Penso che l’architettura possa e debba essere intesa come un festeggiamento,
una celebrazione.
Ma cosa si tratterebbe di festeggiare?
Anzitutto l’architettura deve celebrare sé stessa. Ma non nel senso del monumento che l’architetto erige a sé, come in molti casi di cosiddetta “architettura contemporanea”. Dico che l’architettura deve celebrare sé stessa perché deve essere coerente, organica, unitaria: dovrà dunque celebrare, partendo dal livello più basso di complessità, innanzitutto il materiale (o i materiali) con cui è costruita. Questo significa far lavorare a compressione i materiali che così chiedono di essere utilizzati, a trazione quelli che vogliono la trazione, e a flessione quelli che richiedono la flessione. Quando Louis Khan scopre che “il mattone vuole fare l’arco, basta che glielo si chieda”, sta proprio dicendo questo. Naturalmente “festeggiare” i materiali non significa semplicemente sottoporli al genere di sforzi che questi sopportano meglio, ma anche disporli in maniera corretta (per esempio sovrapponendo il leggero sul pesante), collegarli tra loro in maniera ottimale (problema delle giunzioni e delle connessioni), o dimensionare gli elementi in modo consono alle capacità di quel particolare materiale. La seconda categoria che all’architetto è richiesto di celebrare è la struttura. Ciò non vuol dire che essa debba essere necessariamente esibita, messa in mostra. Deve però essere coerente, orchestrata in maniera organica e armoniosa tra le parti, concepita in base al materiale di cui è composta e in vista della geometria che vuole generare. Crescendo in ordine di complessità, il terzo elemento che bisogna festeggiare è l’impianto, ossia la disposizione planimetrica dell’edificio: le dimensioni delle campate, l’affiancamento dei corpi di fabbrica, ogni linea e ogni curva devono portare in sé la memoria delle due categorie precedenti, e nel contempo devono prepararsi ad ospitare in sé le funzioni per cui l’edificio è concepito. L’ultimo elemento è l’organismo edilizio nella sua totalità, espresso nei prospetti e nelle sezioni: i rapporti tra pieni e vuoti, la distinzione tra spazi coperti e non coperti, la scansione in altezza degli elementi, le sovrapposizioni, il rapporto con la terra e con la copertura. Festeggiando questi quattro gradi di complessità, l’edificio festeggia sé stesso. Ma l’architettura deve anche celebrare la gente per cui è stato fatto, gli utenti e anche chi semplicemente ci passerà davanti, così come le funzioni per cui verrà usato, deve celebrare la storia del luogo ma anche le generazioni che verranno, oltre a quella presente. In una zona semidesertica come l’area di Ropi, in Etiopia, l’architetto non è dunque chiamato a compatire una situazione di povertà e di fame, ma a vivere – come fa la gente del posto – con gioia e soddisfazione quella terra, quel luogo, e non un altro. La mancanza di legno, per esempio, non deve essere considerata una privazione, da sopperire per esempio con l’importazione di travi metalliche, ma come l’occasione per risolvere il problema della copertura con l’impiego esclusivo di terra. E’ l’opportunità per festeggiare la terra del posto con sistemi spingenti: archi, volte, cupole. Allo stesso modo la scarsa precisione che si può richiedere alla manodopera locale non deve essere presa in considerazione come un limite, ma come l’opportunità di affidarsi, per esempio, alla grande capacità manuale di questa gente, al loro senso innato di proporzione e simmetria e alla loro capacità di fare praticamente ogni tipo di lavoro senza strumenti, usando solo le mani. In greco, la parola ??? (…) significa sia “crisi” che “opportunità”, e proprio in questo senso ogni condizione al contorno posta dalla situazione contingente può essere affrontata come un problema da risolvere, e dunque come una limitazione alla propria libertà di progettista, o come l’indicazione di una strada, ossia come la possibilità di dare una risposta più consona, intelligente, adeguata, e dunque anche esteticamente bella, al progetto. La mancanza di legno, per esempio, può essere sottolineata ed utilizzata come tema servendosi di sistemi voltati autoportanti, ossia sistemi che non solo non impiegano travi lignee per la copertura, ma non richiedono neppure opere di centinatura. Viene festeggiato dunque il sistema costruttivo, che lascia di sé una traccia visibile nell’immagine dell’oggetto architettonico anche a cantiere terminato. Un altro tema importante, riferito al luogo, è quello della capanna, unico riferimento tipologico presente sul luogo. In una capanna possono abitare anche famiglie numerose, di dieci o dodici persone, ma costruire una chiesa, che poi possa servire anche come scuola e come ambulatorio, significa pensare a un edificio di un’altra scala, in cui possano entrare e trovare posto almeno un paio di centinaia di persone. Il passaggio di scala è un tema affascinante, che si può risolvere in diverse maniere. Leon Krier sostiene che tutto in natura, allargandosi, moltiplica il numero di elementi, anziché ingrandirsi semplicemente: una coppia che decide di allargare la famiglia, per esempio, propenderà per avere dei figli, piuttosto che per ingrassare a dismisura. Allo stesso modo le cellule si moltiplicano, gli alberi si diramano, e via dicendo. Il passaggio di scala di una capanna, dunque, non consisterà nella fabbricazione di un’enorme struttura circolare polare, ma nell’accostamento di più elementi in un unico organismo. In questo senso la scelta di una pianta pentagonale, oltre che a ragioni pratiche e di utilizzo, è dovuta alla volontà di mantenere, anche dopo il passaggio di scala, la polarità dell’organismo. Intendo dire che un numero pari di cupole (come ad esempio un esagono) avrebbe dato assialità all’oggetto, mentre il pentagono mi pare più leggibile come oggetto polare. Anche il fatto che ogni cupola sia dotata di un ingresso autonomo non è solo una risposta a problemi pratici, ma serve a lasciare una certa autonomia ai singoli componenti della famiglia di cupole che compone la chiesa. Per fare pratica nell’utilizzo di blocchi in terra, tecnica mai utilizzata prima d’ora in questa zona dell’Etiopia, abbiamo costruito, prima del cantiere della chiesa, un magazzino granaio con la stessa tecnica, lo stesso sistema costruttivo e anche dimensioni quasi identiche. L’esperienza è servita innanzitutto per vincere la naturale diffidenza da parte della gente verso un sistema sconosciuto, ma anche per valutare l’impatto e l’efficacia di un edificio così costruito, altre che a cercare di risolvere, chiaramente, il problema dello stoccaggio dei prodotti agricoli. Contemporaneamente alla costruzione del magazzino, iniziavamo in un altro villaggio una sperimentazione sulla cottura dei mattoni. La cosa era piuttosto semplice ed efficace, permetteva di avere ad un prezzo contenuto dei mattoni cotti, dotati di una resistenza meccanica piuttosto bassa, inferiore a quella del mattone crudo, ma molto più capace di resistere all’acqua. Questi mattoni si potevano cuocere direttamente su una pira di legname, ma con la costruzione di due forni, da far lavorare in alternanza, si potevano raggiungere livelli di produzione molto più elevati, con un grande risparmio di combustibile (stocchi di granoturco, sterpi e legname). I mattoni cotti sono stati utilizzati per le fondazioni della chiesa, legati tra loro con malta di terra stabilizzata e coperti con un intonaco di uguale composizione. Coprire deliberatamente con un intonaco lo zoccolo in mattoni cotti è un gesto che non va in contrasto con il concetto di festeggiare i materiali, proprio perché “festeggiare” non comporta in nessun modo “mostrare”, o ancor peggio “esibire”, ma significa “utilizzare al meglio”. Proteggere, coprire, se necessario. L’intero organismo edilizio è stato edificato col sistema della cosiddetta autocostruzione partecipata, ossia con la partecipazione della stessa gente che vivrà questo edificio non solo a livello di manodopera, ma già nelle fasi di progettazione, lavorazione dei materiali, preparazione del cantiere e costruzione della strumentazione. Questo è l’unico modo per garantire un futuro all’edificio (fruizione, manutenzione, riparazione, eventuale ampliamento, edificazione di oggetti simili) senza altri interventi esterni, ossia per fare in modo tale che l’organismo architettonico entri a far parte veramente del tessuto sociale, della storia del luogo, nella “scena fissa” su cui si muovono le vicende umane.