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Diritto commerciale EMI

PROGRAMMA/CONTENUTI

1 Introduzione: cenni storici sull'evoluzione del diritto commerciale.


2 L'imprenditore: imprenditore commerciale/agricolo; acquisto della qualità
di imprenditore; statuto dell'imprenditore commerciale; azienda; segni distintivi;
opere dell'ingegno; invenzioni industriali; disciplina della concorrenza.
3 Cenni in materia di crisi dell'impresa e procedure concorsuali.
4 Società: nozione di società; caratteristiche generali.
5 Società semplice. Società in nome collettivo.
6 Società in accomandita semplice.
7 Società per azioni: azioni/obbligazioni/strumenti finanziari partecipativi;
assemblea; amministrazione; collegio sindacale; revisione contabile; sistemi dualistico
e monistico di amministrazione e controllo.
8 Società in accomandita per azioni.
9 Società a responsabilità limitata.
10 Società cooperative.
11 Gruppi di società.
12 Trasformazione. Fusione. Scissione.
13 Società europea.
14 Problemi di agenzia e conflitti di interesse all'interno delle società di
capitali.
15 Titoli di credito e loro dematerializzazione.

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LEZIONE I: IL DIRITTO COMMERCIALE

Il diritto commerciale corrisponde a quel ramo dell’ordinamento che detta la disciplina


degli imprenditori, dei loro atti e della loro attività, oltre che dell’ambiente in cui
operano: in breve del mercato stesso.
Sotto il punto di vista storico, tutta la storia del diritto commerciale testimonia di una
continua dialettica tra interessi di volta in volta contrapposti: dei produttori e dei
mercanti, dei fornitori dei fattori della produzione (lavoratori, finanziatori), degli utenti
e dei consumatori, della collettività nel suo complesso. È questa la motivazione per cui
la disciplina commerciale nasce dalla precisa volontà di tutelare un interesse piuttosto
che un altro. Proprio per questo motivo le “forme” giuridiche non sono mai neutrali, in
quanto nascono dalla scelta di tutelare interessi concreti all’interno di uno schema
dove la disciplina rifletterà sempre lo stato dei rapporti di forza fra i loro portatori
tipici.

Sotto il punto di vista della storia del diritto commerciale occorre chiarire come,
all’interno di un lungo processo di evoluzione della disciplina, questa si sia sviluppato
attorno a una forte dicotomia esistente circa due alternative visioni della stessa: da
una parte l’idea secondo la quale il diritto debba porsi come uno strumento per
migliorare le condizioni di vita dei cittadini, dall’altra la convinzione che il diritto debba
porsi come strumento in grado di sopperire alle incapacità del mercato, facilitandone il
funzionamento.
Dicotomia che evidentemente sorge da una duplice visione dell’economia di mercato
corrispondente all’eterna dialettica tra post-keynesiani e neoclassici.
Tutta la storia del diritto commerciale, sviluppatasi attorno alla dicotomia di cui sopra,
è fatta di due caratteristiche costanti identificate nella specialità rispetto al diritto
privato e nella vocazione universale (transnazionale). In particolare, la dimensione del
mercato non coincide né con quella della somma dei singoli agenti economici, tutelate
da una branchia del diritto - quello privato - che protegge semplicemente le situazioni
acquisite, né con quella dei singoli stati nazionali, per ovvie ragioni.
Tale sviluppo è tutt’altro che lineare e omogenei nei diversi paesi, pur essendo,
necessariamente ovunque, strettamente intrecciato allo sviluppo tecnologico e alle
vicende economiche da un lato, e dall’altro alla dialettica politica.


La nascita del diritto commerciale viene abitualmente collocata sul finire dell’XI secolo,
in concomitanza con il riprendere degli scambi commerciali trainato dalla crescita
demografica e tecnologica e con il sorgere di una nuova figura, quella del mercante, il
quale sostanzialmente produce ricchezza dalla semplice compravendita in mercati
diversi degli stessi prodotti. Il quadro normativo dell’epoca non era adatto all’attività
del mercante, in quanto, essendo sostanzialmente frutto della miscela tra diritto
romano e diritto canonico, essenzialmente volto alla tutela conservativa della
ricchezza e non ad incentivare la sua circolazione.
Di conseguenza si plasmano allora regole speciali, le quali vengono alla luce come
norme private all’interno delle corporazioni. Le controversie tra mercanti vengono
risolte dagli organi interni alla corporazione, non sulla base del diritto comune, ma
sulla base degli usi normalmente seguiti dai mercanti stessi. Le decisioni vengono poi
raccolte, sedimentate e raffinate e sulla loro base viene a formarsi un corpo organico
di diritto speciale: la lex meritoria. Una legge di diritto speciale, basata sullo status di
mercante ed esclusivamente rivolta a questa particolare classe sociale.
Nascono così, nel basso Medio Evo, i progenitori di istituti e di principi che ancora oggi
connotano il diritto commerciale, regole finalizzate ad accrescere la rapidità e la
sicurezza degli scambi.

La storia successiva del diritto commerciale continua a intrecciarsi con l’economia e la
politica: i grandi Stati nazionali affermatisi a partire dal ‘500 ereditano dai comuni
italiani la funzione di centro propulsivo del diritto commerciale, limitando di fatto

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l’influenza dei mercanti, i quali però conservano le loro regole speciali. 

Successivamente, con le grandi scoperte geografiche, nascono le antesignane delle
attuali società di capitali e le prime borse: i mercanti condividono i capitali, investendo
quote di capitali, rappresentate da titoli a loro volta commerciabili. 

Con la rivoluzione francese, la nascita della classe borghese e l’espandersi dell’impero
napoleonico, nascono in Francia anche i primi codici di diritto commerciale, i quali
definitivamente segnano il passaggio dal diritto soggettivo al diritto oggettivo: ovvero
a un sistema di norme che non si applica più in base alla natura soggettiva delle parti
o di una di esse, ma in base all’oggettività dell’atto compiuto. Tendenza che si fa via
via più forte con il consolidarsi dello stato borghese, il quale prosegue nel mantenere
distinte le norme civili da quelle commerciali.

L’unificazione tra questi due ordinamenti avviene in Italia sotto il fascismo, nel 1942,
con la pubblicazione del Codice Civile. Un Codice che, contenendo in sé l’eredità della
lex mercatoria e degli istituti da essa introdotti (come il “possesso in buona fede vale
titolo”), sopravvive alla caduta del fascismo e all’introduzione della Costituzione
repubblicana, una costituzione che, sotto il punto di vista economico, si occupa, più
che di delineare in positivo un modello di sistema economico, di escludere l’adozione
di una delle due forme estreme allora contrapposte: né economia di mercato
improntata unicamente al motto del laissez faire, laissez passer, né economia
socialista.
Le norme di diritto commerciale rimangono sostanzialmente le stesse fino alla nascita
della Comunità Europea e alla conseguente necessità di adeguare l’ordinamento
italiano alla legislazione comunitaria. Tali cambiamenti, uniti all’ammodernamento
delle tecniche finanziarie ed economiche, hanno portato al rinnovamento quasi
integrale del nostro ordinamento positivo di diritto commerciale. Rinnovamento che, a
causa di tali spinte, unite alle nuove sfide portate in seno dalla contemporaneità e
dalla crisi finanziaria, può dirsi ancora in corso.
Si pensi per esempio alle prospettive di sviluppo della materia legate alla
globalizzazione, alle sue conseguenze in termini di concorrenza tra gli ordinamenti
giuridici, uniformazione comunitaria, universalizzazione degli scambi commerciali,
oltre che alle nuove sfide portate in seno dalla digitalizzazione della produzione e del
consumo e ai profondi cambiamenti che queste trasformazioni impongono alle nostre
abitudini di consumo, oltre che alle leggi deputate a salvaguardarle.

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LEZIONE II: L’IMPRENDITORE

Nonostante la confusione terminologica derivante dal parlare quotidiano,


“imprenditore, azienda e impresa” sono termini che corrispondono, giuridicamente
parlando, a fattispecie diverse, relative a un rapporto analogo a quello esistente tra il
soggetto, l’oggetto, e l’attività del soggetto stesso sull’oggetto.
Sotto questo punto di vista l’’azienda è soltanto “il
complesso dei beni organizzati dall’imprenditore
per l’esercizio dell’impresa” (art. 2555). Secondo Si noti inoltre come altri settori
l’art.2082 l’imprenditore è invece colui che dell’ordinamento (p.e. quello
“esercita professionalmente un’attività economica fiscale) oppure altri ordinamenti
organizzata al fine della produzione o dello (p.e. quello comunitario)
scambio di beni o di servizi”. In via derivativa, da presentino, ai fini
questa definizione è possibile identificare anche dell’applicazione ivi prevista,
quella di impresa, collegata per l’appunto definizioni non coincidenti - o
all’attività economica svolta dall’imprenditore. solo parzialmente coincidenti -
D’altro canto tale attività economica non è di per
sé sufficiente a identificare l’attività di impresa:
devono infatti sussistere, ed essere facilmente identificabili come tali, quelle
specificazioni contenute nell’art.2082.
Per quanto riguarda le norme regolanti l’attività dell’imprenditore - come definito dal
cc. - si parla principalmente del cosiddetto statuto generale dell’imprenditore, ovvero
di quel complesso di norme che, applicandosi a qualunque imprenditore,
indipendentemente dalla specie di appartenenza, oltre a definire alcune disposizioni di
carattere amministrativo e a dettare alcuni principi di carattere programmatico,
disciplina i comportamenti dello stesso in materia di azienda, segni distintivi,
concorrenza e consorzi.
Molto più ricco è invece l’insieme delle norme che si applicano alle singole specie in cui
il genere imprenditore si distingue.

La figura di imprenditore si suddivide (nel disegno ordinario del codice civile):

1. sul piano dell’oggetto dell’attività esercitata:

- imprenditore commerciale

- imprenditore agricolo

2. sul piano delle dimensioni dell’attività:

- piccolo imprenditore

- imprenditore medio/grande

3. sul piano della natura del soggetto che esercita l’attività, da un lato:

- imprenditore individuale

- imprenditore collettivo

dall’altro:

- imprenditore privato

- imprenditore pubblico

Le componenti della definizione di imprenditore:

1) Impresa: "Un’attività di produzione o di scambio di beni o di


servizi…"
Primo elemento dell’impresa è lo svolgimento di una attività nel senso di una
serie di atti tra loro collegati da un fine unitario che è rappresentato “dalla
produzione o dallo scambio di beni o di servizi”.
Impresa significa dunque generare, tramite la produzione di beni e/o servizi e/o
dalla loro valorizzazione tramite lo scambio, nuova ricchezza.
L’art. 2082 c.c. non richiede espressamente che l’attività produttiva sia rivolta al
mercato e, perciò, si discute se possa essere considerato giuridicamente

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imprenditore chi svolge una determinata attività per autoconsumo: la c.d.
impresa per conto proprio.

La risposta negativa è prevalente e parrebbe quasi scontata.

Tuttavia, appare preferibile ritenere che per l’acquisto della qualità di
imprenditore sia sufficiente l’oggettiva riconoscibilità della possibile destinazione
al mercato dei beni prodotti, indipendentemente dalle intenzioni del soggetto e
dell’effettiva sorte che i beni avranno. Come accade infatti anche per la restante
parte delle componenti della definizione di imprenditore, le caratteristiche
oggettive, corrispondenti alle modalità entro le quali una tale caratteristica è
percepita da terzi, evidentemente prevalgono su quelle soggettive, attenenti
invece alle motivazioni del singolo imprenditore.

2) Impresa: un'attività “Economica…"


L’aggettivo “economico”, che deve connotare l’attività svolta, non riguarda il suo
contenuto (in effetti, qualsiasi attività diretta alla produzione o allo scambio di
beni o di servizi è economica in questo senso), ma le sue modalità di
attuazione.

Si sostiene che un’attività può essere qualificata come impresa solo se svolta
con metodo economico, cioè con modalità che consentano (almeno) la
copertura dei costi con i ricavi.

Si tratta di una precisazione che ha due importanti effetti:
o non è necessario per la nozione giuridica di impresa che sia a scopo di
lucro (nel senso oggettivo di avanzo di gestione e soggettivo di ripartirlo
tra i partecipanti). Possono infatti essere imprenditori le associazioni (enti
per i quali la legge comunque impedisce la distribuzione dell’utile fra gli
associati), le cooperative c.d. “pure”, ecc..
o esclude dall’area giuridica dell’impresa tutte quelle attività svolte
istituzionalmente in perdita: per esempio la beneficenza.
Non vi sono quindi ragioni di principio per escludere dal terreno dell’impresa
l’attività non-profit.

Niente, infatti, impedisce agli enti ONLUS, sia pure in via strumentale al
raggiungimento dei loro scopi ideali, di svolgere un’attività corrispondente a
quella delineata nell’art. 2082, con modalità tendenti all’equilibrio gestionale:
quando ciò accade, il che si verifica oggi di frequente, l’ente non-profit diviene
imprenditore. Così le imprese sociali sono organizzazioni private senza scopo di
lucro che esercitano in via stabile e principale un’attività economica di
produzione o di scambio di beni o di servizi di utilità sociale, diretta a realizzare
finalità di interesse generale. Non posso distribuire gli utili tra i partecipanti ma
devono reinvestirli. Sono in generale qualificate come imprese.

Ciò che conta è la valutazione preventiva e astratta delle modalità con le quali
una determinata attività è oggettivamente programmata.

3) Impresa: un'attività "Professionale…"


Svolgere professionalmente un’attività significa esercitarla in modo abituale,
non occasionale. Non è richiesto che si tratti dell’occupazione esclusiva, e
neppure di quella principale, del soggetto in questione; deve comunque trattarsi
di una attività sistematica e ripetuta nel tempo, anche se eventualmente
stagionale. Anche l’esecuzione di un unico affare può considerarsi attività di
imprenditore se l’affare è complesso e richiede una pluralità di operazioni.
In generale criterio fondamentale è la percezione che oggettivamente viene
data ai terzi. Per esempio si noti la differenza tra l’organizzare un concerto per
la festa del paese e organizzare una data per un grande cantante
internazionale.

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4) Impresa: un’attività “Organizzata…”
A causa della oggettività difficolta di individuare quel minimo di organizzazione
che la legge richiede per la qualificazione di una determinata attività come
imprese, tra tutti i requisiti citati dall’art.2082, quello dell’organizzazione, è
certamente quello di meno agevole definizione. In particolare, l’art. 2555 c.c.
definisce come “organizzazione” quella peculiare attività dell’imprenditore che,
organizzando “un complesso di beni per l’esercizio dell’impresa” e coordinando
dunque i vari fattori della produzione, riesce ad adempiere alla propria
necessità di generare flussi di valore. 

Problematica è l’ipotesi (marginale, ma in continuo aumento) in cui il soggetto
si limiti a organizzare il proprio lavoro personale, alcuni strumenti neutri
(telefono, computer, ecc…) e magari utensili strettamente necessari allo
svolgimento del proprio lavoro. Si può parlare in questo caso di requisito
dell’organizzazione in termini di soddisfazione? 

Si tratta di un problema non banale: se è infatti vero che sostenere la
sufficienza della c.d. auto-organizzazione significa ricondurre ogni attività
produttiva o di scambio svolta abitualmente, e con metodo economico, all’area
dell’impresa, cancellando dunque progressivamente l’unico elemento distintivo
esistente tra lavoratore autonomo e piccolo imprenditore, è altresì vero che la
rilevanza di questa tesi sta progressivamente aumentando al crescere
dell’importanza degli strumenti telematici e di quelli conoscitivi.

Dal punto di vista contrattuale, il contratto tipico dell’imprenditore è l’appalto,
ove l’appaltatore “assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con
gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio” (art.
1655), mentre quello peculiare del prestatore d’opera è il contratto d’opera. 

La sottile differenza esistente dunque tra piccolo imprenditore (ovvero colui che
organizza l’attività di impresa prevalentemente proprio e dei propri familiari) e
lavoratore autonomo e la conseguente difficoltà nell’identificare l’uno dall’altro
perde di importanza alla luce della valenza pratica di tale distinzione. Il piccolo
imprenditore è infatti esente dalla disciplina dettata dallo statuto
dell’imprenditore commerciale, essendo di fatto equiparato al lavoratore
autonomo, eccezion fatta per la disciplina in materia di fallimento. La
soggezione a fallimento può di fatti concretamente dirsi eludibile solo in caso di
comprovata presenza di etero-organizzazione, ovvero di quella capacità di
organizzare i fattori produttivi in funzione della produzione di reddito tipica della
nozione più comunemente intesa di imprenditore.

5) La liceità dell'attività imprenditoriale


La qualificazione di una data attività come impresa prescinde dalla sua liceità.

E’ imprenditore, pertanto, chi esercita un’impresa anche se in violazione di un
obbligo.

Le conseguenze dell’illiceità non si producono infatti sul piano della
qualificazione dell’attività, ma sul piano dell’inadempimento dell’obbligo violato.
Se così non fosse, venendo meno la qualità di imprenditore, sarebbe preclusa
l’applicazione della relativa disciplina con pregiudizio dei terzi che
incolpevolmente siano con lui entrati in contatto.
Nel caso di impresa illegale o immorale, vige il principio generale secondo il
quale nessuno possa avvantaggiarsi del proprio illecito. In concreto
l’imprenditore illegale o immorale non potrà godere dei diritti e dei poteri
connessi alla qualità di imprenditore, ma dovrà limitarsi a doverne subire le
contesse responsabilità e sanzioni.

Le professioni intellettuali secondo l'art. 2238 c.c.


L’art. 2238 c.c. stabilisce che ai professionisti intellettuali (avvocati, ingegneri,
architetti, medici, ecc…) si applicano le disposizioni in tema di impresa “se l’esercizio
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della professione costituisce elemento di un’attività organizzata in forma di impresa”,
cioè quando l’attività professionale è inserita in una più complessa per sé qualificabile
come impresa (ad esempio, è imprenditore il chirurgo titolare di una clinica privata
nella quale egli stesso opera).
Questa distinzione, non sorgendo da una mera applicazione dei criteri identificativi
precedentemente enumerati, quanto piuttosto da una necessità politico-sociologica di
natura storica, può essere interpretata sia come un anacronistico privilegio cui godono
i liberi professionisti, depositari di un antico prestigio sociale, sia come una forma di
tutela della clientela dalla logica prettamente concorrenziale propria delle imprese. In
ambito comunitario, particolarmente nel settore antitrust, si è affermata una nozione
di impresa più ampia che comprende nel suo seno anche le libere professioni.

E’ comunque ormai accettata da tutti l’idea che il privilegio cada e il professionista
assuma la qualità di imprenditore qualora la sua attività si manifesti in larga
prevalenza non attraverso contratti d’opera intellettuale, ma mediante contratti in
nulla diversi da quelli propri del settore commerciale (esempio classico è quello del
farmacista).

L’imputazione dell’impresa

Impresa e spendita del nome


Qualificata un’attività come impresa, si pone il problema dei criteri in base ai quali
essa vada imputata a un determinato soggetto, facendogli acquisire la qualità di
imprenditore.

Il criterio generale del diritto privato è quello della spendita del nome, in base al quale
un atto è imputato al soggetto in nome del quale è stato compiuto.
Se chi compie l’atto non dichiara di agire in nome di un altro, si ritene abbia agito in
nome proprio e l’atto gli viene imputato (art. 1705). Qualora invece agisca in nome
altrui, l’atto sarà imputato a quest’ultimo, a condizione che abbia il potere di compiere
atti in suo nome. Questo criterio è applicato anche all’attività imprenditoriale nel suo
complesso: imprenditore è colui che materialmente svolge l’attività qualora non lo
faccia in nome d’altri; ma quando il soggetto che materialmente svolge l’attività
spende, lecitamente e conformemente ai poteri ricevuti, il nome di un altro è
quest’ultimo che assume tale qualità.

Nella pratica accade spesso però che il soggetto nel cui nome l’attività viene svolta
non sia l’effettivo destinatario dei risultati dell’attività stessa, ma solo un prestanome,
evidenziando di fatto la necessità di ulteriori criteri identificativi per l’imputazione
dell’attività. Nonostante questa comprovata necessità, e nonostante i numerosi
tentativi di configurare un criterio di imputazione sostanziale aggiuntiva rispetto a
quella del diritto comune, nessun tentativo ha riscontrato pieno successo. 

In particolare alcuni dei tentativi hanno riguardato: a) il necessario collegamento tra
potere e responsabilità, nonostante il nostro ordinamento non preveda tali principi; b)
la teoria dell’imprenditore occulto, secondo la quale, previa l’identificazione di una
società occulta e previo lo svolgimento dell’attività in suo nome - condizione non
rispettata dalla prassi del prestanome - debbano estendersi le responsabilità
fallimentare tanto quanto all’imprenditore palese tanto quanto a quello occulto; c) il
tentativo di generalizzare l’art. 2208 del codice civile, secondo il quale l’imprenditore
risponde delle obbligazioni assunte dall’institore per atti pertinenti all’esercizio
dell’impresa anche se quest’ultimo omette di spenderne il nome. Si è replicato che si
tratta di norma eccezionale non applicabile analogicamente e che riguarda
l’imputazione di specifici atti, non dell’attività nel suo complesso.
La giurisprudenza rifiutate queste teorie si è sforzata di dare comunque una risposta
al problema pratico coerente con il principio dell’imputazione sulla base del criterio
formale della spendita del nome.

Spesso, infatti, i giudici reputano che l’attività svolta dietro le quinte dal dominus sia
essa stessa configurabile come impresa: si parla di “impresa fiancheggiatrice” la cui

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attività consiste nel finanziamento e nella direzione dell’impresa “principale”. Senza
rinnegare il criterio della spendita del nome il dominus potrà essere dichiarato fallito in
caso di insolvenza dell’impresa fiancheggiatrice. 

Si tratta di una tecnica che pone minori problemi di coerenza sistematica, ma che
quanto a applicazione pratica presenta limiti operativi non indifferenti: per un verso
non è affatto detto che all’insolvenza dell’impresa principale si accompagni anche
quella dell’impresa fiancheggiatrice; per altro verso, quand’anche ciò avvenga, la
tecnica in esame è efficace più in ottica sanzionatoria (il fallimento del dominus), che
non in quella del soddisfacimento dei creditori della società fiancheggiatrice. Gli unici
creditori che alla fine del processo fallimentare potranno dirsi soddisfatti saranno
infatti quelli che detenevano dei crediti nei confronti della società principale.

Il discorso è più complicato quando la veste di prestanome è assunta da una società
(c.d. società di comodo), normalmente una società di capitali.

Questo perché, banalmente, nel caso delle società, sussiste una naturale separazione
tra il soggetto nel cui nome l’attività è esercitata (la società stessa) e i soggetti
destinatari finali dei risultati (i soci). La legge, per esempio, consente la creazione sia
di s.r.l. che di s.p.a. personali, aprendo di fatto al rischio di comportamenti di abuso.
Ad esempio, potrebbe capitare che lo strumento societario sia utilizzato al solo fine di
di occultare un’attività personale. Si tratta di ipotesi complesse che talvolta possono
trovare soluzione sul piano dell’imputazione superando il diaframma della distinta
personalità giuridica della società di comodo; talaltra attraverso l’applicazione delle
regole di diritto societario. In tal senso, una nuova prospettiva è ora offerta nella
riforma del diritto delle società.

La nozione di capacità per l’esercizio dell’impresa
La regola fondamentale sull’esercizio dell’impresa da parte di soggetti legalmente
incapaci di agire (minorenni e interdetti) oppure con capacità soggetta a limitazioni
(inabilitati e minori emancipati), è quella per cui, salvo il caso del minore emancipato
(art.397), non può essere intrapresa una nuova attività, ma può solo continuarsi
un’impresa precedente (per esempio, iniziata dall’interdetto prima dell’interdizione o
ereditata dal minore) qualora il tribunale, sulla base dell’utilità per l’incapace, rilasci
una specifica autorizzazione (art.320,424,425).

L’autorizzazione alla continuazione dell’impresa ha dunque una valenza generale, nel
senso che il genitore, il tutore o il soggetto inabilitato può compiere gli atti pertinenti
all’esercizio dell’impresa senza bisogno di richiedere volta a volta autorizzazioni
specifiche.

Nel caso dell’esercizio autorizzato dell’impresa è il minore che acquista la qualità di
imprenditore godendone i vantaggi e subendone le eventuali conseguenze negative
sul piano patrimoniale, ivi compreso il fallimento.

Si tende però a negare che il minore subisca anche gli effetti personali pregiudizievoli:
sarà il suo rappresentante legale, ad esempio, a essere passibile di imputazione per i
reati fallimentari.

L’inizio e la fine dell’impresa


E’, infine, rilevante individuare il momento in cui si acquista e si perde la qualità di
imprenditore.

Possono, in astratto, darsi due risposte:

- in base al principio di effettività, si diventa imprenditori con l’effettivo inizio
dell’attività e si smette di esserlo con la sua effettiva cessazione; si applica in generale
all’imprenditore come persona fisica

- l’acquisto e la perdita della qualità di imprenditore si ricollega a dati formali quali
l’iscrizione o la cancellazione del soggetto nel registro delle imprese.
Nel nostro ordinamento non c’è una soluzione unitaria al problema: essa infatti varia a
seconda che l’imprenditore sia una persona fisica o una società.
Nel caso dell’inizio dell’impresa si è soliti utilizzare il principio effettivo per quanto
riguarda le imprese gestite da persone fisiche, il cui inizio si tende a far coincidere con
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il compimento di una serie coordinata di atti di organizzazione, e non all’instaurazione
di un rapporto con il primo cliente. Nel caso delle società invece si è soliti identificare il
momento iniziale della vita della società stessa con il momento della costituzione.
Nel caso delle imprese di persone fisiche, si parla di fine dell’impresa a partire dal
momento di dissoluzione dell’apparato aziendale, mentre, nel caso delle società, la
situazione è in piena evoluzione. Oggi infatti la riforma del diritto delle società di
capitali fissa espressamente la coincidenza tra l’estinzione della società e la sua
cancellazione dal registro delle imprese (art. 2495).

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LEZIONE III: CATEGORIE DI IMPRENDITORI E NORMATIVE
APPLICABILI

Definizione di imprenditore agricolo e imprenditore commerciale


La prima differenziazione all’interno della figura dell’imprenditore riguarda la natura
dell’attività esercitata, a seconda che sia essa commerciale (art.2195) o agricola
(art.2135). Il valore di tale distinzione attiene alla disciplina applicabile all’uno o
all’altro caso. In particolare: all’imprenditore commerciale si applica uno statuto
speciale dalla cui osservanza è di fatto esentato l’imprenditore agricolo. Con
riferimento alle modalità di definizione dell’una o dell’altra categoria si dice che,
mentre l’imprenditore agricolo è definito in positivo dall’art. 2135 c.c., quello
commerciale è enucleato dall’art. 2195 c.c. solo in negativo: sono imprenditori
commerciali tutti quelli che non sono agricoli.

L’imprenditore agricolo
L’art. 2135 del cc., che definisce l’imprenditore agricolo in base all’elencazione di una
serie di attività, è stato oggetto di una recente modifica che ha notevolmente allargato
l’area della categoria, attenuando in particolare il requisito della connessione fra
attività agricola e fondo. Nell’ambito delle attività agricole, bisogna innanzi tutto
distinguere tra quelle essenziali (senza esercitare una delle quali non si può essere
imprenditore agricolo) e quelle connesse (attività che, per quanto di per sé non
agricole, tuttavia, se ricorrono determinate condizioni, vengono assorbite e non fanno
assumere la qualità di imprenditore commerciale).
Secondo il codice civile sono attività agricole essenziali la coltivazione del fondo, la
selvicoltura e l’allevamento di animali, ovvero tutte quelle attività “dirette alla cura e
allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso”. Ad oggi
dunque, l’impresa è agricola anche quando non abbia alcun nesso operativo con il
fondo, ma riguardi comunque il ciclo biologico di un animale o di un vegetale.
All’imprenditore agricolo è inoltre parificato quello ittico, ovvero quello che esercita
l’attività di pesca professionale e acquacoltura. 

Proprio in ragione di tali specificazioni, si noti come l’esonero dallo statuto
dell’imprenditore commerciale possa essere visto in una duplice maniera: sia come
forma di incentivazione delle attività citate, sia come come meccanismo di
“compensazione” per attività che, avendo a oggetto non materia inerte, ma vitale,
sono sottoposte a un surplus di rischio rispetto alle altre imprese.
D’altro canto, si reputano connesse quelle attività che in sé agricole non sono (tanto
che, se esercitate autonomamente, fanno acquistare la qualità di imprenditore
commerciale), ma che, se svolte da chi esercita un’attività agricola essenziale
(requisito soggettivo), sono giuridicamente assorbite da questa (e perciò non fanno
acquisire la qualità di imprenditore commerciale). l codice considera attività
oggettivamente connesse (art.2135) quelle dirette: 

- alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e
valorizzazione di prodotti ottenuti prevalentemente da un’attività agricola essenziale;

- alla fornitura di beni o servizi mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature o
risorse normalmente impiegate nell’attività agricola esercitata (attività agrituristiche).

In entrambe le ipotesi si fa uso del concetto di prevalenza per delimitare il perimetro
della connessione.

Nel primo caso deve trattarsi di prevalenza dell’attività agricola essenziale su quella
connessa; nel secondo deve trattarsi di prevalenza, nell’esercizio dell’attività
connessa, delle attrezzature e delle risorse che normalmente sono impiegate
nell’attività agricola essenziale.

L’imprenditore commerciale
Nonostante la non-tassatività delle categorie enumerate dal cc. e nonostante quanto
precedentemente affermato circa i rapporti di categoria tra imprenditore agricolo e
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commerciale, il cc. stesso elenca, a titolo per l’appunto esemplificativo, varie tipologie
di attività tipiche dell’imprenditore commerciale:
- “attività industriale diretta alla produzione di beni o di servizi”.;

- attività intermediaria nella circolazione dei beni”, l’interpretazione corrente è nel
senso di considerare come intermediaria qualsiasi attività di scambio;

- menziona la “attività di trasporto per terra, per acqua e per aria”, in sé già
comprese nel n°1;

- “attività bancaria o assicurativa”, assorbita parte nel n°1 e parte nel n°2;

- “altre attività ausiliarie delle precedenti”, per esempio, le attività di agenzia, di
mediazione, di pubblicità e di informatica.

Le dimensioni dell’impresa: il piccolo imprenditore

L’art. 2083 c.c. definisce piccoli imprenditori “i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani,
i piccoli commercianti e coloro che esercitano un’attività professionale organizzata
prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia”.

Per esclusione, tutti gli imprenditori che non rientrano in questa definizione sono
qualificabili come medio/grandi. All’imprenditore qualificato come piccolo non si
applicano, a prescindere dal tipo di attività svolta, lo statuto dell’imprenditore
commerciale.

Le tre figure espressamente indicate dall’art. 2083 c.c. (coltivatore diretto, artigiano e
piccolo commerciante) sono menzionate solo esemplificativamente e comunque
rientrano nel concetto di piccolo imprenditore se e solo se rispettano il requisito
generale indicato nell’ultima parte della norma: la prevalenza del lavoro proprio e dei
propri familiari sugli altri fattori della produzioni utilizzati nello svolgimenti dell’attività.
Anche se la norma non lo chiarisce, questa condizione vale anche in rapporto al
capitale investito e fatturato (proprio o altrui). Per cui un gioielliere che ha investito un
ingente capitale non è da considerarsi piccolo imprenditore. Sono considerabili piccole
imprese, se si verificano le condizioni del c.c., le micro-imprese, le piccole imprese e le
medie imprese.
Negli ultimi anni infatti tali definizioni seccamente dimensionali stanno vedendo
aumentare notevolmente la loro importanza, a scapito della perdita di rilievo della
nozione dell’art. 2083 ai fini dell’esenzione della piccola impresa dallo statuto
dell’impresa commerciale.
Al giorno d’oggi infatti, il piccolo imprenditore ha l’obbligo di iscrizione nella sezione
speciale del registro delle imprese e, anche se non previsto dal c.c. ma in virtù delle
norme tributarie, ha l’obbligo delle scritture contabili.

Le definizioni di artigiano contenute in norme speciali (legge quadro per
l’artigianato 443/85) sono assai distanti dalla definizione dell’art. 2083 c.c.

La legge dice che l’artigiano può avere sino a quaranta dipendenti ed è soggetto a
agevolazioni fiscali. Ciò va contro l’art.2083. Noi in generale dobbiamo considerare
artigiano colui che è dedito a un’attività artistica usuale di bene anche se non rispetta
i criteri di prevalenza del c.c.

Il piccolo imprenditore e la società
L’adozione della struttura societaria è compatibile con la piccola impresa se la società
rispetta i limiti posti dall’articolo 2083.

Definizione di impresa familiare


La riforma del diritto di famiglia del 1975 ha introdotto l’istituto dell’impresa familiare,
un’impresa individuale e non collettiva, non per forza coincidente con la piccola
impresa. La peculiarità di tale istituto corrisponde al ruolo dei familiari, i quali, pur non
diventando di fatto soci dell’impresa, dispongono di alcuni diritti nei confronti del loro
congiunto. Questi hanno per esempio diritto al mantenimento secondo la condizione

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patrimoniale della famiglia, a partecipare agli utili e alle decisioni concernenti la
gestione straordinaria e le decisioni in materia di impiego di utili.

La natura del soggetto imprenditoriale: pubblico/privato

L’impresa pubblica
L’imprenditore può essere privato o pubblico. Nel secondo caso occorre distinguere tra
l’impresa anche formalmente pubblica o quella che lo è solo sostanzialmente. Nella
seconda categoria rientrano tutti quei casi in cui il soggetto giuridico è formalmente
privato, ma è riscontrabile una partecipazione prevalente dello Stato o di un altro ente
pubblico (es l’s.p.a. Trenitalia o Rai). Il caso dell’impresa formalmente pubblica invece
può assumere due distinte fattispecie:
- la c.d. impresa organo, quando l’impresa è esercitata direttamente dallo stato o da
altro ente pubblico territoriale tramite una specifica organizzazione dotata di
semplice autonomia gestionale ma priva di distinta personalità giuridica. È il caso di
delle municipalizzate comunali;
- il c.d. ente pubblico economico, avente personalità giuridica con lo scopo esclusivo o
principale è l’esercizio di una attività specifica.
Gli enti pubblici economici sono parificati in tutto alle imprese private, con la sola
differenza dell’esonero dalle procedure concorsuali ordinarie. Per i titolari di imprese-
organo, invece, è sicuro che si applichino le norme generali in maniera di impresa,
mentre è in dubbio se si applichi lo statuto dell’imprenditore commerciale.

La natura del soggetto imprenditoriale: individuale/collettivo

Imprenditore collettivo: le società


I diversi tipi di società rappresentano la più importante ipotesi di imprenditore
collettivo, pur non essendovi corrispondenza biunivoca a tra i due concetti. Vi sono
infatti altre fattispecie di imprenditore collettivo, così come esistono società senza
impresa. Fondamentale è la distinzione tra società che possano svolgere solo attività
non commerciali (la società semplice) e società che possono svolgere ogni tipo di
attività, commerciali o no (tutte la altre società).

Queste seconde prendono il nome di società commerciali con una denominazione che
prescinde dal tipo di attività effettivamente esercitata.

La rilevanza della categoria consiste nel fatto che alle società commerciali si applica,
con la sola eccezione della soggezione alle procedure concorsuali, lo statuto
dell’imprenditore commerciale (che invece per le persone fisiche dipende dal tipo di
attività), sempre che non si tratti di piccola impresa.

Le forme di esercizio collettivo dell’impresa diverse dalla società


Possono esservi casi di esercizio collettivo dell’impresa diversi dalla società.

Lo statuto loro applicabile è analogo a quello dell’imprenditore individuale: la
discriminante sta nel tipo di attività e nelle sue dimensioni.

Le più importanti forme di impresa collettiva non societaria sono:

- le associazioni, la presenza di uno scopo associativo di tipo ideale e il divieto di
distribuire eventuali avanzi di gestione tra i soci non impediscono la possibile
qualificazione come impresa di un’attività esercitata da questi enti, che abbia tutte le
caratteristiche già viste;

- i consorzi con attività esterna, organizzazioni istituite da più imprenditori per la
disciplina o lo svolgimento in comune di determinate fasi delle rispettive imprese;

- i Gruppi Europei di Interesse Economico (GEIE), organismi di servizio introdotti da
un regolamento comunitario analogo al consorzio e dal quale si differenzia soprattutto
per il fatto di non essere riservato ai soli imprenditori, ma a qualsiasi operatore
economico;

- l’impresa coniugale, istituti di diritto di famiglia che contraddistingue le aziende

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costituite dopo il matrimonio e gestite da entrambi i coniugi che siano in regime di
comunione legale.

Non è un ipotesi societaria perché a questo istituto si applicano le ben diverse norme
previste per il regime di comunione legale dei beni tra i coniugi.

Lo statuto dell’imprenditore commerciale


Nonostante la progressiva perdita di rilevanza, dovuta all’evoluzione normativa, che
ha riguardato le sorti dello statuto dell’imprenditore commerciale, le cui norme o sono
state superate dalla normativa speciale, o sono ormai in larga parte applicabili anche
alle piccole imprese commerciali, occorre comunque evidenziarne le peculiarità,
soprattutto per ragioni relative alla tradizione espositiva.

La pubblicità legale e il registro delle imprese


Il registro delle imprese (istituito con la legge 580 del 1993 e con il successivo
regolamento di attuazione d.p.r. 581/95) nasce dalla necessità di rendere
conoscibili e opponibili ai terzi atti e fatti relativi alle imprese.
In particolare: devono iscriversi nel registro delle imprese non più solo gli imprenditori
commerciali non piccoli e le società commerciali, ma tutti gli imprenditori
indipendentemente dalla natura dell’attività esercitata e dalle dimensioni, con
l’eccezione delle imprese-organo. Devono iscriversi anche le società tra professionisti.
Gli atti e i fatti da iscrivere sono dettagliatamente indicati dal codice e da leggi speciali
in relazione ai diversi soggetti obbligati. In linea generale sono soggetti a iscrizione
tutti gli elementi identificativi dell’imprenditore e dell’impresa necessari per garantire,
sia all’imprenditore sia ai terzi con lui in contatto, sicurezza nello svolgimento degli
affari. Vale per l’iscrizione il principio di tassatività: possono e devono essere iscritti
solo atti e fatti la cui iscrizione è prevista dalla legge. Prima che l’iscrizione possa dirsi
conclusa, l’ufficio deve procedere a un controllo di regolarità formale. Naturalmente,
l’iscrizione può essere rifiutata. In tal caso, è possibile reclamare entro 8 giorni
davanti al giudice del registro, questi provvederà con decreto a sua volta reclamabile
in tribunale.
La violazione delle norme in tema di iscrizione è punita con sanzioni amministrative.
Per quanto riguarda la strutturazione del registro, questi è tenuto su base provinciale
dalle camere di commercio con modalità informatiche. L’ufficio del registro delle
imprese è retto da un conservatore e la sua attività è soggetta alla vigilanza di un
giudice delegato nominato dal presidente del tribunale. Il registro è articolato in a)
una sezione ordinaria, nella quale devono iscriversi i soggetti che vi erano tenuti
secondo l’originaria previsione del cc (gli imprenditori commerciali non piccoli, le
società commerciali, i consorzi con attività esterna, i gruppi europei di interesse
economico, gli enti pubblici economici, le società estere che hanno in Italia la sede
dell’amministrazione, le reti di imprese); b) le sezioni speciali, dove devono iscriversi i
piccoli imprenditori commerciali, gli imprenditori agricoli, le società semplici, gli
artigiani, le imprese sociali, le società tra avvocati.

Effetti della pubblicità legale


L’imprenditore può opporre ai terzi solo atti e fatti che abbia regolarmente iscritto
oppure dei quali riesca a dimostrare che il terzo era comunque a conoscenza. Il
principio base dell’efficacia dichiarativa subisce una serie di deroghe in relazione alle
caratteristiche del soggetto oppure dell’atto o fatto iscritto:

Per quanto riguarda i soggetti, per gli imprenditori tenuti a iscrizione nella sezione
speciale, la pubblicità non ha valore dichiarativo, ma solo di notizia (non rende, cioè,
l’atto o il fatto di per sé opponibile ai terzi in virtù della semplice iscrizione), tranne
per l’imprenditore agricolo;

Per quanto riguarda gli atti, vi sono ipotesi in cui la legge assegna alla pubblicità
valore diverso da quello dichiarativo:
- per l’atto costitutivo di società di capitali l’iscrizione ha effetto costitutivo;

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- in certi casi l’iscrizione è presupposto per l’applicazione di una determinata
disciplina (per esempio, la società in nome collettivo esiste a prescindere
dall’iscrizione nel registro delle imprese che rileva solo sul piano
dell’applicazione di una disciplina differenziata);
- in altri casi l’iscrizione di un atto nel registro delle imprese non è opponibile al
terzo di buona fede oppure l’effetto dichiarativo si realizza solo se chi ha iscritto
in buona fede.
-
Le scritture contabili
La tenuta di un’ordinata contabilità e della documentazione relativa all’attività svolta è
un presupposto intrinseco di ogni attività economica. Ciò nonostante, stabilire per
legge l’obbligo di tenere la contabilità corrisponde alla necessità di proteggere
interessi ulteriori rispetto a quelli dell’imprenditori, ovvero quelli di tutti quei soggetti
terzi che, pur non avendo investito capitale di rischio nell’impresa, dipongono interessi
nell’impresa stessa (stakeholders). Il fondamento dell’obbligo consiste nell’esigenza,
in caso di dissesto dell’impresa, di ricostruire a posteriori cause della crisi ed eventuali
beneficiari di atti di distrazione. Tanto è vero che la mancata o la disordinata tenuta
della contabilità assurge, in caso di fallimento, al rango di fattispecie di rilevanza
penale, severamente punita: la bancarotta, a seconda dei casi, semplice o
fraudolenta.
Nel sistema del diritto commerciale, le scritture contabili sono obbligatorie solo per i
soggetti tenuti all’iscrizione nella sezione ordinaria del registro delle imprese e per gli
enti pubblici territoriali, in relazione alle imprese-organo esercitate. Nel sistema
tributario, nonostante non sia previsto dal c.c., diventano obbligatorie anche per i
piccoli imprenditori e gli imprenditori agricoli.
In particolare: obbligatoriamente qualsiasi imprenditore commerciale non piccolo e
qualsiasi società commerciale devono tenere: a) il libro giornale, corrispondente alla
sintesi di tutte le operazioni attive e passive relative all’impresa; b) il libro degli
inventari, corrispondenti a fotografie periodiche dello stato patrimoniale dell’impresa;
c) le altre scritture contabili che siano richieste dalla natura dell’impresa. sono
scritture relativamente obbligatorie, per esempio, a seconda dei casi, il libro mastro
(ordinato per controparte), il libro cassa, il libro delle scadenze cambiarie, i libri
contabili richiesti da leggi tributarie (il libro magazzino) e lavoristiche (il libro paga).
Vanno inoltre conservati ordinatamente per ciascun affare gli originali delle lettere, dei
telegrammi e delle fatture ricevute, nonché le copie di queste tipologie di documenti
inviati a terzi. Benché le modalità di tenuta delle scritture contabili siano state
progressivamente liberalizzate per consentire l’uso di strumenti telematici, sono
ancora rinvenibili norme tese ad assicurare la regolarità documentale.

I libri contabili devono essere numerati progressivamente in ogni pagina; devono
essere tenuti secondo le norme di una ordinata contabilità; non si possono fare
abrasioni e, se è necessaria qualche cancellazione, questa deve eseguirsi in modo che
le parole cancellate siano leggibili.

Le scritture devono essere conservate per 10 anni dalla data dell’ultima registrazione.

Questo perché le scritture contabili possono essere usate in giudizio come mezzo di
prova sia a favore che contro l’imprenditore che le ha tenute. Per rispettare il diritto
dell’imprenditore alla riservatezza della propria documentazione contabile, il giudice
può disporre solo l’esibizione di singole scritture contabili, solo per estrarne le
registrazioni concernenti la controversia.

Soltanto in tre ipotesi il giudice può ordinare la comunicazione di tutte le scritture
contabili: nelle controversie relative allo scioglimento delle società, alla comunione dei
beni e alla successione per causa di morte.

A favore dell’imprenditore, invece, le sue scritture contabili possono fare
prova soltanto quando ricorrono tutti i seguenti presupposti: a) che le scritture siano
regolarmente tenute; b) che la lite sia con un altro imprenditore; c) che la
controversia concerna rapporti inerenti all’esercizio dell’impresa.

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La rappresentanza commerciale
La rappresentanza commerciale consiste in un insieme di regole che, in deroga al
diritto comune, si rifanno allo scopo diretto di tutelare maggiormente chi compie affari
con l’ausilio di un imprenditore. Le figure legali di ausiliari dell’imprenditore sono tre
(institore, procuratore e commesso) e corrispondono a diversi livelli gerarchici
nell’organizzazione aziendale.

Sono tutte dotate ex lege di un potere di rappresentanza dell’imprenditore stesso.

L’imprenditore può limitare questo potere con uno specifico atto in tal senso.

Sostanzialmente questo atto coincide con la procura.
L’institore è colui che è preposto dal titolare all’esercizio di un’impresa commerciale
oppure di una sede secondaria o di un ramo particolare di essa (art.2203).

E’, in altri termini, il soggetto in posizione di vertice che non ha altri superiori se non
l’imprenditore stesso o l’organo amministrativo nelle società; nel linguaggio comune
viene chiamato direttore generale.

1. L’institore è dotato di un potere di rappresentanza generale, che si estende a tutti
gli atti pertinenti all’esercizio dell’impresa ma non quelli di alienazione dei beni
immobili del proponente.

Il potere di rappresentanza si estende, inoltre, al profilo processuale, sicché l’institore
può stare in giudizio in nome del preponente.

Per la sua posizione di vertice, l’institore ha gli stessi obblighi dell’imprenditore.

Parimenti, è assoggettato alle medesime responsabilità penali in caso di fallimento.

Un’ulteriore deroga al diritto comune si ha in quanto l’institore è personalmente
obbligato se omette di far conoscere a terzo che egli tratta per il preponente; tuttavia
il terzo può agire anche contro il preponente per gli atti compiuti dall’institore che
siano pertinenti all’esercizio dell’impresa cui è preposto.

In sostanza l’atto compiuto dall’institore è imputato al preponente anche in assenza
della spendita del nome, essendo sufficiente la pertinenza dell’atto all’esercizio
dell’impresa.
2. Procuratori sono quei soggetti che, in base ad un rapporto continuativo, sono posti
a determinati settori dell’impresa (es direttore commerciale, direttore vendite,).

Si tratta di funzionari muniti di poteri decisionali autonomi in ambito limitato.

Non si applica al procuratore la norma che deroga all’esclusività del criterio della
spendita del nome per l’imputazione degli atti.
3. Il commesso corrisponde sostanzialmente alla denominazione comune e indica i
collaboratori meramente esecutivi dell’imprenditore.

I loro poteri concernono il compimento degli atti che ordinariamente comporta la
specie delle operazioni di cui sono incaricati.

Salvo che non siano a ciò espressamente autorizzati, i commessi non possono:

esigere il prezzo delle merci delle quali non facciano la consegna; concedere dilazioni
o sconti che non siano d’uso; derogare alle condizioni generali di contratto
dell’impresa.

La soggezione alle procedure concorsuali


La crisi dell’impresa, per gli interessi che coinvolge, non può essere affrontata con gli
strumenti di diritto comune, ma necessita di meccanismi ad hoc che salvaguardino,
per quanto possibile, la parità di trattamento fra i creditori e minimizzino, per il
sistema economico nel suo complesso, le conseguenze negative del dissesto. Le
procedure concorsuali sono regolate in parte nella legge fallimentare (r.d.
267/1942), in parte nel d.lgs. 270/1999. In particolare, per fallimento si intende la
classica procedura concorsuale di tipo liquidatorio finalizzata a realizzare il residuo
attivo e a ripartire il ricavato tra i creditori: ne sono esenti i piccoli imprenditori
commerciali che non raggiungono certe soglie e gli imprenditori agricoli. In certi casi,
corrispondenti alle fattispecie in cui, per la natura pubblica del soggetto, o per il
settore economico del soggetto stesso (p.e. quello bancario), assume particolare
rilievo l’interesse generale, il fallimento è sostituito dalla procedura di liquidazione

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coatta amministrativa. Inoltre la procedura di fallimento è sostituita da quella di
amministrazione straordinaria delle grandi (o delle grandissime) imprese in stato di
insolvenza qualora il dissesto riguardi un soggetto che superi determinate dimensioni
tali da suscitare per sé l’interesse pubblico quantomeno a tutela dei livelli
occupazionali.

Alternative al fallimento sono le procedure di amministrazione controllata e di
concordato preventivo, corrispondente a un accorto tra debitore e creditori omologato
dall’autorità giudiziaria .

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LEZIONE IV: L’AZIENDA, I SEGNI DISTINTIVI E LA PROPRIETÀ
INTELLETTUALE

La nozione di azienda
L’azienda, corrispondente giuridico del concetto di impresa, è definita nell’art. 2555
c.c. come il “complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio
dell’impresa”. Con riferimento alla natura giuridica dell’azienda nell’ambito della teoria
dei beni si contrappongono la c.d. teoria unitaria e la c.d. teoria atomistica. La prima
afferma la diversità dell’azienda rispetto alla somma dei beni che la compongono,
giungendo a equipararla al caso di universalità di beni mobili; la seconda, invece,
considera l’azienda come la somma dei singoli beni che la compongono. A prescindere
da quale che sia la tesi preferita in ordine alla sua natura giuridica, la rilevanza
normativa del concetto si risolve nell’applicazione di un regime circolatorio speciale
rispetto a quello del diritto comune.
1. l’art. 2555 c.c. valorizza come elemento qualificante dell’azienda la destinazione
dei beni all’esercizio dell’impresa. Non ha influenza se l’imprenditore ne sia
proprietario o ne disponga in forza di un altro diritto reale. Può essere che nessuno
dei bene appartenga all’imprenditore;
2. nell’ambito dell’art. 2555 c.c., la nozione di bene include non solo beni mobili,
immobili e quelli c.d. immateriali (per esempio, i brevetti di invenzione), ma anche
più in generale i contratti che l’imprenditore ha stipulato per l’esercizio dell’impresa
e le situazioni soggettive che ne derivano (crediti e debiti).

Non, però, il c.d. avviamento, cioè il valore aggiunto dell’azienda rispetto a quello
della somma dei singoli beni aziendali che consiste nella capacità di attrarre la
clientela e generare reddito ed è congruenza dell’organizzazione dei fattori della
produzione (avviamento oggettivo) e dell’efficienza dell’imprenditore nella gestione
dell’impresa (avviamento soggettivo). Rappresenta una qualità dell’azienda e un
valore dell’azienda raffigurabile contabilmente.
3. non esiste un requisito dimensionale minimo o qualitativo dei beni che identificano
un’azienda se non quello che deriva dal significato che si intenda dare al requisito
dell’”organizzazione” nella definizione di impresa.

La circolazione dell’azienda: principi generali e forma


Il nucleo centrale delle norme in tema di circolazione dell’azienda attiene alla sua
vendita, mentre altre norme si applicano anche all’usufrutto e all’affitto di aziende,
ipotesi comunque previste dal c.c.

Coerentemente con l’idea secondo la quale il fondamento della disciplina dell’azienda
riguardi lo scopo di non disperderne la capacità di creare reddito a partire
dall’organizzazione dei fattori della produzione, ai fini della circolazione, la nozione di
azienda non si identifica con l’intero complesso di beni, ma con quel nucleo di attività
la cui organizzazione è essenziale per la produzione. Ciò consente anche di identificare
la nozione di ramo d’azienda (Art. 2112 c.c.) in quel complesso di beni che, pur
facendo parte di un insieme omogeneo più vasto, è idoneo a dar luogo a un’azienda
oggettivamente autonoma sotto il profilo operativo. Si noti come adottare una chiave
di lettura di questo tipo rischi di favorire fenomeni elusivi. Proprio per questa ragione,
talvolta il legislatore detta condizioni particolari, soprattutto relative ai casi in cui si
dimostra necessaria anche la tutela della continuità del lavoro. Ciò nonostante, tale
principio trova conferma nelle norme relative ai patti di famiglia e in quelle relative ai
fallimenti in caso di cessioni o affitti. Sotto il punto di vista della forma, l’art 2556
c.c. prevede che i contratti di trasferimento della proprietà o di godimento dell’azienda
debbano essere stipulati in forma pubblica o per scrittura privata autenticata e iscritti
nel registro delle imprese.

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Il divieto di concorrenza a carico dell’alienante
L’art. 2557 c.c. vieta all’alienante di un’azienda, per un periodo di cinque anni dal
trasferimento, l’inizio di una nuova impresa che sia idonea a sviare la clientela
dell’azienda ceduta in ragione dell’oggetto, dell’ubicazione o di altre circostanze. Tale
norma è valida anche per le imprese agricole, per i nudi proprietari e per i locatori in
caso di usufrutto e affitto di azienda.
Le norme che regolano questa disciplina attengono alla duplice necessità di conservare
il valore di avviamento dell’azienda acquistata dal compratore, e di non violare la
libera iniziativa economica del venditore. In particolare, tale obiettivo è perseguito
dall’art.2557 che prevede deroghe solo a favore dell’alienante. Allo stesso modo, la
durata del divieto non può mai eccedere i 5 anni e l’ampliamento dei limiti legali è
ammesso solo ove ciò non comporti impedimenti nello svolgimento delle attività
professionali dell’alienanti.
Ciò nonostante, la norma è di difficile applicabilità: spesso l’alienante si sottrae
all’obbligo di non concorrenza con mezzi elusivi, come società di comodo o imprese
esercitate sotto nome altrui. In tal senso la tendenza giurisprudenziale vuole
l’applicazione di tale articolo anche quando oggetto del trasferimento non sia
l’azienda, ma la totalità o il pacchetto di maggioranza delle quote o delle azioni della
società che ne è titolare.

La successione nei contratti relativi all’azienda


L’Art. 2558 c.c. persegue la necessità di garantire ai rapporti commerciali propri
dell’attività di impresa una continuità nel caso di circolazione dell’azienda. In
particolare questi si configura come una disciplina di deroga a quella ordinaria
riguardante la cessione del contratto, il cui perfezionamento richiede il consenso di
tutte le parti coinvolte. Nel trasferimento, nell’usufrutto e nell’affitto dell’azienda,
invece, il sistema normativo si articola nel seguente modo: salvo diversa pattuizione
nel contratto di cessione, l’acquirente dell’azienda non subentra nei contratti stipulati
per l’esercizio della stessa che abbiano carattere personale.
1. Se il contratto ha natura personale il suo “passaggio” all’acquirente richiede, in
applicazione delle regole generali, sia l’espressa previsione nel contratto di
trasferimento dell’azienda, sia il successivo consenso del terzo contraente ceduto;
2. i contratti non personali, invece, “passano” all’acquirente senza bisogno di apposita
pattuizione e senza bisogno di assenza del terzo contraente.

La tutela di quest’ultimo è affidata alla possibilità di recedere, entro 3 mesi dalla
notizia del trasferimento dell’azienda, ove sussista giusta causa, cioè una valida
ragione che incida sulla fiducia nell’esatto adempimento da parte dell’acquirente;
3. alcuni contratti di particolare rilievo hanno poi una disciplina specifica, ispirata, per
varie ragioni, alla tutela della continuità del rapporto pur in presenza di
trasferimenti di azienda (subingresso del cessionario nei rapporti di lavoro
subordinato facenti capo all’azienda ceduta; normale prosecuzione nel rapporto di
locazione degli immobili aziendali).

La successione nei crediti


Salva diversa pattuizione contrattuale, l’acquirente subentra nei crediti come effetto
del trasferimento dell’azienda (art. 2559 c.c.).

Il regime di opponibilità si discosta dalla regola generale, in base alla quale per
rendere la notifica della cessione di credito opponibile ai debitori ceduti e ai terzi è
necessaria la notifica della cessione al debitore oppure la sua accettazione,
prevedendo che la cessione ha effetto nei confronti dei terzi dal momento in cui il
trasferimento d’azienda è iscritto nel registro delle imprese, anche in difetto di notifica
o accettazione della cessione al debitore.

L’art. 2559 c.c., peraltro, pone una rilevante deroga all’indicata efficacia dichiarativa
dell’iscrizione del trasferimento d’azienda, giacché il pagamento effettuato in buona
fede dal debitore all’alienante è liberatorio anche se compiuto dopo l’iscrizione.

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La successione nei debiti
L’art. 2560 c.c. non si occupa affatto del problema del passaggio della posizione
debitoria nei rapporti interni fra alienante e acquirente: si tratta di un profilo
liberamente disponibile fra le parti che, salvi ovviamente i diritti che la legge assicura
ai creditori, sono liberi di far “passare” o meno i debiti in capo all’acquirente:
l’alienante si libera dei debiti precedenti il trasferimento solo ottenuto il consenso dei
creditori.

Il legislatore si occupa della responsabilità verso i creditori, al fine di evitare che la
vicenda circolatoria possa dar luogo a fenomeni elusivi.
Se i debiti risultano nelle scritture contabili, risponde dei debiti suddetti anche
l’acquirente.
La responsabilità dell’acquirente è solidale con quella dell’alienante .

Usufrutto e affitto di azienda


Gli artt. 2561 e 2562 c.c. dettano alcune disposizioni aggiuntive per le due
fattispecie di concessione in godimento dell’azienda.

In considerazione della loro peculiare caratteristica di temporaneità, si prevede che:

- usufruttuario e affittuario devono esercitare l’azienda sotto la ditta che la
contraddistingue;

- la gestione dell’azienda deve essere svolta in modo tale da non modificarne la
destinazione e preservarne l’efficienza dell’organizzazione;

- al termine del rapporto la differenza fra le consistenze di inventario iniziali e quelle
finali viene regolata in denaro.

La proprietà industriale
Con il d.lgs. 30/2005 è stato introdotto il codice della proprietà industriale (c.p.i.),
che raggruppa in un unico testo normativo tutto il settore riguardante segni distintivi
(ditta e insegna; marchio), i brevetti per invenzioni industriali, i brevetti per modelli di
utilità e i disegni e modelli registrati. Esclusi sono i diritti di autore (art 2575-2583
c.c.). Tali diritti, tutelati al pari dei diritti di proprietà, si distinguono in diritti titolati, i
quali si acquistano mediante brevettazione (invenzioni, modelli di utilità e nuove
varietà vegetali) o registrazione, e diritti non titolati, i quali si acquistano ricorrendone
i presupposti di legge volta a volta indicati.
Precedentemente a tale decreto, la legge italiana era articolata in un’ampia
numerosità di leggi speciali. 

In particolare, l’espressione “proprietà industriale” comprende :
a) i marchi e gli altri segni distintivi,
b) le indicazioni geografiche e le denominazioni di origine
c) i disegni e i modelli
d) le invenzioni
e) i modelli di utilità
f) le topografie dei prodotti a semiconduttori
g) le informazioni aziendali riservate
h) le nuove varietà vegetali.

a) i marchi
Il marchio è un segno suscettibile di essere rappresentato graficamente al fine di
distinguere i propri prodotti/servizi da quelli della concorrenza. Appartiene in tal senso
alla famiglia dei segni distintivi che identificano l’imprenditore e la sua azienda. Serve
ad attrarre e conservare clientela, e proprio per questo è oggetto di cospicui
investimenti pubblicitari. Trattandosi del segno distintivo di maggiore rilievo
economico, non di rado a questi viene attribuito un valore specifico e indipendente
dall’impresa o dal prodotto che contraddistinguono, a tal punto da farne possibile
oggetto di negozi di trasferimento o di utilizzazione di significativo valore economico.
Le fonti del diritto dei marchi sono composite e riguardano sia fonti nazionali che
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internazionali (marchio comunitario e marchio internazionale). In tal senso la
differenza fondamentale tra marchio comunitario e marchio internazionale consiste nel
fatto che il primo dà luogo a un’unica registrazione valevole in tutto il territorio
comunitario, mentre il secondo rappresenta soltanto un’unificazione di diverse
registrazioni nazionali. Il sistema di tutela del marchio si fonda sull’attribuzione di un
diritto al suo uso esclusivo in favore del soggetto che lo abbia registrato o, in misura
minore, che l’abbia utilizzato in via di fatto pur senza registrarlo.

Il marchio può contraddistinguere sia un bene sia un servizio e non vi sono limiti, da
parte di un imprenditore, sull’attribuzione dello stesso marchio a più prodotti
dell’impresa, ovvero a una diversificazione di marchi generali e specifici per designare
prodotti (“Piaggio” è marchio generale, “Vespa” è marchio speciale) ovvero di marchi
di fabbrica e di commercio (aggiunto dal commerciante ma senza sopprimere quello di
fabbrica). Perché sia valido, il marchio deve possedere le seguenti caratteristiche:
Deve avere i seguenti requisiti:
• liceità, non deve contenere segni contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon
costume, ovvero lesivi di altrui diritti;
• verità, non deve contenere segni idonei a ingannare il pubblico, in particolare sulla
provenienza geografica, sulla natura o sulla qualità dei prodotti o dei servizi. Ciò non
significa che il marchio svolga funzione di indicatore della qualità del bene: tale
finalità gli è estranea. Non deve evocare qualità del prodotto in realtà assenti;
• originalità, deve avere capacità distintiva del prodotto rispetto a quelli del medesimo
genere. Manca qualora il marchio si risolva in una denominazione generica del
prodotto, ovvero meramente descrittiva delle sue caratteristiche o di uso comune. In
base all’originalità si distinguono i marchi c.d. forti, cioè significativamente distintivi,
come un marchio di pura invenzione, da i marchi c.d. deboli, in cui il nucleo del
segno rimanda a parole ricollegabili al prodotto nell’uso comune.

In questo caso, la tutela del titolare sarà meno intensa in quanto l’uso altrui di un
marchio pur non troppo differente non potrà esser ritenuto con confusorio (così, ad
esempio, il marchio J-watch è stato ritenuto non confondibile con quello Swatch). Un
marchio che non ha capacità distintiva, oppure debole, può acquisire originalità
grazie all’effetto della sua valorizzazione sul mercato tramite la pubblicità del
prodotto.

L’impresa, ove abbia adeguate capacità finanziarie, può dunque creare da sé le
condizioni di tutela del segno distintivo;
• novità, non deve consistere esclusivamente in segni divenuti di uso comune nel
linguaggio corrente o negli usi costanti del commercio e, soprattutto, non deve
essere confondibile con un marchio altrui precedentemente registrato.

Un’importante distinzione deve farsi fra marchi c.d. ordinari e marchi c.d. celebri, o
di rinomanza (Ferrari, Armani, Chanel): per i primi la novità manca solo se sussiste il
rischio di confusione per il fatto che il marchio è identico o simile a segni già noti
come marchi per prodotti o servizi identici o affini; per i secondi, invece, senza alcun
limite di affinità del prodotto o del servizio, è sufficiente che si tragga “indebitamente
vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del segno anteriore” o si rechi
loro pregiudizio.

La mancanza di novità del marchio viene sanata dalla tolleranza del titolare del
marchio anteriore protrattasi per un periodo di 5 anni consecutivi.
Il marchio che presenti gli indicati requisiti di validità può essere registrato presso
l’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi. Chi esegua la registrazione è dunque il titolare del
diritto di utilizzo esclusivo del marchio. Questi può impedire a chiunque altro di porre
in commercio o pubblicizzare prodotti o servizi identici che siano contraddistinti da un
marchio identico o simile. Lo stesso marchio dunque, a meno che non si tratti di un
marchio celebre, protetto in maniera evidentemente maggiore, può essere
liberamente usato da più imprenditori per contraddistinguere prodotti o servizi diversi
e non confondibili. Il diritto di uso esclusivo derivante dalla registrazione dura 10 anni
dalla data di deposito della relativa domanda ed è rinnovabile per la stessa durata alla
scadenza per un numero illimitato di volte.

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Sia pur in forma più attenuata la protezione accordata al titolare del marchio
registrato (diritto titolato) spetta anche a chi, pur non avendolo registrato, ne abbia
fatto uso (diritto non titolato): il c.d. marchio di fatto.

Tale diritto compete anche nei confronti di chi abbia registrato il marchio sia pure nei
limiti del preuso. La tutela assicurata al titolare del marchio può anche però
evidentemente venire meno. Ciò accade in virtù di: a) dichiarazione di nullità per
difetto iniziale dei requisiti essenziali; b) volgarizzazione, qualora derivante dall’attività
o dall’inerzia del titolare; c) sopravvenuta ingannevolenza del marchio; d) mancato
uso del marchio nei cinque anni dalla registrazione, salvo legittimo motivo e salvo il
caso dei c.d. marchi protettivi.
Così come l’azienda stessa, anche il marchio è liberamente trasferibile a terzi. Può
essere oggetto di cessione e anche della c.d. licenza di marchio, che attribuisce al
licenziatario il diritto di utilizzarlo, in genere per un periodo limitato di tempo. E’ stato
rimosso il tradizionale vincolo fra cessione dell’azienda e cessione del marchio: oggi il
marchio può essere ceduto separatamente dall’azienda o dal suo ramo ove il prodotto
era realizzato. L’art. 2573 c.c. prevede tuttavia che, salvo prova contraria, il marchio
venga ceduto con l’azienda. Recenti riforme hanno in questo senso ampliato la
flessibilità di utilizzazione della licenza di marchio. Si pensi al caso di franchising e
merchandising. La licenza infatti può essere totale o parziale (a seconda della
numerosità di prodotti che possano essere identificabili cn il nuovo marchio), esclusiva
o non esclusiva (a seconda che il licenziatario sia unico o no).


Gli altri segni distintivi: la ditta e l’insegna


Il c.p.i., pur chiarendo la necessità di proteggere anche gli altri segni distintivi, non
prevede regole specifiche. Tuttavia, ditta e insegna sono oggetto di alcune norme
specifiche nel codice civile. La ditta è il nome con il quale l’imprenditore decide di
indicare la propria attività. In tal senso occorre distinguere tra ditta originaria, quella
prescelta dall’imprenditore per il suo diretto utilizzo, e ditta derivata, ovvero quella
che passa all’imprenditore in occasione di un trasferimento di azienda. La ditta
originaria, coerentemente con il principio di verità, deve contenere almeno il cognome
o la sigla dell’imprenditore (Art. 2563 c.c.). Tale principio però viene superato per la
ditta derivata, alla quale l’imprenditore acquirente non è tenuto ad aggiungere il
proprio cognome né la propria sigla: le ragioni della tutela dell’avviamento prevalgono
sul principio di verità. La ditta deve obbedire comunque al principio di novità: infatti,
qualora in situazioni di concorrenza, “la ditta è uguale o simile a quella usata da altro
imprenditore e può creare confusione, deve essere integrata o modificata con
indicazioni idonee a differenziarla” (Art. 2564 c.c.).
Per quanto riguarda i conflitti che possono generarsi tra più utilizzatori della stessa
ditta, il criterio con cui risolvere tali conflitti è il preuso, corrispondente, nel caso di
imprese soggette a registrazione, all’iscrizione della ditta nel registro delle imprese.
Per quanto riguarda la circolazione della ditta, questa è trasferibile solo insieme
all’azienda o a un suo ramo (Art. 2565 c.c.).
L’insegna invece, presa in considerazione dal legislatore solo per estendervi la
disciplina della ditta, corrisponde al segno distintivo dei locali ove si svolge l’attività di
impresa. Ciò nonostante, all’insegna sono applicabili anche taluni principi desumibili
dalla disciplina dei marchi. Allo stesso modo, i nomi a dominio non rappresentano
soltanto l’indirizzo internet, ma anche segni distintivi suscettibili di attirare pubblico.

B. le indicazioni geografiche e le denominazioni di origine
Tali indicazioni, qualora siano adottate non soltanto per identificare un luogo, ma
anche per designare un prodotto le cui caratteristiche qualitative dipendono in gran
parte dal luogo stesso, sono protette dal c.p.i. La protezione consiste nel divieto
dell’uso di tali indicazioni e denominazioni a scopo ingannatorio nei confronti della
clientela. Particolare è la tutela dell’espressione “made in Italy”, che prevede

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l’applicazione a carico dei contraffattori delle medesime sanzioni penali stabilite a
carico di chi viola i segni distintivi altrui.

C. i disegni e i modelli
I disegni e i modelli sono definiti dal c.p.i. come l’”aspetto dell’intero prodotto o di una
sua parte quale risolta, in particolare, dalle caratteristiche delle linee, dei contorni, dei
colori, della forma, della struttura superficiale ovvero dei materiali del prodotto stesso
ovvero del suo ornamento”. Possono essere registrati i modelli e i disegni che siano
nuovi, non illeciti, e abbiano carattere individuale. Devono dunque, oltre a non essere
identici ad altri modelli o disegni già divulgati, suscitare nell’utilizzatore informato
un’impressione generale differente da quella ispirata da qualsiasi disegno o modello
precedentemente diffuso. Si tratta del del c.d. design industriale. Il diritto all’uso
esclusivo dura 5 anni dalla data di presentazione della domanda di registrazione ed è
rinnovabile di 5 anni alla volta fino ad un massimo di 25 anni. Quando i disegni o
modelli “presentino di per sé carattere creativo e valore artistico” sono tutelati anche
dalla possibilità del riconoscimento del diritto d’autore per una durata corrispondente
alla vita dell’autore e sino al compimento del venticinquesimo anno solare dopo la sua
morte.

D. Le invenzioni
Il brevetto per invenzioni consiste nella concessione di un diritto di monopolio
temporaneo (20 anni: art. 60 c.p.i.) in favore di chi abbia inventato un prodotto o un
procedimento, in tal modo concorrendo al progresso tecnologico dell’intera società.
Tale concessione cosiste nel diritt oesclusivo di sfruttamento sull’oggetto brevettato,
nel diritto esclusivo di realizzarlo, disporne e farne uso commerciale. Tale principio si
giustifica a partire da una temporanea deroga al principio di libera concorrenza in
favore di un interesse generale per lo sviluppo tecnologico. Ciò nonostante, il contesto
odierno è in grande mutamento: si pensi al ritmo dello sviluppo tecnologico, alla
diversità di ambiti coinvolti da tale processo (biotecnologie, OGM…), all’importanza
crescente dei settori di R&D delle aziende, alla crescente serialità delle nuove
tecnologie. Proprio per questo motivo, a ragione di molti la protezione ventennale
appare anacronistica in quanto potenzialmente potrebbe rappresentare un freno allo
sviluppo economico in conseguenza della rendita di posizione assicurata al titolare del
brevetto.
Per quanto riguarda le fonti di tale disciplina, oltre al c.p.i., si trovano riferimenti negli
artt. 2584-2591 c.c. A fianco della normativa interna esistono una serie di trattati e
convenzioni volti ad agevolare i riconoscimenti internazionale dei brevetti rilasciati nei
singoli paesi (Convenzione di Monaco sul brevetto europeo; accordo sui Trade Related
Aspects of Intellectual Property Rights: TRIPs, elaborato nell’ambito della WTO). In
UE, con il reg. UE 1257/2012 è stato introdotto il brevetto europeo. Tale istituto
assicura al titolare una protezione uniforme e di pari efficacia in tutti gli Stati membri.
Con riferimento alla legislazione nazionale, l’art.45 c.p.i. definisce quale oggetto del
brevetto “le invenzioni nuove, di ogni settore della tecnica, che implicano un’attività
inventiva e sono atte ad avere un’applicazione industriale”. Di conseguenza, dunque,
l’invenzione brevettabile corrisponde alla soluzione originale di un problema tecnico.
Principlamente però, tale definzione serve soprattutto a elencare tutto ciò che non è
brevettabile: le scoperte, le teorie scientifiche, i giochi matematici, i principi o metodi
per attività intellettuali o commerciali, le presentazioni di informazioni e i programmi
per elaboratori. Tale definizione dunque esclude tutto ciò che si configura come
insuscettibile di applicazione pratica diretta nella produzione di beni o servizi. Si tratta
di una definizione che, nonostante la sua intrinseca chiarezza, apre a diverse
controversie, legate, per esempio, al settore dell’informatica o a quello delle
biotecnologie. In particolare questo secondo caso è sostanzialmente privo di disciplina
nel nostro paese e dunque affidato alle regole generali. In sintesi, purchè abbiano
carattere di novità e siano suscettibili di applicazione industriale oggi sono

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brevettabili: a) materiali biologici prodotti con procedimento tecnico; b) le nuove
utilizzazioni di questi materiali o procedimenti e i procedimenti tecnici stessi; c) le
invenzioni relative ad un elemento isolato del corpo umano; d) le invenzini riguardanti
piante e animali o un insieme vegetale caratterizzato dall’respressione di un
determinato gene. 

Al contrario, le esclusioni dalla brevettabilità si suddividono in tre categorie: a) il corpo
umano o la scoperta di una parte di esso; b) le invenzioni il cui sfruttamento
commerciale sia contrario alla dignità umana, all’ordine pubblico, al buon costume,
all’ambiente, alla salute… (es. clonazione); c) le invenzioni concernenti la scoperta di
una semplice sequenza di DNA, o di sequenza anche parziale, di un gene ai fini di
produzione di una proteina. In sintesi, i requisiti di legge per la brevettabilità di
un’invenzione, che può riguardare tanto un prodotto quanto un procedimento, sono:
- industrialità, che indica l’attitudine dell’invenzione ad avere un’applicazione
industriale;
- novità, che si ha quando l’invenzione “non è compresa nello stato della tecnica”;
- originalità, che, in aggiunta al requisito della novità, indica che l’invenzione deve
rappresentare un significativo progresso tecnico;
- liceità, di invenzione illecita si parla, ad esempio, oltre che nei casi di divieto
legislativo di brevettabilità di cui si è detto, per i farmaci nocivi della salute.
Per quanto riguarda invece il diritto di chiedere un brevetto, tale diritto appartiene
all’inventore o,come più frequentemente accade, al suo datore di lavoro. A questi
infatti spettano i diritti economici dell’invenzione realizzata nell’esecuzione di un
contratto di lavoro a ciò diretto. All’inventore, in tal caso, oltre al diritto morale di
esserne riconosciuto come autore, compete il diritto a un equo premio qualora il
contratto non preveda una specifica retribuzione dell’attività inventiva e il datore di
lavoro ottenga il brevetto. Specificatamente, la domanda di brevetto può concernere
una sola invenzione per volta, deve essere specifica, contenere una accurata
descrizione dell’oggetto e deve concludersi con una o più rivendicazioni in cui sia
indicato, specificatamente, ciò che si intende
debba formare oggetto del brevetto. Nelle
rivendicazioni va indicato ciò che si itende Alle volte capita che l’imprenditore
debba formare oggetto del brevetto. In scelga di non presentare la
sostanza dunque, non solo occorre brevettare domanda di brevetto, alla quale è
un prodotto, ma anche indicarne la sua connessa la caduta dell’invenzione
specifica funzione industriale. L’esame della in pubblico dominio decorsi i
domanda da parte dell’UIBM concerne solo i vent’anni di cui sopra, qualora
requisiti di liceità e industrialità e non si reputi di potere sfruttare anche
estende alla novità e originalità, il cui per n tempo maggiore l’invenzione
sindacato, a meno che la loro assenza risulti mantenendo il segreto: è il caso
assolutamente evidente, è rimesso ex post
all’autorità giudiziaria su iniziativa di eventuali interessati. 

Per quanto riguarda invece la circolazione del brevetto, al pari del marchio, questi è
trasferibile, con o senza l’azienda. A tal proposito, un importante istituto è
rappresentato dalla licenza di brevetto, con la quale si conferisce a un terzo, con o
senza esclusiva, il diritto di utilizzare
l’invenzione oggetto del brevetto. n certe
ipotesi, la licenza d’uso senza esclusiva è Si noti la centralità assunta negli
prevista come obbligatoria dalla legge: a) in ultimi dalla disciplina dei brevetti nel
caso di mancata o insufficiente attuazione settore farmaceutico, con particolare
dell’invenzione per un triennio; b) nel caso riferimento ai proventi delle licenze
del brevetto dipendente, quando la licenza è concesse in paesi in via di sviluppo
necessaria per una nuova invenzione che dalle cause farmaceutiche. In tal
rappresenti un’importante progresso tecnico senso di fatto si apre un confrlitto tra
di considerevole rilevanza economica. i diritti fondamentali dell’uomo e
Il brevetto si estingue per dichiarata nullità quelli dello sfruttamento economico
ovvero per decadenza in caso di mancata o dell’esclusiva.
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insufficiente attuazione per un biennio oltre la concessione della licenza obbligatoria
sopra citata, o di mancato pagamento dei diritti pvvero per rinunzia del titolare.

E. , F. : i modelli di utilità e le topografie dei prodotti a semiconduttori


I modelli di utilità sono definiti come quelli “atti a conferire particolare efficacia o
comodità di applicazione o di impiego a macchine, o parti di esse, strumenti, utensili
od oggetti di uso in genere, quali i nuovi modelli consistenti in particolari
conformazioni, disposizioni, configurazioni o combinazioni di parti” (Art. 82 c.p.i.).
Tali modelli, ove rispettino i requisiti di originalità e novità, possono essere brevettati
con gli stessi effetti del brevetto industriale, ma con durata limitata a 10 anni. La
distinzione tra invenzioni e modelli consiste nella circostanza che le prime comportano
la soluzione originale di un problema tecnico, mentre le seconde riguardano solo gli
aspetti formali attinenti alla comodità d’uso di un prodotto noto. Si noti come in tal
senso la distinzione tra modelli di utilità, invenzioni, e invenzioni derivate (ovvero
quelle tali per cui la novità consiste solamente nella nuova utilizzazione di sostanze già
comprese nello stato della tecnica) non sia facile.
Alternativamente, le topografie dei prodotti a semiconduttori (cioè la serie di disegni
fra loro correlati che rappresentano lo schema tridimensionale dei chips dei
computers, telefoni, elettrodomestici, ecc…) sono creazioni intellettuali a contenuto
tecnologico protette.

La durata del diritto esclusivo di riproduzione e sfruttamento commerciale è di 10
anni, decorrenti dalla fine dell’anno civile in cui è stata richiesta la registrazione
ovvero, se anteriore, di quello in cui la topografia è stata per la prima volta sfruttata
commercialmente.

Tipica di questo diritto è l’attuazione del requisito della novità per ottenere la
registrazione: possono essere registrate anche topografie già oggetto di sfruttamento
commerciale, purché da non più di 2 anni. Possono costituire oggetto di brevettazione
in favore del c.d. costitutore, cioè colui che ha creato una nuova varietà, le varietà
vegetali che siano: nuove, distinte, omogenee e stabili.

H. le nuove varietà vegetali


Possono costituire oggetto di brevettazione in favore del c.d. costitutore, cioè colui che
ha creato una nuova varietà, le varietà vegetali che siano: nuove, distinte, omogenee
e stabili.

Il diritto d’autore
La protezione legale per le “opere dell’ingegno di carattere creativo che appartengono
alla letteratura, alla musica, alle arti figurative, all’architettura, al teatro ed alla
cinematografia” mira ad assicurare all’autore non solo il diritto morale alla paternità
dell’opera, ma anche il diritto esclusivo al suo sfruttamento economico.

Tale protezione è disciplinata nel codice civile (artt. 2575-2583 c.c.) e dalla l.
633/1941 e successive modifiche (l. aut.).

Le condizioni per l’accesso alla tutela del diritto d’autore si riassumono nel “carattere
creativo” dell’opera dell’ingegno e derivano dalla mera creazione della stessa, senza
che la registrazione presso la SIAE abbia valore costitutivo.

L’autore ha, sotto il profilo patrimoniale, “il diritto esclusivo di utilizzare l’opera in ogni
forma e modo, originale e derivato”.

Lo sfruttamento economico dell’opera implica la facoltà di disporre del relativo diritto
nei modi che sono lasciati all’autonomia negoziale (unico limite è la necessità della
forma scritta ad probationem).

Per taluni tipi di opere dell’ingegno il legislatore regola particolari forme contrattuali:
fra questi va ricordato il contratto di edizione, della durata massima di 20 anni, con il
quale l’autore concede a un editore il diritto di pubblicare a stampa l’opera
dell’ingegno dietro corrispettivo.

Accanto al diritto di sfruttamento economico l’autore ha una serie di diritti morali,
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irrinunciabili e inalienabili, svincolati dalla cessione a terzi dei diritti patrimoniali, che
consistono: a) nel diritto di rivendicare la paternità dell’opera; b) nel diritto di opporsi
a ogni modificazione e a ogni altro atto a danno dell’opera che possa essere di
pregiudizio al suo onore o reputazione.

Il diritto d’autore ha, per i profili economici, una durata di 70 anni dopo la morte
dell’autore.

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LEZIONE V: LA CONCORRENZA FRA IMPRESE
Il principio della libera iniziativa economica privata (art. 41 Cost.), al giorno d’oggi,
pur essendo accettato da tutti, è in un certo senso minacciato dalla limitazione alla
libera concorrenza derivanta dalla concentrazione del potere economico in capo a
pochi soggetti. L’economia di mercato, fondata sul’idea di un mercato che consenta la
selezione degli operatori economici sulla base di paradigmi di efficienza, è
sostanzialmente in contraddizione con gli incentivi degli imprenditori stessi a cercare il
grado di concorrenza dei mercati in cui operano. La naturale tendenza dei mercati al
monopolio si pone dunque in contrapposizione con la libera iniziativa economica, oltre
che con il benessere dei consumatori. A partire da tale evidenza sorge la necessità di
proteggere con l’intervento pubblico la concorrenza del mercato. Ciò nonostante, tali
regole non si configurano come volte a instaurare regimi di concorrenza perfetta,
quanto più a instaurare un regime di “compromesso”, tendente per sua stessa natura
a sanzionare i comportamenti anticoncorrenziali sulla base di una valutazione
ponderata dei loro effetti non assunti come necessariamente negativi.

Le fonti della normativa antitrust


Il primo esempio storico di legge antitrust è stato lo Sherman Act del 1890 negli USA.
Nel vecchio continente invece la prima legislazione di questo tipo corrisponde al
trattato CE del 1957. Per quanto riguarda invece la normativa nazionale, con la
legge 287/1990 si ha assistito alla prima normativa organica a tutela della
concorrenza. L’ambito di applicazione di tale legge è residuale, limitato alla
regolamentazione dei fenomeni anticoncorrenziali (intese, abuso di posizione
dominante, operazioni di concentrazione) rilevanti sul solo mercato italiano.

Quando la limitazione tocca al mercato europeo si applica la disciplina comunitaria. Al
riguardo va sotolineato come la crescente globalizzazione dei mercati faccia sì che
operazioni rilevanti la tutela della concorrenza debbano essere sottoposte al vaglio di
compatibilità tra ordinamenti diversi.

Il controllo sui comportamenti lesivi della concorrenza


Nella legislazione nazionale e comunitaria si trova coerenza circa la definizione delle
categorie generali di fattispecie anticoncorrenziale, corrispondenti di fatto a : a) intese
restrittive della libertà di concorrenza; b) abuso di posizione dominante; c) operazioni
di concentrazione restrittive della libertà di concorrenza. All’indagine, al controllo e alla
repressione dei comportamenti anticoncorrenziali in Italia è preposta una c.d. autorità
indipendente: l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCOM), organo
collegiale composto da tre membri nominati dai presidenti di Camera e Senato. In
ambito comunitario, tali competenze sno attribuite alla Commissione e alle singole
autorità nazionali. A tali enti sono concessi poteri di indagine e istruttori assai ampi,
attivabili d’ufficio oppure su istanza dei diversi interessati, oltre alla facoltà di
richiedere e ottenere dai soggetti coinvolti. Naturalmente, al termine dell’istruttoria,
verrà trasmessa la propria valutazione sulla liceità delle operazioni esaminate. I
provvedimenti dell’AGCM sono ricorribili innanzi al TAR mentre i provvedimenti della
Commissione CE sono ricorribili innanzi al tribunale di primo grado della CE.

Di competenza dell’autorità giudiziaria ordinaria sono, invece, le azioni volte a far
dichiarare la nullità degli atti anticoncorrenziali, a conseguire il risarcimento dei danni
e a ottenere i relativi provvedimenti d’urgenza.

Il sistema ora delineato è derogato, a livello italiano, per alcune tipologie di imprese.
Altre sono sottoposte a particolari forme di vigilanza. Oggi l’AGCM controlla anche le
banche, sebbene molti poteri siano ancora esercitate dalla Banca d’Italia.

a) le intese restrive della concorrenza


La l. 287/90, coerentemnete con il trattato CE da cui è stata mutuata, definisce
“intese, gli accordi e/o pratiche concordate tra imprese” vietando quelle “he abbiano
per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistenteil

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gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale o di una sua parte rilevante”.
In tal senso potrebbero costituire abuso le c.d. pratiche concordate, riferite al c.d.
parallelismo consapevole delle imprese che uniformano i loro comportamenti sul
mercato. Condizione necessaria perchè si possa parlare di abuso è il requisito di
consapevolezza delle imprese. Sia la norma italiana, sia quella comunitaria
contengono un elenco di carattere esemplificativo, e non tassativo, di intese
considerate anticoncorrenziali. La “lista nera” comprende sia intese orizzontali, cioè fra
imprese che operano allo stesso livello economico (es. produttrici di stessi bene), sia
intese verticali, per esempio quelle tra produttore e rivenditore.
Si noti come non rientrino nel concetto di intese vietate quelle incorrenti tra società
dello stesso gruppo. Le intese infatti non sono vietate in generale, ma solo quando
impediscano, restringano o falsino in maniera consistente il gioco della concorrenza
all’interno del mercato nazionale o di una sua “parte rilevante”. Il concetto di mercato
rilevante assume dunque la veste di parametro generale alla luce del quale valutare
l’esistenza di un’effettiva lesione della concorrenza per effetto di pratiche
anticoncorrenziali. I confini di rilevanza del mercato si individuano essenzialmente in
base a parametri merceologici e geografici. 

Il divieto di intese può essere oggeto di deroga. Sia la legge italiana, sia il Trattato CE
conferiscono rispettivamente all’AGCM e alla Commissione la possibilità delle c.d.
autorizzazioni in deroga. Presupposto per tale deroga è, secondo la normativa interna,
che le intese diano luogo a miglioramenti nelle condizioni di offerta sul mercato con
l’effetto di comportare un sostanziale beneficio per i consumatori. Per esempio, in
ambito comunitario la Commissione può permettere accordi di distribuzione verticale
se il fornitore ha una quota di mercato inferiore al 30%. Ove l’AGCM accerti la
violazione del divieto di intese può adottare i provvedimenti necessari per rimuoverne
gli effetti anticoncorrenziali ed emettere sanzioni pecuniarie nonché disporre, in caso
di reiterata inottemperanza, la sospensione dell’attività d’impresa fino a 30 giorni.

Indipendentemente da ogni provvedimento dell’AGCM chiunque può adire la corte
d’appello per far dichiarare la nullità dell’intesa.

b) l’abuso di posizione dominante


Il concetto di posizione dominante, ancora una volta, presuppone l’identificazione del
mercato rilevante, da effettuarsi secondo i criteri già visti al punto precedente.
Conseguentemente, la valutazione della poizione dominante è da effettuarsi sulla base
del calcolo di un rapporto tra il fatturato dell’impresa in questione e quello dell’intero
settore industriale (è dominante una quota del 70%). Il legislatore nazionale e quello
comunitario indicano, esemplificativamente, alcuni comportamenti che costituiscono
abuso in senso orizzontale o verticale. Costituiscono abuso di posizione dominante
l’applicazione di prezzi predatori o sottocosto, di condizioni discriminatorie per
prestazioni equivalenti con i vari contraenti, di limitazioni alla produzione o all’accesso
del mercato a danno dei consumatori o l’imposizione di prestazioni supplementari non
collegate all’oggetto del contratto (es. boundling). Contrariamente a quanto visto
precedentemente, la legge non prevede la possibilità di deroghe da parte dell’AGCM al
divieto dell’abuso di posizione dominante. 

In chiusura, occorre segnalare due casi particolari: a) la posizione dominante collettiva
(fattispecie dai confinini oggettivamente incerti); b) l’abuso di dipendenza economica
(corrispodnente al caso in cui un’ impresa sia in grado di determinare, nei rapporti
commerciali con un’altra impresa, un’eccesivo squilibrio di diritti e di obblighi);

c) le concentrazioni
La legge nazionale vieta, ovvero subordina all’osservanza delle prescrizioni
dell’AGCOM, le operazioni di concentrazione che “comportino la costituzione o il
rafforzamento di una posizione dominante sul mercato nazionale in modo da eliminare
o ridurre in modo sostanziale e durevole la concorrenza”. A differenza delle intese e
dell’abuso di posizione dominante in cui l’attività di controllo e repressione dei
comportamenti anticoncorrenziali avviene normalmente ex post, il sistema di controllo
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delle concentrazioni prevede un obbligo di comunicazione di quelle operazioni di
concentrazione che superino le soglie quantitative indicate, la cui violazione comporta
sanzioni amministrative pecuniarie. A seguito della comunicazione, l’autorità, sulla
base di una prima deliberazione, decide se avviare o no l’istruttoria.

La decisione negativa segna il semaforo verde per l’operazione; quella positiva
comporta l’avvio di una fase più approfondita di valutazione sul potenziale contrasto
dell’operazione con i precetti normativi, cioè se essa implichi la costituzione o il
rafforzamento di una posizione dominante sul mercato.

Al fine della valutazione di tali presupposti si deve tenere conto di alcuni elementi
come le possibilità di scelta dei fornitori e utilizzatori, la posizione sul mercato delle
imprese, i loro sbocchi sul mercato, l’andamento di domanda e offerta.

In Italia si prevede che il Consiglio dei Ministri determini in linea generali i criteri in
base ai quali l’AGCM può eccezionalmente autorizzare operazioni di concentrazione
altrimenti vietate.

La deroga comunque non può avere l’effetto di eliminare o restringere la concorrenza
al di là di quanto strettamente necessario per i predetti interessi e, in ogni caso, si
devono ristabilire entro un termine prefissato le condizioni di piena concorrenza.

Al termine del procedimento l’operazione può essere: a) autorizzata; b) autorizzata
con condizioni idonee a impedire la costituzione o il rafforzamento di posizione
dominante; c) vietata.
L’inosservanza dei provvedimenti dell’AGCM comporta l’irrogazione di sanzioni
amministrative pecuniarie calcolate proporzionalmente al fatturato delle imprese
coinvolte.

Il concetto di concentrazione è basato sugli effetti economici dell’operazione. Si ha in
sostanza concentrazione quando l’acquisizione totale o parziale di un’impresa prima
indipendente porti a un ampliamento della quota di mercato dell’operatore in
questione.

Il monopolio legale e di fatto


Sia pur in misura sempre minore, anche per il contrasto con i principi comunitari, è
possibile che per esigenze di carattere generale la legge conceda a determinate
imprese il monopolio per la prestazione o la produzione di certi servizi o beni.
Ovviamente le norme della l. 287/90 non si applicano al monopolista legale.

In questi casi la legge si premura di porre alcuni principi vincolanti per lo svolgimento
dell’attività del monopolista, volti soprattutto a evitare che egli adotti comportamenti
discriminatori e lesivi dei diritti dei clienti.

E’ pertanto previsto che il monopolista legale abbia l’obbligo di contrarre con chiunque
intenda fruire delle sue prestazioni.

Il monopolista legale deve, inoltre, rispettare il principio della parità di trattamento sia
con riferimento all’adempimento nei confronti dei clienti in caso di impossibilità di
eseguire per intero nei confronti di tutti le prestazioni promesse, sia con riferimento
alle condizioni economiche e normative praticate alla clientela.

Si ritiene, infine, sia pure non concordemente, che le regole sul monopolista legale
non si applichino al monopolista di fatto: a quest’ultimo però si applicheranno
integralmente la l. 287/90 e le regole comunitarie.

Il patto di non concorrenza


Ferma restando la disciplina sul divieto delle intese rilevanti, l’art. 2596 c.c. stabilisce
i confini entro i quali è possibile porre limiti contrattuali alla libertà di concorrenza. Tali
principi non sono ispirati, come la regolamentazione antitrust, allo scopo di proteggere
gli interessi dei consumatori, ma a quello di evitare eccessive limitazioni alla libertà di
iniziativa economica individuale. I requisiti tali per cui la libera concorrenza possa
subire limitazioni per effetto dell’esercizio dell’autonomia negoziale senza costuire
fatto illecito sono: a) necessità, a fini probatori, della forma scritta del patto di non
concorrenza; b) limitazione del patto di non concorrenza a una deterinata zona o a
una determinata attività; c) durata non superiore ai cinque anni.

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A tali principi si pongono comunque numerose eccezioni: a) nei patti di esclusiva e di
preferenza nel contratto di somministrazione (con cui una parte si impegna nei
confronti di un altro nell’esecuzione di una pratica in cambio di ricompensa), la durata
di tali patti, con i quali il somministrante o il somministrato si vincolano a non
effettuare o ricevere forniture di determinati beni da altri soggetti, può essere pari a
quella del contratto di somministrazione; b) nei patti di non concorrenza del
dipendente o dell’agente per il periodo successivo alla cessazione del rapporto, il patto
deve essere adottato per iscritto a pena di nullità, deve prevedere uno specifico
corrispettivo e non può eccedere la durata di 3 anni (il patto di non concorrenza
dell’agente non può superare i 2 anni e deve essere limitato allo stesso ambito
territoriale e di attività del contratto di agenzia). 

inoltre, dottrina e giurisprudenza tendono a non applicare l’art. 2596 c.c. ai c.d. patti
di non concorrenza accessori a un contratto, cioè che siano una clausola di un più
ampio regolamento negoziale, e obbediscano alla sua stessa funzione: in tal caso si
ritiene che possano avere la medesima durata del contratto.

La concorrenza sleale
La tutela della concorrenza non giustifica di fatto qualunque tipologia di
comportamento concorrenziale. L’imprenditore infatti deve sempre e comunque
improntare i suoi comportamenti nei confronti degli altri imprenditori ai principi di
lealtà e correttezza. Gli art. 2598 ss. c.c. sono espressamente dedicati alla
repressione degli atti di concorrenza sleale, identificandone le fattispecie tipiche e
dettando regole speciali in ordine ai presupposti e agli strumenti della tutela accordata
al soggetto leso. Si noti come tale protezione non si configuri come un corpo
estreaneo rispetto alle altre norme che tutelano la figura dell’imprenditore (p.e. le
norme sulla tutela del marchio), ma come un elemento di continuità.
In particolare:
1. comma: la confusione, corrispondente a quei casi in cui nomi o segni
distintivi siano utilizzati per confondere i consumatori circa la paternità di un
prodotto (p.e. imitazione);
2. comma: la denigrazione e l’appropriazione di pregi altrui, caso dal quale è da
considerarsi esclusa la pratica di pubblicità comparativa,
3. comma: la contrarietà alla correttezza professionale.
Con riferimento al terzo caso, sebbene sia illusorio cercare di individuare alcuni
parametri di specificazione della categoria, si possono rammentare alcuni dei principali
atti di concorrenza sleale che la giurisprudenza ha sanzionato utilizzando il canone
della correttezza professionale: a) lo storno dei dipendenti e dei collaboratori di
un’impresa da parte di un concorrente, quando ciò avvenga con mezzi scorretti e per
ledere deliberatamente un altro imprenditore; b) il dumping, consistente nel praticare
prezzi di vendita sotto costo al fine di espellere il concorrente dal mercato; c) il
boicottaggio, consistente nel rifiuto di contrattare con altri imprenditori anche qui al
fine di espellerli dal mercato; d) la pubblicità ingannevole o menzognera; e) la
violazione di altrui legittime esclusive contrattuali, ove avvenga con modalità
scorrette; f) la c.d. concorrenza parassitaria che consiste nello sfruttare a proprio
vantaggio gli investimenti che altra impresa ha compiuto nella programmazione e
nelle scelte di mercato, seguendone appunto parassitariamente le mosse.

Le azioni repressive della concorrenza sleale


Solo gli imprenditori, ovvero le loro associazioni professionali, sono legittimati a far
valere le speciali forme di tutela previste per reprimere la concorrenza sleale.

Specularmente solo gli imprenditori possono essere soggetti passivi di tali azioni.

Quando l’atto di concorrenza sleale sia commesso da un non imprenditore o leda un
non imprenditore, si applicheranno le regole generali dell’illecito civile.

Gli strumenti di tutela previsti dal legislatore sono i seguenti:
- l’azione inibitoria e di rimozione degli effetti dell’atto di concorrenza sleale.

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- L’azione richiede solo la prova della ricorrenza degli estremi dell’atto di
concorrenza sleale, ma non quella del dolo o della colpa dell’autore, né quella di
un effettivo danno patrimoniale, essendo sufficiente il mero danno potenziale;
- l’azione di risarcimenti del danno, che richiede invece la prova de dolo o della
colpa dell’autore (colpa che peraltro si presume una volta accertato l’atto di
concorrenza sleale) e del danno patrimoniale.

Nell’ambito di tale azione, il giudice può disporre la sanzione della pubblicazione
della sentenza sulla stampa.

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LEZIONE XI. I TITOLI DI CREDITO
Nel codice civile non è contenuta alcuna definizione di titolo di credito; a differenza di
molti altri ordinamenti. Il legislatore ne ha però dettato un’ampia regolamentazione
generale (artt. 1992 a 2027 c.c.).
I titoli di credito e la la relativa disciplina servono a consentire la mobilità della
ricchezza, conferendo celerità e sicurezza alla circolazione del capitale. Tramite
l’incorporazione del credito in un documento cartaceo si emancipa la circolazione del
credito dalle regole comuni del codice civile per omologare tale disciplina a quella più
agevole e sicura della circolazione dei beni mobili. In tal modo il diritto di credito
diviene inscindibilmente legato al documento che lo incorpora.
I requisiti normativi dei titoli di credito:
1) incorporazione: il diritto di credito è associato in modo inscindibile ad un
apposito documento cartaceo (“la cartula”), il titolo, la cui presenza sarà
necessaria perché il diritto (diritto cartolare) possa circolare o essere esercitato.
Sarà applicabile il principio del possesso vale titolo: il possessore in buona fede
di un titolo di credito non è soggetto a rivendicazione. Il principio del possesso
vale titolo (art. 1153) non vale per i tradizionali crediti, ovvero per quei crediti
che non siano cartolarizzati;
2) autonomia: il credito cartolare è acquistato a titolo originario come
conseguenza diretta del possesso del documento (art. 1993 c.c.). È
quest’ultimo che spesso viene acquistato a titolo derivativo. Di conseguenza, al
possessore attuale non saranno opponibili eccezioni che il debitore vantava
verso i precedenti possessori, né il difetto di titolarità del trasferente;
3) letteralità: nel caso di cessione di titoli di credito, l’acquirente dovrà notificare la
cessione tempestivamente al debitore ceduto, giacché altrimenti il cessionario
rimane esposto al rischio che il debitore paghi, con effetto liberatorio, al
creditore cedente e al rischio dell’acquisto del credito da parte di un secondo e
più veloce cessionario. L’incorporazione del diritto di credito nel titolo, per
contro, fa sì che il debitore paghi con effetto liberatorio solo al possessore del
titolo debitamente legittimato (art. 1992 c.c.). In tal senso, esistono titoli a
letteralità completa o incompleta, a seconda che siano menzionati o meno tutti
gli elementi del diritto cartolare.
Questi elementi, combinati con l’esigenza economica di trasferire liquidità a una
situazione contrattuale come il credito, configurano dunque di fatto la presenza di un
titolo di credito. È dunque di fato possibile, in virtù del principio di tipicità, che
l’autonomia negoziale privata possa dare vita anche a titoli di credito diversi rispetto a
quelli previsti dalla legge (art. 2004 c.c.). A tale principio però si affiancano oggi una
serie di disposizioni limitative dell’autonomia negoziale.
È altresì possibile che il credito incorporato in un titolo sia oggetto di contratti volti alla
costituzione o al trasferimento di diritti o di vincoli reali differenti dalla proprietà. Sotto
questo punto di vista “il pegno, il sequestro, il pignoramento e ogni altro vincolo sul
diritto menzionato in un titolo di credito non hanno effetto se non si attuano sul titolo”
(art. 1997 c.c.). Le forme di attuazione del vincolo o di costituzione dei diritti variano
a seconda della legge di circolazione del titolo.
Sotto il punto di vista della classificazione dei titoli di credito, si definiscono
alternativamente i titoli causali e i titoli astratti. Sono causali quei titoli di credito nei
quali il rapporto fondamentale che dà luogo all’emissione è unico e specifico. Mentre
sono astratti quei titoli nei quali il rapporto fondamentale che dà luogo alla loro
emissione è variabile e non desumibile dalla lettera del titolo.

Formazione e circolazione dei titoli di credito


Il procedimento di formazione del titolo di credito si apre con la c.d. creazione
(L’identificazione del minimo necessario per configurarne l’esistenza giuridica dipende
da ciascun titolo, in generale sono quantomeno necessarie la materiale riferibili della
sottoscrizione all’emittente e l’indicazione dell’obbligazione cartolare). Alla creazione

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segue l’emissione, ovvero l’atto con il quale l’emittente si priva della disponibilità del
titolo in funzione del primo prenditore. All’emissione può seguire poi la trasmissione
del titolo, ovvero la sua circolazione fra successivi prenditori. In sostanza: in virtù di
un rapporto fondamentale e in ragione dell’incorporazione di questi in un titolo
cartaceo si crea un rapporto cartolare. Da questo momento in poi il diritto potrà
essere esercitato solo a mezzo del titolo. Il contratto in forza del quale la prestazione
derivante dal rapporto fondamentale diviene oggetto del rapporto cartolare viene
chiamato contratto di rilascio. Si parla in tal senso di legittimazione come di quella
situazione soggettiva che consente di esercitare il diritto incorporato nel titolo nei
confronti del debitore che lo ha emesso. La legittimazione non sarà dunque una
diretta conseguenza della proprietà di un titolo, quanto più del possesso qualificato di
quest’ultimo. Per quanto riguarda la circolazione dei titoli di credito, l’art. 1994 c.c.
detta la regola che presiede il trasferimento a non domino della proprietà dei titoli di
credito. Questa norma, mutuata dall’art. 1153 sui beni mobili, identifica di fatto come
unico il requisito della legittimità: il possesso deve essere qualificato. L’acquisto a non
domino non si perfeziona se il possesso non è accompagnato dalle forme che la legge
richiede per la legittimazione. Per quanto riguarda invece l’acquisto a domino, caso
evidentemente più comune, il requisito di legittimità deriva - almeno per quanto è
stato prodotto dalla giurisprudenza - dal principio consensualistico. Per quanto
riguarda la circolazione della legittimazione, occorre distinguere tra:
a) titoli al portatore: nel testo del titolo non è specificato alcun nome; il trasferimento
e la legittimazione del titolo avvengono con la semplice consegna o presentazione
del titolo stesso (assegno bancario). E' perciò sufficiente il mero possesso del
titolo.
b) titoli all’ordine: circolano con la consegna materiale del documento accompagnata
da “girata”. Il possessore del titolo è legittimato in base ad una serie continua di
girate (es. cambiale). In questo caso è quindi necessario un possesso qualificato
del titolo. La girata è l'ordine fatto dall'attuale possessore (girante) al debitore di
pagare un terzo soggetto (giratario) cui viene trasferito il titolo. La girata può
essere piena, se è fatto il nome del giratario, o in bianco, se non è indicato il nome
del giratario, come se fosse al portatore.
c) titoli nominativi: sono intestati al possessore. La legittimazione si acquista con la
presentazione del titolo e con la doppia intestazione del nome del possessore sul
titolo e su un apposito registro tenuto dall'emittente. Anche qui è necessario un
possesso qualificato del titolo. I titoli nominativi si trasferiscono attraverso la
consegna del titolo e il cambiamento della doppia intestazione, che può avvenire
con un articolato procedimento detto transfert, o con girata piena, datata e
autenticata.
Il credito cartolare può circolare anche, a titolo derivativo, con gli effetti di
un’ordinaria cessione di credito: si parla in questo caso di circolazione impropria del
titolo di credito.

L’esercizio del diritto cartolare


L’esercizio del diritto cartolare presuppone necessariamente la presentazione del titolo
al debitore da parte del possessore legittimo: la sua situazione soggettiva viene
definita legittimazione attiva all’esercizio del diritto. La speculare posizione soggettiva
del debitore prende il nome di legittimazione passiva.
l debitore paga bene quando, senza dolo o colpa, esegue la prestazione nelle mani del
possessore qualificato del titolo. Il legislatore tuttavia individua due eccezioni in virtù
delle quali il debitore può evitare di eseguire la prestazione:
1. le eccezioni inerenti al rapporto tra lui e debitore (eccezioni a lui personali) che
possono essere opposte dal debitore solo a un determinato portatore del titolo;
2. le eccezioni reali, che derivano da inosservanza dei requisiti formali prescritti
dalla legge, contenuto del diritto cartolare tipo illiceità della prestazione, falsità
della firma del debitore stesso, mancanza delle condizioni necessarie per

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l'esercizio del diritto cartolare e che possono essere opposte a qualsiasi
portatore del titolo.
L’autonomia del diritto cartolare impedisce che il debitore possa opporre ai successivi
possessori del titolo le eccezioni fondate su rapporti personali con un determinato
precedente portatore; a meno che non si provi che il possessore attuale abbia
acquistato il titolo per danneggiare intenzionalmente il debitore (eccezione di dolo).

La perdita involontaria del titolo


Data la necessità di tutelare la sicurezza della circolazione del titolo di credito, e, data
l’essenzialità del possesso del titolo per l’esercizio del diritto cartolare, il legislatore ha
previsto una regolamentazione articolata e differenziata a seconda del tipo di titolo di
credito nel caso di smarrimento del titolo stesso. Tale regolamentazione distingue
infatti tra titoli al portatore e titoli all’ordine o nominativi, nel cui caso si assiste alla
procedura di ammortamento.

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LEZIONI XIV, XV,XVI. LA CRISI DI IMPRESA

La crisi di impresa
Il dissesto di un’impresa (eccedenza dei costi sui ricavi) si riflette su tutti quelli che
hanno rapporti con questa: dipendenti, collaboratori, creditori. Il dissesto è connotato
dal rischio di propagazione sistemica. Per questo la legge ha come obiettivo di
minimizzare le conseguenze della crisi sul sistema economico nel suo complesso.
Quando si presenta lo stato di insolvenza (incapacità di adempiere regolarmente le
obbligazioni) dell’imprenditore, sono previste particolari procedure che riguardano
l’intero patrimonio dell’imprenditore per ridurre la perdita sociale e assicurare parità di
trattamento a tutti i creditori. L’espressione procedure concorsuali (es.
fallimento)significa proprio che riguardano l’intero patrimonio dell’imprenditore e sono
destinate al soddisfacimento paritario e pro quota dei suoi debiti a favore dei creditori.
Se il diritto comune si cura di fornire strumenti ai creditori per assicurare loro il
soddisfacimento delle loro pretese, la disciplina della crisi di impresa si cura del
debitore e si pone come obiettivo quello di impedire la dissoluzione di complessi
aziendali che nonostante l’insolvenza conservino valore positivo. In questa ottica la
liquidazione è vista come l’extrema ratio perché causa un danno sociale.
Dipende dall’ordinamento la soluzione del trade-off tra il soddisfare il più rapidamente
possibile i creditori e risanare l’impresa. D’altra parte il sistema liberale prevede
l’espulsione dal mercato delle imprese “marce”.
Oggi sono state eliminate le sanzioni personali e penali sul fallito a meno che questo
non abbia agito scorrettamente. Sono state invece concesse nuove chance agli
imprenditori: l’esdebitazione per i debiti non soddisfatti nella procedura. Si è creata
una disparità tra gli imprenditori che sono soggetti a procedimento fallimentare a cui è
data una seconda chance e quelli che invece ne sono esclusi (piccoli imprenditori,
imprenditori agricoli..)

Fallimento: struttura ed effetti


Il fallimento è una procedura concorsuale che mira alla liquidazione dell’intero
patrimonio dell’imprenditore per distribuirlo in maniera paritaria ai suoi creditori
secondo il principio della par condicio creditorum.
Chi dichiara il fallimento è il tribunale del luogo dove si trova la sede principale
dell’impresa (art.9 l. fall.). In genere è quella indicata nel registro. Se la sede legale
non coincide con quella effettiva prevale quest’ultima. Non si considera lo
spostamento della sede intervenuto nell’anno antecedente la richiesta di fallimento. Se
il fallimento è dichiarato da un tribunale non competente, i suoi effetti vengono
conservati e la procedura continua. Se si pronunciano più tribunali, prevale quello
competente che ha parlato per primo.
Un imprenditore può essere dichiarato fallito in Italia anche se la sua sede sta
all’estero. Questo perché la l. fall. ragiona in ottica marcatamente nazionalista. Il
regolamento comunitario ha stabilito la competenza dello Stato membro in cui si trova
il centro di interessi principale del debitore, l’automatico riconoscimento della
sentenza negli altri paesi in cui però possono essere aperte procedure secondarie.

Presupposti soggettivi:
Non tutti gli imprenditori sono soggetti a fallimento. Non lo sono gli imprenditori
agricoli e i piccoli imprenditori sotto determinate soglie. Con la riforma della legge
fallimentare sono stati individuati parametri quantitativi il cui mancato raggiungimento
(congiuntamente!) esclude la soggezione a fallimento degli imprenditori commerciali:
- attivo patrimoniale annuo < 300000 EUR (nei tre esercizi precedenti la data di
deposito dell’istanza di fallimento)
- ricavi lordi annui < 200000 EUR
- debiti < 500000 EUR

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Questo è stato fatto per contenere il numero di casi soggetti a fallimento perché la
procedura è complessa e costosa. Questo appare contraddittorio perché il fallimento
oggi è volto a risolvere la crisi di impresa assicurando l’esdebitazione per i debiti non
soddisfatti nella procedura più che a punire il fallito.
Nel 2012 è stata introdotta una legge per risolvere la crisi da sovra indebitamento di
chi non è suscettibile di essere sottoposto a procedura concorsuale.
Esenti da fallimento sono anche gli enti pubblici territoriali che esercitino in via non
prevalente un’impresa. Sono previste invece procedure alternative per gli enti pubblici
economici operanti in settori sensibili dell’ordinamento (bancario, finanziario,
assicurativo), soggetti a liquidazione coatta amministrativa e le grandi imprese,
soggette ad amministrazione straordinaria.
Il primo criterio di imputazione dell’impresa è quello della spendita del nome: soggetto
al fallimento è colui nel nome del quale l’attività viene svolta, anche il prestanome.
Fallisce anche l’ex imprenditore entro un anno dalla cancellazione dal registro delle
imprese.

Presupposti oggettivi
Viene dichiarato fallito “l’imprenditore che si trova in stato di insolvenza”, cioè quando
il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni. (art.
5 l.fall.)
L’insolvenza è quindi uno stato che non necessariamente coincidi con l’inadempienza,
nonostante questo sia il principale sintomo.
Non è poi considerato insolvente l’imprenditore il cui stato patrimoniale presenta
un’eccedenza di passività sulle attività (es. banche) né può essere esclusa l’ipotesi di
insolvenza in caso contrario se ad es. A e P non hanno scadenze allineate.
Possiamo oggi dire che insolvenza vuol dire incapacità di ottenere credito.

Legittimazione a chiedere il fallimento


Il fallimento può essere dichiarato
- su richiesta del debitore: poco frequente nella pratica anche se oggi con la
eliminazione delle sanzioni personali e penali c’è più incentivo a farlo
- su richiesta del creditore: ipotesi più frequente. Il singolo creditore agisce sulla
base del proprio tornaconto per fare pressione sul debitore. Accade che nonostante
l’insolvenza il creditore ritiri la istanza se il debitore paga.
- Su richiesta del Pubblico Ministero: avviene nel caso in cui l’insolvenza risulta
nel corso di un procedimento penale (es fuga dell’imprenditore) o dalla segnalazione
di un giudice che l’ha rilevata nel corso di un procedimento civile.

Istruttoria prefallimentare e sentenza di fallimento


Il procedimento giudiziale per la dichiarazione di fallimento si svolge in camera di
consiglio e è regolato dall’art. 15 l. fall. L’udienza va fissata entro i 45 giorni dal
deposito del ricorso e al debitore devono essere concessi almeno 15 giorni dalla
pubblicazione.
Il tribunale può emettere provvedimenti cautelari e conservativi a tutela del
patrimonio o dell’impresa.
Il tribunale può rigettare la dichiarazione di fallimento o accettarla con sentenza
provvisoriamente esecutiva. In questo caso nomina il giudice delegato e il curatore,
ordina al fallito di depositare le scritture contabili, fissa l’udienza (entro 120 giorni) e
procede all’assegnazione ai creditori e ai terzi che vantano diritti reali su cose in
possesso del fallito.
La sentenza produce effetti dalla data di pubblicazione.

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Effetti del fallimento dell’impresa
Primo effetto è il blocco dell’attività di impresa. Questo perché in genere l’insolvenza è
causata dal carattere deficitario della gestione e così facendo si impediscono ulteriori
perdite di valore.
Quando l’interruzione causerebbe un danno grave viene permessa la continuazione
provvisoria dell’esercizio di impresa. Viene disposta con sentenza dichiarativa o anche
successivamente dal giudice delegato su istanza del curatore. Durante il periodo di
esercizio provvisorio il curatore deve riunire almeno ogni 3 mesi il comitato dei
creditori e ogni semestre presentare un rendiconto dell’attività. Se il comitato dei
creditori si pronuncia per l’interruzione il giudice delegato deve ordinare la cessazione.
Il tribunale può farlo in qualsiasi momento. Durante l’esercizio provvisorio i contratti
pendenti proseguono. I debiti che sorgono in questo periodo sono soddisfatti in
prededuzione.
Un’alternativa è l’affitto dell’azienda che può essere disposto dal giudice delegato. Il
curatore sceglie l’affittuario. Il contratto di affitto va stipulato per atto pubblico o
scrittura privata autenticata e deve prevedere il diritto del curatore di procedere
all’ispezione dell’azienda e il suo diritto di recesso dal contratto con l’approvazione del
comitato dei creditori e in seguito a corresponsione di indennizzo all’affittuario.
L’affittuario gode di diritto di prelazione nell’acquisto dell’azienda.

Effetti per il fallito


Gli effetti del fallimento per il fallito si distinguono in:
• Effetti patrimoniali: possono consistere nella: 1) privazione dell’amministrazione
e disponibilità dei bene (spossessamento ma non sui beni personali) 2) perdita della
capacità processuale riguardo alle liti relative ai bene e rapporti coinvolti nel fallimento
e interruzione di tutti i processi pendenti. 3) inefficacia rispetto ai creditori dei
pagamenti e atti effettuati o ricevuti dopo la dichiarazione di fallimento
(cristallizzazione dello stato patrimoniale al momento della dichiarazione di
fallimento). Questo a tutela dei creditori
• Effetti personali: dopo la riforma la legge si limita a stabilire un obbligo del
fallito di consegna al curatore della corrispondenza riguardante i rapporti compresi nel
fallimento, se non si tratta di persona fisica ma di ente tutta la corrispondenza deve
essere consegnata al curatore. Devono inoltre comunicare tutti i cambiamenti di
residenza o domicilio. Hanno alcune limitazione alle attività che può svolgere.
• Effetti penali: la dichiarazione di fallimento costituisce elemento necessario per
sommarsi alla fattispecie di figure di reato individuate dalla l. fall. (es. bancarotta
semplice o fraudolente).

Effetti per i creditori


La dichiarazione di fallimento con la conseguente apertura del concorso tra i creditori
significa che
- Dal giorno della dichiarazione nessuna azione esecutiva o cautelare individuale
può essere iniziata o perseguita dal creditore (es azioni a tutela del credito, azioni
risarcitorie), questo anche per i crediti maturati durante il fallimento (debiti di massa)
- ogni credito e ogni diritto reale o personale nei confronti del fallito deve essere
accertato
Ai creditori concorsuali (con titolo anteriore al fallimento) è concesso il diritto di
partecipare all’esecuzione fallimentare una volta riconosciuto il proprio diritto a
concorrere: il diritto ad agire in via esecutiva è sostituito da quello di ottenere una
quota (dividendo fallimentare).
Alla stessa disciplina sono soggetti coloro che vantano diritti reali o personali sui beni
del fallito.
I creditori posteriori alla dichiarazione di fallimento e creati dal curatore sono
soddisfatti in prededuzione (debiti della massa).

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Riguardo ai crediti opera la cristallizzazione in base al quali ai soli effetti del concorso i
crediti si considerano scaduti alla data de fallimento, quelli non pecuniari concorrono
alla data del fallimento e gli interessi convenzionali e legali sono sospesi.
Se c’è causa legittima di prelazione il credito garantito continua a maturare interessi al
tasso convenzionale fino a un anno dopo la dichiarazione di fallimento e poi al tasso
legale. Al creditore pignoratizio è concessa la vendita extra fallimentare dell’oggetto
della garanzia.
Chi è sia debitore che creditore (anche non scaduto) può effettuare una
compensazione.

Il fallimento della società


La disciplina del fallimento è strutturata sul modello dell’imprenditore individuale.
Tuttavia nella moderna economia i principali soggetti sono imprenditori di tipo
societario. La disciplina ha dovuto infatti cercare di coordinarsi con la riforma delle
società di capitali e con le esigenze odierne.
La dichiarazione di fallimento in proprio è una delle tante questioni aperte. L’art. 152
l.fall. sembra legittimare gli amministratori della società di capitali.

L’estensione del fallimento ai soci illimitatamente responsabili


In base all’art. 147 l. fall. Il fallimento della società che abbia soci a responsabilità
illimitata produce anche il fallimento personale di costoro (Fallimento in estensione)
solo nel caso di società personali o di accomandita per azioni. Titolo necessario e
sufficiente per il fallimento è la partecipazione alla società in qualità di soci
illimitatamente responsabili. La responsabilità non è degli ex soci il cui rapporto
sociale sia venuto meno più di un anno prima il fallimento.
Prima della dichiarazione di fallimento i soci devono essere convocati in camera di
consiglio dove posso esercitare il diritto alla difesa. Anche il socio occulto di società
palese e la società occulta stessa possono essere dichiarati falliti (es. dopo la
dichiarazione di fallimento di un’impresa individuale se questa risulta essere riferibile a
una società a responsabilità illimitata). La società occulta è proprio un tentativo da
parte dei soci di evitare il fallimento.
La riforma non tratta dell’imprenditore occulto.

Fallimento della società e dei soci


In caso di fallimento in estensione viene nominato dal tribunale un giudice delegato e
un curatore e anche più comitati di creditori.
Anche la società apparente è soggetta a fallimento, cioè la società che appare nei
confronti dei terzi anche se non esista nei rapporti interni fra i supposti soci. La
questione è controversa perché la società apparente non esiste. Deve questa ritenersi
una tecnica utilizzata dalla giurisprudenza per attenuare in capo ai terzi l’onere
probatorio della dimostrazione dell’esistenza di una società di fatto.

Effetti del fallimento nelle s.r.l.


Il fallimento della società s.r.l. non produce effetti sui soci; l curatore tuttavia può
chiedere che procedano con i versamenti ancora dovuti.
Alcuni degli effetti personali si applicano in tutte le società ai loro amministratori o
liquidatori. Le sanzioni penali per i reati fallimentari si applicano agli organi di società
aventi funzioni amministrative, direttive o di controllo, nonché ai c.d. amministratori di
fatto.
Con la riforma delle società tuttavia, il curatore è legittimato a proporre azioni di
responsabilità anche nei confronti dei soci come si legge al comma 7 at. 2476: Sono
altresì solidalmente responsabili con gli amministratori, ai sensi dei precedenti commi,
i soci che hanno intenzionalmente deciso o autorizzato il compimento di atti dannosi
per la società, i soci o i terzi.

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In sostanza viene trasferita al curatore la legittimazione di azioni di responsabilità
sociale e dei creditori nelle s.p.a. e s.a.p.a, sociale nella s.r.l.

Il concordato
La proposta di concordato deve essere approvata da chi ha la rappresentanza legale
della società.
Il concordato fallimentare in generale è un accordo tra fallito, con approvazione della
maggioranza assoluta dei soci o comunque da chi ha la rappresentanza legale, e un
terzo per la cessazione del fallimento.

Il fallimento e i patrimoni destinati


Sono state individuate due figure giuridiche di istituto dei patrimoni destinati (non
sociale): i patrimoni destinati unilaterali che danno luogo nella società a un complesso
di beni organizzato per lo svolgimento di uno specifico affare e i patrimoni destinati
contrattuali che si risolvono in una particolare forma di garanzia costituita in favore di
un finanziatore sulla base di un accordo con il medesimo….
Il curatore gestisce in via separata il patrimonio destinato in caso di fallimento di
società cercando di preservarne la funzione produttiva; se non trova acquirenti,
procede con la sua liquidazione

Cessazione del fallimento


La dichiarazione di fallimento è tradizionalmente una causa di scioglimento della
società.
Il verificarsi di una causa di scioglimento non implica comunque estinzione della
società ma solo la sua messa in liquidazione: il fallimento è una modalità di
liquidazione. Se la società chiuso il fallimento presenta un residuo attivo potrebbe
revocare lo stato di liquidazione e riprendere l’attività.
Il curatore deve procedere alla cancellazione della società dal registro (estinzione)
delle imprese esclusivamente nei casi di chiusura del fallimento quando non residua
più alcun attivo.

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LEZIONE XVIII. SOCIETA’ E FIGURE AFFINI

Le linee di sviluppo del diritto societario


Nozione comune e nozione giuridica di società, con il passare degli anni, e in
particolare recentemente, hanno imboccato strade profondamente diverse.

La società è la forma storicamente nata e pensata per chi voglia porre in essere un
esercizio collettivo dell’impresa a scopo di lucro. Ad oggi, in virtù dell’aumento della
casistica, e in particolare di quella relativa alle società unipersonali, tale definizione
non può dirsi esaustiva. La società corrisponde piuttosto a una delle forme giuridiche
previste dall’ordinamento per lo svolgimento di un’attività economica.

L’evoluzione normativa (si veda in particolare il d.lgs. 6/2003) è destinata a intaccare
le più antiche e consolidate sistematicità della materia e costringe a ripensare la ratio
e l’interpretazione delle norme.

Ai primordi si trovano forme di società che si risolvono in una comproprietà dei soci su
beni destinati allo svolgimento di un affare, senza autonomia, né patrimoniale né
organizzativa: è l’antica società civile del diritto romano e del codice civile italiano del
1865.

Nel corso del tempo a essa si affianca una società (la compagnia medievale) che si
configura come soggetto dotato di autonomia patrimoniale, e dunque titolare di diritti
e obblighi altri rispetto a quelli dei soci.
Autonomia della società significa anzitutto destinazione esclusiva del suo
patrimonio alle esigenze dell’impresa comune: nei rapporti esterni significa che
il patrimonio sociale è riservato al soddisfacimento dei creditori.
L’esigenza di favorire l’afflusso verso l’attività economica anche dei capitali detenuti
dalle classi abbienti, ma non interessate o impossibilitate al commercio (per esempio,
nobili e clero), dà la spinta fin dal Basso Medioevo per la ricerca di strumenti che
consentano l’impiego di tali risorse senza esporre i loro titolari al rischio integrale
d’impresa.

Si evolvono così forme societarie ove accanto ai c.d. soci imprenditori, che gestiscono
e rispondono illimitatamente per le obbligazioni sociali, convivono soggetti che restano
estranei alla gestione, ma limitano il loro rischio al capitale apportato all’impresa
comune (la commenda).

L’idea geniale della responsabilità limitata si rivelò in tutta la sua genialità all’epoca
delle grandi colonizzazioni dei territori d’oltre mare. La necessità di raccogliere
colossali somme di denaro per dotare le varie Compagnie delle Indie delle risorse
occorrenti per le loro campagne ha posto le basi perché i concetti di finanziamento e
gestione potessero separarsi.

Le patenti regie estesero la responsabilità limitata in favore di tutti i soci, ponendo le
basi per la separazione istituzionale tra chi investe e chi gestisce: all’esclusione dei
primi dalla gestione non corrisponde più la necessità che i secondi siano
illimitatamente responsabili, anzi possono essere anche non soci.

La responsabilità limitata, inoltre consente l’incorporazione delle partecipazioni in
azioni, cioè in documenti fungibili che ne permettono libera scambiabilità su appositi
mercati (le borse).

Il socio può vendere le azioni e liquidare il suo investimento realizzando il guadagno
senza dover attendere la ripartizione degli utili o la fine stessa della società.

L’evoluzione del concetto di società è poi portato a compimento nel momento storico
in cui la responsabilità limitata è stata estesa alle iniziative economiche individuali,
purché queste si assoggettino alle regole societarie.

Alla compagnia medievale corrisponde l’attuale società in nome collettivo, alla
commenda le società in accomandita, alle compagnie coloniali la società per azioni, e
così via.

Si è poi sviluppata l’opera di sistemazione della dottrina con la classica distinzione tra
società di persone e società di capitali: le prime connotate dalla naturale
responsabilità illimitata dei soci per le obbligazioni sociali e dalla flessibilità
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organizzativa affidata alla loro volontà; le seconde istituzionalmente a responsabilità
limitata, con assetti organizzativi tendenzialmente predeterminati in modo rigido dalla
legge e non derogabili dai soci.

Ciò nonostante, questa articolazione appare oggi in crisi: la recente riforma delle
società di capitali asseconda l’ispirazione degli operatori a emanciparsi dagli schemi
precostituiti per organizzare la propria attività economica.

Oggi, in virtù della crescente pervasività nella vita di tutti i giorni dell’attività
economica, organizzata prevalentemente in forma societaria, è sempre più difficile
bilanciare gli interessi dei soci (shareholders) e degli altri soggetti toccati dall’attività
sociale (stakeholders).

Gli elementi essenziali del contratto di società


L’art. 2247 c.c. introduce una disciplina delle società con una definizione secca: “con
il contratto di società due o più persone conferiscono beni o servizi per l’esercizio in
comune di un’attività economica allo scopo di dividerne gli utili”.

Il contratto di società viene pacificamente ricondotto alla categoria dei contratti
plurilaterali con comunione di scopo.

Il contratto societario si connota, inoltre, per essere di tipo associativo, aperto(ovvero
suscettibile di tollerare variazioni nel numero dei partecipanti) e di organizzazione.

Con quest’ultimo termine si sottolinea che l’effetto principale del contratto è di dar
vita, appunto, a un’organizzazione, regolata dalla legge e dall’autonomia negoziale in
modo diverso a seconda del modello prescelto, destinata a sopravvivere alla
contingente realtà soggettiva di chi la stipulò.
Con riguardo ai soci il profilo organizzativo si traduce nel riconoscimento, in forme
diverse a seconda dei tipi sociali, di una serie di diritti amministrativi e patrimoniali.

I conferimenti: capitale e patrimonio


I soci (anche l’unico socio) nel costituire una società devono conferire beni o servizi.

La concretizzazione e la rilevanza dell’obbligo di conferimento variano a seconda del
tipo di società: in quelle di capitali, ad esempio, l’assunzione dell’obbligo del
conferimento è condizione per la costituzione della società.

Il conferimento determina la formazione del capitale sociale.

Il capitale sociale, c.d. nominale, non può essere superiore alla somma dei
conferimenti effettuati dai soci.

Esso rappresenta ciò che non può essere distolto dall’esercizio dell’attività fino
all’estinzione della società o alla sua formale riduzione tramite modifica contrattuale.

Nel primo caso la restituzione del capitale ai soci può essere effettuata solo dopo il
soddisfacimento dei creditori sociali; nel secondo caso i creditori sociali possono
opporsi alla riduzione del capitale.

Il capitale sociale, pertanto, ha anzitutto una funzione di garanzia: è un’entità formale
fissa determinata nell’atto costitutivo; se il patrimonio netto è superiore al capitale
sociale per effetto degli utili di gestione, quest’ultimo ne è la c.d. parte indisponibile;
se è inferiore, ciò significa che la gestione ha generato perdite tali da intaccare il
capitale sociale.

Il capitale sociale nominale, poi, ha anche la funzione organizzativa di rappresentare
l’entità numerica complessiva sulla quale si calcolano i diritti patrimoniali e
organizzativi spettanti ai soci: si dice infatti comunemente che un soggetto partecipa a
una società per una percentuale del capitale sociale.

Questa funzione organizzativa, non è però assoluta in quanto la regola di
proporzionalità è, in ogni tipo sociale, derogabile nel contratto.

Il capitale ha, infine, una funzione produttiva giacché rappresenta ciò che i soci
destinano all’esercizio dell’attività.

E’ vero che la società può procurarsi anche ulteriori risorse per l’esercizio dell’impresa,
ma il capitale sociale costituisce comunque la prima risorsa disponibile.

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L’esercizio in comune dell'attività economica
Esercizio in comune significa che l’attività economica va svolta in modo tale che
l’imputazione dei suoi risultati sia riferibile alla società e non si risolva nella somma
delle attribuzioni individuali in capo a più soggetti.

La distinzione fra esercizio in comune e individuale dell’attività economica si coglie con
efficacia comparando il contratto di società con quello di associazione in
partecipazione.

Esercizio in comune si ha solo quando i suoi effetti e risultati trascendono il soggetto
che effettivamente li compie e si producono direttamente nella sfera della società.

La nozione giuridica di attività economica


L’art. 2247 c.c. non richiede particolari connotazioni dell’attività economica oggetto di
esercizio comune.

Il raffronto con la definizione di impresa, per la quale occorrono i requisiti
dell’organizzazione e della professionalità, pone l’interrogativo se la società possa
esercitare un’attività economica non imprenditoriale. Ci si chiede in sostanza se
l’esercizio di una qualsiasi attività economica in forma societaria comporti
automaticamente la natura di impresa.

Per quanto concerne il requisito dell’organizzazione è diffusa l’opinione che esso sia di
per sé integrato nella fattispecie societaria.

Riguardo alla professionalità, invece, non può escludersi che essa manchi: si pensi al
caso di una società che venga costituita per lo svolgimento di un unico affare a
carattere non complesso (c.d. società occasionale).

Particolare è l’ipotesi della società tra professionisti. Atteso che, secondo l’opinione
preferibile, l’attività professionale intellettuale non è impresa, ammetterne l’esercizio
in forma di impresa equivarrebbe a riconoscere un caso di società senza impresa.

Il requisito dell’attività economica fissa la differenza tra società e comunione.

Sotto il punto di vista della distinzione tra società e comunione, istituto regolato
dall’art. 2248 c.c., occorre evidenziare il ruolo fondamentale giocato in tal senso dal
requisito di economicità.

Nelle società i beni vengono conferiti dai soci come strumento, al fine del loro uso
nell’esercizio di un’attività economica; nella comunione, invece, i comproprietari si
limitano a fruire direttamente dei beni in modo immediato o mediato.

Alla differente funzione corrisponde una sensibile diversità di trattamento: nella
comunione il bene comune può essere pignorato da qualsiasi creditore di uno dei
comproprietari (sia pur nei limiti della quota a lui spettante); in qualsiasi tipo di
società, invece, i beni sociali sono riservati al soddisfacimento dei creditori della
società.

La distinzione così tracciata appare, in linea teorica, sufficientemente chiara; tuttavia,
due fattispecie di confine continuano a dar luogo a problemi di qualificazione e
disciplina.

La prima consiste nella c.d. comunione di impresa o di azienda.

Se oggetto di comproprietà è un complesso di beni organizzati per l’esercizio
dell’impresa (azienda), ci si chiede come deve essere qualificata la fattispecie: come
società o come comunione:

- se i comproprietari con l’azienda o i beni produttivi comuni esercitano l’impresa deve
ritenersi che fra loro sorga una società c.d. di fatto;

- se invece i comproprietari non esercitano direttamente l’attività economica ma
godono, in via indiretta, del complesso dei beni comuni, per esempio dando in affitto
l’azienda, non diventano né soci né imprenditori e i loro rapporti sono disciplinati dalle
regole sulla comunione.

Prima fattispecie di comunione di impresa è quella di impresa coniugale. La seconda
fattispecie è quella delle c.d. società immobiliari di comodo, cioè le società costituite al
fine dell’intestazione di beni immobili che vengono goduti direttamente dai soci ovvero
semplicemente locati agli stessi soci o a terzi, limitandosi i soci a percepirne l’affitto.


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In tali ipotesi, normalmente, il contratto sociale indica come suo oggetto lo
svolgimento di un’attività economica di trading immobiliare che poi non viene in
concreto svolta.

Nonostante l’illiceità di un tale uso dello strumento societario, tuttavia, l’esigenza di
tutela dell’affidamento dei terzi con cui la società ha operato induce la giurisprudenza
a un atteggiamento più cauto.

Si ritiene sufficiente, in sostanza, la previsione statutaria anche se non effettivamente
attuata.

In definitiva, oggi, la repressione delle società immobiliari di comodo è affidata, più
che alla legislazione civilistica, a un trattamento fiscale disincentivante.

Lo scopo di lucro
Dalla formula dell’art. 2247 c.c. il perseguimento dello scopo di lucro e della
ripartizione tra i soci dell’utile conseguito sembra essenziale al contratto di società: in
realtà la definizione del codice deve essere precisata almeno sotto due profili.

Il primo profilo riguarda il fatto che la stessa legge prevede fattispecie di società con
un fine diverso da quello lucrativo. Si pensi in tal senso all’esempio delle cooperative a
fine mutualistico.
Il secondo profilo riguarda la legislazione di settore ove sono state previste diverse
ipotesi di società speciali senza scopo di lucro (es. le società sportivi fino al 96).

Da ultimo il d. lgs. 155/2006 ha introdotto una fattispecie di società senza scopo di
lucro a carattere più generale: l’impresa sociale.

Con questo termine si definiscono le organizzazioni private, ivi comprese le società,
“che esercitano in via stabile e principale un’attività economica organizzata al fine
della produzione o dello scambio di beni o servizi di utilità sociale, diretta a realizzare
finalità di interesse generale”.

Le organizzazioni, e dunque anche le società, che esercitano un’impresa sociale e
vogliono essere considerate tali, non possono avere scopo lucrativo: devono infatti
“destinare gli utili e gli avanzi di gestione allo svolgimento dell’attività statutaria o ad
incremento del patrimonio” e non possono distribuire utili e avanzi di gestione in
favore dei soci.

Tuttavia, prevale ancora l’opinione che i casi di società senza scopo di lucro siano
eccezioni: quindi, in assenza di una specifica norma di deroga, una società non può
essere iscritta nel registro delle imprese ove si proclami senza fini di lucro. Il
perseguimento dello scopo di lucro soggettivo, del resto, rappresenta l’elemento
distintivo fra società e associazione che eserciti attività di impresa. Un altro esempio di
società con fini alternativi a quelli lucrativi è quello delle società benefit. Si tratta di
società che, nell’esercizio dell’attività economica, oltre allo scopo di dividerne gli utili,
perseguano anche una o più finalità di beneficio comune.

Le società tra professionisti



E’ sempre stata controversa, e lo è tuttora, la possibilità di svolgere in forma
societaria le professioni intellettuali.

Molte sono state le ragioni di volta in volta addotte per la soluzione negativa: la non
riconducibilità dell’attività dei professionisti intellettuali alla nozione di attività
economica; il carattere pretesamente non organizzato dell’attività; addirittura
l’assenza di finalità lucrativa.

Nessuna delle ragioni ora elencate ha fondamento nel diritto e nella realtà dei fatti; il
professionista intellettuale svolge certamente un’attività economica al fine di trarne
guadagno; la sussistenza dell’organizzazione va accertata in concreto ma, poiché l’art.
2247 c.c. non richiede che l’attività economica da esercitarsi in società debba
necessariamente essere impresa, anche tale preteso ostacolo in realtà non ha
consistenza.

La ragione più invocata per negare cittadinanza alla società tra professionisti era ed è

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quella per cui l’esercizio in forma societaria di tale attività configgerebbe
irrimediabilmente con il principio della personalità della prestazione posto dall’art.
2232 c.c.
Questi dubbi sono oggi superati anche a seguito di vari e recenti interventi legislativi.
Seppur in seguito alla fissazione di paletti legislativi volti a proteggere la personalità
della prestazione e la libertà del professionista, ad oggi è infatti ammesso l’esercizio
societario dell’attività professionale e consentito anche l’uso di società di capitali e
cooperative. Ciò nonostante, sebbene il quadro normativo non sia chiaro, è possibile
individuare alcuni principi distinguendo tra regole per le professioni non organizzate,
per le professioni protette (iscritte agli albi) e per particolari professioni.
Nel caso delle professioni non organizzate in ordini e collegi, la legge permette la
libera utilizzabilità di qualsiasi tipo societario.
Nel caso di professioni protette, state ammesse le società tra professionisti (della
categoria protette) in qualsiasi forma prevista dal c.c. con alcune regole:
-esercizio in via esclusiva dell’attività professionale da parte dei soci
professionisti;
-possibilità di partecipazione anche di soci non professionisti con finalità di
investimento a condizione che quelli professionisti abbiano la maggioranza dei
due terzi nelle deliberazioni;
-Devono essere iscritte in sezioni speciali dell’albo e del registro delle imprese;
-I soci non possono partecipare a più di una società.
A tal proposito, le società tra professionisti vanno iscritte sia un una sezione speciale
dell’albo o del registro tenuto dall’ordine di appartenenza sia in una sezione speciale
dell’albo delle imprese.
Prima della riforma del 2012 che ha delegato il governo all’emanazione di una
disciplina specifica l’esempio più rilevante di esercizio in forma societaria della
professione era quello della società tra avvocati.

Nonostante la delega del 2012 la società di avvocati rimane soggetta alla disciplina del
2001:

-il tipo societario che fornisce la disciplina residuale della società di avvocati è la
società in nome collettivo;

- la società fra avvocati ha per oggetto l’esercizio in comune dell’attività professionale
dei soci, ne rappresenta l’unica possibile forma e deve avere nella ragione sociale
l’indicazione dei nomi dei soci (o di uno o più di essi seguita dall’indicazione s.t.p.);

-l’amministrazione non può essere affidata a un terzo e l’incarico professionale deve
essere eseguito da uno o più soci avvocati; il cliente può scegliere quale dei soci deve
svolgerlo;

-la responsabilità per le obbligazioni che derivano dall’esercizio dell’attività
professionale grava, oltre che sulla società, anche sui soci incaricati dello svolgimento
del mandato professionale, o su tutti i soci ove al cliente non sia stato comunicato il
nome dei professionisti incaricati.

Anche questa materia è in rapida evoluzione.

Il recente d.l. 223/2006 sembra dare per presupposta l’ammissibilità delle società di
p e r s o n e t ra p r o f e s s i o n i s t i , a m m e t t e n d o e s p r e s s a m e n t e a n c h e q u e l l e
interprofessionali.

Società di fatto, società occulta e società apparente


La società può nascere anche in assenza di stipulazione esplicita ma in presenza di
comportamenti concludenti che integrino gli elementi essenziali di cui all’art. 2247
c.c.: si parla in questo caso di società di fatto.

La figura presuppone che dal comportamento delle parti si possa desumere l’esistenza
di conferimenti per l’esercizio in comune di attività economica con scopo di ripartire
l’utile.

La società si ritiene esistente anche se non si manifesta all’esterno.

I soci, cioè, possono non rivelarne l’esistenza ai terzi, agendo individualmente per

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conto della società senza spenderne il nome.

Si parla in questo caso di società occulta e il problema principale è quello della sua
fallibilità, procedura che in genere i soci occulti vogliono evitare.

Essa veniva negata da molta dottrina sulla base dell’applicazione rigorosa del principio
della spendita del nome.

Oggi il problema è espressamente risolto dalla nuova formulazione dell’art. 147 l.
fall., che sancisce espressamente la fallibilità della società occulta.

La giurisprudenza, per tutelare nel modo più completo possibile i terzi, specie nelle
situazioni di dissesto, ha infine elaborato la figura della c.d. società apparente: ha
affermato che il comportamento esterno che ingeneri nei terzi il ragionevole
affidamento che esista una società comporta l’applicazione della disciplina della
società, con il conseguente fallimento di questa e dei suoi apparenti soci. È un modo
per agevolare i terzi a provare l’esistenza della società.

Tipi e distinzioni fra società

La tipicità delle società nella disciplina giuridica


La disciplina delle società non è unitaria, ma si articola in diverse forme che vengono
chiamate, nel linguaggio del legislatore, tipi.

I tipi di società elencati nel codice sono:
a) società semplice (non commerciali);
b) società in nome collettivo (s.n.c.): società di persone che svolge attività
commerciale;
c) società in accomandita semplice (s.a.s.): società di persone avente soci
accomandanti che rispondono limitatamente alla quota conferita e sono esclusi
dalla amministrazione della società e soci accomandatari che hanno
responsabilità illimitata e a cui è affidata l’amministrazione;
d) società per azioni (s.p.a.), società di capitali in cui ogni quota è convertita in
titolo;
e) società in accomandita per azioni (s.a.p.a.), una s.p.a. con soci accomandanti e
accomandatari;
f) società e responsabilità limitata (s.r.l.);
g) società cooperativa e mutua assicuratrice.
I tipi si differenziano tra loro principalmente per le regole di forma e organizzazione
dell’attività comune nonché di responsabilità dei soci per le obbligazioni sociali.

Dall’art. 2249 c.c., dove di precisa che l’esercizio in forma societaria di un’attività
commerciale può svolgersi solo utilizzando i tipi diversi dalla società semplice, viene
solitamente tratto il più generale principio di tipicità dei tipi di società: cioè il divieto
per l’autonomia negoziale di creare modelli societari alternativi o ibridi rispetto a quelli
espressamente previsti nel codice, rendendo così immediatamente identificabile il
nucleo della loro disciplina organizzativa e patrimoniale.

Dal principio di tipicità si trae inoltre il corollario che società semplice e società in
nome collettivo sono i c.d. tipi residuali per l’esercizio in comune rispettivamente delle
attività economiche non commerciali e commerciali, qualora le parti costituiscano una
società senza scegliere un tipo particolare.

Non è frequente che l’autonomia negoziale crei società atipiche: semmai accade che le
parti, pur scegliendo un tipo, inseriscano nel contratto clausole contraddittorie con gli
elementi caratterizzanti del tipo stesso (c.d. clausole atipiche).

Il tasso di inderogabilità della disciplina varia significativamente a seconda dei tipi.

Con riferimento alle conseguenze di tali pratiche, nel caso di società atipiche, si
afferma la nullità della società. Mentre nell’ipotesi di clausole atipiche, invece, si
afferma prevalentemente la loro nullità e l’applicazione della disciplina del tipo
sottostante.

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Differenze tra società di persone e società di capitali
Molte sono le partizioni fra i vari tipi di società.

Particolarmente in auge nella letteratura e nella pratica era ed è la distinzione tra
società di persone (società semplice, s.n.c. e s.a.s.) e società di capitali (s.p.a.,
s.a.p.a. e s.r.l.) alla quale corrisponde quella tra società con personalità giuridica
(appunto le società di capitali cui si aggiungono le cooperative) e senza personalità
giuridica (le società di persone).

Tale distinzione viene tradizionalmente incentrata sul diverso regime organizzativo e
della diversa responsabilità dei soci per le obbligazioni sociali. 

Le società di persone derivano il nome dalla peculiare rilevanza che in esse assumono
le caratteristiche personali dei soci. Tendenzialmente i soci sono, in quanto tali, anche
amministratori e rappresentanti della società.I loro atti impegnano, dunque, la società
e il suo patrimonio.

Impegnano anche gli altri soci, essi rispondono illimitatamente con il proprio
patrimonio personale per i debiti della società.

Nelle società di capitali vi è una tendenziale irrilevanza della persona del socio che
deriva dalla mancanza di una sua responsabilità per le obbligazioni sociali e si riflette
sulla mancanza di poteri gestori al socio in quanto tale.

Essa, inoltre, differentemente da quanto accade nel caso delle società di persone,
consente la normale libera trasferibilità della partecipazione, ma implica l’esigenza sia
di stringenti regole tese ad assicurare l’integrità patrimoniale dell’ente sia di una
complessa struttura organizzativa solitamente articolata in tre organi specializzati:
assemblea, organo amministrativo e organi di controllo.

In questo quadro è intervenuta la riforma delle società di capitali (2003) che ha messo
in crisi i termini stessi della distinzione con il totale cambiamento del tipo capitalistico
numericamente più diffuso: la s.r.l.

Si è infatti concessa all’autonomia negoziale la possibilità di disegnare gli assetti
organizzativi della s.r.l. in modo simile, se non identico, a quello delle società di
persone.

Nozione di personalità giuridica e autonomia patrimoniale



La riforma delle società di capitali ha mantenuto, per s.p.a., s.a.p.a. e s.r.l. (oltre che
per le società cooperative), la proclamazione di principio per cui con l’iscrizione nel
registro delle imprese le stesse acquistano la personalità giuridica; per le società di
persone il legislatore ha conservato l’antico silenzio.

L’attribuzione normativa della personalità giuridica riveste grande utilità concettuale;
in particolare nel senso che rappresenta il segno della volontà del legislatore di
rendere non confondibile la situazione patrimoniale e soggettiva della società con
quella dei soci. Con il riconoscimento della personalità giuridica, le società (di capitali
e le cooperative) sono trattate, per legge, come soggetti di diritto formalmente
distinte dalle persone dei soci (piena e perfetta autonomia patrimoniale). I beni
conferiti dai soci diventano beni di proprietà della società: questa è titolare di un
proprio patrimonio, di propri diritti e di proprie obbligazioni distinti da quelli personali
dei soci. I creditori personali dei soci non possono soddisfarsi sul patrimonio sociale,
né i creditori sociali possono soddisfarsi sul patrimonio personale dei soci.
Il concetto di persona giuridica si risolve nelle regole particolari relative ai diritti
e obblighi delle persone che vi partecipano ma permette di cogliere l’alterità tra
l’ente-persona giuridica e il soggetto che vi partecipa. Fondamentale è, però,
che nell’uso dell’espressione e del concetto di persona giuridica si sia consci
della sua strumentalità: pericoloso è considerare la persona giuridica alla stessa
stregua di quella fisica.

Si pensi al caso del soggetto che vincolato a un patto di non concorrenza
divenga unico socio di una s.r.l., cioè di una persona giuridica, per svolgere
proprio l’attività che gli è vietata.


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E’ chiaro che, in questa ipotesi, sarebbe improprio appellarsi all’alterità
soggettiva della società rispetto al socio per negare la violazione del patto; ma
è ciò che si verifica se si ragiona scambiando i fenomeni della realtà con i
concetti che servono a riassumerli e a regolarli.

In un caso come quello ipotizzato si parla correttamente di “sollevamento del
velo della personalità giuridica”.
La mancata attribuzione della personalità giuridica alle società di persone, poi, non
significa affatto che esse non siano soggetti di diritto, centro di imputazione di rapporti
giuridici autonomi e distinti dai soci.

Lo attesta anzitutto l’art. 2266 c.c. in base al quale le società personali acquistano
diritti e assumono obblighi in proprio.

La tendenza è indubbiamente verso la svalutazione del rilievo concreto della
distinzione fra le società che sono dotate di personalità giuridica e le altre.

Altre forme collettive di esercizio dell’attività economica

Nozione di associazioni e fondazioni


Le associazioni e le fondazioni possono liberamente svolgere attività economica nella
forma di esercizio collettivo di impresa.

La distinzione dalla società si coglie esclusivamente con riguardo allo scopo perseguito
che, nelle associazioni e fondazioni, è di natura ideale o altruistica, comunque non
soggettivamente lucrativa.

Non è necessario che l’attività esercitata assuma le caratteristiche dell’impresa; ove
però queste sussistano, l’ente è soggetto alle regole previste per l’imprenditore.

La disciplina dell’organizzazione, dei rapporti patrimoniali e della responsabilità per il
compimento degli atti, comunque, discende dalle regole proprie di associazioni e
fondazioni.

Norme particolari sono oggi previste per le associazioni che esercitano un’impresa
sociale.

Nozione di consorzi
Il consorzio è il contratto con il quale più imprenditori istituiscono un’organizzazione
comune per la disciplina o lo svolgimento di determinate fasi delle rispettive imprese.

La distinzione dal contratto di società attiene, dunque, al fine perseguito: il c.d. scopo
consortile, che va identificato nell’obiettivo degli imprenditori consorziati di realizzare,
tramite collaborazione, i vantaggi patrimoniali derivanti da una migliore e più
efficiente organizzazione.

Le due categorie di consorzi sono quelli c.d. interni, ove l’organizzazione comune si
limita a disciplinare fasi delle rispettive imprese senza instaurare rapporti con i terzi; e
quelli c.d. con attività esterna, ove fasi delle rispettive imprese vengono svolte in
comune tramite un’attività con i terzi.
In generale la disciplina dei consorzi comporta:
- la forma scritta a pena di nullità del contratto
- la registrazione nei registri se è previsto l’istituzione di un ufficio che svolge
attività con i terzi
- le deliberazioni consortili sono assunte con voto di maggioranza
- dotazione di un fondo di contributi dai consorziati
Per i consorzi con attività esterna bisogna:
- versare contributi
- distinguere operazioni in nome del consorzio e quelle per conto dei singoli
consorziati
- presentare la situazione patrimoniale presso il registro delle imprese

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Il Gruppo Europeo di Interesse Economico (GEIE)
Il GEIE è un istituto elaborato in sede comunitaria per favorire il coordinamento delle
imprese su scala europea. Richiama la forma dei consorzi con attività esterna ma qui
possono partecipare anche i non imprenditori, purché gli aderenti svolgano un’attività
economica e in almeno due Stai membri diversi. Ha autonomia patrimoniale e
soggettiva e non ha scopo di lucro. La disciplina prevede:
- contratto per iscritto
- i soci sono simili a quelli di una s.n.c.: responsabilità illimitata e solidale
- ha almeno un organo assembleare e uno amministrativo
- tiene le scritture contabili

Associazioni temporanee di imprese (ati)


La realizzazione di operazioni economiche di particolare complessità può richiedere la
cooperazione di più imprese. Sono così nate da una forma di contratto atipico
ammesso perché persegue un interesse meritevole di tutela le joint-venture o in
italiano ATI: uno strumento giuridico che permette alle imprese di coordinare le
proprie attività e presentarsi ai terzi in modo unitario, senza perdere autonomia la sua
disciplina sebbene parziale si trova nelle leggi speciali sugli appalti e sulle opere
pubbliche.
Riconosciuto il contratto come mandato collettivo perché evita la nascita di
un’autonoma struttura organizzativa rispetto sulle imprese si deduce che:
- È un accordo temporaneo
- Ogni impresa conserva l’autonomia e nominano una capogruppo che
rappresenta in modo esclusivo le imprese mandanti e è unico interlocutore con il
committente dell’appalto. Se fallisce può essere sostituita.

Reti di imprese
Le imprese possono stipulare un contratto di rete con cui più imprenditori perseguono
lo scopo di accrescere la propria capacità innovativa e la propria competitività sul
mercato. Con esso le imprese si impegnano a collaborare, a scambiarsi info e
prestazioni e a esercitare in comune attività rientranti nell’oggetto della propria
impresa. Il contratto deve:
-Essere redatto in forma pubblica o scrittura privata
-Indicare gli obiettivi strategici
-Individuare un programma
-Individuare l’organo comune
-Può prevedere un fondo comune
-Ogni impresa deve iscrivere il contratto di rete nei registri propri (porta
agevolazioni fiscali).
La rete acquisisce personalità giuridica se è iscritta nella sezione ordinaria del registro
delle imprese, se c’è un fondo comune.

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LEZIONE XIX. LE SOCIETA’ DI PERSONE: COSTITUZIONE E RAPPORTI
PARIMONIALI
La categoria delle società di persone si articola in tre tipi:
a) la società semplice ;
b) la società in nome collettivo (s.n.c.) ;
c) la società in accomandita semplice (s.a.s.).

La società semplice è il modello che il codice riserva all’esercizio delle attività non
commerciali e, cioè, alle attività agricole; s.n.c. e s.a.s. possono invece svolgere
qualsiasi attività economica.

Tipica della società in accomandita semplice è la suddivisione dei soci in due
categorie: gli accomandatari, ai quali è affidato in esclusiva il potere di gestione, e gli
accomandanti, privi di poteri amministrativi, ma per i quali non trova applicazione il
principio generale della responsabilità illimitata dei soci per le obbligazioni sociali.

La disciplina dei tre tipi di società di persone è, per molti versi, comune.

Solo per la società semplice, infatti, il legislatore ha previsto una normativa
autosufficiente; questa si applica anche alla s.n.c. ove manchino norme a lei
specifiche; a sua volta, la disciplina della s.n.c. regola anche la s.a.s., nei limiti della
sua compatibilità con le norme particolari per quest’ultima dettate.

La costituzione

Il contratto di società di persone


A differenza delle società di capitali, il contratto di società di persone presuppone un
accordo fra più soggetti e non può dunque trovare fonte in un atto unilaterale; il venir
meno della pluralità dei soci, anzi, integra una causa di scioglimento della società.

Per il contratto di società di persone non sono stabiliti, in linea di principio, requisiti
formali a pena di invalidità. Se ad es. il legislatore decida che il contratto debba essere
soggetto a pubblicità, la mancanza di questa produrrà l’irregolarità della società,
situazione a ci sono collegate determinate conseguenze sul piano disciplinare, e non la
sua nullità.

Riguardo alla forma e al contenuto del contratto, il legislatore distingue la società
semplice dalla s.n.c. e dalla s.a.s.:
a) per quanto concerne la società semplice “il contratto non è soggetto a forme
speciali, salve quelle richieste dalla natura dei beni conferiti” (art. 2251 c.c.) :
il contratto può essere stipulato verbalmente o per iscritto; l’esistenza della
società può essere anche desunta dal comportamento concludente dei soci.

Il contratto deve assumere una determinata forma solo quando è previsto il
conferimento di beni per la cui disposizione il diritto comune prescrive regole
formali a pena di nullità (es. beni immobili).

Tuttavia, anche in questo caso, il mancato rispetto della regola non implica
necessariamente l’invalidità del contratto: il vizio provoca l’invalidità dell’intero
contratto solo in caso di essenzialità del conferimento; altrimenti viene meno
solo la partecipazione del socio il cui conferimento sia nullo.

La legge non prevede, per la società semplice, un contenuto minimo del
contratto.

Per quanto attiene all’oggetto, la società semplice può svolgere solo attività
d’impresa agricola; tuttavia, poiché non necessariamente la società deve
svolgere un’attività qualificabile come impresa, si è affermato che la società
semplice può essere utilizzata anche in altri casi (per esempio, l’esercizio in
comune dell’attività professionale o società immobiliare);

b,c) per la s.n.c. e la s.a.s. il legislatore prevede che il contratto di società
debba essere adottato con scrittura privata autenticata (art. 2295 c.c.).

Nell’atto devono essere indicati: a) le generalità dei soci e, per la s.a.s., quali
sono gli accomandatari e quali gli accomandanti; b) la ragione sociale; c) i soci
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che hanno l’amministrazione e la rappresentanza della società; d) la sede della
società; e) l’oggetto sociale, cioè la descrizione dell’attività economica che la
società intende svolgere; f) i conferimenti di ciascun socio; g) le prestazioni a
cui sono obbligati eventuali soci d’opera; h) le regole sulla ripartizione degli
utili; i) la durata della società.

L’assenza di queste indicazioni, ad eccezione dell’indicazione dei soci, della ragione
sociale, della sede e dell’oggetto, non provoca invalidità della società, ma, per quelle
in cui essa dispone, vengono sostituite da previsioni di legge. Con la riforma della
disciplina del registro delle imprese e dell’impresa agricola, contrariamente a quanto
accadeva precedentemente, è stata prevista l’iscrizione delle società semplici in una
sezione speciale del registro delle imprese. Il sistema, dunque, sembra oggi unificato:
sia il contratto di società semplice (agricola), sia l’atto costitutivo delle s.n.c. e delle
s.a.s. vanno iscritti nel registro delle imprese: quando viene iscritto è opponibile ai
terzi, ciò che non viene iscritto non lo è, salva la prova della loro effettiva conoscenza.

Se la società semplice non si iscrive nel registro delle imprese l’unico effetto che ne
deriva è l’impossibilità di avvalersi, appunto, dell’efficacia dichiarativa della pubblicità:
s.n.c. e s.a.s., invece, se non provvedono all’iscrizione, si definiscono irregolari e
subiscono l’applicazione della disciplina della società semplice per quanto concerne i
loro rapporti con i terzi.

Con riferimento al rapporto tra società di persone e di capitali, ad oggi, per espressa
disposizione normativa, è prevista la possibilità delle società di capitali di partecipare a
una società di persone. Se tutti i soci illimitatamente responsabili sono società di
capitali, alla s.n.c. e alla s.a.s. si applicano le regole di redazione di bilancio elle s.p.a.

L’invalidità del contratto di società di persone


La legge non regola espressamente l’invalidità del contratto di società di persone. Si
ritiene, comunemente, che le cause di invalidità si identificano con quelle di nullità e di
annullabilità previste in generale per i contratti.

Si deve distinguere fra l’invalidità che colpisce l’intero contratto sociale e quella che
riguarda la partecipazione del singolo socio; quest’ultima provoca l’invalidità del
contratto sociale solo se essenziale.

Deve ritenersi applicabile analogicamente alle società di persone la disciplina degli
effetti dell’invalidità delle società di capitali dettate dall’art. 2332 c.c..

Deve, pertanto, ritenersi che:

- le cause di invalidità del contratto sociale operano quali cause di scioglimento della
società;

- gli atti compiuti in nome della società conservano i loro effetti e la vincolano nei
confronti dei soggetti con i quali sono intercorsi;

- i soci non sono liberati dall’attuazione dei conferimenti ancora non adempiuti e
rispondono, se a ciò tenuti, illimitatamente e solidalmente

Le modifiche del contratto e il trasferimento della quota di società di persone


Regola generale delle società personali è che ogni modifica oggettiva del contratto
sociale richieda il consenso di tutti i soci (art. 2252 c.c.).

Lo stesso contratto sociale, tuttavia, può prevedere diversamente e così per esempio
lasciare che tutte o talune modifiche dell’atto costitutivo possano essere decise dalla
maggioranza dei soci.

Anche il mutamento delle persone dei soci (c.d. modifica soggettiva del contratto
sociale), e così il trasferimento della quota per atto tra vivi, ma anche mortis causa,
implica una modificazione del contratto sociale e richiede, dunque, salvo diversa
regola contrattuale, il consenso di tutti gli altri soci.

Fa eccezione il trasferimento della quota dell’accomandante per il quale è attenuato il

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rilievo personale della partecipazione: del tutto libero se mortis causa, consenso della
maggioranza del capitale sociale se per atto tra vivi.

Gli obblighi dei soci

L’obbligo generale di collaborazione


Il contratto di società di persone è caratterizzato dall’intuitus personae: la persona del
socio assume carattere essenziale nell’assetto dei rapporti sociali.

In linea di principio, il socio concorre a determinare le scelte gestionali della società e,
salvo il caso dei soci accomandanti, risponde per le obbligazioni sociali da chiunque
dei soci siano state assunte.

Ne consegue che gli obblighi dei soci verso la società non si limitano soltanto agli
aspetti patrimoniali del conferimento dei beni promessi, ma sul socio grava una
generale obbligo di collaborazione verso la società.


Conferimenti e capitale
I soci sono tenuti a effettuare in favore della società i conferimenti ai quali si sono
obbligati con il contratto sociale (comma 1 art. 2253 c.c.).

Di conseguenza, la legge in via del tutto generale presume che, nel silenzio del
contratto, i soci siano comunque tenuti, in parti eguali, a conferire quanto necessario
per il conseguimento dell’oggetto sociale.

Nella società di persone non vi sono limitazioni in ordine alle entità conferibili: in
particolare è certamente possibile, accanto ai conferimenti di denaro, di beni e di
crediti, anche il conferimento d’opera e di servizi. Allo stesso modo non è previsto un
ammontare minimo dei conferimenti.

Il capitale sociale non è menzio nato espressamente come elemento del contratto di
società di persone; tuttavia, per le s.n.c. e le s.a.s. il concetto di capitale sociale
emerge in almeno due luoghi: art. 2303 c.c. (divieto di distribuire utili se il capitale è
in perdita) e art. 2306 c.c. (tutela dei creditori in caso di riduzione del capitale).

Ne discende allora che, pur mancando una previsione di capitale minimo, il valore dei
conferimenti indicato nell’atto costitutivo rappresenti il capitale della società, quota
ideale del patrimonio netto vincolata a garanzia dei creditori e al servizio dell’attività
sociale.

L’istituto del capitale sociale ha, nella s.n.c. e nella s.a.s., un rilievo sensibilmente
minore rispetto a quello delle società di capitali.

Infatti, la valutazione dei conferimenti diversi dal denaro non è accompagnata da
regole di tutela dell’effettività del valore loro attribuito dai soci. Non c’è l’obbligo di
capitalizzazione dei conferimenti non di capitale.

La disciplina legale dei singoli conferimenti è così sintetizzabile:

- nel silenzio del contratto sociale i conferimenti devono essere effettuati in denaro;

- i beni in natura possono essere conferiti in proprietà o in godimento;

- il conferimento di credito implica a carico del socio la garanzia della solvenza del
debitore ceduto;

- il conferimento d’opera può anche non essere capitalizzato, in questo caso conferisce
solo il diritto agli utili nella misura determinata dal contratto sociale.

Nelle società di persone, infine, il principio di proporzionalità fra valore dei
conferimenti e quota di partecipazione è derogabile.

Divieto di uso delle cose sociali e obbligo di non concorrenza


L’art. 2256 c.c. pone a carico dei soci il divieto di servirsi delle cose appartenenti alla
società per fini estranei a quelli sociali senza il consenso degli altri soci.

Nelle società che possono svolgere attività commerciale è posto a carico dei soci (nella
s.a.s. dei soli accomandatari) il divieto di concorrenza nei suoi confronti (art. 2301
c.c.).

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Si tratta di un obbligo che trova le sue radici nel più generale dovere di collaborazione
del socio allo svolgimento dell’attività sociale.

La violazione dell’obbligo espone il socio sia alla sanzione dell’esclusione, sia al
risarcimento del danno eventualmente provocato alla società.

I rapporti patrimoniali

Autonomia patrimoniale e responsabilità per le obbligazioni sociali


Le società di persone sono dotate di autonomia patrimoniale: il loro patrimonio è
distinto da quello dei soci ed è destinato al conseguimento dell’oggetto sociale e
all’adempimento delle obbligazioni contratte per la società.

Non può, dunque, esservi confusione fra patrimonio della società e patrimonio dei soci
né fra debiti sociali e loro debiti personali.

Non contraddice l’autonomia patrimoniale delle società di persone il fatto che tutti o
alcuni dei soci rispondano illimitatamente e solidalmente con la società per le
obbligazioni sociali: esse restano obbligazioni della società alla quale si aggiunge la
responsabilità diretta, ovvero a titolo di garanzia dei soci illimitatamente responsabili.
Le società di persone sono dunque centri autonomi di imputazione di diritti e obblighi.

Per le obbligazioni sociali le società di persone rispondono verso i terzi con il proprio
intero patrimonio come qualsiasi altro soggetto di diritto.

Alla loro responsabilità si affianca quella illimitata e solidale dei soci o di taluno di essi.

Le forme e i limiti di questa responsabilità variano a seconda dei tipi di società di
persone:
- nella società semplice sono sempre illimitatamente e solidalmente
responsabili per le obbligazioni sociali i soci che hanno agito in nome e per
conto della società.

Tale responsabilità si estende a tutte le obbligazioni sociali e non solo a
quelle derivanti dagli atti concretamente compiuti in nome e per conto della
società dal singolo socio. I soci non amministratori possono limitare la loro
responsabilità con un apposito patto il quale è, peraltro, opponibile ai terzi
solo se viene portato a loro conoscenza con mezzi idonei. In caso contrario
ha efficacia solamente interna: il socio potrà rivalersi sui consociati;
- nella s.n.c., invece, tutti i soci sono sempre illimitatamente e solidalmente
responsabili per le obbligazioni sociali nei confronti dei terzi ai quali non è
opponibile alcun patto limitativo della responsabilità: quest’ultimo è
possibile, ma ha comunque solo efficacia meramente interna;
- nella s.a.s. illimitatamente e solidalmente responsabili per le obbligazioni
sociali sono soltanto gli accomandatari, in ragione dell’attribuzione
esclusiva in loro favore del potere di gestione della società; gli
accomandanti rischiano soltanto quanto conferito salvo che abbiano
compiuto atti di amministrazione o che il loro nome sia stato inserito nella
ragione sociale.
La responsabilità dei soci è connotata dalla c.d. sussidiarietà.

Infatti il socio al quale il creditore sociale chiede il pagamento può invocare il beneficio
della preventiva escussione del patrimonio sociale: nella società semplice è il socio
che, per evitare il pagamento, ha l’onere di indicare al creditore i beni della società sui
quali egli può agevolmente soddisfarsi; nella s.n.c. e nella s.a.s. è invece il creditore
che, per potersi rivolgere al socio, deve dimostrare di aver preventivamente escusso il
patrimonio sociale.

La disciplina della preventiva escussione, naturalmente, rappresenta per i creditori un
ostacolo concreto di un certo rilievo a un tempestivo soddisfacimento.

Il socio che entra a far parte di una società di persone risponde illimitatamente di
tutte le obbligazioni sociali, anche di quelle sorte precedentemente al suo ingresso; il
socio che, per qualsiasi ragione, esce dalla società rimane comunque responsabile per
tutte le obbligazioni sociali sorte o esistenti al momento dello scioglimento del

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rapporto.

La responsabilità dei soci per le obbligazioni sociali è non solo illimitata, ma anche
solidale: ciò significa che il creditore può rivolgersi a ciascun socio per ottenere il
pagamento dell’intero credito vantato verso la società.

Sarà poi il singolo socio a potersi rivalere nei confronti degli altri soci, in conformità
degli accordi interni sulla sopportazione delle perdite.

Il creditore particolare del socio


L’autonomia patrimoniale delle società di persone impedisce che vi sia confusione fra
patrimonio della società e patrimonio dei soci; i creditori del socio non possono
vantare diritti verso la società per il soddisfacimento del loro credito.

Da questo principio discende anzitutto il divieto di compensazione dei crediti che un
soggetto ha verso il socio con i debiti che ha verso la società.

Il creditore particolare del socio, avendo come unica garanzia il suo patrimonio
personale, dovrebbe poter agire sulla quota di partecipazione del socio nella società,
nonché sugli utili maturati in suo favore.

Articolato è il procedimento con il quale il creditore del socio può soddisfarsi sulla
quota di partecipazione del socio.

Nelle società personali, infatti, non è possibile il mutamento della persona del socio
senza il consenso di tutti gli altri: da qui l’impossibilità per il creditore di compiere atti
esecutivi sulla quota che conducano alla sua vendita forzata.

La legge, allora, riconosce al creditore particolare il diritto, a certe condizioni, di
ottenere la liquidazione della quota del socio (nella società semplice può essere
richiesta dal creditore se questi dimostra che gli altri beni personali sono insufficienti a
soddisfare il suo credito; nella s.n.c. e nella s.a.s. vige il divieto di richiedere la
liquidazione della quota del socio durante tutta la vita della società e la tutela del
creditore particolare è limitata alla possibilità di opporsi alla proroga della società
stessa).

Diritto agli utili e partecipazione alle perdite


I soci hanno diritto di partecipare agli utili generati dall’attività sociale; allo stesso
modo sono chiamati a sopportarne le perdite.

La misura di tale loro partecipazione può essere liberamente determinata dal contratto
sociale, anche in modo non proporzionale al valore dei conferimenti effettuati.

Se il contratto sociale nulla dispone, intervengono le regole legali: l’art. 2263 c.c.
prevede che “le parti spettanti ai soci nei guadagni e nelle perdite” si presumono
proporzionali ai conferimenti e, se il valore dei conferimenti non è determinato nel
contratto, esse si presumono uguali.

Un limite all’autonomia negoziale è rappresentato dal divieto del patto leonino, cioè
del patto “con il quale uno o più soci sono esclusi da ogni partecipazione agli utili o
alle perdite”.

La realtà, naturalmente, di rado conosce patti o clausole del contratto sociale che
apparentemente violino il precetto; al contrario il tema trova rilevanza con riferimento
ad accordi (anche parasociali o esterni al contratto sociale) che, pur non facendo
menzione di partecipazione agli utili o alle perdite, realizzano nella sostanza lo stesso
risultato.

Il diritto agli utili matura in capo ai soci quando viene approvato il rendiconto.

Se il contratto sociale non dispone diversamente, una volta che il rendiconto sia
approvato e che dallo stesso risultino utili, la società è obbligata a pagarli ai soci,
titolari di un diritto di credito individuale.

La partecipazione alle perdite non va confusa con la responsabilità illimitata per il
pagamento delle obbligazioni sociali.

Tale partecipazione si concretizza anzitutto nella perdita di valore della quota per
effetto del minor valore del patrimonio della società.

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LEZIONE XX. LE SOCIETA’ DI PERSONE: ORGANIZZAZIONE E
SCIOGLIMENTO

Nelle società personali i soci sono, in linea di principio, liberi di determinare come
meglio ritengono la struttura organizzativa societaria, cioè le regole sull’adozione delle
decisioni e l’amministrazione della società. La disciplina legale delle società di persone
è caratterizzata essenzialmente per la presenza di norme destinate a proteggere la
naturale coincidenza tra la qualità di socio e la possibilità di concorrere alle scelte di
amministrazione della società.

L’amministrazione

Gli amministratori: requisiti, nomina, revoca


Nel silenzio dell’atto costitutivo, la regola generale posta dall’art. 2257 c.c. sancisce
che “l’amministrazione della società spetta a ciascuno dei soci disgiuntamente dagli
altri” (c.d. amministrazione disgiuntiva); nella s.a.s. la norma va naturalmente riferita
ai soli soci accomandatari, ai quali è riservato il potere di amministrare (art.2318
c.c., comma 2).

Tale regola può comunque essere derogata dalle parti che, nel contratto sociale,
possono attribuire il potere di amministrare a taluni dei soci sino a concentrarlo nelle
mani di uno solo tra loro.
Allo stesso modo si discute se l’atto costitutivo possa attribuire tale potere a chi
non sia socio, spezzando dunque per intero la naturale compenetrazione fra
qualità di socio e potere amministrativo. Prevale la tesi negativa con la
precisazione che un modo di esercitare il potere di amministrazione da parte dei
soci può essere l’affidamento della gestione a procuratori o, anche, a un
institore. In tal caso i soci non perdono il potere-dovere di amministrare la
società.

Nella s.a.s. il potere di amministrare non spetta, né può essere attribuito, agli
accomandanti. L’esercizio in via di fatto del potere di gestione da parte
dell’accomandante non ne rende per sé invalidi gli atti, ma comporta l’assunzione della
responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali, a parte in alcuni casi come
l’esecuzione di atti sulla base di una procura.

La possibilità di derogare all’attribuzione ex lege del potere di amministrare al socio
significa che la fonte del potere di amministrazione, la nomina ad amministrare, ha
base volontaria.

La nomina degli amministratori può avvenire in due modi: a) direttamente nell’atto
costitutivo; b) ove l’atto costitutivo lo consenta, con atto separato da parte dei soci.
La fonte della nomina assume particolare rilievo con riguardo alla revoca: se la
nomina dell’amministratore è stata effettuata nell’atto costitutivo, la revoca è possibile
solo per giusta causa; invece la revoca dell’amministratore nominato con atto
separato è regolata dalle norme sul mandato e dunque può intervenire anche per
volontà dei soci.
In tal senso è possibile discutere circa la natura di tale rapporto di
amministrazione e in particolare sull’eventualità che questi abbia natura di
mandato o invece che rappresenti un contratto autonomo (il contratto di
amministrazione), il quale ha una sua disciplina tipica, benché possano
applicarsi per analogia anche talune regole sul mandato.

I modelli di amministrazione: l’amministrazione disgiuntiva


Nel silenzio dell’atto costitutivo, il potere di amministrare spetta disgiuntamente a
ciascun socio.

In tal caso ogni socio, senza necessità di interpellare gli altri soci amministratori, può
decidere e porre in essere atti di gestione. Allo stesso modo, se munito del potere di
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rappresentanza, può impegnare la società verso terzi.

Questa assoluta autonomia gestionale del singolo socio è temperata dal c.d. potere di
veto spettante agli altri soci amministratori; il veto deve intervenire prima del
compimento dell’operazione.

Dal suo esercizio consegue che il potere di decidere sull’opposizione si trasferisce a
tutti i soci (anche quelli privi del potere di amministrare), i quali decidono a
maggioranza calcolata secondo la rispettiva quota di partecipazione agli utili.

L’art. 37 d. lgs. 5/2003 ha ammesso per le società di persone la possibilità che, in
caso di conflitto fra gli amministratori sulle scelte di gestione, il contratto sociale
rimetta a un terzo la decisione. Questi diventa un arbitratore che si limita a scegliere
quale delle posizioni ritiene migliore.

I modelli di amministrazione: l’amministrazione congiuntiva


L’atto costitutivo può prevedere che l’amministrazione spetti congiuntamente a più
soci: in tal caso il potere di gestione deve essere esercitato in accordo tra i soci
amministratori. In difetto di diversa previsione del contratto sociale, la regola è quella
dell’unanimità.

Al fine di evitare che un eccessiva rigidità possa rivelarsi controproducente per gli
interessi della società, la legge consente che, anche in regime di amministrazione
congiuntiva, ciascun amministratore possa compiere da solo atti di gestione nel caso
in cui vi sia urgenza di evitare un danno alla società.

Il potere di rappresentanza
Al potere di amministrazione corrisponde, in linea di principio, quello di
rappresentanza, anche processuale, della società, cioè il potere di spendere il nome
della società e far si che essa acquisti diritti e assuma obblighi verso i terzi.

Nel silenzio del contratto sociale, chi ha il potere di amministrare ha anche quello di
rappresentare la società.

Tale corrispondenza riguarda anche i modi del suo esercizio: per esempio, se il potere
di amministrazione è attribuito in via disgiunta, ciascun socio amministratore avrà con
la medesima modalità il potere di rappresentare la società.

Il potere di rappresentanza degli amministratori “si estende a tutti gli atti che
rientrano nell’oggetto sociale” (art. 2266, comma 2, e 2298 c.c.).

In tal senso, per distinguere quali atti di gestione attengano effettivamente all’oggetto
sociale, si deve tener conto della formulazione più o meno ampia di quest’ultimo
contenuta nel contratto sociale.

La corrispondenza tra il potere di gestione e quello di rappresentanza può essere
spezzata dal contratto sociale, tramite la fissazione di limiti e regole particolari per
l’esercizio del secondo.

Ogni limitazione al potere di rappresentanza pone il problema della sua opponibilità ai
terzi.

Anzitutto va chiarito che se il terzo stipula un contratto con chi non è amministratore
della società si applicano le regole generali in tema di rappresentanza: la carenza di
poteri rappresentativi è, dunque, pienamente opponibile al terzo.

Il discorso diviene più articolato quando si tratti dell’opponibilità dei limiti al potere di
rappresentanza degli amministratori, nel qual caso il legislatore tiene conto del
generico affidamento dei terzi sulla sussistenza del potere di rappresentanza.

Si deve al riguardo distinguere fra i limiti legali e i limiti convenzionali al potere di
rappresentanza:

- limiti legali, nelle società di persone sono sempre opponibili al terzo;

- limiti convenzionali, sono trattati diversamente nel codice a seconda dei tipi sociali.

Nelle s.n.c. e nelle s.a.s. le limitazioni del potere di rappresentanza che risultano
dall’atto costitutivo o dalla procura sono opponibili ai terzi se iscritte nel registro delle
imprese o, in difetto, ove se ne provi l’effettiva conoscenza da parte del terzo.

Nella società semplice, le modificazioni e i limiti al potere di rappresentanza sono

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opponibili solo ove portati a conoscenza del terzo con mezzi idonei, salvo che se ne
provi l’effettiva conoscenza al momento della conclusione del contratto. In tal senso si
ritiene che l’iscrizione nel registro delle imprese della società semplice permetta di
equiparare tale iscrizione al mezzo idoneo di conoscenza.

Doveri e responsabilità degli amministratori


Gli amministratori hanno, anzitutto, il dovere generale di gestire la società con la
diligenza del mandatario.

L’operato degli amministratori non è dunque da valutarsi sulla base del risultato
positivo o negativo delle scelte di gestione, ma sulla base del loro comportamento al
momento dell’assunzione delle scelte stesse. Occorre dunque verificare il rispetto di
quelle cautele e regole di comportamento tipiche dello standard dell’avveduto
amministratore. Il metro di valutazione della diligenza è quello del mandatario, e cioè
del buon padre di famiglia.

Gli amministratori devono poi rispettare una serie di doveri specifici previsti dalla
legge, oltre a quelli eventualmente posti a loro carico dal contratto sociale.
L’inadempimento ai loro obblighi espone gli amministratori a responsabilità solidale
verso la società per i danni a questa procurati.

Ciò nonostante, in virtù della maggiore elasticità di cui sono propri i meccanismi di
decisione delle società di persone, e contrariamente con quanto accade, per esempio,
con le s.p.a., la solidarietà non si estende a chi dimostri di essere esente da colpa.
La legge è del tutto silente in ordine alla disciplina dell’azione di responsabilità
promossa dalla società contro gli amministratori.

Dibattuta è la questione della legittimazione attiva alla sua proposizione: in
prevalenza si ritiene che possa esser fatta valere dalla società e per essa dai
suoi rappresentanti.

Tuttavia, anche alla luce delle recenti evoluzioni del diritto delle società di
capitali, deve ritenersi ammissibile anche la legittimazione individuale del
singolo socio.

Il controllo sull’amministrazione
Nelle società di persone non è previsto alcun organo di controllo sulla gestione; il
contratto sociale può prevedere un sistema di controllo ma nulla è imposto dalla
legge.

Il controllo sull’attività degli amministratori è dunque affidato agli stessi soci.

Se essi sono amministratori il controllo si risolve nell’esercizio del potere-dovere di
vigilanza e informazione sul comportamento degli altri soci amministratori.

Anche ai soci non amministratori sono riconosciuti rilevanti poteri di informazione e
controllo sull’amministrazione.

In particolare, nella società semplice e nella s.n.c., i soci non amministratori hanno un
ampio e generale diritto di avere “notizia dello svolgimento degli affari sociali, di
consultare i documenti relativi all’amministrazione e di ottenere il rendiconto quando
gli affari della società sono stati compiuti, ovvero al termine di ogni anno” (art. 2261
c.c.) .

Tutti i soci sono esposti, anche se privi del potere di gestione, alla responsabilità
illimitata e solidale per le obbligazioni sociali. Nella s.a.s. invece, gli accomandatari
non amministratori hanno gli stessi diritti previsti per i soci di s.n.c. mentre gli
accomandanti hanno solo diritto alla comunicazione annuale del bilancio e del conto
profitti e perdite.

Oltre che all’esercizio dell’azione di responsabilità, il potere di informazione e controllo
è propedeutico ad altro potere sanzionatorio che la legge riconosce a ciascun socio: la
richiesta all’autorità giudiziaria di revoca per giusta causa dell’amministratore.

Essa, in quanto ricollegata soltanto a fatti inerenti al potere di amministrazione, è
compatibile con il permanere della qualità di socio.

La giusta causa normalmente attiene alla violazione dei doveri di corretta
amministrazione e degli specifici obblighi stabiliti dalla legge e dall’atto costitutivo.
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Le decisioni dei soci

Le competenze dei soci


Nelle società di persone la disciplina delle decisioni o deliberazioni dei soci non
prevede regole generali: in varie norme, tuttavia, viene disposto che determinate
scelte debbano essere adottate dai soci in tale loro veste e non secondo le regole
dell’amministrazione della società.

Inoltre, l’autonomia negoziale può liberamente attribuire scelte gestionali alle decisioni
di tutti i soci.


Le modalità di assunzione delle decisioni e la loro invalidità


Il silenzio della legge sulle modalità di assunzione delle decisioni dei soci ha fatto si
che su tutti i principali profili di disciplina si sviluppasse negli anni un vivace e non
sopito dibattito.

Primo fra tutti quello relativo alla essenzialità anche nelle società di persone, del c.d.
metodo collegiale e cioè, in sintesi, della necessità che in occasione di ogni
deliberazione si proceda alla convocazione dei soci e alla loro riunione per la
discussione di argomenti all’ordine del giorno e la votazione.

La giurisprudenza è pervenuta alla conclusione che nelle società di persone l’adozione
del metodo collegiale non sia obbligatoria.

Solo in taluni casi il legislatore specifica i casi in cui, in mancanza di apposita clausola
contrattuale, le decisioni dei soci debbano essere prese all’unanimità o basti la
maggioranza.

Le modifiche dell’atto costitutivo, lo scioglimento della società, la nomina o revoca dei
liquidatori devono essere decise all’unanimità; a maggioranza calcolata secondo le
rispettive quote di partecipazione agli utili vanno invece assunte le delibere sul veto
nell’amministrazione disgiuntiva e sulle proposte di ammissione alle procedure
concorsuali; a maggioranza per teste la delibera di esclusione del socio.
Per tutte le altre decisioni, ferma restando la libertà dei soci di determinare
contrattualmente quorum costitutivi o deliberativi, ci si chiede se, nel silenzio
del contratto sociale, debba affermarsi il principio unanimitario o quello
maggioritario.

La tesi favorevole all’applicazione del principio unanimitario è tutt’ora
prevalente, ma più persuasiva è l’opinione che distingue tra le delibere a
seconda che si riferiscano all’amministrazione della società o che incidano sulla
struttura legale o convenzionale della società: per le prime si applicherebbe il
principio maggioritario, per le seconde la regola dell’unanimità.


Con riferimento invece all’invalidità delle decisioni stesse, la legge non prevede alcuna
regola specifica: come per le modalità della loro assunzione, diverse sono le opinioni
al riguardo.
Anzitutto ci si chiede se, con riferimento alle cause, debba tenersi conto delle
categorie generali del diritto dei contratti ovvero possa applicarsi
analogicamente la disciplina delle società di capitali. In particolare il punto non
concerne le decisioni che abbiano oggetto o causa illecita (ovviamente nulle),
ma quelle riguardanti il procedimento di formazione delle delibere.

Documenti informativi e contabilità


La disciplina dell’informazione periodica sugli affari sociali e sulla contabilità ruota
intorno a due istituti: il rendiconto e il bilancio d’esercizio.

Nella società semplice si parla di rendiconto, ovvero di un documento che riassumi le
operazioni compiute durante l’anno e i loro risultati; nella s.n.c. e nella s.a.s. non si
parla più di rendiconto, ma di bilancio.


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Lo scioglimento parziale del rapporto sociale
L’importanza ricoperta dalla persona del socio nell’assetto delle società di persone
assegna speciale importanza alle vicende inerenti i rapporti tra socio e società. A tal
riguardo assume particolare la possibilità di tutelare congiuntamente sia l’esigenza
della società e degli altri soci a non mantenere il rapporto sociale con soggetti diversi
da quelli originari (morte del socio), sia la tutela del socio a non essere astretto in un
rapporto sociale in cui sia venuta meno la reciproca fiducia e collaborazione fra i soci
(recesso del socio), sia infine quella di consentire lo scioglimento del rapporto sociale
nei confronti di quei soci per i quali siano venuti meno i presupposti che ne avevano
costituito il fondamento (esclusione del socio).

la morte del socio


La morte del socio, se nulla dispone il contratto sociale, provoca lo scioglimento del
rapporto fra società e socio, con obbligo di liquidazione della quota in favore degli
eredi.

I soci superstiti possono evitare questa conseguenza in due ipotesi:
- decidendo di sciogliere la società. in tal modo il diritto degli eredi del socio
defunto alla liquidazione della quota si converte in quello a percepire, una volta
soddisfatti i creditori sociali, la quota di liquidazione che sarebbe spettata al loro dante
causa; comunque gli eredi non subentrano come soci in luogo del defunto e quindi
non divengono illimitatamente responsabili per le obbligazioni sorte successivamente
alla morte del socio;
- accordandosi con gli eredi del socio per il loro subentro nella società; ma è
necessario che vi consentano tutti i soci superstiti.

Le conseguenze della morte del socio possono essere regolate preventivamente
nell’atto costitutivo.
Si noti come le regole qui esposte non valgano per il socio accomandante, la cui
quota, stante la sua natura di mero apportatore di capitale, è liberamente
trasmissibile per causa di morte.

il recesso del socio


Con l’esercizio del diritto di recesso il socio decide volontariamente di porre fine al
rapporto sociale (art. 2285).

I casi nei quali è consentito al socio di recedere sono i seguenti:
- quando la società sia costituita a tempo indeterminato o per una durata
eccedente la vita di tutti i soci. In questo caso il recesso, c.d. ad nutum, va
comunicato con un preavviso di almeno 3 mesi;
- ove sussista una giusta causa, questa viene normalmente ravvisata in
comportamenti di altri soci che pregiudichino la conservazione del rapporto di
reciproca fiducia;
- negli altri casi previsti dal contratto sociale; si nega però la possibilità di
prevedere una generale facoltà di recesso discrezionale del socio nelle società
costituite a tempo determinato.

l’esclusione del socio


Con l’istituto dell’esclusione - il cui uso è molto comune - la legge offre ai soci sia la
possibilità di sanzionare comportamenti contrari al dovere di collaborazione e
reciproca lealtà nell’esecuzione del rapporto sociale, ovvero specifici inadempimenti
agli obblighi assunti, sia comunque di sciogliere il rapporto sociale in talune ipotesi
nelle quali la sua prosecuzione ha perso ragione.

In alcuni casi lo scioglimento del rapporto sociale è ricollegato direttamente dalla
legge al verificarsi di determinati eventi (c.d. esclusione di diritto). Non si richiede
dunque una decisione ad hoc degli altri soci, né può da questi essere impedita. Es.
quando un socio fallisce.


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Negli altri casi l’esclusione consegue ad una decisione dei soci.

I casi in cui la legge permette l’esclusione facoltativa sono:
- gravi inadempienze del socio alle obbligazioni che discendono dalla legge o dal
contratto sociale (violazione dell’obbligo di collaborazione, mancato sostegno
finanziario, ,..);
- perdita o diminuzione della capacità di agire, cioè interdizione, legale o
giudiziale, o inabilitazione del socio ovvero sua condanna a pena che comporta
l’interdizione, anche temporanea, dai pubblici uffici;
- sopravvenuta impossibilità del conferimento del socio, cioè a prestare l’opera
che si era obbligato a conferire ovvero perimento, senza colpa degli amministratori,
della cosa conferita in godimento, ovvero ancora perimento della cosa - che il socio si
era obbligato a conferire prima che la società ne acquisti la proprietà.
Si ritiene, inoltre, che il contratto sociale possa prevedere ulteriori ipotesi di esclusione
facoltativa, purché queste siano specifiche: è, quindi, illegittima la clausola di
esclusione per mera volontà degli altri soci oppure per “giusta causa”.

L’esclusione avviene, come si è detto, su delibera dei soci.

Sotto il punto di vista della disciplina relativa al procedimento di esclusione occorre
ricordare come: a) la delibera è presa a maggioranza dei soci da calcolarsi per teste e
non per quote, senza tener conto del socio da escludere; b) la legge, a tutela del
socio, prescrive che la deliberazione debba essergli comunicata e che essa abbia
effetto solo dopo il decorso di 30 giorni; c) in questi 30 giorni, il socio può proporre
opposizione giudiziale contro l’esclusione e il tribunale può sospenderne in via
cautelare gli effetti.
Nella società di due soci tale meccanismo evidentemente non potrà essere posto in
essere. La decisione del giudice dunque non sarà più eventuale, ma necessaria.

La liquidazione della quota al socio uscente


Al socio uscente, o agli eredi del socio defunto, spetta la liquidazione della quota: cioè
una somma di denaro che ne rappresenta il valore “in base alla situazione
patrimoniale della società nel giorno in cui si verifica lo scioglimento”.

Obbligata diretta al pagamento della quota è la società, e non gli altri soci.

Il termine per il pagamento è fissato in 6 mesi da quando si verifica lo scioglimento
del rapporto.

Lo scioglimento

Cause di scioglimento e liquidazione della società di persone


Le società di persone si sciolgono nei seguenti casi:
1. decorso del termine, se alla scadenza del termine i soci proseguono nel
compimento delle attività sociali senza che alcuno di essi faccia valere l’avvenuto
scioglimento, la società si intende tacitamente prorogata a tempo indeterminato;
2. conseguimento dell’oggetto sociale o sopravvenuta impossibilità di conseguirlo;
3. decisione unanime dei soci, salvo che il contratto sociale non preveda la
deliberazione a maggioranza;
4. venir meno della pluralità dei soci, se nel termine di 6 mesi essa non venga
ricostituita.

La causa di scioglimento non opera immediatamente, ma solo dopo che siano trascorsi
6 mesi;
5. ogni altra causa prevista nell’atto costitutivo.


La s.n.c. e la s.a.s. si sciolgono inoltre per le seguenti ulteriori ragioni:


6. fallimento e provvedimento dell’autorità governativa nei casi stabiliti dalla
legge.
La s.a.s. si scioglie per un ulteriore ipotesi:

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7. venir meno di una delle due categorie di soci (accomandanti e accomandatari),
salvo che nel termine di 6 mesi non ne venga ricostituita la pluralità.Se vengono meno
tutti gli accomandatari, la legge prevede che gli accomandanti possano nominare per
la sola ordinaria amministrazione un amministratore provvisorio.

Le cause di scioglimento operano di diritto non appena si verificano e dunque


producono immediatamente i loro effetti.

In sintesi, la società deve cessare di operare e si apre la fase di liquidazione nella
quale i soggetti a ciò preposti, i liquidatori, debbono procedere a soddisfare tutti i
creditori sociali e, ove residuino beni nel patrimonio della società, a suddividerli tra i
soci.

La liquidazione della società è revocabile all’unanimità e la società riprende la sua
normale attività.

Gli effetti che ex lege sono connessi al verificarsi della causa di scioglimento sono i
seguenti:
- gli amministratori, sino all’adozione dei provvedimenti necessari per la
liquidazione, possono compiere solo gli affari urgenti;
- salvo che il contratto sociale o i soci all’unanimità non provvedano
diversamente, la liquidazione va svolta da uno o più liquidatori, anche non soci,
nominati all’unanimità dai soci o, nel caso in cui vi sia disaccordo, dal presidente del
tribunale su istanza di uno di loro;
- gli amministratori devono consegnare ai liquidatori i beni e i documenti sociali e
presentare il contro della gestione successiva all’ultimo rendiconto o bilancio; i
liquidatori devono prendere in consegna i beni e i documenti e redigere, insieme agli
amministratori, l’inventario dal quale risulti l’attivo e il passivo del patrimonio sociale.

Il lavoro dei liquidatori del patrimonio sociale


I liquidatori devono compiere gli atti necessari per la liquidazione del patrimonio
sociale.

I loro poteri, tuttavia, pur modellati su quelli degli amministratori anche per quel che
concerne la rappresentanza della società, non possono essere esercitati in modo non
funzionale allo svolgimento della procedura.

E’ dunque loro vietato, in via assoluta, di compiere nuove operazioni di gestione a
pena di responsabilità personale e solidale verso i terzi per gli atti compiuti in
violazione.

La libertà di scelta sulle modalità di liquidazione trova, peraltro, un limite assoluto e
non derogabile nel divieto, sanzionato penalmente, posto a tutela dei terzi, di ripartire
beni ai soci se non si sono prima estinti tutti i debiti o accantonate le somme per
pagarli.

Al riguardo, se il patrimonio è insufficiente, i liquidatori devono chiedere ai soci prima i
versamenti ancora dovuti per la liberazione delle quote di partecipazione, poi le
ulteriori somme eventualmente necessarie in proporzione alla partecipazione di
ciascun socio alle perdite.

Pagati i creditori si può distribuire il patrimonio fra i soci.

Vanno separate due distinte quote: la prima attiene ai conferimenti che vanno
restituiti ai soci in base al loro valore; la seconda attiene all’eventuale surplus che,
invece, va ripartito secondo le rispettive quote di partecipazione agli utili.

Terminata la liquidazione, nella società semplice non sono previste regole
procedimentali particolari a carico dei liquidatori per segnalare la chiusura della
procedura; per la s.n.c. e per la s.a.s. il legislatore è più preciso prevedendo per i
liquidatori l’obbligo di procedere alla redazione di un bilancio finale di liquidazione e di
un piano di riparto del patrimonio ai soci.

In caso di impugnazione i liquidatori non sono coinvolti nelle questioni attinenti alla
divisione dei beni fra soci, ma solo in quelle relative alla liquidazione del patrimonio:
possono quindi chiedere di essere estromessi dalle liti inerenti al piano di riparto.

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Cancellazione ed estinzione della società
Chiusa la fase di liquidazione, con l’approvazione del bilancio finale nelle s.n.c. e nelle
s.a.s., i liquidatori devono procedere alla cancellazione della società dal registro delle
imprese.

Sul piano della disciplina va comunque rammentato che, una volta cancellata la
società, i creditori che non siano stati pagati benché, se trascorso 1 anno, non
possano più richiedere il fallimento, possono però sempre agire nei confronti dei soci
e, in caso di loro responsabilità, dei liquidatori.

Ovviamente i soci illimitatamente responsabili rispondono con tutto il loro patrimonio;
gli altri nei limiti della quota di liquidazione percepita.

Dopo la cancellazione della società le scritture contabili e i documenti sociali debbono
essere conservati per 10 anni a cura del soggetto designato dalla maggioranza dei
soci.

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LEZIONE XXI. LE SOCIETA’ DI CAPITALI

La libera trasferibilità della qualità di socio implica la tendenziale anonimato degli


investimenti effettuati a titolo di capitale di rischio. Inoltre, i soci nelle società di
capitali godono del beneficio della responsabilità limitata per le obbligazioni sociali. Ne
deriva una dialettica tra soci ben diversa da quella tipica delle società personali. Anche
la posizione dei creditori è differente: questi infatti devono sempre controllare
l’effettività del capitale sociale e essere informati della gestione perché la loro unica
garanzia è il patrimonio sociale.
Allo stesso modo assume ulteriore importanza il ruolo degli investitori, cioè di coloro
che, pur non essendo soci, potrebbero diventarlo.
Dalla miscela di questi interessi discende l’articolazione dei tipi di società di capitali e
la loro specifica disciplina. Prima di esaminarla nel dettaglio è bene avere un quadro di
insieme delle principali tipologie degli interessi e dei relativi conflitti di cui il legislatore
deve tenere conto.

Le tipologie di conflitti

Responsabilità limitata: soci vs creditori


La responsabilità limitata verso le obbligazioni sociali, permettendo di fatto di
intraprendere attività economiche senza rischiare l’intero capitale, rappresenta un
forte incentivo allo sviluppo di nuove iniziative economiche. Si tratta di un
meccanismo che scarica implicitamente il rischio di impresa sui creditori.
Si apre di fatto la porta a comportamenti opportunistici da parte dei soci. Potrebbe
accadere che uno di questi doti la società delle risorse necessarie in parte con una
quota di capitale di rischio, in parte tramite finanziamenti, figurando così di fatto sia
come socio, qualifica utile a godere della responsabilità limitata, sia come creditore,
qualifica utile per potere vedere ripagato il proprio finanziamento. È il caso della
sottocapitalizzazione nominale.
Questo perché la restituzione del capitale (in sede di liquidazione) e la suddivisione
degli utili, cui hanno diritto i soci, è successivo ai pagamenti ai creditori. Si noti come
sotto questo punto di vista gli interessi di creditori e soci collidano ulteriormente. I
soci infatti hanno diritto alla spartizione esclusiva di tutti gli utili risultanti dal bilancio
di esercizio. Al contrario invece le perdite oltre una certa misura sono a carico dei
creditori. È questa la ragione tale per cui i soci saranno sempre e comunque
incentivati ad intraprendere operazioni di gestione ad alto rischio.
A maggior ragione, non sempre esiste la possibilità che i creditori siano in grado di
autotutelarsi contrattando prezzi maggiori con società il cui patrimonio sia inadeguato.
Solo i c.d. creditori forti, come ad esempio le banche, avranno di fatto la possibilità di
negoziare ad armi pari e di seguire l’evoluzione della società per adeguare
tempestivamente i propri comportamenti. Ne consegue come la classe dei creditori
non si configuri come un unicum indifferenziato, quanto piuttosto come un’insieme
evidentemente molto più variegato. Alcuni di questi necessitano di una tutela legale
dal rischio connesso alla responsabilità limitata dei soci, altri invece, sono
effettivamente in grado di proteggersi da soli.

Investitori vs gestori
Le società di capitali sono basate sul principio maggioritario: le decisioni dei soci sono
prese a maggioranza, talvolta particolarmente qualificata, calcolata secondo le quote
di partecipazione al capitale (principio plutocratico). In genere, le società sono dotate
di leadership stabile, in maniera tale da consentire una gestione continua e ordinata.
Talvolta la leadership è esercitata da un singolo socio che detenga la maggioranza del
capitale, mentre talvolta ad assumere il controllo sono alleanze tra soci.

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Di fatto però l’esercizio del controllo della società non richiede necessariamente il
possesso della partecipazione maggioritaria del capitale. Vi sono infatti strumenti
previsti dall’ordinamento che consentono di ridurre l’investimento necessario per
esercitare il controllo.
La distinzione all’interno della società può essere intesa come divisione tra quei soci
investitori, che si limitano a finanziare quest’ultima con capitale di rischio, e i soci che
invece ne detengono il controllo. Nonostante l’interesse sociale sia unico, spesso le
due classi hanno interessi divergenti. I soci investitori infatti hanno una posizione
quasi del tutto analoga a quella dei finanziatori. Essi infatti potranno ricavare un
profitto dalla partecipazione alla società soltanto qualora la società stessa produca utili
e decida di distribuirli. La percezione di utili è così di fatto legata a eventi che
dipendono dalle scelte dei soci del gruppo di comando: sarà infatti dalle loro scelte che
dipenderà l’eventualità che la società produca utili e che, in secondo luogo, non decida
di utilizzare tali utili a una ricapitalizzazione. Il gruppo di comando ha infatti un
interesse meno forte alla massimizzazione degli utili e alla loro ripartizione. Questi
spesso infatti sono più interessati all’incremento delle dimensioni dell’impresa e del
suo fatturato.
Diverso è il caso della public company dove il capitale è così frazionato che nessun
socio può esercitare il controllo. In questo caso la divergenza di interessi riguarderà
dunque di fatto amministratori e soci. Gli amministratori infatti, godendo di un largo
margine di manovra e della possibilità di estrarre benefici privati a spese dei soci,
potrebbero dare luogo a comportamenti orientati a fini diversi rispetto a quelli dei
soci. Uno strumento per ridurre la divergenza di interessi è lo stock option, ovvero una
tecnica di remunerazione degli amministratori basata sull’assegnazione di azioni della
società.

Il risparmio diffuso
Quando si parla di società con azioni quotate o che fanno appello al pubblico
risparmio, l’azionista di minoranza è in realtà parte di una categoria più generale:
quella, appunto, degli investitori, siano essi soci o meno.

I soggetti attivi nel mercato dei capitali, valutando le opportunità di investimento in
relazione alla coppia rischio/rendimento, decidono se investire in azioni (diventando
soci) o in obbligazioni (diventando creditori) di una società. Analogamente decidono se
mantenere tale qualità o disinvestire, vendendo sul mercato le azioni o le obbligazioni.
L’ i n v e s t i m e n t o
azionario è tanto
*Corporate governance: si definisce corporate governance l'insieme
più remuneroso
di strumenti, regole, relazioni, processi e sistemi aziendali finalizzati
potenzialmente
ad una corretta ed efficiente gestione dell’impresa, intesa come
quanto è minore
sistema di compensazione fra gli interessi (potenzialmente
la tutela dei soci di
divergenti) dei soci di minoranza, dei soci di controllo e degli
minoranza e
amministratori di una società. La struttura della corporate
quindi maggiore il
governance esprime quindi le regole e i processi con cui si prendono
r i s c h i o
le decisioni in un’azienda, le modalità con cui vengono decisi gli
dell’investimento.
obiettivi aziendali nonché i mezzi per il raggiungimento e la
Sotto questo
punto di vista,
anche in virtù del
crescente ruolo giocato dagli intermediari finanziari, un adeguato modello di corporate
governance* rappresenterà una garanzia per la riduzione dei costi di finanziamento
delle imprese

L’interesse generale al corretto funzionamento delle società


L’interesse al regolare funzionamento della società di capitali non riguarda solo ed
esclusivamente i soggetti coinvolti al suo interno. Al contrario l’intera collettività, per
ragioni produttive e finanziarie, ripone interessi nel corretto funzionamento delle

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società. Sotto questo punto di vista, il nostro ordinamento delle società di capitali è
basato sull’assegnazione del potere decisionale ai soci, in particolare a coloro i quali
sono titolari della pretesa residuale. Al contrario, altri ordinamenti danno voce agli
stakeholders esterni, prevedendone la partecipazione agli organi sociali.
Coerentemente con questa impostazione, tipica del sistema tedesco, il nostro
ordinamento ha previsto l’obbligo di redimere, per le società che superino determinate
soglie di grandezza, al fianco del bilancio di esercizio, il bilancio sociale, documento
corrispondente all’illustrazione dell’attività svolta dalla società in relazione al suo
impatto sulla comunità.

I gruppi
Quando la società è inserita in un gruppo, cioè in un insieme di società sottoposte a
direzione unitaria, il rischio dei creditori della responsabilità aumenta perché la
responsabilità è più frammentata. È il caso di società controllate da altre società in
virtù della partecipazione che la la seconda possiede nella prima. Anche dal punto di
vista informativo si presentano più complicazioni. Il bilancio di esercizio perde
evidentemente di siginificatività.
Allo stesso modo, anche i rapporti tra soci diventano più articolati: maggiore è la
catena di controllo, più i soci della controllante si allontanano dalla gestione delle
società che sono poste alla base del gruppo. I soci di minoranza delle controllate
invece si trovano a subire il comportamento della maggioranza volto a perseguire
l’interesse della società a capo del gruppo.

Le societa di capitali prima della riforma


Il c.c. del 1942 non prevedeva una vera distinzione tra i tipi di società di capitale. Il
sistema ruotava intorno al tipo della s.p.a.
Nel q174 venne introdotta la mini-riforma delle s.p.a. con la quale si posero le prime
basi di un ordinamento moderno del mercato. In virtù della necessità di tutelare i
piccoli azionisti, venne istituita la Commissione Nazionale per le Società e la Borsa
(Consob).
Solo a partire dagli anni ’80 però iniziò ad affermarsi un vero e funzionante mercato
mobiliare.
Date le esigenze di assicurare una tutela maggiore ai finanziatori senza violare la
libertà dei gestori, nel 1998 venne approvato il Testo Unico delle disposizioni in
materia di intermediazione finanziaria (TUF) in cui:
- Gli intermediari vengono regolamentati come canale privilegiato di raccolta del
risparmio
- I mercati come luoghi in cui avvengono gli scambi di strumenti finanziari
- Gli emittenti come i soggetti che direttamente o indirettamente si rivolgono a l
pubblico risparmio per finanziare la propria attività economica.

La riforma delle società di capitali


Con il d.lgs. 6/2003 si è finalmente tracciata la linea di demarcazione tra spa e srl:

Società per azioni


Si distinguono tra s.p.a. aperte e spa chiuse. La riforma ampliò il tasso di
contrattalizzazione delle spa e ne sempificò la disciplina.
L’articolo 2325-bis riformato distingue tra le spa di base (=chiuse) e quelle che
fanno ricorso al mercato del capitale di rischio (società con azioni quotate se in
mercati regolamentati o società in azioni diffuse fra il pubblico, in misura rilevante),
=società aperte.

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Sono società con azioni diffuse fra il pubblico in misura rilevante quelle che:

- hanno più di 500 azionisti diversi dai soci di controllo e che detengono
complessivamente una percentuale di capitale sociale pari al 5%
(requisito quantitativo);
- che non possono redigere il bilancio in forma abbreviata (art 2435)
(requisito dimensionale);
- le cui azioni, alternativamente: (requisito qualitativo);

- abbiano costituito oggetto di una sollecitazione all’investimento;

- abbiano costituito oggetto di un collocamento;

- siano negoziate su sistemi di scambi organizzati;

- siano emesse da banche e siano acquistate o sottoscritte presso
le loro sedi o dipendenze.

A livello di disciplina tutto ciò si articola nel seguente, complesso e frammentario,


modo:

- norme che si applicano a tutte le s.p.a. (per esempio, quelle in materia di
amministrazione);

- norme che si applicano solo alle s.p.a. chiuse o solo a quelle aperte;

- norme che si applicano (o non si applicano) solo alle società con azioni quotate;

- norme differenti per s.p.a. chiuse, società con azioni quotate e società ad azionariato
diffuso.

Le peculiarità normative della s.p.a. aperta rispetto a quella chiusa si riassumono nel
rafforzamento della tutela dei diritti spettanti alle minoranze e della protezione degli
interessi connessi all’appello al pubblico risparmio.

Quando la società aperta è quotata la disciplina si differenzia ulteriormente, sotto più
profili.

In particolare la quotazione provoca l’applicazione di alcune norme ad hoc del codice
civile.

Società a responsabilità limitata


Nella forma di srl, i soci possono liberamente modellare l’esercizio comune dell’attività
economica, e in particolare le regole organizzative, senza alcun costo in termini di
perdita di beneficio della responsabilità limitata.
La srl, per la grande flessibilità e derogabilità della disciplina, oltre che per la
semplificazione degli adempimenti, rappresenta oggi la numerosità più ampia del
diritto societario. Questa infatti, in virtù della sua propria capacità di fondere in sé i
benefici della responsabilità limitata e della flessibilità organizzativa, rappresenta lo
strumento più idoneo per favorire la collaborazione tra imprese e gli investimenti di
minoranza di soci finanziatori esterni, i quali possono in tal modo adeguatamente
tutelarsi in ordine ai poteri di controllo sull’operato dei soci gestori e alla liquidità del
loro investimento.

I gruppi

Ultimo punto qualificante della riforma è il definitivo abbandono dell’approccio basato
sul modello della società monade. Si veda in tal senso l’art.2497 c.c..

Cardini di questa disciplina sono, da un lato, il riconoscimento della legittimità di tale
fenomeno; dall’altro, la previsione della responsabilità per l’abuso nell’esercizio della
direziona unitaria in alcuni casi la possibilità di recesso del socio nel caso di entrata in
un gruppo della società.

Il nuovo quadro generale


La precedente unitarietà sistematica delle società di capitali è destinata a cedere il
passo a una frammentazione di istituti più difficilmente riconducibili a sintesi.


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La riforma porta a compimento un processo lungo, ma non inatteso: consente, senza
più ostacoli o eccezioni di rilievo, l’accesso al beneficio della responsabilità limitata per
le obbligazioni sociali al socio unico di società di capitali.

Il frazionamento della responsabilità patrimoniale è oggi possibile anche nelle s.p.a.,
ove è consentita l’istituzione dei c.d. patrimoni destinati.

In queste ipotesi all’unità formale del soggetto giuridico non corrisponde più l’unità del
patrimonio a lui riferibile, ma è possibile isolare parti del patrimonio della s.p.a. dal
c.d. patrimonio generale, di modo che per certi debiti rispondono solo alcune attività
destinate.

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LEZIONE XXII. S.P.A.: COSTITUZIONE, NULLITA’, CONFERIMENTI

La costituzione
La costituzione di una spa si articola in due fasi:
1. Stipulazione dell’atto costitutivo: per atto pubblico, può essere un atto unilaterale o
un contratto (art. 2328 c.c.). Tale contratto potrà essere redatto:
a) in forma simultanea presso il notaio. In questo caso il contratto di s.p.a.
viene concluso tra soggetti contestualmente presenti presso il notaio
incaricato di rogare l’atto costitutivo. Questi poi procederà, entro venti
giorni a procedere con la richiesta di iscrizione al registro delle imprese.
b) o per pubblica sottoscrizione, qualora non si disponga immediatamente
delle risorse necessarie per la costituzione di una s.p.a. In tal caso
occorre procedere in ordine alla:
• Predisposizione del programma contenente gli elementi essenziali della
s.p.a;
• Pubblicazione del programma e raccolta delle adesioni dei sottoscrittori
in atto pubblico o scrittura privata autenticata;
• Sollecitazione dei versamenti del 25% e convocazione in assemblea dei
sottoscrittori;
• Successivamente, tale assemblea (composta da un numero pari almeno
alla metà dei sottoscrittori) procederà alla verifica rispetto delle
condizioni all’art. 2329, alla delibera sul contenuto dell’atto costitutivo e
dello statuto e alla nomina gli organi. I voti avvengono per maggioranza
dei presenti;
• In ultimo si assisterà alla stipulazione dell’atto costitutivo.
A prescindere però dalle modalità di costituzione, devono sussistere le
condizioni elencate dall’art. 2329 c.c.:
• Sottoiscrizione integrale dell’intero capitale sociale, che nel minimo deve
essere di 50000 euro
• Versamento dei conferimenti di almeno il 25% se in denaro e quando la
spa è stipulata per contratto, integrale in caso di conferimenti in natura e
di costituzione per atto unilaterale. I beni concessi devono essere stimati;
quelli in denaro sono depositati presso la banca in conto vincolato fino
all’avvenuta iscrizione nel registro delle imprese;
• Che sussistano le autorizzazioni e le altre condizioni richieste dalle leggi
speciali per la costituzione della società, in relazione al suo particolare
oggetto.
2. Iscrizione nel registro delle imprese.

Iscrizione nel registro delle imprese


Il notato che abbia ricevuto l’atto costitutivo, dopo averne verificato la conformità alla
legge, deve depositarlo entro venti giorni presso il registro delle imprese allegando i
documenti comprovanti la sussistenza delle condizioni previste all’articolo 2329 e
richiedendo l’iscrizione della società.
Se entro novanta giorni dalla stipulazione la società non viene iscritta, in virtù della
perdita di efficacia dell’atto costitutivo, i soci possono pretendere la restituzione dei
conferimenti.

Successivamente l’ufficio del registro delle imprese procede solo alla verifica di
legittimità formale della documentazione, senza svolgere quindi alcun controllo di
legalità sostanziale. Una volta effettuata l’iscrizione, la società acquista la personalità
giuridica (art. 2331 c.c. comma 1) e gli amministratori acquisiscono il diritto alla
consegna dei conferimenti in denaro versati in banca: nasce il soggetto di diritto. Per
quanto riguarda invece le operazioni compiute prima dell’iscrizione, occorre chiarire
come il codice civile non vieti ai soci di compiere operazioni in nome della s.p.a. prima
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della sua iscrizione. In tal senso sono illimitatamente e solidalmente responsabili verso
i terzi coloro che hanno agito o, alternativamente, i soci che abbiano deciso,
autorizzato o consentito il compimento di tal operazione.
Prima dell’iscrizione, è vietata l’emissione delle azioni ed esse non possono costituire
oggetto di un’offerta al pubblico di prodotti finanziari.
Una volta iscritta, bisogna distinguere le obbligazioni necessare alla costituzione da
quelle altrimenti non necessarie. Delle prime la società risponde automaticamente,
delle seconde solo se approvi l’operazione. In entrambi i casi rimane a responsabilità
verso terzi di coloro che hanno agito e dei loro coobbligati.

Atto costitutivo, statuto e patti parasociali


1) L’atto costitutivo, corrispondente al contratto sociale, ha un contenuto minimo
descritto minuziosamente dalla legge (art. 2328 c.c.). Procedendo a una
classificazione sulla base del grado di “rigidità” delle indicazioni contenute nel
contratto, al suo interno è possibile distinguere tre componenti:
a) la Parte storica: elementi non suscettibili di modifiche future (nome dei soci
fondatori, ammontare delle spese per la costituzione, ..) ;
b) la Parte effimera: elementi che possono variare in futuro senza che sia richiesta
una modifica formale dei contratti;
c) la Parte duratura: tutti gli elementi che, rappresentando le basi organizzative e
finanziarie della società, impongono, in virtù di una loro ipotetica modifica, una
revisione formale dei contratti:
- La denominazione, la sede della società e le eventuali sedi
secondarie;
- L’attività che costituisce l’oggetto sociale;
- L’ammontare del capitale sottoscritto e di quello versato, pari almeno
al 25% di quello sottoscritto;
- Il numero e l’eventuale valore nominale delle azioni, le loro
caratteristiche e le modalità di emissione e di circolazione;
- Il valore dei crediti e dei beni conferiti in natura;
- Le norme per la ripartizione degli utili;
- I benefici accordati ai promotori e ai soci fondatori (questi non
possono in ogni caso superare il decimo degli utili netti risultanti da
bilancio per un periodo massimo di cinque anni);
- Il sistema di amministrazione adottato, il numero di amministratori, i
loro poteri;
- Il numero dei componenti del collegio sindacale
- La durata della società; qualora la società sia a tempo indeterminato,
il periodo di tempo entro il quale i soci possono esercitare il diritto di
recesso.

2) Lo statuto contiene ulteriori norme relative al funzionamento della società.


Costituisce parte integrante dell’atto costitutivo, sulle cui clausole, in caso di
contrasto, prevale.

3) I patti parasociali sono contratti ulteriori stipulati da e fra i soci per regolare
determinati profili della loro partecipazione alla società stessa. Con essi normalmente
le parti si accordano per coordinare il loro comportamento nelle assemblee, sia
impegnandosi per concordare preventivamente le loro scelte di voto (sindacato di
voto), sia anche solo scambiandosi preventivamente opinioni (patti di consultazione),
oppure stipulando accordi per limitare o vietare il trasferimento delle azioni (sindacati
di blocco), etc…
Tali contratti vincolano quei soci che vi partecipano, ma sono giuridicamente privi di
effetti sia nei confronti della società sia nei confronti di terzi. Sono oggetto di specifica
regolamentazione sia nel TUF sia nel cc. In generale sono reputati validi, salvo che

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non violino norme inderogabili. Si reputano di fatto illegittimi quei patti che che
incidano sulle competenze inderogabili dell’organo amministrativo o che collidano con
l’interesse della società.
Secondo l’art. 2341-bis c.c., i patti parasociali non possono avere durata superiore ai
5 anni se, volti a stabilizzare gli assetti proprietari o il governo della società, hanno
per oggetto l’esercizio del diritto di voto, pongono limiti al trasferimento delle relative
azioni o partecipazioni, hanno per oggetto l’influenza dominante sulla società. Ciò
nonostante, i l patto può essere comunque rinnovato alla scadenza. Alternativamente,
sono altresì previsti patti a tempo indeterminato e patti di durata libera.
Con riferimento ai requisiti di pubblicità, occorre chiarire come oggetto di pubblicità
siano solo i patti relativi alle s.p.a. aperte. In quelle ad azionariato diffuso tali patti
devono essere comunicati alle società e dichiarati in apertura di ogni dell’assemblea,
pena la perdita del diritto di voto relativo alle azioni sindacate.

Più complesso e articolato è il sistema di pubblicità per le s.p.a. con azioni quotate: il
TUF prevede che i relativi patti parasociali rilevanti debbano essere: a) comunicati
integralmente alla Consob; b) pubblicati per estratto sulla stampa quotidiana; c)
depositati presso il registro delle imprese; d) comunicati alla società.

In caso di inosservanza di tali obblighi i patti sono nulli, il diritto di voto viene sospeso,
le deliberazioni eventualmente assunte con il voto determinante di tali azioni
annullate.


La nullità della s.p.a.


Prima dell’iscrizione nel registro delle imprese si applicano, con riferimento al tema
della nullità e dell’annullabilità della società, le norme contrattuali sulla nullità e
annullabilità del contratto stesso.
Una volta effettuata però l’iscrizione nel registro delle imprese, la nullità può essere
dichiarata esclusivamente in caso di: a) mancata stipulazione dell’atto costitutivo nella
forma dell’atto pubblico; b) illiceità dell’atto sociale; c) mancanza nell’atto costitutivo
di ogni indicazione riguardante la denominazione della società, o conferimenti, o
ammontare del capitale sociale. Per tutti gli altri vizi, è previsto l’obbligo di
regolarizzazione. La limitazione di nullità ai soli tre casi precedentemente detti
rappresenta una tutela dei terzi che entrano in contatto con la società stessa. Occorre
chiarire anche alcuni aspetti relativi alle differenze di tale disciplina con quella relativa
alla nullità del contratto: in primo luogo occorre chiarire come la dichiarazione di
nullità non pregiudichi l’efficacia degli atti compiuti in nome della società dopo
l’iscrizione nel registro delle imprese. La nullità non è retroattiva. Allo stesso modo,
anche dopo la dichiarazione di nullità, i soci non sono liberati dall’obbligo di
conferimento. Infine, in deroga al principio dell’insanabilità del contratto nullo, la
nullità non può essere dichiarata quando la sua causa è stata eliminata.

Conferimenti e capitale
Salvi i più elevati minimi previsti per le società operanti in particolari settori, il capitale
sociale minimo è di 50.000 euro. Rappresenta un dato formale, variabile solo tramite
una modificazione statuaria e in nessun caso può essere superiore al valore dei
conferimenti dei soci.
Il capitale assolve a varie funzioni: in primo luogo, corrispondendo di fatto alla prima
risorsa disponibile destinata dai soci alla società, a una funzione produttiva. In
secondo luogo, corrispondendo a un metro di misurazione dei poteri esercitabili dai
soci, svolge una funzione organizzativa (oggi svolta direttamente dalle azioni. Infine, e
soprattutto, il capitale svolge una funzione di garanzia. Questi infatti rappresenta
quella frazione del patrimonio che non può essere distolta dall’esercizio dell’attività e
restituita ai soci fino al momento della dissoluzione della s.p.a o della sua forme
riduzione tramite modifica statutaria.
Sono imputati a capitale sociale solo i conferimenti in denaro, di crediti e di beni in
natura. Non necessariamente tutti i conferimenti devono essere imputati a capitale, è
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il caso di quanto accade per esempio quando le azioni sono emesse con sopraprezzo.
È l’ipotesi che si verifica quando il valore d’emissione delle azioni è superiore al loro
valore nominale (ovvero, in caso di mancanza del valore nominale, al valore derivante
dalla divisione del capitale sociale per numero di azioni emesse). In questo caso
l’importo dei conferimenti che eccede l’ammontare globale del capitale sociale è
imputato direttamente a patrimonio della società in un’apposita riserva.

I conferimenti in denaro
Al momento della sottoscrizione, i conferimenti in denaro devono essere effettuati per
un importo pari ad almeno il 25% del totale presso una banca. Il versamento ancora
dovuto dai soci per completare i conferimenti è richiesto dagli amministratori secondo
le esigenze della società. Solo dopo che le azioni precedentemente emesse sono state
interamente liberate possono essere effettuati aumenti di capitale. Il socio moroso,
ovvero colui che non procede al versamento dei conferimenti ancor dovuti, può essere
dichiarato decaduto in mancanza di compratori delle azioni a rischio e per conto del
socio.

I conferimenti in natura e di credito


Se l’atto costitutivo lo consente, le azioni possono essere liberate tramite conferimenti
in natura e di crediti. In questo caso i conferimenti devo essere effettuati al momento
della sottoscrizione (art. 2342 c.c.) . Non sono ritenuti ammissibili i conferimenti di
servizi e opere. I conferimenti in natura, anche di beni in godimento, sono oggetti a
un procedimento di stima che prevede la presentazione da parte del conferente della
relazione giurata di un esperto che deve essere poi controllata dagli amministratori.
Finchè le valutazioni non sono state controllate, le azioni corrispondenti ai
conferimenti sono inalienabili e restano depositate presso la società. Nel caso la
valutazione risulti sbagliata di oltre un quinto dell’effettivo valore, la società deve
procede a riduzione/aumento del capitale sociale.

Le rigorose regole sui conferimenti in natura potrebbero essere comunque aggirate
tramite meccanismi elusivi: come, ad esempio, qualora un socio dia il proprio
conferimento in denaro ma successivamente venda alla società un bene ottenendo
indietro il conferimento in denaro a titolo di pagamento, realizzando così un
conferimento in natura senza doversi attenere alla rigorosa procedura di stima.

L’elusione è evitata dal disposto dell’art. 2343 bis c.c. in base al quale:

- l’acquisto da parte della società, per un corrispettivo pari o superiore a 1/10 del
capitale sociale, di beni o di crediti dei promotori, dei fondatori, dei soci o degli
amministratori, nei due anni dall’iscrizione della società nel registro delle imprese,
deve essere autorizzato dall’assemblea ordinaria;

- l’alienante deve presentare una relazione giurata di un esperto designato dal
tribunale analoga a quella prevista nell’art. 2343 c.c. per i conferimenti in natura;

- gli amministratori devono depositare il verbale dell’assemblea con la relazione
dell’esperto presso il registro delle imprese.

La violazione delle suddette prescrizioni è sanzionata con la responsabilità solidale di
amministratori e alienante per i danni causati alla società, ai soci e ai terzi.

La repressione dell’elusione è, in realtà, un effetto ulteriore della norma il cui scopo
principale è invece quello di proteggere la società nei primi 2 anni di vita da operazioni
pericolose per l’entità e per la connotazione soggettiva della controparte.

Le prestazioni accessorie
Si è detto che le attività non sono suscettibili di essere oggetto di conferimento.

La società può procurarsele tramite normali contratti che possono intercorrere anche
con il socio.

I due rapporto però corrono su binari paralleli, ciascuno è indipendente dall’altro: il
socio continua ad essere tale anche se il contratto a latere si estingue; quest’ultimo
continua a produrre effetti anche se il soggetto aliena le azioni.


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Per consentire un collegamento tra qualità di socio e prestazioni contrattuali,
l’ordinamento offre lo strumento delle azioni con prestazioni accessorie.

L’atto costitutivo può stabilire che il socio, oltre al conferimento, sia tenuto anche ad
eseguire prestazioni accessorie.

In tal modo viene realizzato il collegamento tra qualità di socio e prestazione
accessoria: il soggetto è obbligato a eseguire la prestazione solo se e fino a quando è
socio.

Le azioni alle quali è connesso l’obbligo delle prestazioni accessorie devono essere
nominative e, proprio perché non sono indifferenti le caratteristiche del soggetto
tenuto alla loro esecuzione, non sono trasferibili senza il consenso degli
amministratori.

Poiché le modalità delle prestazioni accessorie sono stabilite nell’atto costitutivo, la
loro variazione segue le regole formali previste per le modificazioni statutarie.

Tuttavia, per questa ipotesi, se non è diversamente disposto dall’atto costitutivo, la
modificazione è possibile solo con il consenso di tutti i soci: è l’unico caso di decisione
all’unanimità prevista nella disciplina delle s.p.a.

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LEZIONE XXIII. S.P.A.: LE AZIONI
Il termine azione assume un duplice significato. Se da un lato rappresenta infatti
l’unità fondamentale attraverso la quale misurare la partecipazione alla s.p.a.,
dall’altro rappresenta il documento nel quale tale partecipazione può essere
incorporata.

L’azione come unità di partecipazione al capitale


In relazione al loro rapporto con il capitale sociale, le azioni sono unità di
partecipazione indivisibili, autonome, dotate di un valore economico e standardizzate.

Indivisibilità
L’azione è l’entità unitaria minima di partecipazione alla società e non può essere
frazionata. La sua consistenza come unità minima è indicata nello statuto tramite la
fissazione del valore nominale o del numero di azioni. Tuttavia può tuttavia essere
cambiata tramite modificazione dello statuto, sia tramite frazionamento che tramite
raggruppamento. È di fatti possibile che l’eccessivo valore raggiunto da una singola
azione renda necessario un frazionamento; così come è possibile che il numero di
azioni in circolazione sia così elevato da rendere necessario il ragruppamento. Nel caso
di comproprietà di un’azione, i diritti sono esercitati da un rappresentante comune
nominato secondo le regole della comunione (art. 1105 e 1106 c.c.) e cioè a
maggioranza calcolata per le quote.

Autonomia
Ogni singola azione rappresenta una partecipazione unitaria e compiuta alla società.
Di conseguenza, anche qualora al socio appartengano più azioni, tendenzialmente
ciascuna di queste può vivere vicende proprie. Ciò nonostante, i meccanismi concreti
riguardanti il funzionamento delle s.p.a. possono comprendersi solo ragionando sulle
aggregazioni di azioni, cioè sulle dimensioni del pacchetto azionario dei singoli soci.

Il valore delle azioni


Si parla in tal senso di a) valore nominale (=valore capitale sociale/ numero azioni; b)
valore di emissione, cioè quello a cui le azioni vengono offerte in sottoscrizione in sede
di costituzione della società o di aumento di capitale; può essere superiore al valore
nominale (emissione con sovrapprezzo) o inferiore, basta che l’ammontare
complessivo non sia inferiore al valore del capitale sociale; c) valore contabile =
patrimonio netto(= attivi patrimoniali - passivi patrimoniali) / numero di azioni in
circolazione; 4) valore di scambio=valore al quale le azioni possono effettivamente
essere scambiate sul mercato. Per le azioni quotate in mercati regolamentati
corrisponde alle quotazioni, per le altre società tende al valore contabile.

Standardizzazione
Ogni azione ha identico valore nominale (o, in sua assenza, rappresenta la medesima
frazione del capitale sociale). Allo stesso modo ogni azione attribuisce: a) il diritto a
una parte proporzionale degli utili netti e del patrimonio netto risultante dalla
liquidazione; b) il diritto di voto. Di fatto, in termini generali, e ai sensi dell’art. 2348
comma 1 c.c., le azioni devono essere di uguale valore e conferiscono ai loro
possessori uguali diritti.

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I diritti sociali
I diritti sociali, ovvero quelli derivanti dalle azioni, possono raggrupparsi
principalmente:

Secondo le modalità di attribuzione:


Da questa visuale bisogna distinguere:

a) diritti dell’azione: che spettano a ciascuna azione in quanto tale (partecipare
all’assemblea, denunziare fatti censurabili al collegio sindacale, esaminare i libri
sociali, ecc…);

b) diritti di minoranza: che spettano a un numero di azioni tali da raggiungere una
certa frazione del capitale sociale. Ne fanno parte, ad esempio, il diritto di chiedere
giudizialmente l’annullamento delle deliberazioni assembleari invalide (soglia del 5% o
1% a seconda che si tratti di s.p.a. aperta o chiusa), il diritto di esercitare l’azione
sociale di responsabilità, di denunziare all’autorità giudiziaria il fondato sospetto di
gravi irregolarità da parte degli amministratori, ecc… ;

c) diritti proporzionali: che spettano in misura proporzionale (diritto di voto, diritto agli
utili, diritto alla liquidazione in caso di scioglimento della società o di recesso, ecc…).

In una posizione particolare si colloca la c.d. golden share, cioè i poteri speciali che
possono essere introdotti nello statuto sociale in favore del Ministro dell’Economia per
consentirgli:

- di vietare determinate operazioni straordinarie;

- di opporsi all’assunzione di partecipazioni rilevanti da parte di soggetti sgraditi
ovvero alla conclusione di patti parasociali;

- di nominare un amministratore senza diritto di voto.

A prescindere che lo Stato conservi una partecipazione nella società in questione, tale
diritto è assegnato in virtù del particolare ruolo giocato da tali società nell’ambito di
settori di rilevanza strategica per il sistema della difesa e della sicurezza nazionale,
per quello energetico o per quello dei trasporti.

Secondo il loro contenuto:


Secondo il loro contenuto i diritti provenienti dal possesso dalle azioni possono
distinguersi in:

a) diritti amministrativi, cioè quelli che riguardano la c.d. voce all’interno della società
(partecipazione all’assemblea, voto, facoltà di impugnare e denunziare i fatti
censurabili, ecc…);

b) diritti patrimoniali, cioè quelli che riguardano il ritorno finanziario dell’investimento
effettuato sottoscrivendo o acquistando le azioni (diritto all’utile e alla quota di
liquidazione in caso di scioglimento della società, ecc…);

c) diritti misti, che hanno una doppia componente, amministrativa e patrimoniale. Si
parla di diritti misti ad esempio nel caso del diritto di recesso, che implica la possibilità
di ottenere la liquidazione della propria partecipazione e può anche indurre la
maggioranza a non adottare una decisione che legittimerebbe i soci non consenzienti a
recedere oppure anche a revocare una deliberazione già assunta. Altri tipici diritti
misti sono quelli di opzione e di assegnazione gratuita in caso di aumento di capitale.

Tecniche rappresentative dell’azione e sua circolazione


Con il termine azione si allude ai titoli in cui possono essere incorporate le
partecipazioni sociali. Se lo statuto o le leggi speciali non stabiliscono diversamente, i
titoli possono, a scelta del socio, essere nominativi o al portatore. In ogni caso, le
azioni non possono essere al portatore: a) finché non siano integralmente liberate; b)
se si tratta di azioni con prestazioni accessorie; c) qualora lo statuto ponga limiti alla
loro circolazione.
l giratario che si dimostri possessore in base a una serie continua di girate è
comunque legittimato a esercitare i diritti sociali (art. 2355 c.c., comma 3), anche
se non iscritto nel libro dei soci. Ne deriva che, pur essendo nominative, le azioni si
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avvicinano ai titoli all’ordine con la differenza che la girata non può essere in bianco e
la relativa sottoscrizione deve essere autenticata dal notaio. Sotto questo punto di
vista, l’obbligo della società a procedere all’iscrizione nel libro dei soci resta, ma non
incide sulla legittimazione all’esercizio dei diritti sociali. I titoli azionari devono
contenere: a) la denominazione e la sede della società; b) la data dell’atto costitutivo
e della sua iscrizione; c) il loro valore nominale, nonché l’ammontare del capitale
sociale; d) l’ammontare dei versamenti parziali sulle azioni non interamente liberate;
e) i diritti e gli obblighi particolari a essi inerenti.

I titoli azionari possono essere anche cumulativi, incorporare cioè una pluralità di
azioni.

In questo caso spetta al socio il diritto al frazionamento in più titoli di taglio minore.

Ai titoli azionari sono normalmente allegate cedole che, staccate dal certificato
azionario, servono per esercitare determinati diritti.

I certificati azionari sono, secondo l’opinione largamente prevalente, titoli di credito.

L’emissione dei titoli azionari non è inderogabile. Salvo diversa disposizione di leggi
speciali, infatti, lo statuto può escluderne l’emissione o prevedere l’utilizzazione di
tecniche diverse di legittimazione e circolazione.

La circolazione delle azioni


La libera trasferibilità è un carattere naturale delle azioni.

Chi le sottoscrive ed effettua il conferimento (c.d. mercato primario) non vede il suo
investimento immobilizzato fino alla data di estinzione della società in quanto avrà
sempre la possibilità di disinvestire vendendo le azioni (c.d. mercato secondario)
senza che ciò arrechi alcun danno alla società, la quale non vedrà ridursi il proprio
patrimonio ma dovrà semplicemente avere a che fare con un socio diverso dal
precedente.

Benché la trasferibilità, in virtù della tendenziale indifferenza del socio, sia carattere
naturale delle azioni, la legge ammette la liceità di particolari clausole statutarie che,
temporalmente o in altro modo, ne restringano la possibilità.

Si vedano dunque in tal senso le regole sulla circolazione:
a) azioni non emesse: nel caso di mancata emissione dei titoli azionari il trasferimento
delle azioni ha effetto nei confronti della società dal momento della sua iscrizione nel
libro dei soci.
b) azioni incorporate in titoli: i titoli azionari circolano come titoli di credito.

Quindi le azioni al portatore si trasferiscono con la consegna del titolo. Per quelle
nominative, invece, è sufficiente la consegna accompagnata da girata autenticata da
un notaio.
c) azioni dematerializzate: in questo caso il trasferimento si opera mediante
scritturazione sui conti destinati a registrare i movimenti degli strumenti finanziari.

I vincoli sulle azioni


Possono essere previsti vincoli sulle azioni (pegno, usufrutto, sequestro,
pignoramento), nelle forme previste per i titoli di credito o per gli strumenti finanziari
dematerializzati. 

Nel caso di pegno o usufrutto sulle azioni, il diritto di voto spetta, salvo convenzione
contraria, al creditore pignoratizio o all’usufruttuario; nel caso di sequestro delle azioni
al custode giudiziario.

Nell’aumento di capitale a pagamento, il diritto di opzione spetta al socio e al
medesimo sono attribuite le azioni in base a esso sottoscritte; i vincoli si estendono
alle azioni di nuova emissione.

Se sono richiesti versamenti sulle azioni, nel caso di pegno il socio deve provvedere al
versamento delle somme necessarie; in mancanza il creditore pignoratizio può
vendere le azioni a mezzo di soggetto autorizzato.

Nel caso di usufrutto, l’usufruttuario deve provvedere al versamento, salvo il suo
diritto alla restituzione al termine dell’usufrutto.

Se dal titolo o dal provvedimento del giudice non risulti diversamente, i diritti
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amministrativi diversi da quelli sopra indicati spettano, nel caso di pegno o usufrutto,
sia al socio sia al creditore pignoratizio o all’usufruttuario; nel caso di sequestro sono
esercitati dal custode.

Mentre per quanto riguarda il diritto di recesso la legge non prevede alcuna specificità.

I limiti legali alla circolazione


I casi più importanti in cui il principio di libera trasferibilità è derogabile sono quelli:

a) delle azioni liberate con conferimenti in natura che, fin quando non sia completa la
procedura di controllo della valutazione, sono inalienabili;

b) delle azioni con prestazioni accessorie il cui trasferimento è subordinato al consenso
degli amministratori;

c) delle azioni di società fiduciarie e di revisione che sono trasferibili solo con il
consenso degli amministratori.

Numerose limitazioni sono poi previste, per fini di vigilanza sugli assetti proprietari,
per le società operanti in settori particolari come quelli finanziario, bancario,
assicurativo, etc…

I limiti convenzionali alla circolazione


1) Qualora le azioni siano nominative o non siano state emesse lo statuto può (art.
2355-bis c.c., comma 1):
a) vietarne il trasferimento per un periodo non superiore a 5 anni;

b) sottoporre il trasferimento delle azioni a particolari condizioni.
2) Limiti convenzionali al trasferimento delle azioni possono derivare anche da patti
parasociali. In tal caso, tuttavia, le condizioni di legittimità della pattuizione
discendono dalle regole di diritto comune.
In generale, il trasferimento delle azioni può essere subordinato statutariamente a
particolari condizioni:
- Clausole di gradimento: subordinano il trasferimento delle azioni al
gradimento di organi sociali o di altri soci. In caso di mancato gradimento
l’atto di disposizione, benché valido tra le parti, è inefficace nei confronti
della società e impedisce all’acquirente di esercitare i diritti sociali. Tali
clausole possono essere di due specie:
- di gradimento non mero, caratterizzate dalla predeterminazione
nella clausola stessa di criteri oggettivi ai quali il soggetto cui è
rimesso il giudizio di gradimento deve attenersi;

- di mero gradimento, non vincolate dalla predeterminazione di
criteri oggettivi e, pertanto condizionate a giudizi discrezionali.
Tuttavia esse sono efficaci solo se prevedono un obbligo di
acquisto a carico della società o degli altri soci oppure il diritto di
recesso dell’alienante.

- Clausole di prelazione: Prevedono che il socio che intende
vendere le proprie azioni debba preventivamente offrirle, appunto
in prelazione, agli altri soci.

- Clausole di riscatto: Sono le clausole che, ricorrendo determinate
condizioni, consentono alla società stessa oppure ad alcuni dei soci
la facoltà di riscattare le azioni di un altro socio.

Le operazioni sulle proprie azioni


Nonostante l’apparente assurdità di un’operazione che preveda che una s.p.a. diventi
socia di se stessa, tale operazione non è solamente frequente, ma anche
evidentemente sensata. Nonostante i rischi cui questo tipo di operazioni sono
evidentemente soggetti, possono servire a stabilizzare i corsi finanziari, ad assicurare
ai soci di un ritorno finanziario, oltre che a contribuire al raggiungimento di
miglioramenti negli indici finanziari.

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Anzitutto, la società non può sottoscrivere azioni proprie (1), pena una sanzione, e
tantomeno effettuar azioni di sottoscrizione reciproca.
Diverso è il caso di acquisto di azioni proprie sul mercato secondario (2), ovvero di
quelle azioni per le quali il conferimento è già stato effettuato. Questa eventualità,
seppure lecita e permessa, è vincolata ad alcune eventualità. In particolare, una s.p.a.
può acquistare azioni proprie solo qualora ricorrano le seguenti condizioni (2.1), in
assenza delle quali è stabilito l’obbligo di rivendita entro un anno :
- l’acquisto deve avvenire nei limiti degli utili distribuibili e delle riserve
disponibili risultanti dall’ultimo bilancio regolarmente approvato;

- possono essere acquistate solo azioni interamente liberate, in caso contrario la
società diventerebbe debitrice di sé stessa;

- l’acquisto deve essere autorizzato dall’assemblea;

- solo per le società con azioni quotate è inoltre previsto espressamente il
principio di parità di trattamento tra i soci, secondo modalità stabilite in via
regolamentare dalla Consob;

- nelle società aperte, il valore nominale non può superare la quinta parte del
capitale sociale.
Per quanto riguarda invece le proprie che la società abbia in portafoglio (2.2.) vale
una disciplina particolare che può riassumersi in:
- Limiti alla disposizione: gli amministratori non possono disporre di azioni
proprie se non previa autorizzazione dell’assemblea. In sé la vendita è
operazione di gestione, di esclusiva competenza dell’organo amministrativo;
eccezionalmente in questo caso, simmetricamente all’acquisto, la legge prevede
la necessità di un’autorizzazione dell’assemblea.

L’assemblea può autorizzare simultaneamente operazioni successive di acquisto
ed alienazione (c.d. trading);

- utili e opzione: il diritto agli utili e il diritto di opzione sono attribuiti
proporzionalmente alle altre azioni;

- il diritto di voto: il diritto di voto è sospeso, ma le azioni proprie sono tuttavia
computate nel capitale ai fini del calcolo delle maggioranza richieste per la
costituzione e per le deliberazioni dell’assemblea;

- azioni proprie e bilancio: le azioni proprie in portafoglio vanno appostate
nell’attivo del bilancio come qualsiasi altra attività finanziaria.
La particolarità è data dalla circostanza che tale annotazione all’attivo deve
essere “neutralizzata” dall’iscrizione al passivo di una riserva indisponibile di
pari importo, resa necessaria ai fini diana corretta determinazione della
situazione contabile della società stessa.


Per quanto riguarda l’assistenza finanziaria sulle proprie azioni (3), corrispondente al
caso di una società che decida, per esempio, di accordare un prestito a terzi che
decidano di acquistare azioni della società stessa, sia sul mercato primario che su
quello secondario, l’art. 2358 c.c. subordina la possibilità di accordare prestiti o
fornire garanzie per l’acquisto o la sottoscrizione delle azioni proprie al rispetto delle
seguenti condizioni:
- Preventiva autorizzazione del’assemblea straordinaria
- Redazione da parte degli amministratori di una relazione che evidenzi
l’interesse e i rischi dell’operazone per la società e indichi il prezzo di acquisto
delle azioni.
- Attestazione degli amministratori che l’operazione ha lyuogo a condizioni di
mercato e che il merito del credito del soggetto finanziato o in cui favore
vengono prestate le garanzie è stato adeguatamente valutato.
- Importo complessivo dei prestiti o delle garanzie non può eccedere i limiti
degli utili distribuibili o delle riserve risultanti dall’ultimo bilancio.

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LEZIONE XXIV. S.P.A.: CATEGORIE DI AZIONI, OBBLIGAZIONI, STRUMENTI
FINANZIARI E PATRIMONI DESTINATI
I diritti derivanti dalle azioni (diritti sociali) possono essere modulati dai soci creando
speciali e diverse categorie di azioni in sede di atto costitutivo o di una sua successiva
modificazione. In generale le azioni rappresentano una partecipazione al capitale di
rischio e conferiscono ai loro possessori una duplice posizione: quella di detentori della
pretesa residuale, e quella di detentori del potere di assumere le scelte fondamentali
in tema di esercizio della attività e di designare i gestori. Al contrario gli
obbligazionisti, pur fornendo capitale di credito, sono esterni alla società e non hanno
voce in capitolo nell’adozione delle decisioni societarie. Sono creditori che vantano nei
confronti della società una pretesa fissa (agli interessi e alla restituzione del credito),
da soddisfare prima della pretesa residuale. Ciò nonostante, ad oggi, con l’evoluzione
del sistema finanziario e l’introduzione di nuove forme di azioni e obbligazioni,
incentivata anche dalla riforma, tale distinzione si sta notevolmente affievolendo. Tale
riforma infatti, oltre a concedere la creazione di nuove categorie di azioni e di nuovi
tipi di obbligazione, riconosce anche la possibilità di creazione di “altri strumenti
finanziari partecipativi”.
Di conseguenza, concedendo maggiore autonomia ai privati, permette un più facile
incontro tra domanda e offerta di capitali.

Categorie di azioni
L’art. 2348 c.c. permette di fatto alle società di creare categorie di azioni fornite di
diritti diversi, purché tali insiemi di azioni valga il principio di eguaglianza oggettiva. La
diversità può riguardare sia i diritti amministrativi, sia quelli patrimoniali. Definita una
categoria, le deliberazione dell’assemblea generale che pregiudicano i diritti della
categoria devono essere approvate anche dall’assemblea speciale degli appartenenti a
tale categoria. La tutela spettante ai possessori delle azioni di categoria è intesa a
livello di gruppo in quanto le decisioni dell’assemblea speciale sono assunte con le
maggioranze previste per l’assemblea straordinaria.
Tra le principali categorie si distinguono:
- azioni con privilegi patrimoniali: Sotto questo punto di vista, l’unico
divieto posto dalla legge è quello del patto leonino, cioè al formulare
pattuizioni al fine di escludere alcuni soci da ogni partecipazione di utili o
perdite. Il privilegio, per non essere leonino, deve essere formulato in
modo tale da non escludere di fatto le altre azioni dalla possibilità
concreta di partecipare agli utili. Al di là di tale privilegio di tipo negativo,
la tipologia di privilegi che possono essere previsti è evidentemente
molto variegata.
- Azioni con limitazione di voto: azioni soggette a esclusione dal diritto di
voto, limitazione del voto a particolari argomenti o diritto di voto
subordinato al verificarsi di certe condizioni. Il valore delle azioni a voto
escluso o limitato non può complessivamente superare la metà del
capitale sociale. Con il d.l. 91/2014 sono state introdotte due forme di
attribuzione alle azioni di più di un voto: le azioni con diritto di voto
plurimo e la maggioranza di voto. Le prime costituiscono una categoria e
possono attribuire ai loro possessori fino a un massimo di tre voti, sia in
modo assoluto che condizionato a certi argomenti. Le azioni a voto
maggiorato non compongono una categoria, l’attribuzione è legata al
soggetto titolare.
- azioni di risparmio sono una particolare categoria usata solo dalle spa
con azioni ordinarie quotate. Nacquero per difendere gli interessi del
piccolo risparmiatore che esercita solo pretese di tipo reddituale e non di
esercizio del diritto di voto in assemblea. La privazione del diritto di voto
è tipologicamente necessaria per la qualificazione me azione di
risparmio.Le azioni di risparmio, se interamente liberata, possono essere
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al portatore. Come tutte le categorie speciali di azioni quotate in mercati
regolamentai, la categoria delle azioni di risparmio si articola in una
complessa organizzazione: un’assemblea speciale e un rappresentante
comune.
- Azioni correlate: importate da altre nazioni, sono quelle azioni che la
società può emettere fornendole di diritti patrimoniali correlati ai risultati
dell’attività sociale in un determinato settore. Lo statuto deve indicare i
criteri di individuazione dei costi e ricavi imputabili ai settori, etc..
- Azioni a favore dei prestatori di lavoro: azioni a favore dei dipendenti a
cui possono essere assegnati utili, su deliberazione dell’assemblea
straordinaria
- Azioni di godimento: assegnabili ai soci qualora sia stato loro
rimborsato il valore nominale delle azioni. Concorrono solo nella
ripartizione degli utili.
- Azioni riscattabili .

Obbligazioni
Le obbligazioni sono titoli di credito di massa, al portatore o nominativi. Ciascuna di
esse rappresenta una frazione di pari valore nominale di un prestito alla società e
perciò costituiscono una forma di finanziamento per l’impresa. Con la sottoscrizione di
un’obbligazione si versa una determinata quantità di denaro, a titolo di mutuo, e ne
consegue il diritto alla restituzione del capitale e la corresponsione degli interessi
secondo quanto stabilito nel contratto (il c.d. regolamento del prestito
obbligazionario).
Le obbligazioni possono essere subordinate (1) alla soddisfazione degli altri creditori.
In tal senso gli obbligazionisti in questione si posizionano in una situazione intermedia
tra quella degli obbligazionisti e quella degli azionisti. Sono inoltre previste
obbligazioni a premio (2), che prevedono per i portatori, oltre al normale rendimento,
dei bonus ulteriori assegnati a seguito di un sorteggio.
È altresì possibile che il regolamento correli tempi e entità del versamento degli
interessi a parametri oggettivi relativi . Si parla in questo caso di obbligazioni
parametrate (2), le quali possono dirsi indicizzate, se il parametro è esterno alla
società, o partecipative, se il parametro di riferimento è costituito dall’andamento
della società stessa.
Importanti sono inoltre le obbligazioni convertibili in azioni (3) e quelle con warrant
(4).

Competenza e limiti all’emissione


In generale, l’emissione di obbligazioni è decisa dagli amministratori, con
deliberazione verbalizzata da notaio che va depositata e iscritta a norma dell’art.
2436 c.c.. A differenza delle azioni, le obbligazioni possono anche essere emesse
“sotto la pari” (disagio di emissione). Possono essere emettersi per somma
complessivamente non eccedente il doppio del capitale sociale, della riserva legale e
delle riserve disponibili risultanti dall’ultimo bilancio. Si può ricorrere a indebitamento
tramite obbligazioni in misura non superiore al doppio del patrimonio netto. In alcuni
casi questo limite può essere superato., per es. quando le obbligazioni sono garantite
da ipoteca di primo grado, se sono destinate a essere quotate in mercati
regolamentati, se sono sottoscritte da parte di investitori professionali…

L’organizzazione comune
Per gli obbligazionisti è prevista un’organizzazione di gruppo basata sulla presenza di
un’assemblea e di un rappresentante comune. In tal modo è possibile rimettere alla
decisione della maggioranza degli obbligazionisti modifiche riguardanti il prestito
obbligazionario. L’assemblea, convocata dagli amministratori o dal rappresentante, in
taluni casi anche dagli stessi obbligazionisti, nomina e revoca il rappresentante, si

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cura delle modificazioni delle condizioni del prestito, della proposta di amministrazione
controllata e di concordato, delibera sulla costituzione di un fondo e su interessi
comuni agli obbligazionisti.
Il rappresentante comune può essere scelto anche al di fuori degli obbligazionisti tra le
persone autorizzate all’esercizio dei servizi di investimento. Se l’assemblea non
provvede alla nomina, viene nominato con decreto dal tribunale. La carica dura per un
periodo non superiore a tre esercizi sociali e può essere rieletto. Egli è l’esecutore
delle deliberazioni dell’assemblea degli obbligazionisti ma può anche partecipare a
quella dei soci.
La tutela del gruppo di obbligazionisti è in generale messa in primo piano rispetto a
quella individuale. Tuttavia le azioni individuali sono sempre possibili, purché non in
contrasto con quelle del gruppo.

(3) le obbligazioni convertibili


L’emissione di obbligazioni convertibili in azioni, in quanto contenenti in nuce la
possibilità di imputazione a capitale sociale, deve essere decisa dall’assemblea in sede
straordinaria, che deve contestualmente deliberare dell’aumento dì di capitale sociale.
La delibera da emissione deve risultare da verbale redatto dal notaio, non può essere
adottata se il capitale sociale non sia stato interamente versato e dve determinare il
rapporto di cambio e il periodo e le modalità della conversione. Non è possibile
l’emissione sotto la pari.
La conversione è un diritto individuale dell’obbligazionista. Può avvenire in azioni della
stessa società emittente (metodo diretto) o di un’altra società (metodo indiretto).
Punto cruciale è il rapporto di cambio, cioè di quante azioni spetteranno per ciascuna
obbligazione qualora l’obbligazionista decida di convertire. Viene fissato nel
regolamento del prestito obbligazionari e al quale il sottoscrittore aderisce sulla base
di una determinata situazione.

(4) i warrant
I warrant sono buoni che in tempi e modi stabiliti nel regolamento di emissione danno
il diritto ai possessori di sottoscrivere o acquistare azioni della stessa società che li ha
emessi o di altra società. Servono a rendere più appetibili le emissioni. L obbligazioni
cum warrant, a differenza di quelle convertibili, permettono di avere allo stesso tempo
lo status di obbligazionista e quello di socio.

Gli altri strumenti finanziari partecipativi

“Gli altri strumenti finanziari partecipativi” costituiscono una novità introdotta dalla
riforma per colmare quel vuoto legislativo che il venire meno della netta distinzione
tra capitale di credito e di rischio ha creato nella disciplina dei finanziamenti di
capitale. La scarsa disciplina legislativa che riguarda gli strumenti finanziari
partecipativi si basa sui seguenti punti fondamentali:

- la società, a seguito dell’apporto da parte dei soci o di terzi anche di opera o di
servizi, può emettere strumenti finanziari forniti di diritti patrimoniali o anche di diritti
amministrativi, escluso il voto in assemblea;

-l’assemblea straordinaria può deliberare l’assegnazione ai dipendenti della società o
di società controllate di strumenti finanziari, diversi da azioni, forniti di diritti
patrimoniali o anche di diritti amministrativi, escluso il voto nell’assemblea;

- gli strumenti finanziari possono essere dotati del diritto di voto su argomenti
specificamente indicati e in particolare che sia a essi riservata la nomina di un
componente indipendente del consiglio di amministrazione o del consiglio di
sorveglianza o di un sindaco;

- sono previste le assemblee speciali dei possessori “di strumenti finanziari che
conferiscono diritti amministrativi”.

Una ricostruzione di queste norme può dare le seguenti indicazioni:

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- salvo che non si tratti di strumenti finanziari assegnati ai dipendenti, l’emissione di
questi titoli richiede l’esecuzione di un apporto da parte del sottoscrittore;

- l’apporto può consistere non solo in denaro, crediti o beni in natura, ma anche in
prestazioni d’opera o di servizi;

- gli apporti eseguiti a fronte di strumenti finanziari non vengono imputati a capitale e
i loro sottoscrittori non acquistano la qualità di soci;

- ciò peraltro non esclude che tali apporto possano essere, a differenza di quanto si è
visto per le obbligazioni, caratterizzati dal rischio d’impresa anche per il capitale;

- ai sottoscrittori di strumenti finanziari, benché non soci, possono essere assegnati
non solo diritti patrimoniali, ma anche diritti (sociali) amministrativi; non però il diritto
di voto nell’assemblea generale;

- la legge rimette all’autonomia statutaria la determinazione di una serie di elementi
relativi alla competenza per l’emissione e alla legge di circolazione (e addirittura alla
loro possibile intrasferibilità).

In estrema sintesi può allora dirsi che in taluni casi non vi è differenza di sostanza tra
azioni e “altri strumenti finanziari partecipativi” e che spetta discrezionalmente alla
società decidere se, a fronte della richiesta al mercato di denaro, emettere azioni
(imputando il conferimento a capitale e attribuendo la qualità di soci ai sottoscrittori)
oppure strumenti finanziari (imputando l’apporto direttamente a patrimonio e non
assegnando qualità di soci ai sottoscrittori).

Emerge che la nozione di “altri strumenti finanziari partecipativi” è di carattere
residuale rispetto alle azioni e alle obbligazioni e serve per definire:

- quegli strumenti rappresentativi di apporti di vario tipo che, pur non imputabili o
comunque non imputati a capitale sociale (come le obbligazioni), rappresentano, in
tutto o in parte, un investimento di rischio (come le azioni) avendo un diritto al
rimborso del capitale condizionato all’andamento economico della società;

- quegli strumenti che pur non conferendo la qualità di socio tuttavia assegnano al
sottoscrittrice uno o più diritti di amministrazione.

I patrimoni destinati

Un altra novità della riforma societaria sono i c.d. patrimoni destinati a uno specifico
affare. Si distinguono sotto questo punto di vista due istituti: i p.d. unilaterali e i p.d.
contrattuali.
Patrimoni destinati “unilaterali”: si parla in questo caso di un patrimonio destinato in
via esclusiva a uno specifico affare, di carattere economico, tramite il quale è possibile
luogo a un autonomo complesso di beni organizzato per lo svolgimento di una
specifica attività, separato dal residuo patrimoniale della società. E’ sostanzialmente
alternativo alla costituzione di una società-figlia e può essere istituito con una
deliberazione adottata dall’organo amministrativo a maggioranza assoluta dei suoi
componenti.

La deliberazione deve indicare: 1) l’affare al quale è destinato il patrimonio; 2) i beni e
i rapporti giuridici compresi in tale patrimonio; 3) il piano economico-finanziario da cui
risulti la congruità del patrimonio rispetto alla realizzazione dell’affare; 4) gli eventuali
apporti di terzi; 5) la possibilità di emettere strumenti finanziari di partecipazione
all’affare; 6) la nomina di una società di revisione per il controllo contabile
sull’andamento dell’affare; 7) le regole di rendicontazione dello specifico affare.

I patrimoni destinati non possono essere costituiti:

- per un valore complessivamente superiore al 10% del patrimonio netti della società;

- per l’esercizio di affari attinenti alle attività riservate in base alle leggi speciali;

La deliberazione istitutiva del patrimonio destinato deve essere depositata e iscritta
nel registro delle imprese e nel termine di 60 giorni i creditori sociali anteriori
all’iscrizione possono fare opposizione. Il tribunale può disporre che la deliberazione
sia eseguita previa prestazione da parte della società di idonea garanzia.

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Effetto delle costituzione del patrimonio destinato è la separazione in duplice senso:

- i creditori della società non possono far valere alcun diritto sul patrimonio destinato
né sui frutti o proventi da esso derivanti, salvo che per la parte spettante alla società;

- nei confronti dei creditori aventi titolo in obbligazioni contratte in relazione allo
specifico affare la società risponde nei limiti del patrimonio ad esso destinato.

L’autonomia è, peraltro, asimmetrica: assoluta per il primo profilo, relativa per il
secondo. Infatti per le obbligazioni contratte per il patrimonio destinato la
deliberazione istitutiva può prevedere che risponda anche il patrimonio residuo della
società.

A tutela dei terzi contraenti, gli atti compiuti in relazione allo specifico affare devono
recare espressa menzione del vincolo di destinazione; in mancanza la società risponde
anche con il suo patrimonio residuo. Inoltre, per ciascun patrimonio destinato gli
amministratori devono redigere un separato rendiconto allegato al bilancio. Gli
strumenti finanziari emessi in relazione al patrimonio separato si fondano su un
rapporto sottostante di associazione in partecipazione o di cointeressenza e non sono
riconducibili a una partecipazione azionaria.

Per ciascuna categoria di strumenti finanziari è prevista un’assemblea speciale
regolata sulla falsariga di quella degli obbligazionisti.

Quando l’affare per cui il patrimonio destinato è stato istituito si realizza o è divenuto
impossibile, gli amministratori redigono un rendiconto finale che deve essere
depositato presso il registro delle imprese.

Venuta meno la ragione della separazione e soddisfatti i creditori del patrimonio
destinato, il residuo torna senza effetto segregativo nel patrimonio sociale, e il
patrimonio destinato cessa di esistere. Qualora però le obbligazioni contratte per lo
svolgimento dello specifico affare non siano state integralmente soddisfatte, i relativi
creditori possono chiedere la liquidazione del patrimonio destinato. Si applicano in tal
caso, in quanto compatibili, le disposizioni sulla liquidazione della società.

Patrimonio destinato contrattuale: il contratto di finanziamento di uno specifico affare


può prevedere che al suo rimborso totale o parziale siamo destinati, in via esclusiva,
tutti o parte dei proventi dell’affare stesso. In particolare, l’oggetto di garanzia viene
determinato con riguardo alla generica categoria dei proventi dell’affare. L’istituto da
una parte impedisce ai creditori sociali di agire su i proventi dell’affare finanziato e sui
beni strumentali allo svolgimento dell’affare; dall’altro limita le pretese del finanziatore
ai predetti proventi realizzati fino a una certa data predeterminata nel contratto. Il
contratto di finanziamento deve contenere i seguenti elementi: - una descrizione
dell’operazione che individui lo specifico oggetto, le modalità e i tempi di realizzazione;
- il piano finanziario dell’operazione, indicando la parte coperta dal finanziamento e
quella a carico della società; - i beni strumentali necessari alla realizzazione
dell’operazione; - le specifiche garanzie che la società offre in ordine all’obbligo di
esecuzione del contratto; - i controlli dell’operazione; - la parte dei proventi destinati
al rimborso del finanziamento; - le eventuali garanzia che la società presta per il
rimborso di parte del finanziamento; - il tempo massimo di rimborso.

Affinché i proventi dell’operazione costituiscano patrimonio separato da quello della
società è necessario che copia del contratto sia depositata per l’iscrizione presso il
registro delle imprese.

Rispettate tali condizioni, i creditori sociali non possono agire in alcun modo sui
proventi, sui frutti di essi e degli investimenti eventualmente effettuati in attesa del
rimborso al finanziatore: possono esercitare solo azioni di carattere conservativo sui
beni strumentali destinati alla realizzazione dell’operazione.

Di converso, salva l’ipotesi di garanzia parziale delle obbligazioni nei confronti del
finanziatore risponde esclusivamente il patrimonio separato.

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LEZIONE XXV. SPA: L’ASSEMBLEA NEL SISTEMA TRADIZIONALE

Organizzazione corporativa e i sistemi di amministrazione e controllo


A differenza di quanto accade per le società di persone e per le s.r.l., a ragione dei
benefici connessi alla responsabilità limitata e in ragione della molteplicità di interessi
coinvolti dall’attività societaria, in materia di s.p.a. il legislatore limita la libertà dei
soci di progettare come meglio ritengono la struttura organizzativa (regole,
meccanismi, organi) della loro società. L’organizzazione tipica è quella corporativa,
sono infatti previsti una pluralità di organi cui sono associate diverse prerogative
organizzative. Il sistema latino tradizionale, imperativo fino all’approvazione della
riforma delle s.p.a., prevede 3 organi:
- assemblea: composta da soci, decide sulle modificazioni del
contratto sociale nonché sulla nomina di amministratori e sindaci,
sull’approvazione del bilancio e sulla spartizione degli utili;
- organo amministrativo: per la gestione
- Collegio sindacale: organo di vigilanza sulla gestione
La riforma introdusse la libertà di scelta tra il sistema precedentemente descritto e
altre due a questi alternativi: il sistema dualistico e quello monistico.
Nel sistema dualistico l’assemblea nomina un organo (consiglio di sorveglianza) che,
oltre a operazioni di vigilanza, elegge i componenti del consiglio di gestione, e approva
il bilancio.
Nel sistema monistico l’assemblea elegge un consiglio di amministrazione al cui
interno è costituito un apposito comitato per il controllo di gestione.
In generale, i tre sistemi hanno un organo di amministrazione, l’assemblea e un
organo di controllo.
Il sistema tradizionale, da applicarsi in tutti quei casi in cui l’assemblea non disponga
diversamente, mantiene una supremazia se non altro numerica. Questi risulta essere
infatti il più diffuso e oltre a quello dotato della maggiore organicità.
Dei diversi organi societari l’assemblea è l’unico presente con la stessa denominazione
e le stesse regole di funzionamento in tutti e tre i sistemi di amministrazione e
controllo. Quello che cambia è l’assegnazione delle diverse competenze a questa
associata.L’assemblea rappresenta la collettività dei soci che tramite un apposito
procedimento esprimono le loro decisioni sulle materie che la legge assegna alla loro
competenza. È un organo non elettivo, l’unica condizione per parteciparvi è di avere
effettuato un investimento in azioni che assegnino il diritto di intervenire e votare.

Nozione e classificazioni
A seconda dell’o.d.g., l’assemblea si distingue tra ordinaria e straordinaria, pur
trattandosi dello stesso organo.
L’assemblea ordinaria (art. 2364 c.c.) 1) approva il bilancio, 2) nomina e revoca gli
amministratori, i sindaci, il presidente del collegio sindacale, e di questi determina il
compenso, se non è stabilito dallo statuto, 3) delibera sula responsabilità degli
amministratori e dei sindaci, 4) delibera sugli altri oggetti di loro competenza, (es.
autorizzazioni all’acquisto di azioni proprie, o di acquisti pericolosi) 5) approva
l’eventuale regolamento dei lavori assembleari.
L’assemblea straordinaria delibera sulle modificazioni dello statuto, sulla sostituzione e
sui poteri dei liquidatori, e su ogni altra materia di loro competenza secondo la legge
(art. 2365 c.c.). Si noti come la distinzione tra assemblea ordinaria e straordinaria
serva solamente a richiamare l’applicazione di discipline differenti in tema di
verbalizzazione e di quorum costitutivi e deliberativi.
L’assemblea inoltre si distingue in assemblea generale, di cui è appena stato
trattato, e assemblea speciale in cui hanno diritto di intervento e di voto solo i
portatori di categorie speciali di azioni.

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Convocazione
La convocazione dell’assemblea avviene per volontà degli amministratori e su
presentazione di apposito avviso contenente indicazione del giorno, ora, luogo, o.d.g..
L’avviso deve essere pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale (o in un diverso quotidiano
indicato nello Statuto) almeno 15 giorni prima dell’assemblea. Nelle società chiuse e
quelle ad azionariato diffuso la convocazione può essere ad personam. Nelle società
quotate l’avviso di convocazione viene pubblicato con un preavviso variabile a seconda
delle materie trattate, ma, in ragione della necessità di una maggiore diffusione,
generalmente superiore.
L’ordine del giorno nelle società chiuse deve essere sufficientemente analitico nel
fissare la competenza dell’assemblea in modo tale da consentire ai soci di scegliere se
intervenire o no. Nelle società quotate soci che rappresentino almeno un quarantesimo
del capitale sociale possono chiedere l’integrazione con argomenti proposti da loro.
Gli amministratori possono convocare l’assemblea ogni qual volta lo ritengano
opportuno. In taluni casi però la convocazione è obbligatoria (es. almeno una volta
all’anno per l’approvazione del bilancio di esercizio o contestualmente all’accertamento
di una causa di scioglimento).
La mancanza di tali requisiti formali non provoca di per sé l’invalidità dell’assemblea.
Questa, purché l’esigenza informativa sia rispettata (per evitare “colpi di mano”
ciascun socio può opporsi alla discussione di argomenti sui quali non si ritenga
sufficientemente informato), è comunque da ritenersi valida qualora sia rappresentata
l’intero capitale sociale e qualora a questa partecipino la maggioranza degli organi
amministrativi e di controllo.

Lo svolgimento

Il presidente
L’assemblea è presieduta dalla persona indicata dallo statuto o, in mancanza, da
quella eletta con il voto della maggioranza dei presenti. Il presidente è assistito da un
segretario designato nello stesso modo. Al presidente spetta di verificare la regolarità
della costituzione dell’assemblea, accertarne l’identità e la legittimazione dei presenti,
dirigerne lo svolgimento e accertare i risultati delle votazioni.

I quorum costitutivi e deliberativi


L’assemblea ordinaria è regolarmente costituita quando è rappresentata almeno la
metà del capitale sociale (calcolato escludendo le azioni prive di voto in assemblea) e
delibera a maggioranza assoluta., salvo che lo statuto richieda una maggioranza più
elevata. In seconda convocazione, necessaria qualora i soci partecipanti all’assemblea
di prima convocazione non rappresentino complessivamente la parte di capitale sopra
indicata, invece, tale soglia non è più da considerarsi obbligatoria. Nel particolare caso
dell’assemblea straordinaria: a) l’assemblea straordinaria delle s.p.a. chiuse delibera
con il voto favorevole di più della metà del capitale sociale; b) l’assemblea
straordinaria delle s.p.a. aperte delibera a maggioranza ed è da considerarsi
regolarmente costituita con la partecipazione di oltre un terzo del capitale sociale; c)
per tutte le s.p.a., in seconda convocazione l’assemblea straordinaria è regolarmente
costituita con la partecipazione di almeno un terzo del capitale sociale e delibera con il
voto favorevole di almeno i due terzi del capitale rappresentano in assemblea.

L’intervento
All’assemblea possono intervenire solo i soci aventi il diritto di voto. Devono inoltre
partecipare gli organi sociali elettivi e possono prendervi parte i rappresentanti comuni
degli obbligazionisti e degli azionisti di risparmio, oltre ai possessori di strumenti
finanziari. Se lo statuto non dispone diversamente, è sufficiente che il socio depositi, o
quantomeno esibisca all’ingresso in assemblea:

- il titolo azionario nelle società chiuse con titoli non in gestione accentrata o
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dematerializzata;

- la certificazione emessa dall’intermediario al titolare delle azioni nelle società aperte
o chiuse con azioni in gestione accentrata o dematerializzata.

Lo statuto, tuttavia, può prevedere il deposito preventivo dei titoli o della
certificazione presso la sede della società o delle banche indicate nell’avviso di
convocazione. Per le s.p.a. aperte il deposito è sostituito dalla comunicazione
dell’intermediario alla società emittente.

La participazione in absentia
In passato era intrinseco al concetto stesso di assemblea la fisica compresenza dei
soci in un medesimo luogo (c.d. metodo collegiale). Oggi non è più così, sia perché le
moderne tecnologie hanno affrancato il metodo collegiale dal vincolo della
compresenza in un medesimo luogo, sia perché la legge è meno rigida sul metodo
collegiale.

Lo statuto può quindi consentire:

- l’intervento all’assemblea mediante mezzi di telecomunicazione; (es.
videoconferenza);

- l’espressione del voto per corrispondenza.

Si differenziano quindi da quei casi ove si ha una partecipazione indiretta al voto
tramite un rappresentante (c.d. delega di voto). Oggi si reputa che essa sia uno
strumento necessario per agevolare la partecipazione dei soci alla vita sociale e ne
sono ammesse quattro diverse ipotesi:
1. “delega occasionale” o di diritto comune, la rappresentanza deve essere
conferita per iscritto e i documenti relativi devono essere conservati dalla società.
Nelle s.p.a. aperte la rappresentanza può essere conferita solo per singole assemblee,
con effetto anche per le successive convocazioni; in quelle chiuse invece è consentita
anche la procura permanente. Non può essere rilasciata con il nome del
rappresentante in bianco ed è sempre revocabile. Vi sono inoltre limiti soggettivi e
quantitativi alla delega:

- non possono essere delegati i membri degli organi amministrativi o di controllo, né i
dipendenti della società;

- la stessa persona non può rappresentare in assemblea più di 20 soci, o, se si tratta
si s.p.a. aperte, più di 50, 100 o 200 soci a seconda che la società abbia un capitale
non superiore a 5, compreso fra 5 e 25 oppure superiore a 25 milioni di euro.
2. delega gestoria, è quella che, nell’ambito del servizio di gestione di portafoglio
di investimento, può essere rilasciata dal cliente alla banca, all’impresa di
investimento o alla società di gestione del risparmio. L’intermediario deve
“comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza, nell’interesse dei clienti e per
l’integrità dei mercati” e a tal fine deve presentare all’approvazione del cliente una
proposta di voto nel suo interesse ed è comunque vincolato alle istruzioni, anche
contrarie, che gli vengano impartite.

A questa forma di delega non si applicano i limiti quantitativi.
3. delega sollecitata, si tratta di un istituto esclusivo delle società con azioni
quotate, volto a consentire al committente di raccogliere intorno alle sue proposte un
numero di adesioni superiore a quello che la disciplina codicistica della rappresentanza
consentirebbe.

Chi possiede azioni che consentano l’esercizio del diritto di voto nell’assemblea, per la
quale richiede la delega, in misura pari almeno all’1%, può sollecitare il rilascio di
deleghe in suo favore ed è denominato committente. Alla sollecitazione non si
applicano i limiti quantitativi e soggettivi. La sollecitazione deve essere rivolta alla
generalità degli azionisti con la richiesta di aderire a specifiche proposte di voto. Va
effettuata mediante la diffusione di un prospetto e di un modulo di delega, e il
committente deve necessariamente avvalersi di un intermediario. Il voto in assemblea
è esercitato dal committente o, su suo incarico, dall’intermediario. La delega è
revocabile, può essere conferita soltanto per singole assemblee già convocate, deve
essere datata e contenere le istruzioni di voto e non può essere in bianco. Nei giudizi
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risarcitori derivanti dalla violazione delle disposizioni in materia di sollecitazione si
inverte l’onere della prova: spetta al committente e/o all’intermediario dimostrare di
aver agito con la diligenza richiesta.
4. delega associativa, è anch’essa uno strumento riservato alle sole società con
azioni quotate tramite la raccolta delle deleghe consentita alle associazioni di (piccoli)
azionisti.

Le associazioni non hanno bisogno di avvalersi di un intermediario né devono redigere
il prospetto informativo, essendo sufficiente il solo modulo di delega. Di converso, le
associazioni possono raccogliere le deleghe solo dai propri associati. A differenza della
delega sollecitata, quindi, quella associativa non si basa sull’opportunità di raccogliere
consensi su una determinata proposta, ma si concretizza in un servizio per consentire
al socio di esprimere il proprio voto pur non partecipando alla riunione assembleare.

La discussione
La discussione in assemblea è regolata dal presidente. I soci hanno diritto di chiedere
agli amministratori informazioni su questioni attinenti alle materie all’ordine del
giorno, al fine di poter esercitare il voto in modo consapevole.Gli amministratori sono
tenuti a rispondere, ma il loro rifiuto è legittimo qualora dalla risposta possa derivare
una lesione all’interesse sociale. I soci intervenuti che riuniscono ⅓ del capitale
rappresentato nell’assemblea possono chiedere che la riunione sia rinviata a non oltre
5 giorni, se dichiarano di non essere sufficientemente informati sugli oggetti posti in
deliberazione. Questo diritto non può esercitarsi che una sola volta per lo stesso
oggetto.

Solo per le società con azioni quotare la legge prevede che, per ogni proposta di
deliberazione, gli amministratori devono mettere a disposizione del pubblico
un’apposita relazione. Per le altre s.p.a. una specifica informazione pre-assembleare è
prevista solo in occasione di particolari argomenti.

La votazione
La legge non indica un particolare sistema di votazione. L’assemblea normalmente
delibera in base al principio maggioritario, talvolta rafforzato. Per la nomina alle
cariche sociali, lo statuto può stabilire norme particolari, quali ad esempio il voto di
lista, quello cumulativo o altri sistemi che permettano la rappresentanza delle
minoranze. Non è escluso dal voto il socio in conflitto di interessi; se si astiene per
tale ragione le sue azioni non sono computate ai fini del quorum deliberativo.

La verbalizzazione
Le deliberazioni dell’assemblea devono constare da verbale sottoscritto dal presidente
e dal segretario o, se si tratta di assemblea straordinaria, dal notaio. Il verbale deve
indicare la data, l’identità dei partecipanti e il capitale rappresentato da ciascuno, le
modalità e il risultato delle votazioni, e consentire l’identificazione dei soci favorevoli,
astenuti o dissenzienti.

Nel verbale devono essere riassunte le dichiarazioni; con tale previsione il legislatore
ha risolto un’annosa disputa, chiarendo che il verbale assembleare non può essere
sintetico, ma deve essere analitico.

L’invalidità delle deliberazioni


L’ordinamento, circa le patologie delle deliberazioni assembleari, non è riuscito a
superare in modo efficace il trade-off tra stabilità del corso dell’azienda e garanzie
personali, privilegiando il primo aspetto e limitando significativamente gli spazi per
ottenere la rimozione degli effetti delle delibere invalide e spostando la tutela del socio
sul piano del risarcimento del danno. Il sistema dell’invalidità delle delibere
assembleari si articola nei due classici vizi dell’annullabilità e della nullità, nonostante
questi siano diversamente modulati e regolati rispetto al diritto comune.

Altro possibile vizio della delibera assembleare è l’inefficacia, che si ha nell’ipotesi in
cui il suo oggetto sia estraneo all’organizzazione sociale, per esempio incida su diritti
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individuali di soci o di terzi. Tale vizio può essere fatto valere da chiunque vi abbia
interesse e in ogni momento.

La nullità
Sono cause di nullità delle deliberazioni: - la mancata convocazione dell’assemblea; -
la mancanza del verbale; - l’impossibilità o l’illiceità dell’oggetto.

La deliberazione nulla può essere impugnata da chiunque vi abbia interesse, ma solo
entro 3 anni dalla sua iscrizione o deposito nel registro delle imprese. L’invalidità può
essere rilevata anche d’ufficio dal giudice. Con l’espressione “oggetto illecito” si
intende anche il contenuto della deliberazione (es. delibera di approvazione di bilancio
falso). In generale, la delibera è nulla se il suo contenuto viola norme dirette a
tutelare un interesse generale o di terzi o a impedire una deviazione dallo scopo
economico- pratico del contratto di società; è invece annullabile se il contenuto viola
norme diretta a tutelare l’interesse di gruppi di soci o del singolo socio.

La disciplina della nullità è oggi estremamente minuziosa, con una serie di deroghe al
diritto comune volte per gran parte ad assicurare stabilità alle deliberazioni, in tal
senso. Si tratta, insomma, di una nullità sanabile e che non travolge tutti gli effetti nel
frattempo verificatisi.

L’annullabilità
Sono annullabili le deliberazioni prese non in conformità della legge o dello statuto.

Si tratta del vizio residuale che colpisce tutte quelle delibere invalide, ma non
rientranti in uno dei casi tassativi di nullità. Sono legittimati a impugnare le delibere
annullabili i soci assenti, dissenzienti o astenuti, gli amministratori e il collegio
sindacale nonché il rappresentante comune degli azionisti di risparmio. Non ogni socio,
tuttavia, è legittimato a proporre l’azione di annullamento, lo sono solo quelli che
possiedono tante azioni aventi diritto di voto con riferimento alla deliberazione che
rappresentino l’1‰ del capitale sociale nelle s.p.a. aperte e il 5% nelle altre. I soci
che non raggiungono la predetta soglia di capitale e quelli che, in quanto privi di voto,
non sono legittimati a proporre l’impugnativa, hanno diritto al risarcimento del danno
loro cagionato dalla non conformità della deliberazione alla legge o allo statuto. Anche
per l’azione di annullamento, il legislatore si premura di delimitare il campo della
patologia rilevante. La deliberazione non può essere annullata:

- per la partecipazione all’assemblea di persone non legittimate, salvo che tale
partecipazione sia stata determinante;

- per l’invalidità di singoli voti o per il loro errato conteggio, salvo che il voto invalido o
l’errore di conteggio siano stati determinanti ai fini del raggiungimento della
maggioranza richiesta;

- per l’incompletezza o l’inesattezza del verbale.

Il termine per proporre l’azione di annullamento o di risarcimento del danno è di 90
giorni dalla data della deliberazione ovvero dall’iscrizione o dal deposito.
L’annullamento della deliberazione ha effetto rispetto a tutti i soci e obbliga gli
amministratori a prendere conseguenti provvedimenti sotto la propria responsabilità.
In ogni caso sono salvi i diritti acquistati in buona fede dai terzi in base ad atti
compiuti in esecuzione della deliberazione. L’annullamento, infine, non può aver luogo
se la deliberazione impugnata è sostituita con altra presa in conformità della legge e
dello statuto.
Dal punto di vista procedurale, l’impugnazione va proposta con atto di citazione
davanti al tribunale del luogo dove la società ha sede.

Contestualmente al deposito della citazione, l’impugnante può chiedere la sospensione
dell’esecuzione della deliberazione. In caso di eccezionale e motivata urgenza, il
presidente del tribunale, provvede con decreto motivato.

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I regimi speciali
Regole speciali ancor più restrittive di quelle ordinarie, sono stabilite per
l’impugnazione di particolari deliberazioni:
- l’impugnativa per nullità dell’aumento di capitale, della riduzione del capitale o
dell’emissione di obbligazioni non può più essere proposta dopo che siano trascorsi
180 giorni dall’iscrizione della deliberazione nel registro delle imprese o, nel caso di
mancata convocazione, 90 giorni dall’approvazione del bilancio dell’esercizio nel corso
del quale la deliberazione è stata anche parzialmente eseguita;
- nelle s.p.a. aperte non può essere pronunciata l’invalidità:
- della deliberazione di aumento del capitale dopo che sia stata iscritta nel
registro delle imprese l’attestazione che l’aumento è stato anche parzialmente
eseguito;

- della deliberazione di riduzione di capitale o di quella di emissione di
obbligazioni dopo che la deliberazione sta stata anche parzialmente eseguita;
- le azioni di nullità e di annullamento non possono essere proposte nei confronti delle
delibere di approvazione del bilancio dopo l’approvazione del bilancio dell’esercizio
successivo.

In qualsiasi s.p.a. inoltre, la legittimazione a impugnare il bilancio spetta solo a tanti
soci che rappresentino almeno il 5% del capitale sociale.

Nelle ipotesi a. e b. resta salvo il diritto al risarcimento del danno

Conflitto di interessi e principio di correttezza


Ulteriore caso di annullabilità è quello della deliberazione pregiudizievole approvata
con il voto determinante di soci che abbiano un interesse in conflitto con quello della
società.

Si ha conflitto di interessi quando il socio è personalmente o per conto altrui portatore
di un interesse il cui soddisfacimento può comportare un pregiudizio a quello che egli
stesso ha in quanto socio della società.

Il socio è libero di votare, ma la deliberazione è annullabile qualora sussistano
congiuntamente due condizioni:

- che il voto del socio in conflitto di interessi sia stato determinante per l’assunzione
della decisione (e quindi la delibera non può essere annullata se, sottraendo il voto del
socio in conflitto, resta pur sempre una maggioranza favorevole: c.d. prova di
resistenza);

- che la deliberazione sia suscettibile di arrecare un pregiudizio alla società.

Diversa dal conflitto di interessi è la situazione che si verifica quando il contrasto si
pone tra l’interesse personale extra-sociale di un socio e quello degli altri soci
nell’indifferenza dell’interesse sociale.

In tali casi, fermo restando che la base del funzionamento delle s.p.a. è il principio
maggioritario basato sulla ricchezza investita, la giurisprudenza e la dottrina sono
giunte alla conclusione che al contratto di società si applica il principio generale
dell’obbligo di esecuzione del contratto secondo buona fede.

Pertanto, sono annullabili le deliberazioni assunte con il voto determinante del socio
che abbia perseguito l’esclusivo fine di trarre un vantaggio personale a danno degli
altri soci.

Si parlava spesso (e talora ancora si usa) in questi casi di delibera viziata per eccesso
di potere.

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LEZIONE XXVI. S.P.A.: L’ORGANO AMMINISTRATIVO NEL SISTEMA
TRADIZIONALE

Ruolo e competenze
L’organo amministrativo, come da art. 2380 bis c.c., rappresenta l’elemento
propulsore della società: “la gestione dell’impresa spetta esclusivamente agli
amministratori, i quali compiono le operazioni necessarie per l’attuazione dell’oggetto
sociale”. La competenza è esclusiva: lo statuto non può più, come accadeva nel
passato, riservare determinati argomenti attinenti alla gestione alla competenza
assembleare. Può solo disporre che, per determinate materie, sia richiesta richiesta
l’autorizzazione dell’assemblea. La responsabilità comunque è attribuita agli
amministratori, a carico dei quali infatti è imputata la totale responsabilità dell’attività
gestoria.
Il nuovo ordinamento ha dunque di fatto affermato il modello manageriale, impedendo
qualsiasi modulazione delle competenze gestorie tra amministratori e assemblea.
Agli amministratori, corrispondendo di fatto questi ai soggetti in cui la società si
immedesima, competono i compiti propri dell’imprenditore (es. tenuta delle scritture
contabili), la rappresentanza della società, l’esecuzione delle delibere assembleari che
non siano self-executive, l’impulso alle decisioni assembleari (convocano le
assemblee).

La composizione
L’organo amministrativo può essere unipersonale (amministratore unico) o
pluripersonale (consiglio di amministrazione). In questo secondo caso, gli
amministratori devono attenersi necessariamente al metodo collegiale. Il numero degli
amministratori è determinato dallo statuto, il quale può anche solo a limitarsi a
stabilire il numero massimo o minimo, rimettendone la definizione concreta
all’assemblea che procede alla nomina (art. 2380 bis c.c.). Gli amministratori non
devono essere necessariamente soci, possono essere persone fisiche o anche
giuridiche. In tal caso la persona giuridica deve designare un rappresentante persona
fisica appartenente alla propria organizzazione, il quale, ferma restando la
responsabilità solidale della persona giuridica amministratore, assume gli stessi
obblighi e le stesse responsabilità civili e penali previsti a carico degli amministratori
persone fisiche.
Nelle società con azioni quotate l’orano amministrativo deve essere pluripersonale al
fine di rappresentare tutti gli interessi. Per questo: a) gli amministratori sono eletti
sulla base di liste di candidati (le liste possono essere presentate dai soci che
dispongano di quote di partecipazioni superiori alle soglie fissate dallo statuto o, in di
questi assenza, a un quarantesimo del capitale sociale); b) almeno uno degli
amministratori è espresso dalla lista di minoranza che abbia avuto il maggior numero
di voti; c) almeno uno degli amministratori, e almeno due se il consiglio è composto
da sette membri o più, deve possedere i requisiti di indipendenza, dimostrando di non
avere legami con la società che possano dare luogo a vantaggi aprioristici.
Nelle s.p.a. quotate e in quelle a controllo pubblico, lo statuto deve stabilire regole tali
da assicurare la presenza di quote-rosa al fine di garantire la parità di genere.
In generale e per tutte le s.p.a., interdizione, inabilitazione, fallimento e condanna a
una pena che comporti una delle situazioni precedentemente dette, sono causa di
ineleggibilità, così come accade nel caso di titolarità di una carica nel governo.
Lo statuto può inoltre prevedere che l’assunzione sia subordinata al possesso di
speciali requisiti di onorabilità, professionalità, indipendenza. È questo il caso di
quanto accade alle società appartenenti ai settori sensibili. La mancanza di questi
requisiti opera come causa di decadenza (art. 2382 c.c.) . Diversamente da quanto
accade nel caso di ineleggibilità, le clausole di incompatibilità non incidono sulla
validità dell’elezione (art. 2383 c.c.). È il caso di un soggetto amministratore che

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svolga due ruoli contemporaneamente. Questi, pena la decadenza da entrambe le
cariche, è obbligato a operare una scelta tra le due entro 90 giorni dalla nomina.

Nomina, cessazione, sostituzione ed emolumenti

Nomina e durata
La nomina degli amministratori spetta all’assemblea con sistema maggioritario, o se lo
statuto lo prevede, con regoli particolari. Per esempio, è possibile modificare il diritto
di voto a seconda delle diverse categorie di azioni. Fanno eccezione la nomina dei
primi amministratori nell’atto costitutivo, la possibilità che i portatori di strumenti
finanziari nominino un componente indipendente, la possibilità nelle spa chiuse che lo
stato, se azionista della società, nomini, proporzionalmente alla partecipazione
posseduta, uno o più amministratori. Nelle società con azioni quotate la nomina
avviene sulla base del voto di lista.
La durata della carica è stabilita dallo statuto o dall’assemblea. In generale, non può
essere superiore a tre esercizi consecutivi. Sono comunque rieleggibili. Alla nomin
segue l’accettazione da parte dell’eletto, il quale, entro 30 giorni dalla notizia della
nomina, deve chiedere l’iscrizione al registro delle imprese.

Cessazione e sostituzione
Gli amministratori cessano dalla carica: 1) per decorso del termine, 2) per morte; 3)
per decadenza (per causa di ineleggibilità); 4) per revoca da parte dell’assemblea (nel
caso di amministratori nominati, solo gli enti pubblici che hanno previsto la nomina
possono procedere alla revoca) ; 5) per rinuncia all’incarico (dimissioni); 6) per altri
casi statutariamente previsti (es. clausola simul stabunt, simul cadent in virtù della
quale, in caso di cessazione di uno o più amministratori, cessa l’intero organo di
amministrazione). La cessazione deve essere iscritta entro 30 giorni nel registro delle
imprese.
La sostituzione degli amministratori cessati dalla carica prima della scadenza per
decorso del periodo di nomina segue regole particolari (art. 2386 c.c.) :

- se, nonostante la cessazione, la maggioranza è sempre costituita da amministratori
nominati dall’assemblea, sono questi che provvedono a sostituire i componenti cessati
con deliberazione approvata dal collegio sindacale (c.d. cooptazione). Gli
amministratori così nominati restano in carica fino all’assemblea successiva, la quale
provvede alla sostituzione definitiva;

- se, invece, viene meno la maggioranza degli amministratori nominati dall’assemblea,
quelli rimasti in carica devono convocarla perché provveda alla sostituzione dei
mancanti;

- qualora operi la clausola simul stabunt, simul cadens, l’assemblea per la nomina del
nuovo consiglio è convocata d’urgenza degli amministratori rimasti in carica;

- se vengono a cessare l’amministratore unico o tutti gli amministratori, l’assemblea
deve essere convocata d’urgenza dal collegio sindacale, il quale può compiere nel
frattempo gli atti di ordinaria amministrazione.

Gli emolumenti
Essendo per sua natura oneroso, l’incarico da amministratore è retribuito. La legge
(art. 2389 c.c.) distingue tra i compensi, stabiliti dall’assemblee all’atto della nomina,
e rimunerazioni, spettanti a amministratori con particolari cariche in conformità dello
statuto e stabiliti dal consiglio di amministrazione stesso. Entrambi posso essere
costituiti da partecipazioni agli utili o dall’attribuzione del diritto di sottoscrivere a
prezzo predeterminati azioni o altri strumenti finanziari di futura emissione (stock
options). Annualmente l’organo amministrativo deve predisporre una relazione di
remunerazione, da rendere pubblica almeno 21 giorni prima dell’assemblea ed
articolata in due sezioni. La prima, sottoposta al voto dell’assemblea, illustra la politica

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della società in materia di remunerazioni, la seconda ha un contenuto di resoconto.
Solo questa prima sezione è sottoposta al voto dell’assemblea.

Funzionamento dell’organo amministrativo

Gli organi delegati


In caso di amministrazione affidata a più persone (l’amministratore unico non pome
problemi di tipo organizzativo), queste costituiscono il consiglio di amministrazione e
sono inderogabilmente vincolate al rispetto del metodo collegiale. Il consiglio cioè
opera tramite deliberazioni collegiali assunte a maggioranza nell’ambito di adunanze
dei suoi membri. Discussioni e deliberazioni vanno verbalizzate e raccolte nell’apposito
libro.
Il consiglio, se non lo fa l’assemblea, nomina il presidente, il quale disporrà della
facoltà di convocare il consiglio, fissarne l’o.d.g., coordinarne i lavori, assicurandosi
che ciascuno degli amministratori riceva adeguate informazioni.
Nonostante la legge preveda espressamente come il consiglio debba provvedere alla
gestione dell’impresa sociale, la legge stessa consente a quest’ultimo di delegare
proprie attribuzioni a un comitato esecutivo o a uno dei suoi membri.
Il ruolo del consiglio passa dall’essere organo di gestione diretta a organo di
monitoraggio sulla gestione. La delega delle attribuzioni può essere in favore di:
- Un organo delegato collegiale (comitato esecutivo)
- Un organo delegato monocratico (amministratore o consigliere delegato)
Ciò nonostante, il consiglio determina modalità, contenuto, limiti ed eventuali modalità
di esercizio della delega. Allo stesso modo, può sempre impartire direttive agli organi
delegati e avocare a sé operazioni rientranti nella delega. Di conseguenza il rapporto
incorrente tra consiglio e organo derivato è ben diverso da quello tra assemblea e
amministratori: l’organo delegato non ha una sfera esclusiva propria di competenza,
ma è soggetto alle direttive vincolanti del consiglio. Al consiglio spetta dunque, in virtù
della delega assembleare, un potere-dovere di vigilare sul generale andamento della
gestione. 

Di fatto però l’ambito della delega può essere molto ampio, arrivando fino a
comprendere l’intero ambito della gestione dell’impresa. Da ciò ne deriva una
distinzione tra amministratori esecutivi, impegnati giorno per giorno nella gestione
aziendale, e amministratori non esecutivi, esterni alla gestione, spesso reclutati per il
contributo che possono dare su aspetti specifici.
La diversificazione dei ruoli si riflette anche nello standard di diligenza richiesto che
non è più indiscriminatamente eguale per tutti i consiglieri, ma graduato in relazione
ai rispettivi profili professionali.

Effetto della delega di attribuzioni è una modifica nel regime della responsabilità degli
amministratori. In assenza di deleghe vige il principio per cui tutti gli amministratori
(salvo solo quelli immuni da colpa) rispondono solidalmente per le violazioni dei doveri
legali e statutari. In caso di deleghe, invece, la responsabilità è diversificata:

- per le violazioni relative ad attribuzioni proprie del comitato esecutivo o a funzioni in
concreto attribuite ad uno o più amministratori rispondono solo costoro;

- gli amministratori non esecutivi sono solidalmente responsabili con gli esecutivi se,
essendo a conoscenza di fatti pregiudizievoli, non hanno fatto quanto potevano per
impedirne il compimento o eliminarne o attuarne le conseguenze dannose;

- gli amministratori non esecutivi sono inoltre responsabili in caso di inosservanza del
dovere di vigilare e valutare il generale andamento della gestione.

Le deliberazioni consiliari
A differenza di quanto visto per l’assemblea, la legge non prevede un’analitica
regolamentazione dell’iter procedurale per le decisioni consiliari, la cui determinazione
è rimessa ai principi generali e all’autonomia statutaria. Le riunioni consiliari possono
svolgersi anche mediante mezzi di telecomunicazione, se ciò è previsto dallo statuto,
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mentre è vietato il voto per rappresentanza. Il quorum costitutivo di legge per le
delibere consiliari è rappresentato dalla maggioranza degli amministratori in carica; il
quorum deliberativo dalla maggioranza assoluta degli amministratori presenti.
Entrambi i quorum possono essere aumentati dallo statuto.

La riforma ha espressamente affrontato il tema generale dell’invalidità delle delibere
consiliari prevedendo un regime particolare di annullabilità delle medesime. In
particolare, le deliberazioni prese non in conformità della legge o dello statuto possono
essere impugnate:

- dal collegio sindacale e dagli amministratori assenti o dissenzienti entro 90 giorni
dalla data della deliberazione;

- dai soci, ma solo se si tratta di deliberazioni lesive dei loro diritti

In tal senso si applicheranno, in quanto compatibili, gli art. 2377 e 2378 c.c..

La rappresentanza
Mentre il potere di gestire la società spetta collegialmente al consiglio di
amministrazione (ed eventualmente, agli organi delegati), quello di rappresentanza,
cioè di assumere obbligazioni e acquistare diritti in nome e per conto della società in
modo per essa vincolante, spetta solo a chi abbia avuto la specifica attribuzione di tale
potere. Il potere di rappresentanza della società spetta all’amministratore a cui è
assegnato nell’atto costitutivo. Nel silenzio dell’atto, competerà a tutti gli
amministratori. Normalmente la designazione avviene per relationem alla carica
ricoperta (es. amministratore delegato o presidente). Ad ogni modo, si tratta di una di
quelle indicazioni statutarie per le quali il potere di modifica può essere attribuito al
consiglio di amministrazione stesso. In generale entro trenta giorni dalla nomina, gli
amministratori devono provvedere alla relativa iscrizione nel registro delle imprese e,
in quella sede, specificare a chi spetti la rappresentanza.
Al fine di tutelare i terzi, la rappresentanza “statutaria” è regolata da una disciplina
specifica. La prima forma di tutela consiste nell’inopponibilità delle cause di nullità o di
annullabilità della nomina degli amministratori che hanno la rappresentanza della
società dopo l’iscrizione nel registro delle imprese: la pubblicità crea un affidamento
che va protetto. La seconda consiste nel fatto che il potere di rappresentanza
attribuito agli amministratori dallo statuto o dalla deliberazione di nomina è generale.
In altri termini, il soggetto che entra in contatto con la società non ha bisogno di
controllare che l’amministratore che ne spende il nome abbia specificamente i poteri
per compiere quel particolare atto; è sufficiente verificare che tale soggetto disponga
del potere di rappresentanza legale. La società è quindi vincolata dal contratto
stipulato dal legale rappresentante anche se questi concludendo ha violato i limiti
statuari regolarmente resi pubblici tramite iscrizione nel registro dalle imprese. Si noti
come in tal senso si intendano i limiti di fonte convenzionale (statuto o decisione degli
organi competenti) e non quelli legali, ovvero quelli che derivano direttamente dalla
legge, al contrario pienamente opponibili ai terzi. Per liberarsi dal contratto deve
dimostrare che il terzo ha agito intenzionalmente a danno della società conoscendo
l’esistenza del limite di rappresentanza e approfittandosene. Al contempo, qualora il
legale violi i doveri impostigli dalla legge, questi potrà essere revocato o obbligato di
risarcimento del danno. Si tratta però di tutela interna.

Gli interessi degli amministratori e le operazioni con parti correlate


Gli amministratori sono tenuti a perseguire l’interesse sociale in quanto gestori delle
risorse investite dagli azionisti. Peraltro, gli amministratori stessi possono, e
normalmente hanno, interessi propri in vario rapporto con quello sociale. Tale caso è
oggetto di disciplina dell’art. 2391 c.c.. In tal caso l’amministratore deve anzitutto
dare notizia ai colleghi e ai sindaci di ogni interesse che egli, per conto proprio o di
terzi, abbia in una determinata operazione della società. In tale ipotesi e in caso in cui
ci sia un amministratore delegato, questi dovrà astenersi dal compiere l’operazione,
investendo della stessa l’organo collegiale.

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In caso di amministratore unico, invece, l’operazione può essere compiuta e
l’amministratore dovrà darne notizia ai soci alla prima assemblea utile; è comunque
necessario che, nel suo operato, l’amministratore persegua l’interesse della società.
Qualora il consiglio debba decidere su una questione per la quale un suo componente
ha denunziato un proprio interesse, la deliberazione deve adeguatamente motivare le
ragioni e la convenienza per la società dell’operazione. L’amministratore “interessato”
non è tenuto ad astenersi, ma può partecipare alla deliberazione.

La deliberazione del consiglio è, però, impugnabile qualora, oltre a essere almeno
potenzialmente pregiudizievole per la società, ricorra una delle seguenti condizioni: a)
non vi sia stata l’informazione sull’interesse personale oppure essa sia carente quanto
a natura, termini, origine e portata dell’interesse; b) non vi sia stata adeguata
motivazione; c) il voto dell’amministratore “interessato” sia stato determinante ai fini
del raggiungimento della maggioranza prescritta. 

L’impugnazione può essere proposta solo dagli amministratori e dal collegio sindacale
entro 90 giorni dalla data della deliberazione. In ogni caso sono fatti salvi i diritti
acquistati in buona fede dai terzi in base ad atti compiuti in esecuzione della
deliberazione. L’amministratore risponde altresì dei danni che siano derivati alla
società dall’utilizzazione a vantaggio proprio o di terzi di dati, notizie o opportunità di
affari appresi nell’esercizio del suo incarico.
La disciplina legale relativa a operazioni con parti correlate, ovvero di quelle
operazioni realizzate direttamente o indirettamente tramite società controllate, è assai
scarna e valida solo nelle s.p.a. aperte. Tale disciplina si limita a dire che devono
essere rispettati i principi generali stabiliti dalla Consob di trasparenza, correttezza
sostanziale e procedurale. Il regolamento Consob 17221/2010 ha dunque
stabilito alcuni principi generali:
- Con “operazione” si intende qualunque trasferimento di risorse, servizi, o
obbligazioni.
- Le parti correlate sono: a) i soggetti che, direttamente o indirettamente,
controllano, sono controllati da, o sono sottoposti a comune controllo con la società;
b) chi detiene una partecipazione nella società tale da poter esercitare su di essa
un’influenza notevole; c) i dirigenti, compresi gli amministratori; d) i fondi pensione
per i dipendenti della società;
- Per le operazioni di minore rilevanza quantitativa è sufficiente che prima
dell’approvazione dell’operazione vi sia l’espressione di un parere non vincolante
sull’interesse della società all’operazione e sulla e sulla convenienza e correttezza
sostanziale delle sue condizioni da parte di un comitato composto esclusivamente da
amministratori non esecutivi e non correlati;
- Per le operazioni di maggiore rilevanza, invece, la disciplina è molto più stringente.


I doveri e la responsabilità degli amministratori


Gli amministratori devono adempiere i doveri a loro imposti dalla legge o dallo statuto
con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze.
Lo standard è duplice: generale, per ogni amministratore, e la diligenza rafforzata, per
i soggetti dotati di particolari competenze in virtù delle quali sono nominate
amministratori.
I doveri degli amministratori si distinguono in generici (gestire diligentemente
l’impresa perseguendo l’interesse sociale) e specifici (es. tenere la contabilità,..). la
differenza si coglie nella prova dell’inadempimento: per quelli generici è necessario
dimostrare quale sarebbe stato il comportamento doveroso e che l’amministratore ne
ha tenuto uno diverso, per gli specifici è sufficiente l’inosservanza di un
comportamento predeterminato. Le sanzioni per inadempimento sono la revoca
dall’ufficio per giusta causa e la responsabilità per i danni che l’inadempimento abbia
eventualmente arrecato alla società.
La responsabilità degli amministratori è sempre da violazione di norme di legge o
clausole statutarie. Le scelte di gestione, anche se cattive, non possono essere

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sindacate. Gli amministratori comunque sono tenuti ad agire in modo informato e
devono adempiere i loro doveri con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e
dalle loro specifiche competenze. È sindacabili il modo in cui vengono prese le
decisioni.

Nei confronti della società gli amministratori rispondono solidalmente per i danni
derivanti dall’inosservanza dei doveri loro imposti, a meno che si tratti di attribuzioni
proprie del comitato esecutivo o di funzioni in concreto attribuite ad uno o più
amministratori. In mancanza di organi delegati, la solidarietà è esclusa solo per
l’amministratore che sia immune da colpa, abbia dato senza ritardo il suo dissenso nel
libro delle deliberazioni, e ne abbia dato immediatamente notizia per iscritto al
presidente del collegio sindacale. La responsabilità è contrattuale perché deriva da
obblighi predeterminati.

L’azione sociale di responsabilità contro gli amministratori è promossa in seguito a


deliberazione dell’assemblea ordinaria. La deliberazione implica l’automatica revoca
degli amministratori contro cui è proposta qualora sia presa con voto favorevole di
almeno un quinto del capitale sociale. Nel caso la maggioranza sia inferiore a un
quinto, il tribunale nomina un curatore speciale. L’azione si prescrive in 5 anni dalla
cessazione dell’amministratore dalla carica.

L’assegnazione all’assemblea della competenza sulla promozione dell’azione sociale di


responsabilità porta a rimettere la decisione allo stesso organo che ha eletto gli
amministratori. Per questo nel nostro ordinamento le azioni di responsabilità sono
fatte solo in due occasioni: in hp di cessioni di pacchetti di controllo della società,
senza che vengano concordate valide clausole di salvaguardia o in caso di fallimento
della società.
L’azione sociale può essere esercitata dai soci che rappresentino nelle spa chiuse
almeno un quinto del capitale sociale, in quelle aperte almeno un quarantesimo del
capitale sociale. I soci che hanno agito possono rinunciare all’azione o transigerla;
però ogni corrispettivo per la rinuncia o la transazione deve andare a vantaggio della
società. E’ inoltre possibile che sia la società stessa a rinunziare o a transigere alle
stesse condizioni già viste per l’azione deliberata dall’assemblea.

L’azione sociale può essere promossa anche a seguito di deliberazione del collegio
sindacale con la maggioranza dei due terzi dei suoi componenti.

Gli amministratori rispondo verso i creditori sociali per l’inosservanza degli obblighi
inerenti ala conservazione dell’integrità del patrimonio sociale. Quando il patrimonio
risulta insufficiente, i creditori, che esercitano una pretesa fissa, possono promuovere
l’azione. La tesi predominante sostiene che l’azione dei creditori sia di natura
contrattuale.

L’azione menzionata nell’art. 2395 c.c. ha un presupposto radicalmente diverso in


quanto si fonda sul compimento di atti colposi o dolosi degli amministratori che
abbiano provocato un danno diretto al patrimonio del singolo socio o del terzo.
Esempio classico è quello degli amministratori che abbiano predisposto una situazione
patrimoniale falsa con la quale inducono un soggetto a sottoscrivere azioni della
società o ad accordarle un finanziamento. Per via di tale eterogeneità con le altre
azioni, l’art. 2395 c.c. prevede che le disposizioni dei precedenti articoli non
pregiudicano il diritto al risarcimento del danno spettante al singolo socio o al terzo.
L’azione si prescrive in 5 anni dal compimento dell’atto che ha pregiudicato il socio o il
terzo.

Le regole fino ad ora viste sulla responsabilità non riguardano solo l’amministratore di
diritto, ma anche quello di fatto. Questa situazione è stata chiarificata dal alcune
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sentenze della Corte di cassazione che hanno parificato le due situazioni, sulla base
dell’idea che quel conta è il dato sostanziale delle funzioni effettivamente svolte. Le
stesse disposizioni si applicano anche ai direttori generali.

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LEZIONE XXVII. S.P.A.: I CONTROLLI NEL SISTEMA TRADIZIONALE

Un accurato sistema di controlli interni ed esterni sulla gestione e sull’affidabilità delle


informazioni, soprattutto di contabilità, è necessario per il corretto funzionamento
delle s.p.a.
Con la riforma è stata operata la scissione tra controllo di amministrazione affidato al
collegio sindacale e controllo contabile assegnato a un revisore legale dei conti, una
figura esterna alla società. A fianco di questi è rimasto il controllo dell’autorità
giudiziaria.

Il collegio sindacale
Funzione specifica del collegio sindacale (art. 2403 c.c.) è di vigilare su:
1. L’osservanza della legge e dello statuto;
2. Il rispetto dei principi di corretta amministrazione;
3. L’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile adottato dalla
società e sul suo concreto funzionamento.
A questi compiti in alcuni casi eccezionali si affiancano l’ipotesi di amministrazione e di
consulenza agli amministratori. Lo statuto, in altri casi specifici, come quelli relativi
alle s.p.a. che non siano qualificati come enti di interesse pubblico o a regime
intermedio, può prevedere che il collegio sindacale eserciti anche la revisione legale
dei conti a condizione che la società in questione non sia tenuta al bilancio
consolidato. In sostanza, questa ultima ipotesi è molto ricorrente in Italia.
Nelle s.p.a. con azioni quotate oltre alle funzioni precedentemente dette il collegio
deve vigliare: a) sull’adeguatezza delle disposizioni impartite alle società controllate
perché forniscano alla controllante quotata tutte le notizie necessarie per adeguarsi
agli obblighi di informazione al pubblico previsti dalla legge; b) sulle modalità di
concreta attuazione delle regole di governo societario previste da codici redatti da
società di gestione o altro cui la società dichiara di attenersi.
Per ciò che concerne il discorso sulla verifica del rispetto dei principi di corretta
amministrazione, è utile distinguere tra il cosa e il come deve essere valutato;
oggetto di valutazione è il merito dell’amministrazione; il criterio sono i principi
di corretta amministrazione (diligenza). P.e. i sindaci non possono sindacare se
sia meglio l’offerta di x o di y, ma devono censurare gli amministratori che non
abbiano valutato tutti gli elementi necessari prima di prendere la decisione.

Il collegio sindacale si compone di 3 o 5 membri effettivi, soci o non soci, e devono


essere nominati due sindaci supplenti. Almeno un effettivo e uno supplente devono
essere scelti tra gli iscritti nel registro dei revisori legale dei conti istituito presso il
Ministero dell’economia; i restanti membri devono essere scelti fra gli iscritti negli albi
di avvocati, commercialisti, ragionieri, periti commerciali, consulenti di lavoro o tra
professori universitari di economia o giurisprudenza. Se il collegio svolge controllo
contabili tutti i sindaci devono essere iscritti nel registro dei legali dei conti.
Non possono essere eletti e se, eletti decadono dalla carica di sindaco: 1) coloro che si
trovano nelle condizioni dell’art. 2382 c.c. (interdetti, inabilitati, falliti, etc..); 2)
coniuge, parenti e affini entro quarto grado degli amministratori della società e di
quelle controllate; 3) coloro che sono legate alla società o a quelle controllate o
controllanti da un rapporto di lavoro o da rapporto continuativo di consulenza o di
prestazione d’opera retribuita. La tendenza è di evitare che assuma la carica di
sindaco un soggetto che non sia indipendente.
Nella disciplina del cc non sono previsti limiti al cumulo degli incarichi per i sindaci.
Tuttavia devono essere rei noti all’assemblea gli incarichi ricoperti presso altre società.
Per le s.p.a. con azioni quotate la Consob ha stabilito dei limiti.
La nomina dei sindaci spetta all’assemblea con sistema maggioritario, se non è
previsto diversamente, ad eccezioni i casi di nomina dei primi sindaci all’atto
costitutivo, la possibilità che lo statuto preveda la nomina di un sindaco da parte dei
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portatori di altri strumenti finanziari; la possibilità concessa a stato o ente pubblico di
nominare uno più sindaci.
Nel collegio sindacale si applicano le quote-rosa. Nomina e cessazione devono essere
iscritte nel registro delle imprese entro 30 giorni. I sindaci rimangono in carica per tre
esercizi e scadono alla data dell’assemblea convocata per l’approvazione del bilancio
del terzo esercizio. Oltre alla scadenza, sono cause di cessazione: 1) la morte; 2) la
revoca, ma solo per giusta causa; 3) la rinuncia; 4) la decadenza per cause di
ineleggibilità. Al verificarsi di queste cause, subentrano i supplenti che rimangono in
carica fino all’assemblea successiva, la quale provvederà alla sostituzione definitiva.
La retribuzione annuale dei sindaci deve essere determinata dall’assemblea all’atto
della nomina per l’intero periodo di durata del loro ufficio.

I sindaci hanno una serie di poteri che, essendo tali per la tutela degli interessi altrui,
si configurano come doveri:
1) Partecipare alle assemblee e alle riunioni di consiglio di amministrazione e del
comitato esecutivo;
2) Il collegio sindacale può chiedere agli amministratori notizie sull’andamento
delle operazioni sociale o su determinati affari;
3) Il collegio può scambiare informazioni con i corrispondenti organi delle società
controllate in merito all'amministrazione;
4) In qualsiasi momento i sindaci possono procedere a atti di ispezione;
5) Il collegio sindacale può convocare l’assemblea se trova fatti censurabili di
rilevante gravità.

Il collegio deve predisporre annualmente una relazione che va depositata presso la


sede sociale nei quindici giorni che precedono l’assemblea convocata per
l’approvazione del bilancio. Con questo rapporto il collegio riferisce ai soci sui risultati
dell’esercizio sociale, formula le sue osservazioni e proposte in ordine di bilancio e alla
sua approvazione. Può inoltre presentare denuncia contro i soci che sospetta abbiano
compiuto gravi irregolarità. Inoltre, il collegio può promuovere con la maggioranza dei
due terzi dei suoi componenti l’azione di responsabilità sociale contro gli
amministratori in tutte le s.p.a..

Salvo alcuni casi, l’organo sindacale opera collegialmente. Il presidente del collegio è
nominato dall’assemblea; le riunioni devono avvenire almeno ogni 90 giorni. L’assenza
ingiustificata a due riunioni in un esercizio comporta la decadenza. Il quorum
costitutivo è dato dalla presenza della maggioranza dei sindaci, il quorum deliberativo
dalla maggioranza assoluta dei presenti.

I sindaci devono adempiere i loro doveri con la professionalità e la diligenza richieste
dalla natura dell’incarico. A loro carico sono previste: la c.d. responsabilità esclusiva,
qualora non osservino l’obbligo di verità nelle loro attestazioni oppure non conservino
il segreto sui fatti e sui documenti di cui hanno conoscenza per ragione del loro ufficio;
la c.d. responsabilità concorrente, in base alla quale rispondono solidalmente con gli
amministratori per i fatti o le omissioni di questi, quando il danno non si sarebbe
prodotto se essi avessero vigilato in conformità degli obblighi della loro carica.
All’azione di responsabilità contro i sindaci si applicano, in quanto compatibili, le
disposizioni previste per gli amministratori.

Il controllo contabile
La materia di revisione contabile è stata oggetto di varie modifiche volte a porre fine
ai ricorrenti scandali finanziari in Italia e all’estero. L’ultima di queste è stata il d.lgs.
39/2010 che ha dato attuazione alla direttiva UE relativa alla revisione legale dei
conti annuali e dei conti consolidati. Il decreto del 2010 ha definito la distinzione tra
spa ordinarie e enti di interesse pubblico in materia di revisione dei conti. Gli enti di

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interesse pubblico sono le spa con azioni quotate, società emittenti di strumenti
finanziari diffusi tra il pubblico, banche e assicurazioni, etc..
Particolare in questi enti è la previsione di un apposito comitato per il controllo interno
e la revisione contabile che deve vigilare sul processo di informativa finanziaria,
sull’efficacia dei sistemi di controllo interno, di revisione, e di gestione del rischio, sulla
revisione legale dei conti annuali, sull’indipendenza del revisore dei conti.. Detto
organo, secondo il legislatore italiano, si identifica con il collegio sindacale.

Ad eccezione delle società che non sono tenute al bilancio consolidato, tutte le spa
devono attribuire il controllo contabile a un revisore esterno. Questi può essere sia un
revisore persona fisica sia una società di revisione, purché il revisore sia iscritto
nell’apposito registro tenuto dal Ministero dell’economia.

Salva l’indicazione iniziale in sede di atto costitutivo, l’incarico di controllo contabile è


conferito, previo parere del collegio sindacale, dall’assemblea la quale determina
altresì il corrispettivo per l’intera durata dell’incarico. Nelle società con azioni quotate
la nomina va trasmessa alla Consob.
Il revisore nominato ha l’obbligo di consultare il precedente revisore. L’incarico ha la
durata di 3 esercizi, con scadenza alla data dell’assemblea convocata per
l’approvazione del bilancio relativo al terzo esercizio dell’incarico. Nelle società con
azioni quotate l’incarico ha la durata fissa di 9 esercizi. Qualora sia stato affidato a una
società di revisione, questa deve nominare un responsabile della revisione.

L’incarico può essere revocato solo per giusta causa, sentito il parere del collegio
sindacale. Il revisore può dimettersi, salvo il risarcimento del danno e in tempi che
permettano alla società di sostituirlo. La legge non prevede cause di ineleggibilità e di
decadenza, tuttavia pone alcuni principi.

vi è poi una lista nera di non-audit che il revisore non possono prestare in favore della
società: es. la tenuta dei libri contabili.
I revisori degli enti di interesse pubblico non può essere stato a sua volta Questi
revisori devono pubblicare annualmente sul sito internet proprio la relazione di
trasparenza. I revisori sono sottoposti a controlli di qualità.

Le funzioni del revisore o della società incaricata del controllo contabile consistono:

- nel verificare con periodicità almeno trimestrale la regolare tenuta della contabilità
sociale;

- nel verificare se il bilancio di esercizio corrisponde alle risultanze delle scritture
contabili;

- nell’esprimere con apposita relazione un giudizio sul bilancio.

La relazione sui bilanci deve attenersi alla seguente tipologia standardizzata dalla
legge:

- giudizio (positivo) senza rilievi se il bilancio di esercizio e il bilancio consolidato sono
conformi alle norme che ne disciplinano i criteri di redazione e se rappresentano in
modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale;

- giudizio (positivo) con rilievi;

- giudizio negativo;

- impossibilità di esprimere un giudizio.

In tutti i casi diversi dal primo la società di revisione deve esporre analiticamente nella
relazione i motivi della propria decisione. Nella società quotate, nella terza e quarta
ipotesi deve essere informata immediatamente la Consob.

Gli effetti del giudizio di bilancio incidono sulla legittimazione a impugnare la
deliberazione dell’assemblea (o del consiglio di sorveglianza nel sistema dualistico) per
vizi attinenti alla mancata conformità del bilancio alle norme che ne disciplinano i
criteri di redazione:

- per le società con azioni non quotate, la legittimazione a impugnare la deliberazione
di approvazione del bilancio su cui il revisore non ha formulato rilievi spetta a tanti
soci che rappresentino almeno il 5% del capitale sociale;

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- per le società con azioni quotate in Italia, la soglia di legittimazione è la medesima,
ma si applica pure nel caso in cui la società di revisione abbia formulato giudizio
positivo con rilievi.

Il revisore o la società incaricata del controllo contabile può chiedere agli
amministratori documenti e notizie utili al controllo e può procedere a ispezioni.

Come si è già ricordato, il collegio sindacale e i soggetti incaricati del controllo
contabile si scambiano tempestivamente le informazioni rilevanti per l’espletamento
dei rispettivi compiti.

I soggetti incaricati del controllo contabile sono responsabili nei confronti della società,
dei soci e dei terzi per i danni derivanti dall’inadempimento ai loro doveri.

L’obbligazione del revisore non è di risultato, ma di mezzi; non risponde cioè per il
semplice fatto di avere rilasciato giudizio positivo su un bilancio poi risultato falso, ma
solo se tale giudizio sia stato rilasciato senza osservare la perizia e diligenza richiesta
a un soggetto altamente professionale.

Particolare è la previsione per cui insieme alla società di revisione sono responsabili in
solido le persone fisiche che hanno effettuato il controllo contabile.

L’azione di responsabilità di prescrive in 5 anni.

I controlli esterni
Ormai abolita l’omologazione, l’unica forma di controllo giudiziale sulla vita delle s.p.a.
è quella disciplinata nell’art. 2409 c.c., peraltro molto ridimensionata dalla riforma.

In base a tale norma, se vi è fondato sospetto che gli amministratori, in violazione dei
loro doveri, abbiano compiuto gravi irregolarità nella gestione che possano arrecare
danno alla società, i soggetti legittimati possono denunziarne i fatti al tribunale.

Non è più sufficiente, dunque, la grave irregolarità, ma è necessario che questa sia,
almeno potenzialmente, pregiudizievole per la società.

Legittimati alla denuncia sono: - i soci che rappresentano 1/10 o, nelle società aperte,
1/20 del capitale sociale; - l’organo interno di controllo; - nelle sole s.p.a. aperte, il
pubblico ministero.

Il tribunale può ordinare l’ispezione dell’amministrazione della società a spese dei soci
richiedenti.

Vi è però una sorta di “ultima spiaggia” per evitare l’ispezione: il tribunale non può
ordinarla e deve sospendere per un periodo determinato il procedimento se
l’assemblea sostituisce “spontaneamente” gli amministratori e i sindaci con soggetti di
adeguata professionalità, che si attivino senza indugio per accertare se le violazioni
sussistono e, in caso positivo, per eliminarne, riferendo al tribunale sugli accertamenti
e le attività compiute. Se le violazioni denunziate sussistono, il tribunale può disporre
gli opportuni provvedimenti provvisori.

La possibilità di intervento del tribunale ha quindi un’estensione alquanto vasta
giacché il contenuto del provvedimento non è predeterminato.

Nei casi più gravi, il tribunale può giungere fino a revocare gli amministratori, ed
eventualmente anche i sindaci, e a nominare un amministratore giudiziario,
determinandone i poteri e la durata.

In ogni caso l’amministratore giudiziario può proporre l’azione di responsabilità contro
gli amministratori e i sindaci.

Nel vecchio sistema, ove la minoranza non aveva il potere di esercitare l’azione
sociale, questo era l’unico caso in cui l’azione di responsabilità poteva essere
esercitata senza il consenso della maggioranza.

Oggi, considerata la possibilità dell’azione sociale, esercitata dalla minoranza, la
norma ha perso gran parte del suo antico mordente.

Prima della scadenza del suo incarico l’amministratore giudiziario rende conto al
tribunale che lo ha nominato; convoca e presiede l’assemblea per la nomina dei nuovi
amministratori e sindaci o per proporre, se del caso, la messa in liquidazione della
società.


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Controlli esterni ulteriori sono effettuati dalle Autorità di vigilanza preposte ai diversi
settori.

Le principali sono: Banca d’Italia per le s.p.a. bancarie; Isvap per le s.p.a.
assicurative; Consob per le s.p.a. svolgenti attività di intermediazione nel mercato
mobiliare e per le s.p.a. emittenti strumenti finanziari quotati.

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LEZIONEXXVIII. S.P.A. : I SISTEMI ALTERNATIVI DI AMMINISTRAZIONE E
CONTROLLO

Il sistema dualistico
Lo statuto può prevedere che l’amministrazione e il controllo siano esercitati, invece
che da organo amministrativo e collegio sindacale, da un consiglio di gestione e da un
consiglio di sorveglianza. Si tratta del sistema dualistico, di ispirazione tedesca. Si noti
come in Germania il consiglio di sorveglianza veda anche la presenza, oltre che dei
componenti eletti dai soci, anche di membri designati dai lavoratori, caratteristica che
non è però stata importata nel sistema italiano. La principale caratteristica di questo
sistema attiene alla nomina di secondo grado dei componenti del consiglio di gestione
(i gestori). Ciò dovrebbe consentire, nelle intenzioni del legislatori, una netta
separazione tra proprietà (dei soci) e potere (organi sociali) in grado di attuare una
migliore specializzazione dei ruoli soprattutto nelle società di rilevanti dimensioni.

L’assemblea nel sistema dualistico


Il sistema dualistico comporta una modifica nelle competenze dell’assemblea
ordinaria. Questa:
- Nomina e revoca i consiglieri di sorveglianza;
- Determina il compenso a essi spettante, se non è stabilito dallo statuto;
- Delibera sulla responsabilità dei consiglieri di sorveglianza;
- Delibera sulla distribuzione degli utili;
- Nomina il revisore;
- Delibera l’azione di responsabilità contro i gestori;
- Se lo prevede lo statuto, stabilisce il compenso dei gestori;
- Approva il bilancio di esercizio, se previsto dallo statuto, in caso di mancata
approvazione da parte del consiglio di sorveglianza, o se lo richieda almeno un terzo
dei componenti del consiglio di gestione o di quello di sorveglianza;
- Ha competenze su tutte le altre materie su cui è competente nel sistema
tradizionale.
Per quanto riguarda l’assemblea straordinaria, non presenta differenze rispetto al
sistema tradizionale.

Il consiglio di gestione nel sistema dualistico


L’art. 2380 c.c., comma 3, chiarisce come, salvo che sa diversamente stabilito, le
disposizioni che fanno riferimento agli amministratori nel sistema tradizionale si
applicano al consiglio di gestione del sistema dualistico. Lo stesso accade per la
disciplina cui devono attenersi gli amministratori. A esso spetta la gestione
dell’impresa e dunque di fatto compie le operazioni necessarie per l’attuazione
dell’oggetto sociale.
È un organo necessariamente collegiale: i suoi componenti, anche non soci, non
possono essere meno di due. Nonostante la legge non permetta la formazione di un
comitato esecutivo, è permessa la delega di attribuzioni da parte del consiglio a uno o
più dei suoi componenti.
Le regole sulla nomina sono analoghe a quelle del sistema tradizionale, fatta eccezione
per la sostituzione del consiglio di sorveglianza all’assemblea come “elettore naturale”.
Allo stesso modo, nel caso delle società quotate e differentemente da quanto previsto
per il sistema tradizionale, non è prevista la presenza necessaria di membri di
minoranza.
La durata della carica non può eccedere i tre esercizi. I gestori sono rieleggibili.
Come la nomina, anche la revoca dei gestori spetta al consiglio di sorveglianza.
Le regole che attengono al funzionamento, alle modalità con le quali vengono prese le
decisioni, e alla responsabilità del consiglio stesso sono disciplinati dalle norme sul
consiglio di amministrazione. L’impugnazione delle deliberazioni è proponibile anche
dal consiglio di sorveglianza, che può anche proporre un’azione sociale, con almeno la
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maggioranza dei componenti. Nel particolare caso in cui tale deliberazione del
consiglio di sorveglianza sia assunta a maggioranza qualificata (2/3), si procede
immediatamente alla revoca dall’ufficio dei gestori, alla cui sostituzione provvede lo
stesso consiglio di sorveglianza.

Il consiglio di sorveglianza nel sistema dualistico


Il consiglio di sorveglianza è l’organo che caratterizza il sistema dualistico perché
concentra le competenze che nel sistema ordinario spettano al collegio sindacale e in
parte all’assemblea. (art. 2409-terdecies c.c., comma 1):
- Nomina e revoca i componenti del consiglio di gestione e ne determina il
compenso;
- Approva il bilancio di esercizio e se previsto quello consolidato;
- Vigila sull’osservanza della legge e dello statuto, sul rispetto dei principi di
corretta amministrazione e sull’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo
e contabile e sul concreto funzionamento;
- Promuove l’esercizio dell’azione di responsabilità nei confronti dei componenti
del consiglio di gestione;
- Presenta la denuncia al tribunale;
- Riferisce per iscritto almeno una volta all’anno all’assemblea sull’attività di
vigilanza svolta, sulle omissioni e sui fatti censurabili rilevati.
Se previsto dallo statuto inoltre delibera in ordine alle operazioni strategiche e ai piani
industriali e finanziari della società predisposti dal consiglio di gestione.
Negli enti di interesse pubblico, a condizione che non gli siano attribuite le funzioni di
cui sopra, il consiglio di sorveglianza si identifica con il comitato per il controllo interno
e la revisione contabile. Alternativamente, il consiglio di sorveglianza non può mai
esercitare il controllo contabile, che è sempre inderogabilmente svolto dal revisore
esterno.
In linea generale, il consiglio di sorveglianza è disciplinato da disposizioni che in parte
derogano, in parte ripetono, in parte rimandano a quelle per il collegio sindacale.

Il numero dei componenti del consiglio di sorveglianza è determinato dallo statuto,


comunque in misura non inferiore a 3; non è necessario che siano soci.

La nomina, ad eccezione dei primi componenti, nominati nell’atto costitutivo, è di
competenza dell’assemblea ed avviene con le stesse regole previste per l’organo
amministrativo tradizionale. Per espressa disposizione di legge i soci che siano
componenti del consiglio di gestione non possono votare nelle deliberazioni riguardanti
la nomina, la revoca o la responsabilità dei consiglieri di sorveglianza. Benché al
consiglio di sorveglianza siano attribuite anche competenze tipiche dell’assemblea, la
legge non richiede che nell’organo siano rappresentati interessi ulteriori rispetto a
quelli dei soci detentori della maggioranza dei voti assembleari.

La durata della carica è uguale a quella del collegio sindacale: 3 esercizi. Salvo diversa
disposizione dello statuto, i componenti del consiglio di sorveglianza sono rieleggibili.
In materia di revoca il legislatore si è trovato ad affrontare un dilemma delicato.

Una regola analoga a quella degli amministratori (revocabilità anche senza
giusta causa salvo il risarcimento del danno) avrebbe significato diminuire la
garanzia di indipendenza di un organo che è chiamato a esercitare anche una
funzione di vigilanza. Una disposizione simile a quella del collegio sindacale
(revocabilità solo per giusta causa) avrebbe invece significato blindare il
controllo della società per tutta la durata del consiglio di sorveglianza.

Il punto di equilibrio è stato rinvenuto nell’applicare la regola propria degli
amministratori temperata dalla richiesta di una maggioranza particolare per la
validità della delibera assembleare di revoca: almeno 1/5 del capitale sociale.

Se nel corso dell’esercizio vengono a mancare uno o più componenti del
consiglio di sorveglianza, l’assemblea provvede senza indugio alla loro
sostituzione.

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Almeno un componente del consiglio deve essere scelto tra gli iscritti nel registro dei
revisori contabili; e non può essere eletto chi:

- si trova nelle stesse condizioni di ineleggibilità previste per i membri del collegio
sindacale;

- è componente del consiglio di gestione;

- è legato alla società o alle società da questa controllate da un rapporto di lavoro o da
un rapporto continuativo di consulenza o di prestazione d’opera.

Eventuali rapporti con la società precludono la nomina solo se danno luogo a una
relazione tale da compromettere l’indipendenza del soggetto. Il compenso dei
componenti è regolato come quello dei sindaci.

Il consiglio di sorveglianza opera secondo il metodo collegiale. Il suo presidente è


eletto dall’assemblea e lo statuto ne determina i poteri. Il consiglio deve riunirsi
almeno ogni 90 giorni anche utilizzando mezzi di telecomunicazione.

È regolarmente costituito con la presenza della maggioranza dei membri e delibera a
maggioranza assoluta dei presenti. Delle riunioni deve redigersi verbale.

Per le impugnazioni si applicano le norme previste per le decisioni del consiglio di
amministrazione nel sistema tradizionale, in quanto compatibili. La deliberazione con
cui viene approvato il bilancio di esercizio, oltre che dai consiglieri assenti e
dissenzienti, può venire impugnata anche dai soci.

La limitazione alla sola annullabilità è coerente con il sistema delle impugnazioni delle
delibere consiliari, ma non con quanto comunemente si ritiene a proposito della
delibera assembleare di approvazione di un bilancio non conforme ai criteri di legge,
che viene reputata nulla.

I componenti del consiglio di sorveglianza possono assistere alle adunanze del


consiglio di gestione e devono partecipare alle assemblee. Non è però richiamata la
decadenza sanzionatoria prevista a carico dei sindaci per la mancata partecipazione a
tali riunioni. Gli altri poteri e doveri sono in gran parte frutto dei rinvii contenuti
nell’art. 2409 quaterdecies c.c.. Conseguentemente il consiglio di sorveglianza
potrà procedere alla richiesta di informazioni, da rivolgersi sia ai gestori sia ai
corrispondenti organi delle società controllate. Allo stesso modo è prevista la disciplina
del controllo sostitutivo.

Come il collegio sindacale, anche il consiglio di sorveglianza subisce alcune variazioni


di disciplina in relazione alle società con azioni quotate. Le norme del TUF che fanno
riferimento al collegio sindacale si applicano anche al consiglio di sorveglianza e ai
suoi componenti.

In tal senso la Consob ha stabilito, attraverso un regolamento, le modalità per
l’elezione di un componente del consiglio di sorveglianza da parte dei soci di
minoranza; Allo stesso modo ha stabilito i limiti al cumulo degli incarichi e
l’obbligatorietà del rispetto dei requisiti di indipendenza e onorabilità.

A differenza di quanto previsto per il collegio sindacale, e in ragione delle funzioni di
alta amministrazione proprie del consiglio di sorveglianza, la legge non prescrive che il
presidente dell’organo sia scelto tra i componenti nominati dalle minoranze. Sono
previste le quote-rosa. In deroga alla norma del codice le cause di ineleggibilità sono
qui ricalcate esattamente su quelle previste per il collegio sindacale.
Alle ordinarie competenze del consiglio si aggiungono quelle di vigilare: a)
sull’adeguatezza delle disposizioni impartite alle società controllate per rispettare gli
obblighi informativi; b) sulle modalità di concreta attuazione delle regole di governo
societario previste da codici di comportamento cui la società dichiara di attenersi.

Nelle società con azioni quotate in Italia, il consiglio di sorveglianza è tenuto a
comunicare senza indugio alla Consob le irregolarità riscontrate nell’attività di
vigilanza.

Di converso, la Consob, se ha fondato sospetto di gravi irregolarità nell’adempimento
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dei doveri del consiglio di sorveglianza, può denunziare i fatti al tribunale. I gestori
devono riferire al consiglio di sorveglianza, con periodicità almeno trimestrale,
sull’attività svolta e sulle operazioni di maggior rilievo economico, finanziario e
patrimoniale, effettuate dalla società. I componenti del consiglio di sorveglianza
possono, anche individualmente, chiedere al presidente la convocazione dell’organo.

Riguardo agli altri organi, il consiglio di sorveglianza può convocare direttamente
l’assemblea dei soci e il consiglio di gestione, anche individualmente.

Il sistema monistico
Nel sistema monistico, ulteriore alternativa al sistema tradizionale, l’amministrazione e
il controllo sono esercitati rispettivamente dal consiglio di amministrazione e da un
apposito comitato costituito al suo interno.

Si realizza dunque un modello di governo societario semplificato, che tende a
privilegiare la circolazione delle informazioni tra l’organo amministrativo e il comitato
deputato al controllo. All’evidente risparmio di tempo e di denaro si contrappone però
il pericolo derivante dalla maggiore contiguità tra controllori e controllati prevista in
questo sistema rispetto agli altri.

L’assemblea in questo sistema ha poteri analoghi a quella nel sistema tradizionale.


Al consiglio di amministrazione si applicano le disposizioni che fanno riferimento
agli amministratori. Tipica dell’organo amministrativo nel sistema monistico è la sua
pluripersonalità: è, infatti, necessariamente un collegio composto almeno da tanti
membri quanti sono i componenti del comitato di controllo più uno.

Almeno ⅓ dei componenti del consiglio di amministrazione deve essere in possesso dei
requisiti di indipendenza stabiliti per i sindaci e, se lo statuto lo prevede, di quelli
previsti dai codici di comportamento.
Tale sistema può prestarsi a diverse problematiche relative ai raparti di interessi
interni alla società stessa. 

Nei paesi da cui abbiamo importato sia il sistema monistico sia la figura
dell’amministratore indipendente, la dispersione dell’investimento azionario provoca
un indebolimento della posizione dei soci rispetto a quella dei managers e fa sì che
l’effettivo comando sia allocato in favore di questi ultimi, a sfavore dei legittimi
proprietari. In un sistema come il nostro, invece, dove invece la proprietà azionaria è
altamente concentrata, il principale problema non concerne la dialettica managers/
soci, bensì quella soci di maggioranza/soci di minoranza. Conseguentemente è
necessario che gli amministratori “indipendenti” vengono nominati dall’assemblea e,
dunque, di fatto, proprio dai soci di controllo. Nelle società con azioni quotate
perlomeno uno dei componenti del consiglio è espresso dalla lista di minoranza.

Il comitato di controllo sulla gestione è regolato dalle norme del codice che fanno
riferimento ai sindaci. Salvo diversa disposizione dello statuto, la determinazione del
numero e la nomina dei componenti del comitato per il controllo sulla gestione spetta
al consiglio di amministrazione.
Componenti del comitato possono essere solo amministratori aventi il requisito di
onorabilità e professionalità, di indipendenza e che non siano membri del comitato
esecutivo. Almeno uno deve essere scelto fra gli iscritti nel registro dei revisori
contabili.
La circostanza che gli amministratori membri del comitato non possano
svolgere, neppure di mero fatto, funzioni attinenti alla gestione dell’impresa
sociale pone il problema di accertare se nel sistema monistico sia addirittura
necessario che il consiglio deleghi le proprie attribuzioni gestorie a un comitato
esecutivo o a uno o più dei suoi componenti. In caso contrario, infatti, i membri
del comitato, in quanto amministratori, parteciperebbero alla gestione.

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Ove venga meno un componente del comitato per il controllo sulla gestione, il
consiglio di amministrazione provvede senza indugio a sostituirlo scegliendo tra gli
altri amministratori in possesso dei requisiti previsti.
Il comitato per il controllo sulla gestione:

- elegge, al suo interno, il presidente;

- vigila sull’adeguatezza della struttura organizzativa della società, del sistema di
controllo interno e del sistema amministrativo e contabile;

- svolge gli ulteriori compiti affidatigli dal consiglio di amministrazione.

Non gli spetta la mansione di vigilare sul rispetto dei principi di corretta
amministrazione; del resto, gli stessi membri del comitato sono amministratori e, in
quanto tali, devono comunque valutare il generale andamento della gestione e così
certamente anche la sua conformità ai principi di corretta amministrazione. Ciò
nonostante, il consiglio potrà assegnare al comitato ulteriori compiti e poteri, anche
fra quelli non previsti dalla legge. 

Il comitato non potrà però mai esercitare il controllo contabile che è sempre
inderogabilmente svolto dal revisore esterno, a meno che non si tratti di enti di
interesse pubblico.
In tal caso, ancora una volta, il comitato per il controllo sulla gestione si identifica con
il comitato per il controllo interno e la revisione contabile.

Per quanto riguarda il comitato di controllo nelle società con azioni quotate, la Consob
stabilisce con regolamento i limiti al cumulo degli incarichi. I requisiti di indipendenza
e onorabilità sono i medesimi previsti per il collegio sindacale. L’amministratore eletto
dai soci di minoranza fa parte di diritto del comitato e a lui spetta la presidenza. Le
cause di ineleggibilità ricalcano quelle dell’art. 2399 c.c. previste per i membri del
collegio sindacale.

Alle ordinarie competenze del comitato si aggiungono quelle di vigilare
sull’adeguatezza delle disposizioni impartite dalla società alle società controllate per
rispettare gli obblighi informativi e sulle modalità di concreta attuazione delle regole di
governo societario previste da codici di comportamento cui la società dichiara di
attenersi. Il comitato di controllo è tenuto a comunicare senza indugio alla Consob le
irregolarità riscontrate nell’attività di vigilanza.

La Consob, se ha fondato sospetto di gravi irregolarità nell’adempimento dei doveri di
vigilanza del comitato, può denunziare i fatti al tribunale. Gli organi delegati devono
riferire, con periodicità almeno trimestrale, al comitato di controllo sull’attività svolta e
sulle operazioni di maggior rilievo economico, finanziario e patrimoniale, effettuate
dalla società. I componenti del comitato di controllo possono, anche individualmente,
chiedere al presidente la convocazione del comitato.

Riguardo agli altri organi, il comitato di controllo può convocare il consiglio di
amministrazione o il comitato esecutivo.

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LEZIONE XXIX. S.P.A. : LE MODIFICAZIONI STATUTARIE. LA SOCIETÀ IN
ACCOMANDITA PER AZIONI

Procedimento, pubblicità ed effetti delle modificazioni statutarie


Il regime delle modificazione del contratto di s.p.a., in cui si manifesta la sua natura
organizzativa, viene rimesso ala volontà della maggioranza qualificata delle parti.
Competente a modificare lo statuto è l’assemblea straordinaria, ad eccezioni dei casi
in cui:
- Lo statuto attribuisca il compito all’organo amministrativo, al consiglio di
sorveglianza, al consiglio di gestione per le deliberazioni su fusioni, istituzione o
soppressione di sedi secondarie, l’indicazione di quali tra gli amministratori detengano
la facoltà di rappresentanza della società, la riduzione del capitale in caso di recesso
del socio, ecc…
- lo statuto, determinandone le condizioni temporali (massimo 5 anni) e
operative, può attribuire agli amministratori la facoltà di emettere in una o più volte
obbligazioni convertibili o di aumentare il capitale;
- l’art. 2445 c.c., comma 2 prevede una competenza eccezionale a deliberare la
riduzione obbligatoria per perdite rilevanti del capitale sociale in favore dell’organo
deputato all’approvazione del bilancio (assemblea ordinaria o consiglio di
sorveglianza) o, in mancanza, addirittura dell’autorità giudiziaria.
La delibera di modificazione statutaria, sia essa dell’assemblea o di altro organo, deve
sempre essere verbalizzata da notaio il quale, entro 30 giorni, verificato
l’adempimento delle condizioni stabilite dalla legge, ne richiede l’iscrizione del registro
delle imprese allegando le eventuali autorizzazioni richieste. Dopo ogni modifica, il
testo integrale aggiornato dello statuto deve essere depositato nel registro delle
imprese.

Particolare è la posizione del notaio. Questi, infatti, in sede di atto costitutivo deve
procedere contestualmente al controllo di legalità dell’atto e quindi, se illegittimo,
rifiutarsi di stipularlo; se lo stipula, deve procedere all’iscrizione. Riguardo alle
modificazioni statutarie, invece, il controllo notarile è di tipo successivo: in quanto
verbalizzante, il notaio si limita a prendere atto della deliberazione assunta; solo in
seguito procede alla verifica dei requisiti di legge e, se reputa che sussistano, procede
all’iscrizione; qualora, invece, il notaio ritenga non adempiute le condizioni stabilite
dalla legge, ne dà comunicazione tempestiva agli amministratori, i quali, entro 30
giorni, possono convocare l’assemblea per gli opportuni provvedimenti, oppure
ricorrere al tribunale.

In mancanza di una di queste due iniziative la deliberazione è definitivamente
inefficace.

La deliberazione di modifica statutaria produce i suoi effetti soltanto dopo l’iscrizione.

La natura costitutiva dell’iscrizione della deliberazione modificativa dello statuto non
esclude l’adozione di delibere o comportamenti fondati su una modificazione non
ancora iscritta: l’efficacia della delibera o dell’atto attuativo è però subordinata
all’iscrizione della modifica statutaria.

Il diritto di recesso
Sebbene in generale il metodo maggioritario fa sì che le deliberazioni vincolino tutti i
soci, il legislatore ammette casi in cui i soci non consenzienti possano recedere dalla
società, ottenendo il rimborso del controvalore del loro investimento azionario.
Il diritto di recesso è stato recentemente rivalutato perché rappresenta ex ante uno
strumento con cui i soci di minoranza influenzano i soci di maggioranza sull’assunzione
delle decisioni. La consapevolezza del possibile recesso di una parte consistente della
compagine sociale potrebbe infatti indurre la maggioranza a non assumere
determinate decisioni una volta effettuata la ponderazione tra gli effetti di queste e
l’impegno finanziario eventualmente necessario per liquidare i recedenti.

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Le cause
Le cause di recesso possono distinguersi in legali, a loro volta classificabili in
inderogabili e derogabili, e statutarie.

Cause legali inderogabili (art. 2437 c.c. comma 1) sono il non avere concorso con il
proprio voto favorevole alle seguenti deliberazioni: a) modifica della clausola
dell’oggetto sociale; b) trasformazione della società; c) trasferimento della sede
sociale all’estero; d) revoca dello stato di liquidazione; e) eliminazione di una o più
cause di recesso legali derogabili oppure statutarie; f) modifica dei criteri di
determinazione del valore dell’azione in caso di recesso; g) modificazioni dello statuto
concernenti i diritti di voto o di partecipazione;

Ulteriori cause legali inderogabili sono: h) nelle spa quotate, la deliberazione che
comporta l’esclusione dalla quotazione; i) nelle spa chiuse, l’introduzione o la
soppressione nell’atto costitutivo di una clausola compromissoria; e) la durata a
tempo indeterminato della società (causa indipendente dalla deliberazione).

Cause di recesso legali ma derogabili, cioè che possono essere statutariamente
escluse, sono:

a) la proroga del termine; b) l’introduzione o la rimozione di vincoli alla circolazione
dei titoli azionari;

Nonostante l’ampiezza della formula non sembra autorizzato un uso illimitato
dell’autonomia negoziale. A orientare in tal senso sono sia l’esigenza di tener conto del
ricordato interesse della società (e dei suoi creditori) a evitare un depauperamento
patrimoniale, sia la notazione che nelle stesse società personali si dubita fortemente
della legittimità di un recesso discrezionale: occorre, quindi, un’indicazione
sufficientemente specifica e oggettiva della causa statutaria di recesso.

La legittimazione all’esercizio del recesso spetta di regola a quei soci che non hanno
concorso con il proprio voto favorevole alle deliberazioni sopra citate (soci assenti,
dissenzienti, astenuti).
In coerenza con la considerazione della partecipazione azionaria come investimento, la
legge ammette espressamente il recesso parziale, cioè la riduzione dell’investimento.
Il diritto di recesso va esercitato mediante lettera raccomandata spedita entro 15
giorni dall’iscrizione al registro delle imprese della delibera o entro 30 giorni se il fatto
che lo legittima non è una delibera. Il recesso non può essere esercitato se, entro 90
giorni, la società revoca la delibera o se viene sciolta.

La liquidazione delle azioni


Il valore di liquidazione delle azioni, cioè l’importo che il socio receduto ha diritto di
ricevere a seguito dell’exit, è determinato dagli amministratori, sentito il parere del
collegio sindacale e del soggetto incaricato della revisione legale dei conti, tenuto
conto della consistenza patrimoniale della società e delle sue prospettive reddituali, e
del valore di mercato delle azioni. Sono previsti dallo statuto diversi criteri di
determinazione del valore. Per le azioni quotate, si fa riferimento alla media aritmetica
dei prezzi di chiusura nei sei mesi che precedono la pubblicazione o la ricezione
dell’avviso di convocazione dell’assemblea legittimante il recesso. In generale, entro
15 giorni da quest’assemblea, hanno diritto di conoscere la copia della determinazione
del valore di liquidazione. La determinazione degli amministratori può essere
contestata dal socio, purché contestualmente alla dichiarazione di recesso.
Determinato il valore, avviene la liquidazione, che il legislatore regola con un
procedimento volto a contemperare il diritto del socio receduto con le ragioni della
società e dei suoi creditori. In primo luogo, gli amministratori offrono in opzione le
azioni agli altri soci in proporzione al numero di azioni possedute. L’offerta di opzione
è depositata presso il registro delle imprese. Qualora i soci non acquistino in tutto o in
parte le azioni del recedente, gli amministratori possono collocarle presso terzi. Se
non si riesce a collocarle neanche presso terzi, si hanno due casi: - se la società ha
abbastanza risorse disponibili, deve procedere all’acquisto delle azioni, se no, gli
amministratori convocano l’assemblea straordinaria che delibera sulla riduzione del
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capitale sociale. Alla deliberazione di riduzione del capitale sociale, possono opporsi i
creditori; se l’opposizione viene accolta, la società si scioglie.

Le operazioni sul capitale


Le più rilevanti delle modificazioni statutuarie sono quelle che variano l’importo del
capitale sociale determinato nell’atto costitutivo (capitale nominale), una misura
nominale fissa corrispondente alla parte indisponibile del patrimonio della società. Le
modificazioni ammesse sono di aumento o riduzione, entrambi possono essere reali o
nominali. Quelle reali comportano un aumento o riduzione del patrimonio della
società, quelle nominali si limitano a una diversa allocazione delle poste di patrimonio
netto o son causate da una perdita patrimoniale già verificatasi.

L’aumento di capitale
La competenza ad aumentare il capitale spetta all’assemblea straordinaria. Tuttavia,
lo statuto può attribuire agli amministratori la facoltà di aumentare in una o più volte
il capitale fino ad un ammontare determinato e per un periodo massimo di 5 anni
dall’iscrizione nel registro; questo può avvenire anche successivamente per
deliberazione.

L’assemblea può deliberare l’aumento gratuito del capitale mediante imputazione a


capitale delle riserve e degli altri fondi iscritti in bilancio in quanto disponibili (non la
riserva legale). Di fatto in tal senso si sottopone al massimo vincolo di indisponibilità
una parte del patrimonio netto, precedentemente disponibile da parte dei soci.
L’aumento gratuito può avvenire: a) per emissione di nuove azioni assegnate
gratuitamente agli azionisti in proporzione di quelle già possedute; b) mediante
aumento del valore nominale delle azioni in circolazione.

L’aumento di capitale a pagamento si realizza tramite l’emissione di nuove azioni a


fronte di conferimenti effettuati da soci o terzi. L’aumento non può essere eseguito
fino a che le azioni precedentemente emesse non siano interamente liberate. La
misura dell’aumento di capitale è fissata nella deliberazione che indica anche il
termine temporale entro cui l’aumento deve essere eseguito. Se null’altro è specificato
l’aumento è inscindibile, cioè in caso di sottoscrizione parziale si ha come non
avvenuto; tuttavia, la deliberazione può espressamente prevedere che il capitale sia
aumentato di un importo pari alle sottoscrizioni raccolte entro il termine stabilito (c.d.
aumento scindibile). Chi sottoscrive le nuove azioni deve effettuare contestualmente il
conferimento nella stessa misura prevista in sede di costituzione della società.

E così: a) almeno il 25% del valore nominale delle azioni sottoscritte se si tratta di
conferimenti in denaro in una s.p.a. pluripersonale; b) integralmente se si tratta di
conferimenti in denaro in una s.p.a. unipersonale o, comunque, quando il
conferimento è di beni o crediti.
Entro 30 giorni dall’avvenuta sottoscrizione delle azioni di nuova emissione gli
amministratori devono depositare per l’iscrizione nel registro delle imprese
un’attestazione che l’aumento del capitale è stato eseguito. Nell’aumento a
pagamento particolarmente delicata è l’individuazione di chi può sottoscrivere le
nuove azioni. Il legislatore risolve la questione dotando i soci del diritto di opzione:
gli azionisti hanno diritto all’offerta in opzione delle nuove azioni in proporzione al
numero di azioni possedute. In questo modo i soci hanno la possibilità di mantenere
inalterata la loro partecipazione nella società. L’offerta di opzione va depositata presso
registro e resa nota in modalità tali da garantire autenticità dei documenti. Chi
esercita il diritto di opzione, purché ne faccia contestuale richiesta, ha diritto di
prelazione sul c.d. inoptato, a meno che le azioni non siano quotate e quindi se il
diritto non è esercitato vanno offerte al mercato.

In alcuni casi il diritto di opzione può essere escluso o limitato:

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1) quando le nuove azioni vanno liberate mediante conferimenti in natura.
L’interesse della società a ricevere quel determinato bene o credito prevale
sull’interesse dei soci a mantenere inalterato il peso percentuale delle rispettive
partecipazioni;
2) può essere escluso, per previsione statutaria, nelle società con azioni quotate
purché:

a) nei limiti del 10% del capitale sociale; b) a condizione che il prezzo di emissione
corrisponda al valore di mercato delle azioni;
3) quando l’interesse della società lo esige.
In tutte e tre le ipotesi appena viste di esclusione, la proposta di aumento di capitale
deve essere illustrata dagli amministratori ai soci con una relazione da cui devono
risultare le ragioni dell’esclusione o della limitazione del diritto di opzione. La relazione
va comunicata al collegio sindacale e al revisore che devono esprimere il loro parere
sulla congruità del prezzo di emissione delle azioni. L’assemblea deve determinare il
prezzo di emissione delle azioni non in relazione al loro valore nominale, ma in base al
valore del patrimonio netto, tenendo conto, per le azioni quotate, anche
dell’andamento delle quotazioni nell’ultimo semestre; da questi parametri può
pertanto derivare l’obbligatorietà del c.d. sovrapprezzo.

Evidenti sono le ragioni della complessa norma: in caso di limitazione o esclusione del
diritto di opzione si realizzerebbe un ingiustificato trasferimento di ricchezza che la
legge non può consentire: è per questa ragione che il prezzo di emissione delle azioni
va stabilito in base al valore del patrimonio netto.

Il diritto di opzione non si considera escluso né limitato qualora la deliberazione di
aumento del capitale preveda che le nuove azioni siano sottoscritte da banche, da enti
o società finanziarie, con obbligo di offrirle agli azionisti della società (c.d. opzione
indiretta o collocamento a fermo).

Particolare è un’ulteriore ipotesi di limitazione del diritto di opzione: può infatti essere
adottata con le normali maggioranze previste per l’assemblea straordinaria la
deliberazione di esclusione del diritto di opzione limitatamente a ¼ delle azioni di
nuova emissione, se queste sono offerte in sottoscrizione ai dipendenti della società.

I versamenti in conto capitale: I soci possono spontaneamente munire di risorse la


società anche senza imputare a capitale i loro versamenti, es. per coprire perdite o in
previsione di un determinato generico aumento di capitale ancora da deliberare.
Spesso è tutt’altro che chiaro se il generico versamento spontaneo dei soci integri un
finanziamento che pone il socio nella posizione di creditore con conseguente
apposizione del suo diritto nel passivo reale del bilancio oppure se si tratta di un
conferimento non imputato a capitale, ma direttamente a patrimonio.

Nel primo caso il socio avrebbe diritto di essere rimborsato dagli amministratori; nel
secondo caso la restituzione sarebbe soggetta alle regole proprie della distribuzione
del patrimonio netto tra i soci che prevedono sempre l’intervento dell’assemblea.

La riduzione del capitale


La riduzione del capitale sociale può essere deliberata dall’assemblea straordinaria
sulla base di ragioni che devono essere indicate già nell’avviso di convocazione,
assieme alle modalità di riduzione. Può avvenire mediante liberazione dei soci
dall’obbligo dei versamenti ancora dovuti o tramite rimborso di parte del capitale ai
soci. In ogni caso vanno rispettati tre limiti: a) minimo di capitale prescritto dalla
legge; b) proporzione uno a due tra patrimonio netto e obbligazioni in circolazione; c)
nelle società aperte il tetto del 20% del capitale sociale per le azioni proprie in
portafoglio.
La riduzione reale ò essere pregiudizievole per gli interessi dei creditori che possono
per questo opporsi nei 90 giorni dal compimento della pubblicità.

La riduzione del capitale per perdite avviene perché le perdite erodono il


patrimonio netto a cominciare dalla sua parte disponibile e solo dopo avere consumato
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tutte le riserve intaccano il capitale sociale, che non viene consumato ma a cui non
corrisponde più un attivo realmente esistente (capitale reale). In sintesi: quando la
differenza tra il totale delle attività e quello delle passività non arriva all’importo del
capitale nominale, questi è di fatto inesistente.
Ogni qualvolta il capitale sia in parte perso è possibile la riduzione del capitale sociale
per allineare la misura nominale a quella esistente del capitale. Talvolta la riduzione è
obbligatoria, es quando il capitale diminuisce di oltre un terzo. In particolare quando
amministratori o il consiglio di gestione accertino perdite oltre una certa soglia,
devono convocare l’assemblea per gli opportuni provvedimenti. Ai soci viene
presentata una relazione (stato patrimoniale + conto economico) sulla situazione
patrimoniale della società dagli amministratori. L’assemblea può dunque provvedere
con la riduzione del capitale, a meno che questa non sia obbligatoria quando la perdita
non risulta diminuita a meno di un terzo entro l’esercizio successivo. In tal caso,
l’assemblea ordinaria che approva il bilancio deve ridurre il capitale in proporzione alle
perdite. Se no, amministratori e sindaci chiedono al tribunale che disponga la
riduzione.
La riduzione del capitale per perdite è una forma di tutela dei terzi che entrano in
contatto con la società. È importante ricordare che questa operazione comporta
vantaggi per i soci giacchè fa venire meno l’onere di reintegrazione del capitale prima
di potere procedere alla distribuzione di utili. La scansione temporale appena vista
viene meno allorché, per la perdita rilevante di oltre ⅓ del capitale, questo si riduce al
di sotto del minimo legale stabilito, cioè a 50.000 euro.

In questo caso l’assemblea deve deliberare immediatamente la riduzione del capitale e
il suo contemporaneo aumento a una cifra non inferiore al detto minimo oppure la
trasformazione della società in altro tipo che non richieda un minimo di capitale o ne
richieda uno inferiore; in caso contrario, la società si scioglie.

Caso particolare di riduzione del capitale al di sotto del minimo legale si ha quando il
capitale è integralmente perso o, addirittura, il patrimonio netto della società è
negativo.

In questa ipotesi si applica la regola appena vista tenendo però presente che la
ricostituzione del capitale in misura pari al minimo legale deve essere preceduta
dall’integrale copertura delle perdite.

La società in accomandita per azioni


La società in accomandita per azioni (s.a.p.a.) è un modello societario la cui disciplina
è pressoché interamente mutuata da quella della s.p.a. di cui rappresenta una
“variante”; l’elemento differenziale consiste nella presenza di una categoria di soci (gli
accomandatari) che sono ex lege amministratori e che rispondono illimitatamente e
solidalmente per le obbligazioni sociali, alla quale si contrappone la categoria degli
accomandanti, che sono invece integralmente assimilabili ai soci di s.p.a. In sostanza
può dirsi che la s.a.p.a. è una s.p.a. nella quale gli amministratori rispondono
personalmente per le obbligazioni sociali.

La diffusione pratica della s.a.p.a. non è numericamente rilevante; essenzialmente
viene utilizzata per garantire una maggiore stabilità all’organo amministrativo in
quanto la possibilità di revocare agli accomandatari il potere di gestione è assai
ristretta.

Non è difficile prevedere che il futuro non riservi particolari prospettive di sviluppo alla
s.a.p.a.: la flessibilità organizzativa della “nuova” s.r.l. permette di raggiungere
analoghi risultati di stabilità senza il costo della responsabilità illimitata.

I tratti differenziali della s.a.p.a. rispetto alla s.p.a. riguardano essenzialmente la
disciplina degli accomandatari e sono così sintetizzabili:

- la denominazione sociale deve contenere, oltre all’indicazione di s.a.p.a., il nome di
almeno uno degli accomandatari;

- l’atto costitutivo deve indicare i nomi degli accomandatari;

- gli accomandatari sono amministratori di diritto della società e sono soggetti agli

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obblighi degli amministratori di s.p.a. Il potere di gestire la società non può esser
disgiunto dalla qualità di accomandatario e viceversa;

- la revoca degli accomandatari è ammessa solo se deliberata con le maggioranze
previste per l’assemblea straordinaria della s.p.a. e, se avviene senza giusta causa,
l’accomandatario ha diritto al risarcimento del danno;

- la sostituzione o la nomina di un nuovo accomandatario implica una modificazione
dell’atto costitutivo e va approvata da tutti gli accomandatari;

- qualora venga meno una delle due categorie di soci, la società si scioglie se nel
termine di 180 giorni essa non viene ripristinata;

- sono ammissibili sia il sistema di amministrazione tradizionale che quelli alternativi;

- le modificazioni dell’atto costitutivo vanno deliberate dall’assemblea straordinaria e
approvate da tutti i soci accomandatari;

- i soci accomandatari rispondono personalmente e illimitatamente verso i terzi per
l’adempimento delle obbligazioni sociali.

Essi godono tuttavia del c.d. beneficio della preventiva escussione, così che il creditore
prima di poter aggredire il patrimonio personale dell’accomandatario deve avere
infruttuosamente escusso la società.

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LEZIONE XXX. S.R.L.: COSTITUZIONE E STRUTTURA FINANZIARIA

Con la società a responsabilità limitata i soci possono organizzare la propria attività


economica accedendo al beneficio della responsabilità limitata per le obbligazioni
sociali a costi inferiori rispetto alla s.p.a., sotto il profilo sia finanziario sia dei vincoli
organizzativi. Se da un lato infatti il capitale minimo richiesto è di soli 10.000 Euro
(addirittura, in certi casi, addirittura di solo 1 Euro) e la disciplina dei conferimenti si
configura come meno rigorosa di quella delle s.p.a., dall’altro, la s.r.l. si caratterizza
per la concessione ai soci di un’ampia autonomia contrattuale, la quale, senza sacrifici
sul piano della responsabilità, ne permette una spiccata personalizzazione. La s.r.l.
non si configura dunque come una forma “ridotta” della società per azioni, ma, in virtù
del carattere maggiormente “chiuso” della società, come una tipologia a questa
evidentemente distinta. La concessione del privilegio della responsabilità limitata è in
un certo senso compensata dall’accentuazione dei poteri di controllo da parte dei soci.
Differentemente da quanto accade per le società per azioni, infatti, tutti i soci possono
avere accesso all’intera documentazione relativa all’amministrazione della società e
sono dotati della possibilità di promuovere l’azione sociale di responsabilità contro
amministratori e soci gestori. 

È proprio in virtù di tali caratteristiche che il legislatore ha promosso la struttura della
s.r.l. per l’avvio di nuove attività imprenditoriali, introducendo il caso della s.r.l.
semplificata, la quale permette alle persone fisiche di costituire una s.r.l. con capitale
compreso tra 1 e 9.999 Euro. Sotto quest’ultimo punto di vista un particolare ruolo è
giocato dalle c.d. PMI innovative e dalle c.d. start-up innovative, modelli di azienda
che, per le loro stesse caratteristiche, ben si prestano ad evolversi in s.r.l..

Oggi l’art. 2463 c.c., comma 4, consente anche alla s.r.l. normale
di essere costituita con solo 1 Euro di capitale; in tal caso, tuttavia,
ogni anno va accantonata a riserva legale una quota pari a un
quinto degli utili di esercizio fino a che non si sarà raggiunta la
quota di 10.000 Euro di capitale sociale.

La costituzione
La costituzione delle s.r.l. si articola in due fasi: la stipulazione dell’atto costitutivo e la
sua iscrizione nel registro delle imprese. L’atto costitutivo va ridotto nella forma
dell’atto pubblico e può trattarsi di un contratto o di un atto unilaterale. Il notaio che
avrà proceduto alla verifica delle condizioni necessarie per costituire una s.r.l.
procederà all’iscrizione entro venti giorni all’iscrizione nel registro delle imprese.

Gli elementi necessari dell’atto costitutivo sono (art. 2463 c.c.):


a) i dati anagrafici di ciascun socio (che nelle s.r.l.s. deve necessariamente essere
persona fisica), la sede e la denominazione sociale che deve contenere l’indicazione
di s.r.l.;
b) l’attività che costituisce l’oggetto sociale. Questo deve essere, oltre che lecito e
possibile, anche sufficientemente determinato. Si noti come, nel caso delle s.r.l. e
differentemente da quanto accade per le s.p.a., la modificazione dell’oggetto
sociale necessiti di una delibera assembleare;
c) l’ammontare del capitale sociale;
d) la quota di partecipazione di ciascun socio, che non può essere mai rappresentata
da azioni;
e) le norme relative al funzionamento della società;
f) l’importo globale delle spese per la costituzione della società;
L’ assenza di tali elementi rende necessaria un’ integrazione dell’atto costitutivo, ma
non comporta di per sé la nullità della società.
Per numerosi argomenti, relativi per esempio alla durata della società, alle cause di
scioglimento, all’emettibilità dei titoli di debito, all’attribuzione a singoli soci di diritti

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particolari etc… la legge chiama ad esprimersi l’autonomia negoziale, così come
accade nel caso della scelta se redigere o meno uno statuto, eventualità possibile, ma
non obbligatoria.
Per quanto riguarda invece l’iscrizione dell’atto costitutivo nel registro delle imprese, la
disciplina delle s.r.l. richiama integralmente quella delle s.p.a..

Con riferimento alla casistica dei patti parasociali occorre chiarire come la disciplina
delle s.r.l. non contenga alcuna indicazione in tal senso. Ciò nonostante, l’apertura
all’autonomia statutaria consente di inserire nell’atto costitutivo alcune fattispecie che
possano in un certo senso ricordare i già citati patti parasociali, la cui effettività,
tramite l’invalidità degli atti societari che siano frutto della loro violazione, è di fatto
rafforzata.

Capitale e conferimenti
Il capitale nelle s.r.l. svolge una funzione analoga a quella già descritta per le s.p.a.. Il
suo importo globale non può eccedere il valore dei conferimenti e, come nelle s.p.a., il
principio di proporzionalità della partecipazione al conferimento è derogabile.

Salvo che nelle s.r.l.s., ove sono ammessi solo conferimenti in denaro, “tutti gli
elementi dell’attivo suscettibili di valutazione economica” possono essere conferiti
(art. 2464 c.c., comma 2). Differentemente da quanto accade per la s.p.a., nella
s.r.l. possono formare oggetto di conferimento, oltre al denaro, ai crediti e ai beni in
natura, anche le prestazioni d’opera o di servizi.

Se l’atto costitutivo non prevede diversamente i conferimenti vanno effettuati in
denaro. Al momento della sottoscrizione almeno il 25% dei conferimenti in denaro e
l’intero soprapprezzo devono essere versati all’organo amministrativo nominato
nell’atto costitutivo; in caso di società unipersonale il versamento deve essere
integrale.

Se l’atto costitutivo lo prevede è possibile conferire beni in natura o crediti. In tal


caso, la legge prevede che il conferimento sia effettuato integralmente al momento
della sottoscrizione. Le regole sono le stesse del caso delle s.p.a., con l’unica
eccezione relativa alle modalità di stima dei beni: a) l’esperto che dovrà predisporre la
relazione di stima non sarà nominato dal tribunale, ma scelto direttamente dal
conferente tra i soggetti iscritti nel registro dei revisori legali dei conti; b) non sono
applicabili alla s.r.l. i casi di esenzione dalla stima previsti per le s.p.a.; c) nulla è
previsto per la verifica della valutazione. Si creano così divergenze interpretative nel
caso in cui gli amministratori accertino che il valore del bene è inferiore a quello
attribuitogli dall’esperto.

La convertibilità delle prestazioni d’opera o di servizi è subordinata, oltre che alla


previsione statutaria, alla prestazione da parte del socio conferente di una polizza
assicurativa o di una fideiussione bancaria che possano fungere, in ogni momento, da
cauzione della corrispondente somma in denaro nel caso di mancata prestazione
dell’opera o del servizio. Pur non prevedendo la norma la sottoesposizione di tale
conferimento al procedimento di stima previsto nel caso di beni in natura, è preferibile
l’opinione secondo la quale la norma si applichi comunque.

I soci devono eseguire i conferimenti nel termine prescritto, il quale varia in relazione
alle caratteristiche del singolo conferimento e anche a eventuali pattuizioni tra socio e
società. Se nulla è previsto, gli amministratori, in base alle regole generali possono
richiedere ai soci, in ogni momento, l’immediato versamento di quanto ancora dovuto.
In difetto di ottemperanza gli amministratori possono agire per l’adempimento in

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forma coattiva, venderne la quota di partecipazione agli altri soci o, in mancanza di
compratori, alienarne la quota, procedendo alla riduzione del capitale sociale.

I finanziamenti dei soci


Il denaro o i beni conferiti dai soci per la liberazione del capitale sociale rimangono
vincolati alla loro designazione in favore della società: i soci non hanno alcun diritto,
sino allo scioglimento e liquidazione della società, alla restituzione di quanto conferito.
Si tratta del capitale di rischio, il cui ritorno nel patrimonio dei soci conferenti dipende
dalle sorti dell’iniziativa economica svolta in società.
Gli ulteriori apporti dei soci possono essere a titolo di capitale di rischio, tramite
aumento del capitale sociale, ovvero a titolo di finanziamento. In tal caso i soci
assumono la posizione di creditori della società.
Il ricorso al finanziamento dei soci, pur essendo spesso essenziale, può rappresentare
di fatto un pericolo e uno squilibrio tra soci e creditori esterni. In materia di s.r.l.,
peraltro, il legislatore è espressamente intervenuto con una disciplina che assoggetta
a un regime speciale i finanziamenti concessi in situazioni critiche particolari.

Sono finanziamenti “critici” quelli “in qualsiasi forma effettuati, che sono stati concessi
in un momento in cui risulta un eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al
patrimonio netto, oppure una situazione finanziaria della società nella quale sarebbe
stato ragionevole un conferimento” (art. 2467 c.c., comma 2).

A tutela degli altri creditori, la disciplina dell’art. 2467 c.c. prevede dunque che il
rimborso di tali finanziamenti venga subordinato al soddisfacimento dei creditori terzi:
gli altri creditori, cioè, devono esser pagati prima dei soci. In caso di fallimento della
società, il rimborso eventualmente ricevuto dai soci nell’anno anteriore alla sua
dichiarazione, deve essere restituito.

Le partecipazioni

Il carattere “chiuso” e la rilevanza della persona del socio nella s.r.l. trovano
espressione e conferma nella disciplina delle quote di partecipazione. L’art. 2468 c.c.,
segnando una profonda distinzione con le s.p.a., vieta che le partecipazioni dei soci
siano rappresentate da azioni e, inoltre, che formino oggetto di offerta al pubblico di
prodotti finanziari. Sotto questo punto di vista un’ eccezione è rappresentata dalle
quelle quote di start-up e PMI innovative che possono essere offere al pubblico, anche
attraverso es. il crowdfunding.
La partecipazione in s.r.l. è considerata dal legislatore in modo unitario: nelle s.r.l.
ogni socio è titolare di un’unica quota il cui ammontare, rappresentando una
percentuale di partecipazione al capitale sociale, è determinato in misura
proporzionale al conferimento.

I diritti particolari di singoli soci


In linea generale, i diritti sociali spettano ai soci in misura proporzionale alla
partecipazione da ciascuno posseduta. Tuttavia, a riprova della duttilità della s.r.l., è
consentito che l’atto costitutivo preveda l’attribuzione a singoli soci di particolari diritti
riguardanti l’amministrazione della società o la distribuzione degli utili. In altre parole,
è possibile creare, in favore di uno o più soci, una golden quota.

La norma non sembra porre limiti all’estensione di questi diritti particolari, se non che
essi debbano genericamente attenere all’amministrazione della società o al diritto agli
utili. L’unico limite è rappresentato dal rischio di conflitto con norme imperative: per
esempio, è vietato il patto leonino.
I diritti particolari così attribuiti, salva diversa previsione statutaria, possono essere
modificati solo con il consenso di tutti i soci; il socio, inoltre, ove in via di fatto
vengano compiute operazioni che ne comportino una rilevante modificazione, ha
diritto di recedere dalla società. Il collegamento inscindibile tra i diritti particolari e la
persona del socio al quale sono stati attribuiti implica che, in caso di trasferimento
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della partecipazione ad un altro soggetto, i diritti particolari non si trasferiscono al
nuovo socio, ma si estinguono.

La circolazione
In linea di principio le partecipazioni in s.r.l. sono liberamente trasferibili per atto tra
vivi o a causa di morte. Di fatto l’unitarietà della quota non rappresenta alcun limite
per il trasferimento parziale.

Questi principi generali sono, tuttavia, ampiamente derogabili dall’autonomia
statutaria.

L’atto costitutivo può infatti prevedere sia l’intrasferibilità assoluta della partecipazione
sia la subordinazione del trasferimento al gradimento di organi sociali, soci o terzi. Allo
stesso modo infatti può pure prevedere condizioni e limiti, anche assoluti, al
trasferimento della partecipazione a causa di morte. Infine, può anche stabilire
l’indivisibilità della partecipazione e quindi l’impossibilità di un trasferimento parziale.

In sintesi: è lecita ogni personalizzazione contrattuale delle vicende del trasferimento
della quota.

Il limite di questa assoluta libertà sta nel diritto di recesso concesso in favore del socio
e dei suoi eredi. Esso, infatti, spetta qualora l’atto costitutivo: a) preveda
l’intrasferibilità della partecipazione; b) subordini il trasferimento al mero gradimento
e questo venga rifiutato; c) ponga condizioni o limiti che, nel caso concreto,
impediscano il trasferimento a causa di morte.

Il trasferimento della titolarità della partecipazione tra le parti avviene per effetto del
semplice consenso legittimamente manifestato senza necessità che l’atto rivesta una
particolare forma.

Un atto di trasferimento, con sottoscrizione autenticata, va però depositato entro 30
giorni presso l’ufficio del registro delle imprese ove ha sede la società a cura del notaio
autenticante.

All’iscrizione nel registro delle imprese spetta un ruolo centrale nella risoluzione dei
conflitti tra più acquirenti della stessa partecipazione: “se la quota è alienata con
successivi contratti a più persone, quella fra esse che per prima ha effettuato in buona
fede l’iscrizione nel registro delle imprese è preferita alle altre anche se il suo titolo è
di data posteriore” (art. 2470 c.c., comma 3). Il trasferimento della partecipazione
non produce alcun effetto nei confronti della società fin quando non viene iscritto nel
libro dei soci.

L’iscrizione può avvenire, su richiesta dell’alienante o dell’acquirente, mediante
l’esibizione dell’atto di trasferimento e la dimostrazione del suo avvenuto deposito nel
registro delle imprese.

I vincoli e le operazioni su quote proprie


La partecipazione in s.r.l. può essere oggetto sia di diritti reali limitati o di garanzia
(es. usufrutto e pegno), sia di vincoli conservativi (es. sequestro), sia di
pignoramento.

Regole espresse vi sono solo per il pignoramento, che si esegue con notificazione al
debitore e alla società e successiva iscrizione nel registro delle imprese. Per il
sequestro, normalmente prodromico al pignoramento, l’applicazione analogica delle
regole di quest’ultimo non pone problemi. Per pegno e usufrutto la questione appare,
invece, più complessa, soprattutto per quanto riguarda i problemi sorti tra più aventi
diritto sulla stessa quota.

Al riguardo non è affatto chiaro se l’art.2470 c.c., comma 3 rappresenti la regola
generale di risoluzione di tutti i conflitti fra più aventi diritti sulle partecipazioni di s.r.l.,
nonostante tale soluzione appaia preferibile.
Con riferimento invece all’esercizio dei diritti spettanti sulle quote in caso di vincoli, la
legge rinvia alla disciplina prevista per le s.p.a.
La disciplina di tale casistica attiene in maniera più in generale al tema del
bilanciamento fra l’interesse del creditore pignoratizio alla vendita forzata della quota
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e quello dei soci a conservare immutata la compagine sociale. Tale conflitto è
affrontato dall’art. 2471 c.c., comma 3, secondo il quale, “se la partecipazione non è
liberamente trasferibile”, la vendita all’incanto può effettuarsi solo se non è stato
raggiunto un accordo sulla vendita fra creditore, debitore e società.
In generale, invece, alle s.r.l., sono precluse operazioni sulle proprie quote.

Il recesso e l’esclusione
Uno dei segni più marcati della valorizzazione del carattere personalistico nella s.r.l. è
dato dalla disciplina del diritto di recesso e dell’esclusione del socio.

Prima della riforma la s.r.l. condivideva con la s.p.a. regole estremamente restrittive.
Oggi invece la personalizzazione della s.r.l. si è anzitutto tradotta nell’allargamento,
già per legge, delle ipotesi di recesso; inoltre i soci godono al riguardo di ampia
autonomia negoziale. La valorizzazione di questo istituto risponde anche alle finalità di
assicurare al socio un’effettiva tutela di fronte a scelte societarie che alterino le
condizioni formali della sua partecipazione. A differenza di quanto avviene nelle s.p.a.
e in virtù del carattere di unitarietà delle partecipazioni alle s.r.l., la legge non
consente espressamente il recesso parziale.

Le cause legali
Il nucleo essenziale delle cause legali di recesso è contenuto nell’art. 2473 c.c,
comma 1. In tutti questi casi il diritto di recesso non può essere escluso dall’atto
costitutivo.Per legge, il diritto di recesso spetta al socio che non abbia consentito:
a) a decisioni: di modificazione del tipo o dell’oggetto della società; di
fusione o scissione; di revoca dello stato di liquidazione; di trasferimento
della sede all’estero; di eliminazione di cause di recesso; di introduzione
o soppressione di clausole compromissorie; di esclusione del diritto di
opzione;

b) a operazioni che comportino una sostanziale modificazione dell’oggetto
sociale;

c) a operazioni che determinino una rilevante modificazione dei diritti
attribuiti ai soci.

Il diritto di recesso spetta inoltre a ogni socio:

d) quando la società sia costituita a tempo indeterminato, salvo
preavviso di almeno 180 giorni;

e) quando l’atto costitutivo preveda particolari limiti alla trasferibilità
delle partecipazioni.

Il regime convenzionale
Come si accennava, la legge apre la materia del recesso all’autonomia negoziale:
“l’atto costitutivo determina quando il socio può recedere dalla società e le relative
modalità” (art. 2473 c.c.).

Nonostante l’apparente ampiezza della formula non è però sicuro fin dove possa
spingersi l’autonomia negoziale. L’autonomia negoziale determina le modalità del
recesso: termini di preavviso, modalità di comunicazione, ecc…

La funzione regolamentare dell’atto costitutivo è, al riguardo, assai significativa poiché
la legge prevede una disciplina suppletiva assai scarna.

La liquidazione della partecipazione


Esercitato il recesso, i soci hanno diritto di “ottenere il rimborso della propria
partecipazione in proporzione del patrimonio sociale” (art. 2473 c.c.) entro 180 giorni
dalla comunicazione del recesso alla società. La società tuttavia può privare di
efficacia il recesso revocando la delibera che lo legittima.

Il legislatore, a tutela del socio, ha espressamente previsto che l’ammontare del
rimborso va “determinato tenendo conto del suo valore di mercato al momento della
dichiarazione di recesso” (art. 2473 c.c.): la liquidazione della quota deve

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corrispondere proporzionalmente al valore effettivo e corrente del patrimonio sociale.
La quantificazione, in virtù dell’assenza di parametri di mercato, se non avviene in
accordo fra le parti, è compiuta da un esperto nominato dal tribunale.

Il rimborso della partecipazione apre il già rilevato problema della tutela dei creditori i
quali, in tal modo, vedrebbero posta a rischio la consistenza patrimoniale della
società.

Al riguardo allora il legislatore prevede che la liquidazione del socio receduto possa
avvenire mediante acquisto della sua quota da parte degli altri soci in proporzione alle
rispettive partecipazioni ovvero da parte di un terzo; se si realizza questa ipotesi, la
liquidazione avviene senza alcun esborso da parte della società. Qualora le ipotesi
precedenti non si realizzino, il rimborso deve avvenire da parte della società
utilizzando le riserve disponibili.

Se ciò non è possibile deve procedersi a riduzione del capitale: in tal caso però è
consentito ai creditori di bloccare l’operazione mediante opposizione.

Se la riduzione del capitale non può aver luogo per effetto dell’opposizione, la società
viene posta in liquidazione.

L’esclusione del socio


L’atto costitutivo può prevedere specifiche ipotesi di esclusione per giusta causa del
socio.

Deve ritenersi che l’autonomia negoziale non possa prevedere ipotesi di esclusione
generiche e discrezionali. La legge affida interamente all’atto costitutivo ogni
questione attinente alle modalità dell’esclusione; nel silenzio dell’atto costitutivo è
possibile applicare analogicamente la disciplina delle società personali. Sotto il profilo
patrimoniale si applica la disciplina del recesso, con l’unica limitazione, a maggior
tutela dei creditori, dell’impossibilità di procedere al rimborso della partecipazione
tramite riduzione del capitale sociale.

I titoli di debito
Tradizionalmente alla s.r.l. è stato precluso il ricorso al pubblico risparmio per
raccogliere risorse finanziarie. La riforma ha però introdotto una significativa apertura.
La nuova formulazione dell’art. 2483 c.c. concede infatti alle s.r.l., qualora sia l’atto
costitutivo a prevederlo, di emettere titoli di debito. Di fatto, è l’atto costitutivo infatti
che: a) deve prevedere l’organo della società competente a deliberarne l’emissione; b)
può determinare gli eventuali limiti all’emissione, le sue modalità e le maggioranze
necessarie per la decisione. Sotto questo punto di vista dunque, l’unica regola prevista
attiene all’obbligo di iscrizione di tali delibere nel registro delle imprese.

In virtù dell’ampio spazio lasciato all’autonomia negoziale non è quindi agevole per
l’interprete disegnare le caratteristiche di questi titoli di debito. Può genericamente
rilevarsi che:
- essi si ricollegano a un’operazione di finanziamento della società; il titolo
incorpora il diritto di credito del finanziatore alla restituzione del prestito: dunque la
funzione è la stessa dei titoli obbligazionari;
- il titolo, per poter realmente incorporare o quantomeno documentare un diritto
di credito verso l’emittente, deve recare, oltre alla sua sottoscrizione, menzione
dell’emittente, dell’importo di cui si promette il pagamento e dell’interesse
riconosciuto;
- in linea di principio, il rapporto fra società e possessore dei titoli ha carattere
individuale e non può essere modificato senza il consenso del singolo possessore.
I titoli di debito, a tutela del pubblico risparmio, possono essere sottoscritti solo da
investitori professionali (banche, assicurazioni, società finanziarie).

Lo stesso art. 2483 prevede una limitazione alla collocazione dei titoli di debito ispirata
alla tutela del pubblico risparmio. Essi infatti possono essere sottoscritti solo da
“investitori professionali sottoposti a vigilanza prudenziale”, i quali, prendendosi il
rischio di solvenza, potranno poi procedere alla circolazione.

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LEZIONE XXXI. S.R.L.: STRUTTURA ORGANIZZATIVA E MODIFICAZIONI
STATUTARIE

Le decisioni dei soci


L’assetto organizzativo della s.r.l. è demandato in gran parte alle scelte dei soci
nell’atto costitutivo. Di fatto dunque il sistema delle competenze e dei poteri attribuiti
ai soci è caratterizzato da una spiccata malleabilità. Di fatto è addirittura possibile
attribuire la competenza ad assumere scelte gestorie anche ai singoli soci. Secondo
l’art. 2479 c.c. infatti: “i soci decidono sulle materie riservate alla loro competenza
dall’atto costitutivo”.

Un limite certo è costituito dalle materie che la legge espressamente riserva all’organo
amministrativo: redazione del bilancio e dei progetti di fusione e scissione, le decisioni
in tema di aumento del capitale; al di là di questi confini qualunque scelta
amministrativa potrebbe essere devoluta ai soci.

Il ruolo gestorio dei soci, d’altra parte, può essere anche sollecitato da loro stessi o
dagli amministratori. L’art. 2479 c.c. dispone una competenza generale dei soci a
decidere sugli argomenti che uno o più amministratori o tanti soci che rappresentino
almeno ⅓ del capitale sociale sottopongono alla loro approvazione.

In ogni caso ai soci sono comunque inderogabilmente delegate dalla legge le seguenti
competenze:

- l’approvazione del bilancio e la distribuzione degli utili;

- la nomina degli amministratori;

- la nomina dei sindaci, del presidente del collegio sindacale e del revisore;

- le modificazioni dell’atto costitutivo;

- le decisioni di compiere operazioni che comportino una sostanziale modificazione
dell’oggetto sociale o una rilevante modificazione dei diritti dei soci.

Modalità delle decisioni
In virtù delle esigenze di semplificazione, l’atto costitutivo può addirittura derogare al
metodo assembleare in favore dei sistemi della “consultazione scritta o sulla base del
consenso espresso per iscritto”.

Nel silenzio dell’atto costitutivo però, le decisioni dei soci devono essere adottate con
deliberazione assembleare. La deliberazione assembleare è altresì obbligatoria se
viene richiesta da uno o più amministratori o da un numero di soci che rappresentino
almeno ⅓ del capitale sociale. La convocazione deve indicare con sufficiente precisione
gli argomenti all’o.d.g..

Per legge l’assemblea è validamente costituita se sono presenti tanti soci che
rappresentano almeno la metà del capitale sociale (quorum costitutivo). Il quorum
deliberativo è pari alla maggioranza assoluta dei voti del capitale presente. I soci che
nella deliberazione hanno, per conto proprio o di terzi, un interesse in conflitto con
quello della società, non sono obbligati ad astenersi, ma la relativa delibera è invalida
se il loro voto è stato determinante e la decisione è potenzialmente pregiudizievole per
la società. Assai ridotte sono le prescrizioni di legge per il caso in cui l’atto costitutivo
preveda l’adozione delle decisioni dei soci senza seguire il metodo assembleare.

I principi generali sono:

- ogni socio ha diritto di partecipare alle decisioni e il suo voto vale in misura
proporzionale alla sua partecipazione;

- la decisione deve essere frutto di consultazione scritta o di consenso espresso per
iscritto;

- dai documenti sottoscritti devono risultare con chiarezza l’argomento oggetto della
decisione e il consenso alla stessa;

- salva diversa disposizione dell’atto costitutivo, il quorum deliberativo è pari al voto
favorevole di tanti soci che raggiunga almeno la metà del capitale sociale.

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Le decisioni, prese secondo il principio maggioritario, sono vincolanti per tutti i soci, a
meno che queste non siano state prese in violazione della legge e siano per questo
invalide.
L’art. 2479 ter c.c. regola le decisioni “che non sono prese in conformità della legge e
dell’atto costitutivo”, fattispecie che corrisponde alla definizione delle delibere
annullabili della s.p.a.

Le decisioni annullabili possono essere impugnate da ciascun socio che non vi abbia
consentito, da ciascun amministratore e, se esistente, dal collegio sindacale; il termine
per impugnarle è di 90 giorni dalla loro trascrizione nel libro delle decisioni dei soci.

La restante disciplina delle decisioni annullabili si modella su quella delle s.p.a.
L’art. 2479 ter c.c. individua altresì due ipotesi di invalidità “grave” delle decisioni,
riconducibili, anche se non coincidenti, ai casi di nullità delle delibere di s.p.a.:

- le decisioni aventi oggetto illecito o impossibile;

- le decisioni prese in assenza assoluta di informazione.

Le decisioni nulle possono essere impugnate da chiunque vi abbia interesse entro 3
anni dalla loro trascrizione nel libro delle decisioni dei soci.

La gestione della s.r.l.


Anche le regole sull’attribuzione della competenza in materia di gestione della società
sono largamente rimesse all’autonomia negoziale. Questo principio non riguarda solo
la già esaminata possibilità di attribuire competenze amministrative ai soci, ma anche
la scelta fra i possibili sistemi di gestione. 

Nell’esercizio di tale potere il legislatore pone ai soci pochi limiti inderogabili:

- le competenze assembleari su particolari operazioni;

- la riserva all’organo amministrativo di certe operazioni (art. 2475);

- le regole sul potere di rappresentanza degli amministratori;

- le regole sulla responsabilità da gestione.

Se l’atto costitutivo non dispone diversamente, la s.r.l. è amministrata da uno o più
soci nominati con decisione degli stessi. La carica può essere anche a persona
giuridica. L’atto costitutivo può prevedere sia che l’amministrazione venga affidata a
non soci sia che la loro nomina, in tutto o in parte, non spetti alla decisione dei soci.
In ogni caso, nell’atto costitutivo vanno indicate le persone cui è affidata
l’amministrazione della società. Non vi sono limiti alla durata della carica. La pubblicità
della nomina segue le regole della s.p.a.

L’amministratore cessa dalla carica per morte o per rinuncia e può essere revocato.
Modi e limiti della revoca dipendono dalla fonte della nomina: a) gli amministratori
nominati con decisione dei soci possono essere revocati nello stesso modo, salvo il
diritto al risarcimento del danno in mancanza di giusta causa; b) gli amministratori
designati nella parte duratura dell’atto costitutivo sono, come nelle società di persone,
revocabili solo per giusta causa; c) gli amministratori la cui nomina è riconducibile al
diritto particolare di un socio siano revocabili dal socio stesso.

Gli effetti della cessazione dalla carica e le modalità di sostituzione degli
amministratori cessati non sono regolati dalla legge, ma lasciati all’autonomia
negoziale.

Quando l’amministrazione è affidata a più persone “esse costituiscono il consiglio di


amministrazione”. In caso di amministrazione pluripersonale, dunque, il metodo c.d. di
default è quello collegiale. L’atto costitutivo può prevedere un sistema di assunzione
delle decisioni più agile che in parte sacrifichi il principio di collegialità.

Al sistema di tipo consiliare deve ritenersi connaturale la possibilità di prevedere
l’attribuzione di deleghe di poteri gestori a un comitato esecutivo e/o a uno o più
amministratori.

Nel caso in cui l’atto costitutivo si limiti a consentire deleghe di gestione, ma non ne
fissi la disciplina, la struttura tendenzialmente corporativa che viene data in tal modo

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alla gestione della s.r.l. fa ritenere, in linea di principio, applicabili le regole fissate per
le s.p.a.
Nell’ambito dei sistemi di gestione di tipo corporativo ci si può chiedere se nella
s.r.l. siano adottabili il sistema dualistico o quello monistico delle s.p.a. La
risposta sembra dover essere negativa per il sistema dualistico in quanto nella
s.r.l. l’approvazione del bilancio e le decisioni che incidono sui diritti dei soci
sono riservate inderogabilmente alla loro decisione e non potrebbero quindi
essere affidate al consiglio di sorveglianza o agli amministratori.

Variabile per il sistema monistico a seconda che siano che siano o meno
superate le soglie che rendono obbligatorio il collegio sindacale: in caso positivo
il sistema monistico non è utilizzabile.
L’art. 2475 c.c., comma 2, espressamente permette all’atto costitutivo di abbandonare
il sistema consiliare e optare per l’amministrazione disgiuntiva o congiuntiva: in tal
caso si applicano le norme dettate per le società di persone. Anche per la s.r.l. è
prevista la possibilità che l’atto costitutivo rimetta la soluzione di contrasti sulla
gestione a uno o più terzi arbitratori come nelle società di persone.

Con la eccezione delle materie del conflitto di interessi e della responsabilità, la legge
non determina espressamente le regole sui diritti e doveri degli amministratori.

Il potere di rappresentanza
L’ampio numero di soggetti ai quali, a vario titolo, possono essere attribuiti poteri di
gestione, rende nella s.r.l. particolarmente delicato il problema della rappresentanza,
cioè della tutela dei terzi che entrano in contatto con la società. L’art. 2475 bis c.c.
disciplina la materia fissando la regola generale per cui ciascun amministratore
disponga disgiuntamente del potere di rappresentanza. La norma chiarisce poi come le
limitazioni ai poteri degli amministratori che risultino dall’atto costitutivo o dall’atto di
nomina, anche se pubblicate, non siano opponibili ai terzi, salvo che questi abbiano
agito intenzionalmente a danno della società.

La regola dell’inopponibilità è attenuata per le ipotesi della nullità o annullabilità della
nomina degli amministratori muniti di rappresentanza che tuttavia sia stata iscritta nel
registro delle imprese. In tal caso l’invalidità è opponibile ai terzi se si dimostra che ne
erano a conoscenza, senza necessità di raggiungere la prova del dolo.

Conflitto di interesse
In linea generale gli amministratori hanno il dovere di non compiere e di non
concorrere a decidere atti per i quali essi hanno, per conto proprio o di terzi, un
interesse in conflitto con quello della società. Nelle s.r.l. la fattispecie è disciplinata con
attenzione più alle sorti dell’atto compiuto dall’amministratore in conflitto di interessi
che ai doveri di comportamento dell’amministratore e alla sua responsabilità.

È peraltro evidente che l’amministratore che violi il dovere di non agire in conflitto
d’interessi con la società da lui amministrata è esposto, nel caso in cui il suo
comportamento provochi un danno alla società, ad azione di responsabilità risarcitoria.
Quanto alla sorte dell’atto compiuto, la norma distingue tra due ipotesi: 1) quella in
cui l’atto non sia stato preceduto da una delibera del consiglio di amministrazione e sia
concluso dall’amministratore rappresentante in conflitto di interessi; 2) quella in cui
invece l’atto sia stato preceduto da una delibera del consiglio di amministrazione.

Nella prima ipotesi, la società può richiedere l’annullamento del contratto provando
che il conflitto era conosciuto o riconoscibile dal terzo. Nella seconda ipotesi, l’atto
vincola la società salvo che non intervenga l’annullamento della delibera consiliare. Ciò
è possibile solo se la delibera: a) è stata assunta con il voto determinante
dell’amministratore in conflitto; b) cagioni alla società un danno patrimoniale; c) sia
impugnata entro 90 giorni dagli altri amministratori.

Anche in tal caso, tuttavia, sono fatti salvi i diritti acquistati in buona fede dai terzi in
base agli atti compiuti in esecuzione della delibera.

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Il controllo sulla gestione
Nella s.r.l. il controllo della gestione è, in prima battuta, affidato ai singoli soci,
coerentemente con il loro rilievo nella struttura della società. Particolarmente efficace
e incisiva è la regola per cui i soci che non partecipano all’amministrazione hanno
diritto di avere dagli amministratori notizia sullo svolgimento degli affari sociali e di
consultare, anche tramite professionista, i libri sociali.

Contro il possibile abuso del diritto di controllo, la società può invocare i principi
generali sull’eccezione di dolo per inibire o limitare pretese volte al solo fine di
esercitare non lecite pressioni. Inoltre, per ridurre pericoli di divulgazione di segreti
aziendali, l’atto costitutivo può prevedere il divieto di concorrenza a carico dei soci.

L’atto costitutivo può prevedere, determinandone competenze e poteri, ivi compresa la


revisione legale dei conti, la nomina di un organo di controllo (in genere composto da
un componente) o di un revisore.

Na nomina di organo interno o revisore è obbligatoria quando la s.r.l.: 1) è tenuta alla
redazione del bilancio consolidato; 2) controlla una società obbligata alla revisione
legale dei conti; 3) per due esercizi consecutivi supera due dei limiti all’art 2435 bis.
Se superati, la nomina deve avvenire entro 30 giorni dall’assemblea che approva il
bilancio.

La responsabilità della gestione


L’art. 2476 c.c. regola la responsabilità degli amministratori di s.r.l. In realtà il
contenuto della norma è più ampio, perché prevede, accanto alla responsabilità degli
amministratori, anche quella dei soci.

Il principio generale è che gli amministratori sono solidalmente responsabili verso la
società dei danni derivanti dall’inosservanza dei doveri a essi imposti dalla legge e
dall’atto costitutivo.

Si ritiene tuttavia che anche nella s.r.l. possa trovare applicazione la specificazione del
parametro della diligenza oggi adottato per la s.p.a., cioè l’agire con la “diligenza
richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze”. Come nelle
s.p.a., la responsabilità non discende dal merito della gestione o dal suo esito, ma
dalla violazione dei doveri generici e specifici che gravano sugli amministratori. La
responsabilità è solidale fra tutti gli amministratori, anche quelli che non hanno
partecipato all’atto o alla decisione. Sono però immuni da responsabilità gli
amministratori esenti da colpa e che, quando si era sul punto di approvare l’atto,
abbiano espresso il loro dissenso. La norma non specifica come si atteggi la
responsabilità degli amministratori quando la competenza di gestione, per legge o per
statuto, spetti alla decisione dei soci o a singoli soci: ferma restando la responsabilità
dei soci, si deve ritenere che l’amministratore, se ritiene l’atto dannoso per la società,
abbia il dovere di segnalare il proprio dissenso e di rifiutarsi di darvi esecuzione.

Alla s.r.l. si applicano i principi della responsabilità dell’amministratore di fatto. Anche i
soci rispondono qualora abbiano deciso o autorizzato intenzionalmente il compimento
di atti dannosi per la società, i soci o i terzi. Si tratta di una responsabilità da gestione
a carico dei soci che vi partecipino. La regola si applica anche quando i soci
partecipano alla gestione, pur senza averne il potere. L’avverbio “intenzionalmente”
sta a chiarire che la responsabilità dei soci richiede una consapevole partecipazione
alla scelta gestoria, non è però richiesto, come alcuni sostengono, che vi sia
intenzione di arrecare danno.

Ciascun socio è legittimato individualmente a promuovere l’azione sociale di


responsabilità verso amministratori e soci gestori. È evidente che pure la società
è legittimata a proporre l’azione di responsabilità contro amministratori e soci gestori:
dubbio è se, in tal caso, sia necessaria una decisione dei soci o sia sufficiente una
decisione degli amministratori. La legge richiede la decisione dei soci per rinunciare o
transigere l’azione di responsabilità: la delibera deve essere approvata da una
maggioranza che rappresenti almeno i ⅔ del capitale sociale, purché non vi sia il voto
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contrario di oltre 1/10 del capitale.

Nulla, infine, dice la legge, a differenza che nella s.p.a., sulla possibilità del singolo
socio di transigere o rinunciare l’azione promossa: la soluzione positiva appare
preferibile, con l’avvertenza che, come per le s.p.a., il ricavato dovrà essere versato
alla società e che la transazione e la rinuncia non vincolano la società e gli altri soci.

Azione individuale dei soci o dei terzi e quella dei creditori


Come nelle s.p.a., anche nelle s.r.l. i singoli soci e i terzi possono agire nei confronti
degli amministratori e dei soci gestori per il risarcimento dei danni direttamente subiti
a causa di atti dolosi o colposi degli amministratori: la fattispecie è identica, nei suoi
caratteri costitutivi, a quella regolata per le s.p.a.

Nella s.r.l. è tuttavia presente una rilevante peculiarità: non v’è nessuna norma
specifica in ordine all’azione di responsabilità dei creditori sociali. Si consideri
comunque che: - nelle norme sulle società soggette a direzione e coordinamento si
prevede la responsabilità verso i creditori sociali della società controllante e di chi
abbia preso parte al fatto lesivo anche se si tratti di s.r.l.;- anche nelle norme in
materia di scioglimento, che si applicano a tutte le società di capitali, è espressamente
prevista la responsabilità degli amministratori nei confronti dei creditori sociali.

Questi segnali potrebbero far ritenere che, nonostante il silenzio della legge, l’azione
di responsabilità dei creditori sociali prevista per le s.p.a. si applichi analogamente
anche alle s.r.l.

Le modificazioni dell’atto costitutivo


Come si è già detto, nella s.r.l. le modificazioni dell’atto costitutivo devono essere
deliberate dall’assemblea dei soci. L’art. 2480 c.c. dispone poi, unico caso per le s.r.l.,
che il verbale debba essere redatto dal notaio e che a tali delibere si applichi
integralmente la disciplina della s.p.a. su deposito, iscrizione, pubblicazione ed
efficacia della delibera.

L’art. 2481 c.c. consente che l’atto costitutivo attribuisca agli amministratori la
facoltà di decidere l’aumento del capitale sociale: ne vanno precisati limiti e modalità
di esercizio.

Come nelle s.p.a., due sono le forme di aumento di capitale previste dalla legge:
quello a pagamento e quello nominale tramite imputazione di riserve a capitale.
Quest’ultimo è disciplinato succintamente in modo sostanzialmente identico alle s.p.a.
Più articolata e, in taluni punti diversa da quella delle s.p.a., è la disciplina
dell’aumento di capitale a pagamento.

Anzitutto l’aumento di capitale sociale è riservato ai soci in proporzione alle
partecipazioni possedute: ciò a tutela del diritto dei soci a conservare inalterato il
proprio peso nella società (diritto di opzione). L’art. 2481 bis c.c. consente la
previsione statutaria che l’aumento di capitale possa “essere attuato anche mediante
offerta di quote di nuova emissione a terzi”, escludendo cioè il diritto di opzione.
L’unica tutela posta in favore dei soci non consenzienti sta nel diritto di recesso.

Come nella s.p.a., l’aumento di capitale ha carattere scindibile solo se la relativa
delibera così espressamente dispone; diversamente la mancata integrale
sottoscrizione provoca il venir meno dell’intero aumento. Le modalità di sottoscrizione
delle partecipazioni variano a seconda del tipo di conferimento: a) se si tratta di
conferimento in denaro, i sottoscrittori dell’aumento debbono versare almeno il 25%
della parte di capitale sottoscritta e l’intero sovrapprezzo; il conferimento deve essere,
tuttavia, integralmente versato se la società ha un unico socio. Resta salva la
possibilità di sostituire il versamento con polizza di assicurazione o fideiussione
bancaria; b) in caso di conferimento in natura, di beni o di crediti devono essere
interamente versati, e in caso di conferimento d’opera deve essere prestata idonea
garanzia.

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A differenza dell’aumento di capitale, la competenza a procedere alla riduzione del
capitale spetta in esclusiva ai soci. La riduzione reale del capitale sociale è regolata
esattamente nello stesso modo che si è già esposto per la s.p.a. Anche in tema di
riduzione per perdite si riproduce sostanzialmente la disciplina prevista per le s.p.a.
Gli unici caratteri differenziali rilevanti consistono:

- nella possibilità che l’atto costitutivo esoneri gli amministratori dal deposito della
relazione sulla situazione patrimoniale almeno 8 giorni prima dell’assemblea;

- nella circostanza che, in ipotesi di obbligo di riduzione non osservato dai soci, la
richiesta al tribunale è doverosa per il revisore; e inoltre può essere avanzata da
qualunque interessato;

- nella previsione che la riduzione del capitale sociale per perdite non può comportare
alcuna modificazione alle quote di partecipazione dei soci.

121 di 144
LEZIONE XXXII. LE SOCIETÀ COOPERATIVE E LE MUTUE ASSICURATRICI

Lo scopo mutualistico
“La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di
mutualità e senza fini di speculazione privata” (art. 45 Cost.).
Caratteristica funzionale precipua delle società cooperative è il perseguimento del c.d.
scopo mutualistico, cioè della finalità di fornire beni o servizi od occasioni di lavoro
direttamente ai membri dell’organizzazione a condizioni più vantaggiose di quelle che
potrebbero ottenere sul mercato. Es. una cooperativa di consumo ha lo scopo di
consentire ai soci di acquistare i beni a condizioni più convenienti di quelle del mercato
in considerazione dell’assenza dell’immediatezza capitalistica: in ciò consiste la
gestione di servizio. Il vantaggio mutualistico richiede un rapporto ulteriore (scambio
mutualistico) rispetto a quello societario e può essere conseguito in via diretta e
immediata tramite applicazione ai soci di prezzi minori o in via differita mediante
ristorni, le somme di denaro attribuite ai soci una volta verificato il risultato di
esercizio e nei limiti di avanzo della gestione, in proporzione alla quantità e qualità
degli scambi mutualistici.

A tutela dell’affidamento dei terzi, la denominazione sociale, deve contenere
l’indicazione di società cooperativa. Esse debbono iscriversi, oltre che nel registro delle
imprese, anche in apposito albo istituito presso il ministero delle attività produttive.

Benché le cooperative siano caratterizzate dallo scopo mutualistico, la legge non
esclude affatto che esse possano agire con non soci e perseguire parzialmente lo
scopo lucrativo distribuendo utili fra i soci. Peraltro, lo svolgimento dell’attività anche
con terzi è possibile solo se ciò viene espressamente previsto nell’atto costitutivo e la
distribuibilità di utili fra i soci, benché permessa, è assai circoscritta.

A seguito della riforma si devono distinguere due categorie di cooperative: quelle c.d.
a mutualità prevalente e le altre.

Le cooperative a mutualità prevalente sono le uniche destinatarie delle


agevolazioni fiscali previste nella legislazione tributaria. Per essere tali occorre
rispettare due requisiti: uno di natura operativa consistente nella prevalenza della
gestione di servizio con i soci rispetto all’attività con i terzi; l’altro di carattere
statutario, basato sulla presenza nello statuto di determinate clausole particolarmente
restrittive del lucro.

Il requisito gestionale della prevalenza è diversamente articolato in ragione del tipo di
scambio mutualistico: a) in quelle di consumo: ricavi dalle vendite dei beni e dalle
prestazioni di servizi verso i soci superiori al 50% del totale dei ricavi delle vendite e
delle prestazioni; b) in quelle di lavoro: costo del lavoro dei soci superiore al 50% del
totale del costo del lavoro; c) in quelle di produzione e trasformazione: costo della
produzione per servizi ricevuti dai soci ovvero per beni conferiti dai soci
rispettivamente superiori al 50% del totale dei costi dei servizi ovvero al costo delle
merci o materie prime acquistate o conferite. Nelle cooperative agricole, peraltro, è
sufficiente che la quantità o il valore dei prodotti conferiti dai soci sia superiore al 50%
della quantità o del valore totale dei prodotti.

Il requisito statutario è dato dalla necessaria presenza di clausole che prevedano:

- il divieto di distribuire i dividendi in misura superiore all’interesse massimo dei buoni
postali fruttiferi, aumentato di 2 punti e mezzo rispetto al capitale effettivamente
versato;

- il divieto di remunerare gli strumenti finanziari offerti in sottoscrizione ai soci
cooperatori in misura superiore a 2 punti rispetto al limite massimo previsto per i
dividendi;

- il divieto di distribuire le riserve tra i soci cooperatori;

- l’obbligo di devoluzione, in caso di scioglimento della società, dell’intero patrimonio
sociale, dedotto soltanto il capitale sociale e i dividendi eventualmente maturati, ai
fondi mutualistici per la promozione e lo sviluppo della cooperazione.

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Le società cooperative a mutualità prevalente in sostanza sono connotate dalla
compressione del lucro soggettivo dei soci cooperatori e dalla devoluzione altruistica
del netto di liquidazione che supera il patrimonio sociale. Si iscrivono in un apposito
albo, presso il quale depositano annualmente i propri bilanci.

Le cooperative che non abbiano i requisiti appena visti rappresentano le c.d.
cooperative “altre”: sono anch’esse destinatarie, eccetto specifica previsione
contraria delle singole leggi speciali, di agevolazioni di varia natura (previdenziale,
finanziaria, ecc…), ma non di quelle di natura fiscale.

La disciplina delle due categorie di cooperative è sostanzialmente omogenea salvo
quanto è appena visto in tema di limiti alla distribuzione di utili. Una cooperativa può
essere “altra” fin dall’origine oppure perché elimina una delle citate clausole statutarie
oppure ancora perché per due esercizi consecutivi, non rispetta la condizione di
prevalenza.

Pur divenendo altra, la cooperativa può continuare ad avvalersi nella sua attività
dell’intero patrimonio accumulato in regime di agevolazione fiscale, ma di esso deve
tenersi memoria al fine della devoluzione mutualistica, qualora in seguito la
cooperativa si sciolga o si trasformi in società lucrativa.

Le caratteristiche fondamentali
Connotati strutturali tipici sono la variabilità del capitale e il voto capitario.

Variabilità del capitale significa che l’atto costitutivo non contiene l’indicazione di un
importo nominale fisso prestabilito. In ogni momento nelle cooperative è possibile
l’ingresso di nuovi soci senza che ciò comporti la necessità di una modifica statutaria
di aumento del capitale; così come l’uscita di soci, a causa di morte, recesso, o
esclusione, non implica mai la necessità di procedere a una modifica statutaria.

La regola del voto capitario, secondo la quale in assemblea “ciascun socio cooperatore
ha un voto, qualunque sia il valore della quota o il numero delle azioni
possedute” (art. 2538) rappresenta il caposaldo della c.d. democrazia cooperativa in
opposizione al principio plutocratico valevole nelle società lucrative. La recente riforma
ha ridotto l’imperatività del principio del voto capitario ammettendo che, in certi casi,
il diritto di voto possa essere assegnato ai soci in misura diversificata. In particolare
l’atto costitutivo: - può attribuire ai soci cooperatori persone giuridiche più voti, ma
non oltre 5, in relazione all’ammontare della quota oppure al numero dei loro membri;

- può prevedere, nelle cooperative in cui i soci realizzano lo scopo mutualistico
attraverso l’integrazione delle rispettive imprese o di talune fasi di esse, che il diritto
di voto sia attribuito in ragione della partecipazione allo scambio mutualistico. In tal
caso, lo statuto deve stabilire un limite in modo che nessuno di essi possa esprimere
più di 1/10 dei voti. Complessivamente, a tali soci non può essere attribuito più di ⅓
dei voti spettanti all’insieme dei soci; - può attribuire il diritto di voto nell’elezione
dell’organo di controllo proporzionalmente alle quote o alle azioni possedute ovvero in
ragione della partecipazione allo scambio mutualistico.

Tipico delle cooperative è il c.d. doppio rapporto tra soci e società: il rapporto
sociale propriamente detto e il rapporto mutualistico, che si sostanzia negli scambi
attraverso i quali si realizzano i vantaggi per i soci. Altra causa di collegamento può
essere data dai ristorni, ovvero le modalità di attribuzione differita del vantaggio
mutualistico

L’atto costitutivo stabilisce le regole per lo svolgimento dell’attività mutualistica. I
rapporti tra la società e i soci possono essere disciplinati anche da regolamenti che
determinano i criteri e le regole inerenti allo svolgimento dell’attività mutualistica tra
la società e i soci. Nella costituzione e nell’esecuzione dei rapporti mutualistici deve
essere rispettato il principio di parità di trattamento. Infine, non possono essere
delegati dagli amministratori i poteri in materia di ammissione, di recesso e di
esclusione dei soci e le decisioni che incidono sui rapporti mutualistici con i soci.

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Cooperative spa e cooperative srl: La disciplina espressa delle cooperative non è
esaustiva; essa ha perciò bisogno di “appoggiarsi” per colmare le lacune a quella delle
società lucrative. L’art. 2519 c.c. prevede che alle cooperative si applichino, in quanto
compatibili, le disposizioni sulla società per azioni. L’atto costitutivo delle cooperative
con un numero di soci cooperatori inferiori a 20, o con un attivo dello stato
patrimoniale non superiore a 1 milione di euro può, tuttavia, prevedere che trovino
applicazione, in quanto compatibili, le norme sulla s.r.l. I soci devono essere almeno
nove, o tre nel caso siano tutti persone fisiche. In quest’ultimo caso la società adotta
le norme delle srl.

La quotazione della cooperativa può apparire contraddittoria sia con lo scopo
mutualistico sia con le regole di quotazione che impongono la libera trasferibilità delle
azioni. In effetti, oggi sono quotate in mercati regolamentati solo alcune banche
popolari e una società cooperativa.Non deve peraltro dimenticarsi che le cooperative
possono emettere strumenti finanziari “lucrativi”.

Mentre prima della riforma la legge ammetteva sia le cooperative a responsabilità
limitata dei soci sia quelle a responsabilità limitata, adesso in tutte le cooperative per
le obbligazioni sociali risponde soltanto la società con il suo patrimonio.

Nel settore delle cooperative è particolarmente rigogliosa la legislazione speciale.

Il rapporto tra codice e leggi speciali è regolato nell’art. 2520 c.c. secondo cui la
legge speciale prevale e le norme del codice si applicano solo in quanto compatibili.
Espressamente il codice contempla la possibilità che la legge preveda la costituzione di
cooperative destinate a procurare beni i servizi a soggetti appartenenti a particolari
categorie anche di non soci: cioè di enti che, in quanto non svolgenti attività
mutualistica con i soci, non sarebbero qualificabili come cooperative secondo le
disposizioni del codice.

È, ad esempio, il caso delle cooperative sociali che, in base alla legge istitutiva,
sono tenute a “perseguire l’interesse generale della comunità alla promozione umana
e all’integrazione sociale dei cittadini”.

La costituzione
La costituzione di una cooperativa deve avvenire per atto pubblico ed è regolata in
gran parte dalle rispettive norme in tema di s.p.a. e s.r.l. Oltre a quanto già esposto
nei precedenti paragrafi, l’atto costitutivo di una cooperativa deve contenere:

- l’identificazione specifica dell’oggetto sociale;

- se il capitale è ripartito in azioni, il loro valore nominale;

- i requisiti e le condizioni per l’ammissione dei soci;
-le condizioni per l’eventuale recesso o per l’esclusione dei soci;

-le regole per la ripartizione degli utili.

Per costituire una cooperativa è necessario che i soci siano almeno 9 oppure 3, purché
persone fisiche; qualora successivamente alla costituzione il numero dei soci scenda al
di sotto, esso deve essere integrato nel temine massimo di 1 anno, trascorso il quale
la società si scioglie e deve essere posta in liquidazione. L’iscrizione dell’atto
costitutivo nel registro delle imprese e i suoi effetti sono regolati come nelle s.p.a.

La struttura finanziaria
Azioni e quote dei soci cooperativi: Le partecipazioni dei soci cooperatori possono
essere rappresentate da azioni o quote: la prima ipotesi presuppone che il modello di
riferimento sia quello della s.p.a.; la seconda ammette sia s.r.l. che s.p.a. Salvo
quanto previsto in leggi speciali, il valore nominale di ciascuna azione o quota non può
essere inferiore a 25 euro né, per le azioni, superiori a 500 euro e nessun socio può
avere una quota superiore a 100.000 euro. Tali limiti non si applicano nei seguenti
casi:

- conferimenti di beni in natura o di crediti;

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- aumento del capitale, nei limiti del 20%, di quello originario;

- aumento del capitale mediante imputazione delle riserve disponibili;

- ai soci diversi dalle persone fisiche.

L’atto costitutivo deve stabilire i requisiti per l’ammissione dei nuovi soci e la relativa
procedura secondo criteri non discriminatori coerenti con lo scopo mutualistico e
l’attività economica svolta.

In relazione all’oggetto sociale, possono essere ammessi solo soggetti che siano con
esso coerenti.

È possibile la c.d. ammissione in prova (che non può comunque superare i 5 anni) in
funzione della formazione del cooperatore e del suo inserimento nell’impresa; i soci in
prova non possono in ogni caso superare ⅓ del numero totale dei cooperatori. Le linee
fondamentali della procedura d’ammissione sono tracciate dalla legge. La competenza
è degli amministratori, i quali provvedono collegialmente su domanda dell’interessato.
Il nuovo socio deve versare, oltre l’importo della quota o delle azioni, il sovrapprezzo
determinato annualmente dall’assemblea su proposta degli amministratori. Se gli
amministratori rigettano la domanda, l’aspirante socio, entro 60 giorni, può chiedere
che sull’istanza si pronunci l’assemblea.

Quote e azioni della cooperativa possono essere cedute con effetto verso la società
solo se la cessione è autorizzata dagli amministratori. Il procedimento ricalca, con
alcune differenza, quello di ammissione (all’assemblea si sostituisce il tribunale).

L’atto costitutivo può vietare la cessione della quota o delle azioni. In tal caso, però, il
socio, dopo che siano decorso almeno 2 anni dal suo ingresso in società, può recedere
con preavviso di 90 giorni. L’atto costitutivo, infine, può autorizzare gli amministratori
a acquistare o rimborsare quote o azioni della società, purché il rapporto tra
patrimonio netto e complessivo indebitamento non sia superiore a ¼ e l’acquisto o il
rimborso sia effettuato nei limiti degli utili distribuibili e delle riserve disponibili
risultanti dall’ultimo bilancio.

L’atto costitutivo può prevedere l’emissione di strumenti finanziari. La disciplina è


diversificata a seconda che si tratti di cooperativa alla quale si applicano le norme
della s.p.a. oppure quelle della s.r.l. Nel caso di cooperative s.r.l. possono essere
emessi solo strumenti finanziari privi di diritti di amministrazione da offrire in
sottoscrizione a investitori qualificati. Benché la formula di legge sia ambigua, deve
ritenersi che queste cooperative possano emettere solo titoli di debito.

Se si tratta, invece, di cooperative s.p.a. l’art. 2526 c.c.:

- prevede che sia l’atto costitutivo a stabilire i diritti di amministrazione o patrimoniali
attribuiti ai possessori degli strumenti finanziari;

- dispone che ai possessori di strumenti finanziari non può essere attribuito più di ⅓
dei voti in ciascuna assemblea generale;

- attribuisce ai possessori di strumenti finanziari con diritto di voto il diritto di
recedere, con ciò presupponendo la qualità di socio del possessore di tali strumenti
finanziari.

Nella s.p.a. la locuzione “strumenti finanziari” è di carattere residuale rispetto alle
azioni e alle obbligazioni. Nelle cooperative cui si applica la disciplina delle s.p.a.,
invece, l’espressione è residuale rispetto alle azioni dei soci cooperatori. Abbraccia
dunque un ambito molto più esteso rispetto alla s.p.a., comprendendo strumenti
finanziari:

- di tipo obbligazionario;

- di tipo analogo agli strumenti ibridi che possono essere emessi da una s.p.a.;

- di tipo azionario “lucrativo”.

A differenza di quanto accade nella s.p.a., nelle cooperative gli apporti a fronte di
strumenti finanziari possono essere imputati a capitale e attribuire la qualità di socio.
Determinante a riguardo è l’autonomia privata che può decidere se emettere
strumenti finanziari da imputare a capitale.

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La destinazione degli utili: Stabilito che nelle cooperative devono essere rispettati i
limiti di ripartizione degli utili, vediamo ora le regole per la destinazione degli avanzi
positivi di gestione di tutte le cooperative. Ogni anno deve essere destinato a riserva
legale, che è indivisibile in tutte le cooperative, almeno il 30% degli utili netti annuali,
qualunque sia l’ammontare del fondo stesso.

Un ulteriore quota degli utili netti annuali (oggi pari al 3%) deve essere corrisposta ai
fondi mutualistici per la promozione e lo sviluppo della cooperazione. La destinazione
del residuo, se non già determinata nello statuto, viene decisa dall’assemblea, che
peraltro deve rispettare: - modalità e percentuale massima di ripartizione dei
dividendi tra i soci cooperatori stabilite nello statuto; - il divieto di distribuire
dividendi, acquistare proprie quote o azioni, ovvero assegnare ai soci le riserve
divisibili se il rapporto tra patrimonio netto e complessivo indebitamento della società
è superiore a ¼. Tale limite non si applica ai possessori di strumenti finanziari.
Le riserve: Nelle cooperative, le riserve vanno distinte tra indivisibili e divisibili.

L’indivisibilità può derivare sia dalla legge sia da una scelta statutaria ed è
immodificabile.

Le riserve indivisibili, cioè quelle che non possono essere ripartite tra i soci neppure in
caso di scioglimento della società, ma vanno devolute ai fondi mutualistici per la
promozione e lo sviluppo della cooperazione, sono utilizzabili per la copertura di
perdite solo dopo che sono esaurite le riserve che la società aveva destinato ad
operazioni di aumento di capitale e quelle divisibili.

La ripartizione tra i soci delle riserve divisibili è decisa dall’assemblea e, di regola,
avviene in denaro. Tuttavia, al fine di contemperare l’aspirazione economica dei soci
con l’esigenza di patrimonializzazione della società, l’atto costitutivo può autorizzare
l’assemblea ad assegnare ai soci le riserve divisibili attraverso:

- l’emissione degli strumenti finanziari;

- l’aumento proporzionale delle quote sottoscritte e versate oppure l’emissione di
nuove azioni.
I ristorni: Somme di denaro che vengono attribuite ai soci dopo che si è accertato il
risultato dell’esercizio e nei limiti dell’avanzo risultante dalla gestione con i soci, in
proporzione non alla partecipazione al capitale, ma alla quantità e qualità degli scambi
mutualistici. Per questo motivo, le cooperative devono riportare separatamente nel
bilancio i dati relativi all’attività svolta con i soci, distinguendo le eventuali diverse
gestioni mutualistiche.

L’organizzazione e i controlli
Assemblea: Il voto capitario, il sistema tipico per i soci cooperativi, non si applica ai
soci finanziatori che, però, non possono avere più di ⅓ dei voti in ciascuna assemblea
generale. L’atto costitutibo, per evitare che il principio del voto capitario possa essere
eluso, deve inoltre determinare i limiti al diritto di voto degli strumenti fiinanziari
offerti.
Per il resto, la disciplina specifica dell’assemblea si risolve in deroghe alle disposizioni
previste in materia di s.p.a. e di s.r.l. Le maggioranze richieste per la costituzione
delle assemblee e per la validità delle deliberazioni sono determinate dall’atto
costitutivo e calcolate secondo il numero dei voti spettanti ai soci. Il voto può avvenire
anche per corrispondenza e vie telematiche.

In tema di rappresentanza vi sono due disposizioni particolari:

- nelle cooperative disciplinate dalle norme sulla s.p.a. ciascun socio può
rappresentare fino a un massimo di 10 soci;

- in qualsiasi cooperativa il socio imprenditore individuale può farsi rappresentare
nell’assemblea anche da coniuge, dai parenti entro il terzo grado e dagli affini entro il
secondo che collaborano all’impresa.

Peculiare delle cooperative, al fine di stimolare la partecipazione dei soci cooperatori
alla vita sociale, è il sistema delle assemblee separate. L’atto costitutivo delle
cooperative può prevedere lo svolgimento di assemblee separate; anzi, deve

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prevederlo se la società ha più di 3000 soci e svolge la propria attività in più province
ovvero se ha più di 500 soci e si realizzano più gestioni mutualistiche. Non possono
invece esservi assemblee separate nelle cooperative con azioni quotate.

L’atto costitutivo stabilisce luogo, criteri e modalità di convocazione e di partecipazione
all’assemblea generale dei delegati nominati nelle assemblee separate e assicura la
proporzionale rappresentanza delle minoranze espresse dalla assemblee separate.

Come nelle s.p.a., si applica il sistema delle assemblee speciali quando siano state
emesse azioni di diverse categorie (l’assemblea speciale di categoria qualora siano
stati emessi strumenti finanziari privi del diritto di voto).

Non è chiaro se l’organo amministrativo della cooperativa debba essere


necessariamente collegiale oppure se possa esservi anche un amministratore unico
oppure ancora, nelle cooperative rette da norme sulle s.r.l., più amministratori che
operino non collegialmente. Spesso, infatti, le norme sulle cooperative si riferiscono al
consiglio di amministrazione, come se fosse implicita la sua necessaria esistenza. La
nomina degli amministratori segue le regole proprie del sistema di riferimento con
alcune importanti precisazioni:

- la maggioranza degli amministratori deve essere scelta tra i soci cooperatori;

- l’atto costitutivo può prevedere che uno o più amministratori siano scelti tra gli
appartenenti alle diverse categorie dei soci, in proporzione dell’interesse che ciascuna
categoria ha nell’attività sociale.

In ogni caso, ai possessori di strumenti finanziari non può essere attribuito il diritto di
eleggere più di ⅓ degli amministratori; anche qualora l’atto costitutivo attribuisca la
nomina di uno o più amministratori allo Stato o ad enti pubblici, la nomina della
maggioranza degli amministratori deve essere riservata all’assemblea.

Controlli interni: Indipendentemente dalla circostanza che alla cooperativa si
applichino le norme della s.p.a. o della s.r.l., la nomina del collegio sindacale è
obbligatoria solo:

- se il capitale sociale non è inferiore a quello minimo stabilito per le s.p.a.;

- quando la società abbia emesso strumenti finanziari non partecipativi (è dubbio se si
intenda strumenti finanziari privi di diritti amministrativi ovvero alluda alla non
partecipazione al rischio d’impresa).

Per la nomina dei sindaci lo statuto può prevedere deroghe al voto capitario per i soci
cooperatori e che ai possessori degli strumenti finanziari dotati di diritti di
amministrazione sia attribuita la nomina di non più di ⅓ dei componenti dell’organo di
controllo. Oltre al controllo sindacale, nelle cooperative, in virtù dei principi
“democratici” che la ispirano, è sviluppato il controllo dei soci.
Nelle cooperative cui si applica la disciplina della s.p.a. possono essere adottati i noti
sistemi alternativi in materia di amministrazione e controllo.

Nel sistema dualistico i possessori di strumenti finanziari non possono eleggere più di
⅓ dei componenti del consiglio di sorveglianza e più di ⅓ di quelli del consiglio di
gestione.

I componenti del consiglio di sorveglianza eletti dai soci cooperatori, inoltre, devono
essere scelti tra i soci cooperatori.

Nel sistema monistico, invece, agli amministratori eletti dai possessori di strumenti
finanziari, in misura comunque non superiore a ⅓, non possono essere attribuite
deleghe operative né gli stessi possono fare parte del comitato esecutivo.

La revisione contabile: Nelle cooperative cui si applica la disciplina della s.p.a. è


obbligatoria la nomina del revisore contabile esterno. Inoltre gli enti cooperativi che
superino determinate dimensioni sono assoggettate all’obbligo di certificazioni.


Il controllo giudiziale: Nel sistema precedente alla riforma, le cooperative, in


quanto sottoposte a controllo amministrativi, erano sottratte al controllo giudiziale.
Adesso, nonostante il mantenimento dei controlli pubblici, l’esenzione è venuta meno
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e, tranne quelle bancarie, tutte le cooperative sono soggette a tale procedura.

I soci che siano titolari di 1/10 del capitale sociale ovvero 1/10 del numero
complessivo dei soci possono denunciare al tribunale il fondato sospetto che gli
amministratori, in violazione dei loro doveri, abbiano compiuto gravi irregolarità nella
gestione che possono arrecare danno alla società.

I controlli pubblici: Le cooperative sono sottoposte alle autorizzazioni, alla vigilanza


e agli altri controlli sulla gestione previsti dalle leggi speciali. Fondamentale in materia
è il d. lgs. 220/2002 che devolve la vigilanza, finalizzata all’accertamento dei requisiti
mutualistici, al ministero delle attività produttive, che la esercita mediante revisioni
cooperative e ispezioni straordinarie.

In caso di irregolare funzionamento della cooperativa, l’autorità di vigilanza può
revocarne gli amministratori e sindaci e affidare la gestione della società a un
commissario, di cui determina poteri e durata. L’autorità di vigilanza può sciogliere le
società cooperative e gli enti mutualistici che: - non perseguono lo scopo mutualistico;
- non sono in condizione di raggiungere gli scopi per cui sono stati costituiti; - per 2
anni consecutivi non hanno depositato il bilancio di esercizio o non hanno compiuto
atti di gestione.

Con il provvedimento di liquidazione sono nominati uno o più commissari liquidatori.

L’autorità di vigilanza, inoltre, può intervenire in caso di irregolarità o di eccessivo
ritardo nello svolgimento della liquidazione ordinaria di una cooperativa: sia
sostituendo i liquidatori o, se questi sono stati nominati dall’autorità giudiziaria,
chiedendone la sostituzione al tribunale; sia disponendo la pubblicazione nella
Gazzetta Ufficiale, per la conseguente cancellazione dal registro delle imprese, gli enti
mutualistici che non hanno depositato i bilanci di esercizio relativi agli ultimi 5 anni.
Le dimensioni delle cooperative spesso sono modeste rispetto alle loro concorrenti
lucrative sia per la difficoltà di attrarre capitali sia perché dimensioni ridotte facilitano
lo scambio mutualistico, la partecipazione democratica al governo delle imprese e il
collegamento con il territorio e la categoria di riferimento. Al fine di non essere escluse
dalla possibilità di godere di economie di scala, tuttavia, le cooperative hanno
tradizionalmente realizzato un sistema di “reti tra uguali” per centralizzare alcuni
aspetti della loro attività.

Proprio per venire incontro a tale esigenza la recente riforma ha espressamente
ammesso la liceità del c.d. gruppo cooperativo paritetico, ovvero di quel gruppo
caratterizzato non dalla presenza di una capogruppo che esercita un’attività di
direzione e coordinamento su altre società, ma dalla reciproca limitazione di sovranità
di più società che si sottopongono contrattualmente a una direzione unitaria
“concertata”.
Alle modificazioni statutarie delle cooperative si applica la disciplina generale dell’art.
2436 c.c.

Una particolare disciplina è dettata per la trasformazione della cooperativa in società
lucrativa.

Prima della riforma essa era vietata; adesso, invece, è consentita, ma solo per le
cooperative “altre” che possono deliberarla con il voto favorevole di almeno la metà
dei soci. Tale trasformazione ha notevoli implicazioni: - gli strumenti finanziari con
diritto di voto eventualmente esistenti sono convertiti in partecipazioni ordinarie,
conservando gli eventuali privilegi; - il valore effettivo del patrimonio, dedotti il
capitale versato e rivalutato e i dividendi non ancora distribuiti, eventualmente
aumentato fino a concorrenza dell’ammontare minimo del capitale della nuova società,
esistenti alla data di trasformazione, viene devoluto in favore dei fondi mutualistici per
la promozione e lo sviluppo della cooperazione.

Scioglimento totale e parziale


Lo scioglimento della cooperativa: Le cause di scioglimento delle cooperative sono
le stesse previste per le società di capitali con l’unica eccezione che, in virtù della

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variabilità del capitale, la diminuzione di questo al di sotto del minimo legale è
sostituita dalla perdita del capitale sociale.

A queste cause si aggiungono poi le ipotesi già viste di scioglimento per
provvedimento dell’autorità giudiziaria e di riduzione dei soci al di sotto del minimo
legale.

In caso di insolvenza le cooperative sono soggette sia a liquidazione coatta
amministrativa sia, se svolgono attività commerciale, a fallimento.

Lo scioglimento particolare del rapporto sociale: Benché i modelli di riferimento


delle cooperative siano la s.p.a. e la s.r.l., in tema di scioglimento parziale del vincolo
sociale la disciplina è più vicina a quella delle società di persone.
Il socio cooperatore può recedere dalla società nei casi previsti dalla legge e dall’atto
costitutivo. Il recesso non può essere parziale. Gli effetti del recesso decorrono: - per
quanto riguarda il rapporto sociale dalla comunicazione del provvedimento di
accoglimento della domanda; - per i rapporti mutualistici tra socio e società, ove la
legge o l’atto costitutivo non prevedano diversamente, con la chiusura dell’esercizio in
corso, se comunicato 3 mesi prima, e, in caso contrario, con la chiusura dell’esercizio
successivo.

I socio può essere escluso: - previa intimazione da parte degli amministratori, se non
segue in tutto o in parte il pagamento delle quote o delle azioni sottoscritte; - nei casi
previsti dall’atto costitutivo;

- per gravi inadempienze delle obbligazioni che derivano dalla legge, dal contratto
sociale, dal regolamento o dal rapporto mutualistico; - per mancanza o perdita dei
requisiti previsti per la partecipazione alla società; - nei casi previsti dall’art. 2286 c.c.
(perdita capacità di agire, perimento del conferimento in natura, sopravvenuta
inidoneità del bene a perseguire l’oggetto sociale); - qualora venga dichiarato fallito.

Competenti a decidere l’esclusione sono gli amministratori, ma l’atto costitutivo può
attribuire tale potere all’assemblea. Contro l’esclusione il socio può proporre
opposizione al tribunale.

In caso di morte del socio, gli eredi hanno diritto alla liquidazione della quota o al
rimborso delle azioni. L’atto costitutivo può però prevedere che gli eredi, purché
provvisti dei requisiti per l’ammissione, subentrino nella partecipazione del socio
deceduto.

La liquidazione della quota o il rimborso delle azioni ha luogo sulla base del bilancio
dell’esercizio in cui si sono verificati il recesso, l’esclusione o la morte del socio. Il
socio che cessa di far parte della società continua a rispondere per il pagamento dei
conferimenti non versati per 1 anno dal giorno in cui la causa di cessazione si è
verificata. Se entro 1 anno dallo scioglimento del rapporto si manifesta l’insolvenza
della società, il socio uscente è obbligato verso le società per quanto ricevuto a titolo
di liquidazione della quota o il rimborso delle azioni.

Le mutue assicuratrici
Le mutue assicuratrici sono particolari cooperative operanti nel settore assicurativo
nelle quali, salva la figura dei soci sovventori, la qualità di socio si acquista solo
assicurandosi presso la società e si perde con l’estinguersi dell’assicurazione. Le
obbligazioni sono garantite dal patrimonio sociale e i soci sono tenuti al pagamento
dei contributi fissi o variabili. L’atto costitutivo può prevedere la costituzione di fondi di
garanzia per il pagamento delle indennità mediante speciali conferimenti da parte di
assicurati o di terzi, attribuendo anche a questi ultimi la qualità di soci.

A questi soci sovventori l’atto costitutivo può attribuire più voti, ma non oltre 5, in
relazione all’ammontare del conferimento, e comunque non in misura tale da superare
il numero di quelli spettanti ai soci assicurati. I soci sovventori possono essere
nominati amministratori, ma la maggioranza di questi deve essere costituita da soci
assicurati.

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LEZIONE XXXIV. SOCIETÀ DI CAPITALI: LIBRI SOCIALI E BILANCIO,
SCIOGLIMENTO (par. 3.1-3.17)

Il bilancio
Il bilancio è quell’insieme di documenti contabili (costituito da stato patrimoniale,
conto economico, rendiconto finanziario e nota integrativa. corredato dalla relazione
degli amministratori sulla gestione, di quella dell’organo di controllo e di quella del
revisore) intorno ai quali ruota l’intera disciplina delle società di capitali.

Molteplici sono le funzioni ricollegabili al bilancio:

- strumento per l’accertamento della consistenza del patrimonio sociale, unica
garanzia dei creditori;

- strumento esclusivo per la determinazione dell’esistenza di utili e riserve distribuibili
tra i soci;

- presidio dell’effettività delle norme a tutela dei creditori sociali;

- documento informativo principe, data la sua destinazione al pubblico;

- base per la tassazione delle società di capitali.

Le regole in materia di bilancio sono organicamente dettate in relazione alla s.p.a., ma
le relative norme sono integralmente richiamate per le s.r.l. in modo che è possibile un
discorso unitario. Disposizioni speciali valgono per le società operanti in particolari
settori (bancario, finanziario, assicurativo, ecc…). Alle regole sul bilancio di esercizio si
affiancano quelle sul bilancio consolidato, cioè sul bilancio dell’insieme delle società
sottoposte a comune direzione e coordinamento considerate come se fossero un’unica
impresa.

La rapida evoluzione del diritto societario trova nella materia del bilancio uno dei
settori più caldi, soprattutto per l’introduzione nel diritto interno dei principi contabili
internazionali, cioè degli International Accounting Standards (IAS) o meglio, secondo
la loro nuova denominazione, International Financial Reporting Standards (IFRS),
adottai dalla UE.

Mentre la tradizionale disciplina di bilancio è basata sul principio di prudenza e, quindi,
è volta soprattutto a comprimere l’utile distribuibile in favore dei soci per
salvaguardare l’integrità del patrimonio sociale nell’interesse dei terzi, gli standard
contabili IAS/IFRS sono finalizzati all’esigenza primaria di fornire agli investitori
un’informazione adeguata, anche in chiave di prospettive reddituali, sulla situazione
economica, patrimoniale e finanziaria degli emittenti, e per tale ragione prediligono la
valutazione basata sul fair value (valore equo) e sul mark to market.

Con il d. lgs. 38/2005, l’ambito di applicazione dei principi contabili internazionali è
stato così individuato:

- per quanto riguarda il bilancio consolidato, l’applicazione degli IAS/IFRS è
obbligatoria, oltre che per le società con strumenti finanziari quotati, anche per quelle
con strumenti finanziari diffusi, le banche, le finanziarie... L’adozione è invece
facoltativa per tutte le altre società; una volta effettuata, però, tale scelta non è
revocabile;

- per quanto concerne il bilancio di esercizio, invece, l’adozione degli IAS/IFRS era
facoltativa nel 2005, ma obbligatoria dal 2006, per le società con strumenti finanziari
quotati o diffusi presso il pubblico (banche, finanziarie, SIM,..). Le altre società
possono adottare gli IAS/IFRS a partire dall’esercizio 2005, con scelta irrevocabile. Le
società che possono redigere il bilancio in forma abbreviata sono escluse in via
assoluta dalla possibilità di predisporre il bilancio di esercizio sulla base dei principi
contabili internazionali.

La contabilizzazione a valori correnti secondo gli IAS/IFRS può implicare
l’evidenziazione di un maggior utile, composto in parte anche da valori stimati ma non
ancora realizzati. Per evitare che ciò si traduca in un pericolo per i creditori della
società tramite la distribuzione in favore dei soci di utili al momento solo “sulla carta”
e per assicurare la neutralità fra l’uso delle regole tradizionali e gli IAS/IFRS, viene
allora previsto che l’importo delle plusvalenze discendenti dall’applicazione dei criteri
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IAS/IFRS vada iscritto in una speciale riserva non distribuibile fino a quando la
plusvalenza non sia effettivamente realizzata.

Al momento sono quindi in vigore due diversi set normativi per la redazione del
bilancio: quello tradizionale e quello dei principi contabili internazionali. La profonda
diversità tra i due sistemi ne impedisce una trattazione congiunta.

Nella trattazione seguente, quindi, si analizzeranno le regole tradizionali contenute nel
codice civile con alcuni riferimenti ai principi contabili internazionali.

Il bilancio va redatto dagli amministratori con chiarezza e deve rappresentare in


modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale e finanziaria della società e il
risultato economico dell’esercizio.

Chiarezza e rappresentazione veritiera e corretta costituiscono le c.d. clausole
generali di bilancio che ne ispirano la disciplina e che addirittura impongono di
derogare a norme specifiche qualora l’applicazione di queste ultime possa in concreto
pregiudicarle. La delibera che approvi un bilancio redatto senza l’osservanza di anche
uno solo di essi è nulla per illiceità dell’oggetto.

Per rappresentazione veritiera e corretta si intende che le voci di bilancio devono
essere basate su dati veri ed esprimere valutazioni condotte secondo i criteri di legge
e quelli tecnici professionali.

Chiarezza significa che il bilancio deve essere, non solo veritiero e corretto, ma anche
esposto in modo tale da consentire al lettore di comprendere la situazione
patrimoniale e finanziaria della società.

Il rapporto tra clausole generali e norme specifiche può essere così sintetizzato:

- la classificazione di voci contenuta negli artt. 2424 e 2425 c.c. è tipica: aggiunte,
raggruppamenti, adattamenti sono possibili, o in certi casi addirittura doverosi, solo in
funzione del fine della chiarezza del bilancio;

- se le informazioni richieste da specifiche disposizioni di legge non sono sufficienti a
dare una rappresentazione veritiera e corretta, si devono fornire quelle complementari
necessarie allo scopo;

- se, in casi eccezionali, l’applicazione di una norma di legge è incompatibile con la
rappresentazione veritiera e corretta, la disposizione non deve essere applicata.

La valutazione delle singole voci deve essere fatta secondo prudenza e nella
prospettiva della continuazione dell’attività (going concern), nonché tenendo
conto della funzione economica dell’elemento dell’attivo o del passivo considerato.

Il principio di prudenza rappresenta, nell’attuale sistema, la chiave di volta della
redazione del bilancio: da esso dipende non solo l’informazione dei soci e dei terzi, ma
anche l’accertamento di quanto può irrevocabilmente uscire dal patrimonio sociale a
titolo di dividendo per i soci ed essere, quindi, definitivamente sottratto alla garanzia
generica dei creditori.

Di conseguenza è necessario che gli amministratori nella redazione del bilancio
tengano conto:

- delle attività solo se e nella misura in cui sono certe;

- delle passività anche se e nella misura in cui sono probabili.

Il principio della prospettiva della continuità dell’attività (c.d. going concern) significa
che nella valutazione delle diverse attività e passività si deve tener conto del fatto che
esse non sono destinate alla liquidazione, ma all’impiego duraturo nello svolgimento
dell’impresa.

Il precetto che impone di considerare la funzione economica dell’elemento dell’attivo o
del passivo considerato è la parziale traduzione del principio della prevalenza della
sostanza (economica) sulla forma (giuridica).

Nella redazione del bilancio si possono indicare esclusivamente gli utili realizzati alla
data di chiusura dell’esercizio, tenendo conto dei proventi e degli oneri di sua
competenza, indipendentemente dalla data dell’incasso o del pagamento, e dei rischi e
delle perdite di competenza, anche se conosciuti dopo la chiusura dell’esercizio.

131 di 144
Si tratta del c.d. principio di competenza, volto a ripartire attività e passività sugli
esercizi di spettanza, a prescindere dalle entrate o uscite di cassa.

Tipiche espressioni del principio di competenza, in relazione a costi e proventi comuni
a due o più esercizi e imputabili in ragione del tempo, sono le voci patrimoniali
denominate “ratei” e “risconti”.

In esse devono essere iscritti i proventi di competenza dell’esercizio esigibili in esercizi
successivi (ratei attivi); i costi sostenuti entro la chiusura dell’esercizio, ma di
competenza di esercizi successivi (risconti attivi); i costi di competenza dell’esercizio
esigibili in esercizi successivi (ratei passivi); e i proventi percepiti entro la chiusura
dell’esercizio, ma di competenza di esercizi successivi (risconti passivi).

Appartiene al settore del principio di competenza anche la spinosa materia della
fiscalità differita, cioè delle imposte pagate in anticipo rispetto all’esercizio di
competenza economica oppure posticipate.

I criteri di valutazione non possono essere modificati da un esercizio all’altro. La loro


continuità consente di comparare bilanci di diversi esercizi dando corpo alla clausola
generale di chiarezza.

La comparazione dei bilanci è, inoltre, agevolata dalla circostanza che per ogni voce
dello stato patrimoniale e del conto economico deve essere indicato l’importo della
voce corrispondente dell’esercizio precedente. Il principio di continuità dei criteri di
valutazione può essere derogato qualora ricorrano casi eccezionali; ma allora nella
nota integrativa se ne deve motivare la ragione e indicarne l’influenza sulla
rappresentazione della situazione patrimoniale e finanziaria e del risultato economico.

Lo stato patrimoniale
Lo stato patrimoniale offre l’istantanea, alla data di chiusura dell’esercizio, della
situazione patrimoniale e finanziaria della società; da esso si accerta se e quanti siano
gli utili distribuibili fra i soci.

Si compone di due colonne contrapposte: quella dell’attivo e quella del passivo. La
colonna del passivo comprende, oltre ai debiti (c.d. passivo reale), anche il patrimonio
netto (c.d. passivo ideale). Il primo indica i debiti della società, il secondo invece
rappresenta la differenza tra attivo e passivo reale: indica cioè il valore della società al
netto delle sue passività.Le singole voci di cui il patrimonio netto si compone
specificano il grado di disponibilità dei relativi importi da parte dei soci:
- il capitale sociale indica quella parte di patrimonio netto indisponibile da parte
dei soci;
- la riserva legale, alimentata con parte degli utili di esercizio, è soggetta allo
stesso regime di indisponibilità del capitale e funge da “cuscinetto di protezione” di
esso;
- la riserva da sovrapprezzo delle azioni che, non deriva da utili, ma dalle
somme percepite dalla società per l’emissione di azioni a un prezzo superiore al loro
valore nominale, ed è soggetta allo stesso regime della riserva legale finchè
quest’ultima non ha raggiunto il 20%;
- le riserve di rivalutazione, originate dall’esercizio della facoltà di rivalutare in
sospensione di imposta il valore monetario dei beni iscritti in bilancio; sono
indisponibili a pena di perdita dei benefici fiscali;
- le riserve statutarie, alimentate dagli utili di esercizio nei termini
statutariamente previsti; sono disponibili dai soci modificando lo statuto;
- le riserve facoltative e gli utili portati a nuovo, rappresentano quegli utili
disponibili di cui i soci non hanno deciso la distribuzione, ma l’accantonamento come
forma di autofinanziamento della società;
- ulteriori poste, costituiscono voci del passivo che servono a neutralizzare
specifiche poste dell’attivo di cui si vuole impedire che (fin quando non si concretizzino
in un’effettiva plusvalenza) possano concorrere alla formazione di un utile distribuibile.

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Lo schema legale di stato patrimoniale è fissato nell’art. 2424 c.c. in una struttura che
si articola in:
A) sezioni

I) voci

1) sottovoci

a) dettagli


In calce allo stato patrimoniale devono risultare una serie di voci (c.d. conti d’ordine)
che, pur inidonee a modificare quantitativamente il risultato dell’esercizio, sono
rilevanti ai fini della conoscenza della composizione qualitativa del patrimonio sociale.

Devono essere indicati: - gli impegni derivanti da contratti in corso ancora ineseguiti
da entrambe le parti; - i rischi derivanti dalle garanzie reali e personali prestate
direttamente o indirettamente per debiti altrui; - i beni di terzi presso la società.

Alcuni particolari criteri legali di valutazione sono prescritti nell’art. 2426 c.c.; ne
ricordiamo, in sintesi, i più importanti:
- immobilizzazioni (beni immobili, impianti, macchinari, partecipazioni) vanno
iscritte al costo di acquisto o di produzione (c.d. costo storico). Si vuole in tal modo
evitare che l’eventuale maggior valore del bene influisca sul risultato dell’esercizio e
che eventuali plusvalenze derivanti dall’andamento dei valori di mercato (ma che, fino
all’effettiva alienazione del bene, sono solo sulla carta) determinino l’emersione di un
utile distribuibile in favore dei soci;
- immobilizzazioni consistenti in partecipazioni di imprese controllate o collegate
possono essere valutate con il criterio del costo storico oppure con quello del
patrimonio netto, cioè per un importo pari alla corrispondente frazione del patrimonio
netto risultante dall’ultimo bilancio delle imprese medesime;
- costi di impianto e di ampliamento nonché i costi di ricerca, di sviluppo e di
pubblicità, aventi utilità pluriennale possono essere iscritti nell’attivo (c.d.
capitalizzazione) con il consenso del collegio sindacale e vanno ammortizzati entro un
periodo non superiore a 5 anni. Si tratta di un’applicazione del principio di competenza
volta a distribuire su più esercizi spese che contribuiscono a formare il reddito anche
di esercizi successivi a quello in cui vengono effettuati. Finché l’ammortamento non è
completato possono essere distribuiti dividendi solo se residuano riserve disponibili
sufficienti a coprire l’ammontare dei costi non ammortizzati;
- l’avviamento può essere iscritto nell’attivo solo se acquisito a titolo oneroso nei
limiti del costo per esso sostenuto e con il consenso del collegio sindacale; va
ammortizzato entro un periodo di 5 anni;
- i crediti e debiti devono essere iscritti al presumibile valore di realizzazione: è
quindi necessaria anche una valutazione di solvibilità dei debitori;
- le attività e le passività in valuta devono essere iscritte al tasso di cambio alla
data di chiusura dell’esercizio;
- le rimanenze, i titoli e le attività finanziarie che non costituiscono
immobilizzazioni vanno iscritti al minore fra costo di acquisto o di produzione e valore
di realizzazione desumibile dall’andamento del mercato;
- i lavori in corso su ordinazione possono essere iscritti sulla base dei corrispettivi
contrattuali maturati con ragionevole certezza.

Conto economico
Il conto economico offre la rappresentazione dinamica dell’attività svolta
nell’esercizio: indica i profitti e le perdite dell’esercizio. La struttura del conto
economico non è a colonne contrapposte, ma di forma scalare: l’articolazione è
analoga a quella dello stato patrimoniale, salva la mancanza dei numeri romani.

Le sezioni sono rappresentate da:
A. valore della produzione;
B. costo della produzione;

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C. proventi e oneri finanziari: il loro saldo indica il risultato della gestione
finanziaria;
D. rettifiche di valore delle attività finanziarie;

Il primo risultato che si trova (A – B) indica così il risultato della c.d. gestione
caratteristica della società. La somma algebrica di A-BCD costituisce il risultato della
società prima delle imposte.

Da questo risultato vanno detratte le imposte correnti o differite a carico dell’esercizio
e aggiunte quelle anticipate e si ottiene così l’utile (o la perdita) dell’esercizio.

Rendiconto finanziario
Introdotto dal d.lgs. 139/2015, ha come fine di migliorare l’informazione dei lettori
sulla situazione finanziaria della società. Il c.c. si limita a prescrivere che da esso
devono risultare, per l’esercizio a cui è riferito il bilancio e per quello precedente,
l’ammontare e la composizione delle disponibilità liquide, all’inizio e alla fine
dell’esercizio, e i flussi finanziari derivanti dall’attività operativa, da quella di
investimento, di finanziamento.

Nota integrativa
La nota integrativa è il documento nel quale vanno forniti chiarimenti, spiegazioni e
integrazioni rispetto ai dati numerici contenuti nello stato patrimoniale e nel conto
economico. In sintesi, sono prescritti dettagli e chiarimenti sull’evoluzione della
situazione patrimoniale e finanziaria, sul risultato dell’esercizio e le sue componenti,
su dipendenti, amministratori e sindaci, sugli strumenti finanziari emessi e i
finanziamenti ricevuti dai soci e sui patrimoni destinati. Documento distinto che non fa
parte del bilancio, ma vi è allegato, è la relazione sulla gestione predisposta dagli
amministratori. In essa l’organo amministrativo deve esporre un’analisi fedele,
equilibrata ed esauriente della situazione della società e dell’andamento e del risultato
della gestione, nonché una descrizione dei principali rischi e incertezze cui la società è
esposta.

Anche per la relazione la legge prevede un contenuto minimo giacché da essa devono
comunque risultare:

- le attività di ricerca e di sviluppo;

- i rapporti con le imprese del gruppo;

- i dati sulle azioni proprie;

- i dati sulle azioni o quote delle controllanti possedute dalla società e la loro
evoluzione nel corso dell’esercizio;

- i fatti di rilievo avvenuti dopo la chiusura dell’esercizio;

- l’evoluzione prevedibile della gestione.

- alcune informazioni relative ai rischi connessi agli strumenti finanziari posseduti.

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LEZIONE XXXV. LE SOCIETA’ DI CAPITALI UNIPERSONALI. I GRUPPI DI
SOCIETA’

Introduzione
All’esercizio di un’attività economica non sempre corrisponde la sua imputazione
giuridica in capo a una società. Nella realtà organizzativa delle imprese, è frequente la
scelta di imputare a più società, tra loro collegate, le diverse articolazioni di un’unica
attività economica (es. società produce, un’altra distribuisce). Questa modalità di
organizzazione prende il nome di gruppo di società, espressione che sottolinea
l’esistenza di una direzione unitaria delle società cche ne fanno parte. Con la riforma
del 2003 che ha allargato l’accesso al beneifico della responsabilità limitata alle società
di capitale unipersonale, anche la singola persona fisica può organizzare l’attività
economica esercitata in più società interamente possedute. Questo collegamento tra
società di persone e gruppo di società consente una trattazione unitaria.

Controllo e collegamento fra società


Nel regolare il diritto dei gruppi, il legislatore identifica una serie di fattispecie riferibili
al fenomeno del collegamento fra società. Questo approccio rivela il carattere
funzionale della regolamentazione dei gruppi di società: il legislatore modula il suo
intervento a seconda dell’intensità del legame che unisce le società. Non esiste
dunque il diritto, ma i diritti dei gruppi di società. Le fattispecie rilevanti ai fini della
ricostruzione del sistema giuridico dei gruppi di società sono in ordine di intensità del
legame: a) il collegamento; b) il controllo; c) la direzione e il coordinamento.
Si ha collegamento quando una società esercita un’influenza notevole sull’altra.

La nozione di influenza notevole non è meglio precisata dalla legge e rappresenta un
grado meno intenso del “influenza dominante” che caratterizza alcune ipotesi di
controllo fra società.

Il collegamento viene presunto, salvo prova contraria, quando una società può
esercitare nell’assemblea ordinaria dell’altra oltre 1/5 dei voti o 1/10 se la partecipata
ha azioni quotate.

Al vincolo di collegamento si ricollega essenzialmente una disciplina di tipo informativo
e di redazione del bilancio: così, per esempio, nello stato patrimoniale e nel conto
economico sono previste talune poste specificamente riferite alle partecipazioni, ai
debiti e ai crediti verso le collegate; al bilancio va allegato il prospetto riepilogativo dei
dati essenziali dell’ultimo bilancio delle collegate.

Il gradino successivo del possibile legame tra società è il controllo.



L’art. 2359 c.c. delinea 3 ipotesi in cui viene ravvisata una situazione di controllo fra
società:

- quando una società dispone della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea
ordinaria di altra società (c.d. controllo interno di diritto);

- quando una società dispone di voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante
nell’assemblea ordinaria dell’altra (c.d. controllo interno di fatto);

- quando una società è sotto l’influenza dominante di un’altra società in virtù di
particolari vincoli contrattuali con essa (c.d. controllo esterno di fatto).

Solo il controllo interno, sia di diritto che di fatto sussiste anche se indiretto: nel
calcolo dei diritti di voto deve tenersi conto anche di quelli spettanti a società
controllate, a società fiduciarie e a persona interposta. È dunque configurabile il c.d.
controllo a catena.

La nozione di controllo postula che esso sia concentrato in capo a una sola società:
non c’è controllo se questo non è esercitabile in modo solitario dal controllante. In
base a questa tesi, l’art. 2359 c.c. non contempla il c.d. controllo congiunto.

La nozione di controllo di diritto fa riferimento, in via generica, alla disponibilità di voti
in sede di assemblea ordinaria della controllata, muovendo dal presupposto che il
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diritto di voto in capo ai soci valga senza difformità per tutte le delibere: ciò però oggi
non è più vero in quanto è possibile che taluni soci dispongano della maggioranza dei
voti necessari per approvare il bilancio e non di quelli necessari per nominare gli
amministratori. Dunque, la nozione delineata nell’art. 2359 c.c. va precisata nel senso
di riconoscere la qualità di controllante alla società che disponga della maggioranza
necessaria nelle deliberazioni relative alla nomina, revoca o responsabilità degli
amministratori.

Le nozioni di controllo di fatto da partecipazione o contrattuale richiedono
l’accertamento in fatto di un’influenza dominante di una società sull’altra dipendente
dalla partecipazione posseduta o dai vincoli contrattuali esistenti. Nel controllo interno
si ritiene che tale influenza sussista quando il socio, anche con una quota inferiore alla
maggioranza dei voti, riesce a determinare l’esito della decisione sulla nomina e
revoca degli organi di gestione. Il controllo contrattuale, in difetto di partecipazione,
non si concreta nell’esercizio di un’influenza dominante in sede assembleare, ma
nell’obiettivo condizionamento delle scelte dei gestori della controllata a causa del
vincolo contrattuale fra le società. Così, la società che abbia come unico e principale
cliente altra società, per sopravvivere deve necessariamente adattare le proprie scelte
gestionali all’influenza della cliente. Un’ipotesi particolare è, infine, rappresentata dai
c.d. contratti e clausole di dominio con i quali una società volontariamente si
assoggetta all’esercizio della direzione di altra società. A queste ipotesi si applicano le
regole previste in tema di direzione e coordinamento di società.
La disciplina che si applica alle società legate da controllo è sparsa nell’intero diritto
societario.

Conviene soffermarsi sui principali profili di rilevanza applicativa della nozione:
- Partecipazioni reciproche: Viene anzitutto in rilievo la disciplina delle c.d.
partecipazioni reciproche. Con questo termine si definiscono, in generale, gli intrecci di
partecipazioni che intercorrono tra due società. Tale disciplina è volta a evitare gli
effetti distorsivi che possono derivare dalle partecipazioni reciproche sia sul piano
patrimoniale sua su quello amministrativo: quando due società si partecipano
reciprocamente, infatti, si verificano due fenomeni che il legislatore guarda con
sospetto:

- anzitutto, il c.d. annacquamento patrimoniale, quando i patrimoni delle due società
consistono esclusivamente nelle azioni dell’altra. Ebbene, nessuna di esse ha un reale
patrimonio, ma questo è interamente svuotato: costituito da “carta contro carta”;

- in secondo luogo, l’intreccio amministrativo, la società controllante, infatti, a mezzo
dell’intervento dei suoi amministratori nell’assemblea della controllata, ne nomina
l’organo gestorio; se la controllata acquista una partecipazione nella controllante
toccherebbe ai suoi organi prendere parte alla relativa assemblea e contribuire a
scegliere i gestori e gli organi di controllo della controllante, con evidente creazione di
una non virtuosa situazione circolare (gli amministratore della controllante nominano
quelli della controllata e viceversa).

Si tratta di fenomeni che appaiono anche nella già esaminata fattispecie delle
operazioni su azioni proprie. La disciplina delle partecipazioni reciproche in presenza di
un legame di controllo ne ripercorre le principali regole:

- la società controllata può acquistare azioni o partecipazioni nella controllante solo:

- nei limiti degli utili distribuibili e delle riserve disponibili risultanti dall’ultimo bilancio
approvato; - se sono interamente liberate; - purché vi sia l’autorizzazione
dell’assemblea di durata non superiore a 18 mesi; -se la partecipazione detenuta non
è superiore a 1/10 del capitale sociale della controllante;
- la controllata non può esercitare il diritto di voto nell’assemblea della controllante;
- nel bilancio della controllata deve essere appostata una riserva indisponibile pari
all’importo delle partecipazioni nella controllante;
- le partecipazioni acquistate in violazione di detti limiti vanno alienate entro 1 anno
dal loro acquisto e, in difetto, annullate con riduzione del capitale;

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- è vietata in senso assoluto la sottoscrizione da parte della controllata di azioni o
quote della controllante. In caso di violazione, le azioni si ritengono sottoscritte dagli
amministratori non esenti da colpa e l’obbligo di conferimento è a loro carico.
- Informazioni e bilancio: Il rapporto di controllo fa sorgere una serie di
obblighi informativi al fine di raffigurare fedelmente l’andamento della gestione e
mettere gli organi di controllo in grado di svolgere in modo consapevole la loro
funzione.

Con riferimento alla redazione del bilancio valgono i richiami normativi già effettuati
per le società collegate.
- Bilancio consolidato: viene redatto dagli amministratori della società
controllante e deve fornire con chiarezza una rappresentazione veritiera e corretta
della situazione patrimoniale e finanziaria nonché il risultato economico del complesso
delle imprese costituito dalla controllante e dalle controllate. I principi sono i medesimi
già visti per il bilancio d’esercizio della singola società. La particolarità è che più
società vengono considerate come un complesso unitario. Soggette all’obbligo della
redazione del bilancio consolidato sono:

- le s.p.a., le s.a.p.a. e le s.r.l. che controllano un’impresa di qualunque natura;

- gli enti pubblici che hanno per oggetto esclusivo o principale un’attività economica,
le cooperative e le mutue assicuratrici che controllano una società di capitali;

- le società di persone interamente possedute da società di capitali che controllano
un’impresa di qualunque natura.

Vanno comprese nel consolidamento le imprese controllate, anche indirettamente:

- le imprese su cui un’altra ha il diritto, in virtù di un contratto o di una clausola
statutaria, di esercitare un’influenza dominante;

- le imprese in cui un’altra, in base ad accordi con altri soci, controlla da sola la
maggioranza dei diritti di voto.

Le imprese controllate che pure rientrano nei casi appena indicati possono essere
escluse dall’area del consolidamento nei seguenti casi:

- quando l’inclusione sarebbe irrilevante ai fini della rappresentazione veritiera e
corretta;

- quando l’esercizio effettivo dei diritti della controllante è soggetto a gravi e durature
restrizioni;

- quando non è possibile ottenere tempestivamente, o senza spese sproporzionate, le
necessarie informazioni;

- quando le loro azioni o quote sono possedute esclusivamente allo scopo della
successiva alienazione.

Speculare è il caso della possibilità di includere nel consolidamento l’impresa che sia
controllata non individualmente, ma congiuntamente ad altri soci. Il consolidamento
deve avvenire non secondo il criterio c.d. “integrale” ma in modo proporzionale alla
partecipazione posseduta.
Talvolta la legge esonera la controllante dall’obbligo di redigere il bilancio consolidato.

Ciò avviene:

- nel caso in cui il complesso di controllante e controllate non superi due dei seguenti
parametri: 14.600.000 euro di attivo; 29.200.000 euro di ricavi; 250occupati in media
durante l’esercizio. L’esonero viene meno qualora la controllante o una delle
controllate abbia titoli quotati;

- in secondo luogo nell’ipotesi di controllo a catena: la c.d. sub-holding è esonerata
dall’obbligo quando la controllante ne possegga oltre il 95%. L’esonero in tal caso è
soggetto alla duplice condizione: - che la controllante sia tenuta alla redazione del
bilancio consolidato secondo il diritto di uno Stato membro dell’UE; - che la sub-
holding non abbia emesso titoli quotati.

Il bilancio consolidato si compone di stato patrimoniale, conto economico e nota
integrativa, che vanno corredati dalle usuali relazioni dell’organo amministrativo, di
quello di controllo e del revisore. Peculiari sono principi e implicazioni del
consolidamento:

- vanno elise tutte le poste relative ai rapporti interni fra imprese interessate;

137 di 144
- i dati contabili delle imprese controllate vanno ripresi integralmente;

- data di riferimento del bilancio è quella di chiusura d’esercizio della controllante;

- gli elementi dell’attivo e del passivo vanno valutati con criteri uniformi;

- le imprese controllate sono obbligate a trasmettere tempestivamente alla
controllante le informazioni;

- capitale e riserve delle imprese controllate per la parte corrispondente a
partecipazioni di terzi vanno iscritti in una voce apposita di patrimonio netto
denominata “capitale e riserve di terzi”.

Il bilancio consolidato rappresenta un allegato del bilancio d’esercizio della controllante
e, in quanto tale, non è soggetto a specifica approvazione da parte dell’assemblea, ad
eccezion che per le spa a sistema dualistico. Il bilancio consolidato ha una funzione
meramente informativa; non è rilevante ai fini dell’accertamento dell’utile distribuibile
e non è rilevante fiscalmente. È soggetto a pubblicità nel registro unitamente al
bilancio di esercizio. Il valore informativo è peraltro elevatissimo: per le società
quotate gli analisti privilegiano il bilancio consolidato. In materia di invalidità manca
una disciplina dotata di un minimo d’organicità.

138 di 144
LEZIONE XXXVI. TRASFORMAZIONE, FUSIONE E SCISSIONE.
Trasformazione, fusione e scissione sono modificazioni del contratto sociale di finanza
straordinaria.

La trasformazione
La trasformazione è l’istituto che consente a un ente giuridico di modificare il proprio
codice organizzativo conservando diritti e obblighi e proseguendo in tutti i rapporti. La
riforma ha radicalmente innovato in materia introducendo, accanto alla c.d.
trasformazione omogenea (quella tra soggetti societari casualmente omogenei), anche
la trasformazione eterogenea.

Oggi sono dunque possibili:

- la trasformazione tra diversi tipi di società lucrative, siano esse società di persone o
di capitali (trasformazione omogenea);

- la trasformazione di società di capitali in consorzi, società consortili, società
cooperative, comunioni d’azienda, associazioni non riconosciute e fondazioni ovvero
quella di consorzi, società consortili, comunioni d’azienda, associazioni riconosciute e
fondazioni o di cooperative non a mutualità prevalente in società di capitali
(trasformazione eterogenea).

attualmente l’unica forma organizzativa che non può essere oggetto di trasformazione
è l’impresa individuale. Alcune ipotesi di trasformazione eterogenea non sono previste
dalla legge, ma è chiaro che esse possono comunque attuarsi, quanto meno in via
indiretta tramite due successivi passaggi (da s.n.c. a s.r.l, da questa a cooperativa).

Regole generali: Le società e gli altri enti prima citati possono procedere alla
trasformazione in qualsiasi momento della loro vita. Qualora la trasformazione abbia
come esito una società di capitali, essa è in certa misura parificata alla costituzione
dell’ente. Quindi, occorre l’atto pubblico il quale: - deve contenere le indicazioni
previste dalla legge per l’atto costitutivo del tipo adottato;
- è soggetto alle relative forme di pubblicità, nonché alla pubblicità richiesta per la
cessazione dell’ente che effettua la trasformazione. Nella trasformazione omogenea
l’esecuzione di tali pubblicità vale anche come “punto di non ritorno”. Una volta che sia
stata eseguita la pubblicità, infatti, l’invalidità dell’atto di trasformazione non può più
essere pronunciata (effetto “sanante”) e la tutela dei partecipanti all’ente trasformato
e dei terzi si converte nel diritto al risarcimento del danno. In sostanza, l’esecuzione
della pubblicità opera come causa sanante di qualsiasi vizio che possa essersi
verificato nel procedimento.
In caso di trasformazione eterogenea, data la sua maggiore delicatezza, l’effetto
“sanante” non è immediato. Infatti, la trasformazione eterogenea: ha effetto solo
dopo 60 giorni dall’ultimo degli adempimenti pubblicitari; entro il suddetto termine i
creditori possono fare opposizione.

Con disposizione notevolmente eccentrica rispetto al principio di unanimità che nelle


società d persone regola le modificazioni del contratto sociale, il codice prevede che,
salva diversa disposizione del contratto stesso, la trasformazione di società di
persone in società di capitali è decisa con il consenso della maggioranza dei soci
determinata secondo la parte attribuita a ciascuno negli utili; in ogni caso al socio che
non ha concorso alla decisione spetta il diritto di recesso.

Dal punto di vista patrimoniale il passaggio da società di persone a società di capitali
richiede che sia accertato il valore reale del patrimonio sociale al fine di verificare
l’effettiva copertura del capitale. Ciascun socio ha diritto all’assegnazione di un
numero di azioni o di una quota proporzionale alla sua partecipazione.

Nei confronti dei terzi la trasformazione non libera i soci a responsabilità illimitata per
le obbligazioni sociali sorte prima dell’iscrizione della decisione di trasformazione, se
non risulta che i creditori sociali hanno dato il loro consenso alla trasformazione.

139 di 144
Tuttavia il consenso si presume se i creditori non lo hanno espressamente negato nel
termine di 60 giorni dal ricevimento della comunicazione di trasformazione.

La trasformazione da società di capitali a società di persone, cioè a un tipo


sociale più debole, viene denominato trasformazione regressiva. Le particolarità
dell’operazione consistono nei seguenti profili: - almeno 30 giorni prima
dell’assemblea, gli amministratori devono predisporre e depositare presso la sede
sociale una relazione che illustri motivazioni ed effetti della trasformazione; - salvo
diversa disposizione dello statuto, la deliberazione di trasformazione è adottata con le
maggioranze previste per le modifiche dello statuto; - è però necessario il consenso
dei soci che con la trasformazione assumono responsabilità illimitata (la quale estende
anche alle obbligazioni sociali sorte anteriormente alla trasformazione); - ciascun
socio ha diritto all’assegnazione di una partecipazione proporzionale al valore della sua
quota o delle sue azioni; - i soci che non hanno concorso all’adozione della
deliberazione possono esercitare il diritto di recesso.

La trasformazione eterogenea che ha come punto di partenza una società di


capitali richiede una relazione illustrativa degli amministratori e una maggioranza
particolarmente qualificata per la deliberazione assembleare: il voto favorevole dei ⅔
degli “aventi diritto” e, comunque, il consenso dei soci che assumono responsabilità
illimitata. La trasformazione eterogenea che, invece, ha una società di capitali come
punto d’arrivo richiede maggioranze diversificate a seconda del tipo di ente: - nei
consorzi, il voto favorevole della maggioranza assoluta dei consorziati; - nelle
comunioni di aziende, l’unanimità; - nelle società consortili e nelle associazioni, la
maggioranza richiesta dalla legge o dall’atto costitutivo per lo scioglimento anticipato;
- nelle cooperative, quorum diversificati a seconda del numero dei soci. Nelle
fondazioni, infine, la trasformazione in società di capitali è disposta dall’autorità
governativa, su proposta dell’organo competente.

Non sempre la trasformazione eterogenea in società di capitali è consentita. Per le
associazioni può essere esclusa dall’atto costitutivo o dalla stessa legge per
determinate categorie (in ogni caso per le associazioni che abbiano ricevuto contributi
pubblici).

La fusione
La fusione è l’unificazione di due o più soggetti precedentemente distinti dal punto di
vista giuridico. Il codice distingue due tipi di fusione a seconda delle modalità di
esecuzione:

- mediante la costituzione di una nuova società (fusione in senso stretto);

- mediante l’incorporazione di una o più società in una preesistente (fusione per
incorporazione).

La prima comporta l’estinzione di tutte le società parteciparti all’operazione, la
seconda di tutte tranne una (la c.d. incorporante). La nuova società risultante della
fusione o quella incorporante assumono i diritti e gli obblighi delle società partecipanti,
proseguendo in tutti i loro rapporti anteriori alla fusione. Si tratta di un effetto
assimilabile a una successione universale.

Estinzione delle società partecipanti alla fusione non significa estinzione dei rapporti
sociali che a esse facevano capo. All’unificazione dei patrimoni in capo alla nuova
società ovvero all’incorporante corrisponde, infatti, l’unificazione delle compagini
sociali: chi era socio di una società partecipante che si estingue riceve una
partecipazione nella nuova società (o nell’incorporante) sulla base di un rapporto di
cambio pattuito tra gli organi amministrativi delle società e approvato dalle rispettive
assemblee. La fusione può essere tra società dello stesso tipo oppure tra società di
tipo diverso; in questo secondo caso implica una trasformazione.

E’ quindi opportuno distinguere la fusione trasformativa omogenea dalla fusione

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trasformativa eterogenea, che si ha quando alla fusione partecipino società
causalmente diverse oppure, addirittura, anche enti di tipo diverso dalle società.

Il procedimento: Essenzialmente il procedimento si articola in: 1) progetto di


fusione, predisposto dagli organi amministrativi; 2) decisione dei soci sul progetto di
fusione; 3) atto di fusione; 4) iscrizione nel registro delle imprese dell’atto di fusione
dalla quale decorrono gli effetti:

Il progetto: Negoziato e redatto dagli organi amministrativi delle società partecipanti,


da esso devono risultare: - il tipo, la denominazione o ragione sociale, la sede delle
società partecipanti;- l’atto costitutivo della nuova società; - il rapporto di cambio
delle azioni o quote; -le modalità di assegnazione delle azioni o delle quote; - la data
dalla quale queste azioni o quote partecipano agli utili; - la data a decorrere dalla
quale le operazioni delle società partecipanti alla fusione sono imputate al bilancio
della società fusa; - il trattamento eventualmente riservato a particolari categorie di
soci; - i vantaggi particolari eventualmente proposti a favore dei soggetti cui compete
l’amministrazione delle società partecipanti alla fusione.

Elemento essenziale del progetto è il rapporto di cambio che indica quante azioni o
quote della nuova società o dell’incorporante spettano a coloro che erano soci delle
società che, a seguito dell’operazione, si estinguono. Il progetto di fusione va iscritto
nel registro delle imprese; tra l’iscrizione del progetto e la data fissata per la decisione
in ordine alla fusione devono intercorrere almeno 30 giorni, salvo che i soci rinuncino
al termine con consenso unanime. Il progetto, inoltre, anche qui salvo unanime
rinunzia al termine da parte dei soci, deve restare depositato presso la sede sociale
durante i 30 giorni che precedono la loro decisione unitamente a: - le situazioni
patrimoniali delle società partecipanti redatte dai rispettivi organi amministrativi,
osservando le norme sul bilancio d’esercizio; - la relazione predisposta dall’organo
amministrativo della società, nella quale deve essere illustrato e giustificato, sotto il
profilo giuridico ed economico, il progetto di fusione e in particolare il rapporto di
cambio delle azioni o delle quote; - la relazione sulla congruità del rapporto di cambio
delle azioni o delle quote redatta, per ciascuna società, da uno o più esperti.

Oggetto specifico della relazione è l’espressione di un parere sull’adeguatezza della
metodologia seguita per la determinazione del rapporto di cambio. La relazione degli
amministratori e quella degli esperti sono previste nell’interesse particolare dei soci e
dei possessori di altri strumenti finanziari che hanno diritto di voto al fine di informarli
in materia adeguata dei termini dell’operazione che viene loro proposta dall’organo
amministrativo e di decidere in modo consapevole; - i bilanci degli ultimi tre esercizi
delle società partecipanti alla fusione, con le relazioni dei soggetti cui compete
l’amministrazione e il controllo contabile.
La deliberazione: La fusione va decisa da ciascuna delle società che vi partecipano
mediante approvazione del relativo progetto. L’approvazione avviene, nelle società di
persone, con il consenso della maggioranza dei soci determinata secondo la parte
attribuita a ciascuno negli utili, salva la facoltà di recesso per il socio che non abbia
consentito alla fusione e, nelle società di capitali, secondo le norme previste per le
modificazioni statutarie; nella s.r.l., ma non nella s.p.a. (salvo che nella fusione sia
implicita una trasformazione), è legittimato ex lege a recedere il socio che non abbia
concorso con il suo voto all’adozione della decisione.

La decisione di fusione può apportare al progetto solo le modifiche che non incidono
sui diritti dei soci o dei terzi; in tal caso, ovviamente, la modificazione deve essere
approvata da tutte le società partecipanti all’operazione.


Atto di fusione e opposizione dei creditori: L’atto di fusione deve risultare da atto
pubblico e rappresenta l’attuazione delle decisioni dei soci delle società coinvolte
nell’operazione.

I legali rappresentanti delle società partecipanti non possono stipulare l’atto di fusione
prima del decorso di un termine dilatorio di 60 giorni dall’ultima delle iscrizioni delle
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decisioni dei soci.

Entro il ricordato termine di 60 giorni i creditori anteriori all’iscrizione del progetto di
fusione possono proporre opposizione. Particolare è la posizione degli obbligazionisti
che, pur essendo individualmente creditori della società, sono vincolati
all’organizzazione di gruppo. Si prevede quindi che essi possono proporre l’opposizione
anche individualmente purché la fusione non sia stata approvata dalla loro assemblea.
Ai possessori di obbligazioni convertibili deve essere data facoltà di esercitare il diritto
di conversione nel termine di 30 giorni dalla pubblicazione di un apposito avviso nella
Gazzetta Ufficiale almeno 90 giorni prima dell’iscrizione del progetto di fusione.

Pubblicità dell’atto di fusione ed effetti: L’atto di fusione va iscritto entro 30 giorni


presso il registro delle imprese dei luoghi delle sedi delle società partecipanti alla
fusione e di quella che, eventualmente, ne risulta. La fusione ha effetto quando è
stata eseguita l’ultima delle iscrizioni prescritte: da tale data opera la successione
universale in favore della nuova società o dell’incorporante e si estinguono le altre
società partecipanti.

Date anticipate di decorrenza degli effetti della fusioni possono essere stabilite solo
per il godimento degli utili e l’imputazione contabile: si tratta però di una retroattività,
consentita per evidenti ragioni operative, a meri effetti interni che non ha alcun rilievo
nei confronti dei terzi.

La fusione attuata mediante costituzione di una nuova società di capitali ovvero
mediante incorporazione in una società di capitali, non libera i soci a responsabilità
illimitata per le obbligazioni delle rispettive società anteriori all’ultima delle iscrizioni
prescritte se non risulta che i creditori hanno dato il loro consenso. Come si è già visto
per la trasformazione, una volta eseguite le prescritte iscrizioni, l’invalidità dell’atto di
fusione non può più essere pronunciata (efficacia “sanante” della pubblicità). Resta
salvo il diritto al risarcimento del danno eventualmente spettante ai soci o ai terzi
danneggiati dalla fusione.

Fusione semplificata: Tre sono le ipotesi in cui l’iter della fusione è semplificato
rispetto al procedimento ordinario:
- l’incorporazione di società interamente posseduta, richiede un progetto di
fusione semplificato e non abbisogna delle relazioni dell’organo amministrativo e degli
esperti.

Può inoltre essere previsto statutariamente che le decisioni siano assunte dai rispettivi
organi amministrativi, purché vengano rispettate le disposizioni sul progetto di
fusione.

I soci dell’incorporante che rappresentino almeno il 5% del capitale sociale possono,
però, entro 8 giorni dal deposito del progetto di fusione presso il registro delle
imprese, chiedere che la decisione di approvazione della fusione da parte
dell’incorporante sia adottata dai soci secondo la procedura ordinaria;
- l’incorporazione di società posseduta al 90%, può omettersi la relazione degli
esperti se agli altri soci dell’incorporata viene concesso il diritto di far acquistare le
loro azioni o quote dalla società incorporante. Statutariamente può poi essere previsto
che la decisione dell’incorporante venga assunta dal suo organo amministrativo,
purché l’iscrizione del progetto di fusione nel registro delle imprese sia effettuata, per
la società incorporante, almeno 30 giorni prima della data fissata per la decisione della
fusione da parte dell’incorporata. Anche in questo caso, una minoranza di almeno il
5% può richiedere la decisione dei soci nelle forme ordinarie;
- la fusione cui non partecipano società con capitale rappresentato da azioni, non
si applicano i divieti: - di fusione per le società in liquidazione che abbiano iniziato la
liquidazione dell’attivo; - di conguaglio in denaro superiore al 10%.

Inoltre i termini sono ridotti alla metà e, con il consenso di tutti i soci, può omettersi
la relazione degli esperti.

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La scissione
La scissione è istituto per certi versi speculare alla fusione, ma più complesso nella
sua struttura normativa. Infatti, mentre la fusione si risolve nella sommatoria
integrale di patrimoni e compagini sociali di due o più società, la scissione consiste
nella frammentazione di un patrimonio originariamente unitario in favore di una o più
società beneficiarie. Le forme di scissione previste dalla legge sono:
- dal punto di vista della società che decide di scindersi, la scissione può essere
totale o parziale:

se è totale, la società scissa si scioglie senza liquidazione (essendo rimasta senza
patrimonio) e le beneficiarie devono essere almeno due; se è parziale, la società
scissa resta in vita, con patrimonio ridotto, e la beneficiaria può anche essere una
sola;
- dal punto di vista delle beneficiarie, queste possono essere sia società
preesistenti che di nuova costituzione: la scissione in favore di società preesistente
implica la determinazione di un rapporto di cambio e determina economicamente una
concentrazione tra il patrimonio della beneficiaria e parte del patrimonio della scissa;
in sostanza rappresenta una scissione per incorporazione; la scissione in favore di
società di nuova costituzione integra un’ipotesi particolare di costituzione unilaterale
per gemmazione della scissa;
- dal punto di vista dei soci della scissa, infine, la scissione può essere
proporzionale o no, a seconda che a loro vengano o no assegnate quote e azioni delle
società beneficiarie in misura proporzionale all’originaria partecipazione.
Le tre alternative appena viste possono in vario modo incrociarsi tra loro e ciò
dimostra la versatilità dell’istituto che si presta a svariate funzioni: dalla separazione
di due rami d’azienda differenti allo scopo di migliorarne la rispettiva gestione, alla
divisione tra fazioni confliggenti della compagine sociale, alla citata fusione parziale. È
opportuno marcare il confine tra la scissione e l’istituto affine dello scorporo.
Quest’ultimo, che si attua tramite un conferimento d’azienda da parte della società
scorporante in favore di una società preesistente o di nuova costituzione ha l’effetto di
modificare solo qualitativamente il patrimonio della prima: al posto delle attività e
passività che compongono l’azienda saranno presenti le azioni o quote della società
conferitaria che, in virtù dello scorporo, vengono assegnate alla conferente. Con la
scissione invece, la scissa subisce una modificazione quantitativa del suo patrimonio:
infatti le azioni o quote emesse dalla beneficiaria non vengono assegnate alla scissa,
ma direttamente ai suoi soci.

Il procedimento di scissione è ricalcato su quello di fusione con alcune


modificazioni derivanti dalla circostanza, trattandosi di dividere con modalità e termini
rimessi all’autonomia privata. Il progetto di scissione deve contenere le medesime
indicazioni prescritte per quello di fusione; e inoltre:

- l’esatta descrizione degli elementi patrimoniali da assegnare a ciascuna delle società
beneficiarie e dell’eventuale conguaglio in denaro;

- i criteri di distribuzione delle azioni o quote delle società beneficiarie.

Qualora il progetto preveda un’attribuzione delle partecipazioni ai soci non
proporzionale, il progetto di scissione deve prevedere il diritto dei soci non
consenzienti di far acquistare le proprie partecipazioni per un corrispettivo
determinato alla stregua dei criteri previsti per il recesso, indicando a carico di chi è
posto l’obbligo di acquisto. Il progetto di scissione va depositato e reso pubblico come
quello di fusione con il medesimo apparato documentale di corredo.

Anche la scissione ha effetto dall’ultima delle iscrizioni dell’atto di scissione preso il
registro delle imprese in cui sono iscritte le società beneficiarie.

Anche nella scissione, infine, la pubblicità ha efficacia sanante dei vizi eventualmente
occorsi nel procedimento. La legge non pone limiti alla composizione delle parti di
patrimonio attribuite a ciascuna beneficiaria o eventualmente destinate a rimanere
alla scissa. La pericolosità per i creditori di tale margine di libertà è evidente e il

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legislatore ha ritenuto che al riguardo non fosse tutela sufficiente la possibilità di
opporsi dei creditori anteriori all’iscrizione del progetto di scissione. Come ulteriore
forma di tutela è stato, quindi, previsto che ciascuna società è solidalmente
responsabile, nei limiti del valore effettivo del patrimonio netto a essa assegnato o
rimasto, dei debiti della società scissa non soddisfatti dalla società cui fanno carico: si
tratta si una sorta di fideiussione ex lege.

Fusione transfrontaliera
La normativa comunitaria che ha trovato attuazione in Italia nel 2008 relativa alla
fusione transfrontaliera delinea un procedimento comune di fusione fra società di
capitali in ambito comunitario al fine di rendere più agevole l’integrazione fra imprese
comunitarie. Il principio generale è quello dell’applicabilità della disciplina del codice
civile alla società italiana che vi partecipa, salvo quanto esplicitamente previsto dal
d.lgs. 108/2008. Nell’ipotesi in cui vi sia conflitto tra le norme italiane e quelle di altro
Stato membro prevarrà la legge applicabile alla società risultante dalla fusione.

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