis Fergusson, Idea di un teatro, Parma,
Kd. Guanda.)
LETTERA APERTA A CECHOV
(dal programma di sala del Piccolo Teatro di Milano)

Milano 1974

Stimatissimo Anton Pavlovic,

la vostra lettera, che a causa di un persistente disservizio postale mi è giunta


soltanto stamattina, è stata per me una vera e propria sorpresa. Non tanto
per quel «carissimo collega» con cui voi, maestro sommo e poeta, vi
indirizzate a me, che sia pure iscritto al vostro stesso sindacato rimango un
umile sceneggiatore da secondo canale, bensì perché mi chiedete – senza
nascondere una certa preoccupata diffidenza – «…chi è quel Giorgio
Strehler che sta allestendo a Milano II giardino dei ciliegi (…) e che cosa
hanno a che fare Liuba Andreievna e Gaiev con Re Lear, Mackie Messer e
Arlecchino».
Se voi ignoraste davvero chi è Giorgio Strehler, se non sapeste proprio
niente di lui, se non lo aveste mai sentito nominare, io non avrei nulla di che
stupire. Si compiono ormai settant’anni dacché voi ve ne siete andato, e lì
dove ora vi trovate sarebbe ben comprensibile una vostra assoluta
indifferenza per tutto quello che succede dalle nostre parti, e perfettamente
legittimo che voi ignoriate non dirò Giorgio Strehler, ma addirittura… che
so io?, Albert Einstein o Richard Nixon, e tutti coloro insomma che si
dannano per creare una scintilla di poesia, per afferrare un atomo di verità o
una momentanea parvenza di potere. Il fatto è, stimatissimo Anton
Pavlovic, che la vostra lettera non rivela una divina e superiore ignoranza,
ma una semplice e terrestre «scarsa informazione»; e mentre la prima,
ripeto, sarebbe pienamente comprensibile data la vostra attuale posizione,
per questo stesso motivo la seconda non lo è! Evidentemente qualcuno si è
divertito a mettervi ingiuste pulci nelle orecchie! «Qualcuno» (io non
voglio dire se in buona o cattiva fede) vi deve aver raccontato, mostrandovi
magari articoli di giornale e interviste dall’apparenza autorevole e
responsabile, una serie di cose che vi hanno allarmato e che io potrei
ripetervi parola per parola, a riprova di quanto bene conosco certi polli.
In primis, quel qualcuno deve avervi detto che G.S. è un brechtiano di
stretta osservanza, e che dunque si trova al polo opposto di quello stile in
cui voi avete pensato e scritto Il giardino dei ciliegi per la regia di
Konstantin Serghieievic; di poi, che è un rigoroso materialista storico, e che
dunque dovete prepararvi a vedere il Giardino ridotto a un rigido dramma a
tesi, alla dialettica esposizione di un momento di lotta di classe, con i
personaggi violentati ad emblemi dei rispettivi ceti sociali, e con certe
battute un po’ più localizzabili e databili delle altre, estraniate a ferrei
slogan, e impresse sulla fronte di Firs o di Lopachin come marchi roventi
sulle natiche dei tori. E infine, vi avrà fatto balenare davanti agli occhi i
prevedibili titoli dei giornali il giorno seguente la prima rappresentazione:
«Cechov secondo Brecht nel Giardino di Strehler», «La poesia di Anton
Cechov nell’ingranaggio della lotta di classe», «Fiori di ciliegio tra
assolutismo zarista e rivoluzione sovietica», «Ania, prendi il fucile!»…
Ebbene, carissimo Anton Pavlovic, per farvi capire come tutto questo
sia assolutamente inesatto, io vorrei pregarvi di ripassare un momento il
caso vostro. Quante volte non vi siete irritato – prima e dopo la vostra
ultima malattia – sentendo parlare di atmosfera cechoviana, di pessimismo
cechoviano, di vicenda cechoviana per tutto quello che avevate scritto? Vi
ricordate il vostro stupore – e anche la vostra delusione – quando alla lettura
delle Tre sorelle o del Giardino gli attori piangevano, malgrado le vostre
esplicite assicurazioni di avere scritto un’opera anche comica? E tutto il
frusciare, lo stormire, il gorgogliare, il cinguettare, il trillare, il frinire, il
tubare di cui il caro Stanislavskij aveva seminato il second’atto,
scomodando a colonna sonora l’intera fauna e la flora dell’impero? E quel
quartetto che durava quasi un’ora (contro i dodici minuti o poco più da voi
prescritti!), tra indugi, lentezze, «partiam, partiamo», sospensioni e pause,
più o meno intense e pregnanti?… Pochi mesi dopo voi ve ne siete
andato… e nessuno ha posto più un argine al corso che avevano preso le
cose. E da allora, basta che un qualsiasi personaggio letterario manifesti un
po’ di debolezza di carattere, foss’anche solo lentezza di riflessi o languor
di stomaco, e nella terminologia degli addetti ai lavori egli sarà «un
personaggio cechoviano»; una trama priva di clamorose scene madri o di
effettazzi alla Carolina Invernizio sarà «una vicenda di esilità cechoviana»;
un atto che si svolga al tramonto, tra gente che ha voglia di starsene
tranquilla a chiacchierare, senza farne quante Carlo in Francia, recherà
«un’inconfondibile impronta cechoviana», e perfino di voi, Anton Pavlovic,
si dice sempre che siete cechoviano, il più cechoviano di tutti, il primo!
Pensate a che punto!
Qualcosa di perfettamente analogo è successo a Giorgio Strehler. È
bastato che egli trovasse in Brecht un autore che gli andava più a genio di
tanti altri (ovvero, per adeguarmi anch’io a un più autorevole linguaggio,
«particolarmente affine ai propri interessi estetici e ideologici») e si è visto
labellato come brechtiano a vita. E bastata in lui una certa sensibilità per la
storia, per quelle due o tre leggi che più evidentemente paiono in questi
secoli guidarne lo sviluppo, ed egli si è ritrovato prigioniero di un’etichetta
non meno ristretta e fastidiosa di quella di cui voi portate il peso. E il
risultato è che qualsiasi opera egli metta in scena, se un personaggio
dimostra di vivere nella storia, di fare parte di un dato secolo o di una data
classe (pescatore chioggiotto, o nobile elisabettiano, o servo russo che sia),
e parla e agisce e pensa di conseguenza, un coro di cuculiati subtili et
metafisici ne denuncia «l’inguaribile brechtismo» e «l’acquiescenza ai
dogmi storiografici ed estetici del materialismo»!
Già immagino la vostra obiezione, Anton Pavlovic: che poco vi importa
sfuggire al cechovismo per ritrovarvi brechtizzato nello strehlerismo, e che
tanto vale star nella padella se l’unica via d’uscita son le braci. Ma le cose
sono più semplici e più complesse al tempo stesso: un paio di mesi fa, per
esempio, giustificando a pochi intimi la scelta del Giardino, oltre alle solite
considerazioni sull’imperitura attualità della Poesia, eccetera eccetera, G.S.
diceva di aver sentito quasi il bisogno, dopo le tragiche grida del Re Lear e
le caustiche sferzate dell’Opera, di un momento di tranquillità, quasi di un
tempo in minore. Una storia raccolta di piccoli casi della vita, di gente che
parla quietamente e con pudore, senza alzare la voce, senza squassarsi il
petto, senza lanciarsi in faccia il vetriolo… diciamo pure un’atmosfera
cechoviana, tanto per dimostrarvi quanto poco il Nostro avesse intenzione
di trasformarvi in un Brecht ante litteram. Ma poi… che volete,
stimatissimo Anton Pavlovic: con la stessa oggettività direi quasi con la
stessa neutralità con cui egli aveva accettato l’idea del cechovismo, non ha
potuto fare a meno di notare come i vostri personaggi – a leggerli così come
voi li avete scritti – rappresentano pure qualcosa che va «al di là» delle loro
singole e specifiche persone. Non parliamo di classi, se la cosa vi mette a
disagio, ma che Firs e Gaiev e Lopachin e Trofimov siano – pur con i loro
nomi, cognomi e tic nervosi – simili a tanti altri, più o meno con gli stessi
denari in tasca e la stessa collocazione sociale, e che questi «tanti altri»
vivano tutti in Russia a cavallo del secolo, e non nella Repubblica
d’Arcadia o nel Regno della Luna, questo mi pare innegabile. E altrettanto
innegabile mi pare che la proprietà del giardino passi da un certo tipo di
proprietario a un certo altro, mentre un certo tipo di studente dice alcune
cose che si spiegano solo nell’ambito di una certa situazione e in vista di un
certo sbocco finale: voi capite quel che voglio dire.
Per farvela breve, stimatissimo Anton Pavlovic, Giorgio Strehler sta
allestendo II giardino dei ciliegi come se in esso vi fossero – così egli dice
– «tre scatole». La prima, la più piccola, contiene la concreta e quotidiana
storia di certe piccole persone che vanno e vengono da Parigi, che vendono
o comprano un giardino, e fanno tante altre piccole cose più o meno
interessanti o banali. La seconda, che è un po’ più grande e contiene la
prima, è quella che nelle piccole persone di cui sopra legge una più vasta
storia della Russia del tempo, di ceti che scompaiono come Firs, decadono
come Gaiev, o si fanno avanti come Lopachin. La terza infine, la più grande
di tutte, che contiene le altre due come in un gioco di scatole cinesi,
racconta l’eterna storia della Vita Umana, di quell’universo che è per
sempre l’Uomo, con il suo passare sulla terra tra nascita e morte, l’amare, il
soffrire, il rassegnarsi.
I cechoviani integrali, primo fra tutti il loro fondatore Konstantin
Serghieievic, non vanno al di là della prima; il brechtismo degli stenterelli
(quello, ad esempio, di certi registi cecoslovacchi che mandano lascia a
palpar le cosce di Liuba) non vede che la seconda; Benedetto Croce e
Orazio Costa non si degnerebbero che della terza. Giorgio Strehler sta
attualmente lavorando per aprirle tutte e tre, e io vi assicuro che da parte sua
non c’è in questo la minima presunzione, ma solo la convinzione che
proprio così voi abbiate scritto II giardino dei ciliegi e che così vada fatto.
Tante altre cose potrei dirvi ancora, Anton Pavlovic, e parlarvi delle
scene e degli attori, e del trenino che si vede, e dei ciliegi che non ci sono…
ma preferisco limitarmi all’essenziale, sperando che sia bastato a togliervi il
malumore e i dubbi, e per non diminuirvi il piacere di assistere allo
spettacolo, cui naturalmente siete fin d’ora invitato.
Sempre a vostra disposizione per ogni ulteriore chiarimento, vi saluta
con profonda devozione e stima il vostro
LUIGI LUNARI
IL GIARDINO DEI CILIEGI
commedia in quattro atti
(1903)
PERSONAGGI

LIUBOV ANDRIEIEVNA RANIEVSKAIA, possidente


ANIA, sua figlia, 17 anni
VARIA, sua figlia adottiva, 22 anni
GAIEV LEONID ANDRIEIEVIC, fratello di Liubov
LOPACHIN IERMOLAI ALEXIEIEVIC, mercante
TROFIMOV PIOTR SERGHIEIEVIC, studente
SIMEONOV-PISC’CIK BORIS BORISOVIC, possidente
CHARLOTTA IVANOVNA, governante
IEPICHODOV SIEMION PANTIELIEIEVIC, contabile
DUNIASCIA, cameriera
FIRS, servitore, 87 anni
IASCIA, giovane servitore
Un viandante
Il capostazione
L’impiegato postale
Invitati, servitori

L’azione si svolge nella proprietà di Liubov A. Ranievskaia


ATTO PRIMO

La stanza che è chiamata ancora la stanza dei bambini. Una delle porte
conduce alla stanza di ANIA. È l’alba, tra poco spunta il sole. È già maggio, i
ciliegi sono in fiore, ma il giardino è freddo, coperto di brina. Le finestre
della stanza sono chiuse.

Entrano DUNIASCIA con una candela e LOPACHIN con un libro in mano.

LOPACHIN Il treno è arrivato, grazie a dio. Che ora è?


DUNIASCIA Quasi le due. (Spegne la candela) Fa già chiaro.
LOPACHIN Quanto ritardo avrà avuto? Un paio d’ore minimo. (Sbadiglia e
si stiracchia) E io, bella figura da scemo! Son venuto qui apposta per
andare a prenderli alla stazione, e mi sono addormentato… In poltrona.
Che rabbia… Potevi almeno svegliarmi.
DUNIASCIA Io credevo che se ne fosse andato. (Tende l’orecchio) Ecco, mi
pare che sian qui.
LOPACHIN (tende l’orecchio) Noo… Ritirare i bagagli, e tutto quanto…

Pausa
La signora Liuba son cinque anni che è all’estero, chissà adesso com’è.
Era una buona diavola. Gentile, alla mano. Mi ricordo che una volta, ero
un ragazzino di un quindici anni, mio padre buonanima – allora aveva
bottega qui in paese – mi ha dato un pugno in faccia, m’è venuto il
sangue dal naso… Eravamo qui in cortile insieme, venuti non so per che
cosa, e lui aveva bevuto. La signora Liuba, me lo ricordo neanche fosse
adesso, ancora ragazzina, tutta magrina, mi ha portato qui a un
lavandino, proprio qui in questa stanza, la stanza dei bambini. «Non
piangere» mi fa «contadinello, che per quando ti sposi ti passa…»
Pausa
Contadinello… Mio padre, lui sì, era un contadino, ma io eccomi qua col
gilet bianco e le scarpe gialle. Con questo muso da maiale, in mezzo ai
signori… Perché ormai sono ricco, sono pieno di soldi anche se, gira e
rigira, contadino sono e contadino resto… (Sfoglia il libro) Leggevo ’sto
libro e non ci capivo niente. E mi sono addormentato.
Pausa
DUNIASCIA I cani invece son stati svegli tutta notte, lo sentono, che
arrivano i padroni.
LOPACHIN Che cos’hai, Duniascia…
DUNIASCIA Mi treman le mani. Io dico che svengo.
LOPACHIN Quante smorfie che fai, Duniascia. E ti vesti, anche, come una
signorina, e ti pettini. Non va bene. Bisogna stare al suo posto.

Entra IEPICHODOV con un mazzo di fiori, è in giacca e porta stivali molto


lucidi che scricchiolano molto; entrando, gli cade di mano il mazzo di fiori.

IEPICHODOV (raccoglie i fiori) Questi li manda il giardiniere, dice di


metterli in sala. (Dà il mazzo a Duniascia)
LOPACHIN E portami una grappa.
DUNIASCIA Subito. (Esce)
IEPICHODOV Con tutto che c’è la brina, e siamo a tre gradi sotto zero, ecco
che i ciliegi son tutti in fiore. Non posso dir niente di bene del nostro
clima. (Sospira) Non posso. Proprio non è quel che si dice un clima
ragionevole. Ecco, signor Lopachin, un’altra cosa che volevo dirle, mi
son comprato tre giorni fa questi stivali, e eccoli qua, con rispetto
parlando, che scricchiolano in modo tale che uno non sa più che
provvedimenti adottare. Ungerli con che cosa?
LOPACHIN Smettila. Non seccarmi.
IEPICHODOV Non c’è giorno che non mi capiti una qualche disgrazia. E io
non mi lamento neanche più, ci ho fatto il callo e mi vien perfino da
ridere.

DUNIASCIA entra, porge la grappa a LOPACHIN.


Me ne vado. (Inciampa in una sedia, rovesciandola) Ecco… (Quasi con
aria di trionfo) Lo vede anche lei, con rispetto parlando, anche in questa
circostanza, come in mille altre… È una cosa che ha dell’incredibile!
(Esce)
DUNIASCIA Io però devo dirglielo, signor Lopachin, Iepichodov m’ha
chiesto di sposarlo.
LOPACHIN Ah!
DUNIASCIA Non so cosa fare… È un brav’uomo tranquillo, solo che però
ogni tanto, quando si mette a parlare, non capisco quel che dice. Parla
bene, con sentimento, ma non si capisce. Lui è innamorato pazzo di me.
È un uomo sfortunato, ogni giorno gliene capita una. Noi per scherzo lo
chiamiamo cento disgrazie…
LOPACHIN (tendendo l’orecchio) Ecco, mi sembra, arrivano…
DUNIASCIA Arrivano! Dio cosa mi succede… son tutta di ghiaccio.
LOPACHIN Arrivano, sono proprio loro. Andiamogli incontro. Chissà se mi
riconosce? Son cinque anni che non mi vede.
DUNIASCIA (in agitazione) Io mi sento andare…. Oddio, vado!

Si sente il rumore di due carrozze che si avvicinano. LOPACHIN e DUNIASCIA


escono in fretta. La scena è vuota. Nelle stanze contigue cominciano a
sentirsi dei rumori, FIRS entra e attraversa la scena, appoggiandosi a un
piccolo bastone, affrettandosi per andare incontro a LIUBOV ANDRIEIEVNA;
egli indossa una vecchia livrea e un berretto alto; dice qualcosa tra sé, di cui
risulta impossibile afferrare una parola. Il rumore fuori scena si fa sempre
più forte. Una voce: «Ecco, passiamo di qui…». Entrano LIUBOV
ANDRIEIEVNA, ANIA e CHARLOTTA IVANOVNA con un cagnolino al guinzaglio,
in abiti da viaggio, VARIA con cappotto e fazzoletto da testa, GAIEV,
SIMEONOV-PISC’CIK, LOPACHIN, DUNIASCIA con un pacco e un ombrellino,
servitori con bagagli… tutti attraversano la stanza.

ANIA Passiamo di qui. Tu, mamma, ti ricordi che stanza è questa?


LIUBA (con gioia, commossa) La stanza dei bambini!
VARIA Che freddo, mi si son gelate le mani. (A Liubov Andrieievna) Le sue
stanze, mamma, quella bianca e quella lillà, sono rimaste come le ha
lasciate.
LIUBA Quella dei bambini, carina mia, è la stanza più bella… Io dormivo
qui, quand’ero piccola… (Piange) E adesso sono come una bambina…
(Bacia il fratello, poi Varia, poi di nuovo il fratello) E Varia è sempre la
stessa, sembra una monachina. E anche Duniascia, ti ho riconosciuta
subito…. (Bacia Duniascia)
GAIEV Il treno aveva due ore di ritardo. Capito? Capito che servizio?
CHARLOTTA (a Pisc’cik) Il mio cane mangia anche le noci.
PISC’CIK (stupito) Ma tu pensa!

Escono tutti, ad eccezione di ANIA e DUNIASCIA.

DUNIASCIA Quanto vi abbiamo aspettato… (Toglie ad Ania il cappotto e il


cappello)
ANIA In viaggio non ho dormito per quattro notti… e adesso ho tanto
freddo.
DUNIASCIA Sei partita che era quaresima, c’era la neve, era tutto gelato, e
adesso? Tesoro mio! (Ride, la bacia) Ti ho aspettato tanto, gioia mia,
cara… Ti racconto subito una cosa, non posso aspettare neanche un
minuto…
ANIA (stancamente) Un’altra novità…
DUNIASCIA Iepichodov, il contabile, dopo Pasqua m’ha chiesto di sposarlo.
ANIA Tu non pensi ad altro… (Aggiustandosi i capelli) Ho perso tutte le
forcine… (È molto stanca, barcolla quasi)
DUNIASCIA E io non so proprio cosa fare. Lui mi ama, sapessi come mi
ama!
ANIA (guardando la porta della sua camera, con tenerezza) La mia
camera, le mie finestre, come se neanche fossi mai partita. Sono a casa
mia! Domani mattina mi alzo, esco in giardino… Oh, se almeno riuscissi
a dormire! Non ho dormito per tutto il viaggio, da tanto che ero agitata.
DUNIASCIA L’altro giorno è arrivato Trofimov…
ANIA (con gioia) Pietia!
DUNIASCIA Dorme nella capanna del bagno, ci si è messo lui. Dice che ha
paura di disturbare. (Guarda l’orologio che ha tirato fuori dalla tasca)
Bisognerebbe anche svegliarlo, ma Varia non vuole. Tu non svegliarlo,
m’ha detto.
Entra VARIA, con un mazzo di chiavi alla cintura.

VARIA Duniascia, il caffè, in fretta… La mamma vuole un caffè.


DUNIASCIA Un attimo solo. (Esce)
VARIA Oh, siete tornate, grazie a dio. Sei di nuovo a casa. (La accarezza)
L’anima mia è tornata! La mia bellissima è tornata!
ANIA Ne ho passate tante.
VARIA Me lo immagino!
ANIA Sono partita la settimana santa, che era ancora inverno. Charlotta per
tutto il viaggio ha parlato e fatto giochi di prestigio. Perché poi mi hai
mandato dietro Charlotta…
VARIA Non potevi certo andar sola, tesoro. A diciassett’anni!
ANIA Arriviamo a Parigi, anche lì freddo, neve. Il francese io lo parlo
malissimo. La mamma abita a un quinto piano, vado da lei, e da lei ci
sono dei francesi, delle signore, un vecchio prete con un libretto in
mano, e un gran fumo di sigarette, squallido. Ho sentito subito una gran
pena per la mamma, tanto che l’ho abbracciata, e l’ho stretta forte, e non
riuscivo a lasciarla. E poi anche la mamma mi accarezzava, piangeva…
VARIA (commossa) Non parlare, non parlare…
ANIA La villa vicino a Mentone l’aveva già venduta, non aveva più niente,
ma niente. E neanch’io avevo più neanche un copeco, non so come
abbiamo fatto a tornare. E la mamma non si rende conto! Alla stazione
andiamo a pranzo, e lei ordina tutto quello che costa di più, e ai
camerieri lascia di mancia dei rubli. E lo stesso Charlotta. E lo stesso
lascia: ordina lui quel che vuole, è semplicemente spaventoso. Iascia è il
cameriere della mamma, l’abbiamo riportato qui anche lui…
VARIA L’ho visto, quel poco di buono.
ANIA E qui come va? Son stati pagati gli interessi?
VARIA Quando mai.
ANIA Dio mio, dio mio…
VARIA L’agosto prossimo va tutto all’asta…
ANIA Dio mio…
LOPACHIN (sbircia dalla porta, e muggisce) Muuhh… (Esce)
VARIA (con le lacrime agli occhi) Io non so cosa gli farei… (Minacciando
con il pugno)
ANIA (abbraccia Varia sottovoce) Varia, te lo ha poi chiesto, di sposarlo?
(Varia fa cenno di no col capo) Eppure lui è innamorato…. Perché non
vi dichiarate, che cosa aspettate?
VARIA Io credo proprio che non ne faremo niente. Lui ha un sacco di cose
da fare, per me non ha tempo… e neanche mi vede. Dio lo benedica, mi
fa perfìn pena… Tutti parlano del nostro matrimonio, tutti mi fanno gli
auguri e le congratulazioni, ma il fatto è che non c’è niente di concreto,
tutto campato in aria… (Mutando tono) Quella spilla sembra un’ape.
ANIA (tristemente) L’ha comprata la mamma. (Va in camera sua, parla ora
con tono allegro, infantile) E a Parigi sono andata in pallone!
VARIA L’anima mia è tornata! La mia bellissima è tornata!

DUNIASCIA è già tornata con la caffettiera e sta versando il caffè.

(In piedi accanto alla porta) Mentre son qui che bado alla casa, anima
mia, tutto il giorno io non faccio che sognare una cosa. Che tu ti sposi
con qualcuno di ricco, così anch’io sarei tranquilla, me ne andrei in un
qualche ritiro, e poi in pellegrinaggio a Kiev… a Mosca, a visitare tutti i
luoghi santi…. Andare e andare. Che meraviglia!…
ANIA Gli uccelli cantano in giardino. Che ora abbiam fatto?
VARIA Le tre, credo. È ora che tu vada a dormire, anima mia. (Entrando
nella camera di Ania) Che meraviglia!

Entra IASCIA con un plaid e con una piccola borsa da viaggio.

IASCIA (attraversa la scena, con affettazione) Mi è permesso passare di


qui?
DUNIASCIA Non l’avevo neanche riconosciuto, Iascia. Com’è cambiato,
all’estero.
IASCIA Ehm… Lei chi è?
DUNIASCIA Quando lei è andato via, io ero alta così… (Indica l’altezza)
Duniascia, la figlia di Fiòdor Kosoièdov. Non si ricorda?
IASCIA Ehm… La petite! (Si guarda intorno e l’abbraccia; essa ha uno
strillo e lascia cadere un piattino. Iascia esce in fretta
VARIA (sulla soglia, con tono seccato) Cosa succede qui?
DUNIASCIA (con tono piangente) Ho rotto un piattino…
VARIA Porta buono.
ANIA (uscendo dalla propria stanza) Bisognerebbe avvertire la mamma:
che Pietia è qui…
VARIA Ho dato ordine di non svegliarlo.
ANIA (assorta) Sei anni fa è morto papà, un mese dopo s’è annegato nel
fiume mio fratello Griscia, aveva sette anni, era bellissimo. La mamma
non ce l’ha fatta, è partita, partita per non tornare più… (Sussulta) Se
sapesse come la capisco!
Pausa
E Pietia Trofimov era il precettore di Griscia, potrebbe farle ricordare…

Entra FIRS, in giacca da cameriere e gilet bianco.

FIRS (con tono affannato, andando alla caffettiera) Sua signoria fa


colazione qui… (Si infila i guanti bianchi) Pronto il caffè? (Con tono
severo, a Duniascia) Tu! E la panna?
DUNIASCIA Oh santo cielo… (Esce di corsa)
FIRS (dandosi da fare con la caffettiera) Eh tu, buona da niente!…
(Borbottando tra sé) Son tornati da Parigi… Anche sua signoria il
vecchio andava sempre a Parigi… in carrozza… (Ride)
VARIA Perché ridi, Firs?
FIRS Comandi? (Con gioia) Sua signoria è tornata! Ho fatto in tempo a
vederla! Ormai posso anche morire… (Piange di gioia)

Entrano LIUBOV ANDRIEIEVNA, LOPACHIN, GAIEVe SIMEONOV-PISC’CIK;


SIMEONOV-PISC’CIK indossa una giacca leggera di panno e calzoni alla zuava.
GAIEV, entrando, con le braccia e il busto compie dei gesti come se stesse
giocando a biliardo.

LIUBA Com’era? Lascia che mi ricordi… La gialla in un angolo! Doppietta


al centro!
GAIEV L’ho presa nell’angolo! Una volta, io e te, sorella mia, dormivamo
proprio in questa camera, e io adesso ho cinquantun anni, pensa che
strano…
LOPACHIN Sì, il tempo passa.
GAIEV Come?
LOPACHIN Dico che il tempo passa.
GAIEV Ma qui c’è odore di patchouli.
ANIA Io vado a dormire. Buona notte, mamma. (Bacia la madre)
LIUBA Piccola mia, gioia della mia vita. (Le bada le mani) Sei contenta di
essere a casa? A me non par quasi vero.
ANIA Ciao, zio.
GAIEV (le bacia il viso, le mani) Dio ti benedica. Come assomigli a tua
madre! (Alla sorella) Tu, Liuba, alla sua età eri proprio così.

ANIA porge la mano a LOPACHIN e a PISC’CIK, esce e chiude la porta dietro di


sé.

LIUBA È molto stanca.


PISC’CIK Probabilmente il viaggio.
VARIA (a Lopachin e a Pisc’cik) E allora, signori? Sono le tre, è ora di
togliere il disturbo.
LIUBA (ride) Tu sei sempre la stessa, Varia. (L’attira a sé e la bacia)
Adesso bevo il caffè, e poi ce ne andiamo via tutti.

FIRS le sistema un cuscinetto sotto i piedi.

Grazie, tesoro. Ho preso questa abitudine del caffè. Ne seguito a bere di


giorno e di notte. Grazie, il mio vecchio Firs. (Lo bacia)
VARIA Vediamo un po’ se hanno portato dentro tutti i bagagli… (Esce)
LIUBA Ma è possibile che io sia proprio qui? (Ride) Avrei voglia di saltare,
di battere le mani. (Si copre il viso con le mani) O magari sto sognando!
Lo sa Dio, se amo la terra dove sono nata, con quanta tenerezza, non
riuscivo neanche a guardare dal finestrino, non ho fatto che piangere.
(Tra le lacrime) Comunque adesso c’è da bere il caffè. Ti ringrazio, Firs,
grazie, il mio vecchio Firs. Sono così contenta che tu sia ancora vivo.
FIRS L’altro ieri.
GAIEV Ci sente poco.
LOPACHIN Tra poco, alle cinque di stamattina, devo andare a Charcov. È
proprio un peccato! Avrei voluto star qui a guardarla, a chiacchierare…
Lei è sempre così una meraviglia.
PISC’CIK (sospirando profondamente) Si è perfino imbellita… E vestita alla
francese…
LOPACHIN Suo fratello, qui, il signor Gaiev, dice di me che sono un bifolco,
uno strozzino, ma di questo a me non me ne importa niente. Lo lasci
dire. Io vorrei soltanto che lei continuasse a fidarsi di me come prima,
che i suoi occhi, meravigliosi, penetranti, mi guardassero ancora come
una volta. Dio del cielo! Mio padre era un servo di vostro nonno e di
vostro padre, ma lei, lei soprattutto, ha fatto tanto per me che io ho
dimenticato tutto e le voglio bene come a una della mia famiglia… di
più, che a una della mia famiglia.
LIUBA Non posso starmene qui seduta, non ce la faccio… (Si alza di scatto
e cammina in grande agitazione) Credo che morirò dalla gioia… Ridete
pure di me, sono una povera stupida… Il mio caro armadietto… (Bacia
l’armadio) Il mio tavolinetto…
GAIEV Mentre eri via è morta la balia.
LIUBA (siede e beve il caffè) Lo so, pace all’anima sua. Me l’avete scritto.
GAIEV E anche Anastasio è morto. Pietia, quello orbo, se ne è andato, e
adesso vive in città, dal commissario. (Tira di tasca una scatola di
caramelle, ne succhia una)
PISC’CIK Mia figlia, Dascenka… la saluta tanto…
LOPACHIN Io avrei da dirvi una cosa molto bella, una buona notizia.
(Guarda l’orologio) Ma adesso devo andare, impossibile discuterne…
però, ecco qui in due parole. Lei sa già che il vostro giardino dei ciliegi
se lo son mangiato i debiti, e che la vendita all’asta è fissata per il
ventidue d’agosto, ma lei non deve preoccuparsi, carissima, dorma pure
tranquilla, c’è una via d’uscita… Ecco qui il mio progetto. Stia bene
attenta! La vostra proprietà è solo a venti verste dalla città, qui vicino ci
passa la ferrovia, e se il giardino dei ciliegi e il terreno lungo il fiume lo
si divide in tanti piccoli appezzamenti per costruirci tante villette da dare
in affìtto, potete tirarne fuori almeno venticinquemila rubli all’anno.
GAIEV Scusi, sa, ma che idiozia!
LIUBA Io non la capisco proprio, Lopachin.
LOPACHIN Potrete chiedere almeno venticinque rubli all’anno per ettaro, e
se la cosa la fate sapere subito, sì, io scommetto quel che volete, che per
l’autunno non vi resta neanche più una spanna di terra libera, tutto
lottizzato. In una parola, e me lo auguro, siete salvi. Una posizione
meravigliosa, un bel fiume profondo. Unica cosa è che, certo, bisogna
mettere un po’ a posto, ripulire… in primo luogo, diciamocelo pure,
buttar giù tutti i rustici, compresa questa casa, che non servono più a
niente, tagliare il vecchio giardino dei ciliegi…
LIUBA Tagliare il giardino? Amico mio, scusi, sa, ma lei non capisce
niente. Se in tutta la provincia c’è qualcosa di interessante, o addirittura
di meraviglioso, questo è proprio e soltanto il nostro giardino dei ciliegi.
LOPACHIN Di meraviglioso nel vostro giardino c’è solo il fatto che è
grandissimo. Le ciliege le fa una volta ogni due anni, e non si sa neanche
cosa farne, non le compra nessuno.
GAIEV Nel Dizionario Enciclopedico, si parla di questo giardino.
LOPACHIN (guarda l’orologio) Qui, se non si inventa qualcosa e non si
prende una decisione, il ventidue agosto il giardino dei ciliegi e tutta la
proprietà son messi all’asta. Dovete decidervi! Altra soluzione non c’è,
ve lo dico io. O dentro o fuori!
FIRS Una volta, quaranta cinquant’anni fa, le ciliege si facevan seccare, si
mettevan sotto spirito, si facevan marinare, si faceva la marmellata, e al
caso…
GAIEV Sta zitto, Firs.
FIRS E al caso si mandavano carri di ciliege secche a Mosca e a Charcov.
Eran dei bei soldi! E le ciliege erano tenere, morbide, dolci, profumate…
Allora sapevano come farle…
LIUBA E adesso?
FIRS Dimenticato. Non se lo ricorda più nessuno.
PISC’CIK (a Liubov Andrieievna) E a Parigi? Come va? Avete mangiato le
rane?
LIUBA Il coccodrillo, abbiamo mangiato.
PISC’CIK Ma tu pensa…
LOPACHIN Prima d’ora in campagna ci stavano solo padroni e contadini, ma
adesso cominciano ad arrivare i villeggianti. Tutte le città, comprese le
più piccole, ormai sono circondate da ville e villette. E si può star sicuri
che nei prossimi vent’anni i villeggianti aumenteranno in modo
incredibile. Adesso si bevono il thè seduti in veranda, ma può darsi
anche il caso che qualcuno si metta a coltivare il suo ettaro di terra, e
allora il vostro giardino dei ciliegi sarà una gioia, una ricchezza, una
meraviglia…
GAIEV (come ribellandosi) Che idiozia!

Entrano VARIA e IASCIA

VARIA Qui, mamma, ci son due telegrammi per lei. (Prende una chiave ed
apre, facendolo stridere, il vecchio armadio) Eccoli.
LIUBA Vengono da Parigi. (Li straccia, senza finire di leggerli) Con Parigi
è finita…
GAIEV Ma tu lo sai, Liuba, quanti anni ha questo armadio? Una settimana
fa ho aperto il cassetto qui in basso, guardo, e vedo dei numeri a fuoco.
Questo armadio è stato fatto esattamente cento anni fa. Che cosa ne dici?
Eh? Una ricorrenza che si potrebbe celebrare. È un oggetto inanimato,
tuttavia però, in un modo o nell’altro, è un armadio libreria.
PISC’CIK (con meraviglia) Cent’anni… Ma tu pensa!…
GAIEV Sì… È una di quelle cose… (Tastando l’armadio) Carissimo,
venerando armadio! Io plaudo qui alla tua esistenza, la quale giusto
cent’anni or sono venne indirizzata ai luminosi ideali del bene e della
giustizia; il tuo silenzioso incitamento ad un profìcuo lavoro, lungi
dall’affievolirsi nel corso di questi cent’anni, ha mantenuto vivo
(commovendosi) nelle generazioni della nostra famiglia lo slancio, la
fede in un avvenire migliore, infondendo in tutti noi gli ideali della
giustizia e il senso della responsabilità sociale.
Pausa
LOPACHIN Già…
LUIBA Tu sei sempre il solito, Lienia.
GAIEV (un po’ imbarazzato) Palla dritta nell’angolo! Bella piena!
LOPACHIN (guardando l’orologio) Beh, per me è ora d’andare.
IASCIA (porge una medicina a Liubov Andrieievna) Credo sia ora di
prendere le sue pillole…
PISC’CIK Non bisogna prender tante medicine, cara signora… non servono
a niente, né in bene né in male… Dia qua a me… egregia. (Prende il
flacone, si versa le pillole nel palmo della mano, ci soffia sopra, le
ingoia e ci beve dietro del kvass) Ecco fatto!
LIUBA (con aria spaventata) Ma lei è impazzito!
PISC’CIK Le pillole le ho prese tutte io.
LOPACHIN Che lavandino.

Tutti ridono.

FIRS Sono stati qui da noi a Pasqua, e si son mangiati mezzo secchio di
cetrioli… (Borbotta)
LIUBA Che cosa sta dicendo?
VARIA Son tre anni che borbotta così. Non gli badiamo neanche più.
IASCIA La vecchiaia.

CHARLOTTA IVANOVNA, in abito bianco, molto magra, impettita, con


l’occhialino alla cintura, entra e attraversa la scena.

LOPACHIN Chiedo scusa, signorina Charlotta, non sono ancora riuscito a


salutarla. (Fa per baciarle la mano)
CHARLOTTA (ritirando la mano) Lei, se le si dà la mano da baciare, poi
vuol baciare il gomito, poi la spalla…
LOPACHIN Oggi mi gira male.

Tutti ridono.

Signorina Charlotta, ci faccia un gioco di prestigio!

LIUBA Charlotta, facci un gioco di prestigio!


CHARLOTTA Non adesso. Ho sonno. (Esce)
LOPACHIN Ci rivediamo fra tre settimane. (Bacia la mano a Liubov
Andrieievna) Per intanto stia bene. Io devo andare. (A Gaiev)
Arrivederci. (Bacia Pisc’cik) Arrivederci. (Stringe la mano a Varia, poi
a Firs e a Iascia) Non ho nessuna voglia di andare. (A Liubov
Andrieievna) Se pensa bene alla storia delle villette e decide qualcosa,
me lo faccia sapere, io cinquantamila rubli ve li impresto. Ci pensi
seriamente.
VARIA (con irritazione) Insomma, se ne vuole andare?
LOPACHIN Vado, vado… (Esce)
GAIEV Bifolco! Anzi, pardon… Varia sta per diventare sua moglie, è il
promesso sposo di Varia…
VARIA Non parli tanto per parlare, zio!
LIUBA Che cosa c’è, Varia, io sarei molto contenta. È un brav’uomo.
PISC’CIK Un uomo, bisogna dir la verità… rispettabilissimo… E anche mia
figlia Dascenka… anche lei dice che… un sacco di cose dice. (Russa, ma
subito si sveglia) A proposito, egregia, imprestatemi… cortesemente
duecentoquaranta rubli… domani c’ho una cambiale che mi scade…
VARIA (con spavento) Ah, no, no!
LIUBA II fatto è che non ho più niente.
PISC’CIK Salteran fuori. (Ride) Io non perdo mai la speranza. Ecco, penso,
qui tutto è finito, sono rovinato, e invece cosa succede: hanno fatto
passare la ferrovia sul mio terreno, e… mi han dato un sacco di soldi….
E anche stavolta, vedrai che qualcosa dall’oggi al domani succede…
Dascenka vince duecentomila rubli… il biglietto della lotteria ce l’ha.
LIUBA Il caffè l’abbiamo bevuto, possiamo andare a riposare.
FIRS (spazzola i calzoni a Gaiev, con tono di rimprovero) Ancora i calzoni
che non doveva. Io non so più cosa fare con lei!
VARIA (piano) C’è Ania che dorme. (Apre adagio la finestra) È spuntato il
sole, non fa più freddo. Guardi, mamma: come son belli gli alberi! Dio
mio, che aria! E gli storni che cantano!
GAIEV (apre l’altra finestra) Il giardino è tutto bianco. Non te lo sei
dimenticato, vero, Liuba? Il grande viale, lì, che corre dritto, dritto,
proprio come un nastro tirato, e che splende nelle notti di luna. Te lo
ricordi? Non te lo sei dimenticato?
LIUBA (guarda il giardino dalla finestra) Oh, la mia infanzia, l’età mia
dell’innocenza! In questa stanza dormivo, vedevo da qui il giardino, la
felicità si svegliava con me ogni mattina, e il giardino era proprio come
adesso, non è cambiato niente. (Ride dalla gioia) Tutto, tutto bianco! Oh,
mio giardino! Dopo l’autunno grigio e piovoso, e l’inverno di ghiaccio,
tu sei di nuovo giovane, pieno di gioia, gli angeli del cielo non ti hanno
abbandonato… Potessi togliermi dal petto e dalle spalle questo peso che
mi schiaccia, potessi dimenticare il passato!
GAIEV Già, e per colpa dei debiti il giardino va all’asta, com’è tutto
strano…
LIUBA Guardate, la povera mamma lì in giardino… vestita di bianco! (Ride
dalla gioia) È lei.
GAIEV Dove?
VARIA Dio l’assista, mamma.
LIUBA Non c’è nessuno, mi era solo sembrato. Sulla destra, alla curva della
chiesa, un alberello piegato, sembrava una donna…

Entra TROFIMOV con una logora divisa da studente, e gli occhiali.

Che giardino meraviglioso! La massa bianca dei fiori, il cielo azzurro…

TROFIMOV Signora Liuba!

Essa si volta verso di lui.

La saluto soltanto e me ne vado subito. (Le bacia con calore la mano)


Mi avevano ordinato di aspettare il mattino, ma non ci sono riuscito…

LIUBOV ANDRIEIEVNA lo guarda attonita.

VARIA (con commozione) È Pietia Trofimov…


TROFIMOV Pietia Trofimov, sono stato il maestro di Griscia… Sono proprio
così cambiato?

LIUBOV ANDRIEIEVNA lo abbraccia e piange in silenzio.

GAIEV (turbato) Calma, calma, Liuba.


VARIA (piange) Te l’avevo detto, Pietia, di aspettare domani.
LIUBA Il mio Griscia… il mio bambino… Griscia… figlio mio…
VARIA Cosa vuol farci, mamma. È la volontà di Dio.
TROFIMOV (con tenerezza, commosso) Basta, basta…
LIUBA (piange in silenzio) Il mio bambino è morto, si è annegato…
Perché? Perché, amico mio? (Più piano) C’è Ania che dorme, e io parlo
ad alta voce… faccio baccano. E tu, Pietia? Come mai ti sei così
sciupato? Come mai sei così invecchiato?
TROFIMOV In treno una vecchietta mi ha chiamato «quel signore pelato».
LIUBA Eri proprio un ragazzino, allora, uno studentello simpatico, e adesso
invece hai pochi capelli, gli occhiali. Possibile che tu sia ancora
studente? (Va verso la porta)
TROFIMOV Può darsi che io debba essere studente in eterno.
LIUBA (bacia il fratello, poi Varia) Su, andate a dormire… Sei invecchiato
anche tu, Leonida.
PISC’CIK (seguendola) Benissimo, adesso si va a dormire… Ah, la mia
podagra. Io dormo qui da voi… Ma a me, signora Liuba, anima mia,
domani mattina… duecentoquaranta rubli…
GAIEV Non la smette un momento.
PISC’CIK Duecentoquaranta rubli… una cambiale che scade.
LIUBA Non ho un soldo, tesoro.
PISC’CIK Glieli restituisco, carissima… Son quattro soldi…
LIUBA E va bene, glieli darà Leonida… Leonida, daglieli.
GAIEV Sta fresco, che glieli dia.
LIUBA Che cosa vuoi farci, daglieli… Ce ne ha bisogno… Poi li restituisce.

LIUBOV ANDRIEIEVNA, TROFIMOV, PISC’CIK e FIRS escono. Rimangono GAIEV,


VARIA e IASCIA

GAIEV Mia sorella non ha ancora perso l’abitudine di buttare i soldi dalla
finestra. (A Iascia) Scostati un po’, giovanotto, sai di pollaio.
IASCIA (ghignando) E lei, signor Gaiev, è sempre ancora com’era una
volta.
GAIEV Cosa? (A Varia) Che cos’ha detto?
VARIA (a Iascia) Tua madre è venuta qui dalla campagna, è da ieri sera in
cucina, che vorrebbe vederti…
IASCIA Aspetta e spera!
VARIA Vergognati!
IASCIA Che fretta c’era. Non poteva venir domani? (Esce)
VARIA La mamma è sempre la solita, non è cambiata in niente. Fosse per
lei, darebbe via tutto.
GAIEV Sì…

Pausa
Quando contro una data malattia si ordinano tante medicine, significa
solo che la malattia è incurabile. Io penso, mi spremo il cervello, trovo
tante medicine, tantissime, ma questo significa, in sostanza, che non ne
ho trovata neanche una. Che bello che sarebbe ricevere un’eredità da
qualcuno, che bello che sarebbe se Ania sposasse qualcuno molto ricco,
che bello che sarebbe andare a Jaroslav a provare con la zietta contessa.
La zia è molto, molto ricca.

VARIA (piange) Se dio ci aiutasse.


GAIEV Non frignare. La zia è molto ricca, ma non ci vuol bene. Mia
sorella, tanto per cominciare, ha sposato un avvocato, non nobile…

ANIA si affaccia sulla soglia.

Ha sposato un non nobile e poi non si può neanche dire che sia sempre
stata irreprensibile. È bella, è buona, è brava, io le voglio molto bene, ma
per quante attenuanti le si riconoscano, tuttavia, bisogna ammetterlo, è
molto poco seria. E questo lo si sente in tutto quel che dice e quel che fa.
VARIA (sottovoce) C’è Ania sulla porta.
GAIEV Come?

Pausa
Incredibile, mi è entrato qualcosa nell’occhio… non ci vedo quasi più. E
giovedì scorso, quando sono andato in tribunale…

Entra ANIA.

VARIA Come mai non dormi, Ania?


ANIA Non ho sonno. Non ci riesco.
GAIEV La mia piccoletta. (Le bacia il viso e le mani) La mia bambina…
(Commosso) Tu non sei la mia nipodna, tu sei il mio angelo, tu per me
sei tutto. Credimi, credimi…
ANIA Io ti credo, zio. A te tutti vogliono bene, tutti ti rispettano… ma tu,
zio caro, dovresti stare zitto, soltanto stare zitto. Che cosa stavi dicendo
un momento fa di mia madre, di tua sorella? Perché lo hai detto?
GAIEV Sì, sì… (Con la mano di lei si copre il viso) È proprio una cosa
terribile! Dio mio! Dio, aiutami tu! E oggi ho fatto perfino un discorso
all’armadio… che stupidaggine! L’ho capito subito, appena finito, che
era una gran stupidaggine.
VARIA È vero, zio, lei dovrebbe proprio star zitto. Stare zitto, e basta.
ANIA Se starai zitto, ti sentirai anche tu più tranquillo.
GAIEV Starò zitto. (Bacia le mani ad Ania e a Varia) Starò zitto. Solo una
cosa per concludere. Giovedì scorso ero in tribunale, c’era un po’ di
gente, e si è cominciato a parlare di questo e di quello, e com’è come
non è, pare che firmando un po’ di cambiali, si possa ottenere un prestito
per pagare gli interessi alla banca.
VARIA Se il Signore ci aiutasse!
GAIEV Martedì ci torno, e riprendo il discorso. (A Varia) Non frignare. (Ad
Ania) Tua madre parlerà con Lopachin; lui di sicuro non le dirà di no…
E tu, appena ti sei riposata, te ne vai a Jaroslav dalla contessa, dalla tua
nonnina. E così, dandoci da fare su tre fronti, il nostro problema è bell’e
risolto. Gli interessi li paghiamo, non ho il minimo dubbio… (Si mette in
bocca una caramella) Sul mio onore, su tutto quel che vuoi, lo giuro, la
nostra roba non si vende! (Con eccitazione) Lo giuro sulla mia testa!
Qua la mano, dammi del vigliacco, dell’uomo senza onore, se mai
lascerò che si arrivi all’asta! Sull’anima mia lo giuro!
ANIA (un sentimento di traquillità è subentrato in lei, ora è felice), Come
sei buono, zio, come sei intelligente! (Lo abbraccia) Ora sono tranquilla!
Sono tranquilla! Sono felice!

Entra FIRS.

FIRS (in tono di rimprovero) Lei, signoria, ma non ha proprio niente


giudizio! E a dormire, quando?
GAIEV Adesso, adesso. Tu va pure, Firs. Io, non importa, mi spoglio da
solo. E adesso, figliole, a nanna… I particolari a domani, adesso andate a
dormire. (Bacia Ania e Varia) Io sono della generazione degli Ottanta…
Oggi si usa parlar male di quei tempi, ma tutto quel che posso dire è che
in vita mia ho pagato eccome, per le mie opinioni. Non per niente il
contadino mi vuol bene. Il contadino bisogna conoscerlo! Bisogna
conoscere il modo…
ANIA Ricominci, zio!
VARIA Lei, zio, deve star zitto!
FIRS (irritato) Signoria!
GAIEV Vado, vado… Andate a riposare. Doppia sponda e dritto al centro!
Palla piena… (Esce, seguito da Firs a piccolipassi)
ANIA Ora sono tranquilla. Andare a Jaroslav non vorrei, non mi piace la
nonna, però sono tranquilla. Grazie allo zio. (Siede)
VARIA Bisogna andare a dormire. Io vado. Qui, mentre eri via, son successe
anche cose fastidiose. Lo sai che nelle vecchie stanze della servitù
vivono ormai solo i servi più vecchi: Iefimiusc’ca, Polia, Ievstinghiei, e
poi Karp. Questi qui cominciano a far dormire lì anche altra gente di
passaggio – e io zitta. Solo che a un certo punto sento girar la voce che
io avevo ordinato di dargli da mangiare soltanto ceci. Per avarizia, hai
capito… E questo è stato Ievstinghiei… Benissimo, dico io. Se è così,
dico io, aspetta un po’. Chiamo Ievstinghiei… (Sbadiglia) Quello
viene… Si può sapere, gli faccio io, come mai tu, Ievstinghiei…
deficiente che non sei altro…. (Dopo aver guardato Ania) Annina…
Pausa
Si è addormentata!… (Prende Ania sotto braccio) Andiamo a nanna…
Andiamo! (La sorregge conducendola) L’anima mia dorme! Andiamo…

Si avviano.

Oltre il giardino un pastore suona la zampogna. TROFIMOV passa traversando


la scena e, vedendo VARIA e ANIA, si ferma.

VARIA Ssst… Dorme… dorme… Andiamo, tesoro.


ANIA (piano, assonnata) Sono così stanca… tutte quelle sonagliere… Lo
zio… caro…. e la mamma e lo zio…
VARIA Andiamo, tesoro, andiamo… (Entrano nella camera di Ania)
TROFIMOV (con tenerezza) Piccolo sole mio! Primavera mia!

Sipario
ATTO SECONDO

In campagna. Una vecchia chiesetta tutta storta, abbandonata da molto


tempo, vicino alla quale vi sono delle grandi pietre, evidentemente antiche
pietre tombali, e un vecchio pozzo. È visibile la strada che porta alla
proprietà di GAIEV. Da un lato, alti, nereggiano i pioppi; e al di là comincia
il giardino dei ciliegi. In lontananza, una fila di pali del telegrafo, e più
lontano ancora, all’orizzonte, si delinea appena il profilo della grande città,
che però è ben visibile solo quando l’aria è molto chiara e serena. Tra poco
tramonterà il sole, CHARLOTTA, IASCIA e DUNIASCIA siedono su una panchina.
IEPICHODOV è in piedi lì vicino e suona la chitarra; tutti siedono immersi nei
propri pensieri, CHARLOTTA porta un vecchio berretto con visiera; si è tolta il
fucile di spalla e sta sistemando la fibbia della cinghia.
CHARLOTTA (sovrapensiero) Io non ho un passaporto in regola, non so
quanti anni ho, a me sembra sempre di essere giovanissima. Quand’ero
piccola, mio padre e mia madre giravano per le fiere e davano spettacoli,
molto belli. E anch’io facevo le saut de la mort e giochetti vari. Poi,
quando il papà e la mamma sono morti, mi ha preso con lei una signora
tedesca che ha cominciato a darmi un’istruzione. Bene. Io sono
cresciuta, e mi son messa a far la governante. Ma di dove vengo e chi
sono – non lo so… Chi siano i miei genitori, se eran proprio sposati…
non lo so. (Tira fuori di tasca un cetriolo e lo mango) Non so niente.
Pausa
Mi piacerebbe tanto parlare con qualcuno, ma non so con chi… Io non
ho nessuno.
IEPICHODOV (suona la chitarra e canta) «Che m’importa del mondo
chiassoso, che m’importa di amici e nemici…» Com’è bello saper
suonare il mandolino!
DUNIASCIA Quella è una chitarra, non è un mandolino. (Si guarda in uno
specchietto e si incipria)
IEPICHODOV Quando uno è pazzo, ed è innamorato, questo è un
mandolino… (Continua a cantare) «Fosse solo l’amor del mio cuore,
ricambiato da simile amor…»

IASCIA canta con lui.

CHARLOTTA Come canta male questa gente… puah. Sembran sciacalli.


DUNIASCIA (a Iascia) Certo che dev’essere bello vivere all’estero.
IASCIA Sì, certo. Non posso che essere d’accordo.
IEPICHODOV E si capisce perché. All’estero già da un bel pezzo hanno
organizzato tutto alla perfezione.
IASCIA Ovvio.
IEPICHODOV Io sono un uomo evoluto, leggo un sacco di libri importanti,
ma non riesco in nessun modo ad individuare una direzione, che cosa
esattamente voglio, se continuare a vivere o ammazzarmi, per dir le cose
esattamente come stanno, ciononostante io ho sempre con me un
revolver. Eccolo qui… (Mostra un revolver)
CHARLOTTA Ho finito. Adesso me ne vado. (Si mette in spalla il fucile) Tu,
Iepichodov, sei una persona molto intelligente e molto terribile; le donne
devono amarti alla follia. Brrr! (Si avvia) Questi intelligentoni sono tutti
stupidi, io non riesco a parlare con loro… Sempre sola, sola, senza
nessuno e… senza sapere chi sono, perché vivo… (Esce senza fretta)
IEPICHODOV Per dir le cose esattamente come stanno, trascurando altre
considerazioni, io di me posso dire, tra l’altro, che la sorte si comporta
con me senza nessuna pietà, come una tempesta con una piccola barca.
Ammesso, poniamo, che io sia in errore, perché allora stamattina mi
sveglio, cito solo un esempio, guardo, ed ecco sul mio petto un ragno
enorme… Così. (Mostra la grandezza con le due mani) E se prendo del
kvass, perché ho sete, anche lì, guardo, ed ecco qualcosa di sgradevole in
massimo grado, diciamo uno scarafaggio.
Pausa
Avete mai letto La storia della civiltà di Buckle?
Pausa
Vorrei disturbarla un istante, signorina Duniascia, per due parole.
DUNIASCIA Dica.
IEPICHODOV Preferirei parlarle da sola… (Sospira)
DUNIASCIA (imbarazzata) Va bene…. prima però vada a prendermi la mia
mantellina… È vicina all’armadio… qui è un po’ umido…
IEPICHODOV E va bene… Vado a prendergliela… Adesso lo so, quel che
dovrei fare col mio revolver… (Prende la chitarra ed esce, accennando
a qualche nota)
IASCIA Cento disgrazie! Bell’imbecille, detto fra noi. (Sbadiglia)
DUNIASCIA Mio dio, che non si ammazzi.

Pausa
Sono diventata così apprensiva, sono sempre nervosa. I signori mi han
presa a servizio che ero ancora bambina, io ormai mi sono disabituata
alla vita semplice, ed ecco qui che ho le mani tutte bianche, come ce le
hanno le signorine. Sensibile son diventata, così delicata, così
aristocratica, ho paura di tutto… Una paura terribile. E se anche lei,
Iascia, mi inganna, io non so proprio quel che succederà, coi miei nervi.
IASCIA (la bacia) Ma petite! Certo, una ragazza deve saper stare al suo
posto, e se c’è una cosa che proprio non mi piace è una ragazza che si
comporta male.
DUNIASCIA Io mi sono innamorata pazzamente di lei, lei è così istruito, sa
parlare così bene di tutto.
Pausa
IASCIA(sbadiglia) Eh sì… Per me è così: se una ragazza fa vedere di
essere innamorata, questo vuol dire che non ha pudore
Pausa
È bello fumarsi un sigaro qui all’aria aperta… (Tendendo l’orecchio)
Vien gente… Sono i signori…

DUNIASCIA lo abbraccia con trasporto.


Va a casa, fa come se fossi andata a fare il bagno al fiume, prendi per
quel sentiero, che non t’incontrino e pensino di me che t’avevo dato un
appuntamento. Cosa che non sopporterei.
DUNIASCIA (tossisce piano) Quel sigaro m’ha fatto venire il mal di testa…
(Esce)

IASCIA rimane in scena, siede vicino alla cappella. Entrano LIUBOV


ANDRIEIEVNA, GAIEV e LOPACHIN.

LOPACHIN Alla fin fine bisogna pur decidere, – il tempo stringe. La


questione del resto è semplicissima. Siete o non siete d’accordo a dare la
terra per farci delle villette? Rispondete con una parola: sì o no? Basta
una parola!
LIUBA Chi è che viene qui a fumare dei sigari così orribili… (Siede)
GAIEV Adesso che han costruito la ferrovia, fa anche comodo. (Siede)
Siamo in città, abbiamo fatto colazione… gialla al centro! Potrei
cominciare ad andare a casa, a farmi una partitina…
LIUBA C’è tutto il tempo.
LOPACHIN Basta una parola! (Con tono supplichevole) Mi volete dare una
risposta?
GAIEV (sbadigliando) Cosa?
LIUBA (guardando nel proprio portamonete) Ieri c’erano un bel po’ di
soldi, oggi quasi più niente. La povera Varia fa economia, ci dà sempre
delle gran zuppe di latte, ai vecchi in cucina dan soltanto ceci, e io
invece spendo e spando senza giudizio. (Le cade il portamonete, le
monete ruzzolano via) Ecco, anche per terra…
IASCIA Lasci, li tiro su io. (Raccoglie le monete)
LIUBA Fammi il favore, Iascia. E perché ho voluto andar fuori a pranzo…
Che squallore, quel ristorante con l’orchestrina, le tovaglie che sanno di
sapone… Perché tutto quel bere, Lienia? Perché tutto quel mangiare?
Perché tutto quel parlare? Anche oggi, al ristorante, hai parlato di nuovo
troppo e sempre a sproposito. Della generazione del Settanta, del
populismo. E con chi? Parlare del populismo con i camerieri!
LOPACHIN Sì.
GAIEV (un gesto con le mani) Sono incorreggibile, è evidente… (Con
irritazione a Iascia) Cos’è questa storia, di starmi sempre tra i piedi…
IASCIA (ridendo) È che non riesco a non ridere ogni volta che sento la sua
voce.
GAIEV (a sua sorella) O io, o lui…
LIUBA Va via, Iascia, vattene…
IASCIA (porge a Liubov Andrieievna il portamonete) Vado subito.
(Trattenendosi a fatica dal ridere) Immediatamente… (Esce)
LOPACHIN La vostra proprietà ha intenzione di comperarsela Dieriganov,
quello ricco. Dicono che all’asta verrà lui in persona.
LIUBA E lei da chi l’ha sentito?
LOPACHIN Lo dicono in città.
GAIEV La zia di Jaroslav ha promesso di mandare qualcosa, ma quanto e
quando manderà, non lo sappiamo…
LOPACHIN Quanto manderà? Centomila? Duecentomila?
LIUBA Ma sì… quindici, ventimila, e cara grazia.
LOPACHIN Scusate tanto, ma gente così incosciente come voi, signori miei,
così poco tagliati per gli affari, così incredibili, io non ne ho mai vista. Vi
si dice in tutte lettere, la vostra proprietà va all’asta, e voi sembra che
neanche capiate.
LIUBA Ma che cosa possiamo fare? Ce lo dica lei, che cosa?
LOPACHIN Ma se ve lo dico ogni giorno. Ogni giorno non faccio che
ripetervi la stessa cosa. Il giardino dei ciliegi e tutto il terreno va
assolutamente affittato per costruirci delle villette, e questo va fatto
subito, al più presto possibile, ormai l’asta è qui! La volete capire?
Deciso una volta per tutte di lasciar costruire le villette, vi daranno tutti i
soldi che volete, e sarete salvi.
LIUBA Villette e villeggianti – son cose così volgari, scusi tanto.
GAIEV Perfettamente d’accordo con te.
LOPACHIN Io o mi metto a piangere, o urlo, o mi viene un accidente. Non ce
la faccio! Voi mi avete distrutto! (A Gaiev) Lei è una donnetta!
GAIEV Cosa?
LOPACHIN Donnetta! (Fa per andare)
LIUBA (con spavento) No, non vada via, resti qui, amico mio. La prego.
Può darsi che qualcosa si riesca a inventare.
LOPACHIN Non c’è niente da inventare.
LIUBA Non vada via, la prego. Quando c’è lei c’è comunque un po’ più
d’allegria…
Pausa
Io sempre mi aspetto qualcosa, come se dovesse caderci addosso la casa.
GAIEV (profondamente assorto) Doppia nell’angolo… Croisée al centro…
LIUBA Troppo abbiamo peccato…
LOPACHIN Ma che peccati volete avere…
GAIEV (si mette in bocca una caramella) Dicono che io tutta la mia
sostanza l’ho fatta fuori in caramelle… (Ride)
LIUBA Oh, i miei peccati… Io ho sempre buttato via i soldi senza ritegno, e
ho sposato un uomo che non sapeva far altro che debiti. Mio marito è
morto di champagne – beveva da far paura – e per mia disgrazia mi sono
innamorata di un altro, ho ceduto, e proprio in quel preciso momento – e
questo è stato il mio primo castigo, una mazzata in testa – ecco che lì nel
fiume… si è annegato il mio bambino, e io me ne sono andata all’estero,
andata via proprio per non tornare più, non vedere più quel fiume… Ho
chiuso gli occhi, sono fuggita, come un’indemoniata, e lui dietro…
spietato, brutale. Ho comprato una villa vicino a Mentone, perché là lui
si era ammalato, e per tre anni, giorno e notte, non ho avuto un attimo di
riposo; la sua malattia mi ha esaurita, la mia anima si è inaridita. E
l’anno scorso, venduta la villa per pagare i debiti, sono tornata a Parigi, e
lì lui mi ha portato via tutto, mi ha lasciata, si è messo con un’altra, io ho
tentato di avvelenarmi… Che schiocchezza, che vergogna… E
improvvisamente ecco una grande nostalgia della Russia, della mia terra,
di mia figlia… (Si asciuga le lacrime) Signore, Signore, abbi pietà,
rimetti a me i miei peccati! Non punirmi più di così! (Tira fuori di tasca
un telegramma) L’ho ricevuto oggi, da Parigi… Mi chiede perdono, mi
scongiura di tornare… (Straccia il telegramma) Che cos’è questa
musica? (Tende l’orecchio)
GAIEV È la nostra famosa orchestrina degli ebrei. Non ti ricordi, quattro
violini, flauto e contrabbasso.
LIUBA Esiste ancora? Bisogna farla venire da noi, allora, un giorno o
l’altro, e organizzare una bella serata.
LOPACHIN (tende l’orecchio) Non sento niente… (Canta a bassa voce) «I
tedeschi per i soldi, fan francesi anche le lepri.» (Ride) Ieri sera a teatro
ho visto una commedia, tutta da ridere.
LIUBA E invece, probabilmente, non c’era niente da ridere. Lei dovrebbe
lasciar perdere le commedie, e guardare un po’ di più dentro se stesso.
La vita grigia che fate, le cose inutili che dite.
LOPACHIN Questo è vero. Bisogna proprio dirlo, facciamo una vita
insulsa…
Pausa
Mio papà era un contadino, una bestia, non capiva niente, non mi ha
mandato a scuola, e quand’era ubriaco eran sempre bastonate. Nella
sostanza anch’io sono una bestia ignorante tale e quale. Non ho cultura,
ho una calligrafia che fa schifo, e scrivo in maniera tale che mi vergogno
davanti agli altri, come un maiale.
LIUBA Lei ha bisogno di una moglie, caro mio.
LOPACHIN Sì … È vero.
LIUBA Magari la nostra Varia. È una brava ragazza.
LOPACHIN Sì.
LIUBA Viene da gente semplice, lavora tutto il giorno e soprattutto è
innamorata di lei. E poi anche lei è da tanto che Varia le piace.
LOPACHIN E allora? Io non ho niente in contrario… È una brava ragazza.

Pausa
GAIEV Mi hanno offerto un posto in banca. Seimila rubli all’anno… Hai
sentito?
LIUBA Ma figùrati! Sta lì buono…

Entra FIRS; sta portando un cappotto.

FIRS (a Gaiev) Si metta su questo, signoria, comincia a far umido.


GAIEV (infilandosi il cappotto) Come sei noioso, fratello.
FIRS Non c’è niente da fare… Stamattina è uscito, senza dir niente a
nessuno. (Lo scruta dalla testa ai piedi)
LIUBA Come sei invecchiato, Firs!
FIRS Comandi?
LOPACHIN Ha detto che ti sei molto invecchiato!
FIRS Perché è tanto che sono al mondo. Han provato a darmi moglie che
vostro padre non era ancora nato… (Ride) E quando han dato la libertà ai
servi, io ero già primo cameriere anziano. Io però la libertà non l’ho
voluta, sono stato coi miei padroni…
Pausa
Me lo ricordo, che eran tutti contenti, ma contenti di che cosa, non lo
sapevano neanche loro.
LOPACHIN Prima era molto meglio. Se non altro c’era la frusta.
FIRS (senza aver sentito) Sicuro. I contadini stavano con i signori, i signori
con i contadini, adesso invece tutti stan per conto suo, non si capisce più
niente.
GAIEV Sta zitto, Firs. Domani devo andare in città. Mi hanno promesso di
presentarmi a un generale che forse mi accetta delle cambiali.
LOPACHIN Non ne caverà niente. E gli interessi non li pagherete, stia
tranquillo.
LIUBA Se lo sogna lui. Non esiste nessun generale.

Entrano TROFIMOV, ANIA e VARIA.

GAIEV Ecco che arrivano i nostri.


ANIA La mamma è qui.
LIUBA (affettuosamente) Venite, venite… Bambine mie… (Abbracciando
Ania e Varia) Se voi solo sapeste quanto bene vi voglio. Sedetevi qui
vicino a me, così.

Tutti siedono.

LOPACHIN II nostro eterno studente è sempre a spasso con le signorine.


TROFIMOV Sono affari miei.
LOPACHIN Ha quasi cinquantanni, ma è ancora studente.
TROFIMOV Ma la smetta con queste stupide battute.
LOPACHIN Ma lei perché se la prende tanto, cervellone?
TROFIMOV Lei pensi a non stuzzicarmi.
LOPACHIN (ride) Mi permetta che le domandi che cosa pensa lei di me.
TROFIMOV Io, signor Lopachin, la penso così: lei è molto ricco, tra poco
sarà milionario. E come nella logica dell’evoluzione.sono necessarie le
bestie feroci, che divorano tutto quello che trovano sulla loro strada, così
anche lei è necessario.

Tutti ridono.

VARIA Pietia, perché non ci parlate un po’ di astronomia.


LIUBA No, riprendiamo piuttosto il discorso di ieri sera.
TROFIMOV Su che cos’era?
GAIEV Sul nostro orgoglio di esseri umani.
TROFIMOV Ieri sera ne abbiamo parlato a lungo, ma non siamo arrivati a
nessuna conclusione. Nell’orgoglio dell’uomo, secondo voi, c’è qualcosa
di mistico. Può anche essere che dal vostro punto di vista abbiate
ragione, ma se giudichiamo in tutta semplicità, senza tanta fantasia, che
cos’è questo orgoglio, che senso ha, dal momento che l’essere umano è
fisiologicamente così fragile, dal momento che nella sua grande
maggioranza è un essere rozzo, poco intelligente, profondamente
infelice? Bisogna smetterla con questa auto-esaltazione. Bisogna soltanto
lavorare.
GAIEV Tanto si muore lo stesso.
TROFIMOV E chi lo sa? E che cosa significa morire? Magari l’uomo ha
cento sensi, e con la morte ne perde solo cinque, quelli che noi
conosciamo, ma gli altri novantacinque restano vivi.
LIUBA Come sei intelligente, Pietia!..
LOPACHIN (con ironia) Da far paura!
TROFIMOV L’umanità va avanti, sviluppando le proprie potenzialità. Tutto
quello che per ora le è precluso, un giorno sarà accessibile,
comprensibile, solo che per questo bisogna lavorare, aiutare con tutte le
forze coloro che cercano la verità. Qui in Russia sono ancora molto
pochi quelli che lavorano. L’enorme maggioranza degli intellettuali che
conosco io, non ricerca, non fa niente, non è ancora matura per il lavoro
che c’è da fare. Si definiscono intellettuali, ma danno del tu ai camerieri,
trattano i contadini come bestie, studiano male, non leggono niente con
serietà, non fanno niente, di scienze sanno soltanto parlare, di arte
capiscono poco. Son tutti molto seri, hanno tutti un’aria sussiegosa,
parlano soltanto di massimi sistemi, fanno un gran filosofare, e intanto
sotto gli occhi di tutti gli operai mangiano in modo che fa schifo,
dormono senza coperte, in trenta, in quaranta in una stanza, tra le cimici,
la puzza, l’umidità, nell’abbiezione…. E, chiaramente, tutti i nostri bei
discorsi servono soltanto a distogliere i nostri sguardi da noi stessi e
dagli altri. Mostratemelo voi, dove sono gli asili di cui tanto e così
spesso si parla, e dove le biblioteche? Tutte cose di cui si parla soltanto
nei romanzi, ma nella realtà neanche esistono. Qui c’è solo sporcizia,
volgarità, arretratezza1… Io ho paura e detesto le facce troppo serie, ho
paura dei discorsi troppo seri. Meglio stare zitti!
LOPACHIN Senta, io mi alzo ogni mattina alle cinque, lavoro dalla mattina
alla sera, sì, ho sempre per le mani soldi miei e di altri, e vedo com’è la
gente che c’è in giro. Basta soltanto cominciare a far qualcosa, per capire
quanto poche sono le persone oneste e perbene. Ogni tanto, quando son
lì che non riesco a dormire, penso: «Signore, tu ci hai dato delle foreste
immense, pianure sconfinate, orizzonti a perdita d’occhio, e anche noi,
che viviamo qui, dovremmo ormai essere dei giganti…».
LIUBA Lei vuole dei giganti… Ma i giganti van bene nelle favole, nella vita
ci spaventano.

Sul fondo della scena passa IEPICHODOV e suona la chitarra.

(Pensierosa) Ecco Iepichodov…


ANIA (pensierosa) Ecco Iepichodov…
GAIEV Signori, il sole è tramontato.
TROFIMOV Sì.
GAIEV (a mezza voce, come se recitasse) O natura, meravigliosa, tu che
brilli d’eterno splendore, bellissima e imperturbabile, tu, cui diamo il
nome di madre, che in te comprendi vita e morte, tu che vivifichi e
annienti…
VARIA (con tono supplichevole) Zio caro!
ANIA Zio, ancora!
TROFIMOV Meglio il pallino al centro e carambola.
GAIEV Sto zitto, sto zitto.
Tutti siedono, sovrapensiero. Silenzio. Si sente solo FIRS borbottare
sottovoce. Improvvisamente risuona lontano, come venisse dal cielo, il
rumore metallico di un cavo che si spezza, morente, melanconico.

LIUBA Che cos’è?


LOPACHIN Non lo so. Dev’essersi spezzato il cavo di un carrello, in una
qualche miniera. Una qualche miniera molto lontana.
GAIEV O forse è stato un qualche uccello… magari un airone.
TROFIMOV O un gufo…
LIUBA (sussultando) Non so, non mi piace.

Pausa
FIRS È stato così anche prima della disgrazia: la civetta gridava, e il
samovar seguitava a brontolare.
GAIEV Prima di quale disgrazia?
FIRS Di quando han dato la libertà ai servi.

Pausa
LIUBA Amici, è meglio che ci avviamo, ormai si fa sera. (Ad Ania) Hai le
lacrime agli occhi… Che cosa c’è, bambina mia? (L’abbraccia)
ANIA Così, mamma. Niente.
TROFIMOV C’è qualcuno che viene.

Entra in scena un viandante con un berretto bianco consumato e cappotto; è


un po’ alticcio.

IL VIANDANTE Scusate una domanda, si passa di qui per andare


direttamente alla stazione?
GAIEV Sì. Prenda per quella strada.
IL VIANDANTE La ringrazio infinitamente. (Tossisce) Un tempo splendido…
(Recitando) Fratello, fratello che soffri… vieni sulla Volga, il cui
lamento… (A Varia) Mademoiselle, favorisca trenta copechi a un povero
compatriota affamato…

VARIA grida spaventata.


LOPACHIN (con irritazione) Anche la sfacciataggine ha un limite!
LIUBA (imbarazzata) Tenga… ecco… (Fruga nel portamonete) Non ho
neanche una moneta d’argento… Non importa, tenga una moneta
d’oro…
IL VIANDANTE La ringrazio infinitamente! (Esce)

Si ride.

VARIA (con sgomento) Io vado via… io vado via… Ah, mamma, a casa non
c’è da mangiare per la gente, e lei dà via monete d’oro.
LIUBA Cosa devo fare, sciocca come sono! A casa do a te tutto quello che
ho. Lopachin, mi presti ancora qualcosa!…
LOPACHIN Obbedisco.
LIUBA Avviamoci, signori, è ora. Intanto, Varia, abbiamo combinato il tuo
matrimonio, tanti auguri.
VARIA (con gli occhi bagnati) Con queste cose, mamma, non si scherza.
LOPACHIN Ompelia, va in convento…
GAIEV E io intanto ho la mano che mi trema: troppo tempo che non gioco a
biliardo.
LOPACHIN Ompelia, o ninfa, ricordati di me nelle tue preghiere!
LIUBA Andiamo, signori. È quasi l’ora di cena.
VARIA Mi ha messo paura, quello. Ho il cuore che mi batte ancora.
LOPACHIN Signori, vi faccio memoria: il ventidue agosto il giardino dei
ciliegi va all’asta. Pensate anche a questo!.. Pensateci!
Escono tutti, ad eccezione di TROFIMOV e ANIA.

ANIA (ride) Grazie a quel viandante che ha messo paura a Varia, adesso
siamo soli.
TROFIMOV Varia ha il terrore che noi tutto ad un tratto ci si innamori l’uno
dell’altra, e in tutto il giorno non ci lascia un momento. Con la sua
mentalità ristretta lei non può capire che noi siamo superiori all’amore.
Andare al di là di tutto ciò che è effimero e volgare, che ci impedisce di
essere liberi e felici, è questo il fine e il senso della nostra vita. Avanti!
La nostra è una marcia irresistibile verso la stella luminosa che splende
in lontananza! Avanti! Non esitate, amici!
ANIA (battendo le mani) Come parli bene!
Pausa
Oggi qui è una meraviglia!
TROFIMOV Sì, è una bellissima giornata.
ANIA Che cosa mi hai fatto, Pietia, come mai adesso il giardino dei ciliegi
non l’amo più come prima? Una volta lo amavo così teneramente, ed ero
convinta che sulla terra non ci fosse niente di più bello del nostro
giardino.
TROFIMOV Tutta la Russa è il nostro giardino. Terra grande e bellissima,
piena di luoghi meravigliosi.
Pausa
Pensa, Ania: tuo nonno, il tuo bisnonno e tutti i tuoi antenati erano dei
signori feudali, padroni di anime vive, e non sembra ora a te che da ogni
ciliegio del giardino, da ogni foglia, da ogni tronco, degli esseri umani ci
guardino, non ti sembra di sentirne le voci… Esser padroni di anime vive
– ecco che cos’è che vi ha corrotti tutti, quelli che sono vissuti prima di
voi, e voi che vivete ora, al punto che tua madre, te, tuo zio, neppure vi
rendete conto del grande debito che avete, vivendo alle spalle degli altri,
alle spalle di questa gente alla quale voi non permettete neppure di
varcar la soglia della vostra anticamera… Noi siamo in arretrato di
almeno due secoli, non abbiamo ancora niente di nostro, non abbiamo
una precisa coscienza del nostro passato, non facciamo altro che
filosofare, lamentare la nostra pigrizia, o bere vodka. Mentre è chiaro
che se vogliamo cominciare a vivere nel presente, dobbiamo cominciare
col mettere in gioco il nostro passato, liberarcene, ma questo è possibile
solo con la sofferenza, con un faticoso, straordinario, indefesso lavoro.
Capisci questo, Ania?
ANIA La casa in cui viviamo, già da molto non è più casa nostra, e io me ne
andrò via, te lo giuro.
TROFIMOV Se hai un mazzo di chiavi, gettalo nel pozzo e vattene. Libera,
come il vento.
ANIA (con rapimento) Come l’hai detto bene!
TROFIMOV Credimi, Anna, credimi! Io non ho ancora trent’anni, sono
giovane, sono ancora studente, ma ho già molto sofferto! Come viene
l’inverno, eccomi affamato, malato, smarrito, miserabile, come un
mendicante, e – in quanti luoghi non m’ha portato il destino, dove non
sono stato! Ma la mia anima sempre, in ogni minuto, di giorno e di notte,
era piena di inesprimibili presentimenti… Io sento la felicità che si
avvicina, Ania, io già la vedo…
ANIA (assorta) Spunta la luna.

Si sente IEPICHODOV che suona sulla chitarra la sua triste canzone. Spunta
la luna. Da qualche parte, tra i pioppi, VARIA sta cercando ANIA e chiama:
«ANIA! Dove sei?».

TROFIMOV Si, spunta la luna.


Pausa
Eccola, la felicità, eccola che viene, si fa sempre più vicina, e già io
sento i suoi passi. E anche se noi non la vedremo, non la conosceremo,
che cosa importa? Altri la vedranno!

La voce di varia: «ANIA! Dove sei?».

Ancora quella Varia! (Con irritazione) È insopportabile!


ANIA E allora? Andiamo al fiume. Si sta bene anche là.
TROFIMOV Andiamo.

Si avviano.

La voce di varia: «ANIA! AANIA!».

Sipario
1
Nell’originale: «…asiatismo…».
ATTO TERZO

Un salotto, che un arco divide dalla sala da pranzo. Il lampadario è acceso.


Si sente, dall’anticamera, il suono dell’orchestrina ebraica di cui si è parlato
nel secondo atto. È sera. Nella sala si sta ballando il «grand-rond». La voce
di SIMEONOV-PISC’CIK: «Promenade à une paire!». Entrano in scena: una
prima coppia formata da PISC’CIK e CHARLOTTA, una seconda con TROFIMOV e
LIUBOV ANDRIEIEVNA, una terza con ANIA e l’ufficiale postale, una quarta con
il capostazione, e altre. VARIA sta piangendo in silenzio e, ballando, si
asciuga le lacrime. Dell’ultima coppia fa parte DUNIASCIA. Tutti traversano il
salone, PISC’CIK grida: «Grandrond, balancez!» e «Les chevaliers à genoux
et remerciez vos dames!»
FIRS in frac gira offrendo su un vassoio acqua di selz. Entrano in salotto
PISC’CIK e TROFIMOV.

PISC’CIK Io sono del tipo pletorico, già due volte ho avuto un colpo, ballare
per me è dura, ma come si suol dire, in mezzo ai cani anche senza
abbaiare \ almeno la coda la devi menare. Io sono sano e robusto come
un cavallo. Mio padre buon’anima, ch’era un mattacchione, dio l’abbia
in gloria, a proposito delle nostre origini, diceva sempre che l’antica
stirpe dei Simeonov-Pisc’cik discendeva nientemeno che dal cavallo che
Caligola aveva nominato senatore… (Siede) Ma ecco la mia disgrazia:
non ho un soldo! Il cane affamato sogna soltanto pezzi di carne…
(Comincia a russare ma subito si riscuote) E così io… penso solo ai
soldi…
TROFIMOV È vero che nella sua fisionomia c’è qualcosa di cavallino.
PISC’CIK Del resto… il cavallo è una brava bestia… un cavallo lo si può
vendere…
Da una stanza vicina si sente gente che gioca a biliardo. Dalla sala, sotto
l’arco, si affaccia VARIA.

TROFIMOV (canzonando) Madame Lopachin! Madame Lopachin!


VARIA (con irritazione) Signor Testapelata!
TROFIMOV Sì, sono un signor testapelata e me ne vanto!
VARIA (con triste riflessione) Hanno voluto l’orchestrina, ma chi la paga?
(Esce)
TROFIMOV (a Pisc’cik) Se lei, tutta l’energia che nel corso della sua vita ha
impiegato a cercar soldi per le sue cambiali, l’avesse utilizzata per
qualcos’altro, fatti tutti i conti, probabilmente, avrebbe potuto mettere il
mondo a testa in giù.
PISC’CIK Nietzsche… il filosofo… grandissimo, famosissimo… uomo
d’intelligenza superiore, dice nelle sue opere che è lecito far soldi falsi.
TROFIMOV E lei ha letto Nietzsche?
PISC’CIK Beh… me l’ha detto Dascenka. E io in questo momento mi trovo
in una situazione tale, che potrei anche fare soldi falsi… Dopodomani
devo tirar fuori trecento rubli… Centotrenta li ho trovati… (Si fruga in
tasca, con allarme) Non ci sono più i soldi! Ho perso i soldi! (Tra le
lacrime) Dove sono i miei soldi? (Con gioia) Eccoli qui, sotto la
fodera… Ero già tutto un sudore…
Entrano LIUBOV ANDRIEIEVNA e CHARLOTTA IVANOVNA.

LIUBA (canticchia una lesghinca)1 Perché tarda tanto Leonida? Che cosa
sta a fare in città? (A Duniascia) Duniascia, servi il the ai suonatori…
TROFIMOV Non avran fatto l’asta, è molto probabile.
LIUBA Allora l’orchestrina è venuta per niente, e la festa da ballo non ha
senso… Beh, non importa… (Siede e canticchia a bassa voce)
CHARLOTTA (porgendo a Pisc’cik un mazzo di carte) Ecco qui questo
mazzo di carte, pensi una carta qualsiasi.
PISC’CIK Pensata.
CHARLOTTA Adesso mescoli il mazzo. Molto bene. Me lo dia qui, caro
signor Pisc’cik. Ein, zwei, drei! Adesso cerchi bene, la carta è nella sua
tasca destra…
PISC’CIK (tira fuori la carta dalla tasca destra) L’otto di picche, è proprio
vero! (Stupito) Ma tu pensa!
CHARLOTTA (tenendo il mazzo sul palmo della mano, a Trofimov) Risponda
subito, che carta è la prima?
TROFIMOV Cosa ne so? Beh, la dama di picche?
CHARLOTTA Eccola! (A Pisc’cik) Che carta è l’ultima?
PISC’CIK L’asso di cuori.
CHARLOTTA Eccolo! (Si batte sul palmo, e il mazzo di carte sparisce) Ma
che bella giornata che è oggi!

Le risponde una misteriosa voce di donna, quasi venisse da sottoterra: «Oh


sì, signorina, una giornata meravigliosa».

Lei è proprio il mio ideale…

La voce: «Anche lei, signorina, mi piace moltissimo».

IL CAPOSTAZIONE (applaude) Signora ventriloqua, brava!


PISC’CIK (stupito) Ma tu pensa! Mia superincantatrice signorina
Charlotta… io mi sono assolutamente innamorato…
CHARLOTTA Innamorato? (Alza le spalle) Lei sarebbe in grado di amare?
Guter Mensch, aber schlechter Musikant.
TROFIMOV (batte la mano sulla spalla a Pisc’cik) Lei è un cavallo…
CHARLOTTA Prego un po’ d’attenzione, c’è un altro gioco di prestigio,
(Prende da una sedia un plaid) Ecco qui un bellissimo plaid, che ora io
vado a vendere… (Agita il plaid) Nessuno desidera comperarlo?
PISC’CIK (stupito) Ma tu pensa!
CHARLOTTA Ein, zwei, drei! (Alza d’un colpo il plaid che aveva abbassato;
dietro il plaid appare Ania; che fa una reverenza, corre da sua madre,
l’abbraccia, poi esce di comi verso la sala da pranzo, tra il plauso dei
presenti)
LIUBA (applaude) Bravó, bravó!…
CHARLOTTA Non è finita! Ein, zwei, drei. (Alza il plaid: dietro il plaid c’è
Varia che si inchina)
PISC’CIK (stupito) Ma tu pensa!
CHARLOTTA Fine! (Getta il plaid addosso a Pisc’cik, fa una reverenza ed
esce di corsa verso la sala)
PISC’CIK (correndole dietro) Che demonio… dove va? Dove va?
LIUBA E Leonida non si vede. Non capisco che cosa stia a fare in città tutto
questo tempo! Dovrebbe esser tutto finito, ormai, la proprietà esser
venduta o l’asta non fatta, perché tenerci qui tutto questo tempo senza
saper niente!
VARIA (cercando di tranquillizzarla) L’ha comprata lo zio, di questo son
sicura.
TROFIMOV (con sarcasmo) Sì.
VARIA La nonna gli ha mandato la procura perché la compri a suo nome
pagando anche l’ipoteca. E questo per Ania. Io sono sicura, dio ci aiuta,
compra lo zio.
LIUBA La nonna di Jaroslav ha mandato quindicimila rubli, per comprare la
proprietà a suo nome, – di noi non si fida, – ma son soldi che non
basterebbero neanche per pagare gli interessi. (Nasconde il viso tra le
mani) Oggi si decide il mio destino, il destino…
TROFIMOV (canzonando Varia) Madame Lopachin!
VARIA (con irritazione) L’eterno studente! Già due volte si è fatto sbatter
fuori dall’università.
LIUBA Perché te la prendi, Varia? Ti chiama signora Lopachin, e allora? Se
vuoi sposarlo, lo sposi, è un brav’uomo, è un buon partito. Se non vuoi –
non lo sposi; nessuno, tesoro, ti obbliga…
VARIA Io questa la considero una cosa seria, mamma, lo dico sinceramente.
È un brav’uomo, a me piace.
LIUBA E allora sposalo. Non capisco che cosa aspetti!
VARIA Mamma, non posso essere io a fargli la domanda. Son due anni
ormai che tutti mi parlano di lui, tutti parlano, e lui o sta zitto o ci
scherza su. Io lo capisco. Lui sta facendo soldi, è pieno di lavoro, per me
non ha tempo. Se avessi anch’io un po’ di soldi, anche pochi, anche
cento rubli, pianterei lì tutto e me ne andrei via lontano. In convento, me
ne andrei.
TROFIMOV Fantastico!
VARIA (a Trofimov) Uno studente dovrebbe essere più intelligente! (Con
tono dolce, con le lacrime agli occhi) Come sei diventato brutto, come
sei invecchiato! (A Liubov Andrieievna, senza più commozione) Solo che
io non ci riesco a star senza far niente, mamma. Io, sempre, devo aver
qualcosa da fare.

Entra IASCIA.

IASCIA (trattenendosi a fatica dal ridere) Iepichodov ha rotto una stecca


del biliardo!… (Esce)
VARIA E che cosa fa Iepichodov qui? Chi gli ha dato il permesso di giocare
a biliardo? Io non capisco questa gente… (Esce)
LIUBA Lasciala stare, Pietia, non lo vedi, anche lei ha i suoi guai.
TROFIMOV Sì, ma è troppo invadente, non si occupa degli affari suoi. Per
tutta l’estate non ha dato pace né a me né ad Ania, dal terrore che tra noi
nascesse chissà qual romanzo. Come fosse affar suo. E poi io non posso
aver dato adito a nessun sospetto, sono così lontano da ogni volgarità.
Noi siamo al di sopra dell’amore!
LIUBA Io si vede allora che sono al di sotto dell’amore. (In grande
agitazione) Ma perché Leonida non torna? Tanto per sapere almeno se la
tenuta è stata venduta o no. Questa disgrazia mi sembra incredibile a tal
punto che non so neanche che cosa pensare, mi gira la testa… Potrei
mettermi a gridare da un momento all’altro… potrei fare non so che
pazzia. Aiutami tu, Pietia. Dimmi qualcosa, parla…
TROFIMOV Che oggi la tenuta sia stata o non sia stata venduta – non è lo
stesso? Per lei è una questione chiusa da un sacco di tempo, e tornare
indietro è impossibile, la strada è tutta una spina. Si metta l’anima in
pace, signora cara. Bisogna smetterla di illudersi, bisogna una volta nella
vita guardare la verità dritto negli occhi.
LIUBA Quale verità? Tu lo vedi, dov’è la verità e dov’è la menzogna, ma io
è come se fossi diventata cieca, non vedo niente. Tu sei pieno di
coraggio, e hai soluzioni pronte per tutti i più grandi problemi, ma dimmi
un po’, amico mio caro, non è che sia così perché sei ancora così
giovane, e non hai ancora avuto il tempo di soffrirne veramente neanche
uno, di questi grandi problemi? Tu guardi al futuro, pieno di coraggio,
ma non è che sia così perché non vedi niente, e niente t’aspetti di
pericoloso, dato che la vita non si è ancora mostrata ai tuoi occhi così
giovani? Tu sei più coraggioso, più onesto, più profondo di noi, ma
pensaci bene, sii un po’ meno intransigente e severo, almeno tanto così,
cerca di compatirmi. Perché io sono nata qui, qui sono vissuti mio padre
e mia madre, mio nonno, io amo questa casa, senza il giardino dei ciliegi
io non capisco più niente della mia vita, e se è proprio necessario
venderlo, allora vendete anche me insieme al giardino… (Abbraccia
Trofimov, lo bacia in fronte) E perché mio figlio è annegato qui…
(Piange) Abbi compassione di me, tu che sei bravo e buono.
TROFIMOV Lei sa che io la compatisco di tutto cuore.
LIUBA Ma non è così, non è così che bisogna dirlo… (Tira fuori un
fazzoletto, per terra le cade un telegramma) Oggi ho un gran peso sul
cuore, che tu non puoi neanche immaginare. Qui sento un gran rumore,
ogni voce o suono fa tremare il mio cuore, io tremo tutta, ma andarmene
in camera mia non posso, star sola nel silenzio mi fa paura. Non
giudicarmi male, Pietia… Io ti voglio bene come a un figlio. E Ania te la
darei volentieri, te lo giuro, solo che, caro amico mio, bisogna studiare,
finire l’università. Tu non fai niente, ti lasci portare dal caso ora qui ora
là, che strano… Non è vero? Eh? E bisogna anche far qualcosa a quella
barba, che almeno ti cresca un po’… (Ride) Come sei buffo!
TROFIMOV (raccoglie il telegramma) Non ho l’ambizione di essere bello.
LIUBA È un telegramma che viene da Parigi. Ogni giorno me ne arrivano. E
ieri, e oggi. Quell’uomo impossibile è di nuovo malato, è di nuovo nei
guai… Chiede perdono, mi supplica di tornare, e la verità è che io
davvero dovrei tornare a Parigi, stargli vicino. Tu, Pietia, fai la faccia
severa, ma che cosa bisogna fare, amico mio, che cosa posso fare, è
malato, è solo, infelice, e chi c’è là che possa aver cura di lui, che gli stia
attento che non faccia imprudenze, che gli dia le medicine all’ora giusta?
E a che cosa serve nasconderlo o tacerlo, io lo amo, questo è chiaro. Lo
amo, lo amo… E questa è la pietra che ho al collo, e che mi tirerà giù nel
gorgo, però questa pietra io l’amo, e senza non posso vivere. (Stringe la
mano di Trofimov) Non pensare male, Pietia, non dirmi niente, non
parlare…
TROFIMOV (commosso) Perdoni la franchezza, in nome di dio: ma
quell’uomo non l’ha rovinata?
LIUBA No, no, no, non devi dire così… (Si tura le orecchie)
TROFIMOV Comunque è un mascalzone, lei è l’unica a non saperlo! Un
piccolo mascalzone, una nullità…
LIUBA (con irritazione, ma dominandosi) Hai ventisei o ventisette anni, ma
sei ancora uno scolaretto del ginnasio!
TROFIMOV E va bene!
LIUBA Bisogna essere uomini, alla tua età si dovrebbe capire chi ama.
Anzi, si dovrebbe amare… ci si dovrebbe innamorare! (Con rabbia) Sì,
sì! La tua non è purezza, tu sei solo un puritano, un originale, un
insensibile…
TROFIMOV (inorridito) Ma cosa dice questa?
LIUBA «Io sono superiore all’amore!» Tu non sei superiore all’amore, sei
soltanto, come dice qui il nostro Firs, un buono da niente.2 Alla tua età
non hai neanche un’amante…
TROFIMOV (inorridito) Questo è orribile! Ma cosa dice questa? (Si avvia in
fretta verso la sala da pranzo, tenendosi la testa tra le mani) Questo è
orribile… Io non posso, me ne vado… (Se ne va, poi subito toma
indietro) Tra noi due tutto è finito! (Esce verso l’anticamera)
LIUBA (gridandogli dietro) Pietia, aspetta! Non esser ridicolo, stavo
scherzando! Pietia!
Si sente dall’anticamera qualcuno che scende precipitosamente le scale e
che ad un tratto cade con grande fracasso. ANIA e VARIA gridano, ma subito
si sentono delle risate.
Che cosa è successo?
Entra ANIA di corsa.

ANIA (ride) Pietia è caduto dalle scale! (Esce di corsa)


LIUBA Che stupidone, Pietia…

Il capostazione è fermo in mezzo alla sala da pranzo e legge La peccatrice


di A. Tolstoi. Altri lo ascoltano, ma egli ha solo il tempo di leggere qualche
verso, che dall’anticamera giungono le note di un valzer, e la lettura si
interrompe. Tutti ballano. Entrano dall’anticamera TROFIMOV, ANIA, VARIA e
LIUBOV ANDRIEIEVNA.

Su, Pietia… su, anima candida… ti chiedo scusa… Andiamo a ballare…


(Balla con Pietia)
ANIA e VARIA ballano. FIRS entra e appoggia il suo bastone accanto ad una
porta laterale. Anche IASCIA è entrato nel salotto ed osserva le danze.

IASCIA Cosa c’è, nonno?


FIRS C’è che va male. Una volta, alle feste da ballo qui in casa, venivano
generali, baroni, ammiragli, oggi invece mandiamo gli inviti
all’impiegato postale e al capostazione, e neanche quelli ci vengon
volentieri. Son diventato debole. Il padron vecchio buonanima, il nonno,
ci faceva curare sempre con la ceralacca, per qualsiasi malattia. Io
prendo la ceralacca ogni giorno da ventanni in qua, e forse anche di più;
e magari è per questo che sono ancora vivo.
IASCIA Non seccarmi, nonno. (Sbadiglia) Vedi di crepare in fretta.
FIRS Ehi, tu… buon da niente! (Borbotta)

TROFIMOV e LIUBOV ANDRIEIEVNA ballano in sala, e poi nel salotto.

LIUBA Merci. Io mi siedo un po’… (Siede) Sono stanca.

Entra ANIA.

ANIA (in agitazione) Poco fa in cucina c’era uno che diceva che il giardino
dei ciliegi l’han venduto oggi.
LIUBA E a chi l’han venduto?
ANIA A chi, non l’ha detto. È andato via. (Balla con Trojimoro, e i due
escono verso la sala)
IASCIA È una cosa che ha raccontato un vecchio. Un forestiero.
FIRS E di sua signoria ancora niente, non si è visto. Si è messo su il
soprabito leggero, il demisaison, vedrai che raffreddore. Ah, questa
gioventù!
LIUBA Io mi sento morire. Va, Iascia, cerca di sapere a chi l’han venduto.
IASCIA Ma se n’è andato da un bel po’, quel vecchio. (Ride)
LIUBA (con leggera irritazione) Beh, cosa c’è da ridere? Cos’è
quest’allegria?
IASCIA Mi fa ridere Iepichodov. Troppo stupido. Cento disgrazie.
LIUBA Firs, se venderanno tutto, tu dove andrai?
FIRS Dove comanda, lì andrò.
LIUBA Come mai hai una così brutta cera? Non stai bene? Dovresti andare
a letto, lo sai…
FIRS Sì… (Con un sorriso) Io vado a letto, ma senza di me chi serve, chi
mette a posto? Ci son solo io in tutta la casa.
IASCIA (a Liubov Andrieievna) Signora Liuba! Permetta che le rivolga una
preghiera, sia buona! Se torna a Parigi, porti anche me, mi faccia la
grazia. Restare qui, per me, non è proprio più possibile. (Si guarda
intorno, a bassa voce) Che cosa posso dirle, lo vede anche lei, un paese
incivile, gente immorale, e poi una noia, in cucina si mangia che è uno
schifo, con questo Firs sempre intorno che non fa che borbottare cose
senza senso. Mi porti con lei, sia buona!

Entra PISC’CIK.

PISC’CIK Mi permetta di invitarla… per questo valzerino, mia meravigliosa


signora… (Liubov Andrieievna si avvia con lui) Incantatrice, eppure quei
centottanta rublettini lei mi presta… Lei me li presta… (Balla)
Centottanta rublettini…

Passano in sala.

IASCIA (canta a bassa voce) «Non vedi tu che m’hai rubato il cuor…»

In sala, una persona in cilindro grigio e pantaloni a quadretti agita le mani e


salta, e si sentono delle grida: «Bravò, signorina Charlotta».

DUNIASCIA (che si è fermata per incipriarsi) La signorina mi ha detto di


ballare – ci son tanti cavalieri e poche dame – ma a me a ballare mi gira
la testa, mi batte il cuore, signor Firs, e poi l’impiegato delle poste mi ha
appena detto una cosa che mi ha lasciato senza fiato.

La musica tace.

FIRS Che cosa ti ha detto?


DUNIASCIA Lei, mi fa, è come un fiore.
IASCIA (sbadiglia) Ignoranti… (Esce)
DUNIASCIA Come un fiore… Io sono una ragazza così sensibile, le parole
tenere mi piacciono da impazzire.
FIRS Tu finisci male.

Entra IEPICHODOV.

IEPICHODOV Lei, signorina Duniascia, rifugge dal vedermi… come se fossi


una sorta di insetto. (Sospira) Ah, la vita!
DUNIASCIA Che cosa desidera?
IEPICHODOV Indubbiamente, può darsi, lei ha ragione. (Sospira) Ma in fin
dei conti, considerando la cosa da un certo punto di vista, allora, è stata
lei, se mi consente di esprimermi così, scusi la franchezza,
esclusivamente lei a farmi entrare in questo stato d’animo. Io lo so qual è
il mio destino, non c’è giorno in cui non mi capiti una qualche disgrazia,
e a questo ormai io ci sono abituato, al punto che guardo alla mia sorte
con un sorriso. Lei mi ha dato la sua parola, e sebbene io…
DUNIASCIA La prego, ne parliamo dopo, ma adesso mi lasci in pace. Adesso
sto sognando. (Gioca col ventaglio)
IEPICHODOV Mi capita una disgrazia al giorno, ma io, se mi consente di
esprimermi così, mi limito a sorriderci, se non addirittura a riderci su.

Dalla sala entra VARIA.

VARIA Non te ne sei ancora andato, Iepichodov? Impertinente che non sei
altro, proprio. (A Duniascia) Via di qui, Duniascia. (A Iepichodov) Prima
giochi al biliardo e rompi una stecca, poi vai a spasso per il salotto come
un invitato.
IEPICHODOV Lei, consenta che le dica, non può chiedermi conto di quel che
faccio.
VARIA Io non ti chiedo conto di niente, io dico le cose. Tu non sai far altro
che andare a spasso da un posto all’altro, e non ti occupi del tuo lavoro.
Teniamo un contabile, ma a far che cosa non si sa.
IEPICHODOV (offeso) Che io lavori, vada a spasso, mangi o giochi a
biliardo, di questo possono giudicare solo quelli che capiscono meglio le
cose e son più vecchi di lei.
VARIA Tu osi rispondermi così! (Andando in collera) Tu osi? Sarebbe come
dire che io non capisco niente? Fila via di qui! E subito!
IEPICHODOV (impaurito) La prego di esprimersi con maggior moderazione.
VARIA (fuori di sé) Subito via di qui! Via!

Egli si avvia verso la porta, seguito da lei.

Cento disgrazie! Non voglio vederti qui neanche dipinto! Non venirmi
più davanti agli occhi!

IEPICHODOV è uscito; da dietro la porta si sente la sua voce: «Farò le mie


rimostranze».

Ah, ritorni indietro? (Prende il bastone lasciato da Firs accanto alla


porta) Vieni… Vieni… Vieni, te la faccio vedere io… Ah, vieni? Vieni?
E allora prendi… (Cala il bastone su Lopachin che entra in quel
momento)
LOPACHIN Ringrazio vivamente.
VARIA (imbarazzata ma scherzando) Chiedo scusa!
LOPACHIN Di niente. Ringrazio umilmente per la bella accoglienza.
VARIA Non c’è di che. (Si allontana, guardandosi attorno e domandando
con tono dolce) Non le ho fatto male?
LOPACHIN No, non m’ha fatto niente. Mi verrà soltanto un bel bernoccolo.

Voci dalla sala: «È arrivato LOPACHIN! LOPACHIN!».

PISC’CIK Chi non muore si rivede… (Bacia Lopachin) Sai un po’ di


cognac, mio caro, amore mio. Ma anche noi qui stiamo festeggiando.

Entra LIUBOV ANDRIEIEVNA.

LIUBA È lei, Lopachin? Come mai così tardi? Dov’è Leonida?


LOPACHIN II signor Gaiev è tornato con me, è qui che viene…
LIUBA (con agitazione) E allora? L’han fatta l’asta? Insomma, parli.
LOPACHIN (imbarazzato, preoccupato di non fare vedere la propria
gioia) L’asta è finita alle quattro… Noi abbiamo perso il treno, e
abbiamo dovuto aspettare fino alle nove e mezza. (Sospira
profondamente) Uff! Ho la testa che mi gira un po’…

Entra GAIEV, con un pacchettino nella destra, con la sinistra si asciuga gli
occhi.

LIUBA Lienia, cosa c’è? Lienia, e allora? (Con impazienza, commossa) Fa


presto, per l’amor di dio…
GAIEV (non le risponde, fa solo un gesto con la mano; a Firs,
piangendo) Tieni… Sono un po’ di acciughe, e delle aringhe… Oggi
non ho mangiato niente… Quanto ho sofferto!

La porta che conduce alla sala del biliardo è aperta; si sentono il rumore
delle biglie e la voce di IASCIA: «Sette e diciotto!». GAIEV muta espressione,
ora non piange più.

Sono terribilmente stanco. Firs, aiutami a cambiarmi. (Traversa la sala


verso la propria camera, seguito da Firs)
PISC’CIK Com’è andata l’asta? Racconta, su!
LIUBA L’hanno venduto il giardino dei ciliegi?
LOPACHIN Venduto.
LIUBA Chi ha comprato?
LOPACHIN Io ho comprato.

Pausa
LIUBOV ANDRIEIEVNA è annichilita: cadrebbe a terra, se non si trovasse
accanto a una poltrona e ad un tavolo. VARIA si stacca il mazzo di chiavi
dalla cintura, lo getta per terra, al centro del salotto, ed esce.

Io ho comprato! Un momento, signori, fatemi la cortesia, ho una tal


confusione in testa, che non riesco neanche a parlare… (Ride) Arriviamo
all’asta, e lì c’è Deriganov. Leonida Gaiev aveva solo quindicimila rubli,
e Deriganov al primo colpo ne offre subito trentamila oltre l’ipoteca. Mi
rendo conto di come stanno le cose, mi metto in gara con lui, alzo a
quaranta. Lui quarantacinque. Io cinquantacinque. Lui, insomma,
aumenta di cinque, io di dieci… E si arriva alla fine. Oltre all’ipoteca, io
offro novantamila, e me lo aggiudico. E adesso il giardino dei ciliegi è
mio! Mio! (Scoppia a ridere) Dio mio, signori, il giardino dei ciliegi è
mio! Ditemi che sono ubriaco, che sono fuori di testa, che tutto questo è
solo una mia illusione… (Batte i piedi) Ma non ridete di me. Se mio
padre e mio nonno potessero venir fuori dalla tomba e vedere quel che
sta succedendo, che il loro Iermolai, quello delle bastonate, Iermolai il
semi-analfabeta, che d’inverno andava in giro scalzo, proprio quello
Iermolai lì, ha comprato una tenuta che così bella al mondo non ce n’è
un’altra. Ho comprato la terra dove mio padre e mio nonno erano servi,
dove non gli era permesso neanche entrare in cucina. Io sto sognando,
questo è soltanto un miraggio, una mia illusione… Frutto
d’immaginazione anche per voi, avvolti nel buio dell’ignoto…
(Raccoglie le chiavi, sorride con tenerezza) Ha buttato via le chiavi, per
dire che adesso non è più lei la padrona di casa… (Fa tintinnare le
chiavi) Ma questo non c’entra.

Si sente l’orchestrina che accorda gli strumenti.

Ehi, signori musicisti, suonate, ho voglia di sentirvi suonare! Venite tutti


a vedere, come calerà sul giardino dei ciliegi la scure di Iermolai
Lopachin, come cadranno gli alberi a terra! Costruiremo case, noi, e i
nostri nipoti e pronipoti vedranno qui una nuova vita… Musica, via con
la musica!

L’orchestra suona. LIUBOV ANDRIEIEVNA si è abbandonata su una sedia e


piange in silenzio.

(Con tono di rammarico) Ma perché, perché non mi ha dato retta?


Povera cara, buona signora mia, adesso non si può più tornare indietro.
(Con commozione) Oh, se tutto questo fosse già passato, se potessimo
chissà come cambiare la nostra assurda, infelice vita.
PISC’CIK (lo prende sottobraccio, a mezza voce) Piange. Andiamo di là in
sala, lasciamola sola… Andiamo… (Lo prende sottobraccio ed esce
verso la sala)
LOPACHIN Che cos’è questa roba? Musica, un po’ più d’energia! Si deve far
tutto come voglio io! (Con ironia) È arrivato il nuovo signore, il padrone
del giardino dei ciliegi! (Ha urtato inavvertitamente un tavolino, e quasi
rovescia un candelabro) Posso pagare tutto quanto! (Esce con Pisc’cik)

In sala e in salotto non c’è più nessuno, ad eccezione di LIUBOV


ANDRIEIEVNA, che siede, tutta rannicchiata, e piange amaramente.
L’orchestra suona piano. Entrano in fretta ANIA e TROFIMOV. ANIA si
avvicina alla madre e le si inginocchia accanto. TROFIMOV rimane accanto
alla porta che conduce in sala.

ANIA Mamma!… Mamma, tu piangi! Dolce, buona, brava mamma mia,


mia mamma bellissima, io ti voglio bene… io ti benedico. Il giardino dei
ciliegi l’hanno venduto, è vero, ma non piangere, mamma, hai ancora la
tua vita davanti, hai ancora la tua anima buona e pura… Andiamo via
insieme, andiamo, mamma cara, via di qua, andiamo!… Noi pianteremo
un giardino nuovo, ancora più rigoglioso di questo, tu lo vedrai, capirai,
e una gioia, serena, una grande profonda gioia scenderà sulla tua anima,
come il sole al tramonto, e tu tornerai a sorridere, mamma! Andiamo via,
cara! Andiamo via!…

Sipario
1
Danza caucasica, del Daghestan. N.B. Secondo Guerrieri, Liuba canta la sua battuta su quell’aria.
2
Non è che Firs dica questo di Trofimov. «Buon da niente» è quello che Firs dice dei servi che
dipendono da lui. Liuba raccoglie l’espressione e la calca, a sisignificare – con tutta probabilità –
«impotente».
ATTO QUARTO

La scena del primo atto. Non ci sono né tende alle finestre né quadri,
restano alcuni mobili che sono stati raccolti in un angolo come per essere
venduti. C’è un’impressione di vuoto. Accanto alla porta che conduce
all’esterno e sul fondo della scena sono raccolti pacchi, valigie eccetera. La
porta a sinistra è aperta, e di là si sentono le voci di VARIA e di ANIA.
LOPACHIN è in piedi e aspetta. IASCIA ha in mano un vassoio con dei bicchieri
di champagne. IEPICHODOV sta legando una cassa in anticamera. Dal fondo,
dietro la scena, un brusio. Sono i contadini venuti a salutare. La voce di
GAIEV: «Grazie, fratelli, grazie a voi».

IASCIA Il popolino è venuto a salutarci. Io sono di questa opinione, signor


Lopachin: il popolo è buono ma capisce poco.

Il brusio sale, si fa più forte. Entrano attraverso l’anticamera LIUBOV


ANDRIEIEVNA e GAIEV. Lei non piange, ma è pallida, è scossa da un tremito,
non riesce a parlare.

GAIEV Gli hai dato tutto il portafogli, Liuba. Non è possibile! Non è
possibile!
LIUBA Non ce l’ho fatta! Non ce l’ho fatta!

Escono tutti e due.

LOPACHIN (sulla soglia, verso di loro) Vogliano favorirmi, prego! Un


piccolo brindisi prima di lasciarci. Di portarlo dalla città non ci ho
pensato, e in stazione ho trovato solo una bottiglia. Prego!
Pausa
E allora, signori! Non vi va? (Si stacca dalla porta) Se lo sapevo, facevo
a meno di comprarlo. E va bene, non brindo neanch’io.

IASCIA posa con cautela il vassoio su una sedia.

Bevitelo almeno tu, Iascia.


IASCIA A quelli che partono! E buona permanenza! (Beve) Questo non è
champagne autentico, glielo posso garantire.
LOPACHIN Otto rubli una bottiglia.

Pausa
Qui fa un freddo del diavolo.
IASCIA Oggi non hanno riscaldato, tanto partono tutti. (Ride)
LOPACHIN Che cos’hai?
IASCIA Sono contento.
LOPACHIN Siamo in ottobre, ma il tempo è limpido e calmo come d’estate.
Buono per costruire! (Dopo aver guardato l’orologio, sulla soglia)
Signori, tenete presente che al treno mancano solo quarantasei minuti!
Vuol dire che tra venti minuti bisogna uscire di qui per la stazione.
Cercate di sbrigarvi.

TROFIMOV, in cappotto, entra dall’esterno.

TROFIMOV Direi che è già l’ora di andare. I cavalli son pronti. Lo sa il


diavolo dove sono le mie calosce. Sono sparite. (Sulla soglia) Ania, non
ci son più le mie calosce! Non le trovo!
LOPACHIN Io devo andare a Charcov. Parto con voi, con lo stesso treno. A
Charcov passerò tutto l’inverno. Qui con voi ho fatto anch’io il poltrone,
ma a non far niente mi stanco. Non so stare senza lavorare, non so dove
mettere le mani; me le vedo qui addosso, cose strane, come se neanche
fossero mie.
TROFIMOV Adesso ce ne andiamo, così tu riprenderai il tuo proficuo lavoro.
LOPACHIN Un po’ di champagne.
TROFIMOV Non bevo.
LOPACHIN Allora, vai a Mosca?
TROFIMOV Sì, li accompagno in città, e domani a Mosca.
LOPACHIN Sì… Scommetto che i professori non fanno neanche lezione,
probabilmente aspettano tutti che tu arrivi.
TROFIMOV Tu non pensarci.
LOPACHIN Quanti anni sono che sei all’università?
TROFIMOV Perché non trovi qualcosa di nuovo? Questa è vecchia e fiacca.
(Cerca le calosce) Senti, noi è probabile che non ci si veda più, quindi
permettimi che nel momento dell’addio ti dia un consiglio: non
gesticolare tanto con le mami. Togliti questo vizio: gesticolare. E anche
tutto questo costruire villette, e calcolare che col tempo tutti questi
villeggianti diventeranno piccoli proprietari, anche tutto questo vuol dire
gesticolare… Comunque, sia come si sia, io ti voglio anche bene. Hai
delle dita fini, delicate come quelle di un artista, hai un’anima fine,
delicata…
LOPACHIN (lo abbraccia) Addio, carissimo. Grazie di tutto. E se ne hai
bisogno, lascia che ti dia un po’ di soldi per il viaggio.
TROFIMOV Che cosa me ne faccio? Non ne ho bisogno.
LOPACHIN Ma se non ne hai!
TROFIMOV E invece sì. Ti ringrazio. Mi han pagato una traduzione. Ce li ho
qui, in tasca. (Preoccupato) Son le calosce che non trovo!
VARIA (dall’altra stanza) Eccole qua, quelle schifezze!
TROFIMOV Perché s’arrabbia tanto, Varia? Uhm… ma queste non sono le
mie calosce!
LOPACHIN Io la primavera scorsa ho seminato a papaveri diecimila pertiche,
e adesso ci ho guadagnato quarantamila rubli puliti. Ma quando i miei
papaveri erano in fiore, sembrava un quadro! Quindi, dico io, siccome ho
guadagnato quarantamila rubli, se mi offro di darti qualcosa in prestito, è
chiaro che posso farlo. Perché devi storcere il naso? Sono un
contadino… alla buona.
TROFIMOV Tuo padre faceva il contadino, il mio il farmacista, ma questo
non comporta proprio niente.

LOPACHIN tira fuori il portafogli.

Lascia stare, lascia stare… Se anche volessi darmi duecentomila rubli,


non li accetterei. Io sono un uomo libero. E tutto quello a cui voi tutti,
ricchi e poveri, date un valore così grande e importante, non esercita su
di me il minimo potere, è come un po’ di polvere che gira nell’aria. Io
non ho bisogno di voi, vi guardo e passo oltre, io sono forte e orgoglioso.
L’umanità si muove verso la verità più alta, verso la felicità più alta che
siano ottenibili su questa terra, e io sono nelle prime file!
LOPACHIN Ci arriverai?
TROFIMOV Ci arriverò.

Pausa
Ci arriverò o farò vedere agli altri la strada per arrivarci.

Si sentono in lontananza dei colpi di scure su un albero.

LOPACHIN Beh, addio, carissimo. È ora d’andare. Noi due storciamo un po’
il naso l’uno di fronte all’altro, ma la vita intanto va avanti per conto suo.
Quando io lavoro dalla mattina alla sera, senza respiro, allora i miei
pensieri diventano più leggeri, e mi sembra di vederlo chiaro anch’io
qual è lo scopo della mia esistenza. Eppure, fratello, c’è un sacco di
gente in Russia che esiste senza sapere a che scopo. Ma è chiaro
comunque che non è questo che fa girare il mondo. Il signor Gaiev,
dicono, ha trovato un posto, andrà in banca, seimila rubli all’anno…
Solo che non dura, è troppo pigro…
ANIA (sulla soglia) La mamma la prega, finché non è partita, di non far
tagliare gli alberi.
TROFIMOV Davvero, possibile non avere un po’ di tatto… (Esce verso
I’anticamera)
LOPACHIN Subito, subito… Ma che gente, è vero! (Esce dietro di lui)
ANIA Firs è stato mandato all’ospedale?
IASCIA Io stamattina gliel’ho detto. Penso che ce l’abbiano mandato.
ANIA (a Iepichodov, che sta traversando la sala) Iepichodov, chieda per
favore, se hanno portato Firs all’ospedale.
IASCIA (impermalosito) Gliel’ho detto io stamattina a Iegor. Cosa serve
domandarlo dieci volte!
IEPICHODOV II venerando Firs, secondo la mia conclusiva opinione, non è
più utilmente rabberciabile, ormai deve ricongiungersi ai suoi antenati. E
io posso soltanto invidiarlo. (Mette giù una valigia sopra una
cappelliera, che si rompe) Visto, ecco, certo. Lo sapevo. (Esce)
IASCIA (sarcastico) Cento disgrazie…
VARIA (sulla soglia) Firs l’hanno portato all’ospedale?
ANIA L’hanno portato.
VARIA E perché non han preso anche la lettera per il dottore?
ANIA Bisogna mandargliela subito… (Esce)
VARIA (dalla camera accanto) Dov’è Iascia? Ditegli che è venuta qui sua
madre, che vorrebbe salutarlo.
IASCIA (un gesto con il braccio) Ti fan proprio perdere la pazienza!

DUNIASCIA nel frattempo si è data da fare attorno ai bagagli; ora che IASCIA è
solo, gli si avvicina.

DUNIASCIA Mi avesse degnato almeno di un’occhiata, Iascia. Lei parte…


mi abbandona… (Piange e gli si aggrappa al collo)
IASCIA Cosa piangi a fare? (Beve champagne) Tempo sei giorni sarò di
nuovo a Parigi. Domani prendiamo l’espresso e ce ne andiamo, e chi s’è
visto s’è visto. Non mi par neanche vero. Vive la France!… Qui non è
per me, io qui non riesco a viverci… non c’è niente da fare. Ne ho fin
sopra gli occhi di questi selvaggi – io ho chiuso. (Beve champagne) Cosa
piangi a fare? Comportati bene, e non avrai da piangere.
DUNIASCIA (si incipria, guardandosi in uno specchietto) Mi mandi una
lettera da Parigi. Perché io l’ho amato, Iascia, l’ho amato tanto! Io sono
un essere sensibile, Iascia!
IASCIA Vien gente. (Si occupa delle valigie, e canticchia a bassa voce)

Entrano LIUBOV ANDRIEIEVNA, GAIEV, ANIA e CHARLOTTA IVANOVNA.

GAIEV Bisognerebbe avviarsi. Ormai manca poco. (Guardando lascia) Chi


è che manda questo odore di aringa?
LIUBA Tra dieci minuti dobbiamo essere in carrozza… (Abbraccia con uno
sguardo la stanza) Addio, dolce casa, mia vecchia casetta. Passerà
l’inverno, verrà la primavera, e tu non ci sarai più, t’avran demolita.
Quante cose hanno visto questi muri! (Bacia con trasporto la figlia)
Tesoro mio, tu sei raggiante, i tuoi occhi scintillano come due diamanti.
Sei contenta? Davvero?
ANIA Davvero! Comincia una nuova vita, mamma!
GAIEV (allegramente) In effetti, adesso tutto va bene. Prima che ci
vendessero il giardino dei ciliegi eravamo tutti nervosi, stavamo male,
una volta risolta la questione, in modo definitivo, irrevocabile, tutti
siamo diventati calmi, perfino allegri… Io sono un funzionario di banca,
ora sono un finanziere… la gialla in mezzo, e tu, Liuba, sia come si sia,
hai un aspetto migliore, non c’è dubbio.
LIUBA Sì. I miei nervi vanno meglio, questo è vero.

Qualcuno le porge cappello e cappotto.

Dormo bene. Porti fuori i miei bagagli, Iascia. È ora. (Ad Ania) Bambina
mia, presto ci rivedremo… Io vado a Parigi, vivrò con i soldi che tua
nonna di Jaroslav ci aveva mandato per pagare l’ipoteca sulla proprietà –
alla tua salute, nonna! – ma son soldi che non dureranno molto.
ANIA Tu, mamma, torni presto, presto… non è vero? Io mi preparerò bene,
darò gli esami al ginnasio, e poi mi metterò a lavorare, ti aiuterò. Noi,
mamma, leggeremo insieme tanti libri… non è vero? (Le bacia le mani)
Di sera, d’autunno, ci metteremo lì a leggere, e saran molti libri, e
davanti a noi si aprirà un nuovo, meraviglioso mondo… (Sognante)
Mamma, torna….
LIUBA Torno, tesoro mio d’oro. (La abbraccia)

Entra LOPACHIN, CHARLOTTA canticchia piano una canzoncina.

GAIEV Charlotta è felice: canta!


CHARLOTTA (ha in mano un fagotto, come fosse un bambino in fasce) Fa la
nanna bel bambino…

Si sente il pianto del bambino: «Uhè, uhè!…».

Sta buono, amore mio, dolce piccolino mio…


«Uhè!… Uhè!…»

Mi fai così pena! (Rimette il fagotto al suo posto) E allora voi, per
piacere, trovatemi un posto. Io non posso restare così.
LOPACHIN Lo troveremo, signorina Charlotta, non si preoccupi.
GAIEV Tutti ci abbandonano, Varia se ne va… tutto ad un tratto nessuno ha
più bisogno di noi.
CHARLOTTA In città non saprei dove vivere. Ma di qui bisogna andare…
(Canticchiando) Non importa…

Entra PISC’CIK.

LOPACHIN Miracolo della natura!…


PISC’CIK (ansimando) Ohi, lasciatemi rifiatare… sono sfinito… Signori
miei rispettabilissimi… Datemi un po’ d’acqua…
GAIEV Sempre in cerca di soldi? Servo vostro umilissimo, me ne vado a
scanso di peggio… (Esce)
PISC’CIK È un bel po’ che non vengo qui da voi… mia meravigliosa… (A
Lopachin) Qui anche tu… piacere di vederti… uomo di grande
ingegno… te’… prendi… (Gli porge del danaro) Quattrocento rubli…
Ne avanzi ancora ottocentoquaranta.
LOPACHIN (senza capire, stringendosi nelle spalle) Ma questo è un sogno…
Dove li hai presi?
PISC’CIK Aspetta… Ho caldo… Un evento straordinario. Sono venuti da me
degli inglesi e han trovato nel mio terreno una specie di argilla bianca…
(A Liubov Andrieieuna) E quattrocento anche a lei… bellissima,
mirabile… (Le dà dei soldi) Il resto un’altra volta. (Beve l’acqua) Oggi,
in treno, un giovanotto raccontava che c’è un tale… un grande filosofo,
che consiglia di buttarsi giù dal tetto… «Buttati giù!», dice, che il
problema è tutto qui. (Stupito) Ma tu pensa! Acqua!…
LOPACHIN Ma che inglesi erano?
PISC’CIK Gli ho dato in affitto il terreno con argilla per ventiquattr’anni…
Ma adesso, chiedo scusa, non ho tempo… devo correre via… Devo
andare da Snoikov… da Kardamonov… Devo qualcosa a tutti…. (Beve)
Tanti auguri di buona salute… Ci vediamo giovedì…
LIUBA Noi adesso andiamo in città, e io domani parto per per l’estero…
PISC’CIK Cosa? (Con agitazione) Come sarebbe a dire, in città? Ecco
perché ho visto i mobili… e le valige… Beh, non importa…
(Commosso) Non importa… Gente di enorme ingegno… questi inglesi…
Non importa… Siate felici. Che dio vi aiuti… Non importa… Tutto a
questo mondo arriva a una fine… (Bacia le mani a Liubov Andrieievna)
E se mai sentirere dire che anch’io sono arrivato alla fine, ricordatevi di
questo povero… cavallo e dite: «C’era una volta al mondo un tipo fatto
così e così… Simeonov-Pisc’cik… pace all’anima sua»… Fuori è una
bellissima giornata… Sì… (Esce in estrema agitazione, ma subito torna
indietro e dalla soglia dice) Tanti saluti dalla mia Dascenka! (Esce)
LIUBA Ormai possiamo proprio andare. Parto con due preoccupazioni. La
prima è Firs, con la sua salute. (Dopo aver guardato l’orologio)
Abbiamo ancora cinque minuti…
ANIA Mamma, Firs l’hanno già mandato all’ospedale. Ci ha pensato Iascia
stamattina.
LIUBA La mia seconda spina è Varia. Lei è abituata ad alzarsi presto e a
lavorare, e senza lavoro è come un pesce fuor d’acqua. È dimagrita, è
pallida, e piange, poverina.…
Pausa
Lei questo lo sa benissimo, Lopachin; io ho sempre sognato… di
dargliela in moglie, e poi da tutto si capiva che vi sareste sposati.
(Sussurra qualcosa ad Ania, che fa un cenno a Charlotta, ed escono tutte
e due) Varia è innamorata di lei, a lei piace, e io non so, non so proprio
perché voi sembra che vi evitiate l’un l’altro. Non capisco!
LOPACHIN Non capisco neanch’io, lo confesso. È una cosa strana… Ma se
siamo ancora in tempo, io sono qui pronto… Combiniamo… e
facciamola fuori, ma senza di lei, io lo sento, non riuscirò mai a farle la
domanda.
LIUBA Ma va benissimo. Non credo che occorra più di un minuto… Vado
subito a chiamarla…
LOPACHIN Abbiamo anche lo champagne. (Guardando i bicchieri) Vuoti,
qualcuno se l’è bevuto.

IASCIA tossicchia.
Questo si chiama sbevazzare…
LIUBA (con animazione) Perfetto. Noi ce ne andiamo… Iascia, allez! Vado
a chiamarla… (Sulla soglia) Varia, lascia stare tutto, e vieni qui. Corri!
(Esce con Iascia)
LOPACHIN (guardando l’orologio) Sì…

Pausa
Dietro alla porta un riso represso, poi finalmente entra VARIA.

VARIA (con gli occhi ispeziona a lungo i bagagli) Strano, non riesco a
trovare…
LOPACHIN Che cosa cerca?
VARIA L’ho portata io, ma non mi ricordo dove l’ho messa.

Pausa
LOPACHIN E lei adesso dove va, signorina Varia?
VARIA Io? Dai Ragulin… Ho combinato con loro che vado a occuparmi
della casa… come governante, più o meno.
LOPACHIN A Iasc’nievo, no? Saranno un settanta verste.

Pausa
Ecco che è finita la vita in questa casa…
VARIA (guardando i bagagli) Ma dov’è… O forse l’ho messa nel baule…
Sì, la vita in questa casa è finita… non ci sarà più niente…
LOPACHIN Io adesso invece vado a Charcov… col vostro stesso treno. Ho
un sacco di lavoro. Qui ci lascio Iepichodov… L’ho preso con me.
VARIA Bene!
LOPACHIN L’anno scorso, in questo periodo, c’era già la neve, non so se se
lo ricorda, adesso invece è sereno, c’è il sole. Solo che fa freddo…
Siamo a tre sotto zero.
VARIA Non ho guardato.

Pausa
E poi il nostro termometro è rotto…
Pausa
Una voce dal cortile: «Signor Lopachin!».
LOPACHIN (come se da tempo stesse aspettando questa chiamata) Subito!
(Esce in fretta)

VARIA, seduta sul pavimento, singhiozza piano, con la testa appoggiata su un


pacco. Si apre la porta, ed entra con circospezione LIUBOV ANDRIEIEVNA.

LIUBA E allora?

Pausa

Bisogna andare.
VARIA (già non piange più, si asciuga gli occhi) Sì, mamma, è ora. Io dai
Ragulin faccio in tempo ad andarci oggi, basta che non perda il treno…
LIUBA (sulla soglia) Ania, preparati!

Entrano ANIA, poi GAIEV e CHARLOTTA IVANOVNA. GAIEV indossa un cappotto


con cappuccio. Accorrono servi e cocchieri. Attorno ai bagagli si dà da fare
IEPICHODOV.

Ora possiamo metterci in marcia..


ANIA (gioiosamente) In marcia!
GAIEV Amici miei, miei cari, amati amici miei! Nel mentre per sempre
lasciamo questa casa, posso io forse tacere, posso io rinunciare ad
esprimere nel momento degli addii quei sentimenti che pervadono ora
tutto il mio essere…
ANIA (con tono supplichevole) Zio!
VARIA Caro zio, lasci stare!
GAIEV (malinconicamente) Doppia sponda e gialla al centro… Sto zitto…

Entra TROFIMOV, e poi LOPACHIN.

TROFIMOV E allora, signori, è ora di andare!


LOPACHIN Iepichodov, il mio cappotto!
LIUBA Io resto qui ancora un minuto. È come se finora non avessi mai visto
come sono i muri di questa casa, i suoi soffitti, e adesso invece vorrei
mangiarli con gli occhi, li guardo con tanto tenero amore…
GAIEV Mi ricordo che avevo sei anni, era la festa della Trinità, e io ero
seduto su quella finestra, e ho visto mio padre che usciva per andare in
chiesa…
LIUBA Han preso tutti i bagagli?
LOPACHIN Direi di sì. (A Iepichodov; infilandosi il cappotto) Iepichodov,
guarda tu che sia tutto a posto.
IEPICHODOV (parla con voce rauca) Stia tranquillo, signor Lopachin!
IEPICHODOV Ho bevuto un po’ d’acqua, m’è andato qualcosa di traverso.
LASCIA (con disprezzo) Che selvaggi…
LIUBA Noi partiamo – e qui non resta anima viva…
LOPACHIN Fino a primavera.
VARIA (tira fuori da un pacco un ombrellino, e pare quasi che voglia usarlo
per colpire qualcuno; Lopachin finge un’espressione
spaventata) Calma, calma… Non volevo dir questo.
TROFIMOV Signori, bisogna salire in carrozza… È ora di andare! Al treno
manca poco!
VARIA Pietia, eccole qui le tue calosce, vicino alle valige. (Con le lacrime
agli occhi) Guarda che sporche, che vecchie che sono…
TROFIMOV (infilandosi le calosce) Andiamo, signori!…
GAIEV (molto turbato, trattenendosi dal piangere) Il treno… la stazione…
Croisée al centro, la gialla nell’angolo…
LIUBA Andiamo!
LOPACHIN Ci siamo tutti? Non c’è più nessuno? (Chiude a chiave la porta
laterale sinistra) Le cose son state messe tutte qui, di là meglio chiudere.
Andiamo!…
ANIA Addio, casa! Addio, vecchia vita!
TROFIMOV Salute a te, vita nuova!… (Esce assieme ad Ania)

VARIA abbraccia con lo sguardo la stanza ed esce senza fretta. Escono IASCIA
e CHARLOTTA con il cagnolino.

LOPACHIN Allora, a primavera. Uscite, signori… Arrivederci!… (Esce)

LIUBOV ANDRIEIEVNA e GAIEV restano soli. Come se avessero aspettato


questo momento si gettano nelle braccia l’uno dell’altra, e scoppiano in un
pianto trattenuto, sommesso, nel timore che gli altri li sentano.

GAIEV (con disperazione) Sorella mia, sorella mia…


LIUBA Oh mio dolce, mio tenero, mio bellissimo giardino!… Mia vita, mia
giovinezza, felicità mia, addio!… Addio…

La voce di ANIA, allegramente, chiamando: «Mamma!…».


La voce di TROFIMOV, allegramente, sollecitando: «Iuhù!…».

LIUBA Per l’ultima volta guardare i muri, le finestre… In questa stanza


piaceva tanto passeggiare alla povera mamma…
GAIEV Sorella mia, sorella mia! …

La voce di ANIA: «Mamma!…».


La voce di TROFIMOV: «Iuhù!…».

LIUBA Veniamo!…

Escono.
La scena è vuota. Si sentono tutte le porte che vengono chiuse a chiave, e
poi le carrozze che partono. Ritorna il silenzio. Nel silenzio si sente il
rumore sordo della scure che cala su un albero, e che suona solitario e triste.
Si sentono dei passi. Sulla Porta, a destra, compare FIRS. Egli indossa, come
sempre, una giacca e un gilet bianco, e ai piedi ha delle pantofole. È malato.

FIRS (va fino alla porta, prova la maniglia) Chiuso. Partiti… (Siede sul
divano) Di me si son dimenticati…. Non importa… io mi siedo qui… E
vuoi vedere che sua signoria non ha neanche messo su la pelliccia, è
partito col soprabito… (Sospira con aria preoccupata) Io non ci ho
pensato… Gioventù scriteriata! (Borbotta qualcosa di incomprensibile)
La vita è passata, e io è come se non l’ho vissuta. (Si sdraia) Io mi sdraio
qui… Non c’hai più forza, non c’hai più niente, niente… Ah, sei un buon
da niente!… (Resta immobile)
Si sente da lontano, come venisse dal cielo, il rumore metallico di un
cavo che si spezza, morente, melanconico. Poi di nuovo il silenzio, nel
quale si sente soltanto, da lontano, nel giardino, la scure che cala su un
albero.

Sipario
DAGLI APPUNTI
PER «IL GIARDINO DEI CILIEGI»
DI GIORGIO STREHLER

14 gennaio 1974

Nella camera dei bambini del primo atto ci sono «le cose» che
appartenevano all’infanzia di Liubov e Gaiev. Le battute di Liubov non
lasciano dubbio in proposito. L’indicazione di Cechov è: la camera che è
«ancora» chiamata la camera dei bambini. E in quell’«ancora» è racchiuso,
con estrema densità, il senso che probabilmente Cechov voleva dare a tutto
l’ambiente-scena-racconto-situazione. La chiamano «ancora» dei bambini,
quella stanza, ma non è più dei bambini, perché «bambini» non ce ne sono:
l’ultimo è morto cinque anni prima ed era il bambino di Liubov. Ania ha «la
sua stanza», anche se è ancora quasi bambina, ma l’infanzia vera e propria è
finita in quella stanza, appartiene al passato. In realtà la stanza era solo
quella dei bambini Gaiev e Liubov.
Così credo sia necessario individuare alcune «cose» tipiche rimaste:
cioè plausibili ma che abbiano la stessa risonanza della «didascalia». Infatti
se noi osserviamo le «scene» delle diverse edizioni del Giardino da quella
del 1904 all’ultima di Visconti, tra le quali c’è anche quella di Giorgio
Strehler, in tutti i paesi, compresa la Cecoslovacchia, che sembra abbia oggi
un poco il monopolio della «riscoperta» di un Cechov «diverso» da
Stanislavskij, ci accorgiamo che se non lo si dice, nessuno può capire che
quella «era» ed «è» nonostante tutto la camera dei bambini. Si vede una
«stanza» qualsiasi, più o meno ben fatta, più o meno realistica o
semplicizzata ma il sentimento plastico dell’infanzia non c’è.
È probabile che la stanza sia stata usata, nel tempo, dopo i bambini,
come camera di passaggio. Infatti i personaggi passano, entrano quasi per
caso nella stanza. Liubov dorme altrove, Gaiev anche, Ania pure. La stanza
non serve più. E può essere una specie di vasta anticamera spoglia ma che
porta la traccia dei bambini di un tempo. Qualche mobile rimasto immobile,
mentre i bambini sono diventati vecchi.
Due banchi di scuola, piccoli, dipinti di bianco. Là, i «bambini», fratello
e sorella, facevano i compiti, un tavolino laccato, nano, e qualche seggiolina
e due poltroncine per un salottino «da gioco». Uno scaffale con la lanterna
magica a petrolio e qualche giocattolo restato lì, per caso. E un servizio per
giocare alla cucina o al «pranzo» di Liubov. Una piccola bilancina di latta
per «giocare al commercio», la credenzina con i cassettini per le spezie e un
servizio da caffè e tè, minuscolo. Ma c’è anche un divanone per grandi. E
c’è un armadio-mamma, da un lato, grandissimo, bianco a specchio dentro,
semplice, ma misterioso.
Gaiev e Liubov ritroveranno a poco a poco la loro infanzia perduta non
«soltanto» guardando il giardino nell’alba. Ma vivendo tra i fantasmi rimasti
di un’infanzia sepolta. Finiranno anche per sedere nei banchi, a malapena,
rannicchiati e parlarsi così. Gaiev si sporcherà le dita d’inchiostro come una
volta e Liubov peserà, lo zucchero con la bilancina e verserà un po’ di tè o
caffè nelle tazzine e giocherà con se stessa e con Gaiev, servendo tutto su
una guantierina di latta dipinta. Siederanno anche intorno al tavolino nano,
per un gioco impossibile che culminerà con lo spalancarsi dell’armadio che
incautamente Gaiev avrà battuto e poi aperto girando la chiave, nel suo
sermone sul passato. Perché dentro l’armadio c’è troppa roba stipata alla
rinfusa, che precipiterà in scena come una tenera e lancinante valanga, con
polvere e strass e piume e cappelli e veli e nastri e scarpe e scatole e
marinarette blu e tanto tanto altro, scatole con palle di natale che rotolano e
poi si rompono, carte e lettere e infine la carrozzina cromata di tela cerata
nera, come una piccola bara che correrà da destra a sinistra, sull’avanscena
per poi investire Liubov ignara ancora che si trova la carrozzina del suo
bambino, addosso. E allora, là Liubov piangerà in silenzio. E la stanza
apparirà allora come una specie di cimitero del tempo in cui invano Varia e
anche Liubov e Gaiev poi durante una parte della scena tenteranno di
mettere ordine. Senza riuscirci. Forse finiranno per sedersi per terra sui
vecchi vestiti, cappotti e una coperta di pelo, una volta bellissima, ora
smunta ma ancora morbida da accarezzare e farvisi su dentro. E Ania si
addormenterà così o in mezzo a tanto passato, anche lei a terra, dolcemente
o su un banco piccolo di scuola, senza accorgersi quasi e si farà portar via
così, mentre la luce invade quel terribile e dolce vuoto.

15 gennaio

Il primo atto: la camera dei bambini, i mobili da bambini, i banchi di scuola,


dove Gaiev e Liubov hanno fatto i compiti, e il grande armadio-mamma-
memoria, pieno di tutta una vita, o tante vite. La carrozzina nera, di tela
cerata e cromata, del bambino morto, che rotola fuori per prima quando
Gaiev nella sua predica batte l’armadio con le mani e ne apre le ante.
Dall’armadio esce la carrozzina che traballando rotola e si ferma dalla parte
opposta vicino a Liubov, e scendono, precipitano fuori valanghe di cose,
scarpe, un abito da marinaretto con cappello coi nastri, e impermeabili, e
mantelli, e sacchi, e libri, e fogli di carta, e cappelli, e tanto altro: il cimitero
delle vite che passano.
Nel secondo atto: un fondale, lontano, e il trenino-giocattolo che
percorre il fondale da una parte all’altra, poi esce in quinta e rientra alla
ribalta, rientra in quinta e riappare nel fondale, con piccole luci e vagoni di
latta e la carica meccanica, e traballa a metà tra giocattolo e memoria anche
lui, e finzione. Quando passa nel fondo, quasi invisibile, tra le montagne del
fondale meravigliosamente dipinte, o la pianura meravigliosamente dipinta.
I protagonisti giocano e non giocano ancora con l’oggetto dell’infanzia, in
un vuoto ove le parole risuonano…
Sull’avanscena, il mistero di quel giardino che non c’è e scende fino in
platea. Un sipario di luce attraverso il quale si vede tutto lo spettacolo.
Un’atmosfera luminosa, mobile, impalpabile; e nello stesso tempo quasi
densa, di polvere e sole e luna e vento, che muta e diventa notturna, e alba,
che diventa ora lirica, ora tragica e cupa. Se un telo grande e semplice
scendesse dal palco giù nella platea, come steso su un terreno morbido, un
ondeggiare di colline (forse il monte verde e scuro dei Giganti), portato
davanti e fin giù…

21 gennaio

L’idea di Cechov di far svolgere il primo e l’ultimo atto del Giardino nella
«camera dei bambini» non è casuale. Né lo è l’armadio, in quella stanza. È
strano che nessuno abbia mai dato l’importanza che merita a questa
evidente figura-simbolo: l’armadio di cent’anni.
A mio avviso l’idea dell’armadio, oggetto reale e plastico, e simbolo
appunto, integra perfettamente l’idea della «camera dei bambini», e cioè dei
giochi di una età ormai favolosa per i «vecchi». Proietta nella camera dei
bambini (oggetti, cose) un altro oggetto-cosa che prolunga il tempo della
stanza. Cioè, nella stanza dei bambini ci sono dei vecchi, e nella stanza c’è
anche una cosa ancora più vecchia, che rimanda ancora più indietro, ancora
più indietro di Firs che è il più vecchio. L’armadio è qualcosa di intermedio
fra la gente che agisce e il giardino, vero e presupposto o simbolico, che è
antichissimo. Il gioco del tempo viene così potenziato dall’armadio e ancora
non è un caso che Gaiev faccia quel lungo discorso proprio all’armadio. I
due termini, insomma, sono in una posizione plastico-dialettica di enorme
efficacia, purché di questo armadio si riesca a fare qualcosa di più di una
presenza relativa.
Non dimentichiamo che Cechov, ad esempio, dice in didascalìa: «Varia
apre l’armadio, che scricchiola». Cechov non scrive mai una didascalìa a
caso. Qui c’è dunque un’indicazione comica, di una cosa «antica», penosa,
che fa fatica, che evoca il senso del tempo, e tanto altro.

29 gennaio

Il problema del «giardino» è fondamentale. Nessuno di noi è riuscito mai a


rendere poeticamente, simbolicamente e plasticamente questo giardino, che
rappresenta forse troppe cose insieme per poter essere «rappresentato»,
almeno sulla falsariga del naturalismo poi diventato realismo «poetico».
Le strade scelte o tentate di Svoboda e altri, cioè di una astrazione
simbolica non solo del giardino, ma di tutte le scene e di tutto Cechov,
hanno certo ottenuto talvolta risultati interessanti e anche pregnanti
poeticamente. Ma il problema è stato, per così dire, aggirato. Nonostante
tutto, quando il vecchio Pitoeff rappresentava il Giardino in un panorama di
velluto grigio con pochi mobili, e diceva che Cechov era so lo «atmosfera
di parole», faceva la stessa operazione, con maggiore ingenuità ma anche
con minore presunzione.
In realtà, noi oggi stiamo rendendoci conto che bisogna tentare di
rappresentare Cechov non sulla falsariga di Stanislavskij (e fu nostro
compito conquistare questa dimensione), ma su un altro versante: quello più
universale-simbolico, più aperto a sollecitazioni fantastiche; con il terribile
pericolo di ricadere in una specie di astrazione tutto fare, di togliere «ogni
significanza» alla realtà plastica di Cechov, cioè alle cose: che sono stanze,
tavoli, sedie, finestre, cose, e insomma soprattutto storia. Perché la storia è
«vista» dallo spettatore come ambiente, e come costumi e visi e capelli e
occhiali e colletti e altro. Occorre ovviamente anche il resto, e cioè la storia
dentro le cose e nei personaggi. Ma isolare un atto di Cechov in una «scena
astratta», in un vuoto simbolico, è togliere «realtà» plastica alla storia. È
come dire che questo si svolge oggi e sempre. Ora, il problema di Cechov è
sempre quello che io chiamo delle «tre scatole cinesi».
Ci sono tre scatole: una dentro l’altra, a stretto contatto, l’ultima
contiene la penultima, la penultima la prima.
La prima scatola è la scatola del «vero» (del possibile vero che in teatro
è il massimo vero), e il racconto è un racconto umano, interessante. Non è
vero, ad esempio, che il Giardino non ha una trama «divertente». È anzi
pieno di colpi di scena, pieno di avvenimenti, di trovate, di atmosfere, di
caratteri che mutano. È una storia umana bellissima, è un avventura umana
emozionante. In questa prima scatola si racconta dunque la storia della
famiglia di Gaiev e di Liubov, e di altri. Ed è una storia vera, che si colloca
certo nella storia, certo nella grande vita, ma il suo interesse sta proprio in
questo suo far vedere come vivono davvero i personaggi, e dove vivono. È
un’interpretazione-visione «realistica», simile ad una ottima ricostruzione
come la si potrebbe tentare in un film di atmosfera.
La seconda scatola invece è la scatola della Storia. Qui l’avventura della
famiglia è vista tutta sotto l’angolatura della storia, che non è assente nella
prima scatola, ma ne costituisce il sottofondo lontano, la traccia quasi
invisibile. Qui invece la storia non è solo «costume» o «oggetto»: è lo
scopo del racconto. Qui interessa di più il muoversi delle classi sociali in
rapporto dialettico tra di loro. Il mutamento dei caratteri e delle cose come
passaggi di proprietà. I personaggi sono certo loro stessi «gente umana»,
con precisi caratteri individuali, certi vestiti, e certi visi, ma rappresentano –
in primo piano – una parte dèlia Storia che si muove: sono la borghesia
possidente che sta morendo di apatìa e di assenza, la nuova classe
capitalistica che sale e si impadronisce, la nuova giovanissima imprecisa
rivoluzione che si annuncia, e così via. Qui stanze, oggetti, cose, vestiti,
gesti, pur mantenendo il loro carattere plausibile sono come «spostati» un
poco, sono «straniati» nel discorso e nella prospettiva della Storia.
Indubbiamente la seconda scatola contiene la prima, ma appunto per questo
è più grande. Le due scatole si completano.
La terza scatola è infine la scatola della vita. La grande scatola
dell’avventura umana; dell’uomo che nasce, cresce, vive, ama, non ama,
vince, perde, capisce, non capisce, passa, muore. È una parabola «eterna»
(per quanto di eterno possa esserci nel breve corso dell’uomo sulla terra). E
qui i personaggi sono visti ancora nella verità di un racconto, ancora nella
realtà di una storia «politica» che si muove, ma anche in una dimensione
quasi «metafisica», in una sorta di parabola sul destino dell’uomo. Ci sono i
vecchi, ci sono le generazioni di mezzo, ci sono i più giovani, ci sono i
giovanissimi, ci sono i padroni, i servi, i mezzi padroni, la tizia del circo,
l’animale, il ridicolo, e via dicendo, c’è una specie di paradigma dell’età
dell’uomo e degli uomini. La casa è «La casa», le stanze sono «Le Stanze
dell’uomo» e la storia diventa una grande parafrasi poetica da cui non è
assente il racconto, non è assente la storia, ma è tutta contenuta nella grande
avventura dell’uomo in quanto uomo, carne umana che passa.
Questa ultima scatola porta la rappresentazione sul versante «simbolico
e metafisico allusivo», non so trovare la parola esatta. Si decanta di molto
aneddoto, diventa molto più alta, si libra molto più in su.
Ogni scatola ha dunque la sua fisionomia e il suo pericolo. La prima il
pericolo della minuzia pedante, del «gusto» della ricostruzione (molto
Visconti) e del racconto visto dal «buco della serratura» e che si ferina quasi
lì. La seconda ha il pericolo dell’isolare i personaggi come emblemi di
storia, cioè raggelati in una posizione di pesi o di tematica storica (Marx,
critica a Schikingen, Lassalle, e via dicendo: ad esempio, lo «schi
nereggiare») cioè di togliere umanità vera ai personaggi per ergerli a
simbolica storica. Il vecchio studente non più «vecchio studente» perché è
così, ma perché la Storia vuole che ci sia un vecchio studente,
rappresentante di una parte oppressa, vecchio anzitempo perché ha sofferto
forse anche il carcere, rappresentante del mondo nuovo che sale con
incertezze e sussulti: è l’avvenire, c’è qualcosa di eroico e di positivo in lui,
molto più che di negativo. E Liubov e Gaiev sono teneri dilapidatori, ma
anche «viziosi»; sono i simboli di una classe decaduta (in una edizione
cecoslovacca Liubov si faceva palpare le cosce sotto le sottane dal servo
Iascia. E Duniascia – altro esempio – nell’ultimo atto era vistosamente
incinta, così via; qui magari in ossequio al pan-erotismo attuale, senza il
quale non si fa teatro moderno!). La scena è ancora quella di prima, ma già
più trasposta, più segnata come ambiente forse precario, vecchio e cadente a
pezzi, e altro.
La terza ha il pericolo di diventare solo «astratta». Solo metafisica.
Fuori quasi del tempo. Ambiente neutro. Un teatro coperto da un fondale di
un certo colore, con alcune cose dietro. (Ritorniamo a Pitoeff, magari con i
trucchi di materia di Svoboda: non cambia.) I personaggi qui sono vestiti,
certo ma appena «nel tempo»: essi tentano pittosto di diventare emblemi
universali, non so attraverso quali mezzi o metodi. Ma comunque tutta la
rappresentazione diventa astratta, simbolica, universale perdendo il peso
quasi terreno.
Ora, Il giardino dei ciliegi di Cechov è «tutte e tre le scatole», una
dentro l’altra. Insieme. Perché ogni grande poeta di ogni tempo si muove,
quando è veramente poeta, sui tre piani contemporaneamente; e questi tre
piani possono essere scissi solo per gioco o per studio, come l’entomologo
che seziona un essere vivente per studiarne alcune caratteristiche sotto vitro.
Perché l’essere vive, non è afferrabile nel suo movimento e non è
riconducibile a una delle sue caratteristiche. Bisogna prenderlo tutto
insieme, per saperlo. I poeti sanno, e ci danno figure eterne e contingenti, la
storia dialettica (rivoluzione e reazione, mondo vecchio e mondo nuovo) e
la storia dell’avventura umana che è anch’essa tutto, piccola cosa che
significa solo se stessa e il suo amore o dolore o gioia, e al tempo stesso
Storia, membro irriducibile ad altro di un suo contesto sociale, e nello
stesso tempo «essere umano» che porta avanti questa cosa strana, profonda,
misteriosa; sì, certo, anche misteriosa, che è la vita dell’uomo, dal primo
giorno a quello che sarà l’ultimo.
Una rappresentazione «giusta» dovrebbe darci sulla scena le tre
prospettive unite insieme, ora lasciandoci vedere meglio il moto di un cuore
o di una mano, ora facendoci balenare davanti agli occhi la storia, ora
ponendoci una domanda sul destino di questa nostra umanità che nasce e
deve invecchiare e morire, nonostante tutto il resto, Marx compreso. Una
scena «giusta» dovrebbe essere capace di vibrare come una luce che si
muove alle tre sollecitazioni…
6 febbraio

Il giardino vero e proprio è il punto di coagulazione della storia, è il suo


protagonista; ed è nel giardino che si trova, proprio per questo, l’enorme
difficoltà interpretativa.
Non farlo vedere, darlo per supposto, è un errore. Farlo vedere e sentire,
è un altro errore. Il giardino deve esistere, deve essere qualcosa che si vede
e si sente quasi (arrivo a pensare persino all’odore, o solo all’odore, per
gioco!), ma non può non essere «un tutto». Perché lì tutto si concentra.
Il giardino per me è in «primo piano». È attraverso il giardino che si
vede la storia. È uno schermo attraverso il quale, non deformato, si vede
tutto il resto. Nel modo più volgare è un sipario di velo, a giardino, che
funge da quarta parete, e si vede e non si vede. Ma ripeto, questo è un modo
volgare per chiarire un punto critico. Ma c’è anche di più. Non basta un
piano davanti, occorre qualcosa di più. È questo «qualcosa di più» che non
riesco per ora ad afferrare. Che mi sfugge tra le dita. Anche perché le
difficoltà, gli enigmi tecnici mi sono davanti e mi paralizzano quasi del
tutto…

11 febbraio

Atto terzo. Il biliardo. Continua l’immagine dei biliardo, al centro, per il


gioco: rumore di biglie che si toccano, che si deviano, entrano negli angoli,
abbattono birilli, vengono riprese, rimesse in gioco. Il biliardo mi risulta
come un’altra immagine tipica: l’armadio-mamma del primo e quarto atto.
Esso può essere: il caso, l’azzardo non totale, il senso del gioco della vita, il
conflitto, l’urto, lo scambio; e, sul piano realistico-naturalistico, il
«biliardo», strumento prediletto e, in un certo senso, manìa-rovina di Gaiev
e della famiglia. La famiglia ha giocato, gioca ancora con «la realtà della
vita». Spera nel caso, nella felice predisposizione del gioco, nel colpo
fortunato, e anche nell’abilità dell’habitué. Non a caso, anche qui Gaiev è
un «gran giocatore» di biliardo. Il biliardo è stato scelto a simbolo di altro
gioco: troppo comuni le carte, avrebbero potuto anche essere i cavalli e la
roulette. Ma forse è più straordinario l’essersi rovinato per il biliardo, o per
il biliardo-simbolo. Le carte potrebbero assolvere assai bene anche loro a
questo concetto simbolico-veristico, ma hanno una cosa in meno del
biliardo: non fanno rumore. Il rumore deve essere fatto dalle parole di chi
gioca. Le carte sono il caso silenzioso, unito all’abilità silenziosa. Il biliardo
«suona» da solo. Nel silenzio meglio ancora: si sentono le biglie correre,
urtarsi, combinarsi, muoversi, sfiorarsi per tornare poi in gioco. Si crea
immediatamente una simbologia non visiva ma sonora. Il visivo è dato
dall’elemento «giocatore», che punta la stecca e dà il colpo d’avvio, poi
aspetta il risultato. Ma la posizione delle biglie non è risultato della sola
abilità. È anche frutto del caso, il modo in cui esse si presentano all’altro
giocatore.
Per il Giardino e per Cechov il biliardo è il miglior elemento
simbologico che si potesse scegliere. Ed è stato infatti scelto, anche se nel
testo è un controcanto, e anche se è tutta da definire la misura della sua
presenza, se «da protagonista» o meno, se visiva o puramente sonora,
oppure anche – al limite – se puramente affidata ai gesti, alle espressioni di
Gaiev.
Qui nasce il primo problema. Il terzo atto è l’atto del presente, della
festa, dei giochi, del caso, mentre altrove avviene qualche altra cosa. Gli
elementi della festa e del gioco ci sono tutti: il biliardo (ovunque o
comunque sia), il ballo con l’orchestra che suona fuori scena, passaggi di
quadriglia in scena, i giochi di prestigio di Charlotte, le carte prima e le
sparizioni e apparizioni poi, lo spettacolo, il travestimento, l’attore o
l’attrice o clown (Charlotte vestita da uomo)… Tutto. Il dramma dell’asta e
della «perdita della proprietà», del mutamento, del trapasso di poteri e di
beni, avviene in questo clima di festa, musica, gioco, figure e rumori e
suoni e applausi e danze. Ed è chiaramente ancora il vero plausibile,
possibile ed eterno. È possibile dunque scegliere come «centro di
focalizzazione» di tutto ciò il biliardo? Non è limitare a un simbolo la realtà
del tutto?
Sarebbe come mettere al centro l’orchestrina ebraica. O far ballare
sempre tutti. O altro. Purtuttavia, poiché questo «salotto che un arco divide
dalla sala» deve avere per forza un suo centro e delle sue parti di appoggio
alla recitazione, più ancora che alla situazione, possiamo ipotizzare questa
soluzione: «fuori», tutti gli elementi sonori (musica, biliardo, danza, voci,
brindisi e altro); «dentro», solo le azioni importanti. Ma ecco che
avvengono alcune azioni del gioco anche in scena: il gioco delle carte, lo
spettacolo, il travestimento. Dove avvengono? E prima ancora, in che cosa
consisteva l’elemento plastico simbolico-realistico del salotto per i
personaggi? Ovviamente nelle «cose per sedersi»: divano e sedie, oppure
poltrone e sedie. Sono queste l’elemento tipico che può dare sostegno
all’azione, può significare una «storia», può dare il senso della proprietà in
rovina, il metafisico anche della sedia vuota, il tempo o altro. La sedia o
poltrona, certo, se sola in scena è un elemento straniante potentissimo: non
significa mai solo «sedersi». Più sedie vuote sono «angoscia»: incertezza,
mistero: chi si siederà? Si siederà mai qualcuno? Cosa aspettano quelle
sedie? Chi? Vuote, sono anche solitudine; occupate, possono essere la
conversazione, la società raccolta, la gente. Gente che con le sedie può fare
tutto: può fare all’amore, o morirci sopra.
Tornando al biliardo, potrebbe trovarsi al centro, con le sedie e le
poltrone lungo il perimetro. Non è detto che si debba sempre giocare. Il
gioco può aver luogo quando serve. Ma il biliardo potrebbe diventare un
piccolo palcoscenico per la rappresentazione di Charlotte, o un punto di
sostegno per una conversazione: Lopachin lo può usare come un trono, un
punto di arrivo, se nel suo delirio vi si arrampica e parla, per poi scenderne
sconsolato. Sul biliardo si può anche dormire, se si vuole. Lopachin
potrebbe stracciare il panno verde e pronunciare la sua battuta: «Posso
pagare tutto, io» … Gaiev può giocare da solo…
E l’orchestra, invece, suona invisibile. Essa è l’atmosfera della festa che
si interrompe continuamente. Ma anche i giochi negli altri rituali festivi
sottolineano in controcanto l’avvenimento decisivo che sta per arrivare. Qui
una festa impossibile, continuamente presente e lontana, continua e
interrotta, lo spettacolo, il gioco del biliardo; là il gioco cruento, anche se
combattuto ancora all’arma bianca, dell’asta; il gioco, voluttuoso persino,
dell’azzardo, del «gioco» capitalistico (che cos’è se non un «incontro», un
altro rituale, il «match», quello che poi Lopachin racconta come un cronista
patetico, e che è avvenuto nella sala delle aste?).
Ad un certo momento il «giocatore» vincitore – Lopachin: la nuova
classe che prende il suo posto nella storia, anche se non per molto, l’uomo
più nuovo, e più giusto, il più «forte» nell’eterno rifarsi della vita umana –
entra in un contatto con l’altro rituale più stanco della festa mancata o che si
regge appena. Le parole di Lopachin («Su, musica, più forza, più ritmo, più
allegria…») sono un qualcosa di concreto, come concrete sono le lacrime di
Liubov che sconsolatamente piange la sua vita perduta, il suo posto perduto
e la sua infanzia, adesso sì forse per sempre perduta, definitivamente uccisa.
s. d. (aprile)

…Soluzione improvvisa. Il dubbio, non mai eliminato, ha avuto ragione:


niente biliardo in scena, troppo polivalente (punto d’appoggio,
palcoscenico, trono) per essere veramente essenziale. Il biliardo è «di là», a
simboleggiare la componente casuale di tutto ciò che – sempre «di là»,
vicino o lontano – avviene. In scena, solo sedie, ora vuote – con tutti i
significati del loro esser vuote – ora occupate…

1 marzo

Il tempo reale del Giardino non corrisponde al tempo teatrale.


Oppure… è una di quelle indicazioni diabolicamente nascoste del
vecchio Anton Pavlovic, quelle che facevano impazzire Stanislavskij.
Il primo atto: si apre alle due, alla fine dell’atto siamo a «quasi le tre».
Quanto dura l’atto, recitato con il suo ritmo giusto? Quaranta minuti?
Troppi. Io non credo, nonostante la retorica della pausa nelle nostre
interpretazioni di Cechov. Oggi però siamo alla retorica inversa. La verità è
che Cechov ha un suo ritmo, interno, che è quello che è. Bisogna scopri lo
al di là della lingua, al di là delle abitudini, delle retoriche, dei nostri
piaceri. Certo è un ritmo più rilevato di quello che usavamo una volta. È più
scorrevole, meno sottolineato, meno «fatalistico».
Ma Cechov per fare il «finto vaudeville» non lo si deve recitare come
una «pochade»! Non si deve aver paura del silenzio quando occorre. Il
primo atto di quaranta minuti. E allora siamo lì, al tempo reale e teatrale
unitario.
Il secondo atto: tempo reale e teatrale unitario. Il crepuscolo durata
trenta minuti?
Il terzo: durata anche qui reale e teatrale unitaria.
Il quarto è sicuro che dovrebbe durare venti minuti o diciannove come
dice Cechov. E mette apposta anche l’indicazione. «Tra venti minuti dovete
essere in carrozza. Il treno parte tra quarantasei minuti.»
Ricordare che Cechov scrive che Costantino faceva durare l’ultimo atto
proprio quarantacinque minuti circa e che lui gli dice in chiare lettere che
dovrebbe durare diciannove. Un minuto lo lascia perché partano le
carrozze! «Incredibile» direbbe Pis’cik.
Il tempo del Giardino corrisponde dunque misteriosamente a un tempo
reale. E come tale non deve essere artefatto. Il ritmo dell’ultimo atto appare
abbastanza sostenuto ma lascia il suo spazio al silenzio. Bisognerebbe
controllare il tempo della dizione russa (lingua) e il tempo di allora, degli
attori, non poteva non essere lento, di abitudine. Da qui probabilmente
l’indicazione doppia «vaudeville», per «non lacrimoso» e non «grave alla
russa», «lento alla russa». Tutto qui. «Siate più leggeri, più fluidi, più
semplici, meno fatalistici, meno drammatici, siate anche più allegri, come
nella vita. Vita trasposta ma vita.» Come la mia indicazione «tra le
lacrime». Io volevo dire solo che tale era lo stato d’animo dentro, del
personaggio, non che piange. «È un modo di dire convenzionale.» Quanti
equivoci su questo modo convenzionale, povero Cechov! Certo che quando
Cechov scrive che sta preparando una commedia «tutta da ridere» e questa
è poi II giardino dei ciliegi viene fatto di domandarsi cosa avesse in testa in
quel momento… Ma riflettere alla fine ironia cechoviana, al suo modo
indiretto di dire le cose e fare le sue critiche, forse tutto diventa più facile.
Proprio perché Cechov sapeva cosa facevano i «russi», cosa voleva che lui
fosse Stanislavskij, cercava di premunirsi con queste affermazioni drastiche.
Mai dimenticare il contesto in cui si svolge il teatro cechoviano. Ed è qui
che tutto diventa ancora più straordinario. Perché atti come quelli del
Giardino sono «inammissibili» nel contesto teatrale mondiale dell’epoca.
Sono l’ultra rivoluzione formale e sostanziale… Una rivoluzione a mio
avviso non ancora superata. Basta svincolare Cechov dal suo involucro
retorico-naturalistico e folcloristico perché egli ci appaia ancora
violentemente «al di là» del già fatto e saputo e se si parla di valore
«gestuale», anche qui Cechov è sempre avanti. Il materiale gestico e
plastico «parla» di per sè.
Cechov, entro certi limiti – pare un assurdo – potrebbe essere
rappresentato, per «studio», per esercizio mimicamente. Come facciamo del
resto, una «lettura» di Cechov, a tavolino. Tra le due non so quale possa
essere immediatamente la più efficace. Certo, la lettura singola, del regista,
in questo caso è la più infelice. Pensiamo un attimo al valore gestuale e
visivo-plastico, dell’apertura del quarto atto: la scena, il vassoio con i calici
di champagne, l’unica bottiglia falsa, le calosce di Trofimov, l’arrivo dalla
quinta di un paio di calosce vecchie e sfondate che cadono con un tonfo sul
palco e restano, con una voce in quinta che dice «Tene te vele le vostre
schifezze!» o qualcosa del genere. E Trofimov che le prende, le guarda un
attimo e le ributta via: «Non sono le mie!».

10 marzo

Il tempo. Problemi del tempo. In questo vaudeville-tragediacommedia-


farsa-dramma, in questo tutto che sempre più mi appare più grande, più
perfetto, più denso nella sua chiarità, direi nella sua innocenza. Sto
ascoltando Mozart: il quintetto K516, e penso alla chiarità di Mozart… così
vera e così profonda… Il concetto del tempo è fondamentale.
Annoto oggi – per la prima volta, mi pare – un fatto evidente ma al
quale non avevo forse riflettuto abbastanza: Liubov è stata via cinque anni.
Quando ritorna, Lopachin si domanda: «Mi riconoscerà?». E poi ancora:
«Chissà come sarà adesso?». Poi Duniascia non viene riconosciuta da
Iascia. Poi Trofimov non viene riconosciuto da Liubov, e continuamente
durante tutto il primo atto i personaggi guardano e parlano di come «le
stanze sono rimaste le stesse, il giardino lo stesso», e di come nello stesso
tempo le persone sono cambiate tutte o quasi. Anche Firs: «Come è
invecchiato!». Liubov dice: «Grazie a Dio, sei ancora vivo!».
È chiaro che il primo fatto è questo: le cose non cambiano, restano
immobili, giardini, oggetti, muri e stanze e mobili… (penso adesso
all’inizio, stupendo, di Comisso in Gioventù che muore, con quella donna
che nella neve, nel sole e nell’azzurro, sente per la prima volta che quelle
cose resteranno così per sempre e lei no, lei diventerà vecchia e morirà:
l’estasi della natura immobile, mentre gli uomini passano).
E poi: gli uomini passano in fretta. Bastano cinque anni per cambiarli
tutti. In questo senso i cinque anni all’estero sono una vita. Sembrano più
lunghi, soggettivamente e oggettivamente. I cinque anni non sono solo
cinque anni, sono il tempo che passa e modifica. Di qui il sentimento
dell’incertezza. del troppo mutato o del tutto rimasto come prima. Questo
atto così sospeso, così incerto, questo passo all’indietro nel passato mentre
tutti sono andati avanti nel presente e si proiettano nel futuro… questo
ritorno all’infanzia, nel sonno dell’alba, nella stanchezza dentro e fuori, in
questo sfinimento dei nervi troppo tesi per troppa vita e caffè… è davvero
«incredibile», come dice Pisc’cik. Incredibile come l’esistenza sulla terra,
incredibile come lesserei e l’andare…

Liubov dice a tutti che sono invecchiati. Mai lo dice di se stessa. Liubov
non ha conoscenza del «suo» tempo. Ed è giusto che sia così. Liubov è
l’anima che non cambia, quella che resta sempre così, che forse niente
tocca. Ma anche se si resta nel cerchio della «prima scatola», non è difficile
conoscere il tempo degli altri; difficile è riconoscere il proprio. Gli altri
sono «diversi» da noi. Noi ci ritroviamo «troppo vecchi» o «troppo
giovani»; quella realtà temporale che è la nostra, ci sfugge. Forse «deve»
sfuggirci, perché altrimenti non ci sopporteremmo. Troppo lancinante è
questo cammino ineluttabile nel tempo, questa impossibilità di «capire» il
movimento dell’esistenza.
Quanto a Liubov, poi, in particolare, lei forse non vuole nemmeno
pensarci, al tempo. Lei non si pone il problema, e anche fisicamente – io
credo – Liubov è una di quelle donne incredibili che sembrano ferme con
gli occhi spalancati, sulla voragine degli anni, immutabile come bambole di
porcellana di cui il tempo si limita a scalfirne appena appena lo smalto…
Liubov – non l’anima: lei donna, come donna – non vede che gli altri.
Di sé è cosciente solo in una «fuga verso il passato». Quella nostalgia
dell’infanzia perduta e anche di un’innocenza perduta che fanno di lei
ancora una volta, come sempre, la verità umana e il simbolo delle nostre
misteriose proiezioni nel mondo ancestrale, fino a quell’utero caldo e
silenzioso materno che ci ha protetti un tempo e di cui, come essere vivi,
sentiremo sempre la nostalgia profonda.

16 marzo

Il secondo atto del Giardino si svolge all’aperto. È l’unico atto che si svolge
all’aperto. Ha l’aspetto di un «intermezzo». di una cantata a più voci nel
corpo dei quattro atti della storia del giardino. In tutti gli altri atti «succede»
qualcosa: o anzi, succede molto. Nel secondo c’è come una stasi dell’azione
reale, c’è una specie di immobilità ineluttabile delle figure che «stanno lì»,
siedono dopo la passeggiata, «aspettano il tramonto», vedono la natura, e
parlano, discorrono.
E la vita ovviamente va, come i barchetti al filo dell’acqua, di Montale;
anche se i personaggi restano fisicamente immobili, l’azione continua
all’interno, anche se l’intrigo è come sospeso, in un arresto attonito, in un
ripiegamento su di sé, in una meditazione lirica, dove alcune posizioni
gestuali sono sufficienti e vengono appena variate. (L’esempio potrebbe
essere di colui che fuma una sigaretta, ripete i gesti soliti di chi fuma, ma
fra i tanti che fumano ognuno ripete quei gesti a modo suo, con un proprio
tempo, una propria attenzione o disattenzione, una propria voluttà o meno,
indifferenza o altro. Ma il gesto del fumare è uno solo ed uguale nel fondo
per tutti.)
Qui la natura è diventata il palco che ha assunto altre inclinazioni, e il
grande tappeto grigio lucente giardino diventa cielo nel fondo, tirato su e
srotolato dalla camera dei bambini, dal divano, verso l’alto. Attraverso una
grande lacerazione antica del tappeto-cielo-giardino, il plastico della città
che cresce e il trenino magico che passa all’orizzonte. Il trenino poi
ripasserà sul davanti, davanti ai personaggi che lo fisseranno e lo sentiranno
fischiare nella sua reale irrealtà di vita vera e gioco infantile e gioco di
palcoscenico.
Il secondo tempo sarà animato da questi passaggi… E qui andrà
eliminata tutta la simbologia segnata da Cechov: la cappella cadente, le
pietre tombali, i simboli di un mondo che sta in bilico, di cose morte, di una
verità che vacilla, del passato sepolto, del domani che cresce (la città e i pali
del telegrafo), della civiltà industriale che viene avanti, sempre più avanti…
Ho sempre pensato che questa simbologia fosse un retaggio di gusto
incerto, una pericolosa tendenza al simbolismo che Cechov quasi sempre
evita con una straordinaria abilità. (Anche qui, all’atto pratico della
rappresentazione, Cechov sembra fare macchina indietro sulle proprie
stesse didascalie: lettera a Nemirovic-Dancenko del 23 ottobre 1903: «Nel
second’atto non c’è nessun cimitero!».)
È una simbologia che non può arrivare al pubblico con la forza diretta
con la quale arrivano la simbologia della camera dei bambini, del salone
della festa, dell’ammucchiarsi dei mobili dell’ultimo atto, delle valigie della
partenza nella scena vuota con poca roba ammucchiata. Perché tutte queste
sono le simbologie che nascono da una realtà plausibile non composta,
mentre quella del secondo atto può essere plausibile ma è troppo «ben
composta» ad arte per non apparire artificiosa. Non c’è bisogno di questa
simbologia totale: basta la simbologia diretta della città che cresce e del
treno che passa: di quel treno che Cechov non voleva che passasse; o,
meglio, di cui poco gli importava. (Altra lettera: a Stanislavskij, 23
novembre 1903: «Se il treno si mostrasse senza rumore, senza alcun suono,
allora fatelo passare».) A Cechov bastano i silenziosi pali del telegrafo e le
ciminiere della città nella nebbia del fondo per dire che un mondo nuovo sta
sorgendo lì presso; che gli bastano i personaggi per dire che un mondo
vecchio muore.
Ma se noi faremo correre quel trenino non sarà per memoria di
Stanislavskij ma per immettere sempre il doppio tema dell’infanzia perduta
e del gioco in una doppia prospettiva: il treno lontano che passa nel fondo
può essere, è un qualcosa di vero; davanti, è un giocattolo che fugge, fugge
traballando sulle sue piccole finte rotaie.

È qui, nel second’atto, che per la prima volta si verifica quel «rumore»
famoso della corda spezzata; problema sul quale tutti i registi del mondo si
sono spezzati le corna. Non credo che la soluzione demistificatoria di
qualche regista attuale (un piccolo suono di gong per cambiare
«atmosfera») sia la soluzione giusta. Meglio allora, coraggiosamente, nulla.
E perché no? Perché questo suono-simbolo non potrebbe essere qualcosa
che i personaggi nel crepuscolo sentono: sentono «loro», ma non noi,
pubblico che guarda? Lo so che questo è forse un semplificare o un girare
attorno al problema (o meglio, così potrebbe forse apparire), ma
probabilmente quel suono proprio non si deve sentire! Deve restare
indeterminato, descritto da ciò che dicono gli attori-personaggi. Non è una
soluzione di comodo. Solo che ecco: il treno che passa improvvisamente si
ferma, e forse deraglia «in quel momento», e le ruote del giocattolo-mostro
girano a vuoto nell’aria con un rumore di sfere e di molle che si scaricano
freneticamente. Poi qualcuno rimette tutto al suo posto, la macchina di
nuovo carica, il trenino riprende ad andare e sparisce traballando in quinta
per poi riapparire sul fondo come prima. Ogni personaggio-attore avrà un
sussulto, e tutti guarderanno e tenderanno le orecchie in varie direzioni,
anche opposte tra loro. Uno verrà alla ribalta, scenderà magari verso il
pubblico cercando il «suono» nella platea, interrogando la platea con lo
sguardo e con un piccolo gesto della mano. Ma nessuno riuscirà a
individuare il «punto» da cui il suono «interiore» è partito. Quel suono è un
brivido della storia, al quale i personaggi danno la più banale delle
spiegazioni possibili. Unica Liubov, che dice: «Non so perché, ma non mi
piace». Il brivido della storia non lo si simboleggia né lo si oggettivizza con
un suono. Neanche con il marchingegno di Stanislavskij e Dancenko.
Oggi, fino a prova contraria, io credo che quel famoso suono sia una
illusione letteraria, un sedimento di scrittura per evocare un fatto sonoro,
che ha l’aspetto di una teatralità oggettiva. E questa ce l’ha per certo:
sembra fatto apposta per dare uno scatto ritmico al finale dell’ultimo atto,
ad esempio. Ma appunto lì si demistifica come tale: è cioè un espediente in
più. Io credo che nessuno possa rifiutare l’idea che lo stesso suono inteso al
secondo atto, ripetuto nell’ultimo atto a scena vuota, con Firs immobile,
nella sua reale-apparente morte, sia non necessario, e che sia anzi di troppo.
Tanto più che insieme a quel suono ci sono anche i famosi colpi di scure sui
ciliegi. Così, io penso che questo suono non lo realizzerò con un «suono»,
ma con un «suono silenzioso» più sonoro di un colpo di lama o di fucile.
Il punto è qui.

21 marzo

Il giardino si è precisato in immagine. Quel giardino che ci deve essere e


non essere, che deve stare davanti e che a gennaio era un sensazione, ora sta
diventando qualcosa. Luciano ha proposto una «cosa in alto» che investe gli
spettatori, ma «da sopra». Su questa idea, non ancora immagine, abbiamo
lavorato e siamo giunti alla decisione di tentare il «giardino» come una
«cupola» lieve, di stoffa, non velo ma altro, che può palpitare, che è
trasparente, che sale sopra la platea, in luce e movimento e colore e che si
proietta nella scena come un soffitto ideale che prolunga quello invisibile di
una casa. L’immagine non è ancora chiara, solo la prova reale ci potrà dare
la misura del suo valore evocativo-plastico-poetico.
Io credo che questa apparenza non simbolica, poiché si tratta di
qualcosa di reale, questa luce-atmosfera che varia negli atti, questo palpitare
di un cielo teatrale, con fogli di carta sottile che frusciano con un suono
«trasposto» e altri effetti imprevedibili possono dare concretamente questo
incredibile giardino di Cechov meglio di ogni altro fatto teatrale o di una
sua assenza per finto amore di «castità» o «nudità».
Ma non solo, la scena stessa è arrivata a definire quello spazio bianco
che Cechov ipotizzava nella sua lettera del 5 ottobre da Yalta. In questa
lettera c’è una incredibile concentrazione di «tempo», egli parla di un
giardino estivo bianco, tutto bianco, anzi totalmente bianco, e di signore
vestite di bianco. Dopo un attimo aggiunge «Fuori nevica». Straordinaria
questa doppia immagine, estate-inverno, collegata sul bianco totale. Questo
eterno bianco di giardino sotto i fiori bianchi della primavera e sotto la neve
dell’inverno. Così mi appare certo che Il giardino dei ciliegi è nato per
Cechov in un lancinante bagliore di bianco, è un bianco «senza stagione».

5 aprile

Spessore sociale nel Giardino.


L’arco dei personaggi del Giardino, risente dal punto di vista
«sociologico» di alcune «manchevolezze»? È una domanda che viene da
farsi quando si esamina il testo sotto il profilo della «seconda scatola»,
quella della storia. Chiaro appare che della «storia» non ci possono essere
tutti gli emblemi o meglio i «casi tipici».
È un errore molto diffuso quello innanzitutto di pensare al «tipico»
come al «positivo» almeno ad un certo grado di positivo e nello stesso
tempo di pensare il «tipico» come assoluto, cioè come «totalità» assoluta,
astratta, di una realtà sociale. Il «tipico» è invece una «relativa potenzialità»
della realtà così come è, anch’essa nel suo tipico. Direi che il «tipico» è la
massima potenzialità di tipico consentito dal contesto storico e dalla
necessità poetica. Innanzitutto sul versante storico, nella realtà storica, non
esiste «la persona» che realizza in se stessa come tale la rappresentazione di
tutte le contraddizioni del suo momento. Tale realtà è data da tutti» coloro
che vivono la verità della storia in un certo punto del suo muoversi, cioè la
realtà tipica è la somma di tante realtà pure tipiche ma parziali e diverse tra
loro anche, a diversi gradi. La tipicità è la massa. Le masse sono tipiche. Gli
uomini singoli lo possono essere ma relativamente.
Secondo: il tipico ha le contraddizioni «tipiche» che gii appartengono.
Terzo: esiste la volontà e la necessità di chi scrive, della scelta della sua
storia, del suo soggetto, del suo svolgersi di una storia.
Così nel Giardino la scelta operata da Cechov nel «suo mondo», nella
sua storia è certamente uno dei più alti esempi di tipicità-emblematicità-
realtà possibili ma è certamente anche una esclusione: esisteva, ad esempio,
un proletariato più o meno cosciente, nel suo momento storico, nel
momento del Giardino? Esisteva «un rivoluzionario», più fermo e sicuro
dell’eterno studente? Esisteva un «reazionario» più cupo e più sordo di
Gaiev e Liubov? E così via. Certamente sì. Ma la tipizzazione di Cechov è
ugualmente enorme, nell’ambito del mondo o di quella parte di mondo da
lui scelto per raccontare la sua storia.
Gorkij ne sceglieva un altro e del pari ne escludeva una parte. Cechov
sceglie come «punto ideale» d’incontro una proprietà terriera. Poteva
scegliere una «proprietà industriale». Ecco una prima scelta. Ma proprio
scegliere la «proprietà agricola-terriera» è nello stesso tempo vincolante,
parziale e altamente tipico, poiché in quel momento storico, in quel paese, il
problema della proprietà, unito al problema della terra, è fondamentale. È
uno dei più vasti campi delle forze in conflitto. La Russia senza il problema
fondamentale della «terra» non sarebbe la Russia; senza il problema delle
«comunicazioni», della «steppa» piatta e infinita di Cechov, sarebbe
un’altra. Cechov conosceva bene questa parte della realtà, questa enorme
parte della realtà ed a questa si applicò, direi, automaticamente.
Diceva Cechov: «Ognuno scrive come può e come sa». È in quel sapere
che si nasconde la differenza fondamentale tra i «naturalisti» e i realisti. Qui
esiste perfettamente ancora la teoria di Lukàcs tra narrare e descrivere. Chi
sa narra, chi non sa o sa per «acquisizione esteriore» descrive. E Cechov
narra sempre. Dunque la proprietà, nelle proprietà una casa e un giardino.
Di questa casa e di questo giardino, coloro che vi abitano o vi passano. Il
giardino diventa il luogo di incontro-scelta di una parte della società.
Un’altra parte ne è tagliata fuori. Ma quella che resta è importantissima, ha
tutti i caratteri di una tipicità storica e umana, limitata purtuttavia.
Ed è qui che bisogna stare attenti, qui bisogna affermare con coraggio
che più in là di «questa» Cechov non poteva e non doveva andare. Perché
solo fino a là Cechov sapeva. Cechov insomma non poteva forse sapere
molto di più sul versante del futuro di quello che sa il vecchio studente, e
dall’altra parte, sul versante del passato, quello che lascia intravedere il
vecchio schiavo Firs.
Tra questi due poli, in una prospettiva incredibilmente esatta, tutti gli
altri uomini e donne. Con i suoi vuoti, che «altre» commedie, altre novelle
di Cechov riempiranno fino ad un certo punto.
PERCHÉ UN ALTRO «GIARDINO»?

Oggi, all’interlocutore meravigliato che mi chiedesse «perché», risponderei


con molta semplicità: perché Il giardino dei ciliegi è un capolavoro.
Basta essere, dunque, un capolavoro per avere «ragione» di essere
rappresentato? È giusto rappresentare i capolavori? Non è giusto? I classici
e via dicendo? È una vecchia storia, questa, ma vale la pena di parlarne
ancora un attimo.
1) Io credo di sì. Perché ogni grande opera dell’intelletto, del cuore
umano è sempre permanente. Perché il concetto del «momentaneo» è
superato dalle grandi opere che rappresentano i punti di riferimento per
l’uomo.
Io credo ai classici soltanto così: come scritti oggi per l’oggi e per il
domani. Se non sono tali, non sono classici, sono opere più o meno
importanti, documenti più o meno trascurabili, di un «momento» di storia
che passa. Il classico vero non passa. Può essere più evidente in certi
momenti, può esserlo meno in certi altri, certe «cose dette» in un certo
modo oggi sarebbero dette in un altro modo, forse, e domani ancora in un
altro, così certi aspetti formali possono modificarsi, certi aspetti di
contenuto anche: ma l’opera d’arte resta intatta, è lì e parla. È giusta, è
necessaria, è presente, è attiva, è rivoluzionaria sempre, è sempre nella
storia.
2) Perché però tra «tutto il teatro del mondo» questo Giardino nel 1974?
E ancora rispondo: perché è bellissimo, perché lo amo, perché io ne sento la
necessità. E se sono un interprete «giusto», dovrò pure in qualche modo
essere quello specchio dei tempi di cui ci parla Shakespeare, no? Se è
necessario a me, dovrà pure in qualche modo essere necessario ad altri. Qui
non ci sono ragioni evidenti da rintracciare. C’è però una ragione profonda.
Che questa sia anche legata a un certo modo di pensare il Giardino di
Cechov, questo è vero. Ma io non credo che la «ragione» sia questa, perché
ho sentito il legittimo bisogno di farlo, proprio oggi, alla fine del secondo
anno della mia direzione del Piccolo Teatro. In un momento difficilissimo
per il teatro, di enorme stanchezza per me. Cioè per fare un certo tipo di
spettacolo, come vi dicevo prima per «rifare» meglio uno spettacolo amato,
ma non «realizzato» e restato lì come sospeso.
Ha, in questo momento, il nostro pubblico, quello che verrà, il bisogno
di questo spettacolo, di queste parole, di queste cose? Altra domanda
angosciosa alla quale io rispondo ancora: credo di sì.
Pensiamo al misterioso Lear, che ci svelò concretamente che il mondo,
giovani e vecchi, aveva bisogno di vedersi davanti la tragedia di re Lear,
che il Lear era uno dei testi più pertinenti alla nostra contemporaneità, oggi
e non domani. Forse domani non più. Noi non siamo capaci, non lo siamo
mai stati, di seguire solo certi nostri ciechi impulsi, certi nostri amori
quando non fossero convalidati da qualcosa che io chiamo «senso della
storia», che altri chiamerebbero «fiuto teatrale», cioè dalla oscura
sensazione che è di questo che la gente ha bisogno in quel dato momento. È
di questa razza II giardino dei ciliegi oggi? o è un discorso più privato che
altro, quello che tento? Voi sapete che questa è la seconda edizione del
Giardino e che io fui molto infelice alla prima. Ricordo nettamente la fine: i
soliti applausi, anche molto calorosi mi parve, ma avevo un senso di
profonda insoddisfazione dentro. La sensazione di avere appena sfiorato il
Giardino, per stanchezza e inesperienza e mancanza di tempo. Il Giardino
fu allestito dopo la Trilogia della villeggiatura, dopo l’esplosione creativa
della Villeggiatura doveva essere la continuazione di un unico discorso
sulla «fine» di una società, sul brivido della fine e sui suoi presentimenti, in
due particolari momenti della storia europea e del mondo. Ma arrivai alla
seconda fase con il cuore un po’ secco. Andammo in prova col Giardino tre
o quattro giorni dopo la prima della Trilogia di Goldoni. Quest’anno,
riprendendo il Giardino, farò «dopo» la Trilogia. Il destino che si vendica o
la storia o altro, che ne so, ma anche questo il caso ha voluto che
avvenisse…
Uscii nel cortile, questo stesso di oggi, mentre incominciava a nevicare
e fuggii come un ladro, più del solito, poiché io fuggo sempre alle prime da
me dirette. Quella volta fuggii di più. Ho dunque un conto da saldare, se ne
sarò capace, con me stesso! Ma evidentemente non si tratta di questo. È che
prima o poi i discorsi interrotti o non compiuti debbono essere ripresi per
finirli o per compierli o per constatare se mai saremo capaci di compierli
fino in fondo.
Ma certamente non è questo che mi spinge oggi a pensare a un
Giardino, diverso ovviamente, completamente diverso da quello di allora.
Io non so perché, vi confesserò, ma questo Giardino, così come
incomincia a figurarsi, è «vicino» al Lear. Ne continua un discorso non
formalistico. Di fondo. Dico non so perché. Il discorso forse, o una parte del
discorso, è il sentimento del tempo. Il tempo, una indagine sul tempo, sulle
generazioni che passano, sulla storia che muta, sul mutamento, sul dolore
che «fa» maturare, «essere maturi è tutto», dice Edgard! Sulla speranza e
certezza attiva che questo mondo si deve fare e si farà … non so … questo e
altro.
Ecco quello che vorrei dirvi: che questo Cechov, che tutto Cechov per
me è attivo. Non è un poeta della rinuncia e della disperazione. Ma non per
questo non conosce il dolore, il dolore persino di essere vivo e di fare, fino
all’ultimo, ciò che deve essere fatto.
Sì, il Giardino è un capolavoro, e lo è su ogni piano. Forse il Giardino è
la cosa più grande che il meglio della società borghese ci lascia, sul teatro,
in una consapevolezza di sé che altri non sanno raggiungere.
SOMMARIO

Introduzione alla lettura del Giardino dei ciliegi di Luigi Lunari


Testimonianze
Lettera aperta a Cechov
(dal programma di sala del Piccolo Teatro di Milano)

IL GIARDINO DEI CILIEGI

Personaggi
Atto primo
Atto secondo
Atto terzo
Atto quarto

Dagli appunti per Il giardino dei ciliegi di Giorgio Strehler

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