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1.

Come si giustifica dal punto di vista economico la lotta a cartelli e accordi collusivi tra
imprese? Quali politiche sono state adottate per difendere la concorrenza nel mercato
da tali accordi e pratiche collusive?
2. Sotto quali condizioni si può invece giustificare la collaborazione tra imprese e la
concessione del brevetto? Come si collega questo punto al bisogno di trovare un
equilibrio tra tutela della concorrenza e innovazione?
3. Cosa si intende per collusione algoritmica e quali sono le sfide per le autorità garanti
della concorrenza?

Partiamo dalla collusione” semplice” o cartello. Il cartello è un tentativo di imporre disciplina al


mercato e di ridurre la competizione tra un gruppo di produttori di prodotti simili (accordo
orizzontale). Il motivo per cui i manager delle aziende scelgono di violare la legge e di stipulare
accordi collusivi di fissazione del prezzo, rischiando ammende e persino la reclusione (in Usa), è il
profitto. Le imprese concorrenti prendono atto del fatto che, limitando la concorrenza, potrebbero
riuscire a riprodurre l’esito di monopolio e a massimizzare i loro profitti congiunti. Tuttavia, l’esito
cooperativo di monopolio non è quasi mai l’esito di equilibrio di Nash di interazione strategica tra
due imprese: ciascun partecipante avrebbe incentivo a deviare dall’accordo (defezionare) dal
momento che otterrebbe profitti maggiori facendo pagare ai consumatori un prezzo più basso e
guadagnando quindi maggiori fette di mercato. Possiamo riconoscere nell’interazione strategica
del cartello il Dilemma del prigioniero: ciascuna delle imprese ha un interesse comune a
cooperare e raggiungere l’esito di monopolio, tuttavia deviare dall’accordo è in realtà la strategia
dominante per i partecipanti al cartello perché potrebbero ottenere profitti molto maggiori (rispetto
al caso competitivo) producendo una quantità maggiore di output in caso di competizione alla
Cournot, o abbassando il prezzo nel caso di Bertrand
Stando a questa logica, la politica antitrust non dovrebbe preoccuparsi tanto dei cartelli in quantio
questi non dovrebbero prodursi. Nella realtà, tuttavia, i cartelli si verificano. Esiste infatti un modo
per superare il dilemma del prigioniero e consiste nel ripetere nel corso del tempo l’interazione
strategica (non più gioco statico/one shot bensì gioco dinamico). Il fatto che il gioco si ripeterà
porta le imprese a capire che alla deviazione da parte di un’impresa le altre risponderanno (in
tempi più o meno rapidi), punendola con esito competitivo (e quindi profitti più bassi rispetto al
cartello) e che quindi in un’ottica di interazione ripetuta la strategia migliore per le imprese è
in realtà quella di cooperare (premiare la fedeltà). In particolare, va aggiunto che la punizione
da parte di un’impresa (e quindi la cooperazione) è credibile solamente qualora le imprese
interagiscano per un numero infinito o indefinito di volte, qualora l’orizzonte temporale sia
sufficientemente lungo e se le imprese non scontano troppo il futuro. In un gioco ripetuto un
numero infinito o indefinito di volte, le strategie che prevedono ricompense/punizioni sono credibili
in quanto queste possono essere applicate nella interazione successiva (non c’è fine del gioco
oppure non si sa quando questa sia). Qualora il numero di ripetizioni sia finito e noto alle imprese,
invece, la punizione non è una strategica credibile: l’esito di equilibrio dell’ultimo periodo è
defezionare dal momento che non ci sarà più nessun gioco il periodo successivo (e ogni punizione
sarà impossibile) e quindi, andando a ritroso, “defezionare” diventa strategia ottimale in ogni
periodo.
Il cartello, assieme ai più generali accordi anti-competitivi, viene regolamentato dall’articolo 101 del
Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), il quale cerca di combattere tutti gli
accordi che hanno obiettivo o effetto una riduzione della concorrenza e che quindi potrebbero
danneggiare i consumatori o altri concorrenti. Questi accordi limitativi della concorrenza (cartelli)
vengono proibiti dal TFUE, il quale cerca di smantellarli attraverso l’applicazione della “politica di
clemenza” (leniency programme) che consiste in una riduzione (o eliminazione) della multa
dall’imprese che per prima, volontariamente, fornisce alla Commissione prove
dell’esistenza del cartello (tale politica non viene adottata nei confronti del ring leader per evitare
comportamenti opportunistici da parte di quest’ultimo). Questi cartelli “semplici” sono a volte visti
come “no-brainer” nel mondo della competizione fra imprese, in quanto considerati di per sé
illegali. I partecipanti al cartello non hanno nessuna difesa legale o (o quasi).

Un caso ben più complicato è quello invece della tacita collusione o collusione algoritmica in
cui sostanzialmente la collusione coinvolge l’utilizzo degli algoritmi utilizzati per la gestione delle
imprese, introdotti grazie alle tecnologie di machine learning e deep learning all’interno con
l’obiettivo di rendere più efficace ed efficiente la gestione di quest’ultime. Questa tipologia di
business viene definita “data-driven” e si basa sull’elaborazione di un set di dati passati chiamato
“training-set” che permette alla macchina di effettuare auto-apprendimento dalle osservazioni
che gli vengono date in pasto e di creare un modello. Il modello viene poi testato su un altro set di
dati chiamato “test-set” ed infine utilizzato per fare previsione, descrizione o altro. Possiamo in
particolare individuare due casi estremi di “tacita collusione” che ci permettono di capire meglio
di cosa si tratti.
Il primo è quello in cui gli amministratori o altre persone coinvolte nelle imprese si accordano per
una collusione e l’algoritmo serve solo come mezzo per portare a compimento l’accordo,
monitorare ed eventualmente punire le deviazioni. Questo tipo di tacita collusione è in realtà non
tanto tacita in quanto a monte è presente un accordo tra i membri del cartello, senza quindi creare
troppi problemi per le autorità di controllo che possono etichettare questo accordo limitativo della
concorrenza come di per sé illegale. L’intento o meno di creare una limitazione della concorrenza
non ha troppa importanza in questo caso dal momento che l’esplicito accordo a monte costituisce
di per sé un fatto su cui l’autorità di controllo può intervenire.
Il secondo caso nasce invece qualora la collusione sia il risultato della semplice applicazione
degli algoritmi alla gestione delle imprese. Per capire meglio ipotizziamo che le imprese
costruiscano una macchina dandogli un obiettivo specifico diverso dal raggiungimento della tacita
collusione (ad esempio la massimizzazione dei profitti). A questo punto i costruttori dell’algoritmo
danno alla macchina i dati necessari affinché essa possa fare “self- learning” (auto-apprendimento)
ed arrivare alla soluzione del processo di ottimizzazione in modo del tutto autonomo. Il problema
sorge nel momento in cui la macchina trova come first best, ovvero come migliore soluzione
in termini di efficacia ed efficienza del risultato, quella di portare a termine un accordo collusivo
“tacito” con gli altri algoritmi che governano le imprese rivali e che ha come conseguenza una
riduzione della competitività, un aumento dei prezzi e un danneggiamento per il benessere dei
consumatori. A questo punto una domanda sorge spontanea: “Chi è responsabile della tacita
collusione?”
Il punto focale per l’intervento da parte delle autorità di controllo e il seguente potere di dichiarare
illegale l’accordo collusivo è la presenza di un patto che rifletta la convergenza delle volontà tra gli
agenti delle società colluse. L’illegalità viene innescata nel momento in cui le società colluse
tramite agenti delle imprese operano di concerto per limitare o distorcere la concorrenza nel
mercato. In questo caso, tuttavia, non è presente nessun accordo tra gli agenti delle società, le
quali hanno solamente applicato in maniera unilaterale degli algoritmi data-driven per rendere più
efficiente la loro gestione. L’algoritmo esegue qualunque strategia che reputa ottima, sulla
base di ciò che ha imparato dai dati e dai feedback ricevuti dai nuovi dati di mercato, in maniera
del tutto autonoma! La collusione non è quindi il risultato di nessun accordo ma solo l’esito
naturale del processo di ottimizzazione portato a termine dalla macchina. Quindi, in questo
caso, i concetti legali di “accordo” e di “intenzione” non trovano un’applicazione diretta e non è
quindi chiaro stabilire chi sia il responsabile del danno causato ai consumatori e dell’alterazione
delle condizioni competitive di mercato.
Il problema principale dal punto di vista delle autorità di controllo riguarda il modo in cui intervenire.
Come detto precedentemente, la tacita collusione non è di per sé illegale in quanto non esiste a
monte un accordo collusivo tra gli agenti delle imprese ed inoltre non è chiaro chi debba essere
considerato responsabile. Le autorità potrebbero quindi decidere di vietare a priori l’utilizzo di
questi algoritmi ma questo significherebbe porre un grande limite all’innovazione con conseguenze
incerte ma in ogni caso dannose dal punto di vista delle imprese che perderebbero in termini di
efficienza nella gestione. Un’altra soluzione possibile potrebbe essere quella di controllare ex-ante
gli effetti che l’applicazione di questi algoritmi hanno sul mercato ed in caso di situazioni di ci
limitazione della concorrenza punire le società collusive (soluzione in ogni caso non certo facile da
applicare, con elevati costi di controllo), oppure quella di imporre restrizioni ex-ante obbligando le
imprese a comunicare, sotto certe condizioni, l’utilizzo di determinati algoritmi (con effetti deterrenti
per lo sviluppo tecnologico delle imprese). Si tratta di un trade-off problem di non facile soluzione.

L’attività di ricerca e sviluppo (R&S) costituisce un’attività, normalmente di lungo periodo,


finalizzata allo studio delle innovazioni tecnologiche da utilizzare per migliorare i propri
prodotti o processi oppure per crearne di nuovi (di solito più efficienti e magari meno costosi).
Partiamo definendo cosa sia un brevetto: un brevetto è di fatto un attestato, concesso da
apposito ufficio, che garantisce la priorità e il diritto esclusivo di sfruttamento industriale di
un’innovazione. Quando si parla di brevetti uno dei questi più importanti riguarda il grado di
protezione che deve essere offerto ad un’impresa in modo tale da non danneggiare le condizioni
competitive del mercato (protezione troppo alta) e allo stesso tempo evitando di creare effetti
deterrenti all’innovazione (protezione troppo bassa).
Ciò che è importante notare per capire la funzionalità dei brevetti è che da un lato le informazioni
riguardanti una determinata innovazione rappresentano un bene pubblico e sarebbe ottimale che
venissero diffuse. Dall’altro, senza una protezione dell’innovazione dagli imitatori potrebbero
esserci pochi incentivi al tentativo, peraltro costoso e incerto, di innovare. Il sistema dei brevetti ha
lo scopo di mediare tra queste due necessità preoccupandosi di determinare la durata e
l’ampiezza ottimale dei brevetti. È necessario trovare un equilibrio tra la capacità dell’innovatore
di ottenere un rendimento dall’innovazione e dal suo investimento in R&S e i benefici che i
consumatori otterranno una volta scaduto il brevetto, quando la concorrenza si farà avanti
(diffusione delle info sull’innovazione).
Per quanto riguarda la durata ottimale dei brevetti è chiaro che se la durata T fosse zero, i
rendimenti dell’innovatore sarebbero anch’essi zero dal momento che qualsiasi innovazione
sarebbe subito imitata facendo scattare la concorrenza. Allo stesso tempo però la durata ottimale
non può neanche essere infinita perché altrimenti i consumatori non potrebbero beneficiare della
riduzione di prezzo che si realizza a seguito dell’introduzione della concorrenza nel mercato del
prodotto una volta che il brevetto è scaduto. Potremmo dire che “in medio stat virtus” ma non è di
certo facile stabilire quale sia questo “medio”. Il problema dell’ampiezza ottimale del brevetto è
invece ancor più insidioso rispetto a quello della durata soprattutto perché, mentre quest’ultima
può essere misurata in termini di tempo, l’ampiezza non ha una sua unità di misura. Il problema
della decisione dell’ampiezza ottimale del brevetto si sostanzia nello stabilire, per un’innovazione,
un livello minimo di differenziazione affinché un possibile prodotto rivale (simile) sia brevettabile (o,
analogamente, non incorra nella violazione del brevetto esistente). Quanto maggiore è questa
ampiezza, tanto più difficile risulta per le altre imprese creare un sostituto sfruttando un brevetto
esistente (c.d inventing around) e intaccare il profitto dell’innovatore. In particolare, possiamo
identificare due possibili approcci riguardo la protezione (durata e ampiezza) brevettuale:
- Approccio “corto e largo” ovvero con durata del brevetto breve ma un’ampia copertura
- Approccio “lungo e stretto” ovvero con ampia durata del brevetto ma copertura molto
ristretta
La scelta della durata e dell’ampiezza ottimale implica la ricerca di un equilibrio tra la
necessità di mantenere l’incentivo all’innovazione e quella di distribuire i benefici
dell’innovazione in modo più ampio possibile.
Una caratteristica interessante contenuta nei brevetti è quella di “chi vince piglia tutto” per cui
arrivare secondi non è meglio che arrivare terzi o quarti. La concorrenza nell’innovazione può
essere vista come una gara nella quale il successo di un giocatore corrisponde all’amara sconfitta
dell’altro (una sorta di gioco a somma zero). Chi non ottiene il brevetto non ha nulla per potersi
consolare: c’è solo un vincitore.
Per concludere, possiamo affermare che l’introduzione di una nuova tecnologia non è di per sé
giusta o sbagliata ma è sempre l’uso che ne facciamo a determinare se i benefici che essa
apporterà supereranno i possibili svantaggi.

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