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La saviezza, la beffa e la cortesia

Quattro novelle di Giovanni Boccaccio “tradotte”


in italiano moderno
Introduzione
Il Decameron è l'opera principale di Giovanni Boccaccio, scrittore fiorentino che nacque nel 1313
e morì nel 1375. Boccaccio fu testimone durante la sua giovinezza della pestilenza che afflisse
Firenze provocando un numero spaventoso di morti. Questo episodio tragico della sua vita verrà
poi riportato nel Decameron ed è il
motore della vicenda. La storia infatti
ha come protagonisti dieci giovani
(sette donne e tre uomini) che, per
fuggire la peste, si rifugiano in
campagna dove uno di loro ha un
palazzo. Qui per passare il tempo
raccontano ogni giorno dieci novelle,
una a testa. La durata del soggiorno è
di dieci giorni (Decameron = dieci
giorni:"deca" in greco vuol dire dieci;
"emeron" invece vuol dire giorno),
per cui le novelle saranno in totale
cento.

Come si organizza la brigata dei dieci giovani:

Ogni giorno i dieci giovani eleggono un re o una regina che ha il compito di fissare il tema della
giornata al quale tutti gli altri narratori dovranno attenersi. Al solo Dioneo, per la sua giovane età,
è concesso di non rispettare il tema fissato.

La storia dei dieci giovani che sfuggono alla peste e decidono di svagarsi raccontando delle storie è
dunque la cornice narrativa, cioè una storia che introduce e collega tutti gli altri racconti.

Cosa leggeremo

Leggeremo un passo della cornice narrativa e quattro delle cento novelle, intitolate
rispettivamente Chichibìo e la gru, Federigo degli Alberighi, Calandrino e l’elitropia, Il maiale
imbolato.

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Focus: l’autore

Giovanni Boccaccio nacque nel 1313 a Le letture pubbliche ebbero molto successo
Certaldo (o a Firenze). Figlio illegittimo di un ma si
ricco mercante e di una donna di umile interruppero a causa della salute malferma di
condizione sociale, quando compì quattordici Boccaccio, che morì nel 1375 a Certaldo.
anni, il padre lo prese presso di sé e lo
condusse a Napoli, per educarlo e istruirlo
nell’arte della mercatura. Il soggiorno
napoletano fu un periodo molto felice per il
giovane Boccaccio, che grazie alle conoscenze
del padre poté frequentare la migliore
società: partecipò così a feste di corte, si
appassionò di letteratura e di poesia, ebbe
avventure amorose, compose varie opere in
versi e in prosa. Questa vita spensierata e
benestante si interruppe bruscamente nel
1340, quando gli affari del padre subirono un
tracollo. In seguito a questo fallimento
economico Giovanni Boccaccio e suo padre
tornarono a Firenze, dove condussero una
vita molto modesta. La situazione peggiorò
ulteriormente nel 1348: quell’anno, infatti,
Firenze fu colpita da una tremenda epidemia
di peste che fece migliaia di morti, tra i quali
anche il padre di Boccaccio. In questa
drammatica situazione Boccaccio iniziò la Giovanni Boccaccio
composizione del suo capolavoro, il
Decameron, che ebbe subito vasta L’opera principale: il Decameron
diffusione. Che cos’è il Decameron. Il Decameron (in
Dopo il 1350 la vita di Boccaccio subì una greco, “dieci giornate”) è una raccolta di
svolta. cento novelle di argomenti diversi e di varia
Grazie alla sua fama di scrittore ottenne dal lunghezza, composta da Giovanni Boccaccio
Comune fiorentino alcuni importanti incarichi tra il 1349 e il 1351. È un’opera di
diplomatici che lo portarono a visitare varie straordinaria importanza per la letteratura
città italiane e a conoscere personalità italiana perché introdusse il genere della
prestigiose: tra esse, il poeta Francesco novella (o racconto, come lo chiamiamo oggi)
Petrarca, cui si legò di una duratura amicizia sino ad allora sconosciuto, e perché presenta
e con cui condivise l’amore per gli autori ambientazioni e personaggi ispirati
latini e per i manoscritti antichi. alla vita reale e quotidiana del Trecento. Le
Nel 1373 il Comune di Firenze gli diede cento novelle sono collegate tra loro da una
l’incarico di leggere e commentare storia-contenitore, detta a “cornice”: in
pubblicamente la Commedia di Dante seguito all’epidemia di peste che ha colpito
Alighieri, opera che Boccaccio definì “divina” Firenze, dieci giovani di buona famiglia (sette
per la sublime perfezione dello stile e per ragazze e tre ragazzi) decidono di allontanarsi
l’importanza dei contenuti. dal pericolo del contagio trovando rifugio in
una bella villa di campagna. Per dieci giorni
durante le ore più calde, i ragazzi si ritrovano colpi di scena, avventure mozzafiato, amori
nel giardino della villa e raccontano ognuno impossibili, scherzi e tranelli: tutti ingredienti
una storia: perciò, alla fine, le novelle sono indispensabili per appassionare e avvincere i
cento. lettori.
Il divertimento, però, è solo un aspetto
Lo sfondo storico delle novelle. dell’opera; il Decameron offre anche molti
Le novelle del Decameron sono ispirate alla spunti di riflessione e di conoscenza sia della
vita quotidiana e materiale dell’Italia del mentalità dell’epoca, sia di vizi e di virtù
Trecento: molte, infatti, sono ambientate tipiche dell’animo umano.
nelle grandi città dell’epoca, come ad Tra le qualità umane valorizzate da
esempio Firenze e Napoli, di cui lo scrittore Boccaccio, la principale è l’intelligenza (la
descrive quartieri, vicoli, piazze e luoghi di saviezza), a patto che essa sia accompagnata
ritrovo; i personaggi sono ugualmente ispirati da gentilezza, decoro e cortesia; in caso
alla realtà e si trovano coinvolti in situazioni contrario, l’intelligenza diventa egoismo,
molto diverse: a volte comiche, a volte meschinità, indifferenza. L’uomo intelligente
tragiche, a volte sentimentali. ha l’umiltà di imparare qualcosa anche
L’ambientazione realistica è una grande quando la Fortuna (cioè il caso imprevedibile
novità del Decameron: sino a quel momento, e bizzarro) gli complica la vita. Al contrario, il
infatti, personaggi e situazioni tratti dalla difetto peggiore per Boccaccio è la stupidità:
contemporaneità erano ritenuti indegni di chi è stupido e credulone merita di essere
comparire nelle opere letterarie importanti. preso in giro, beffato e danneggiato perché
non fa uso dell’intelligenza.
I temi.
Principale obiettivo del Decameron è
divertire. Le novelle sono ricche di battute,

La cornice narrativa

Dall’Introduzione al Decameron (la parte in corsivo è il testo originale di Boccaccio)

Dico adunque che già erano gli anni della fruttifera incarnazione del Figliuolo di Dio al numero
pervenuti di milletrecentoquarantotto, quando nella egregia città di Fiorenza, oltre a ogn'altra
italica bellissima, pervenne la mortifera pestilenza…,

…la quale, forse mandata da Dio per punire i nostri peccati, mieteva molte vittime. Tutti i
provvedimenti che si presero furono inutili: la città fu ripulita, si fecero processioni per supplicare i
santi ma il contagio non cessava di diffondersi. Quando la peste contagiava qualcuno, all’inguine o
sotto le ascelle gli spuntava un rigonfiamento, delle dimensioni di una mela o di un uovo, che il
popolo chiamava “gavocciolo”. In una fase più acuta dell’epidemia i gavoccioli presero a spuntare
in tutte le parti del corpo. A volte invece di questi rigonfiamenti si manifestavano macchie nere o
livide sulle braccia, sulle cosce e su tutto il corpo, ad alcuni grandi e rade, ad altri minute e fitte. Ed
esattamente come i gavoccioli, anche queste macchie erano, per chi se le vedeva comparire
addosso, indizio di morte certa.

Questa pestilenza fu terribile: si avventava sui sani come il fuoco fa con le cose secche e unte
quando gli sono molto vicine. Non soltanto il parlare e frequentare gli infermi trasmetteva ai sani
la malattia, ma anche il semplice toccare panni contagiati o qualunque altra cosa fosse stata
adoperata o sfiorata da chi già era stato contagiato. La pestilenza fu così forte che passava anche
dagli uomini agli animali: le bestie che toccavano le cose di qualcuno morto a causa del contagio
morivano in poco tempo.

Io stesso ho assistito a questa scena: due porci si misero, secondo il loro costume, a rivoltare col
grifo e con i denti degli stracci che si trovavano in mezzo alla via, appartenuti ad un appestato. Nel
giro di qualche ora entrambi caddero stecchiti sopra quegli stessi stracci, come se fossero stati
avvelenati.

Laboratorio

Rispondi sul quaderno

In che anno scoppia la peste a Firenze?

Cosa sono i “gavoccioli”?

Oltre ai gavoccioli, cosa poteva apparire sul corpo di chi aveva preso il contagio?

A quale scena assiste l’autore?

Ricopia in questo spazio la frase nel testo evidenziata in grassetto:

…………………………………………………………………………………………………………………..…………………
……………………………………………………………………………………………..………………………………………

Si tratta di una similitudine, ossia di un paragone introdotto da “come”, molto


efficace perché rende bene la velocità con cui la pestilenza si diffondeva a Firenze.

Aiutandoti con il dizionario spiega il significato delle seguenti espressioni:

Macchie livide; Indizio di morte certa

Adesso prova a riscrivere in Italiano moderno l’inizio del brano (è la parte in corsivo)
Focus: Uomini e topi
Leggiamo questa pagina scritta dallo storico A. Prosperi

Tra il 1347 e il 1351 un flagello biblico si abbatté sull’Europa: la Peste Nera. La gente si
ammalava e moriva in quantità incredibili, in tempi brevissimi. La minaccia della
scomparsa della specie umana, sotto l’attacco di un nemico invisibile e spaventoso, fu
allora non un timore lontano, astratta, ma una prospettiva concreta. Nel breve spazio di
qualche ora, chi era vivo non c’era più; bastavano pochi giorni perché i vivi che
affollavano strade e mercati si affollassero in cataste di morti che nessuno riusciva più a
seppellire.

L’aggressione sembrava venire da una natura ostile, misteriosa, dietro la quale si vedeva
solo la mano di Dio.

Oggi lo sappiamo. Ci furono cause naturali (i topi, il bacillo della peste): sono le
conoscenze accumulate dopo il 1348. Ma tutto questo allora era sconosciuto.
Testimoni inconsapevoli e vittime di una guerra tra altre specie animali, gli esseri umani
non avevano allora nessuna nozione delle cause dell’epidemia.
Precedenti ce n’erano stati: una
«pandemia» di portata simile
c’era stata nei secoli bui della
scomparsa dell’Impero
d’Occidente e della crisi di quello
Oriente; cominciata in Africa
lungo il Nilo nel 541, aveva colpito
il mondo mediterraneo seguendo
i percorsi delle navi bizantine e
aveva risalito l’interno
dell’Europa, estinguendosi solo
verso la metà del secolo VIII. Ma il
flagello era conosciuto Malati di peste bubbonica
soprattutto attraverso la Bibbia,
come arma punitrice di Dio. E a
Dio ci si rivolse per cercare aiuto. Papa Clemente VI indisse un pellegrinaggio
straordinario a Roma nel 1348. E in tutte le città si moltiplicarono allora le preghiere, le
processioni, gli atti di espiazione per gli sconosciuti peccati che avevano scatenato l’ira
divina. Processioni, pellegrinaggi: modi straordinariamente efficaci per propagare il
contagio, perché facevano aumentare i contatti tra gli uomini.

Ma chi portava la morte? Questa è una delle cose che oggi sappiamo. Era un nemico
minuscolo, invisibile: pochi millesimi di millimetro. Un germe insediato nel sangue dei
ratti neri, diffuso dal morso delle pulci. La pulce parassita – la Xenopsilla cheopis –
assorbe col sangue del ratto il germe della peste e lo trasmette agli esseri umani
eventualmente presenti nel raggio della sua azione.

(A. Prosperi, Dalla Peste Nera alla guerra dei Trent’anni)

La Saviezza
Chichibìo e la gru

A Firenze viveva un nobile, chiamato messer Corrado, generoso con tutti, che si dilettava
allevando cani e cacciando uccelli. Un giorno egli prese col falcone una bella gru, e, visto che era
tenera e bella grassa, la mandò al suo abile cuoco, che si chiamava Chichibìo, con l’ordine di
arrostirla per bene e servirgliela a cena,
intendendo farsi una bella mangiata. Chichibìo la
prese e si mise subito a cucinarla; quando la
cottura fu quasi al termine, cominciò a spandersi
attorno un odore delizioso.
Successe che passò di lì una ragazza, una certa
Brunetta, di cui il buon Chichibìo era innamorato
cotto; Brunetta si presentò nella cucina e, nel
sentire l’odore della gru e nel vederla sul fuoco, le
venne l’acquolina in bocca e si mise a pregare
Chichibìo di darle una coscia.
- Assolutamente no – rispose Chichibìo, - proprio
non posso: il padrone mi punirebbe.
Brunetta fece l’offesa:
- Parola mia, se non me la date, vi giuro che non vi guarderò mai più in faccia.
E così i due cominciarono a litigare. Alla fine Chichibìo si arrese e, per non vedere la sua bella
contrariata con lui, prese una coscia e gliela diede.
La gru fu portata così, senza una coscia, alla tavola di Corrado che aveva invitato un amico suo.
Quando si rese conto che qualcosa non quadrava, Corrado, molto stupito, fece chiamare Chichibìo
e gli chiese dove fosse finita l’altra coscia della gru. Il furbastro rispose subito:
- Signore, le gru hanno una sola coscia e una sola gamba.
- Come diavolo sarebbe? – domandò Corrado. – È forse questa la prima gru che vedo? Tutte quelle
che ho preso finora avevano due gambe e due cosce. Che storie mi racconti?
- Messere, - insisté Chichibìo, - è proprio così come vi dico. E ve lo proverò quando vorrete,
mostrandovi una gru viva. Allora vedrete che questi strani uccelli hanno una sola coscia.
Corrado, per non fare discussioni davanti ad un invitato, tagliò corto e concluse:
- Va bene, lo vedremo domattina, e se sarà come dici tu sarò contento. Ma ti giuro che, se non mi
dimostri che le gru hanno una sola coscia, ti farò bastonare in maniera tale che ti ricorderai di me
finché campi.
Per quella sera non fu detto altro, ma il mattino dopo, all’alba, Corrado, a cui non era affatto
sbollita l’ira durante la notte, si alzò ancora molto contrariato e comandò di sellare i cavalli. Poi
fece montare Chichibìo sopra un ronzino e lo condusse sulle rive di un fiume dove, sul far del
giorno, si vedevano sempre delle gru.
- Adesso vedremo chi di noi due ha mentito ieri sera, - disse minaccioso.
Chichibìo, vedendo che l’ira di Corrado era ancora viva e che doveva difendere la sua bugia,
cavalcava pieno di paura a fianco del padrone senza sapere quello che dovesse fare. Se la sarebbe
data volentieri a gambe, se avesse potuto, ma, poiché purtroppo non lo poteva, si guardava ora
davanti, ora dietro, ora di fianco. Ma ovunque gli sembrava di vedere delle gru piantate
solidamente su due gambe.
Arrivati però nelle vicinanze del fiume, riuscì a vedere prima degli altri ben dodici gru le quali se ne
stavano tutte su una gamba sola come sono solite fare quando dormono.
Si affrettò dunque a mostrarle a Corrado dicendo:
- Messere, potete vedere molto bene che ieri sera vi dissi il vero. Le gru hanno una sola coscia e un
solo piede: guardate là.
Corrado le guardò un poco e poi rispose:
- Aspetta, e ti farò vedere che ne hanno due.
E, avvicinandosi agli uccelli, gridò:
- Oh! Oh!
A quel grido le gru mandarono giù l’altro piede e, fatto qualche passo, volarono via.
Corrado, molto adirato, si rivolse allora a Chichibìo dicendo:
- Che te pare furfante? Non ti sembra che ne abbiano due?
Chichibìo, mezzo tramortito, rispose:
- Messer sì, ma voi non avete gridato “oh, oh” a quella di ieri sera: se aveste gridato così essa
avrebbe cacciato fuori l’altra coscia e l’altro piede come hanno fatto queste.
A Corrado questa risposta piacque tanto che tutta la sua ira si trasformò in riso e allegria, e disse:
- Hai ragione, Chichibìo, dovevo fare così.
E Chichibìo, con la sua furba risposta, sfuggì alle bastonate e si rappacificò col suo padrone.

Laboratorio

Nel testo hai trovato tre parole evidenziate in grassetto, spiegane il significato sul
quaderno con l’aiuto del dizionario.

Riassumi la novella in non più di mezza pagina

Rispondi sul quaderno

Il protagonista

Nome? Mestiere? Carattere (il protagonista ti sembra simpatico? furbo? Imbroglione?)

Perché il protagonista rischia di farsi bastonare dal padrone?


Come fa a uscire dalla situazione complicata in cui si è cacciato?

Leggi ora con attenzione il seguente testo:

La vicenda di Chichibìo sviluppa il tema del potere della parola, il potere cioè di chi, con
un “leggiadro motto” (come diceva Boccaccio), ossia con una battuta spiritosa ed
arguta, riesce a sfuggire un pericolo o a rovesciare una situazione a proprio vantaggio.
Il cuoco Chichibìo si trova nei pasticci perché non è riuscito a resistere alla richiesta
insistente della bella Brunetta di mangiare la coscia di una gru destinata alla cena del
padrone. Fallito il tentativo di giustificarsi, il protagonista della novella riesce, con una
battuta divertente, a trasformare in un’allegra risata l’umore adirato del padrone.
L’autore del racconto, Giovanni Boccaccio, ha molta simpatia per personaggi come
Chichibìo, dei quali apprezza la “saviezza” (ossia l’astuzia, la scaltrezza) e spesso li
rende protagonisti delle sue storie.

Ti è mai capitato di risolvere una situazione problematica con una battuta azzeccata?
Racconta tutto…..
La beffa (1)

Calandrino e l’elitropia

A Firenze viveva un pittore squattrinato, di nome Calandrino, sempliciotto e un po’ tonto, che
frequentava due altri pittori, di nome l’uno Bruno e l’altro Buffalmacco, uomini scaltri ed avveduti
che amavano divertirsi alle sue spalle.
Al tempo di questi tre pittori a Firenze viveva anche un giovane, astuto e bello, chiamato Maso del
saggio, il quale, avendo sentito che Calandrino era un sempliciotto, decise di fargli una beffa.
Avendolo per caso trovato nella chiesa di san Giovanni e vedendolo intento a guardare le pitture e
gli intarsi che ornavano il tabernacolo, pensò di giocargli un tiro birbone. Informato un suo
compagno di ciò che intendeva fare, insieme s’accostarono a Calandrino e, facendo finta di non
accorgersi di lui, incominciarono a parlare dei poteri straordinari di alcune pietre, delle quali Maso
discuteva come se fosse un grande esperto. Calandrino si incuriosì e, volendo saperne di più, si unì
ai due.
Così venne a sapere da Maso che la maggior parte di quelle pietre si trovava in Berlinzone, terra
dei baschi, nella contrada di Bengodi, nella quale si legano le vigne con le salsicce e si può
comprare un’oca per un denaro ricevendo un papero in omaggio; e apprese anche che nel paese
di Bengodi vi era una montagna tutta di parmigiano grattugiato, sopra la quale vivevano persone
che facevano maccheroni e ravioli dalla mattina alla sera, li cuocevano nel brodo di cappone e poi
li gettavano giù, e chi più ne pigliava più ne mangiava; e vicino alla montagna scorreva un
fiumicello di vino, del migliore che mai si bevve.“Oh!, disse Calandrino, questo è proprio un buon
paese; ma dimmi, cosa fanno con i capponi che cuociono?”
Rispose Maso: “Se li mangiano tutti i baschi.”
Disse allora Calandrino: “Tu ci sei mai stato?”
Maso rispose: “Figurati, ci sono stato almeno mille volte.”
E Calandrino: “E quanto è distante?”
E Maso: “Millanta miglia, la bagga ti piglia, piripìn bazum logopotto.”
Calandrino non capì quasi niente: “Dunque dev’ essere più lontano degli Abruzzi.”
“Sì , rispose Maso, sì, è cavelle cavelle, dirticomasio, laggiù, lontan lontano, articomasio zabum
cacaloffo.”
Siccome Calandrino, sempliciotto, non stava capendo nemmeno metà di quelle parole, pensava
che Maso fosse un grande esperto, un dottorone molto istruito, che sapeva parlare difficile e al
quale perciò si doveva prestare la massima fiducia. Dunque disse: “È troppo lontano, questo
posto: ma se fosse più vicino, ben ti dico che io ci verrei una volta con te, pur di vedere quei
maccheroni cadere dall’alto e farmene una scorpacciata. Ma dimmi, nel nostro paese non ci sono
le pietre di cui parlavate prima?”
Maso rispose: “Sì, vi si trovano due pietre che hanno poteri straordinari. Il primo tipo di pietra è il
macigno di Settignano e di Monte Morello, da essa si ricavano le macine con cui si fa la farina. È
una pietra che i baschi apprezzano molto più degli smeraldi, perché ne hanno poca, mentre noi
non sappiamo che farcene. Loro invece, guarda un po’ come è mai fatto il mondo, hanno gli
smeraldi a mucchi nelle campagne, che se ne servono per ghiaia nei giardini. Se gli potessimo
portare un po’ di macine ai baschi, legate come vogliono loro, chissà gli smeraldi che ci
darebbero».
“E come le vogliono legate?”, s’informò Calandrino.
“Infilate in una corda come anelli, ma prima di venir forate al centro”.
Calandrino restò un poco pensoso,senza capirci niente, poi chiese:
“Qual è l’altra pietra di cui parlavi?”
“L’altra è una pietra che noi esperti chiamiamo “elitropia”, pietra veramente eccezionale perché
chi la porta diventa invisibile”, rispose Maso.
E Calandrino: “Che potere meraviglioso! Ma dalle nostre parti non si trovano queste elitropie”?
Maso gli rispose che, cercando bene, le elitropie si potevano trovare anche nel Mugnone, il
torrente che scorreva vicino alla porta di san Gallo.
E Calandrino, molto interessato: “Di che grossezza è questa pietra? E di che colore è?”
Rispose Maso: “E’ di varie grossezze, ma tutte sono più o meno di colore nero.”
Calandrino, dopo aver preso nota mentalmente di tutte queste notizie, fece finta d’avere altro da
fare e si allontanò da Maso, col proponimento segreto di andare da solo a cercare l’elitropia.
Tuttavia decise di informare Bruno e Buffalmacco, perché erano i suoi migliori amici. Questi due
lavoravano nel monastero di Faenza. Calandrino li raggiunse tutto eccitato e disse loro: “ Amici,
credetemi, abbiamo l’opportunità di diventare gli uomini più ricchi di Firenze, grazie a ciò che ho
appreso da un uomo dotto e degno di fede, che cioè nel Mugnone si trova una pietra dai poteri
veramente straordinari che rende invisibile chiunque la porti addosso. Dobbiamo subito andare a
cercarla e trovarla prima di chiunque altro, così con quella pietra in tasca ce ne andremo al tavolo
dei banchieri, che sono sempre carichi di monete, e potremo arraffare tutti i soldi che vorremo.
Diventeremo ricchi in quattro e quattr’otto, senza bisogno di passare la vita ad imbrattare le mura
con le nostre pitture.
Bruno e Buffalmacco, sentendo costui, si misero a ridere fra se medesimi e, guardandosi
furbescamente l’uno con l’altro, fecero finta di essere molto meravigliati ed interessati.
Buffalmacco domandò che nome avesse questa pietra. Ma a Calandrino quel nome difficile era
uscito di mente, perciò rispose: “Che dobbiamo farcene del nome visto che di quella pietra
conosciamo il potere? Secondo me dobbiamo andare subito a cercarla, senza perdere tempo in
chiacchiere inutili”.
“Bene, disse Bruno, com’è fatta?”
Calandrino rispose: “Ce ne sono di tutte le forme ma tutte son quasi nere; perciò se raccogliamo
tutte le pietre nere in cui ci imbattiamo, prima o poi finiremo col raccoglierla. Non perdiamo
dunque tempo, andiamo.”
Su suggerimento di Bruno, i tre decisero di aspettare la domenica successiva, quando c’erano
meno probabilità di incontrare altre persone, per andare in cerca dell’elitropia.
Calandrino con impazienza aspettò la domenica mattina. Quando giunse, si alzò all’alba e, chiamati
i compagni, dopo essere usciti per la porta di San Gallo ed essere discesi nel Mugnone,
cominciarono ad andare in giù cercando la pietra. Calandrino era il più volenteroso, saltava di qua
e di là: dovunque scorgeva una pietra nera si lanciava e la raccoglieva. I compagni gli andavano
appresso, raccogliendo anche loro qualche sasso; ma Calandrino andava veloce al punto che
riempì prima il grembo della sua veste e poi il mantello, alzandolo per le punte.
All’ora di pranzo, Calandrino era bello carico di pietre. Allora, secondo il piano prestabilito, Bruno
disse a Buffalmacco: “Calandrino dov’ è?” Buffalmacco, che se lo vedeva accanto, girandosi da ogni
lato e facendo finta di non veder nessuno, rispose: “Boh, è scomparso! Eppure poco fa era qui
davanti a noi”.
Disse allora Bruno: “Mi sembra certo che egli è ora a casa a pranzare tranquillamente, e che ci ha
lasciati nella pazzia d’andar cercando le pietre nere giù per il Mugnone.”
“Ci ha fatto uno scherzo studiato proprio per bene, disse allora Buffalmacco, Calandrino ci ha
condotti qui con la scusa delle pietre magiche e poi se l’è svignata . Solo due sciocchi come noi
potevano credergli”.
Calandrino, udendo queste parole, immaginò che l’elitropia gli fosse venuta alle mani e che, grazie
ai suoi poteri, i due non potessero più vederlo. Pieno di gioia, senza dir loro niente, pensò di
tornare a casa.
Vedendo ciò, Buffalmacco disse a Bruno: “Ce ne andiamo pure noi?”
Bruno rispose: “Andiamocene; ma io giuro su Dio che Calandrino non me la farà più; e se io gli
fossi vicino come lo sono stato per tutta la mattina, io gli tirerei una pietra in testa, che egli si
ricorderebbe forse un mese di questa beffa”; e il dire queste parole e lanciare una pietra in testa a
Calandrino fu un solo attimo. Calandrino, sentendo il dolore, cominciò a soffiare e a fare smorfie
ma stette zitto e si allontanò un po’, toccandosi la testa.
Buffalmacco, rigirando in mano una delle pietre che aveva raccolto, disse a Bruno: “La vedi questa
pietra? Se calandrino fosse qui gliela tirerei nella schiena” e tirò una gran sassata colpendo il
povero Calandrino nella schiena. Per farla breve, con questo sistema i due continuarono a
prendere a sassate Calandrino su per il Mugnone, fino alla porta di San Gallo. Poi, dopo aver
gettato a terra le pietre che ancora avevano, si fermarono a parlare con alcune guardie che,
informate dai due della beffa che stavano giocando al loro amico, fecero anche loro finta di non
vedere Calandrino.
Calandrino così, dolorante per le sassate ma tutto contento perché credeva di essere diventato
invisibile, giunse a casa sua. La fortuna fu favorevole alla beffa, perché per strada incontrò poche
persone e nessuno gli rivolse la parola. Calandrino entrò dunque a casa, carico di pietre. La moglie,
che si chiamava monna Tessa, donna bella e valente, cominciò a rimproverarlo perché rincasava
così tardi, quando tutti gli altri stavano già pranzando.
Sentendo il rimprovero, Calandrino capì che non era più invisibile, e allora pieno di cruccio e di
dolore cominciò a gridare: “Donna, tu m’hai rovinato, ma giuro su Dio che te la farò pagare!” Salì
al piano superiore, scaricò le molte pietre che si era portato e, molto adirato, corse verso la
moglie, la prese per le trecce, se la gettò ai piedi e cominciò a pestarla. Le diede così tanti pugni e
calci che non le lasciò un solo osso intero, senza farsi impietosire da suppliche e pianti.
Buffalmacco e Bruno avevano seguito Calandrino fino a casa e, giunti alla sua porta, sentirono che
stava pestando la moglie. Allora lo chiamarono. Calandrino tutto sudato, rosso, affannato si
affacciò alla finestra e li pregò di entrare. Essi, mostrandosi alquanto turbati, lo seguirono al piano
superiore e videro la sala piena di pietre e da un lato la donna scapigliata, stracciata, tutta livida e
rotta nel viso, che dolorosamente piangeva.
Calandrino, ansimando, si buttò su una sedia.
I due, dopo che ebbero un po’ guardato la scena, dissero: “Che significa questo, Calandrino? vuoi
tu fare un muro, con tutte queste pietre che hai qui ammassato?” e aggiunsero: “E monna Tessa
che ha? Sembra che tu l’abbia picchiata: che è successo?” Calandrino, affaticato dal peso delle
pietre che aveva trasportato, dalla rabbia con la quale aveva picchiato la donna e pieno di stizza
per non essere più invisibile, non riusciva nemmeno a rispondere. Buffalmacco allora rincominciò:
“Calandrino, se tu eri arrabbiato per altri motivi, non te la dovevi prendere con noi. Ci hai portato
nel Mugnone per cercare la pietra magica e ci hai abbandonato lì come due fessi. Questa è
davvero l’ultima che ci combini!”.
A queste parole Calandrino, sforzandosi, rispose: “Amici, non ve la prendete, le cose stanno
diversamente da come pensate. Me sventurato! Avevo trovato quella pietra…” E raccontò loro
tutto quello che era successo lungo il Mugnone, mostrando anche i lividi per le sassate che aveva
ricevuto; e poi seguitò: “E vi dico che i guardiani non mi hanno visto e, oltre a questo, ho trovato
per la via alcuni miei compari e amici, i quali sempre sono soliti rivolgermi la parola e invitarmi a
bere, che non mi hanno visto. La pietra funzionava dunque a meraviglia. Alla fine, giunto qui a
casa, questo diavolo di femmina maledetta mi si parò davanti e mi ha visto, perché le femmine,
come voi sapete, fanno perdere il potere a ogni cosa: ed io, che mi potevo dire il più fortunato
uomo di Firenze, sono diventato il più sventurato; e per questo l’ho tanto battuta quanto io ho
potuto e non so che cosa mi trattenga dal dargliene ancora”. E, di nuovo furioso, si voleva alzare
per tornare a battere da capo la povera donna.
Buffalmacco e Bruno, udendo queste cose facevano finta di meravigliarsi forte e spesso
confermavano quello che Calandrino diceva, ma avevano una così gran voglia di ridere che quasi
scoppiavano; ma vedendo Calandrino alzarsi per battere un’altra volta la moglie, lo bloccarono,
dicendo che la poverina non aveva alcuna colpa, e che la colpa era tutta sua, di Calandrino, perché,
pur sapendo che le femmine facevano perdere ogni potere alle pietre, non le aveva raccomandato
di evitare di apparirgli davanti, quel giorno. E dopo molti discorsi, non senza gran fatica riuscirono
a riconciliarlo con la moglie. Poi se ne andarono lasciandolo malinconico e stanco, con la casa
piena di inutili pietre.

Laboratorio

Elenca tutti personaggi principali di questa novella e spiega brevemente il loro ruolo

Maso usa con Calandrino espressioni strane e “difficili”, secondo te perché lo fa?

Cosa c’è, secondo Maso, nel paese di Bengodi?

Ora immagina il tuo paese di Bengodi (esagera, mettici dentro tutto quello che la tua
fantasia e i tuoi desideri più “sfrenati” ti suggeriscono).

La beffa (2)
Il maiale imbolato

Calandrino aveva un campo non lontano da Firenze, che gli era stato portato in dote dalla moglie e
sul quale, tra l’altro, ogni anno allevava un maiale. Tutti gli anni, a dicembre, era solito andare a
quel poderetto con la moglie per uccidere l’animale e farlo mettere sotto sale. Or avvenne che un
anno sua moglie fu indisposta ed egli vi andò solo, per uccidere il maiale.
Bruno e Buffalmacco, quando seppero che la moglie non era con lui, andarono da un notaio loro
amico che abitava vicino al poderetto di Calandrino, con l’intenzione di fermarsi da lui qualche
giorno. Il mattino del giorno in cui arrivarono, Calandrino aveva ucciso il maiale e, nel vederli
insieme col notaio, disse:
-Siete i benvenuti. Venite a vedere che buon massaio sono.
E li condusse in casa sua per mostrar loro il porcello che era grande e grasso. Quando seppero che
Calandrino voleva farlo salare per portarlo in famiglia, Bruno disse:
-Che grullo! Vendilo, piuttosto, e godiamoci i denari. A tua moglie dirai che te l’ hanno rubato.
-No, no – rispose Calandrino, - non ci crederebbe e mi caccerebbe fuor di casa.
E per quando i due insistessero, non ci fu verso di fargli cambiare opinione. Allontanatisi da lui,
Bruno disse a Buffalmacco:
-Gli vogliamo rubare quel maiale, stanotte?
-E come?
-Il come lo so io, - rispose Bruno, - almeno se lascia il maiale là dove lo abbiamo veduto.
-E allora facciamolo, - disse Buffalmacco, - e poi ce lo godremo qui, col messer notaio.
E il notaio disse che quello era proprio un bello scherzo. Allora Bruno proseguì:
-Ci vuole un po’ d’accortezza. Tu sai quando Calandrino sia avaro e come beva volentieri quando
gli altri pagano. Stasera portiamolo alla taverna e messer notaio faccia le viste di pagare tutto lui
per farci onore, Calandrino si ubriacherà di sicuro, e dopo ci sarà facile portare a termine la burla.
Così fecero. Calandrino, vedendo che pagava il notaio, si diede a bere e si riempì più del dovuto;
poi, lasciata la taverna che era già notte, senza neppur cenare se ne andò a letto, lasciando aperto
l’uscio di casa.
Buffalmacco e Bruno cenarono col notaio, quindi, presi certi strumenti per forzare la serratura,
andarono alla casa di Calandrino ma trovarono l’uscio aperto, entrarono, staccarono il maiale dai
ganci a cui era appeso, lo portarono a casa del notaio e andarono a dormire anche loro.
Calandrino, smaltita la sbornia, si alzò il mattino dopo, non trovò più il maiale, vide l’uscio aperto,
domandò a vicini se sapessero qualche cosa e poi cominciò a far rumore e a lamentarsi gridando
come un disperato.
-Ohimè, ohimè, m’ hanno rubato il maiale!
Bruno e Buffalmacco, alzatisi, corsero da Calandrino per vedere quello che stava succedendo, ed
egli, appena li vide, andò loro incontro con le lacrime agli occhi.
-Ahimè, amici miei, - gridò, - ahimè, stanotte mi hanno rubato il maiale.
-Meno male che una volta tanto hai seguito il mio consiglio – disse Bruno.
-Ma io dico davvero –rispose Calandrino.
-Sicuro, così devi dire; ma grida più forte in modo che paia proprio che tu dica il vero.
-Ti dico che me l’ hanno rubato! Me l’ hanno rubato sul serio!
-Bene, bene, lo dici proprio come se fosse vero. Ma grida più forte, in modo che sentano tutti.
-Tu mi faresti dar l’anima al diavolo. Credi che scherzi, ma ch’io sia impiccato se non me l’ hanno
rubato davvero.
-E come può essere?- disse Bruno. – Ieri era lì. Vuoi farmi credere che te l’abbiano portato via?
- È proprio così – si disperava Calandrino, - sono rovinato, non ho il coraggio di tornare a casa. Mia
moglie non ci crederà e, se anche ci crederà, non avrò pace per un anno.
-Se è come dici, è un vero guaio, - disse Bruno. – Lo strano però è che proprio ieri io ti proposi di
dir così. Non vorrei che tu ti facessi beffe di tua moglie e di noi.
-Perché volete farmi disperare? Vi dico e ripeto che me l’ hanno rubato.
-Se è così, - disse Buffalmacco, - cercheremo di ritrovarlo.
-E in che modo?
-Questo è certo, - disse Buffalmacco, - che nessuno è venuto dall’India per rubarti il maiale. Sarà
stato qualcuno dei tuoi vicini. Se tu riesci a radunarli, io so fare la magia del pane e del formaggio
benedetti, che se si danno a mangiare al ladro non li può mangiare perché sanno di fiele, e
troveremo subito chi l’ ha rubato.
-Bravo, - disse Bruno, - è proprio un’esperienza da farsi con questi furbi che ci son d’attorno. Di
certo la conoscono già e il ladro si guarderà bene dal venire.
-E allora che vuoi fare?
-Faremo l’esperienza con dei biscotti allo zenzero e buona vernaccia: i biscotti si possono benedire
come il pane e il cacio.
-Hai ragione, - disse allora Buffalmacco. – E tu, Calandrino, che ne dici?
-Sicuro, sicuro, facciamolo, per l’amor di Dio.
-Or via, - disse Bruno, - io sono ad andare a Firenze a procurarmi i biscotti se tu mi dai i denari
necessari.
Calandrino gli diede tutto quello che aveva in tasca, e Bruno, sceso a Firenze, fece preparare i
biscotti allo zenzero; ma due ne fece fare pieni di amarissimo aloe, eguali in tutto agli altri salvo
per un piccolo segno che poteva vedere solo lui. Vi aggiunse un fiasco di buona vernaccia e tornò
al paese.
-Domattina, - disse a Calandrino, - invita tutti quelli di cui hai sospetto: è festa e verranno
volentieri. Io, stanotte, farò un incantesimo sui biscotti e domattina verrò a portarteli e ti dirò
quello che devi fare.
Calandrino così fece: chiamò tutti i giovani fiorentini che erano lì in campagna e i contadini del
luogo, radunandoli sotto l’olmo che sorgeva davanti alla chiesa come era usanza. Bruno e
Buffalmacco arrivarono in quella con una scatola di biscotti e il fiasco della vernaccia. E Bruno
disse:
-Signori, io devo spiegarvi perché siete stati qui riuniti. Ieri notte è stato rubato il maiale a
Calandrino e, poiché chi l’ ha rubato deve essere stato uno di noi, Calandrino v’invita a mangiare
questi biscotti allo zenzero e a bere. Sappiate però, che chi avrà preso il maiale non potrà
mangiare il biscotto perché gli parrà più amaro del veleno, e dovrà sputarlo. Io lo invito dunque,
prima di patire questa vergogna in presenza di tutti, di dirlo in confessione al prete.
Tutti risposero che erano pronti a mangiare i biscotti e allora Bruno, dopo averli disposti in giro,
incominciò a fare la distribuzione. Giunto a Calandrino gli diede uno dei biscotti fatti con l’aloe,
Calandrino se lo mise subito in bocca e cominciò a masticare, ma appena sentì l’amaro non poté
sopportarlo e lo sputò.
Gli altri, nel frattempo, si tenevano tutti d’occhio per vedere chi sputasse, così Bruno, il quale
continuava la distribuzione, sentì dire a un tratto:
-Ohè, Calandrino, che significa codesto?
Si volse e, vedendo che Calandrino aveva sputato il suo biscotto disse:
-Forse gli sarà andato di traverso; diamogliene un altro.
E gli mise in bocca il secondo biscotto all’aloe. Poi continuò a distribuire. A Calandrino, se il primo
era sembrato amaro, il secondo biscotto parve amarissimo; tuttavia, vergognandosi di sputarlo, lo
tenne in bocca e cominciò a sprizzare lacrime che parevano nocciole, ma alla fine non ce la fece
più e lo sputò come il primo.
Buffalmacco e Bruno che davano frattanto da bere alla brigata, e tutti gli altri, nel vedere questo,
dissero che di certo Calandrino aveva rubato lui stesso il maiale, e parecchi presero a
rimproverarlo. Quando gli altri se ne furono tutti andati, Buffalmacco cominciò a dire:
-Io lo sapevo che lo avevi tu, e tu volevi ingannarci per non pagarci nemmeno un bicchiere di vino.
Calandrino, con la bocca amara, incominciò a giurare e spergiurare di non averlo.
-Andiamo, andiamo, - continuò Buffalmacco, - a quanto l’ hai venduto?
E Calandrino a disperarsi. Allora Bruno:
-Stammi a sentire, Calandrino, mi accorgo che hai imparato a far le burle, ma questa è troppo. Già
una volta ci hai portato per il Mugnone a cercar pietre, e poi te ne sei andato e volevi farci credere
di essere diventato invisibile. E adesso vorresti darci a intendere che il maiale che hai venduto te l’
hanno rubato. Mi hai fatto andare fino a Firenze, e mi hai fatto passar la nottata a far
l’incantesimo. Sai che ti dico? O ci regali due capponi per il disturbo, o noi raccontiamo tutto a
monna Tessa, tua moglie.
Calandrino, vedendo che non c’era rimedio, diede i due capponi.
E Bruno e Buffalmacco se ne andarono a Firenze lasciando Calandrino col danno e le Beffe.

Laboratorio

Aiutandoti col dizionario, spiega il titolo della novella (Il maiale imbolato) e i termini
evidenziati in grassetto.

Riassumi la novella.

Inventa uno scherzo da fare al povero Calandrino e racconta….

La cortesia
Federigo degli Alberighi

Il giovane Federigo degli Alberighi, nobile fiorentino ammirato da tutti per la sua cortesia, si era
innamorato di una dama ritenuta una delle più belle ed oneste della città. Per farsi notare da lei,
partecipava a tornei, organizzava feste e si vestiva riccamente, spendendo tutto quello che aveva.
La signora, di nome Giovanna, nemmeno si accorgeva di quel che faceva il giovane per mettersi in
vista e acquistare merito ai suoi occhi. Federigo a forza di spendere finì col dilapidare tutto il suo
patrimonio, senza guadagnare da Giovanna nemmeno uno sguardo. Non gli era rimasto, nella
rovina in cui era caduto, che un piccolo podere nel quale si ridusse a vivere poveramente,
portandosi dietro soltanto uno splendido falcone, che tutti gl’invidiavano perché era il migliore del
mondo. In quel luogo solitario, passava tristemente le sue giornate, avendo per unico svago e
anche per unica risorsa il bel falcone col quale cacciava. Senza il falcone che gli procurava delle
prede, non avrebbe avuto nemmeno cosa mangiare.Ora avvenne che mentre Federigo viveva così
poveramente, il marito della signora che lui amava si ammalò e in breve morì. Rimasta vedova, la
donna si dedicò interamente al suo unico figliolo, che era già grandicello, ma assai gracile e di
cattiva salute. Venuta l’estate, per rimetterlo in forze, lo portò in campagna, all’aria buona, in un
podere di sua proprietà che era vicino a quello di Federigo. Il giovanetto, girando per i dintorni,
conobbe Federigo e, incuriosito dalla caccia, cominciò ad andargli appresso e a frequentare la sua
casa, fin che gli divenne amico. Più d’ogni altra cosa, lo attraeva la caccia col falcone. Si
entusiasmava soprattutto quando il falcone, scattato dal pugno di Federigo, ghermiva le prede a
volo e le riportava, deponendole ai piedi del padrone.
Avrebbe voluto che quel magnifico falcone divenisse suo, ma non osava domandarlo a Federigo,
perché sapeva quanto costui lo avesse caro. Invece di
aver giovamento della vita all’aria aperta, il ragazzo ne
ebbe danno, perché lo strapazzo della caccia lo indebolì
e lo fece ricadere ammalato. Sua madre, la quale non
aveva altro bene che lui, gli stava intorno tutto il giorno
a curarlo e continuamente gli domandava se c’era
qualcosa che potesse fargli piacere. Il ragazzo un giorno
disse: «Madre mia, se mi faceste avere il falcone di
Federigo, sento che guarirei». La donna rimase
perplessa. Sapeva quanto Federigo l’avesse amata senza
ottenere da lei un solo sguardo, e si diceva: “Come
posso domandargli quel falcone, che a quanto si dice è il
migliore che mai volasse, e oltre a ciò è quello che lo
mantiene in vita?”.
Era certa che se glielo avesse chiesto l’avrebbe avuto, tanto era nota la gentilezza di Federigo e
tanto poteva contare sulla sua devozione, ma non si decideva a togliergli quell’unica ricchezza. Alla
fine però l’amore per il figlio ebbe il sopravvento e si decise ad andare da Federigo. «Cercherò di
accontentarti» disse al figlio. Il malato fu così lieto di quella promessa, che parve subito migliorato.
La mattina seguente, insieme ad un’amica, Giovanna passò dalla casetta di Federigo e lo fece
chiamare. Mentre, stupito, il giovane accorreva dall’orto dove stava intento a piccoli lavori,
Giovanna gli si fece incontro lietamente e gli disse: «Salute Federigo. Vengo a farvi questa visita
per ricambiarvi, un po’ tardi, la gentilezza che mi avete dimostrato amandomi per tanto tempo
senza speranza. Starò, se lo consentite, a pranzo con voi, alla buona, insieme a questa mia amica».
«Signora», rispose Federigo «da voi ho avuto soltanto del bene. Vedervi ora qui così amabilmente,
vale tutti i soldi che ho speso. Purtroppo la mia casa è indegna di voi. Prima di farvi entrare,
permettete almeno che vada a far mettere un po’ d’ordine e a domandare che si apparecchi la
tavola. Sedetevi intanto con la vostra amica in giardino, dove la moglie del mio contadino vi terrà
compagnia». Così detto entrò in casa, andò nella cucina e si rese conto che non vi era nulla da
portare in tavola, a parte che rape e qualche insalata. Avrebbe potuto mandare a comprare
qualcosa al paese vicino, ma si accorse di non avere neppure un soldo in tasca. Guardandosi
intorno in cerca di qualche ispirazione, gli caddero gli occhi sul suo falcone, che se ne stava
appollaiato sopra una stanga. Senza un istante d’esitazione lo prese e, trovandolo grasso e di buon
peso, pensò di poterlo cucinare. Gli tirò il collo, lo fece spennare e ordinò alla donna di cuocerlo
allo spiedo. Apparecchiò intanto la tavola con una bella tovaglia che aveva salvato dai creditori e,
passata una mezz’ora, andò in giardino e con un gesto da gran signore invitò le due donne alla
mensa. Fu subito portato in tavola il falcone che, ben cotto com’era e privato della testa e delle
zampe, pareva un fagiano. Federigo tagliò l’animale e servì le donne delle parti migliori, poi se
stesso. Mangiato che ebbero, Giovanna diede inizio a una piacevole conversazione, nel corso della
quale, quando le parve venuto il momento giusto, disse a Federigo: «Ora vi debbo dire la vera
ragione per la quale vi ho fatto questa visita. Forse troverete strano il passo che ora sto per
compiere. Chi non ha figlioli non può capire cosa si arriva a fare per le proprie creature. Ma forse
voi, che siete uomo di grandi sentimenti, potrete comprendere il mio stato d’animo. È per lui, per
mio figlio, che sono qui a chiedervi un dono che vi sarà difficile fare, perché si tratta dell’unica
consolazione che voi abbiate nella solitudine in cui vivete. Si tratta del vostro falcone. Mio figlio,
che è ammalato, si è tanto invaghito del vostro falcone, che se non glielo porto si aggraverà e
potrà anche morire. Perciò vi prego, per l’amore che mi portate, che mi facciate questo dono con
la generosità che avete sempre mostrato. Mio figlio riavrà la sua salute ed io vi sarò per sempre
obbligata». Federigo, che aveva i sudori freddi pensando al falcone che avevano appena mangiato,
incominciò a piangere in silenzio. Giovanna, convinta che quel pianto fosse dovuto al dispiacere
che il giovane provava nel separarsi dal suo falcone, era quasi pentita del suo ardire e stava per
rinunciare al dono.
Federigo allora, trattenendo a fatica le lacrime, disse: «Signora, da quando Dio volle che io vi
amassi, in molte cose ho avuto contraria la fortuna. Ma erano cose da nulla rispetto a ciò che oggi
mi accade. Quand’ero ricco non vi degnaste mai di entrare nella mia casa, ma ecco che ora siete
venuta in questo mio povero luogo a chiedermi un piccolo dono che non vi posso fare. Io, che per
voi ho dato tutto quanto avevo! Sappiate che appena siete arrivata qui e mi avete chiesto di
pranzare, per riguardo al vostro valore ho deciso di servirvi la cosa che più mi era cara e preziosa: il
falcone. Vedendo ora che lo volevate vivo, il dispiacere di non potervi accontentare è così forte
che non mi darà più pace». Poi andò in cucina, prese le penne, le zampe e il bello del falcone e li
mise davanti a Giovanna; questa lo rimproverò d’aver sacrificato un simile animale per darle da
mangiare, ma non poté tuttavia far a meno di ammirare la sua grandezza d’animo. Triste e
sconsolata, se ne partì e tornò dal suo figliolo, il quale per il suo disappunto di non aver avuto il
falcone e per la gravità del male che lo aveva colpito, si aggravò e dopo alcuni giorni morì.
Giovanna, dopo lunga sofferenza, trovandosi sola, ricchissima e ancor giovane, venne consigliata
dai suoi fratelli a rimaritarsi. Per molto tempo non volle sentirne parlare, parendole finita la vita
sua.
Ma davanti alle insistenze di tutto il parentado e dovendosi in qualche modo decidere, avendo
sempre presente la grandezza d’animo dimostratale da Federigo, disse che solo lui avrebbe potuto
essere il suo sposo. I fratelli, sapendolo povero, non furono d’accordo e le suggerirono parecchie
altre persone facoltose. Ma Giovanna fu irremovibile. «Fratelli miei», disse «so benissimo in quali
condizioni è ridotto Federigo degli Alberighi, ma un uomo generoso come lui lo preferisco a
chiunque altro. I fratelli, vinti da un tale atteggiamento, finirono per cedere e diedero in sposa a
Federigo la loro sorella, con tutto il suo patrimonio. Divenuto saggio amministratore della sua
nuova ricchezza, Federigo visse in letizia con Giovanna fino alla fine dei suoi anni, benedicendo il
giorno in cui aveva tirato il collo al suo bel falcone.

Laboratorio

Lessico

Nel testo hai trovato quattro parole evidenziate in grassetto, spiegane il significato con
l’aiuto del dizionario.

Ecco, messe alla rinfusa, le principali sequenze della novella. Riordinale sul quaderno
secondo l’ esatto ordine.

o Giovanna, rimasta vedova, va a vivere in campagna vicino alla casa di Federigo.


o Giovanna si reca da Federigo per chiedergli di donare il proprio falcone
o al figlio malato.
o Federigo ama Giovanna, ma non è riamato.
o Il figlio di Giovanna muore.
o Federigo si riduce a vivere in povertà con la sola compagnia del suo falcone.
o Giovanna sposa Federigo e lo rende ricco.
o Federigo, che ha cucinato il falcone per Giovanna, si dispera.
o Il figlio di Giovanna si ammala gravemente.

Le condizioni economiche del protagonista, nel corso della narrazione, subiscono delle
modifiche. Inizialmente peggiorano: perché? Alla fine, invece, improvvisamente
migliorano: perché?

Come giudichi il suo comportamento?

Come giudichi il comportamento di Giovanna?

Federigo degli Alberighi, il giovane e nobile cavaliere protagonista di questa novella


d’amore a lieto fine, raffigura un ideale di vita cavalleresca caratterizzato dalla
“cortesia”. Nel linguaggio medievale “cortesia” significa generosità e nobiltà d’animo.
Ti sembra che il valore della “cortesia” sia valido anche ai nostri giorni o che predomini
l’egoismo e l’interesse per il denaro? Ti è capitato di assistere a gesti di grande
generosità e che indichino una grandezza d’animo fuori dal comune?

Focus: la falconeria

In entrambe le novelle che hai letto appare il più praticato sport del medioevo: la falconeria.

La falconeria è praticata da qualche appassionato anche ai giorni nostri, ma è un’arte molto antica,
già nota agli egizi. La sua epoca d’oro è stata il medioevo quando allevare falchi ed addestrarli alla
caccia diventò il passatempo preferito dalla
nobiltà.

In Europa la falconeria ebbe il suo apice


sotto il regno dell'imperatore Federico II, lui
stesso autore di un trattato dal titolo De
arte venandi cum avibus ("Sull'arte di
cacciare con gli uccelli"). Federico II andava
letteralmente “pazzo” per i falchi
addestrati.
Laboratorio di lettura espressiva

Narratore: Giornata ottava, delle beffe, terza novella.

Nella città di Firenze visse una volta un pittore di nome Calandrino, un bonaccione, anzi piuttosto
grullo, che aveva per amici altri due pittori, Bruno e Buffalmacco. I quali stavano con Calandrino
non tanto per amicizia, quanto perché, essendo tonto com’era, si divertivano spesso e volentieri
alle sue spalle, combinandogli scherzi d’ogni genere.
In quel tempo viveva in Firenze un giovane chiamato Maso del Saggio, tanto furbo e burlone.

Un giorno questo Maso del Saggio era nella chiesa di San Giovanni con un suo amico, e visto
Calandrino che stava guardando degli affreschi gli venne un’idea…..

Maso: Avviciniamoci a Calandrino, ma facendo finta di non averlo visto. E poi… lascia fare a me.

Amico: Che scherzo t’è venuto in mente?

Maso: Aspetta e vedrai

( si siedono vicino a calandrino su una panca)

Maso: E’ davvero incredibile la virtù di quelle pietre ed io credo che la più straordinaria di tutte sia
quella chiamata elitropia. Pensa un po’, a vederla è una pietra come tutte le altre, ma possiede
una sua virtù magica, per cui chi la porta in saccoccia diventa invisibile….

Amico: Invisibile?!

Maso: Invisibile ti dico, come se tu fossi fatto d’aria!

( Calandrino si avvicina)

Maso: Oh guarda chi si vede! Non c’eravamo accorti che eri qui. Come va Calandrino?

Calandrino: Bene! Oh di che pietre stavi parlando Maso?

Maso: Dell’elitropia, la più straordinaria pietra che esista!

Calandrino: Ho sentito, ho sentito. E dove si trova l’elitropia?

Maso: si trova nel paese dei Baschi, dove gli abitanti legan le viti con le salsicce, e vi son montagne
di parmigiano grattugiato sulle quali la gente fa rotolar valanghe di

maccheroni e ravioli, e ai piedi di questa montagna scorre un fiume di vino in cui non c’è
nemmeno una goccia d’acqua…..

Calandrino: E tu ci sei stato in quel paese?

Maso: Altro che!


Calandrino: Mi piacerebbe andarci una volta con te per veder quelle valanghe di maccheroni su
quella montagna di formaggio, e farmi una strippata mai vista!

Ma senti quella pietra magica si trova proprio solo in quel lontano paese?

Maso: In quel paese è una pietra comunissima, ma qualcuna c’è anche qui da noi, sul greto del
Mugnone per esempio….

Calandrino: e come si riconosce dalle altre?

Maso: E’ questo il punto l’elitropia è una pietra del tutto simile alle altre, e non ha nessun segno
particolare. Così può accadere che tu la trovi e non lo sappia…..

( I tre escono di scena parlottando fra loro)

Narratore: Quei discorsi avevano acceso in Calandrino una curiosità da non dirsi, e si struggeva dal
desiderio d’andare sul Mugnone. Era una giornata caldissima d’estate, e senza aspettar l’imbrunire
di corsa e tutto sudato andò a cercar i suoi amici Bruno e Buffalmacco.

(Calandrino rientra in scena da un lato fingendo di essere affannato per la corsa, dall’altro lato
arrivano Bruno e Buffalmacco).

Calandrino. Amici, ho una novità meravigliosa, credetemi possiamo diventare gli uomini più ricchi
di Firenze!

Bruno e Buffal.: Forza racconta, dicci.

Calandrino: Esiste una pietra, l’ho saputo stamattina, che se la metti in tasca, diventi invisibile,
basterà trovarla e poi andar nelle banche a far manbassa di tutto senza che nessuno ci veda.
Milionari diventeremo! Miliardari! Ma su non perdiamo tempo, bisogna andare subito sul greto
del Mugnone a cercarla, prima che qualcun altro la trovi.

Bruno e Buff.: Trattengono entrambi la risata

Bruno: Se quello che tu dici e vero, questa è una cosa meravigliosa. E come si chiama questa
pietra?

Calandrino: Si chiama… eti…. lepi…. Oh che importa il nome? Quel che importa è trovarla.

Buff.: Giusto, e di che colore è?

Calandrino: Nera per lo più.

Buff: Perbacco questa è davvero una gran fortuna che c’è capitata, ma andarci ora subito a
cercarla, quella pietra, non è il caso: sul greto del Mugnone c’è pieno di lavandaie e di altra gente,
e vedendoci cercare tra le pietre potrebbero ammoscarsi qualcosa, e mettersi a cerca anche
loro…..
Bruno: Sai che faremo, Calandrino? Aspetteremo Domenica mattina per andarci. Sei d’accordo?

Calandrino: Va bene, ma non raccontate questa storia ad anima viva…altrimenti addio milioni!

Narratore: Messisi d’accordo, Bruno e Buffalmacco andarono a cercare altri collaboratori per
rendere più veritiero e divertente il loro scherzo. Prima si fermarono a conversare con due dame,
loro amiche, che domenica mattina avrebbero dovuto imbattersi in Calandrino uscendo dalla
Messa e poi con le guardie di porta San Gallo.

Bruno: Donna Gloria, donna Maria, che sarebbero disposte due belle dame come voi a tenerci la
parte in uno scherzo ad un amico?

Donna Miriam: Oh di che natura è questo scherzo, perché se fosse volgare ve lo potete scordare!

Donna Gloria: e poi, se mi è consentito, chi è questo vostro amico, lo conosciamo forse?

Bruno: Credetemi lo scherzo è del tutto innocente! Questo nostro amico si è convinto che sul
greto del Mugnone si trovano pietre che rendono invisibili?

Donna Miriam: Suvvia (ridendo) o che esistono persone così sciocche da credere a certe cose?

Buffalmacco: Si tratta di Calandrino, donna Gloria, lui è pronto a credere a tutto!

Donna Gloria: (ridendo) o povere noi in che pasticcio ci siam messe, ma la cosa si presenta
divertente; restiamo d’accordo, ma voi promettete di raccontarci come va a finire.

Bruno: Grazie davvero

( Si salutano, le dame escono di scena e i due amici vanno dalle guardie)

Narratore: Alle guardie raccontano più o meno la stessa storia, invitandole a collaborare…..

1 guardia: Va bene faremo finta di ignorarlo

2 guardia: Non ignorarlo, noi dobbiamo far proprio finta di non vederlo. Va bene siamo d’accordo,
di domenica mattina, d’estate poi ci vuole qualcosa di diverso…

Escono tutti di scena.

Insieme al narratore rientra da un lato Calandrino e dallo stesso poco dopo i due amici.

Narratore: Domenica mattina all’alba, Calandrino si vestì ed uscì, per andare a chiamare i suoi
amici e fare ciò che avevano stabilito. Tutti e tre usciti da porta San Gallo s’avviarono verso il
Mugnone e come furono arrivati sul greto Calandrino cominciò a raccattar pietre di tutti i tipi,
prima se le mise in tasca, poi nella veste. S’era caricato di tante pietre quante poteva portarne un
ciuco, e si muoveva a stento per il peso, quando Bruno che gli stava dietro esclamò rivolto a
Buffalmacco:
Bruno: O Calandrino dov’è?

Buff: Diavolo! Dove s’è cacciato era qui un momento fa.

Bruno: Ci giurerei sen’è tornato a casa a far colazione lasciando noi ad ammattir con queste pietre.

Buff: Ho paura che tu abbia ragione, Calandrino ci ha menato per il naso bene bene! E noi stupidi
ci siamo cascati. O che è possibile credere a questa ridicola panzana dell’elitropia che rende
invisibile chi la porta addosso.

Narratore: Calandrino vedendo Bruno e Buffalmacco comportarsi così credette di aver trovato
l’elitropia, era convinto di essere invisibile, e chiotto chiotto, con tutti quei sassi decise di tornare a
casa.

Buffalmacco: e ora che si resta a fare qui? Andiamo a casa anche noi!

Bruno:Si andiamocene, ma giuro che questa è l’ultima che ci fa Calandrino, vedi se fosse qui,
piglierei questo bel ciottolo e giù sulla schiena! (lo raccoglie e lo tira)

Buffalmacco: Perché io, lo vedi questo, bello grosso, tum! Su quella testaccia.

(Intanto camminano e tornano in scena le guardie e le due dame che vedendo Calandrino, pur
ridendo fra sé, fingono di non vederlo.

Lentamente escono tutti di scena….

Calandrino: (rivolto al pubblico) Sono invisibile, invisibile, ora tu vedi quando arrivo a casa….

Entra in scena la moglie con una scopa sulla porta di casa, e appena vede arrivare Calandrino,
esclama

Tessa: Oh Sciagurato, dove sei stato? O come tu sei conciato! O icchè tu porti a casa? Tutti codesti
sassi? Per fare che o che sei matto?

Calandrino: (facendo cadere rovinosamente i sassi a terra) Moglie maledetta tu m’hai rovinato!
Per colpa tua ho perso la mia fortuna, non sono più invisibile!

Tessa: Macchè invisibile tu vedi se ti fo io invisibile ( ed alza la scopa)

Calandrino reagisce con una mazza, iniziano a gridare ed ad offendersi finchè non sopraggiungono
Bruno e Buffalmacco)

Buffalmacco:O Calandrino o cosa ti succede? Cosa ti ha fatto la tu moglie?

Bruno: e tutti questi sassi? O che vuoi fare il muratore?

Calandrino: Macché muratore.., io l’avevo trovata l’elitropia, io ero lì mentre voi mi cercavate
stamattina, ero lì e voi non mi vedevate, nemmeno le guardie mi hanno visto, nemmeno le dame.
E’ colpa della moglie, questa sciagurata, ha rovinato tutto!
( fa cenno di tornare a picchiare la moglie)

Bruno: O non lo sapevi che le donne fanno perdere la virtù miracolosa delle cose? Eri tu che
dovevi avvertirla, di non guardarti al tuo rientro, si vede che Dio ti ha voluto punire.

Buffalmacco: Sì perché avevi trovato la pietra e non lo hai detto a noi che siamo i tuoi amici ecco
perché….
Tessa: Lo dicevo io non c’entravo nulla, l’è che tu sei ma grullo sai..

Calandrino esce sconfortato e tutti lo seguono Bruno e Buffalmacco ridendo.

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