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Giacomo Leopardi

Vita
Giacomo Leopardi nasce il 29 Giungo 1789 nell’aristocratico palazzo di famiglia a Recanati; è il primo
genito del conte Monaldo Leopardi e di Adelaide dei marchesi Antici. Alto è il prestigio della famiglia
Leopardi, ma assai precario lo stato patrimoniale, anche a causa delle spese di Monaldo, bibliofilo accanito;
per questo la gestione economica ben presto passa nelle mani dell’energica Adelaide, al quale riesce a
sollevare il bilancio familiare. Giacomo trascorre l’infanzia tra la passione per l’erudizione e l’arcigna
educazione materna, in un clima severo mitigato dall’intenso legame affettivo con i fratelli minori Carlo e
Paolina. Inizialmente la sua educazione è affidata a precettori privati, ma presto Giacomo è in grado di
affrontare un intenso studio personale (matto e disperatissimo, definito da lui) nella ricca biblioteca
paterna, dotata di oltre ventimila volumi, dal quale esce con una formidabile erudizione ma indebolito nel
fisico. A questo periodo risalgono i primi scritti e il suo studio per le principali lingue antiche e moderne
(latino, ebraico, greco, francese, tedesco, spagnolo)
Le “conversioni”: Gli studi filologico-eruditi e la traduzione dai classici preparano la cosiddetta
“conversione letteraria” che consente a Leopardi di superare gli interessi eruditi e le vuote convenzioni
retoriche. Egli, attraverso la lettura diretta, si convince dell’importanza della poesia come forma altissima
dell’espressione umana. Sull’onda di questa scoperta interviene nella polemica sul Romanticismo
indirizzando al periodico “Biblioteca Italiana” una Lettera in risposta ad un intervento in cui l’autrice aveva
affermato l’arretratezza e l’inferiorità della poesia italiana rispetto a quella tedesca.
Il suo fisico è tormentato da una grave forma di scoliosi, da febbri ricorrenti e da problemi agli occhi; a ciò si
aggiunge la solitudine assoluta nella quale vive a Recanati e nella sua stessa famiglia. Unico conforto è
l’avvio, a partire dal marzo 1817, di una corrispondenza con Pietro Giordani, al quale invia lavori in
visione, espone progetti e chiede consigli. Già dall’estate ha intanto iniziato a raccogliere le prime
riflessioni e notazioni dello Zibaldone.
Le difficoltà di salute e i difficili rapporti familiari rendono il 1818 un anno inquieto e tormentato. Giacomo
prende definitivamente le distanze dalle tesi reazionarie di Monaldo e, anche in conseguenza di un
incontro con Giordani, si rafforza in lui il proposito di abbandonare Recanati: organizza nel luglio successivo
un tentativo di fuga da Milano, che però non avrà successo.
Matura contemporaneamente l’interesse per la filosofia, di pari passo al distacco della religione e
all’avvicinamento alle tesi del meccanicismo materialistico. Tra il 1819 e il 1821 Leopardi compone gli
idilli, nascono anche le canzoni, nelle quali la poesia leopardiana si allontana dalla funzione di diletto per
assumere una conoscitiva.
Lontano dal “natio borgo selvaggio”
Ottenuto il permesso di recarsi ospite dello zio Carlo Antici a Roma, Giacomo parte del novembre del 1822
pieno di speranze e progetti, ma farà ritorno a Recanati l’anno successivo, profondamente deluso, Roma si
rivela troppo grande e rumorosa, sporca e malsicura; inoltre, lo scandalizzano la corruzione e il
conformismo della curia, l’ignoranza e l’inerzia degli aristocratici, l’arretratezza culturale dei letterati.
Uniche consolazioni, la visita dei luoghi cari al Tasso, la conoscenza di Angelo Mai e altri studiosi stranieri.
Leopardi torna a immergersi nel lavoro: compone canzoni e traduzioni, lavora allo Zibaldone e, tra il gennaio
e il novembre del 1824 attende alla stesura delle prime venti Operette morali
Nel luglio del 1825 Giacomo riparte da Recanati per recarsi a Milano, invitato dall’editore Stella, che gli
offre di curare una nuova edizione delle opere di Cicerone. Si sposta a Bologna dove si innamora di Teresa
Carniani Malvezzi, poetessa dilettante. Dopo una parentesi a Bologna si trasferisce a Firenze, dove frequenta
Viesseux e il “gruppo dell’Antologia”. Sono tutti intellettuali cattolico-moderati, con cui l’intesa è
superficiale e i rapporti si fanno difficili soprattutto dopo la pubblicazione delle Operette Morali. Nel
settembre del 1827, proprio in casa Viesseux, incontra Alessandro Manzoni. Nel novembre si trasferisce a
Pisa, per superare l’inverno in un clima più adatto alle sue cattive condizioni di salute.
Il soggiorno pisano è il periodo forse più sereno e felice dell’esistenza di Leopardi. A poco a poco sente
rinascere il sentimento poetico. Qui si sposta a Firenze e poi a Recanati, spinto da motivi economici.
“Sedici mesi di notte orribile” definisce Giacomo il suo nuovo soggiorno recanatese, fatto di sofferenza e
malinconia. Fra l’agosto e il settembre del 1829 nascono i cosiddetti “canti pisano-recanatesi”, sono mesi
di difficoltà spesi nel vano tentativo di trovare un’occupazione.
Il 30 Aprile 1830 Giacomo si congeda dalla famiglia, che non rivedrà più. Giunge a Firenze, dove conosce
e si innamora di Fanny Targioni Tozzetti. Questa violenta passione, destinata a una forte delusione, ispirerà i
canti del cosiddetto “ciclo d’Aspasia”. A Firenze approfondisce l’amicizia con Antonio Ranieri, conosciuto
nel precedente soggiorno fiorentino. Dopo un breve spostamento a Roma con Ranieri, Leopardi si dedica alla
stesura delle ultime due operette (il Dialogo d’un venditore d’almanacchi e di un passeggero e il Dialogo di
Tristano e di un amico). Ottenuto dal padre un modesto assegno mensile, il 4 dicembre scrive l’ultima nota
dello Zibaldone, dal quale probabilmente comincia ora a selezionare i centoundici Pensieri.
A Napoli: Nel settembre del 1833 parte con Ranieri per Napoli, dove Leopardi stipula con l’editore Saverio
Starita un contratto per la pubblicazione di tutte le sue opere, ma i primi due volumi (i Canti e la prima
parte delle Operette morali) vengono sequestrate dal governo borbonico. Nell’aprile dello stesso anno, su
consiglio dei medici, si trasferisce con Ranieri a Villa Ferrigni, presso le falde del Vesuvio, per sfuggire al
colera che si sta diffondendo in città. Il 16 febbraio 1837 ritorna, gravemente ammalato, nella casa
napoletana e scrive un’ultima accorata e affettuosa lettera al padre. Il 14 giugno è colto da malore e muore
dopo poche ore. Ranieri riesce a stento a sottrarre il corpo dell’amico alla fossa comune, a causa
dell’epidemia.

Pensiero e poetica

Un moderno “fuori moda” L’originalità della proposta leopardiana consiste nella capacità di tradurre una
lucidissima meditazione filosofica e un radicale pessimismo in una poesia in grado di rievocare sensazioni
vaghe e indefinite, dolcissime e vitali, in cui le parole si fanno musica e accrescono la sensibilità
combattendo il torpore della mente e la noia. Con Leopardi la poesia diventa una forma altissima di
conoscenza, in cui momento lirico-immaginativo e momento riflessivo non procedono separati o in pura
sequenza, bensì si saldano perfettamente e quasi “respirano” insieme.
La riflessione di Leopardi parte dall’analisi critica di alcuni aspetti della cultura illuministica, che ruotano
intorno alla presunta superiorità della scienza su ogni altra forma di conoscenza umana.
Il regno del fantastico, ovvero la poesia intesa in senso lato, sembra bandito dalla sfera del sapere:
l’immaginazione e il sentimento e con essi quel complesso di illusioni che la natura aveva generosamente
elargito all’umanità, paiono non trovare più spazio in un mondo tutto proteso verso una fiducia
incondizionata nei prodotti della civiltà. Rispetto a questa impostazione Leopardi maturerà un atteggiamento
fortemente critico che, investendo il rapporto tra ragione e immaginazione, arriva a mettere in discussione
il mito della perfettibilità del genere umano. Quello che i moderni chiamano “progresso” ai suoi occhi si
rivela come un processo di modificazione dell’uomo che si viene conformando a situazioni diverse senza che
questo comporti con sé un perfezionamento della specie.
Leopardi non è un avversario della scienza moderna; al contrario, nella sua epoca non c’è forse nessun altro
scrittore italiano che abbia coltivato con analoga curiosità e uguale acume tanti interessi scientifici. Questa
attitudine, d’altra parte, non gli ha impedito di cogliere i pericoli insiti in un’inconsulta euforia per il
progresso.
Molte delle idee da cui parte la riflessione leopardiana sulla crisi della modernità e sul rapporto fra ragione e
immaginazione erano in realtà già circolate nell’ Europa della seconda metà del Settecento e agli inizi
dell’Ottocento.
Ciò che distingue Leopardi dai suoi contemporanei è il modo in cui affronta questa crisi: egli, pur situandosi
all’incrocio tra Illuminismo e Romanticismo, assume una posizione divergente, se da un lato il poeta
recanatese recupera la funzione critica della ragione illuminista, sull’altro fronte egli raccoglie la sfida
romantica di una poesia insieme soggettiva e universale; ma prende le distanze dall’ottimismo, dallo
spiritualismo e dall’idealismo romantico, rivendicando la necessità di uno sguardo critico sul presente,
volto a svelarne le contraddizioni.
Quella di Leopardi può essere definita, dunque, una “modernità fuori moda”, che ha in comune con il suo
tempo la percezione di una crisi profonda nata dalla scissione tra io e mondo, ma percorre strade e approda a
risposte diverse da quelle dei suoi contemporanei.
Il “pensiero poetante” e le sue forme: Colti i termini di crisi dell’uomo moderno, la via originale tentata da
Leopardi sarà quella di realizzare il connubio tra linguaggio filosofico e linguaggio poetico, la cui
risultante sarà una poesia sentimentale filosofica che trae alimento dalle sensazioni e dai sentimenti in stretta
sintonia con la riflessione sull’io e il genere umano tutto.
Così facendo, egli oppone all’atteggiamento rigorosamente analitico delle filosofie del suo tempo un modello
di pensiero che temperi e faccia funzionare insieme immaginazione e ragione.
Quella che affiora tra le pagine leopardiane può essere dunque considerata una vera e propria “poesia
pensante”: un pensiero che, mente concepito, si fa direttamente poesia. Anche per questa via Leopardi
arriverà a sostenere il primato della lirica sugli altri generi, perché con la forma concentrata gli appare la
più adatta a cogliere l’essenza delle cose e ad accendere al sublime.
La predilezione per le misure brevi si esprime sul piano poetico nella scelta dell’idillio e del canto, e trova
conferma sul piano della prosa nella forma dell’operetta.
IL PENSIERO LEOPARDIANO
Il dolore come strumento di conoscenza: Al centro di tutta la riflessione leopardiana si pone la domanda
sulla reale condizione e sulle ragioni dell’infelicità dell’uomo, stretto tra l’aspirazione a un piacere senza
limiti e la scoperta che la vita è biologicamente connessa all’esperienza del dolore. Quest’ultima è la
conseguenza di precise e sensibili condizioni fisiche come la sofferenza, la malattia, la vecchiaia, che
impediscono all’uomo di perseguire il proprio inesausto desiderio di piacere.
Quello di Leopardi si rivela dunque, in tutta la sua forza, un pensiero critico, lucido e “negativo”, che si
fonda sulla dimostrazione razionale della nullità di ogni cosa e sul rifiuto coraggioso dei miti e delle false
verità che l’uomo è solito rincorrere. L’approdo di questo pensiero è un radicale pessimismo, espresso in
una filosofia dolorosa ma vera.
Le “fasi” del pensiero Leopardiano”: La riflessione leopardiana sulla condizione umana inizia intorno al
1816-18. Essa disegna un lungo arco temporale, all’interno del quale gli studiosi hanno cercato di
individuare precise fasi del pensiero. Le varie tappe in cui si è andata definendo la visione pessimistica
leopardiana non vanno infatti considerate come momenti che si oppongono negandosi l’un l’altro, ma
piuttosto come un lungo, inesausto interrogarsi del poeta. Un percorso che procede per successivi
aggiustamenti, continue ridefinizioni.
L’interrogarsi dell’io procede attraverso una moltiplicazione di domande che per lo più resteranno senza
esito. L’originalità e la modernità dell’approccio leopardiano risiedono nella sua capacità di accogliere la
contraddizione come punto di forza e non di debolezza del pensiero, perché essa riflette l’incongruenza
che esiste tra l’ordine naturale delle cose e l’aspirazione frustrata dell’uomo alla felicità.
La gran parte della critica leopardiana è concorde nell’individuare una svolta fondamentale nel pensiero
leopardiano in due momenti: dapprima nella crisi del 1819, quando le riflessioni sulla condizione e sul
destino dell’uomo portano all’abbandono del cattolicesimo alla cosiddetta “conversione filosofica”, e poi
successivamente, negli anni 1822-23, nel passaggio dal bello al vero, dalla poesia alla filosofia.

Il Pessimismo Storico
La natura Benigna, le illusioni, antichi e moderni: Nella prima fase del suo pensiero, coincidente con gli
anni 1816-19, Leopardi, pur ritenendo illusorio il raggiungimento della felicità da parte dell’uomo, tende ad
attribuire alla natura una funzione benigna e consolatoria: essa ha infatti voluto donare alle creature umane
le illusioni per alleviare le loro pene. Ma il progresso e l’attitudine crescente a una conoscenza razionale
della realtà hanno incrinato per sempre l’incanto del mondo antico, distruggendo le illusioni, o meglio
rivelandocene la natura ingannevole. Il rapporto antichi-moderni, in questa fase del pensiero di Leopardi, è
tutto a favore dei primi: gli antichi, infatti, proprio grazie alle illusioni, erano in grado di velare di speranza la
propria condizione e impegnarsi in azioni eroiche e magnanime, di condurre una vita intensa e ricca di
passioni perché in armonia con la natura. Al contrario, l’uomo moderno, allontanatosi in nome del progresso
dalla natura, trova in quest’ultima sempre meno confacente ai suoi nuovi accresciuti bisogni.
Ciò lo induce a creare un “ordine artificiale” che però genera in lui uno stato di crescente insoddisfazione
condannandolo all’infelicità più totale.
Questa fase del pensiero leopardiano è comunemente designata con la formula di pessimismo storico, nel
senso che la condizione di infelicità viene vista come l’esito di un processo di corruzione che porta l’uomo
ad allontanarsi dalla natura.
La conversione filosofica: Le idee sul rapporto uomo/natura, antichi/moderni, immaginazione/ragione
sono destinate a subire un progressivo ripensamento a partire dal 1819, anno importante nella maturazione
del pensiero leopardiano: a seguito di un aggravamento delle sue condizioni di salute, Leopardi attraversa
una crisi che porta al progressivo allontanamento dalla religione cattolica; in parallelo viene tramontando
l’ideale del “perfetto scrittore italiano”, coltivato all’ombra dell’amicizia con Pietro Giordani.
Ma la crisi del 1819 travolge il sogno leopardiano di un classicismo civile e patriottico: si fa sempre più
strada in lui la convinzione che lo stato temporaneo non sia modificabile e che lo scrittore debba
razionalmente prendere atto “dell’arido vero”.

La teoria del piacere: Sono questi gli anni in cui Leopardi avvia una riflessione sulla tendenza dell’uomo al
piacere e sull’impossibilità di conseguirlo. E proprio nello scarto incolmabile che si crea tra desiderio e
appagamento egli individua la radice prima dell’infelicità: l’uomo infatti non desidera un piacere particolare
bensì un piacere infinito, per estensione e per durata. Ma poiché i sensi di cui è dotato sono limitati e
insufficienti, nessuno dei piaceri umani può soddisfare tale esigenza. È questa la cosiddetta “ teoria del
piacere” alla cui base risultano evidenti le tracce del sensismo settecentesco, che considera la conoscenza
come rielaborazione dei dati raccolti dai sensi.
Leopardi fa i propri presupposti del materialismo meccanicistico, che vede la natura come una macchina
regolata da leggi deterministiche immutabili. Intorno agli anni ’20 la conoscenza si fa più sistematica e in
qualche caso diretta, sicuramente più solida e meditata, e conduce il poeta a negare ogni forma di
spiritualismo e a contestare l’esistenza dell’anima e la sua immortalità. L’approdo di questa intensa
rielaborazione filosofica è la convinzione che nulla esista al di là della materia.
Sulla scorta di questa visione, la felicità non è intesa da Leopardi in senso ideale o spirituale, ma identificata
con il piacere, sensazione connessa alla ricchezza e alla vitalità delle passioni, e sul versante opposto
l’infelicità si esprime nella percezione acuta e sensibile dello stato di dolore.

La natura matrigna: L’acquisizione del materialismo fa entrare in crisi l’idea di una natura benigna: la
lettura di classici del pensiero scettico e pessimistico greco incrina progressivamente la visione serena e
armonica del mondo antico contrapposto a quello moderno. L’infelicità non era dunque la conseguenza d’un
distacco dalla natura, ma era insita nella natura stessa.
Tracce visibili di un mutamento di prospettiva affiorano già nella produzione lirica degli anni ’20-22 dove
appare ormai chiaro il passaggio da un’idea di natura benefica a quella di natura ostile all’uomo.
La natura, retta da leggi proprie, si mostra del tutto indifferente nei confronti dei mali dell’uomo: per
salvaguardare l’equilibrio dell’insieme essa può anche sacrificare il bene dell’individuo. Essa si svela forza
maligna, cieca, avversa al genere umano, della cui infelicità è individuata come principale responsabile. È
questo terreno che viene maturando il passaggio dal pessimismo storico a quello che è comunemente noto
come pessimismo cosmico.

Il Pessimismo Cosmico
Il passaggio dal cosiddetto pessimismo storico al pessimismo cosmico non nasce da una contrapposizione o
da una negazione dell’uno rispetto all’altro. Ci sono, infatti, aspetti del primo che si riflettono nel secondo e
aspetti del secondo che sono già adombrati nel primo. Ad esempio: Leopardi non cessò mai di pensare all’età
antica come a un momento più favorevole all’uomo.
Quella che ormai pare certa a Leopardi è la nullità della specie umana a fronte dell’immensità
dell’universo, a sua volta destinato a perire come tutta la materia vivente, e l’idea che l’infelicità sia un dato
immutabile. La ragione stessa non più sentita solo alternativa all’immaginazione, diventa fondamentale per
dimostrare la vanità delle illusioni prodotte dall’uomo. L’impatto con il “vero” dell’umana condizione è
così forte da causare, intorno al 1823, un temporaneo divorzio fra Leopardi e la poesia. Il 1824 è l’anno in
cui l’elaborazione teorica prende corpo nelle Operette Morali.

Leopardi e il dibattito culturale del tempo.


La polemica con il mondo cattolico: La radicalizzazione del pessimismo induce Leopardi a mettere in
discussione qualunque ipotesi consolatoria, compresa l’illusione amorosa, come traspare nel suo “ciclo
d’Aspasia”. Proprio in questi anni, infatti, Leopardi entra in rapporto polemico con gli ambienti cattolico-
liberali fiorentini e napoletani. Alle accuse di ateismo e di scarso impegno sul piano politico mossegli da
questi gruppi, Leopardi oppone il suo scetticismo nei confronti di quanti prospettano un miglioramento della
società umana affidato ai progressi delle scienze e della tecnica conciliate con l’etica cattolica.
La ripresa del pensiero illuministico: In polemica con lo spiritualismo degli ambienti cattolici il poeta
riprende la lezione della cultura rinascimentale e illuministica. Quello che Leopardi propone è un
atteggiamento intellettuale che non si chiuda alla verità, che non veli di false illusioni la reale condizione
umana e riparta da questa consapevolezza per rifondare un nuovo modello etico laico, scevro da facili
soluzioni ottimistiche.
Lo slancio etico e il dialogo con il mondo: Nonostante l’atteggiamento fortemente critico Leopardi coltiva
fino alla fine il desiderio di scrivere e attraverso la scrittura mantenere aperto il rapporto con il mondo
esterno. Se infatti l’accettazione consapevole della condizione umana e l’attesa della morte rappresentano un
esito per lui irrinunciabile la volontà di resistere alla natura diventa il senso di una nuova alleanza con i
propri simili basata sul comune patire. Attraverso queste tappe Leopardi prospetta un’etica laica,
pragmatica e coraggiosa, fondata sull’acquisizione del vero, senza finzioni o false certezze, che veda nel
rapporto fra gli uomini una via per rendere più tollerabile l’esistenza
LE RAGIONI DELLA POESIA
L’immaginazione e il diletto poetico: Sin dall’avvio della sua riflessione, Leopardi individua nella poesia
una fonte privilegiata di piacere e diletto grazie alla sua capacità di attivare i sensi e l’immaginazione. Gli
antichi erano maestri della poesia immaginativa, basata sulla naturalezza e alimentata da un’accesa fantasia.
Il prevalere della ragione nell’età moderna e il progressivo distacco dell’uomo dalla natura causarono il
tramonto della poesia di immaginazione a vantaggio della poesia di sentimento che non si alimenta di
favole ma del sentimento malinconico e della riflessione filosofica.
Rispetto ai romantici, infatti, il poeta assume una posizione nettamente polemica, accusandoli di aver
allontanato la poesia dal “commercio dei sensi”, ovvero dalla dimensione del sensibile e del corporeo, per
spingerla sulla via metafisica della riflessione e del sentimento, inteso come rielaborazione soggettiva
dell’effetto prodotto dalla natura sull’individuo. In altri termini, Leopardi contesta ai romantici di cercare la
natura invece di sentirla, come invece avevano fatto gli antichi.
Di qui l’esigenza di tornare, per quanto possibile, alla Natura e di imitarla. Ma su questo terreno si consuma
la distanza anche rispetto ai classicisti: la legittimità del principio di imitazione non si fonda su ragioni di
superiorità formale dei classici sui moderni, ma sulla convinzione che, essendo la Natura un sistema
immutabile, immutabile deve essere la poesia che la canta ed è quindi utile guardare alla poesia degli antichi,
maestri nel rapportarsi direttamente alla Natura.
La peculiarità del classicismo leopardiano sta dunque nella sua proposta di immergersi nella tradizione per
ritrovare la celeste naturalezza dei classici, ovvero quella spontaneità creatrice che animava la loro
esistenza e il loro rapporto con la natura e la poesia, pur nella consapevolezza della distanza incolmabile che
lo separa da quel mondo.
Il vago e l’indefinito: parole e termini
La via che consente al poeta moderno si suscitare diletto e piacere attraverso la poesia va cercata, per
Leopardi, nel vago e nell’indefinito, e si esprime in immagini e parole in grado di evocare queste sensazioni.
Queste immagini, parole, paesaggi sono poetici in quanto evocano sensazioni che ci hanno affascinati da
fanciulli, e dunque anche la rimembranza diventa essenziale al sentimento poetico.
Particolare attenzione viene riservata all’origine e alla natura del piacere poetico, che scaturisce
dall’armonia e dalla musicalità, da sensazioni dunque essenzialmente uditive. Un ruolo privilegiato in
questa prospettiva rivestono quelle che Leopardi chiama parole. A differenza dei termini, che determinano e
definiscono solo il preciso e circoscritto significato, evocano una serie di idee accessorie che stimolano
l’immaginazione sollecitando sensazioni indefinite.
Allo stesso modo può agire il sonoro. Leopardi individua una serie di suoni che sono poetici proprio perché
vaghi. Non minore è l’importanza assegnata alla scelta e alla combinazione dei suoni e dei timbri sul piano
vocalico, allo scopo di accrescere la sonorità della lingua poetica, e alla ricerca di vocaboli poco usati.
Leopardi e la tradizione letteraria: Dagli antichi Leopardi impara la costanza dello scavo testuale, nello
studio, nell’analisi. Ama e coltiva la lettura di molti scrittori classici; in particolare, per quanto riguarda lo
stile, Platone, come massimo esempio di “prosa poetica”. Questa attenzione lo porta a frequentare con cura
filologica autori come Omero, Pindaro, Orazio, in cui versi echeggiano nella poesia leopardiana, filtrati
però attraverso una sensibilità tutta moderna.
Tra i classici italiani, proprio Dante, Petrarca, Orazio, sono fra i poeti prediletti: Leopardi “entra nel
testo” analizzando con puntiglio e indomabile spirito critico, ricavandone la lezione più nascosta. Il suo è un
percorso all’interno della tradizione volto ad appropriarsi non tanto del pensiero e dei sistemi ideologico-
poetico dei singoli autori, quanto delle strutture linguistiche profonde che di quel pensiero si erano fatte
espressione.

I Canti

GENESI, TITOLO E STRUTTURA


Il titolo e il rapporto con la tradizione: Significativo il titolo che Leopardi sceglie per la sua raccolta:
Canti, al plurale e senza specificazioni o articoli, per designare i tanti diversi momenti lirici che hanno
segnato l’iter poetico, essenziale, filosofico dell’autore. Nello stesso tempo, il nome rinvia all’importanza
assegnata al sonoro, alle percezioni sensoriali, e alla strettissima relazione tra il genere lirico e la musicalità.
È riconoscibile il riferimento a una tradizione di lunga durata, che risale alla lirica provenzale, all’esperienza
stilnovistica e, soprattutto, al primo libro unitario della poesia occidentale: il Canzoniere di Petrarca.
Rispetto a quest’opera il libro leopardiano opta per una soluzione aperta in cui la storia dell’io lirico è
tratteggiata attraverso i testi in maniera discontinua e talvolta contraddittoria, anziché iscriversi in un disegno
unitario quale è quello di Petrarca.
Leopardi e Petrarca: Se questa frammentarietà non era estranea all’esperienza di Petrarca, non c’è dubbio
che Leopardi instaura con il modello un rapporto complesso e a tratti polemico. Nel libro leopardiano
viene meno l’Ideale di un tempo lineare e continuo della vita del soggetto lirico e la possibilità di
interpretarne il senso in modo concluso e definitivo. L’azione ordinatrice della memoria e della poesia in
Leopardi deve fare i conti con la modernità: in altri termini, con la coscienza che i suoi Canti nascono da un
tempo concepito per salti improvvisi, per frammenti di memorie. Il lettore dovrà di volta in volta scoprire
le intime rispondenze tra le varie liriche e interpretarne il senso in una prospettiva aperta, sempre pronto a
rimettersi in discussione.
Struttura e articolazione del libro: L’idea di un libro che raccogliesse in modo unitario la sua produzione
lirica prende corpo solo a ridosso degli anni’30. Man mano che l’autore definisce il progetto comincia ad
apportare correzioni ai suoi testi, anche a distanza di tempo dalla loro composizione. Gli interventi e le
modifiche nascono in genere da una rilettura delle singole liriche alla luce dell’intero sistema e del
significato complessivo che il libro viene progressivamente acquisendo. Il criterio di sistemazione non è
però univoco: se in generale è rispettato l’ordine cronologico di composizione, il libro si rivela un
organismo complesso, caratterizzato da marcata eterogeneità (metrica, stilistica e contenutistica)
Stampa: la prima stampa del libro è del 1831. Vi figurano, oltre alle dieci canzoni scritte tra il 1818 e il
1822, gli idilli e i cosiddetti canti “pisano-recanatesi”, noti anche come “grandi idilli”, scritti dopo la pausa
filosofica delle Operette morali.

LE PARTIZIONI INTERNE

 Le canzoni civili: Il libro si apre con le cosiddette “canzoni civili” del 1818-21 (vedi tabella) in cui
Leopardi riflette sulla crisi civile e culturale italiana e sulle possibilità di restituire grandezza
all’Italia recuperando la lezione delle glorie letterarie che l’avevano resa illustre. Di qui la scelta
della canzone di tipo petrarchesco, forma metrica adatta a temi alti e impegnativi. In queste liriche
l’impegno civile s’innesta sulla lezione di Pietro Giordani: Leopardi sembra infatti voler incarnare
l’ideale del “perfetto scrittore italiano” propugnato dal classicismo civile di Giordani. È ormai
chiara per il poeta la distanza che separa il presente dal passato, la cui eredità straordinaria non è più
rinnovabile, in cui prevale la denuncia della corruzione moderna e un’amara riflessione sul
contrasto tra la grandezza delle illusioni e l’aridità del vero.
 Le canzoni del suicidio: Sulla consapevolezza dell’inesorabile distanza tra antico e moderno, tra
bello e vero, s’innesta l’esperienza delle due “canzoni del suicidio” dette anche “filosofiche”: Bruto
minore e Ultimo canto di Saffo. Ne sono protagonisti due personaggi evocati dal mondo classico: da
un lato Bruto, l’uccisore di Cesare, che, una volta sconfitto, si uccide per denunciare l’inutilità della
virtù; dall’altro la poetessa greca che si dà morte in polemica con la Natura, che le ha negato persino
la speranza dell’amore. In tutti e due i casi il suicidio, in continuità con una tradizione che risale al
pensiero antico è presentato come un gesto estremo di protesta, contro l’indifferenza degli dèi e del
Fato alla misera sorte dei singoli. Entrambe le canzoni si fondano sull’acquisizione della caduta
delle illusioni e sulla constatazione dell’infelicità umana come condizione ineluttabile, e rivelano
la presa di distanza leopardiana dall’etica cristiana.

 Gli idilli: Nell’organizzazione dei Canti alle canzoni seguono gli idilli, (vedi tabella). Rispetto alle
canzoni, gli idilli presentano un carattere diverso sia nelle tematiche, più intime e personali, sia nel
linguaggio, più semplice e colloquiale. Leopardi stesso indicò con questo nome i componimenti
scritti tra il 1819 e il 21, ma non c’è in essi un riferimento diretto all’idillo classico, di argomento
pastorale, che rappresenta campagne stilizzate e pastori.
L’idillo leopardiano rappresenta piuttosto momenti di vita interiore il cui protagonista assoluto è
l’io poetante con il suo modo di affetti, sensazioni e sentimenti. Il paesaggio naturale vi riveste un
ruolo di primo piano, ben lontano dall’essere puro elemento decorativo o sfondo malinconico per
l’espressione dei sentimenti: il paesaggio degli idilli vale in quanto suscita precise sensazioni da cui
scaturiscono altrettante emozioni. La dinamica delle percezioni sensoriali induce il poeta a esplorare
lo spazio dell’interiorità, suscitando in lui l’idea di infinito e il ricordo.
Leopardi, dunque, sceglie di unire nella prima parte dei Canti due esperienza diverse come le
canzoni e gli idilli. Le prime costituiscono un’esperienza più legata all’antico, meno rivoluzionaria,
anche per quanto riguarda la lingua: esse rappresentano la chiusura dei conti con il passato. Gli idilli
sono invece la vera e propria novità, che, maturata alla luce dell’esperienza delle canzoni, convive
e si collega alla prima. Il tema del confronto tra antico e moderno, dominante nelle canzoni, si
rinnova anche negli idilli, che lo esprimono su un piano eminentemente soggettivo, nella dialettica
tra io presente ed io passato resa possibile dalla ricordanza e nel confronto tra il desiderio di piacere
e l’insufficienza del suo conseguimento: in questo modo gli idilli costituiscono già un primo passo
importante verso quella sintesi tra esperienza psicologico-affettiva e meditazione filosofica

 I confini del “silenzio poetico”: All’incirca a metà della raccolta si collocano due componimenti che
acquistano particolare importanza nel disegno generale dell’opera. Si tratta dei testi XIX e XX, cioè
Al conte Carlo Pepoli e il Risorgimento. Le due liriche rappresentano una cerniera che marca il
passaggio dalla prima parte dei Canti (canzoni e idilli) alla seconda (canti pisano-recanatesi). Le due
parti corrispondono a due momenti diversi della riflessione di Leopardi sulla poesia e sulla sua
funzione: nella prima metà del libro, fino al Pepoli, la poesia riflette sulle illusioni, colte nel loro
estremo tentativo di proporsi come tali: nella seconda, a partire dal Risorgimento, si sperimenta la
rinascita della poesia. Le due parti sono intervallate da un periodo di “silenzio poetico” che
coincide con la composizione delle Operette morali.

 I canti pisano-recanatesi: Con la canzone Il Risorgimento Leopardi inaugura una nuova fase della
propria produzione lirica, dopo il silenzio coincidente con la composizione delle Operette Morali.
Il temporaneo miglioramento delle condizioni di salute, il soggiorno a Pisa, quindi il ritorno e poi il
definitivo addio a Recanati fanno da sfondo biografico al progetto di alcune grandi canzoni a
schema libero, meglio note come canti “pisano-recanatesi”: (vedi tabella). Sul piano ideologico e
della meditazione filosofica questi componimenti hanno come punti fermi la scelta ormai definitiva
del materialismo, l’acquisizione certa dell’infelicità umana come condizione costitutiva e
immutabile del genere umano, e l’indifferenza della Natura. Nonostante la radicalità del
pessimismo, Leopardi sente però riattivarsi l’interesse per la lirica, alimentato soprattutto da una
nuova poetica della memoria. Ciò che sembra attirare Leopardi in questa fase non sono tanto i
ricordi in sé, statici e ripetitivi, quanto la dinamica della rimembranza che mette in moto a sua
volta l’atto poetico. La novità rispetto alla stagione degli idilli sta nella natura di questa esperienza: il
recupero di frammenti, immagini, oggetti del passato non si giustifica solo alla luce della poetica del
vago e dell’indefinito, ma crea una sorta di “corto circuito” fra passato e presente.
Rispetto agli idilli giovanili i canti pisano-recanatesi non mettono in scena l’avventura
dell’immaginazione e del puro sentimento soggettivo, ma l’accertamento filosofico della verità.

 La strada della sperimentazione: il ciclo di Aspasia : Negli anni che Leopardi trascorre a Firenze,
dal 1830 al 1833, nascono le liriche del cosiddetto “ciclo d’Aspasia” (vedi tabella). Il titolo deriva
dal nome della cortigiana greca amata da Pericle. Sotto questa identità fittizia si cela in realtà la
nobildonna fiorentina Fanny Targioni Tozzetti, ultimo grande amore passionale, non ricambiato, di
Leopardi.
In ogni caso, esse si presentano come la ricostruzione di un’esperienza amorosa passionale: si va
dal momento della scoperta alla progressiva caduta dell’illusione amorosa. La particolarità della
raccolta è la pluralità dell’approccio espressivo, che vede intrecciarsi l’operetta in versi dallo stile
più raziocinante, con i modi ironici che si richiamano alla lirica di Parini, o la sintassi spezzata e le
sonorità aspre e scabre. Agli occhi del poeta, amore appare come la più grande delle illusioni,
forte promessa vitale di cui la ragione non è in grado di smascherare totalmente l’inganno. L’istinto
amoroso è connaturato all’essere umano fino all’età più avanzata; per questo è l’illusione più
consolatoria, perché grazie ad essa l’individuo può coltivare fino alla fine una speranza di piacere,
ma nello stesso tempo è la più funesta perché è la più difficile da dominare. La particolare natura di
amore permette a Leopardi di apparentarlo alla morte, con cui ha in comune una sublime tensione
verso l’assoluto.

 Gli ultimi canti: Il passaggio dalle liriche del ciclo di Aspasia agli ultimi canti è segnato dalle due
canzoni sepolcrali che, con modi che ricordano il mito preromantico e neoclassico del sepolcro,
riflettono su temi quali la natura caduca della bellezza e il suo annientamento nella morte.
Vi trovano spazio nei modi accesi della satura e dell’ironia sferzante la polemica contro le tesi dei
cattolico-liberali, la negazione del riformismo, la messa in crisi definitiva di ogni speranza nelle
moderne scienze sociali. Sul tracciato della polemica contro il suo secolo e i suoi miti si collocano
gli ultimi canti composti a Napoli. L’atteggiamento critico e l’impegno argomentativo si coniugano
con un rinnovato intento pedagogico rivolto ai contemporanei, chiamati ad accogliere con coraggio
la verità ineludibile della propria condizione, ma spronati nello stesso tempo a ricercare nuove
ragioni di socialità e di solidarietà. L’impiego leopardiano -in particolare nella Ginestra- si rivelerà
fino alla fine quello di trasformare in poesia un pensiero filosofico lucidissimo, capace di fare i conti
con le emozioni e le passioni.

LA LINGUA DEI Canti

Leopardi affida le proprie scelte linguistiche al senso dell’antico: le parole sono tanto più adatte alla poesia
quanto più riescono a dare l’idea di lontananza nel tempo. Si tratta di quella ricerca del vago e
dell’indefinito che possiamo porre alla base delle scelte lessicali del poeta a partire proprio dall’Infinito, la
cui sfida poetica consiste nell’esprimere l’indefinibile attraverso un linguaggio fatto di parole che evocano
sensazioni “indefinite e vaghe”
In sintonia con molti scrittori del suo tempo, Leopardi tende a un sostanziale antirealismo; porta avanti cioè
la ricerca di un linguaggio che nobiliti ciò di cui si parla. Il poeta è chiamato a scegliere sinonimi colti o
latineggianti al posto di termini concreti e prosaici. Tutto, però, entro una dimensione di assoluta
naturalezza e cantabilità, in cui il lettore non avverta il minimo artificio.
L’antirealismo si esprime del resto, oltre che a livello delle scelte lessicali, anche in molte scelte fonetiche e
grammaticali.

La metrica: Se nei primi idilli il metro preferito è l’endecasillabo sciolto, con enjambement forti, del tutto
nuova è la metrica dei canti pisano-recanatesi. La cosiddetta canzone libera è composta da strofe di
endecasillabi e settenari che si succedono senza alcuno schema fisso, con un gioco libero ma fitto di
assonanze, rime, enjambement. Si tratta di una novità assoluta nel panorama lirico italiano del primo
Ottocento, ancora legato a schemi strofici fissi.
Immagini, ricordi e meditazioni dovevano piuttosto fluire liberamente, “respirando” insieme con il testo e
non costrette dentro le sue strutture. La canzone libera si rivela dunque la più adatta a dar voce alla
concezione leopardiana della poesia come prodotto simultaneo di immaginazione e ragione.

ESTRATTI
Canti, IX “L’ultimo canto di Saffo”

Contest Protagonista è la poetessa greca Saffo che leva un disperato atto d’accusa contro la Natura, rea
o di averle negato la bellezza fisica pur avendola dotata di un’acuta sensibilità. La scelta del
protagonista non si esaurisce però nella disillusione amorosa ma diventa una lucida forma di
protesta, che ha il suo centro nel conflitto con la Natura
Metrica Canzone composta da quattro strofe di 18 versi ciascuna:
-primi 16 sono endecasillabi (sciolti)
- ultimi 2 sono settenario+ endecasillabo (a rima baciata)
Temi Protagonista della lirica è la poetessa greca Saffo, che intona un canto in prima persona: la
sua voce emerge quasi sommessa dal silenzio della notte. In questa lirica Leopardi decide di
restare invisibile lasciando la scena alla sua eroina; in realtà siamo di fronte a una proiezione
dell’io leopardiano nell’io di Saffo.

I punti di contatto con Saffo e Leopardi possono essere colti su due piani:
1) Entrambi sono protagonisti di un irrimediabile conflitto con la Natura che ha dotato le
due anime sensibili di un corpo brutto condannato a non essere amato
2) Entrambi sono poeti e affidano al canto la loro protesta contro la Natura
3)
La scelta di eleggere a protagonista la poetessa greca è connessa alla leggenda di Saffo suicida
per amore, tramandata da Ovidio. L’attenzione per la poetessa coincide per lui con l’interesse
per la lirica breve e il frammento idillico, capace di condensare la voce individuale
rendendola universale.
A evidenziare il nesso tra i due poeti anche un’ultima circostanza: il canto è ultimo di Saffo,
che sceglie il suicidio come rifiuto totale della vita, ma in qualche modo è ultimo anche per
Leopardi, che di lì a poco sceglierà un temporaneo “silenzio poetico”, preludio alla prosa
filosofica delle Operette Morali.
Il tema centrale della lirica è il conflitto di Saffo con la Natura:
1) Nella prima strofa la Natura si mostra sottovesti ingannevoli per poi sdoppiarsi in un
volto inquieto e tenebroso. Al suo cospetto, Saffo si scopre in disarmonia con la
bellezza del paesaggio e in sintonia con la furia degli elementi
2) Nella seconda strofa il contrasto si esplicita in forma chiara e consapevole. Rispetto
alla bellezza della Natura, Saffo constata la sua estraneità all’ordine naturale
3) Nella terza strofa si fa palese l’altra opposizione che percorre la lirica: sotto le
“amene sembianze della Natura” si cela la legge segreta che regola l’ordine naturale
delle cose, e che condanna Saffo a vedere le proprie illusioni cadere a una a una (il
vero nucleo ideologico del canto)
4) Nella quarta strofa Saffo sceglie con lucida consapevolezza il suicidio: la secca,
epigrafica forma verbale indica l’unica soluzione possibile per il virtuoso che scopra
l’arido vero
Stile In questo canto Leopardi ricorre alla forma metrica della canzone, ma secondo modi molto
più liberi degli schemi tradizionali. La palese rinuncia alla rima crea l’effetto di un
meditar cantando in cui la protagonista può svolgere le sue riflessioni senza vincoli
stringenti. Unica concessione è la rima baciata del finale di ogni strofa.

Lo snodarsi del ragionamento di Saffo è ritmato all’interno delle singole strofe dal gioco
delle pause e dai continui enjambement.

Di notevole importanza risultano gli effetti fonici e la scelta lessicale improntata alla
ricerca del vago e del peregrino: in questa direzione vanno i molti arcaismi e i latinismi,
la sintassi ardua, fitta di inversioni, di iperbati e anafore. Le soluzioni più significative si
possono cogliere sul piano delle strutture profonde dei suoni. La dissolvenza del canto
di Saffo, che va spegnendosi fino al silenzio ne è forse l’esempio più sorprendente.:
Nella prima strofa la voce di Saffo parte in pianissimo, sembrando affiorare dal nulla, si
dilata con il ripetersi del suono ND (recondo, quando, tornando, ecc..) ricordando un’onda
che si propaga, poi utilizza il suono ANT (allusivo al canto) con effetto fonosimbolico, e
infine nell’ultima strofa l’eco di questi suoni si affievolisce con il monologo di Saffo, la
cui ultima nota risuona in quella sileNTe riva in cui la voce si spegne e tace.
Canti, XI “Il passero solitario”

Contest Il passero solitario, che nel libro dei Canti precede L’infinito, fu composto molto
o probabilmente tra il 1831 e il 1835, da un Leopardi maturo. Tuttavia, non è esclusa una sua
precedente progettazione, risalente agli anni 1819-20: il componimento ideato negli anni della
giovinezza è completato in quelli della maturità, ipotesi che spiega anche il tema della lirica: la
gioventù spesa nell’isolamento degli studi.
La solitudine dell’io è paragonata a quella del passero solitario: il poeta rimpiange non tanto
l’amarezza dell’isolamento quanto l’irreversibilità del tempo e l’impossibilità di recuperare gli
anni perduti.
Metrica Canzone libera di tre strofe, con sottili e insistenti richiami di rime e di assonanze

Temi La struttura del canto è piuttosto lineare e si basa tutta sul confronto tra il passero e l’io
lirico. Le prime due strofe sono costruite in modo simmetrico rovesciato: nella prima strofa,
alla solitudine del passero (a) si contrappone la visione degli altri uccelli in festa (b), per finire
con l’estraneità del passero rispetto a questa festa (c); nella seconda strofa invece, che gioca
sugli stessi elementi in ordine inverso, l’io dichiara prima il suo comportamento schivo rispetto
ai divertimenti (c), passa all’evocazione della festa dei giovani del paese (b) per poi passare
alla riflessione sulla profonda solitudine dell’io (a)
(a) Solitudine del passero (c) Estraneità dell’io ai
divertimenti
(b) Uccelli in festa (b) Festa dei giovani del paese
(c) Estraneità del passero alla festa (a) Solitudine dell’io

L’ultima strofa mette a confronto la naturalezza del comportamento del volatile e


l’innaturalezza di quello dell’io: il passero è inconsapevole della sua condizione; quindi, non
ne proverà amarezza o rammarico; l’uomo invece è consapevole e inevitabilmente sarà preda
del rimpianto del tempo sprecato
Altro tema importante è quello della caduta degli astri, ricorrente nelle poesie di Leopardi:
con questa metafora visiva il poeta traduce la caduta delle illusioni e in particolare delle
speranze giovanili.
Stile Il canto sfrutta tutta la gamma di quei giochi fonici a cui Leopardi affida la possibilità di
evocare l’indefinitezza spazio-temporale, per farne il tema dei suoi idilli giovanili. La prima
strofa della poesia, per esempio, sottolinea il progressivo espandersi del canto grazie alla
vocale -A (antica, passero, campagna ecc.)
Le scelte lessicali intendono rendere anch’esse il senso di indefinito e ricercano le parole
poetiche, cioè quelle che suscitano idee vaghe
Canti, XII “L’infinito”

Contest Composto a Recanati nel 1819, fu pubblicato per la prima volta nel periodico bolognese, e
o infine nei Canti nel 1831. Tutta la poesia è giocata sul paradosso, sul voler rendere il concetto
dell’infinito attraverso la negazione del finito: l’io è seduto immobile con la visuale impedita
da una siepe, ma viaggia verso spazi e tempi infiniti; non sente null’altro che la voce del vento
e immagina il suono dell’età presente.
Metrica Componimento di 15 endecasillabi sciolti (sonetto classico “superato”, con l’aggiunta del 15°
verso)
Temi Nello svolgimento fluido e unitario dei 15 endecasillabi sciolti si consuma l’avventura dell’io
che s’immerge nel piacere dell’infinito. Un infinito che è il prodotto delle risorse creative
individuali e si esplicita pertanto su un piano psicologico-immaginativo. Su queste premesse si
fonda il paradosso della visione leopardiana: quello che noi pensiamo come infinito è in
realtà qualcosa di cui i sensi umani non possono cogliere i confini.
In quanto illusione, frutto cioè di un gioco della mente e di una finzione immaginativa,
l’infinito si rivela fonte inesauribile di piacere, ma ciò è possibile a partire da precise
condizioni esterne. Queste sono messe in scena all’inizio della lirica: pochi elementi di un
paesaggio stilizzato (un colle, una siepe) costituiscono una barriera naturale che induce l’io a
figurarsi di ciò che sta al di là di quei confini, capaci di suscitare sensazioni al tempo stesso
precise e indeterminate.
L’esito di questa avventura si risolve nel naufragio dell’io e del pensiero, un naufragio dolce
perché cercato dal soggetto come momento di temporaneo abbandono del pensiero razionale.

In questo viaggio del desiderio di superamento del limite, l’io è sempre presente a sé stesso,
al centro di una costante tensione tra abbandono e controllo. L’importanza del soggetto è
marcata dalla frequenza con cui ritornano pronomi e aggettivi di prima persona singolare: io,
mi, mio, a conferma del ruolo svolto dalla dinamica soggettiva degli effetti, delle memorie,
delle sensazioni fisiche e fantastiche.
È infatti l’io che dà continuità ai due tempi in cui si articola la lirica:
1) Il primo, in cui il ricordo di un’esperienza affettiva, (Sempre caro mi fu) legata a
immagini consuete fa scattare l’immaginazione di un infinito spaziale
2) Il secondo in cui una sensazione uditiva (E come il vento/Odo stormir) attiva
l’immaginazione di un infinito temporale

Stile La tensione tra i poli del determinato e dell’indeterminato si attiva subito, sin dal verso
incipitario. La poesia aperta dall’avverbio sempre, che evoca un’idea di infinità, introduce
grazie al passato remoto fu la più profonda immagine di temporalità determinata, definita e
chiusa per sempre. Inoltre, lo fa passando attraverso l’affettività e il riverbero interiore
dell’emozione, sottolineato dall’aggettivo caro e dal pronome personale mi.

La dinamica descritta si espande a tutta la lirica grazie al sistema di opposizioni fra il


manifestarsi di questo mondo materiale e i riflessi di quello sconfinato, che si intuisce al di là
del limite.
L’atto del pensare e quello del poetare procedono in perfetta simultaneità per restituirci
l’idea di fondo dell’idillo: l’insaziabile desiderio e l’impossibile ma necessario pensiero
dell’infinito, che è continuamente contrapposto al sentimento della durata e alla percezione del
limite della nostra esistenza.

All’idea di continuità e superamento del limite concorre anche la forma metrica del
componimento che rivela la presenza dissimulata della forma sonetto, la cui struttura rigida
viene forzata con l’aggiunta di un verso. Questo contiene la rivelazione più originale
dell’idillo: il naufragio del pensiero razionale nel mare dell’immaginazione. L’effetto di questo
naufragio è ottenuto anche grazie al superamento di una forma chiusa come il sonetto
Canti, XIII “La sera del dì di festa”

Contest La scrittura si sviluppa entro l’oscillazione costante tra presente e passato, quest’ultimo
o sdoppiato nel passato dell’io lirico e in quello dei popoli antichi, e rifluisce nel motivo
dell’infinita del tempo che vanifica tanto le grandi imprese quanto il dolore e l’infelicità
individuale
Metrica Endecasillabi sciolti

Temi Nel titolo è suggerita la situazione che dà spunto alla lirica: la fine di un giorno di festa,
diventando poi metafora del nulla eterno a cui ogni cosa è destinata.
Nel testo si riconoscono queste sequenze liriche:
1) L’avio dato dallo spettacolo di una notte placida, in cui si consuma il rapporto tra
l’io lirico e i luoghi familiari suscitatogli dalle emozioni.
2) L’evocazione dell’immagine femminile con la sofferenza amorosa dell’io
3) Il contrasto tra il sonno della donna nella quiete notturna e l’effusione dolorosa dell’io
chiama la Natura, che nega al poeta qualsiasi forma di piacere.
4) L’indifferenza della Natura viene assimilata a quella femminile, e scatta a questo punto
il ricordo della giornata appena trascorsa
5) a metà della lirica un evento acustico riporta l’io al presente
6) dal presente l’io è spinto a riflettere sulla fuga inesorabile del tempo
7) Dal silenzio dei secoli passati si torna al silenzio della notte, in cui tutto è inghiottito
nel presentimento della morte e del nulla
8) L’azione finale della memoria che attiva il ricordo della fanciullezza.

Stile L’intreccio dei temi è raccordato dal movimento continuo della rimembranza, in cui il
passato trapassa nel presente e viceversa, generando la meditazione sulla fugacità del tempo e
delle cose

Canti, XXI “A Silvia”

Contest Scritto a Pisa nel 1828 si presenta come il canto della rinascita poetica, dopo una lunga pausa
o da parte dell’autore. È anche la prima canzone libera e il canto in cui Leopardi tematizza la
caduta definitiva delle illusioni e delle speranze, di cui Silvia, morta nella primavera della vita,
è chiara personificazione
Metrica Canzone libera leopardiana: sei stanze di diversa lunghezza con settenari e endecasillabi
alternati e rimati liberamente
Temi L’io è il protagonista del testo ma la sua vicenda esistenziale può definirsi solo grazie al
colloquio immaginario con Silvia, la fanciulla precocemente strappata alla vita, che nel canto
è proiezione delle speranze giovanili tradite. Si tratta di un colloquio ricreato nella memoria,
durante il quale viene ripercorsa la breve esistenza terrena della giovane e, in parallelo, la vita
del poeta dal passato al presente. Il confronto tra i due piani rivela la frattura insanabile e la
condizione attuale dell’irreversibilità del tempo. L’io scopre la caduta delle illusioni e
l’approdo tragico alla consapevolezza del nulla.
Nucleo generativo del canto è la memoria produttrice di immagini, Leopardi adotta un punto
di vista straniato, collocandosi in un luogo lontano ed esterno: il punto di vista è quello di
Silvia, una creatura che ha ormai oltrepassato la soglia che separa la vita e la morte. L’io la
chiama a sostenerlo nell’impresa del ricordo, dal momento che Silvia non può più rispondere o
rimembrare.

 La prima stanza di apre con il nome di Silvia. Una volta enunciato il nome lascia che
in un lampo l’immagine femminile prenda corpo attraverso il dettaglio fisico degli
occhi (immagine stilnovistica e dantesca)
 Nella seconda stanza siamo totalmente immersi nella dimensione memoriale: Silvia è
intenta al lavoro della tessitura e al canto. Gli interni delle stanze in cui si diffonde
l’eco del suo canto sembrano una proiezione della “stanza” mentale dell’io. I due
versi finali segnano il passaggio dall’interno all’esterno
 Nella terza stanza è l’io a occupare la scena, ma si tratta di un io passato: il poeta
rivede sé stesso giovane, immerso negli studi e ancora capace di illusioni, intento ad
ascoltare il canto di Silvia. Chiara la specularità di quest’ultima: opre
femminili/faticosa tela di Silvia corrispondono a studi leggiadri e sudate carte di
Leopardi. Anche in questo caso la poesia richiama da lontano un’immagine e la rende
visibile, ma qualcosa resta fuori dalla comunicazione poetica: è il carico di emozioni e
sentimenti che il limite della parola umana non riesce a esprimere
 Nella quarta stanza si torna al presente, il tempo della consapevolezza e del
riconoscimento. Il ricordo, nel far apparire le immagini del passato, le riconosce
come inesorabilmente finite. È la Natura stessa che ha decretato la fine delle speranze
 La quinta stanza si apre con un esplicito riferimento ai cicli delle stagioni: Silvia è
morta prima che arrivasse l’inverno e non ha visto fiorire la stagione degli amori. La
sua sparizione nel mondo buio delle ombre condanna la terra all’aridità.
Stile La scomparsa di Silvia coincide con la fine delle illusioni del poeta. Gli ultimi versi
identificano la giovane morta con la speranza. Morendo, Silvia ha segnato anche la fine
dell’illusione di una Natura benigna in grado di offrire una vita felice ai suoi figli.
I versi finali conducono all’ultima potente immagine visiva del canto: una tomba ignuda e
una mano raggelata dalla morte. Eppure, è proprio da quella mano e da quella tomba che
sembra rinascere nella memoria l’immagine di Silvia, che ha impressi in sé i segni del suo
destino ingrato.

Canti, XXII “Le ricordanze”

Contest È il secondo grande canto della memoria dopo A Silvia. Tutti i ricordi fantastici della vita
o infantile, scatenati dalla memoria dal ritorno al paese natale, entrano in dialettica dolorosa con
la constatazione dell’infelicità presente. Ma le “ricordanze” non sono semplicemente i ricordi,
ma anche gli oggetti che stimolano i ricordi: i luoghi, elementi del paesaggio, i suoni.
Metrica Endecasillabi sciolti suddivisi in sette strofe di diversa lunghezza

Temi Il ritorno a Recanati dà spunto a Leopardi per la composizione di questa grande canzone libera,
che sin dal titolo tematizza la dimensione della memoria e la sua centralità.
I luoghi e gli oggetti che a distanza di anni cadono sotto i sensi del poeta fanno riemergere in
lui emozioni e sentimenti provati da fanciullo.
Nel riappropriarsi a distanza di anni della dimensione autobiografica, Leopardi adotta però
un’ottica nuova, in cui il recupero degli affetti e dei sentimenti avviene sotto il controllo
impietoso della ragione.
Il ritmo circolare della memoria è continuamente interrotto dal confronto doloroso con il “qui
e ora” del presente, secondo una logica di potente sdoppiamento.
Come era già accaduto in A Silvia, la dolcezza del ricordare deve fare i conti con la percezione
del finito, del perduto per sempre.
La canzone si chiude infine con l’evocazione della figura femminile di Nerina, allegoria, come
Silvia, delle illusioni giovanili spente da una morte precoce.
Nel momento in cui l’io realizza che Nerina non è più in nessun luogo, avverte con chiarezza
la natura ambigua della rimembranza: dolce per il suo carico emotivo che sollecita, ma anche
amara perché testimone di un passato che non può più essere.
Stile La scelta dell’endecasillabo sciolto consente di organizzare la materia multiforme
scongiurando la monotonia graie alla varia dislocazione degli accenti ritmici.
Dal punto di vista fonetico, colpisce nella lirica la presenza ricorrente del suono OR che
replica la nota dominante della parola ricORdanze.

Canti, XXII “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia

Contest Secondo la tradizione i pastori nomadi dell’Asia centrale trascorrevano le notti seduti su una
o pietra a guardare la luna e a improvvisare canti tristissimi. Da questo spunto nasce questo
canto, che nella raccolta segue A Silvia e le ricordanze. A questi due canti si lega per il tema
del pessimismo e per l’importanza che vi assume il tentativo dell’io di dialogare con
un’immagine poetica lontana ed estranea
Metrica Sei strofe libere di endecasillabi e settenari

Temi Leopardi affronta il tema cruciale del senso ultimo dell’esistenza, rinunciando tanto al filtro
della memoria quanto ai modi autobiografici. La prospettiva scelta è massimamente
distanziata dal punto di vista geografico, talmente distante da conferire un tratto universale
al messaggio filosofico del canto e un alto valore emblematico alla figura del protagonista,
espressione della condizione umana colta al suo “grado zero”

Il pastore è definito errante. L’attributo ha una doppia valenza semantica: errante poiché
nomade, ed errante poiché anche il pastore, erroneamente illudendosi, interroga la luna che si
dimostra invece del tutto indifferente.
Anche il suo viaggio è destinato a concludersi nell’abisso orrido e immenso, immagine del
nulla, punto da cui tutto nasce e in cui tutto ritorna.

Stile  La terza strofa rovescia il punto di arrivo della strofa precedente: dalla morte come
approdo al nulla, alla nascita come inizio della sofferenza e del cammino doloroso del
vivere. Viene messa in primo piano la reale condizione dell’uomo, il cui ingresso alla
vita è segnato dalla manifestazione del pianto. L’umana esistenza è scandita
dall’esperienza dolorosa e dall’attesa della morte come unica via di uscita dalla
sofferenza.
 Nella quarta strofa il pastore torna a rivolgersi con il tu alla luna. Proprio
l’impossibilità di questo dialogo è svelata attraverso numerosi epiteti ripetuti durante
il Canto all’astro lunare: intatta, solinga, pensosa, muta, ne evidenziano la natura di
elemento estraneo, indifferente e lontano.
 Nella quinta strofa il pastore sposta l’attenzione infine al suo gregge, che nulla sa e
nulla si chiede. Il tedio è la triste prerogativa dell’uomo a cospetto di tutti gli altri
esseri viventi. Il tedio occupa nell’uomo lo spazio lasciato dal desiderio di piacere. Per
questo esso è proprio solo degli uomini e non degli animali.
 La sesta e ultima strofa è simile ad un congedo di canzone petrarchesca. La strofa è
divisa esattamente in due parti, a riassumere in maniera esatta i diversi toni del
componimento. Vi compaiono la luna e il gregge, e il vaticinio esclusivo e senza
speranze suggella in prospettiva cosmica la meditazione sull’infelicità

Canti, XXIV “La quiete dopo la tempesta”

Contest Composto a Recanati nel 1829, pubblicato nell’edizione fiorentina dei Canti nel 1831.
o Argomento della lirica è il breve e illusorio piacere che l’uomo prova quando viene meno un
grave dolore o un timore che l’ha afflitto. Il testo si articola in due parti: all’idillica descrizione
della vita che riprende dopo la tempesta succedono infatti versi di andamento meditativo sulla
condizione dell’umanità
Metrica Canzone libera: 3 strofe di misura decrescente
Ogni strofa: endecasillabi e settenari variamente rimati e posti in assonanza
Temi La prima parte del canto è caratterizzata dalla sapiente alternanza di percezioni acustiche e
percezioni visive, con cui l’io poetico saluta il riaffacciarsi dalla rivelazione del movimento
ciclico. Si comprende allora come la scena del borgo sia in realtà il riflesso di un moto molto
più ampio e universale che coinvolge il macrocosmo tutto.
Più marcato che in altri canti è il passaggio dal momento lirico-descrittivo a quello riflessivo-
filosofico, preparata dalla serie di interrogative retoriche.
Nella seconda parte della strofa si addensa un lessico dal valore negativo. Queste soluzioni
stilistiche contribuiscono a rovesciare nel suo opposto la valenza apparentemente positiva
della prima parte della lirica.
L’ironia, sostenuta dalla figura logica dell’antifrasi rappresenta la chiave di lettura della lirica.
Grazie ad essa le due parti del canto si compenetrano riflettendo due dimensioni
complementari dell’esistenza: il bello della rinascita e il brutto della paura e della delusione.
Si rivela così la paradossale sorte dell’uomo, che vede dipendere i brevi e illusori piaceri delle
temporanee pause dal dolore, e che può affidare solo alla morte la speranza di una cessazione
definitiva della sofferenza.
Stile //

Canti, XXV “Il sabato del villaggio”

Contest Il motivo di una felicità futura che sempre diviene incerta quando si avvicina, e si trasforma in
o noia e tristezza quando infine giunge, struttura in profondità tutto il canto. I piccoli gesti
consueti sono sottratti a ogni possibile lettura realistica grazie soprattutto all’uso sapiente degli
arcaismi del linguaggio
Metrica Canzone libera di quattro strofe di misura diversa, composte di endecasillabi e settenari con
rime variamente alternate, rime al mezzo e assonanze
Temi //

Stile //

Canti, XXVIII “A se stesso”

Contest Composto a Firenze nel 1833, pubblicato nell’edizione dei Canti del 1835. Terzo dei
o componimenti che costituiscono il cosiddetto “ciclo d’Aspasia”. È il canto che suggella la fine
delle illusioni, con una condanna aspra, senza possibilità di recupero, della Natura e del suo
potere negativo.
Metrica Strofa libera di 16 versi, endecasillabi e settenari:
primi 15 organizzati in tre parti simmetriche (7-11-11-7-11) che si ripetono,
si aggiunge il 16° verso endecasillabo
Temi Il canto unisce all’intensità della sofferenza personale il risultato di una riflessione etico-
ideologica che culmina nell’eliminazione di ogni residua prospettiva ottimistica. In questo caso
la rinuncia alle illusioni coincide con il disinganno amoroso
Stile La peculiarità del canto risiede nelle scelte linguistiche: il discorso lirico torna alla forma
metrica breve: sono privilegiati moduli scabri e continuamente franti.
Sul piano lessicale è significativa la presenza di verbi e soprattutto di sostantivi destinati a
diventare parole tematiche, anche in virtù dell’uso sapiente delle pause.

Canti, XXXIV “La ginestra o il fiore del deserto”

Contest Composto dall’estate all’autunno del 1836 a Villa Ferrigni, sulle falde del Vesuvio, il canto
o compare postumo all’edizione fiorentina del 1845.
Chiaro è il tema di fondo, condensato intorno alla contrapposizione tra la potenza distruttiva
della natura e la fragilità dell’uomo e delle sue costruzioni. L’appello all’umanità ad
abbandonare l’infondato orgoglio e a compattarsi contro la sua vera nemica indirizza il lettore a
una via di quasi superamento in senso progressivo del pensiero leopardiano.
Metrica Canzone libera, stanze di diversa lunghezza (dai 21 versi della settima strofa ai 71 della terza)

Temi La Ginestra chiude i Canti, di cui costituisce l’epilogo ideale, il punto di confluenza più
complesso dell’esperienza poetica e meditativa di Leopardi. L’unicità del canto si avverte già
nella sua estensione (317 versi)

La struttura del canto:


 Nella prima strofa lo sfondo paesaggistico è dominato dal Vesuvio. Al vulcano pone
l’”Odorata ginestra”, che osserva la rovina circostante rimanendo in essa radicata: non
si sottrae alla verità ma la accetta, consapevole della propria fragilità. La scena che l’io
lirico ha di fronte è quella di un paesaggio concreto, fissato e letto entro precise
coordinate geografiche e stratificazioni storiche. Ma nello stesso tempo, questo
paesaggio reale mette in scena il pensiero del poeta, che, rivolgendosi con il tu alla
ginestra con cui chiaramente si identifica, torna per l’ennesima volta a rivolgersi a se
stesso e a contemplare lo spettacolo della verità e della vanità delle umane aspirazioni.
Un paesaggio “petroso”, arido e sconsolato traduce dunque il pensiero della nullità
delle cose e rende visibile la vittoria della Natura sulla Storia.
 La seconda strofa inizia, riprendendo la prima, anch’essa con il deittico Qui. Cambia
però il destinatario del discorso poetico: il tu passa infatti dalla ginestra al “Secol
superbo e sciocco”. Questo rapporto si esprime in termini di contrapposizione
polemica: con tono ironico e sferzante Leopardi rivolge la sua apostrofe al secolo
XIX, personificato e accusato di aver riportato indietro il pensiero. La fede nel
progresso sposata dalle ideologie ottocentesche nasconde agli occhi di Leopardi un
paradosso: tali visioni chiamano “progredire” quello che in realtà è un tornar indietro.
Alla fine della strofa il tema è riassunto nella contrapposizione di due modelli di
comportamento: quello di chi non teme di portare fino in fondo l’analisi razionale e
quello di chi, invece, si rifiuta di vedere la verità e immagina una condizione di
superiorità della stirpe umana.
 La terza strofa si apre con l’immagine di senso autobiografico dell’“Uom di povero
stato e membra inferme” che saggiamente accetta la sua condizione e non la vela a sé e
agli altri. Opposto al primo è colui che presume di essere forte e nobile, e di questo se
ne vanta, senza rendersi conto che basta un minimo sussulto della Natura perché il suo
orgoglio si vanifichi. Viene quindi opposto a questo modello il comportamento
positivo di chi dichiara la propria fragilità e non cerca facili vie di fuga alla propria
condizione. Questo modello passa ora da un piano individuale a uno collettivo
proponendosi come base per un nuovo patto sociale.
Lo slancio dell’ipotesi morale sfida il pensiero contemporaneo e lancia un’utopia
nuova, in cui l’intento persuasivo non rinuncia mai alla dimostrazione razionale, non
a caso questa terza strofa è caratterizzata dal ricorso all’esemplificazione e alla
similitudine.
 La quarta strofa riparte dal qui del paesaggio vesuviano, da cui è consuetudine del
poeta osservare il cielo. La dinamica spazio-temporale del canto però si allarga
fulmineamente dalla dimensione terrestre a quella cosmica. L’uomo -non più al
centro del cosmo- è chiamato a confrontarsi con la moltiplicazione dei mondi e delle
galassie. Il cielo della Ginestra è lo stesso cielo interrogato nel Canto notturno, ma
rispetto allo sguardo del pastore quello dell’io sembra sdoppiarsi per guardare non
solo dalla terra al cielo, ma anche nella direzione inversa, fino a cogliere in via
definitiva la relatività delle cose. Si misura così la vanità dell’ipotesi
antropocentrica.
 La quinta strofa si apre con un’ampia similitudine: la caduta di un frutto giunto a
naturale maturazione distrugge un formicaio allo stesso modo in cui un’eruzione
vulcanica è in grado di devastare le floride costruzioni realizzate dal paziente lavoro
degli uomini. Tutto rientra nel perpetuo ciclo di nascita, sviluppo e morte, che regola
il sistema naturale
 La sesta strofa si apre con il passaggio dal tempo della Natura al tempo della Storia,
più precisamente a quell’eruzione del Vesuvio del 79 d.C., che cancellò d’un colpo
città popolose e fiorenti come Pompei ed Ercolano. Ma anche in questa strofa lo
slancio argomentativo del poeta è volto a dimostrare che, nella dialettica tra Natura e
Storia, la prima inghiotte la seconda riassorbendo l’evoluzione storica entro un moto
ciclico scandito dai periodici disastri a cui invano si oppongono le umane ricostruzioni.
La parte finale della strofa fa convergere le suggestioni culturali e letterarie verso
l’intento dimostrativo che sta a cuore a Leopardi: la Natura resta indifferente alle
vicende umane.
 La settima strofa con un andamento perfettamente circolare rispetto alla prima del
canto, vede tornare la figura della ginestra, quasi a chiudere questo componimento.
Leopardi coglie non astratti simboli, bensì la sostanza stessa della condizione
dolorosa ma vera dei viventi: alla furia indifferente della Natura, si può rispondere
solo con la docile resistenza della ginestra, che fa dono ai deserti del suo profumo,
ma sa anche accettare senza inutile orgoglio il momento in cui sarà travolta: come la
poesia, unica consolazione nel deserto del nulla. La liquidazione di ogni forma di
antropocentrismo qui tocca il suo apice.

Stile Un canto così lungo e complesso, caratterizzato da una pluralità di piani spazio-temporali e
da un impianto di largo respiro, necessita di una struttura metrica elastica, che assecondi la
tensione espressiva con una variazione costante di tempi e ritmi. Di qui la scelta leopardiana di
ricorrere a 7 strofe, vere e proprie “lasse” dall’andamento liquido, che ricorda il fluire della
lava, e dalla lunghezza estremamente variabile (dai 21 versi della settima strofa ai 71 della
terza). Il ricorso della rima è limitato alla fine di ogni strofa. Modi lirici e prosastici si
alternano e anche l’andamento della sintassi segue i principi di varietà ritmica funzionale
al pensiero: a periodi brevi dall’andamento piano si alternano strutture sintattiche più
complesse, creando un effetto di musicalità aspra,
Senso e sintassi procedono sempre in profonda sintonia: quando il messaggio si fa più
intenso e impegnativo si avverte un crescendo ritmico e sintattico, sottolineato da polisindeti,
anafore e iterazioni.

Le Operette Morali

LA GENESI E LA STRUTTURA
La struttura, il titolo e i personaggi: Il titolo Operette Morali gioca su una voluta ambiguità: l’aggettivo
morali sembra alludere alla trasmissione di un messaggio, mosso quindi da un intento pedagogico,
dell’autore nei confronti dei lettori; il sostantivo, al plurale e nella sua forma alterata (operette e non opere),
attenua invece in anticipo e con lieve ironia la dichiarazione etica, che si sottraggono volutamente a una
dimensione di rigorosa sistematicità. All’insegna della varietà sono anche i personaggi, tratti dalla storia e
dal costume; Leopardi li stacca però tutti dai rispettivi contesti storico-culturali, per farne voci dialoganti
che erompono dal nulla e s’incontrano in un teatro privo di scene. E anche quando si tratta di personaggi
realmente vissuti, il lettore delle Operette presto si avvede del loro valore emblematico: essi interpretano
infatti l’uomo con le sue fragilità e debolezze.

Genesi: Il progetto delle Operette matura velocemente in un solo anno; nel 1824 vengono composte tutte e
venti le prose che costituiranno il primo nucleo del libro. Tuttavia, già a partire dagli anni 1819-20,
parallelamente alla composizione delle Canzoni e degli Idilli era comparsa tra i “progetti letterari” di
Leopardi. La prima edizione a stampa dell’opera si avrà poi solo nel 1827.

POESIA E FILOSOFIA

Un momento di snodo: La genesi delle Operette si situa nel complesso passaggio che si apre con la
cosiddetta “conversione filosofica” del 1819 e culmina nel 1822-23. Su questo sfondo va collocato uno degli
aspetti più innovativi delle Operette, ovvero lo stretto rapporto che a questo punto del proprio percorso
intellettuale Leopardi istituisce tra poesia e filosofia
Leopardi matura, dunque, l’idea che anche la prosa sia adatta a esprimere “pensieri poetici, veramente propri
e moderni” e possa consentirgli di farsi filosofo senza rinunciare alla potenza evocatrice dell’immaginazione
e della fantasia. La strada che aveva davanti a sé era però ardua: occorreva dare alla letteratura italiana una
prosa filosofica che essa non possedeva. Di qui la scelta dell’ironia, secondo una prospettiva socratica
rinnovata: il ricorso al dialogo e il registro ironico assolvono il compito di scardinare le certezze su cui
incautamente si basano la società e il pensiero umano. Centrale risulta dunque la funzione del riso, di cui
Leopardi sfrutta la doppia valenza:
-dissacratoria: perché rivela gli inganni e le illusioni che l’intelletto produce allo scopo di mascherare la
reale condizione umana
-consolatoria: perché allevia l’animo e in parte lo risarcisce della dolorosa verità sulla condizione umana

“SPOGLIARSI DEGLI ERRORI”


L’idea delle Operette morali nasce in concomitanza con l’approfondirsi del pessimismo leopardiano e con il
tramonto dell’ideale di un impegno civile e politico. Lo sguardo di Leopardi a questo punto si fa
disincantato e scettico. In questa prospettiva appare essenziale il contributo della scienza e della filosofia
moderne culminante nell’Illuminismo.
Leopardi mostra la natura ambivalente della ragione: da un lato il “nostro raziocinio”, l’umano intelletto,
fabbrica ostacoli quasi allo scopo di allontanare l’uomo dall’accentramento della verità; dall’altro è sempre e
solo la ragione, usata però in funzione critica, a poter rimuovere quegli ostacoli e liberare la via che conduce
alla conoscenza della condizione umana nel sistema naturale.

L’impegno etico: La sfiducia nei confronti dell’impegno civile e politico non equivale a un’analoga rinuncia
sul piano morale. Anzi, le Operette danno un valore etico altissimo allo sforzo conoscitivo che le attraversa:
dimostrare l’infondatezza di miti quali la felicità è il primo passo verso la definizione di una morale
profondamente rinnovata, integralmente laica e in grado di proporre agli uomini nuovi modelli di
comportamento fondati sulla consapevolezza del vero. È su queste premesse che si delinea il complesso
scopo dell’opera:
 affermare un nuovo tipo di conoscenza, fondata sul rapporto tra immaginazione e ragione
 dimostrare la vacuità dei falsi miti, come l’illusione della felicità
 proporre un’etica nuova che si fondi sulla consapevolezza del vero.

UN’OPERA APERTA E ATTUALE

I tragitti tematici: Su questo sfondo vanno lette le varie e intrecciate scelte tematiche delle Operette:

 Uno dei punti centrali dell’opera è la meditazione sull’infelicità, cui fanno capo molti testi del 1824
che, con diversi accenti, dichiarano l’impossibile conciliazione tra l’ordine cosmico e la ricerca di
piacere del singolo individuo.
 Altro nucleo tematico è quello del piacere e della noia: se in alcune operette Leopardi sembra
indicare nell’intensità delle sensazioni gli unici antidoti della noia, presto anche questa prospettiva si
rivelerà un sogno: l’individuo, teso a riempire il vuoto della vita, capisce che il piacere appartiene
sempre al passato o al futuro, e mai al presente.
 Il tema dell’infelicità è strettamente collegato alla Natura: se in un primo tempo essa non viene
considerata direttamente responsabile della sofferenza umana, presto cadrà anche questa illusione.
La svolta è la scoperta dell’indifferenza della Natura a patire dell’uomo, che vede distruggersi
anche il mito dell’antropocentrismo.
 Leopardi si adopera a dimostrare anche l’infondatezza dei miti tradizionali, ma anche di quelli più
recenti: civiltà, perfettibilità della specie, esaltazione del progresso e della scienza sono sottoposti a
un’ironica e sistematica demistificazione in moltissime operette
 Altri nuclei molto presenti sono quelli della morte e del suicidio.

Modelli e fonti: In assenza di un modello letterario italiano, Leopardi inventa un nuovo tipo di prosa
filosofico-letteraria in cui confluiscono molta esperienza della tradizione. Indicativa in tal senso la ripresa
del genere dialogico, che si richiama al modello antico dei dialoghi satirici, caratterizzati da una spiccata
contaminazione di generi, stili e registri. Fonte d’ispirazione importante è chiaramente Platone, non
mancano inoltre richiami a Cicerone e, tra i moderni, ai dialoghi d’impronta scettica diffusi tra Seicento e
Settecento, di cui esponente era Voltaire. Tra gli antecedenti più nascosti si ricorda inoltre l’influenza dello
stesso Ariosto.

La lingua delle operette: Scrivere prose di carattere filosofico-argomentativo attraverso lo stesso lessico
indefinito, cioè le parole della lirica, è la sfida di Leopardi.
Su un piano generale, la scelta linguistica di Leopardi prosatore si inserisce nella ricerca del decoro classico.
Anche la sintassi si fa il più possibile vicina all’uso parlato, lontana cioè dalle inversioni e dalla
separazione di sintagmi.
Nei testi a struttura dialogica la vivacità della scrittura è affidata, oltre che alla brevità dei singoli
interventi, in un intenso meccanismo di botta e risposta, alla mescolanza di tono serio e tono colloquiale.
Alcuni dialoghi serrati si concludono con una battuta, o comunque con una trovata di spirito che
alleggerisce la tensione e riconduce l’intero discorso a un tono medio.

ESTRATTI
III, Dialogo della Moda e della Morte

Contest Questa terza operetta è giocata su un tono prevalentemente comico: una serie di battute
o dal contenuto lugubre, tuttavia, determina un effetto misto, tra umoristico e grottesco.
Come in un quadro infernale la Moda e la Morte volano l’uno accanto all’altra,
discutendo le sorti degli uomini
Metrica //

Temi In questa operetta la Moda dialoga con la Morte. Il dialogo svela che l’alleanza tra i due si
fonda sulla comune capacità di annullare le cose, travolgendone la memoria. Se la
morte cancella il ricordo dell’umana esistenza, la Moda è capace di imprimere un moto
velocissimo alle abitudini e ai gusti degli uomini.
Quanto più stupidamente gli uomini si sentono capaci di determinare il proprio destino,
tanto più non si accorgono di essere condizionati.
In maniera indiretta, il dialogo propone un rovesciamento dell’idea di immortalità. Con
ironia la Moda afferma che la fama non ha mai potuto garantire l’immortalità a nessuno,
anche se nel passato alcuni uomini si sono fatti questa illusione. Ci ha pensato la Moda a
togliere di mezzo anche questa abitudine dei mortali di considerarsi immortali. Si
prefigura dunque una critica cinica e sarcastica al tema della caducità, ma anche una
critica rigorosa e implacabile verso qualunque verità assoluta e immutabile.
Stile Il lessico utilizzato è quello tipico delle prime operette: un lessico misto, a volte quasi
espressionistico.
La struttura sintattica asseconda la mescolanza lessicale con le frasi brevi e assertive dei
luoghi più apertamente comici e con la complessità argomentativa di altri passaggi più
intensi dal punto di vista riflessivo. In altri termini, alcuni enunciati sono vere e proprie
freddure, altre volte la sintassi si complica e si articola in numerose ripetizioni, anafore,
climax con esito comico, antitesi e negazioni.

XI, Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare

Contest Durante la prigionia presso l’ospedale di Sant’Anna, dov’era ricoverato perché ritenuto
o folle, Torquato Tasso era convinto di vedere ogni tanto uno “spirito buono ed amico” con
cui immaginava di dialogare. È così che lo immagina Leopardi: a colloquio con uno
strano spirito
Metrica //

Temi L’operetta fa parte di quei dialoghi in cui il protagonista è un personaggio famoso, che
assurge a simbolo di una condizione umana particolare: in questo caso, Torquato Tasso è
l’emblema dell’uomo solo, prigioniero delle sue paure.
Tasso si configura dunque come maschera di ogni uomo nel tempo “notturno” e solitario
di una lucida follia, quando l’io si sdoppia e dialoga con un altro sé,
Quest’ultimo non è né uno spirito di ascendenza neoplatonica, né la personificazione di
un intelletto di natura incomparabilmente superiore. Ma nasce, come si scopre sul finale,
da una bottiglia di liquore, capace di dire le cose che la normale razionalità non
ammetterebbe.
È possibile scandire i seguenti nuclei tematici:
-il rapporto tra realtà e sogno
-la natura del piacere e la sua conseguibilità
-la natura della noia
Il rapporto tra realtà e sogno nasce dalla riflessione sull’immagine amorosa. A tasso
che riflette sul processo di divinizzazione a cui l’immagine femminile è sottoposta nella
propria mente, il genio oppone il rovesciamento parodistico: la donna perde la sua
natura di angelo per rivelarsi scaltra e opportunista.
Il genio spiega a Tasso che i piaceri che possono essere conseguiti nella realtà sono di
gran lunga meno intensi e profondi di quelli gustati durante i sogni.
Inizia a questo punto del dialogo, ‘esposizione della teoria del piacere, tema a cui
Leopardi aveva dedicato molti pensieri Zibaldone.
Infinte il terzo punto ruota intorno alla definizione della noia apparentata alla natura
sottilissima dell’aria. La noia penetra negli intervalli tra piacere e dolore e li occupa
interamente. Ecco, dunque, che nell’alternarsi delle due voci del dialogo si viene
componendo il quadro dell’esistenza umana come aspirazione impossibile al piacere e
condanna alla noia e al dolore.
Stile //

XII, Dialogo della Natura e di un Islandese

Contest Per allontanare da sé i dolori e gli affanni dell’esistenza, il protagonista dell’operetta, un


o anonimo islandese, prova ad applicare il precetto epicureo del “vivi nascosto”, evitando
qualsiasi contrasto con gli uomini e astenendosi per quanto possibile ai piaceri: ma la
soluzione suggeritagli dagli antichi si rivelerà ben presto inutile allo scopo. Non darà esito
migliore neppure la sua scelta successiva, ispirata invece dalla modernità: viaggiare
attraverso il mondo alla ricerca di un luogo non inospitale per vivere, che terminerà con
un inquietante incontro e un impossibile dialogo con la Natura.
Metrica //

Temi L’operetta riveste un ruolo decisivo: vi si raggiunge una conclusione nuova nella trama
complessiva della raccolta, una sorta di “punto di non ritorno”. Abbandonando infatti
definitivamente la teoria del piacere, Leopardi vede da ora in poi la Natura come unica
responsabile dei mali dell’uomo: indifferente e ostile alle esigenze dei viventi.

Un islandese, che più di ogni altro uomo è abituato al contatto diretto con la natura, non
ricava tuttavia da questo contatto uno stato di armonia, insidiato e perseguitato com’è da
condizioni atmosferiche ostiche e difficilmente sopportabili. L’islandese, infatti, da subito
sembra mosso da un continuo e vano tentativo di sfuggire dal dolore, che capirà presto
non riguardare solo lui ma l’intero genere umano. Si vanifica il mito tipicamente
settecentesco del viaggio come mezzo di completamento della formazione individuale.
Imbattutosi alla fine solo casualmente nella Natura, il protagonista dell’operetta si vede
offerta l’opportunità di chiedergliele ragione della spaventosa e miserevole condizione
alla quale tutte le creature sono condannate, ma la sua improvvisa “morte scomparsa” gli
negherà di conoscere la verità.

Una lettura possibile di questa operetta riguarda una sotterranea e ironica corrispondenza
tra il protagonista e l’io dell’autore. La ricerca dell’islandese si può far coincidere in
realtà con le tappe essenziali del percorso sino a quel momento compiuto da Leopardi: per
entrambi, la persuasione della vanità delle cose e la scoperta dell’impossibilità dei
piaceri.
Il viaggio che l’islandese e il suo autore compiono insieme, è destinato a mettere in crisi
tutte le soluzioni che Leopardi aveva provvisoriamente elaborato: la ricerca della vitalità e
del piacere si dimostra inutile. Quando il viaggio avrà termine la condanna nei confronti
della Natura sarà definitiva e inappellabile: soltanto lei è responsabile dell’infelicità di
ogni creatura. Per mezzo della finzione letteraria Leopardi conquista finalmente la sua
verità filosofica

Stile //

XXIII, Dialogo di un Venditore d’almanacchi e di un Passeggere

Contest Vi è rappresentato un incontro occasionale tra due interlocutori sullo sfondo di una via
o cittadina. Le due voci che dialogano non sono legate da rapporti amicali, né da affinità
elettive o culturali: sembra piuttosto la distanza ad unirle. Da una parte c’è un venditore di
calendari, un uomo comune privo di cultura e di capacità filosofiche; dall’altra, un
passante, un individuo senza nome e senza volto, ma incline alla speculazione e capace di
provocare riflessioni anche all’interlocutore più incolto. Al centro del dialogo c’è un tema
apparentemente banale: l’attesa del nuovo anno e la speranza che la accompagna.
Metrica //

Temi //

Stile //

XXIV, Dialogo di Tristano e di un amico

Contest Le voci dialoganti sono, come al solito, due: da un lato quella di Tristano, maschera
o ironica dell’autore, che rivela nel nome la sua natura malinconica di eroe infelice e vocato
alla morte; dall’altro quella di un anonimo amico, portavoce del punto di vista comune
del secolo XIX. Nel corso del dialogo sarà la personalità del primo ad affermarsi sempre
di più nettamente, svelando, dietro la maschera ironica e i modi della palinodia, una
statura eroica basata sulla consapevolezza di essere straniero al proprio tempo perché
maestro di verità inattuali, sgradite ai contemporanei
Metrica //

Temi Tristano, eroe solitario e malinconico, reso celebre da alcuni romanzi medioevali oppone
un nuovo punto di vista filosofico e pessimistico all’altro personaggio, “l’amico”,
portavoce dell’opinione comune del primo Ottocento.
In questo complesso gioco di specchi, sotto le fattezze di Tristano si indovinano i tratti di
Giacomo: l’io dell’autore si maschera con i panni dell’io del personaggio, anche se
l’identificazione autobiografica non è mai totale. Ciò che li accomuna è un destino di
irriducibile e dissonante estraneità rispetto ai propri tempi: entrambi sgraditi al proprio
secolo, entrambi disutili, entrambi stranieri. Tristano alla fine dell’operetta difenderà il
senso della sua filosofia dolorosa, ma vera.

La questione centrale del dialogo è quella della modernità, espressa nei termini
dell’opposizione tra antichi e moderni, ironicamente Leopardi proclama la superiorità
di questi ultimi. Tristano utilizza per gran parte dell’operetta i modi della palinodia,
ovvero finge di accogliere il punto di vista dei suoi contemporanei, ma in realtà
polemizzando contro di loro. Nella conclusione del dialogo Tristano, smessi i modi
ironici, attacca al cuore il suo secolo nel tratto che più lo caratterizza: l’ottimismo
idealistico tipico degli ambienti liberali ottocenteschi
Stile Tutta la prima parte è caratterizzata dal ricorso al travestimento ironico e alla palinodia.
La natura del dialogo rivela in certe parti l’andamento di un’inchiesta. Più ampi e
articolati, invece, gli interventi di Tristano caratterizzati da serrate e lucide
considerazioni. Quando il protagonista sembra dar ragione all’amico in realtà le svuota di
valore dall’interno ricorrendo all’ironia e al paradosso.
Tristano compendia qui il lessico della modernità e, mentre lo declina, ne sottolinea
sarcasticamente la vacuità.
Nell’ultima parte, eliminato ogni residuo di ironia, prevalgono i toni distaccati della
meditazione sulla morte: si accentua la brevità delle frasi, ritmate da uno stile epigrafico.

Lo Zibaldone

La compilazione: A partire dall’estate 1817 Leopardi comincia ad annotare su un quaderno appunti e


pensieri di natura diversa: ragionamenti filosofici e morali, discussioni letterarie, introspezioni
psicologiche
legate alla sua esperienza personale. Circa un anno e mezzo più tardi egli prende l’abitudine di porre la data
in calce a queste annotazioni: un dettaglio prezioso, che ci consente di ricostruire con precisione tanto il
processo evolutivo, gli assestamenti e le aperture culturali del suo pensiero
La sistemazione dell’opera: La mole delle riflessioni che si stratificano nel corso di circa un quindicennio è
impressionante: 4526 pagine manoscritte. Nel 1827 Leopardi decide di approntare persino un indice
analitico degli argomenti trattati in quei fogli, cui darà il titolo Indice del mio Zibaldone di pensieri.
Questo titolo, indicando una miscellanea di riflessioni eterogenee, rende molto bene il carattere misto
dell’opera. Lo Zibaldone rivela la sua natura di ricchissima raccolta di materiali per opere possibili.
Proprio in questo suo carattere si definisce la notevole modernità e il fascino di libro parallelo e segreto.
Un pensiero contraddittorio: Per quanto si tratti di uno dei testi più anatomizzati e indicizzati lo Zibaldone
mal si presta ad essere condensato in un uno schema riassuntivo: il pensiero di Leopardi non si dà una volta
per tutte, ma si presenta invece in un continuo e spesso contraddittorio divenire. È un pensiero zigzagante,
a volte caotico che si perde nei frequentissimi “eccetera”, quasi come se la mano non riesca a tener dietro
la velocità del pensiero. Gli argomenti sono i più disparati, anche se più di metà degli appunti è dedicata ad
annotazioni di carattere linguistico e a osservazioni di carattere filosofico.
Il ruolo del lettore: Ciò che è importante comprendere è che in un’opera simile noi lettori siamo chiamati a
un compito arduo, che non è tanto quello di scovare nel corso del libro i pensieri che affrontano lo stesso
tema, ma quello di dialogare con il pensiero dell’autore, colto nel suo sviluppo, nel suo contraddirsi e nel
flusso della quotidianità. Di quel pensiero ne possiamo seguire l’andivieni, come ci invita a fare lo stesso
autore, chiamando spesso in causa i lettori con l’uso del “voi”, o ponendosi domande che vorrebbero una
risposta anche da interlocutori reali.
La modernità dello Zibaldone: Molti lettori contemporanei hanno individuato nello Zibaldone uno degli
esempi più interessanti della modernità di Leopardi. È come se il carattere fulmineo e conciso della scrittura
desse corpo e voce alla natura asistematica della filosofia leopardiana. Così l’opera riveste una originale e
formidabile funzione nell’800 e poi nel 900 con il suo metodo aperto e poetante con cui il discorso
procede. Un metodo disposto a rimettersi costantemente in discussione e ad accettare, con una curiosità che
non conosce limiti, tutte le sollecitazioni dell’attualità, le ricerche filosofiche e sperimentali.
ESTRATTI

T.1 Natura e Ragione


In questo estratto si riportano due pensieri molto diversi e distanti cronologicamente, ma legati tra loro dalla
riflessione sul rapporto tra natura e ragione. Il primo passo rinvia a una fase iniziale del pensiero leopardiano,
in cui la natura è esente da colpe, tutte invece attribuite alla ragione. Il secondo pensiero appartiene alla fase
più fosca del pessimismo leopardiano. Qui la constatazione del male universale è irreversibile e senza
appello, poiché viene chiamata direttamente in causa la Natura, madre impietosa.

T.2 Le voci dell’illusione


Il primo pensiero qui proposto è dedicato all’ubriachezza, che provoca allegria e permette il libero sfogo
dell’immaginazione. Evidentemente Leopardi sta riflettendo in questo periodo sulla natura
dell’immaginazione e sui modi in cui essa si manifesta e può essere risvegliata. Nel pensiero successivo si
rifà a un’importante distinzione fra parole e termini: le parole mobilitano una certa quantità di immagini
accessorie, i termini definiscono invece con esattezza il proprio referente. Il discorso viene quindi allargato al
generale: i termini sono paragonai alla pura razionalità e le parole all’immaginazione.

T.3 Poesia, filosofia, scienza.


Il primo pensiero presenta un autoritratto dell’artista nei panni del filosofo: riflette sulla inconciliabilità di
fondo della moderna filosofia e della poesia, ma al tempo stesso profila un superamento di questa impasse,
seppure come cosa “vicina all’impossibile”.
Il secondo pensiero presenta un affondo magistrale, contro una “scienza esatta”: la fisica. Gli scienziati
moderni, per Leopardi, si smarriscono nel particolare e nell’empirico, rinunciando a cimentarsi con la ricerca
dei principi basilari, una ricerca in cui dovrebbero avvalersi dell’apporto dell’immaginazione e dell’incerto.
Nel terzo passo il punto è chiarito ancor meglio: i fisici come Copernico non rivoluzionano solo il paradigma
di riferimento della scienza in seno alla quale operano, ma finiscono per rovesciare come un guanto la
complessiva concezione filosofica e morale dell’uomo.

T.4 Indefinito del materiale, materialità dell’infinito.


La prima è una pagina radicale, strenuamente arroccata in un materialismo senza deroghe: nulla è concesso
allo spiritualismo e al trascendentalismo romantico, e perfino nella tensione verso l’infinito si può riscontrare
qualcosa di irriducibilmente sensibile.
Diversi anni dopo Leopardi mette in discussione la concezione dell’infinità dell’universo, esso crede infatti
che non corrisponda al vero. Il paradosso è esposto in modo apodittico, senza fornire controprove e
dimostrazioni metafisiche. L’infinito è dunque visto da Leopardi come una generosa illusione,
un’autoconsolazione e un’inferenza arbitraria da parte dell’uomo, derivata dal combinarsi del suo desiderio
di piacere con la facoltà immaginativa.

T:5 La poetica del vago, dell’indefinito, del ricordo


Quelle che seguono sono le pagine più note dello Zibaldone che disegnano una precisa ed esplicita poetica
d’autore. Non si tratta tanto di dichiarare quali siano le finalità e le motivazioni profonde della lirica
l’Infinito, bensì di svelare le tecniche retoriche e le selezioni terminologiche di volta in volta nell’opera.

Il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani

Il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani è stato scritto da Leopardi nel 1824, ma
pubblicato solo nel 1906. Oggetto dell’analisi è la società moderna delineatasi successivamente alla
Rivoluzione Francese, e quella italiana in particolare. Quest’ultima, ci spiega Leopardi, si differenzia dalle
altre società europee per la mancanza di quella che lui chiama la “società stretta”: un insieme compatto di
individui di condizione agiata che non hanno la necessità di lavorare per vivere, che trascorrono la propria
vita alla ricerca del piacere, che rendono possibile la sopravvivenza delle illusioni e della società stessa.
Leopardi sembra impostare il ragionamento secondo una critica dei costumi moderni. Le dinamiche della
modernità sembrano prodursi in una totale cancellazione del tempo, mettendo a repentaglio la memoria.

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