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Legge Pinto: difensore d'ufficio non ha diritto all'indennizzo

Il Difensore d’Ufficio che richiede la liquidazione degli onorari per l’attività professionale svolta in favore dell’assistito irreperibile, non ha
diritto ad alcun indennizzo nel caso in cui la liquidazione giudiziale del suo compenso sia tardiva.
La liquidazione da parte di un giudice del compenso al difensore d’ufficio, infatti, non avrebbe natura giurisdizionale né costituirebbe un
procedimento e per di più, l’avvocato richiedente, non sarebbe neanche parte di un procedimento, dovendosi conseguentemente escludere che egli
possa aver subito conseguenze pregiudizievoli che giustifichino l’indennizzo.
Questo è il principio affermato dalla Corte di Appello di Roma in due procedimenti (decreto 29 gennaio 2018 e decreto 12 settembre 2018) per il
riconoscimento dell’equo indennizzo da irragionevole durata del processo e successivamente confermato nel provvedimento che ne definiva
l’opposizione (decreto 17 settembre 2018).
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Il caso vedeva un difensore d’ufficio che dopo aver regolarmente svolto la propria attività professionale in favore di un assistito (con assoluzione
dello stesso), aver effettuato tutte le procedure per il tentativo del recupero del credito, regolarmente presentava istanza di liquidazione dei
compensi e successivamente istanza di sollecito, ottenendo il provvedimento di liquidazione solo dopo circa due anni dalla presentazione
dell’istanza.
Ritenuto il ritardo irragionevole, il difensore si rivolgeva alla Corte di Appello di Roma richiedendo l’indennizzo ex Legge n. 89/2001 per
l’eccessiva durata del processo, evidenziando:
di essere titolare di un diritto soggettivo di natura patrimoniale per la liquidazione del proprio compenso;
che il decreto di liquidazione, decidendo sul diritto e determinando il quantum del compenso spettante al difensore d’ufficio ha natura
decisoria e giurisdizionale, in quanto, l'autorità giudiziaria che lo emette consuma il proprio potere decisionale (cfr. in tal senso Cass. n.
13892/2012, Cass. SS.UU n. 19161/2009 e Cass. n. 22010/2007).
La violazione del diritto alla ragionevole durata del processo (anche in relazione alle modifiche legislative che impongono la liquidazione
unitamente alla pronuncia della sentenza e comunque del termine breve in considerazione dell’istruttoria meramente documentale del giudice.
Il danno di natura economica per l’irragionevole procrastinarsi del termine di ottenimento della remunerazione dovuta per l’attività
professionale già prestata, ma, soprattutto, per la mortificazione dei valori della professione forense nell’ambito della difesa d’ufficio; valori
di rilevanza costituzionale e di garanzia per i cittadini, in principal modo per quei soggetti che, per la loro debolezza, sono esposti a
condanne ingiuste.

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Nel ricorso per l’ottenimento dell’equo indennizzo il difensore, nel caso di applicazione della presunzione contenuta nell’art. 2, co 2 bis della L.
89/2001, richiedeva alla Corte adita di eccepire l’illegittimità costituzionale di detta norma per violazione degli artt. 3, 111 e 117 della Costituzione.
Con il primo decreto del 29 gennaio 2018 la Corte di Appello di Roma rigettava la domanda precisando che il diritto all’equa riparazione “è stato
riconosciuto solo in relazione ai processi che comportino l’esercizio dell’attività giurisdizionale, nel cui ambito non può ritenersi
compreso il procedimento indicato dal ricorrente (che, peraltro, neppure appare definibile come procedimento, non avendo carattere
contenzioso). Proseguiva la Corte evidenziando che le doglianze del ricorrente sono destituite di fondamento (e palesemente fuorvianti)
in quanto nella specie manca a monte un procedimento giurisdizionale rispetto al quale valutare la sua durata (ragionevole o
irragionevole), di tal che il ricorso deve essere rigettato.
Con una seconda pronuncia del 12 settembre 2018 la Corte di Appello di Roma rigettava un’altra domanda del simile considerando che il
difensore d’ufficio istante non può considerarsi parte di un processo, dovendosi conseguentemente escludere che egli possa aver subito
quel patema d’animo o quella sofferenza psichica che giustifica la liquidazione di un equo indennizzo.
Avverso il primo decreto del 29 gennaio 2018 veniva presentata regolare opposizione sempre dinanzi alla Corte di Appello di Roma censurando la
decisione impugnata nella parte in cui non riconosceva la natura giurisdizionale del procedimento disciplinato dall’art. 116 del DPR 115/2002
contrariamente a quanto affermato a Sezione Unite dagli Ermellini e sull’applicabilità della Legge Pinto al procedimento, reiterando tutte le
argomentazioni già proposte e financo l’eccezione di incostituzionalità del termine di ragionevole durata del procedimento.
La Corte d’apprllo, con il decreto di rigetto del 17 settembre 2018 confermava il primo decreto del 29 gennaio 2018 ritenendo che seppur invia
ipotetica il procedimento di liquidazione degli onorari dovesse considerarsi processo giurisdizionale, non sarebbe comunque spirato né il termine di
sei anni di cui all’art. 2, co 2 ter, della L. 89/2001 né il termine di tre anni indicato dall’art. 2, co 2 bis della stessa legge per il primo grado.
Proseguendo la corte esclude altre sì che possano invocarsi i termini di cui al giudizio di cassazione e quello di cui al processo di primo grado
previsto dalla L. 89/2001 (in relazione alla sentenza della Corte Costituzionale n. 36/2016) non presentando il procedimento in esame
eccezionali ragioni per essere svolto in modo più celere.
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(Altalex, 16 ottobre 2018. Nota di Antonio Todero)

(C) Altalex / Wolters Kluwer

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