Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
Partiamo con l’inizio di questo movimento di rinnovamento della regia. Per parlare di cosa è
significato pensare la scena in termini registici dobbiamo partire da
una sorta di metafora: gli insetti, in particolare le api. Le api sono
insetti sociali, così come le formiche e tutti quegli insetti che vivono
in società densamente popolata e altamente cooperativa, quindi
che vivono in colonie. Perchè partiamo dal mondo animale per
parlare di regia? perchè negli ultimi trent’anni dell ‘800 si comincia
a pensare a nuove forme di vita sociale, nuove tipologie di
comunità e vita insieme che possano essere in qualche modo più
ecologiche, più sostenibili. Da qui uno sviluppo dell’interesse di
biologi, scienziati ed entomologi nei confronti di questi insetti, in particolare negli stati uniti uno
scienziato di nome William Morton Wheeler sviluppa una serie di studi tra cui la scrittura di un libro
che si intitola “La colonia di formiche come organismo”. Contemporaneamente a lui, in un altro ambito
diverso da quello scientifico ovvero quello letterario, vi è uno scrittore-drammaturgo di nome Maurice
?? , che nutre una passione anche lui per questa tipologia di insetti e scrive una serie di racconti che
si interessano di questo tema tra cui nel 1901 “Vita delle api”. Questo interesse nei confronti di questa
tipologia di insetti, come detto in precedenza, deriva da uno spirito di rinnovamento sociale che
guarda delle forme più democratiche, di società sostenibile e cooperativa e riconoscono nelle forme
della natura delle ispirazioni. In questo periodo, gli ultimi trent’anni dell’800, la natura (anche intesa
come “le origini dell’uomo”) diventa una fonte di ispirazione per l’intellettuale del tempo, per gli artisti e
per gli scienziati. Il riferimento alle forme della natura, il modo in cui si organizzano gli organismi che
vivono questi esseri viventi sono una fonte di ispirazione per tradurre e ripensare nuove forme di
organizzazione sociale e nuove forme di vita culturale dell’uomo.
Un altro aspetto molto importante che emerge da questi studi scientifici ed entomologici è introdotto
da Wheeler in “La colonia di formiche come organismo”. Egli introduce il concetto di
SUPERORGANISMO. Studiando il comportamento associativo di questi animali, Wheeler scopre che
le formiche, come le api, sono strutturate come delle cooperative con una funzione ben precisa e si
distaccano dalla colonia (l’alveare o il nido) per cercare cibo, in funzione della vita all’interno del loro
nucleo principale. Se vengono staccate dal nucleo, dalla loro colonia, venendo isolate hanno
pochissime ore di vita. Sono animali cui singoli individui sono strettamente dipendenti dalla colonia.
La loro sopravvivenza è strettamente collegata alla vita collettiva, al lavoro cooperativo. Per questo
Wheeler parla della colonia come un superorganismo, perchè è formato dall’insieme di singoli
organismi interdipendenti.
Il movimento in una scena viene reso grazie allo spostamento di queste masse, degli attori in scena. C’è
un horror vacui che attanaglia gli artisti della scena, i protoregisti e i nuovi registi. Il naturalismo è
ossessionato dall’horror vacui (paura del vuoto). Questo tipo di teatro influenzerà e sarà determinante
per le sorti e lo sviluppo del teatro naturalistico.
4. Le controscene: in una scena di massa messa in primo piano, o una scena principale, i
Meininger mettono contemporaneamente un controcanto, una così detta controscena che è lo
sfondo del primo piano. E’ una scena che avviene contemporaneamente dietro in secondo
piano parallelamente alla scena principale e ha una funzione di contrappunto ma anche di
sviluppo dell’azione. La controscena può commentare la scena in primo piano ma può nello
stesso tempo portare avanti la vicenda, può essere un commento della scena principale.
Permette, in generale, alla scena di muoversi e di non essere statica sia in termini spaziali,
sia in termini d’azione sia in termini temporali. Queste controscene saranno particolarmente
sviluppate da Stanislavskij soprattutto quando mette in scena Cechov.
5. Uso delle nuove tecnologie: senza la luce elettrica gran parte delle innovazioni non si
sarebbero potute realizzare. La luce elettrica segna un passaggio qualitativo importante.
Vengono usate anche delle gelatine colorate per creare certi effetti di luce: possono essere
creati effetti naturalistici restituendo un vero e proprio ambiente e le varie fasi della giornata,
la notte, il crepuscolo, il giorno, ma anche effetti non naturalistici e più espressivi per esempio
per restituire uno stato d’animo di un personaggio, rendendo la scena più evocativa (tutto il
teatro simbolista lavora in questa chiave più evocativa). La luce non ha solo la funzione di
illuminare l’attore. Si scopre il buio, come detto in precedenza. Cambia, di conseguenza,
anche il trucco degli attori che era molto più pesante, marcato ed espressivo quando si usava
l’illuminazione naturale con le candele perchè teneva conto di quella qualità. Con la luce
elettrica il colore della luce è diverso e quindi l'effetto del trucco sull’attore modifica
sensibilmente la ricezione che ne ha lo spettatore quindi anche la tipologia di trucco, i colori
usati nell’abbigliamento cambiano.
ANDRÉ ANTOINE
In Francia, chi recepisce questa innovazione dei Meiningen e sull’onda di questo entusiasmo aprirà
uno spazio e organizza intorno a questo spazio una compagnia di attori sulla scia di quella dei
Meininger sarà André Antoine.
Egli, appassionato di teatro, fonda questa compagnia del teatro libero, apre
questo spazio a Parigi che inaugura nel 1887 e ha uno scopo ben preciso:
rinnovare il repertorio teatrale mettendo in scena la nuova
drammaturgia. La nuova drammaturgia in quel momento era la
drammaturgia naturalista che non era solo francese ma era soprattutto
estera (Ibsen, ad esempio o Strindberg o Giovanni Verga).
La sua concezione di teatro è quella di théâtre-libre, e con teatro libero
intende un teatro totalmente affrancato dagli stereotipi dei professionisti del
tempo ma soprattutto libero dal profitto, che non fosse commerciale ma che
fosse arte (tutto in segno del tempo, come abbiamo già detto prima il
movimento del teatro di regia è un movimento che promuove un rinnovamento che vuole un teatro
che sia d’arte affrancato dal commercio e che ingaggia in maniera diversa lo spettatore): lo spettacolo
è un’opera d’arte, qualcosa che è separato dalla sala, che lo spettatore guarda così come
l'osservatore guarda un’opera d’arte visiva e deve essere, per essere tale, deve essere un’opera
superorganica. Tutte le sue componenti devono interagire e corrispondere, proprio come
l’allestimento de Meiningen. Anche nei costumi c’è una sorta di storicismo realistico, sia nella
realizzazione che nella scelta, una sorta di passione storica e cura dei dettagli.
André Antoine si firma proprio come responsabile degli allestimenti, si riconosce come “regista” per
questo viene considerato il primo. E’ il primo che realizza questa ulteriore forma di distacco della
scena dallo spettatore perchè per lui la scatola scenica è un pezzo di vita (tranche de vie) che viene
riprodotta sulla scena. Lo spettatore, ovviamente, osserva ma non partecipa a questa scena di vita, la
può contemplare; è un voiè, colui che osserva come se spiasse questo pezzo di vita dal buco della
serratura. Egli è famoso proprio per chiudere questa scatola scenica, chiudere la famosa quarta
parete e fa sì che si venga a creare una sorta di muro. Chiaramente, Wagner non chiude in termini
letterali la quarta parete se no lo spettatore non potrebbe vedere niente, diciamo che la frase chiusura
della quarta parete va compresa in termini ideali.
Per creare questa sorta di muro addossa alla quarta parete i mobili, ovvero usa la quarta parete
(trasparente) per metterci i mobili di spalle mostrando allo spettatore il retro. Lo spettatore si trova
nelle condizioni di essere più distante da quello che vede (intanto perchè la sua visuale è
compromessa) ma anche più attento e partecipe e gli dà la funzione di spia, testimone, colui che
guarda attraverso il buco della serratura. L’attore è così meno distratto dal pubblico a cui non si
rivolge più direttamente ma più concentrato nella scena; la sua recitazione diventa inevitabilmente più
realistica. Questo è un esito ulteriore rispetto alla concezione wagneriana ma proviene comunque
dalla stessa scia, la medesima origine, tant’è che le caratteristiche sono sempre quelle
precedentemente introdotte da Wagner.
Nella pièce Spettri di Ibsen, che porta avanti una drammaturgia assolutamente nuova in Francia,
messa in scena con dei criteri di impronta naturalistica, Antoine pensa una scenografia ricostruendo
gli interni con estrema rispondenza alle didascalie dell’autore (che faceva delle didascalie molto
precise nella descrizione degli ambienti, fondamentali in Ibsen). Lo spazio dei drammi è importante e
deve essere riprodotto fedelmente secondo la visione di Antoine per riuscire a restituire il clima e
rendere bene le scene che prevedevano, molto spesso, situazioni di origliamento, spionaggio molto
frequenti in Ibsen.
Dato che le innovazioni di Antoine e di Appia e Craig non sono le stesse, come mai quelle di Antoine
funzionavano in scena e quelle di Appia e Craig no?
Perchè Appia e Craig credono in una scena che è antinaturalistica. Antoine, invece, è un naturalista e crede in
una scene che riproduca la realtà (scena praticabile, oggetti tridimensionali, spalle al pubblico ecc..). Appia e
Craig rompono con una scena che sia realistica per non dare nessun aiuto allo spettatore e creare una sorta di
impedimento, ostacolo che permetta allo spettatore di fare un salto di tipo metafisico-spirituale.
ADOLPHE APPIA
Adolphe François Appia (Ginevra, 1º settembre 1862 – Nyon, 29 febbraio 1928) è
stato uno scenografo svizzero, morto giovane internato in una clinica psichiatrica
perchè soffriva di agorafobia. Questa condizione lo portava a isolarsi e ad elaborare,
di conseguenza, gran parte del suo teatro al chiuso nella sua stanza perchè spesso
non riusciva a recarsi nei luoghi in cui avrebbe dovuto mettere in opera le sue
proposte scenografiche.
Appia non viene dal teatro, non era un attore (neanche Antoine lo era in realtà).
Quando inizia ad interessarsi di teatro era uno studente di musicologia del
conservatorio musicale. Ha quindi una formazione musicale ed è un grande
ammiratore di Wagner. Nel 1882 si reca al teatro di Bayreuth per vedere
l’allestimento wagneriano (una delle ultime direzioni d’orchestra di Wagner) e vede una delle sue
opere preferite: il Parsifal. Egli è affascinato dalla novità che rappresenta il teatro di Bayreuth, dalla
sua platea anfiteatro, dal golfo mistico, dal buio in sala e dall’idea di opera d’arte totale di Wagner.
Appia è affascinato anche dalle nuove strutture musicali nuove che Wagner introduce, ma di contro è
deluso dalle soluzioni scenografiche con cui Wagner propone le sue messe in scena e li definisce
irrisolti. L’allestimento che propone Wagner è realistico, riproduce gli ambienti, ma la musica non dice
questo, va al di là di queste ambientazioni. Il motivo per cui secondo Appia c’era una sorta di distonia,
una distorsione tra l’allestimento scenografico e la parte musicale, cioè che vede e ciò che sente (il
sonoro), è che Appia ritiene che il dramma musicale appartiene ad una dimensione che è extra
quotidiana. Questo vuol dire che la musica, con le sue strutture, non risponde al mondo reale, al
mondo fenomenico; non possiamo tradurla linguisticamente o riprodurla con elementi della realtà, ma
risponde ad un movimento che è quello dell’anima, un movimento spirituale, una dimensione astratta.
E’, appunto, su questo piano che interviene Appia. Vuole dare una congruenza visiva a quello che
sente, altrimenti secondo lui si crea un contrasto troppo forte.
Nel 1888, conclusi i suoi studi ed elaborata una certa di esperienza nel mondo del teatro, decide di
dedicare l’intera sua vita alla riforma della messa in scena del dramma wagneriano che fino a quel
momento aveva contribuito all’illusione, con degli effetti sorprendenti, e lui decide di rompere con
questa tradizione per rifondare questo tipo di allestimento. Si dedica unicamente al teatro d’opera. Per
questo è importante dire che la nascita della regia ha origine nella riforma musicale, nasce nella
musica.
Appia, quindi, contesta fin dai suoi primi scritti (il primo scritto è del 1895 e si intitola Problemi di
messa in scena nei drammi wagneriani, a cui seguirà nel 1899 un altro scritto in lingua tedesca
intitolato Musica e messa in scena) le scelte wagneriane (Wagner conosceva molte lingue tra cui
anche il francese ma decide di scrivere in tedesco non solo perchè era la sua lingua madre ma anche
perchè ha una circolazione più forte nell’ambito musicale). In appendice allo scritto del 1899 inserisce
una parte che riguarda una serie di problemi di regia per il Tristano e Isotta.
A partire dal 1888 fino agli anni delle sue prime pubblicazioni, egli cerca di progettare una serie di
messe in scene in piccole corti private su commissione in modo da sperimentare le sue prime teorie
che poi troveranno una forma scritta in queste due principali opere del 1895 e del 1899.
Cosa scrive in questi libri? E, cosa cerca di riprodurre nelle sue opere?
Appia scrive che per allestire un dramma per musica bisogna ricreare dei principi di vita all’interno del
dramma. Questo non significa che riproducendo realisticamente un dramma non abbia già una vita,
ma significa che Appia non voleva una riproduzione della vita. Per avere la vita in un’opera non
bisogna riprodurre la vita per com’è nella realtà, per com’è esterna al teatro. Questo principio di vita
che bisogna infondere nel teatro non deve essere speculare alla vita quotidiana ma deve rispondere,
nel caso preciso di wagner, alla musica di wagner ma soprattutto a quei principi extra quotidiani che
appartengono al teatro; deve rispondere a una serie di relazioni che legano il tempo, il ritmo, lo
spazio e il movimento. Queste sono le quattro coordinate su cui si basa la vita che deve essere
ricreata nello spettacolo registico e che non ripropongono la vita reale. Solo in questo modo il
palcoscenico diventa un organismo vitale. Quando dice che bisogna ricreare principi di vita nel
dramma non vuol dire che bisogna riprodurli ma che vanno ricreati
ex novo, dal niente (principi di vita che siano propri della scena). Il
tempo della vita reale in teatro non funziona, anche la scena più
naturalistica risponde a delle leggi che modifica l’ordine quotidiano
di quella realtà.
Queste alterazioni di ritmo, spazio, movimento si possono
realizzare, secondo Appia, attraverso strumenti come la luce e il
pavimento. Anche Appia approfitta della nuova tecnologia che
modifica sensibilmente negli usi, cioè Appia propone un uso
differente della luce. La luce, dice, non serve a illuminare l’attore,
ma serve ad alterare la realtà in modo funzionale a questo nuovo organismo che è la scena. La luce
va usata in termini espressivi e così pure il pavimento. Il
pavimento è un piano di lavoro, un piano di scorrimento, non
va inteso come pavimento solido che percorriamo tutti i giorni in
casa. Il pavimento è uno spazio manipolabile che può essere
sovrapposto da altri piani di lavoro. La tridimensionalità, per
Appia, non è data dalla ricostruzione di un ambiente che l’attore
attraversa e percorre; la tridimensionalità è uno spazio che ha più
livelli, più strati sovrapposti, uno spazio organizzato ritmicamente in termini anti mimetici. Questo
perchè lo spazio della scena è uno spazio solido che è attraversato da un insieme di tensioni e
relazioni. Queste tensioni e queste relazioni non sono quelle dei personaggi, perchè lo spazio ha una
sua autonomia. E’ funzionale all’allestimento ma veicola già una serie di significati. Quelli sopra
raffigurati non sono indirizzati a delle scene specifiche ma sono delle proposte, dei prototipi, dei
modelli che possono essere combinati e riprodotti nei drammi. Sono degli studi che mettono in forma
la sua idea di tridimensionalità.
Lo spazio tridimensionale di Appia, chiaramente, si differenzia da quello concepito dai Meininger o da
Antoine. La tridimensionalità di Antoine riproduce la realtà, mobili, fiori veri, tende vere e non un
fondale dipinto con qualche oggetto come avveniva prima (come vediamo nella scenografia di
Spettri); quella di Appia non lo fa. Appia materializza lo spazio ma scandendo ritmicamente. Le
strutture di Appia sono praticabili, piani sovrapposti che hanno una scansione ritmica. Appia parlando
di ritmo si rifà ai greci e al colonnato dei templi antichi: quei colonnati rispondevano a delle proporzioni
matematiche, a una sorta di musica, ritmo che veniva restituito visivamente. Erano estremamente
proporzionati i templi antichi, era tutto studiato secondo delle proporzioni, dei canoni matematici che
organizzavano l’architettura in termini ritmici. Il ritmo è matematica. Non è un caso, infatti, che Appia
che ha una formazione musicologica, pensi ritmicamente la scena. Se la musica risponde ad
un’essenza che è spirituale che non è traducibile in termini realistici, anche la scena deve essere
organizzata secondo quelle strutture. E’ come se desse una materializzazione musicale allo spazio.
Questo è un bozzetto del II ATTO di Tristano e
Isotta dove vediamo questo sistema di scale,
questa arcata e piani che si intersecano su cui si
muovono Tristano e Isotta e che vengono illuminati
con una torcia. Questra struttura dello spazio molto
lontanamente riproduce l’interno di un castello
(dove era ambientato il secondo atto) doveva
essere rispondente allo spirito del dramma e quindi
allo spirito musicale di quella scena. L’interno del
castello è solo lontanamente evocato.
Il valore di queste proposte di Appia è rivoluzionario e riformatore da tanti punti di vista: riforma il
modo di pensare la scena in termini astratti (parliamo di ASTRAZIONE e non di ASTRATTISMO) ma
è anche rivoluzionario dal punto di vista dello spettatore, della percezione della ricezione dello
spettatore perchè lo spettatore di fronte a delle forme non naturali, ad una vicenda che non è resa
naturalisticamente pur avendo degli aspetti che rimandano alla vita reale, sarà posto nella condizione
di entrare in questa vita spirituale e quindi di fare un salto, sviluppare una sensibilità visionaria per
entrare in quel mondo. Lo spettatore fa uno sforzo, non deve semplicemente abbandonarsi alla
musica, è invece la musica con la sua dimensione metafisico-spirituale che viene riprodotta con
elementi a sua volta trascendentali che permette la fusione fortissima che trascina lo spettatore in una
dimensione altra. Lo spettatore deve assecondare questo movimento.
Qui arriviamo ad una fase importante dell’attività di Appia. Fino ad ora ad Appia mancava un vero e
proprio sapere teatrale, gli mancava la relazione con degli attori veri. Questa componente teatrale
arriverà nel momento in cui incontra Émile Jaques-Dalcroze. Egli aveva fondato un istituto a Breda.
Per lui, Appia realizza le scenografie per Orfeo e Euridice.
Con Appia inizia la sottrazione progressiva degli elementi della scena. Astrazione non è la stessa
cosa di astrattismo (che è una corrente delle arti visive che riconduce la traduzione della realtà in
forme geometriche) e infatti Appia non aderisce a questa corrente. E in questa scenografia così
spartana, scarna, asciutta accompagna la musica e l’azione nella sua sfera spirituale. Realizza piani
verticali, orizzontali, scalinate funzionali ad movimento dell’attore ma non distraggono lo spettatore
anzi hanno una sorta di aderenza allo sviluppo spirituale della musica.
C’è da dire che la produzione wagneriana è molto diversa, ha dei periodi molto lunghi e anche le azioni sono
dilatate; quindi, quello che le varie scene rappresentano non è un intreccio, una trama ma sono più degli stati
dell’anima, dei movimenti lunghissimi che lui descrive con tantissime variazioni musicali ma non ci sono delle
arie, dei duetti, degli assoli precisi e strutturati come nell’opera che noi oggi conosciamo. E’ quasi un discorso
ininterrotto per cui è più semplice per Appia, in qualche modo, concepire delle scene semplici, più fisse,
sottraendo dei dettagli inutili proprio per fare emergere la dimensione dell’azione, del testo e anche del
movimento della musica e valorizzarli. In questo senso la scenografia non è secondaria ma è in sinergia: non
riproduce quella scena, il suo ambiente, non è mimetica rispetto alla musica e alla parola ma è funzionale,
essenziale. Nell’incontro tra Tristano e Isotta nel primo atto sulla poppa della nave, la vela del vascello diventa
anche una tenda che fa da separazione dei giovani amanti dal resto e crea una zona d’ombra che è rischiarata
solo dall’incontro dei due amanti che genera amore.
PARENTESI SU MARTHA GRAHAM: Questo gioco di polarità sono caratteristiche troviamo non solo nel piano
scenografico ma anche in tutta la nuova danza di questi anni. La danza d’espressione che si sviluppa negli anni
‘10 in Germania, tutta la pratica che si manifesta nelle performance di Isadora Duncan, si gioca su questi
contrasti: salita e discesa (in particolare, la modern dance traduce questi contrasti nel movimento: si basa sul
concetto di contraction and release che è proprio un contrasto anch’esso). Interessante dire anche che Martha
Graham non utilizzava la scenografia poiché secondo il suo ideale lo spazio era dentro il corpo, ed è proprio
questa la rivoluzione moderna della danza. Si può spazializzare il movimento ma già questo contiene in sé
un’idea di spazio che può essere manifestata attraverso la coreografia. E in lei ritroviamo molti giochi di contrasti.
Visione di “LAMENTATION”, un solo di Martha Graham. Qui la Graham usa un espediente tessile: un costume
che è un non-costume che le camuffa interamente il corpo. E’ un involucro in cui il corpo viene imbozzolato.
Questo permette di contraffare il corpo astraendolo, rendendolo ancora più espressivo. Vi sono una serie di
esercizi di contrazioni del ventre che sono particolarmente forti e vengono messi in risalto da questo bozzo.
Visione di “NIGHT JOURNEY”, un pezzo che fa parte del periodo di creazione di Martha Graham legato al mito e
alla riscrittura del mito in chiave femminile (infatti tutti i miti che vengono da lei riproposti come Arianna e Teseo o
il Mito di Edipo vengono riscritti anche nel titolo come nel caso di Night Journey che sarebbe il Mito di Edipo).
Vediamo uno spazio tendenzialmente vuoto con degli elementi astratti, delle sculture di uno scultore giapponese
con cui lei collaborava intorno a cui si muove il corpo. Questo momento corale col corpo di ballo fa vedere bene il
movimento del busto dove di concentra tutta la forza e l’energia del movimento di Martha Graham.
Visione di “Errand into the maze”, coreografia del 1947 sul tema di Arianna e Teseo, interpretato da una delle
ballerine di Martha Graham. Gli abiti sono realizzati dalla stessa Martha Graham a partire dal suo corpo, tutta la
tecnica che lei sviluppa viene a partire dal suo corpo. In questa coreografia viene tematizzata la forma del
labirinto sia nell’abito, che nella coreografia che negli elementi scenografici. Nulla di questi movimenti rimanda al
naturale, è tutto estremamente astratto. Questo tipo di movimento riporta il respiro al centro dell’attenzione
poichè anch’esso è una contrazione e rilassamento (inspiro ed espiro). Allora, se si parte da questo elemento
naturale si può ricostruire il modo di muoversi partendo dalla cosa più basilare e naturale che abbiamo, il respiro
appunto. Da questo parte anche Isadora Duncan (osservazione del movimento delle onde). Il corpo non è
mimico, nega totalmente il concetto di mimesi, ma è il vero spazio dell’azione. Non ha bisogno di scenografie o
altri elementi decorativi. Lo spazio è nel corpo. Il filo di Arianna non è solo ricamato nel suo costume, è già nel
suo movimento. Un critico americano, John Martin (uno dei più importanti esegesi della modern dance della
Graham) parlava di meta-cinesi. La meta-cinesi (al di là del movimento) vuol dire riuscire a suggerire
l’impressione del movimento allo spettatore, far vivere il movimento anche a colui che lo guarda. Chi guarda
compie comunque un’azione e questa è la grande forza della danza modern, la danza libera.
Tornando allo spazio ritmico, questi erano stati concepiti nel 1909. Quando li realizza, Appia in realtà
non pensa a Wagner e al dramma per musica o a delle pièce particolari. Li realizza in funzione di una
scuola avanguardista (avanguardista perchè è eccentrica da tutti i punti di vista rispetto alla norma):
quella di Émile Jaques-Dalcroze.
Egli non aveva nulla a che fare col teatro, egli era un professore di musica del
conservatorio che insegnava solfeggio e tutti i giorni si scontrava con una
difficoltà: gli studenti imparano a memoria la metrica e non la comprendono
veramente. Molti ragazzi non comprendevano davvero il ritmo e quindi
tendevano a impararlo a memoria. Allora Dalcroze decide di inventarsi una
nuova pedagogia che chiama euritmica. Con questa nuova pedagogia fa
comprendere il ritmo, la metrica attraverso il corpo: danzare il ritmo. Danzarlo a
diversi livelli, con movimenti di braccia e gambe e incorporare il ritmo nel corpo
per comprenderlo. Questo metodo permette anche di avere una nuova coscienza
del proprio corpo e di imparae a disarticolare il corpo. Gli esercizi più complessi
prevedono anche la dissociazione delle parti, ovvero restituire un 6/8 con le gambe e un 2/3 con le
braccia.
Intorno al 1906, Appia incontra Dalcroze e partecipa ad una sua lezione dimostrativa. Vede questa
classe di euritmica e si illumina. Dice che è proprio questo movimento così astratto, schematico,
geometrico che vorrebbe per i suoi drammi wagneriani. Inizia, da quel momento, una sorta di
relazione artistica con Dalcroze per instaurare una sorta di collaborazione. Dalcroze fino a quel
momento non aveva mai pensato al teatro, faceva solo il docente. Non aveva mai pensato che la sua
tecnica potessero essere teatralizzati. Questo sviluppo in teatro ci sarà e sarà attuato grazie al loro
incontro che è un incontro provvidenziale per entrambi: Appia rene ulteriormente plastica la sua
visione e Dalcroze si apre ad un altro universo e fa riverberare la sua pedagogia anche nell’ambito del
teatro.
Negli anni ‘10 esistevano in Europa dei mecenati (dei sostenitori
delle arti, dei filantropi, che sostengono progetti utopistici.
Aspirano a realizzare qualcosa che possa migliorare la qualità
della vita) che elargivano le loro ricchezze a personaggi come
Dalcroze per realizzare queste “utopie”. Dalcroze ha un
finanziatore e trova anche un altro industriale che aveva fatto
costruire un’industria modello che aveva realizzato creando un
quartiere verde, una sorta di città giardino con delle case per
operai immerse nel verde e improntate a un nuovo stile
architettonico moderno che fosse sobrio e funzionale, modernista. Questa città giardino che questo
industriale di nome Karl Schmidt fonda vicino alla sua industria si chiama Hellerau.
Quando fonda questa città giardino (città nuova creata pensando anche al benessere dei suoi operai,
alla necessità di dare una casa funzionale alle esigenze moderne) ha una visione ecologista
completamente nuova, pensa all’attività fisica che devono fare gli operai. A Dalcroze viene data
l’opportunità di impiantare una scuola qui. Un altro filantropo, Wolf Dohrn, finanzierà invece la scuola
di Dalcroze (questo istituto però presto chiuderà perchè con la morte di Dohrn, Dalcroze perde i
finanziamenti e inoltre il progetto della città giardino va trasformandosi).
L’architetto che ha realizzato l’edificio era un architetto modernista che aderiva alle nuove teorie
moderne e dall’immagine vediamo che la facciata ricorda molto la facciata di un tempio, riaffronta i
modelli dei templi antichi e ripropone il mito dell’antico in maniera molto accentuata. L’idea del ritmo e
dell’ascesi che ritroviamo nel Partenone è fondamentale in queste nuove progettazioni sceniche di
Appia ritornando sempre al concetto di struttura matematica su cui si fondava la realizzazione di
questi templi antichi. La successione delle colonne è una successione ritmica che genera armonia,
l’altezza delle strutture antiche è un’altezza che porta alla divinità, al cielo, all’alto e questa idea di
plasticità torna in auge in questo periodo per tante ragioni: pensiamo al 1896 e alla riproposizione
delle olimpiadi, quando vengono rifatte sul modello di quelle antiche; pensiamo agli scavi archeologici.
Tutti questi elementi influenzano la scena e le arti visive di quel momento e Appia risente fortemente
di queste visioni e questo spirito antico, classico che si diffonde in Europa e attraversa tutte le arti.
Questo edificio risente fortemente di questo stile Revival-classico del momento ma che viene
riproposto che assolta sobrietà ed asciuttezza. La scuola non era semplicemente una scuola per
imparare qualcosa ma aveva già nella sua forma una dimensione sacrale, una scuola santuario
per quanto comunque l’istruzione all’interno dell’istituto fosse prettamente laica.
L’incontro di Dalcroze con Appia è assolutamente calzante.
Da una parte, quindi, Appia dice di aver trovato in Dalcroze il tipo di movimento per lui funzionale
poiché non mimetico ma astratto, anti-naturalistico, privo di contenuto e estremamente formalizzato,
ritmico e funzionale alla scena che voleva funzionare. Dall’altra parte ne riconosce un limite: la ritmica
di Dalcroze si svolge unicamente in orizzontale, sul pavimento. Anche se c’è un movimento del corpo
verso l’alto di braccia e gambe è però sostanzialmente svolto linearmente, orizzontalmente. Allora
Appia concepisce lo spazio ritmico e attraverso i dislivelli, scale e strutture “risolve” questo problema e
permette al movimento di ampliarsi. Per spiegare questa cosa si ricorre spesso alla metafora del
fiume e della diga: qual è la funzione della diga rispetto al fiume? liberare l’energia che può essere
estratta dalla potenza di scorrimento dell’acqua, uno scopo elettrico. Vicino alle dighe c’è sempre una
centrale elettrica. La forza del fiume viene assorbita per generare energia. La diga, quindi, tende a
frenare per generare energia. Ecco, Appia fa la stessa cosa con i danzatori di Dalcroze. Pensiamo
all’acqua del fiume come i danzatori di Dalcroze con il loro movimento denso di energia e pensiamo
alla diga come gli spazi ritmici, come la diga che è un ostacolo che impedisce al fiume di scorrere
liberamente ma se io creo un ostacolo l’acqua acquista più potenza quando viene liberata. Se creo un
ostacolo al danzatore ritmico di Dalcroze permetto di liberare ulteriore energia dal suo corpo.
Dalcroze è entusiasta di questa cosa e nel 1912-1913 i due lavorano concretamente insieme alla
messa in scena dell’Orfeo e Euridice di Gluck.
Ci concentriamo principalmente sul lavoro che Appia e Dalcroze fanno sulla discesa agli inferi di
Orfeo. La prima cosa che mettono in scena nel 1912 è un frammento.
Appia manda una serie di progetti come quello qui raffigurato. Qui parlando
di inferi chiaramente parliamo di oscurità e luce, opposizione tra mondo dei
vivi e dei morti, tra catabasi e anabasi (ascesa). Con tutti questi contrasti
trasferisce questa catabasi attraverso la scalinata. Questo è un successo,
la gente veniva da tutto il mondo per vedere questo frammento nella sua
meraviglia e nella sua innovatività. L’anno dopo, nel 1913 realizzano
l’opera intera.
Da quando la scuola di Dalcroze apre, l’istituto diventa una sorta di meta di
pellegrinaggio dove vi si recano le più importanti personalità di artisti del
tempo. Vaclav Fomič Nižinskij, il ballerino, era uno di questi.
In quest’altra immagine abbiamo anche i danzatori che percorrono la scena, quindi vediamo anche
una parte del movimento dei performer a gruppi, un movimento estremamente interessante perché
sebbene fossero gruppi diversi si muovevano all’unisono. Era necessario, per Dalcroze, che anche
quando i danzatori erano separati nello spazio fossero come attraversati da uno spirito di movimento.
Si tratta di un tipo di movimento che vuole riprodurre il tipo di movimento corale della tragedia e della
danza della tragedia antica. Ovviamente non sapendo quale fosse la tipologia di movimento che
usavano i danzatori antichi e il modo in cui si muoveva il coro
nelle rappresentazioni classiche, questa idealità di classico
viene totalmente reinventata anche attraverso l’interpretazione
dei fregi antichi, delle immagini delle piccole vascolari. Infatti,
anche in quest'opera, infatti, troviamo reminiscenze classiche
passate attraverso il filtro dell'iconografia che era stata
scoperta e veniva diffusa in quegli stessi anni.
Al di là dell’impianto scenico, notiamo che la discesa dei
ballerini a punta dal centro della scalinata è estremamente
drammatica e si può di certo percepire come questa struttura
ritmica di Appia liberasse l’energia del movimento di questi
danzatori. Usando la parola “drammatica” ci colleghiamo
appunto alla modern dance che lavora sui contrasti e sulla
coralizzazione. Altri due aspetti che ci colpiscono molto di
questa foto sono:
-La prossimità del pubblico che è molto vicino ai danzatori.
Sottolineato benissimo qui un concetto che si fa molto avanti
nel ‘900 ovvero la condivisione dello spazio tra spettatore e attore. Questo è un punto
fondamentale tanto da arrivare in alcune forme di spettacolo di questi anni ad una vera e propria
fusione delle due parti, ovvero avere quasi lo spettatore dentro la scena riportando l’evento teatrale
alla sua natura rituale. Far condividere lo spazio per far condividere meglio l’azione. Qui siamo solo
agli inizi perchè in futuro la prossimità verrà ancora sempre più ridotta.
-Il fatto che sia posizionato su una gradinata, altra novità. Non ci sono tantissime gradinate che
permettono anche una visione integrale della scena, frontali (non è semicircolare come il teatro greco
anche se comunque il tipo di disposizione rimanda a quello).
-Anche se qui non possiamo apprezzarla per la foto sfocata, anche la luce di questo spazio possiamo
dire che fosse avvolgente, evocativa e Appia aveva concepito un sistema di illuminazione a pioggia,
estremamente ovattata e non diretta.
Dalcroze nel 1914, dopo aver perso i fondi necessari, conclude il percorso della scuola che trasferirà
in parte a Ginevra con formazione anche di insegnanti che andranno a insegnare poi nel nuovo
continente. Appia continuerà a collaborare con Dalcroze fino al 1923, quando poi arriva una delle
occasioni più importanti per lui. Appia, la cui fama si era diffusa in Europa, viene chiamato da
Toscanini al Teatro Alla Scala di Milano e gli viene commissionata la rappresentazione del Tristano
e Isotta di Wagner. Appia vede realizzarsi i suoi sogni, la possibilità di concretizzare le cose che
aveva teorizzato. Qui arriva la delusione, al teatro non riesce a comunicare con i tecnici che erano
abituati alla routine, ad un tipo di rappresentazione scenica totalmente
diversa. Quando questi ultimi si vedono proporre gli spazi ritmici, questi
colonnati, gradinate e un certo tipo di disegno luci, vanno in tilt e non
riescono ad assecondare Appia. Appia è disperato, anche perchè deve
scontrarsi anche con un altro tipo di problema: i cantanti, e con delle
prassi esecutive routiniere che non permettono di soddisfare anche le
esigenze della scena. In ogni caso, lo spettacolo debutta anche se
faticosamente. Purtroppo la critica italiana è spietata, non comprendono
il movimento della luce, i sipari, i movimenti, l’essenzialità, il
minimalismo di questo tipo di scena. L’unico che lo comprende fu Piero Gobetti che riconosce la
grandezza di questa operazione nella sua modernità. Appia è deluso per questo fallimento all’atto
della pratica, nessuno all’interno dello spettacolo riesce a comprenderlo e non permettono alla sua
creazione di realizzarsi in pieno.
Poi, poco dopo, Appia verrà internato e troverà la morte. Nonostante tutto ciò e nonostante la morte di
Appia sia passata sotto silenzio, Appia trova una sorta di riconoscimento post-mortem perchè questo
Tristano e Isotta farà la storia della storia della scenografia dell’opera lirica e sarà un punto di
riferimento.
Tutta questa rifondazione del teatro ha l’obiettivo di farlo partendo dalla riforma della vita. Il teatro può
trovare il suo vero specifico in questa crisi d’identità che aveva attraversato con l’800 soltanto
rifacendo la vita. Rifare la vita vuol dire ricreare il mondo, mettere al mondo un nuovo mondo diverso
da quello quotidiano, non ordinario; un mondo che sia un nuovo vivente.
E’ d’obbligo introdurre un’altra figura importante nella nascita del teatro di regia, la figura di Edward
Gordon Craig cui percorso scorre parallelo a quello di Appia. Abbiamo sottolineato che entrambi sono
stati sia dei praticiens sia dei veri e propri uomini di pensiero, dei teorici. Hanno fatto precipitare il loro
pensiero di una scena nuova in scritti e in libri che sono stati poi particolarmente significativi per
trasmettere questi concetti anche alle generazioni successive e comunicare il loro pensiero su larga
scala. I due hanno fertilizzato il terreno teatrale con i loro scritti. Vi era una sorta di fermento in
Europa che guardava a nuove soluzioni sceniche e a nuovi modi di lavorare con gli attori, un
movimento di modernizzazione del teatro che riuniva diversi praticanti della scena e per questo anche
se non hanno collaborato artisticamente, loro carriere si sono in qualche modo incrociate,
convergendo in più idee come quella di spettacolo come opera e della regia come operazione di
confezionamento di un’opera. Lo spettacolo quindi veniva sottratto alla aleatorietà dell’attore.
Questo significa che se non c’è un regista, un responsabile dello spettacolo e questa responsabilità
viene delegata agli attori (come avveniva nel teatro di compagnia capocomicale) lo spettacolo era
sottoposto all’imprevedibilità dell’attore che poteva cambiare a suo piacimento a seconda del suo
“capriccio”. Nel momento in cui entra la figura del regista, lo spettacolo diventa un elemento stabile,
perchè l’attore non può più cambiare a suo piacimento. Lo spettacolo è coerente, risponde a delle
logiche dirette dal regista che è il principio di unità dello spettacolo. Questo passaggio è fondamentale
perchè lo spettacolo diventa un’opera stabile che si può anche trasmettere, trascrivere, notare (cioè
con un sistema di notazione) proprio come tutte le altre opere d’arte. Questo è importante perchè
adesso il teatro non è più un’opera d’arte legata SOLAMENTE al qui e ora, al momento; adesso
acquistando l’elemento della trasmissibilità acquista anche una dignità e coerenza artistica
(chiaramente il regista può sempre intervenire e cambiare, ma l’opera non è più legata
all’imprevedibilità).
Didone ed Enea è la sua prima regia (su 6 che ne fece) e per realizzarlo impiega tre mesi di prove
con una fase preparatoria molto estesa per fare solamente tre repliche. Le altre regie sono sullo
stesso livello, o meglio approfondiscono quello che in questa messa in scena lui propone, ovvero una
scena praticabile tridimensionale, sempre con non professionisti, ma soprattutto una scena evocativa
e carica di mistero che restituisca libertà al pubblico (permettere al pubblico di fare un viaggio,
guardare e non avere già una risposta pronta). Come Appia, segue moltissimo la musica e si lascia
trascinare dalla sua forza e avvolgenza. Si impone di tradurre l’atmosfera drammatica che la musica
vuole suggerire.
Una novità in Craig è il colore. Craig, immette il colore nella scena inglese che era prevalentemente
monotona. Predilige il contrasto, scene coloratissime e usa il colore in maniera anch’essa evocativa.
L’atmosfera suggerita dalla musica la restituisce cromaticamente.
Con Appia e Craig vi è anche un altro padre fondatore della regia moderna, che è
Konstantin Sergeevič Stanislavskij. Prima di parlare di lui è molto importante
introdurre un’altra figura fondamentale che ha concesso a Stanislavskij di diventare il
regista così tanto famoso che noi conosciamo oggi: Anton Pavlovič Čechov
(Taganrog, 29 gennaio 1860[1] – Badenweiler, 2 luglio 1904[1]), uno scrittore e
drammaturgo russo. Egli, in verità, è vissuto poco con Stanislavskij ma nonostante ciò
è stato importantissimo non tanto per l’apporto concettuale ma perchè entrare nella
scrittura di Čechov significava intervenire scenicamente su diversi coefficienti della
scena e soprattutto sul lavoro dell’attore. Questo perchè la drammaturgia di Čechov è
una drammaturgia che tra gli anni ‘90 dell’800 si rivela completamente innovativa.
Il suo percorso incide molto sulla sua scrittura, infatti lo si considera estremamente autobiografico pur
non facendo mai riferimento alla sua vita direttamente ma si porta dietro dei pezzi della sua realtà e li
tratta rendendoli materia letteraria e scenica.
Nasce nel 1860 in Russia in una cittadina di provincia e poi si trasferisce da ventenne a Mosca.
Čechov quando inizia a dedicarsi alla scrittura e alla letteratura ha quasi vent’anni. Il panorama degli
anni ‘80 dell’800 è molto importante per le sorti della sua scrittura e del suo successo. E’ un
panorama da alcuni punti di vista desertico, da altri punti di vista estremamente opprimente. Desertico
perchè gli anni ‘80 dell’800 sono un’epoca di lutti e perdite gravi per la letteratura russa, infatti le più
grandi pietre miliari della letteratura russa di quel tempo sono morti in quel periodo e nell’arco di
pochissimi anni. Tra i più noti, Turgenev, Dostoevskij e Ostrovskij. In questo scenario, però, rimane in
vita Tolstoj (autore di Guerra e Pace, Anna Karenina e molto altro) che in quel periodo aveva
concluso la grande stagione dei romanzi. Non abbiamo quindi un fervore letterario grande come gli
anni precedenti (possiamo considerarlo una “prateria aperta”). Opprimente perchè questi autori hanno
costruito una sorta di tradizione, una sorta di canone che pesa sulle nuove generazioni. Čechov inizia
a scrivere in questo scenario qua quindi riuscendo a farsi spazio non essendoci più nessuno ma
oppresso da questa tradizione pesante creata dai suoi predecessori.
Čechov, però, non nasce come letterato. Non inizia a scrivere come poeta, drammaturgo, non
frequenta questi circoli perché veniva da una famiglia di umili origini. Non solo, è un medico di
provincia che si trasferisce a Mosca e inizia a scrivere sì per diletto ma soprattutto per sopravvivere e
mantenere la famiglia molto numerosa. Čechov si prende in carico il mantenimento di una famiglia di
cui era il terzo di sei figli, con un padre violento, collerico, un fanatico credente che cade in disgrazia
ed è costretto a vendere il negozio e le proprietà e a trasferirsi poi a Mosca. Čechov non si trasferisce
in quel momento, subito dopo il fallimento del padre, ma rimane in provincia e rimane nella casa con il
nuovo proprietario (perchè in provincia aveva iniziato la sua attività di medico di provincia mentre
mantiene la famiglia trasferitasi a Mosca).
Comincia con la piccola letteratura, dei brevi racconti divertenti che vengono pubblicati su alcuni
fogli locali e su alcuni giornali. Durante gli anni del liceo si accende in lui il fuoco del teatro e cerca
di conoscere e di vedere quanto più teatro possibile. Addirittura contagiato dalla passione per la
scena, assieme ai fratelli, organizza una propria compagnia e recita delle commediole a casa di amici.
Questa passione per il teatro non si consolida subito con un’attività professionale, non abbandona gli
studi per abbracciare la via dell’arte, ma rimane in qualche modo latente. Lo fa per avere
un’indipendenza economica e un reddito. Però questa passione rimane sopita e verrà fuori
successivamente diversi anni dopo. Nel frattempo mentre fa il medico, scrive. Negli anni ‘80 in soli
quattro anni scrive circa 150 racconti (diventeranno nel corso degli anni 450) che però firma con vari
pseudonimi, nomi d’arte inventati per nascondere la sua vera identità (infatti, come già detto questa
attività di scrittura è un’attività totalmente illegale e clandestina che esercita più per necessità che per
vocazione. La scrittura dei racconti costituisce quel “serbatoio” a cui può attingere per poi sviluppare
delle situazioni e dei personaggi che troviamo anche nei drammi. I drammi arrivano durante la
scrittura di questi racconti, soprattutto dopo, e Čechov fa riemergere questa passione per il teatro.
Scrive una pièce che si chiama Platonov, l’opera prima che però poi cestina. O meglio, la
disconosce, non la pubblica. Verrà poi riscoperta e pubblicata post-mortem. E’ un’opera giovanile in
cui ritroviamo tutto il teatro che scriverà successivamente.
Platonov è una sorta di maestro di scuola che si sente fallito, che ha perso un amore giovanile che
ritrova successivamente e che nutre velleità letterarie, poetiche e filosofiche che scatena nei salotti
alti che frequenta. Si rende conto, dopo aver ritrovato la sua prima fiamma, di essere un fallito. Tenta
un suicidio senza riuscirci e manda in crisi tutte le figure che lo circondano. Possiamo capire che in
questo dramma si ritrovano molte situazioni e stati d’animo che animano i personaggi delle pièce
successive. Questo primo dramma però sarà surclassato da tutta la produzione letteraria molto
ampia. Successivamente raccoglie queste novelle in due raccolte che gli restituiscono un certo
successo.
Intorno al 1887 però, quando riemerge la passione per il teatro, Čechov scrive un dramma intitolato
Ivanov. Questo è il suo ritorno di fiamma, una possibilità di avvicinarsi al teatro materiale e non solo
di scriverlo, anche far sì che le sue opere vengano rappresentate. Inizialmente, le primissime
rappresentazioni moscovite di questo dramma sono fallimentari perchè in quegli anni in Russia
ancora gli allestimenti degli spettacoli sono realizzati dagli attori stessi in base alla gerarchia dei ruoli.
La scrittura di Čechov non rispondono a questa organizzazione, poichè quando scrive il suo teatro
non guarda le pratiche teatrali di un tempo, non scrive in funzione delle compagnie ma scrive il
teatro che ha in mente; scrive delle situazioni e dei personaggi come li vede nella vita reale,
con tutte le contraddizioni e i paradossi che incontra nella vita di tutti i giorni. Questo perchè è
un medico, vede i suoi pazienti e conosce le loro malattie. E’ un finissimo psicologo, conosce le
nevrosi, i tick, gli stati d’animo e le espressioni nei minimi dettagli. Egli è uno straordinario
osservatore, oltre che essendo medico ha sviluppato ottime capacità d’ascolto. Per questo quando
dà Ivanov in mano agli attori questi lo trasformano in un fallimento, la sua drammaturgia andava
interpretata. Se si metteva in scena con i cliché e gli stereotipi con cui erano soliti a lavorare gli attori
del tempo, quella drammaturgia non poteva che risultare fallimentare. Ed infatti, nelle prime repliche
di Mosca viene cancellato lo spettacolo solo dopo due repliche, mentre solo due anni dopo a San
Pietroburgo ottiene uno straordinario successo semplicemente perchè cambia la compagnia che si
approccia in modo totalmente diverso alla sua drammaturgia e al testo. Questo entusiasmo con cui
viene accolta l’opera di Čechov non lo porta però ad impegnarsi seriamente nel teatro, anzi c’è da
dire che egli fosse tediato dall'atteggiamento dell’attore e di tutte quelle figure professionali che vi
sono all’interno del teatro. Sente, quindi, che questo sistema tradisce la sua opera o comunque non la
comprende (possiamo comunque dire che la drammaturgia di Čechov fosse una drammaturgia
estremamente problematica, una drammaturgia sospesa).
Quindi, dopo Ivanov e dopo la delusione che il teatro gli ha dato in quel periodo, si stacca da esso e si
immerge nella scrittura letteraria e anche in un lungo viaggio nell’isola di Sachalin per scrivere un
romanzo e denunciare la condizione di vita dei forzati che vengono lì condotti.
Circa nel 1895, gli arriva una commissione che lo convince a tornare al teatro, dopo alcune
sollecitazioni, e scrive un’opera che è il suo primo vero dramma importante: il Gabbiano. Il Gabbiano
debutta sempre al teatro Aleksandrinskij di San Pietroburgo. Il prestigio del teatro e la prima attrice,
una famosa attrice russa, che interpreta il ruolo della protagonista Irìna Nikolàevna Arkàdina non sono
sufficienti e la prima del Gabbiano è un fiasco, un insuccesso. Sembra che queste prime di Čechov
siano sempre segnate da un insuccesso, o almeno all’inizio. Infatti, solo successivamente il pubblico
riconosce il valore di questa pièce. Però, Čechov rimane in qualche modo segnato da questi
insuccessi perchè non rispondono alle sue aspettative e contribuiscono a fargli capire che il teatro
esistente non riesce a realizzare la sua drammaturgia. Con questo ulteriore fiasco decide di
abbandonare nuovamente il teatro. Nel frattempo, Čechov è gravemente malato ed era soggetto a
diversi episodi di emottisi per la sua malattia, la tisi, una forma di tubercolosi. Questa condizione lo
costringe a dei lunghi soggiorni al mare (anche in Italia) per trovare un clima più mite e adatto a
tamponare gli effetti di questa malattia. Queste sue condizioni instabili che lo portano lontano dalla
vita della metropoli contribuiscono a portarlo a concepire un tempo diverso.
Nei dieci anni che precedono la sua morte succede la consacrazione di Čechov.
Dopo aver detto “basta” al teatro con cui non vuole più avere a che fare, arriva la
figura chiave che gli permetterà di consacrarsi. In prima battuta, chi conosce per
primo il vero valore di Čechov e che poi lo presenta e impone a Stanislavskij, è un
critico teatrale che insegnava a teatro, un drammaturgo che in quel momento
promuoveva una riforma del teatro sperimentando nuove possibilità di vivere la
scena. Questo straordinario personaggio, quello che poi sarà il braccio destro di
Stanislavskij, (insieme fondano il teatro d’arte di Mosca nel 1897) è Vladimir
Nemirovič-Dančenko. Egli aveva compreso il valore di Čechov e nel 1898 e
decide di interpellarlo per avere i diritti di rappresentazione del Gabbiano. Čechov si
rifiuta fermamente perchè, ancora toccato dalla delusione, non crede più che qualcuno possa riuscire
a rappresentare la sua pièce. Dančenko insiste e Čechov si convince dando i diritti e così Il Gabbiano
viene rappresentato al teatro d’arte di Mosca diretto da Stanislavskij. Inizialmente Stanislavskij non è
convinto di rappresentare Čechov, si trova in difficoltà perchè non sa da che parte prendere la
drammaturgia di Čechov. Non c’è una tradizione, non sa da dove cominciare ma si fidava ciecamente
del suo consulente letterario e decide di studiare meglio il testo e capire come si può approcciare per
metterlo in scena. Stanislavskij lavora duramente e trova un modo di renderlo scenicamente in una
chiave coerente col suo sistema di pensiero, col suo approccio alla scena. E’ un successo. Nel 1898 il
Gabbiano va in scena in una nuova vita, una vera prima, con Ol'ga Leonardovna Knipper (che sarà
poi la moglie di Čechov che riceve da lui una serie di lettere dove lui le dà una serie di indicazioni su
come interpretare i personaggi che lui aveva scritto).
Dopo questo successo, Čechov è incentivato a proseguire su questa strada e l’anno successivo
scrive il suo secondo capolavoro che è Zio Vanja. Da qui in poi le sue rappresentazioni entusiasmano
il pubblico e la critica, peccato che purtroppo Čechov non può vedere le prove e il risultato finale delle
sue opere. Gli arrivano gli esiti positivi, legge le recensioni, la moglie lo tiene aggiornato sullo sviluppo
del lavoro ma non riesce mai a vedere una replica al teatro d’arte di Mosca. Da lì, lontano, ma
continua a scrivere. Nel 1900, anche sull’onda dell’amore per la Knipper, scrive Le tre sorelle dove
plasma il personaggio di Mascia sulla figura della moglie. Nel 1901 debutta al teatro d’arte di Mosca,
che diventa il polo catalizzatore della sua drammaturgia.
Nel 1904 scrive Il giardino dei ciliegi, anche se muore poco dopo. Anche questo è uno straordinario
successo che contribuisce alla sua consacrazione e che completa la sua tetralogia, ovvero i quattro
drammi che compongono questa sorta di affresco umano ed esistenziale.
Il secondo atto si svolge di pomeriggio, fuori della tenuta, qualche giorno dopo. Dopo aver ricordato i bei tempi felici,
Arkadina comincia un'accesa discussione con l'amministratore Samraev e decide di partire immediatamente. Nina invece
rimane e riceve da Treplev un gabbiano a cui Treplev stesso ha sparato. Nina è confusa e inorridita dal dono. Treplev vede
Trigorin che si avvicina, e se ne va colto da una fitta di gelosia. Entra Trigorin, uno scrittore famoso. Nina gli chiede di
parlarle della vita da scrittore. Trigorin risponde che non è una vita facile. Nina dice che lei sa che anche la vita da attrice
non è facile, ma lei vuole questo più di ogni altra cosa. Trigorin vede il gabbiano ucciso da Treplev e medita su come farlo
diventare il soggetto di un racconto: "Una giovane donna vive tutta la sua vita in riva a un lago. Lei ama il lago, come un
gabbiano, ed è felice e libera, come un gabbiano. Ma per caso arriva un uomo, e quando la vede la distrugge, per pura noia.
Come questo gabbiano". Arkadina fa chiamare Trigorin e questi parte mentre lei gli dice di aver cambiato idea e che non
partiranno immediatamente. Nina indugia, affascinata dalla celebrità e dalla modestia di Trigorin ed esclama "Il mio
sogno!".
Atto III
Il terzo atto si svolge dentro la tenuta, il giorno che Arkadina e Trigorin hanno deciso di partire. Tra i due atti Treplev ha
tentato il suicidio sparandosi alla testa, ma il proiettile gli ha solo scalfito il cranio. Per tutto il terzo atto egli ha il capo
fasciato con delle bende. Nina arriva quando Trigorin sta facendo colazione e gli presenta un medaglione che mostra la sua
devozione per lui con un verso tratto da uno dei libri di Trigorin: "Se hai bisogno della mia vita, vieni e prendila". Nina si
ritira dopo aver implorato di avere un'ultima occasione per vedere Trigorin prima che lui parta. Entra in scena Arkadina,
seguita da Sorin, la cui salute continua a peggiorare. Trigorin esce per finire di preparare i bagagli. C'è una breve lite tra
Arkadina e Sorin, dopo la quale Sorin si accascia per il dolore ed è soccorso da Medvedenko. Entra Treplev che chiede alla
madre di cambiargli le bende. Mentre lei gli cambia le bende, scoppia una lite tra madre e figlio anche perché Treplev
denigra Trigorin, dopo la quale Treplev lascia la stanza in lacrime. Rientra Trigorin e chiede ad Arkadina se possono
rimanere nella tenuta, in virtù dell'attrazione che egli sente nei confronti di Nina. Arkadina lo lusinga e lo convince a
tornare a Mosca. Partita Arkadina, arriva Nina per dare l'addio finale a Trigorin e informarlo che sta per fuggire via per
diventare attrice, contro il volere dei genitori. I due si baciano appassionatamente e decidono di rincontrarsi a Mosca.
Atto IV
Il quarto atto si svolge in inverno due anni dopo, nel salotto che è diventato lo studio di Treplev. Maša ha finalmente
accettato di sposare Medvedenko e adesso hanno un bambino, anche se Maša ancora ama, non corrisposta, Treplev. Vari
personaggi discutono di quello che è accaduto nei due anni che sono trascorsi: Nina e Trigorin hanno vissuto insieme a
Mosca per un periodo, poi lui l'ha abbandonata ed è tornato da Arkadina. Nina non ha mai avuto un vero successo come
attrice e adesso è in tournée in provincia con una piccola compagnia teatrale. Treplev ha pubblicato alcuni racconti, ma è
sempre più depresso. La salute di Sorin sta peggiorando e gli abitanti della tenuta hanno telegrafato ad Arkadina perché
torni a vederlo prima che muoia. La maggior parte dei personaggi va nel salotto per giocare a tombola. Treplev non si
unisce a loro, ma passa il tempo lavorando a un manoscritto sulla sua scrivania. Il gruppo esce per andare a pranzo, entra
Nina da una porta posteriore e racconta a Treplev la sua vita infelice degli ultimi due anni. Nina comincia a paragonarsi al
gabbiano - l'uccello ucciso da Treplev - poi cambia idea e dice "Sono un'attrice". Dice di essere stata costretta ad andare in
tournée con una compagnia teatrale di seconda categoria dopo la morte del bambino avuto da Trigorin, ma adesso sembra
aver ritrovato la speranza, e chiede a Konstantin di venire a vederla quando "sarà diventata una grande attrice". Treplev la
supplica di restare, ma lei è troppo confusa per accettare. Sconfortato, Treplev passa diversi minuti strappando il
manoscritto prima di uscire dalla stanza in silenzio. Il gruppo rientra e ricomincia a giocare a tombola. C'è uno sparo
improvviso fuori scena e Dorn va a vedere che cosa è successo. Ritorna e prende da parte Trigorin, dicendogli di portar via
Arkadina in qualche modo, perché Treplev si è appena sparato.
Al di là di questi tre temi fondamentali, abbiamo due altri aspetti importanti nella drammaturgia di
Čechov:
1. E’ molto difficile raccontare la trama di un suo dramma perchè la trama non c’è. Oltretutto, la
“storia” è senza finale. In realtà non la si potrebbe neanche chiamare storia, non c’è una
storia/trama, è una vera e propria tranche di vita naturalista però vera, non costruita ad arte.
Un fluire di un pezzo di vita non c’è un inizio clamoroso, effettivo e non c’è una fine decisiva.
Ci sono degli eventi, delle morti, delle partenze, degli avvii, degli arrivederci ma non c’è una
chiusura definitiva. C’è una chiusura che possiamo definire inevitabile, perchè in qualche
modo deve pur finire la pièce. Questo fatto che non ci sia la trama è un problema, perchè se
non c’è trama non c’è azione e infatti l’azione è sospesa, sfilacciata. Nel raccontare la trama
notiamo che ci viene spontaneo raccontare una successione di atti, di eventi ma non una
successione di azioni che portano a degli sviluppi. Le cose accadono ma non c’è una
consequenzialità. Spesso e volentieri l’atmosfera è rarefatta e il tempo è dilatato. Sembra
anche che tutti questi dialoghi autoreferenziali siano portati ad allungare e dilatare, appunto,
questo tempo. E’ tutto un prendere tempo. Non ci sono azioni risolutive.
2. I personaggi: I drammi di Čechov sono drammi corali, (per questo se ci domandiamo chi
sia il vero protagonista, per esempio, del Gabbiano non possiamo darci una risposta certa).
Non esistono dei ruoli più importanti di altri, non esiste il protagonista. I personaggi sono
tutti indispensabili, non si potrebbe tagliare la parte di uno di questi (anche se ha poche
battute) perchè se no si romperebbe subito l’equilibrio del dramma.
Interessante ricordare che Čechov era un dottore e che in quasi tutti i drammi di Čechov c’è
un dottore.
3. C’è un altro aspetto della drammaturgia di Čechov che lega lo sviluppo del dramma allo
sviluppo del personaggio. C’è un fluire di eventi che spesso non hanno tra di loro una
consequenzialità. La critica più attenta di Čechov ha parlato di curva dei personaggi. I
personaggi non sono lineari, non arrivano alla fine del dramma che sono cambiati, non
succede qualcosa che li trasforma. Il dramma è come una sorta di curva che permette al
personaggio di esprimersi, che gli permette di manifestarsi. E’ il tempo del dramma, in cui si
svolge la vicenda, che permette al personaggio di manifestarsi per quello che è. Ad esempio,
Nina non è cambiata, non era una donna migliore all’inizio di quello che è poi alla fine. Lei è
sempre quella, quello che le succede non la fa diventare una persona peggiore. Ha
semplicemente manifestato la sua persona nell’arco di questo dramma e non avrebbe potuto
farlo solo in un atto, cioè ciò che vediamo nel primo atto è solo una parte di Nina ma abbiam
bisogno di un tempo di esposizione più lungo, di un tempo di maturazione del personaggio
per poterlo cogliere in quello che è. Čechov ci vuole dire che non esistono persone buone e
persone cattive, non c’è il personaggio buono e quello cattivo così come nella vita non
esistono persone migliori e persone peggiori. Le persone e i suoi personaggi sono buoni e
cattivi insieme, sono sfaccettati. E il tempo del dramma sviluppa una sorta di parabola che
permette al personaggio di mostrare tutte le sue parti, i suoi limiti, i suoi pregi, i suoi difetti, le
sue contraddizioni.
Questo sviluppo del personaggio è un elemento molto importante perchè il personaggio non è più
l’emblema di qualcosa, di un sentimento specifico (del bene o del male), è molto più complesso e
costringe l’attore che lo interpreta a fare un lavoro altrettanto complesso.
In Čechov il tragico e il comico coincidono. Gli atti unici che scrive lui li pensa come dei vaudeville,
quindi brillanti, allegri, comici, con un ritmo; invece molto spesso viene interpretato come dramma
pesante, tragico, niente di più lontano dalle sue intenzioni. Egli era leggero e pesante insieme,
profondità e ascensione insieme. Non sono delle contraddizioni, sono degli aspetti che caratterizzano
l’umano, tutti gli aspetti della vita che cerca di riprodurre. Chiaramente è molto più semplice scegliere
una sola chiave (o tragico o comico) invece di provare a restituirle entrambe. Per questo sono molto
complesse le opere di Čechov. Čechov non è affatto contento quando vede Il Giardino dei Ciliegi
diretto da Stanislavskij nonostante il successo perchè egli aveva accentuato troppo la parte
drammatica, invece di creare il doppio peso di leggerezza e dramma in maniera equilibrata. Notiamo
benissimo come Čechov sia già proiettato ad una drammaturgia novecentesca.
Konstantin Sergeevič Stanislavskij
LA RIFORMA ETICA
Volevo ristabilire un rapporto diverso tra la vita e il teatro a livello sia della condotta dell’attore nei
confronti della sua attività professionale che nel rapporto della rappresentazione della vita. Questa
riforma etica non era indirizzata solo ai praticiens del teatro, quindi il coordinatore, il regista, l’attore e
tutti i responsabili dell’allestimento ma era indirizzata anche allo spettatore. Bisognava riformare
anche il modo di fruire uno spettacolo. In sostanza, questo teatro d’arte vuole:
1. Un nuovo attore
2. Una nuova scena
3. Un nuovo tipo di spettatore
Questa nuova concezione ricalca tutti quegli aspetti già discussi nei pionieri della regia e nei primi
registi, ovvero la necessità di abbattere i ruoli, di abbattere la sterile routine che interessa il
professionismo, esaltare la dignità del luogo cioè permettere agli attori di operare all’interno di uno
spazio che sia decoroso. E’, infatti, importantissimo comprendere com’erano organizzati gli spazi: vi
erano degli spazi molto scanditi, cioè lo spazio dietro le quinte, i camerini avevano una certa dignità;
spesso prima erano situati nei sotterranei, erano trascurati, erano camerini condivisi con tutti gli altri,
l'attore non aveva la possibilità di entrare in connessione con se stesso. Ovviamente il lavoro nel
teatro d’arte di Mosca era collettivo ma sentivano che fosse necessario renderlo uno spazio
adeguato, pulito e decoroso, uno spazio in cui gli attori abbiano la possibilità di prepararsi e
concentrarsi in una dimensione solitaria con se stessi. Questa riforma etica, che riguarda la condotta
dell’attore, il modo di lavorare, riguarda anche la disciplina dell’attore: l’attore fa di questa arte del
teatro la sua vita ma deve inevitabilmente disciplinarsi. Il rispetto degli orari, le ore di preparazione
fisica in vista dello spettacolo ecc… Questa disciplina non era solo formale ma era anche interiore.
Stanislavskij credeva alla necessità di un attore puro. Gli attori dovevano essere animi puri, altrimenti
senza questa purezza d’animo non era possibile avere una base per la creazione, per creare
sentimenti sani, per riuscire a generare e rivivere delle affezioni. Era una sorta di richiesta di
preservarsi, preservarsi dal vizio, dalla corruzione. La disciplina che parte dall’anima e arriva
anche ad aspetti più formali del lavoro.
LA RIFORMA ESTETICA
Per quanto riguarda, invece, la riforma estetica Stanislavskij inizia a promuovere un altro tipo di
drammaturgia che spesso, come sull’impronta dei Meininger, veniva dai grandi drammi storici. Questa
riforma riguardava la drammaturgia ma anche l’uso delle scenografie e l’uso della luce. Non ci è
nuovo tutto questo, quindi per esempio:
-niente fondale dipinto
-presenza di un sipario molto sopio, poco altisonante
-riforma dello spazio dell’udienza (la parte in cui sono gli spettatori) perchè il pubblico che si reca al
teatro d’arte di Mosca deve seguire alcune regole fondamentali come per esempio arrivare in orario.
Può sembrare scontato ma non lo è perchè in Russia, ma anche nel centro Europa, a quel tempo il
pubblico era abituato a venire quando voleva, anche a spettacolo già iniziato. Non vi era
canonicamente un inizio e una fine, lo spettatore poteva permettersi di arrivare anche dopo l’orario di
inizio dello spettacolo. Adesso vengono imposte queste regole, tra cui anche mantenere il silenzio
(anche questo non scontato).
Rispetto alla scenografia, vediamo molto l’influenza dei Meininger. Stanislavskij in questi anni ci tiene
fortemente alla realizzazione scenografica, alla cura dei dettagli che è maniacale. Quando mette in
scena Lo zar Fëdor Ioannovič si reca in ogni parte della Russia per riuscire a recuperare oggetti,
mobilio, accessori che fossero degli stessi anni in cui era ambientata la vicenda e che fossero
autentici. Era necessario che fossero oggetti vissuti, anche usurati, e non ricostruiti su dei modelli.
Questo verismo, questo eccesso di filologia, ha permesso una serie aneddoti tra cui uno molto famoso: per “Lo
zar Fëdor Ioannovič” serviva una Bibbia che il protagonista legge e usa nella vicenda. Viene acquistata una
vecchissima Bibbia tutta incisa e decorata che sembra perfetta inizialmente per la scena ma quando Stanislavskij
la vede e dice che anche se è apparentemente perfetta, non è la Bibbia che ha usato il protagonista, non è lei
fino in fondo.
Questo realismo esteriore è ciò che contraddistingue tutta la sua produzione fino al 1904. Questa
mania degli oggetti d’epoca è estremamente invadente e lo vedremo soprattutto nella produzione
Čechoviana.
Stanislavskij cerca di rispondere a delle domande, colmare le lacune scavando. Cioè, va in profondità
e cerca di dare delle risposte a qualcosa che non c’è. Per restituire questa drammaturgia così
sfilacciata, rarefatta e quindi colmare quei vuoti, cosa fa Stanislavskij?
-Dilata il tempo: Ricordiamo che già in Čechov il tempo sembra quasi non esistere, sembra essere
fuori dalla storia, sospeso e invece la Storia in Čechov incombe, è come se fosse un presagio
funesto, una nuvola che sta sopra i personaggi e agisce a loro malgrado. E’ come se questi
personaggi si fossero estromessi dalla storia, come se non fossero capaci di incidere nel
cambiamento storico, come se lo subissero, come se fossero mossi da inerzia.
A questo punto, Stanislavskij dilata ulteriormente i tempi di Čechov inserendo sguardi languidi,
lunghe pause, dilata il silenzio. Il silenzio, per Stanislavskij in Čechov, è estremamente legato alla
musica, ai rumori, o meglio alla musica concreta. Una frase emblematica è: il silenzio, in teatro, a mio
parere, si ottiene non con l’assenza di rumori ma con la presenza di rumori. Se non ci sono rumori
che interrompono il silenzio non si ottiene l’illusione del silenzio. Perchè? perchè il personale tra le
quinte, tecnici, visitatori non autorizzati e il pubblico in sala producono rumori che disturbano
l’atmosfera in scena.
Quindi Stanislavskij fa tutto questo con una doppia intenzione: rumori che rispondono al testo, rumori
che rispondono all’allestimento e rumori per generare il silenzio.
Amplifica le pause, i momenti di silenzio già indicati da Čechov, ma lui li dilata per renderli
ulteriormente espressivi e per far sì che lo spettatore possa interpretarli. Compensa la parola con
sguardi lunghi e penetranti (che sono caratteristici nell’interpretazione degli attori di Stanislavskij nei
confronti di Čechov).
L’horror vacui di Stanislavskij non è soltanto sul piano spaziale ma è anche sul piano visivo e
acustico.
Sul piano acustico: tutti i suoni e rumori a cui Čechov fa riferimento, con Stanislavskij vengono
amplificati e duplicati, cioè tutti quei suoni e rumori della vita di tutti i giorni, campestri, rurali, della
casa ecc… vanno a costruire una drammaturgia sonora parallela che interseca quella delle parole di
Čechov. Usava partiture sonore che non erano presenti nel testo o che erano solo lontanamente
legate alla ricostruzione dell’ambiente o che erano in qualche modo suggerite dalle battute per
riempire sonoramente la scena. E oltretutto, questa mania di intervenire con effetti rumoristici per
creare il silenzio, infastidiva molto Čechov tant’è che diceva che le sue opere prossime sarebbero
state tutte senza suoni e rumori poiché nelle mani di Stanislavskij tutto questo diventava troppo, non
c’erano mai dei silenzi. Era come se Stanislavskij entrasse in maniera invadente in questo vuoto
per colmarli, anche Čechov non li intendeva così.
Sul piano visivo: oltre alle controscene, per riuscire a restituire al meglio questa drammaturgia e le
dinamiche che esistono tra i vari personaggi, egli usa anche la luce in termini espressivi e
simbolici: non solo, quindi, per indicare il cambiamento delle ore o i vari momenti della giornata, ma
anche per commentare i sentimenti o le relazioni che esistono tra i personaggi.
-Inserisce delle controscene per esprimere il mondo interiore dei personaggi senza l’ausilio della
parola. Ci permette di arricchire la conoscenza dei personaggi.Ognuno porta la sua controscena,
espediente di Stanislavskij per riuscire a rendere ciò che il testo non dice. La controscena sta sullo
sfondo della scena principale e vede i personaggi agire e muoversi in modo da informare lo spettatore
di dinamiche che sono in corso e che non sono presenti nel dramma. Queste controscene, quindi,
sono ulteriori indicazioni delle dinamiche tra i personaggi, di alcuni movimenti che avvengono e che
non sono depositati nell’azione, sono paralleli, sotterranei.
-Porta molta attenzione nella rappresentazione degli ambienti, nonostante Čechov non fosse uno
preciso e puntiglioso come Ibsen. Ma ha bisogno di riempire la scena con oggetti per ricostruire
l’ambiente e aiutare l’attore ad immedesimarsi (vedi prima)
Quindi, tutto questo aiuta molto l’attore a vivere tutto ciò che succedeva in scena. Fino a questo
punto, Stanislavskij realizza una sorta di interpretazione realistica di Čechov anche molto esteriore
cercando di restituire anche la psicologia (o meglio, l’atmosfera intima e psicologica). Il suo approccio
è introspettivo.
Dopo aver lavorato su Čechov e grazie alla sua drammaturgia, Stanislavskij capisce che dovrà
lavorare con l’attore in termini completamente diversi. Succede che con la morte di Čechov,
Stanislavskij capisce che il vero fulcro creativo della scena è l’attore. Il regista non deve costruire
a tavolino tutto (fino a quel momento con i quaderni di regia tutto era definito a priori nei minimi
dettagli). Adesso Stanislavskij vuole abbandonare la pratica dei quaderni, perchè il quaderno è utile
nel momento in cui sei insicuro, non sei sicuro di te stesso. Quando non sei sicuro di te stesso scrivi
tutto. Allora, a cosa serve il regista? è una guida che deve creare le condizioni affinché l’attore possa
essere un creatore. L’attore, con il suo impegno nel lavoro, diventa il vero creatore di immagini, è lui
che riempie il vuoto e il regista lo aiuta a sviluppare quella creatività. In sostanza, non sarà più
Stanislavskij a dover riempire i vuoti, sarà l’attore a farlo con le sue improvvisazioni, col suo lavoro
che scava nel testo. Esattamente il contrario di prima. E’ come se l’attività dei quaderni che compiva
lui prima fosse delegata direttamente agli attori (chiaramente senza che per forza dovessero avere un
proprio quaderno di regia). Ci si ricollega benissimo al concetto che l’attore per generare un vero
sentimento dentro di sé, creare immagini che siano vere, per essere uno spirito creatore, deve essere
un’anima pura. Anima pura a livello umano, di spirito. Il divismo e tutti gli aspetti individualisti che
avevano caratterizzato l’arte dell’attore vengono raffreddati. Ci può essere un attore importante ma
sempre all’interno di una comunità di riferimento e il valore del singolo attore è determinato
dall’appartenenza a quella comunità, non è a se stante.
IL SISTEMA STANISLAVSKIJ
Nel 1904, quindi, cambia l’approccio di Stanislavskij e nel 1096 dà origine al cosiddetto Sistema
Stanislavskij (non il metodo, perchè il “metodo” è un qualcosa che verrà sviluppato a metà degli anni
20 e successivamente ed è il metodo Strasberg che elabora a partire dal sistema Stanislavskij portato
in America da alcuni allievi dopo la sua tournée americana del 1924 e che lì avevano poi trasmesso a
generazioni di allievi e Strasberg poi la elabora in funzione dell’attore della sua scuola. L’actor
Studio).Il sistema è basato sulla “vozrozhdeniye”, comunemente tradotta col termine di
“reviviscenza”. Significa immedesimazione ma è una sorta di realizzazione del personaggio, di
vivificazione del personaggio attraverso la concentrazione dell’attore che deve assorbire il pensiero e i
sentimenti del personaggio in modo da viverlo, essere il personaggio e non riprodurlo. L’attore,
attraverso la propria concentrazione (saper dominare il proprio corpo, le contrazioni muscolari,
conoscere se stessi a livello fisico) e attraverso un training fisico, assorbe i pensieri e i sentimenti del
personaggio, li comprende, in modo tale da trovarli interiormente, provarli esso stesso attraverso la
sua esperienza e attraverso la riproduzione fisica e psichica di quello che prova il personaggio
(non per riprodurli ma per viverli effettivamente come li vivrebbe il personaggio, per essere il
personaggio). Se non lo vive e invece tenta di interpretarlo, si limita a riprodurlo. Se il personaggio
soffre, anche l’attore deve soffrire nello stesso modo quindi deve creare nel suo corpo quelle stesse
condizioni di sofferenza che per essere riprodotte dal profondo (e non in maniera superficiale) l’attore
deve innescare un processo organico.
In quegli anni, Stanislavskij risente fortemente delle teorie scientifiche (che legano la fisiologia alla
psicologia) di Ivan Pavlov sui riflessi condizionati. Stanislavskij è convinto che il pensiero sia
strettamente legato all’azione, quindi agisce muscolarmente. Per cui, la concentrazione dell’attore per
riprodurre una sensazione, un’emozione, un pensiero, produceva una scarica organica, un effetto
muscolare. Tutto questo fermo restando che per Stanislavskij l’attore doveva far finta che non
esistesse lo spettatore, cioè l’attore doveva abituarsi ad agire senza pensare che c’era qualcuno
che lo guardava perchè quello costituiva un elemento di forte distrazione.
Perchè era importante questa concentrazione? Perchè era importante creare questa partitura di
emozioni?
Perchè l’attore doveva ogni volta vivere come se fosse la prima volta quel personaggio. Doveva
creare le condizioni per essere ogni volta vero, sincero, vivere ogni volta
realmente quelle emozioni e quei pensieri.