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TECNOLOGIE SOCIALI

principi teorici ed esperienze pratiche

Corso di Ateneo in cooperazione internazionale e sviluppo


Modulo multidisciplinare
“Aspetti edilizi e tecnologici negli interventi di coop. internazionale”
Nell'ultima dozzina d'anni, ossia dalla laurea in Architettura fino ad oggi, mi sono sempre
occupato di cooperazione allo sviluppo. Ho operato principalmente in Etiopia, dove vivo, ma mi è
capitato di seguire progetti anche in Sud Sudan, Kenya e Senegal.
Ho lavorato per molte ONG italiane ed etiopi, e per qualche università.
I contesti di progetto che mi sono più familiari sono le piccole comunità rurali stanziali, soprattutto
quelle della Rift Valley; i lavori che ho fatto riguardano principalmente l'ottimizzazione delle risorse
naturali, la conservazione del suolo, il miglioramento delle tecniche agricole e l'avviamento di
attività redditizie per gruppi e cooperative.
I temi su cui ho fatto più ricerca sono le costruzioni in terra cruda, le tecnologie appropriate e
l'antropologia dei popoli africani.

Mi sono capitate molte cose interessanti in questi anni, ho fatto tanti errori e qualche cosa ben
riuscita, ho visitato centinaia di progetti attivi, ho speso molto tempo a parlare con le comunità
locali per capire meglio possibile il loro modo di ragionare e di vedere il mondo.
Nonostante tutto ciò, e lo dico fin da subito con estrema chiarezza, non credo di essere arrivato ad
elaborare neppure un principio di massima che possa essere utile a chi sta per affacciarsi al mondo
della cooperazione.
In verità, è successo proprio il contrario: i princìpi generali li avevo all'inizio, poi li ho persi per via,
strada facendo. Sono partito per esempio con la convinzione che “small is beautiful”, e quindi che i
micro-progetti fossero più efficaci e sensati di quelli grandi. Poi però negli anni ho visto progetti
piccoli fallire miseramente senza lasciare la minima traccia del proprio avvenimento e progetti
enormi funzionare alla perfezione.
Un'altra convinzione che avevo in partenza era che lavorare in campagna avesse più senso che farlo
in città: per certi ci credo ancora un po', ma ho visto molti contesti che facevano vistosamente
eccezione a questa regola.
Cosicché non potrò esporre qui neppure un principio generale del tipo “i progetti di cooperazione
fatti così e così funzionano ed hanno senso, quelli fatti in modo opposto invece no”.
Anche togliendo il ruolo degli imprevisti, ossia quelle situazioni esterne che possono far andare
storto un buon progetto o, in casi rari, possono farne funzionare bene uno cattivo, l'indeterminatezza
più frustrante rimane proprio quella della definizione stessa di progetto “buono” (o “cattivo”).

Pur ripetendo che non dispongo di leggi universali da elargire agli aspiranti cooperanti, credo di
essermi imbattuto in alcuni concetti (che possiamo anche chiamare “teorici”) su cui vale la pena
richiamare l'attenzione, perché possono ispirare progetti “buoni” e mettere in guardia da errori
potenzialmente in grado di rovinare anche un progetto ben concepito e strutturato.

Procedo con una serie di parole chiave, dando per ciascuna una breve spiegazione e qualche
esempio applicativo, perché mi sembra la forma più snella e comprensibile per toccare tutti gli
argomenti che mi sembrano utili ed interessanti, tra quelli su cui sono in grado di dire qualcosa.

In copertina si trova un dipinto dell'artista svedese Nikolay Cyon che rappresenta un'ipotetica
Africa qualora l'invasione europea non fosse intervenuta a turbarne gli equilibri interni.
Si tratta chiaramente di un lavoro di fantasia, anche se guidato da ricerche storiche puntuali.
Se da una parte il dipinto comunica una strana malinconia per quello che avrebbe potuto essere ma
non è stato, dall'altro questo scenario ideale in cui schiavismo, colonialismo e land grabbing non
sono mai esistiti può ancora rappresentare un sogno, una visione per quanti sperano,
- irragionevolmente e contro ogni evidenza -
che un giorno l'Africa potrà trovare una via di sviluppo davvero endogena,
basata realmente sulle sue proprie istanze e peculiarità.
Community based approach

E' una delle espressioni più di moda del settore.


“Community based approach” significa coinvolgimento della popolazione locale nello studio e
nell'implementazione dei progetti di sviluppo, possiamo tradurlo “approccio partecipativo”.
Sembra che si tratti di una cosa buona, e infatti perlopiù lo è, perché significa rendere le persone
partecipi del loro proprio sviluppo, tuttavia si tratta di un paradigma utile per certe cose e non
desiderabile per altre, non è una chiave universale attraverso cui affrontare tutte le fasi di tutti i
progetti, indistintamente. I pregi di questo approccio mi paiono piuttosto chiari (ownership e
calibratura), mentre credo che ne siano meno evidenti i grandi limiti.
Attraverso due esempi simbolici, vorrei cercare di approfondire queste idee.

La chiesa di Webedidika

Incomincio con la chiesa di Webedidika, un cantiere di autocostruzione assistita cui mi è capitato di


partecipare nelle veci di progettista1.
L'edilizia è un campo che si presta molto bene al “community based approach”, perché quasi tutte le
scelte possono essere prese dalla comunità locale: il progettista può limitarsi a dire cosa si può fare
e cosa non è possibile, a far presenti vantaggi e svantaggi di ogni soluzione e a dare dei pareri,
lasciando ogni scelta ai futuri fruitori dell'edificio.
La comunità cattolica di Webedidika è cresciuta nell'ultimo decennio, passando da qualche decina
di fedeli a quasi trecento. Questo ha fatto si che non si potesse più celebrare la messa in una
capanna come si era fatto fino ad allora, perché quasi tutti rimanevano fuori: serviva una chiesa
vera.

Figura 1: La chiesa di Webedidika, veduta centrale dall'ingresso verso l'altare. Progettata e costruita con Mirco Vagge.

La zona (sud-est dell'Etiopia) è piuttosto povera e remota, non servita da strade asfaltate, e questo
rende il prezzo dei materiali da costruzione convenzionali (blocchi di cemento e lamiera)
inaccessibile per la gente del posto. D'altra parte l'impiego massiccio della legna sta provocando
grossi danni alle foreste, che vengono bruciate per dare spazio a vivai di eucalipto.
Proposi così al parroco di fare un cantiere-scuola di costruzioni in terra di termitaio, data
l'abbondanza di questo ottimo materiale nella zona.
Costruire la chiesa in mattoni di terra di termitaio avrebbe reso il prezzo dell'edificio abbordabile

1 Il committente era la parrocchia di Soddu Abala, il direttore lavori era l'Arch. Mirco Vagge, che ha anche progettato
molte parti della costruzione; cantiere completato nel 2012.
per la comunità, perché il materiale era gratis e la manodopera sarebbe stata offerta gratuitamente
dai beneficiari del progetto, che avrebbero lavorato a turno in cantiere. Allo stesso tempo avrebbe
offerto una tecnica costruttiva a bassissimo impatto ambientale, replicabile in futuro anche nelle
abitazioni private.
L'unico costo da affrontare rimaneva quello per le lamiere del tetto ed un cordolo sommitale in c.a.
che avevamo deciso di inserire per prudenza, data l'altezza della scatola muraria.
Insegnai alla comunità locale come formare i mattoni in una cassetta di legno, e loro provvidero alla
produzione su larga scala. Una volta avviata la fabbrica di mattoni, iniziammo a discutere del
progetto. Decisero loro ogni dettaglio: collocazione, planimetria, prospetti, ingressi, bucature, vani
accessori, posizione dell'altare, del coro e dei fedeli, colori, finiture... tutto quanto.
Io mi sono limitato ai dimensionamenti, ad alcuni accorgimenti strutturali (lesene e cordolo
sommitale) e ad affrontare le varie questioni in modo ordinato ed organico.
Se dovessi stimare in quale percentuale la comunità abbia inciso sulla realizzazione di questo
progetto, direi almeno il 90%.

Il defluorizzatore di Ropi

Ora, con il secondo esempio, racconterò invece di un progetto in cui questa percentuale è stata
molto vicina allo 0%: la comunità locale non ha partecipato in maniera significativa alle decisioni
importanti, né sul “cosa” né sul “come”.
Si tratta di un impianto per la potabilizzazione dell'acqua che ho installato nel villaggio di Ropi2.
La faccenda alla base del ragionamento è estremamente semplice: chi non ha mai visto acqua
trasparente in vita sua, chi non sa che l'acqua contaminata porta malattie (magari perché crede che
esse siano il frutto di qualche sortilegio o spirito maligno), NON SA di aver bisogno di acqua pulita.
L'acqua dei pozzi di Ropi ha contenuti di sali (soprattutto fluoruri) talmente alti da renderla dannosa
per la salute. Bevendo per molti anni quell'acqua, denti ed ossa si indeboliscono, eventuali fratture
non si ricompongono più e si hanno pesanti ricadute sull'intero sistema scheletrico.
Tuttavia le persone del posto non avvertono questo problema, perché non hanno modo di fare
confronti con altri luoghi.
Ecco, in un caso del genere ci è parso giusto NON coinvolgere la popolazione in fase decisionale,
per farlo poi in un secondo momento: il fatto che qualcuno non veda un problema non significa che
non possa capirlo, ecco che allora la comunità venne coinvolta attraverso dei corsi specifici e
campagne di sensibilizzazione per spiegare i pregi dell'acqua defluorizzata per la salute. Abbiamo
coinvolto in queste campagne tutte le autorità più ascoltate, da quelle governative a quelle religiose,
per fare in modo che il nostro defluorizzatore fosse compreso e voluto dal villaggio, anche se l'idea
non è nata da un “community based approach”: ogni tanto il cooperante deve anche prendersi
qualche responsabilità.
Entro un poco nel dettaglio dal punto di vista tecnico, credo sia interessante3: esistono diversi modi
di trattare l'acqua per rimuovere i dannosi fluoruri in eccesso, essenzialmente tre.
Il primo è il più semplice di tutti, si tratta di filtri a calcio. Si prendono delle ossa animali, si
sbriciolano e se ne fanno dei filtri. L'acqua che vi passa attraverso scatena le sue proprietà insidiose
su questo filtro, che lega il calcio delle ossa tritate al fluoro dell'acqua, evitando quindi che esso

2 Progetto di Fondazione Tovini, finanziato dalla Fondazione CARIPLO e Regione Liguria, 2006. L'impianto fu
fornito a prezzo di costo dalla ditta Idrotecnica di Genova, che provvide anche alla formazione dei tecnici locali.
3 Ci fu una tesi di laurea della Facoltà di Ingegneria di Genova, relatrice la Prof. Arata. In quell'occasione, furono
studiate in maniera puntuale tutte le soluzioni possibili e comparate tra di loro, prima di decidere: spesso, davanti ad
una caso concreto, trovare un aiuto tecnico qualificato disponibile a dare un contributo è molto facile.
In un altro caso, per necessità di un sostegno in campo agronomico, ci rivolgemmo a “Seniores”, un'emanazione
dell'ONU che raccoglie professionisti in pensione disponibili a dare consulenze su progetti di cooperazione: i
professionisti lavorano gratuitamente, l'associazione paga tutte le spese di missione. Ci fu mandato un agronomo
perugino appena andato in pensione, con competenze specifiche sui metodi di coltivazione previsti dal progetto, che
fece un ottimo lavoro.
arrivi allo scheletro di chi successivamente la beve.
Il secondo sistema si basa sulla polvere di allumina, che deve essere addizionata a delle riserve di
acqua e mescolata tramite degli agitatori per 24 ore circa, dopodiché si lascia precipitare la parte
solida e quello che rimane è acqua pura.
Il terzo sistema è il più complesso di tutti, si tratta di spingere l'acqua a forte pressione contro una
membrana a maglia finissima in modo da innescare il processo di osmosi inversa4. La membrana
deve essere continuamente tenuta pulita da un getto d'acqua ortogonale al flusso, si tratta quindi di
un impianto complesso dotato di molti automatismi di funzionamento.

Figura 2: Il defluorizzatore a osmosi inversa installato a Ropi nel 2006. Il sistema è composto da un prefiltro,
una membrana ad osmosi inversa desalinizzante ed infine da un rimineralizzatore.

Nonostante un “principio generale” sensato dica che è meglio usare soluzioni semplici piuttosto che
complesse, decidemmo di seguire la terza via, quella più complicata.
Questo perché il filtro di ossa tritate sarebbe stato inaccettabile per la cultura locale (altrove, quando
si sono accorti della natura di quella polvere bianca, la gente ha dato fuoco ai filtri e all'ufficio di chi
glieli aveva portati). D'altra parte il sistema ad allumina, molto diffuso nel paese, ha l'inconveniente
che la quantità di polvere da aggiungere deve essere calibrata esattamente sul tenore di fluoriri
nell'acqua: aggiungerne troppo poca non la purifica completamente, il sovraddosaggio ha effetti
ancora più negativi perché l'allumina che rimane libera in sospensione ha conseguenze sulla salute
peggiori del fluoro stesso.
Nell'acqua di falda il tenore di sali varia in modo significativo su base annua, risultando più alto
dopo la stagione secca e più basso dopo le piogge, cosicché risulta molto oneroso e a rischio di
errori gravi il continuo processo di analisi di laboratorio su campioni e dosatura dell'allumina.
Per conto suo, il sistema ad osmosi inversa ha una complessità interna piuttosto alta (vedi figura 2)
ma una semplicità di impiego straordinaria: si preme un pulsante per far partire l'impianto, e non c'è
bisogno di altro intervento se non cambiare la membrana ogni 3-4 anni e sostituire la cartuccia del
risalinizzatore ogni 10-20 anni. L'unica parte che può rompersi è la pompa, ma in Etiopia esiste la
manodopera necessariamente qualificata per ripararla, anche se non per produrla.
Decidemmo quindi di importare un impianto ad osmosi inversa in Etiopia: il primo in assoluto nella
storia del paese. Alla dogana la cosa non fu semplice perché volevano capire di cosa si trattasse,
avevano paura che potesse essere pericoloso. Qualcuno ci disse che avevamo fatto “una cattedrale
nel deserto”, che non avrebbe funzionato. Oggi, a dieci anni da quell'intervento, l'Etiopia importa da
ditte europee ed indiane centinaia di impianti di purificazione ad osmosi inversa ogni anno.

4 L'osmosi è una differenza di pressione che si ottiene tra due contenitori di liquido grazie ad una diversa
concentrazione di sali; l'osmosi inversa, al contrario, è una differenza di salinità causata da un differenziale di
pressione.
Sostenibilità

E' un attributo quasi necessario ma non sufficiente per l'adeguatezza ai contesti di


cooperazione.
Iniziamo col dire che ci possono essere diversi gradi di “sostenibilità” di un intervento.
Un dentista che vada a far volontariato in qualche villaggio africano, estraendo denti gratis a chi ne
ha bisogno, fa certamente un'opera meritoria ma altrettanto certamente insostenibile: può cavare
mille denti, ma il milleunesimo non si caverà da solo.
Insegnando l'arte di cavare i denti ad un individuo del posto, raggiunge un certo grado di
sostenibilità nel senso che questo continuerà a cavare denti anche in sua assenza... fintanto che ne
avrà le forze.
Se poi il dentista riesce a trovare qualche sponsor e dunque a fondare una scuola di odontoiatria, il
grado di sostenibilità sale di molto perché si formeranno nuovi dentisti, che continueranno ad
estrarre denti anche quando il primo sarà diventato troppo vecchio per farlo.
Nel momento in cui questa scuola fosse avviata e poi passata al governo locale o ad un privato che
riesce a gestirla, il grado di sostenibilità sarebbe ancora più alto perché si sarebbe creata una
fabbrica di dentisti duratura nel tempo.
A questo discorso non c'è limite, nel senso che se si riuscisse a fare pressioni sulle istituzioni
governative affinché esse stabiliscano scuole di odontoiatria in ogni regione e si impegnino a
mantenerle attive sarebbe ancora meglio, e questo dimostra che i discorsi sulla sostenibilità sono
alquanto aleatori: ciascuno ha un suo modo di intendere la “sostenibilità” di un progetto.

Come nell'esempio appena fatto, si potrebbe riflettere sulla sostenibilità della produzione energetica
nei contesti rurali africani, lontano dalle reti elettriche.
Il generatore a benzina è il livello zero di sostenibilità, equivalente al dentista volontario solitario.
L' impianto fotovoltaico può certamente essere considerato ad un livello superiore perché, una volta
acquistato, produce energia senza bisogno di carburante. Tuttavia rimane il problema che tutte le
componenti sono importate: pannelli, batterie, stabilizzatore, inverter e perfino i cavi, a prezzi
difficilmente accessibili per la popolazione locale.
Per salire ancora nel livello di sostenibilità abbiamo una strada difficile da percorrere che è quella
dell'autarchia: avviare in Africa una produzione di pannelli, batterie al gel e strumentazione
elettronica. Servirebbero investimenti enormi. E poi c'è un'altra strada più facile, ossia cambiare
approccio tecnologico in favore di sistemi più facilmente producibili (e ri-producibili) in loco, pur
se meno convenienti per gli standard con cui ragioniamo solitamente. I collettori solari parabolici
possono essere fatti di comune specchio piano opportunamente tagliato e montato, e gli specchi
sono prodotti in qualunque stato africano, così come le strutture di metallo necessarie.
Se i collettori scaldano dell'olio o altro fluido (sali fusi) che poi viene stoccato in contenitori ben
coibentati, poi questo calore accumulato può azionare un motore (a vapore o di Stirling5) e dunque
produrre energia quando richiesto, senza bisogno di batterie.
Impianti di questo tipo, quando hanno taglia media o piccola, hanno una resa nettamente inferiore al
fotovoltaico. Ma ammettiamo pure che la resa sia di un quarto: a chi dovrebbe importare? I W/mq
sono importanti solo per chi ha carenza di metri quadri, ed in Africa non capita spesso.
Per contro il prezzo dell'energia in €/Wh è circa uguale, solo che paga lavoratori locali (c'è molta
manutenzione da fare) e materiali prodotti nel paese in cui si opera, mentre la scomposizione del
prezzo del fotovoltaico svela che quei denari vanno a finanziare solo le multinazionali che
producono e trasportano in giro per il mondo le componenti.

La prima volta che mi è capitato di fare questo tipo di ragionamenti è stato quando ho progettato un
modello di forno solare per conto di PS76, nel 2005.

5 Il motore di Stirling è in sostanza un ciclo di Carnot perfetto, ha dunque una resa molto alta. Se paragonato al
motore a vapore, ha anche il pregio di non lavorare in pressione. Significa che non rischia di esplodere in faccia a
chi lo usa, vantaggio non trascurabile.
Esistono due tipi di forni solari: gli accumulatori ed i concentratori. I primi sono delle scatole ben
coibentate con un vetro sul lato superiore: la radiazione solare entra e si accumula, portando la
temperatura interna anche sopra i 100 gradi. I secondi invece concentrano i raggi solari nello spazio
anziché accumularli nel tempo, grazie alla forma parabolica: la temperatura di questo tipo di forni, a
dipendenza dalla grandezza del collettore e della pentola, può raggiungere temperature di centinaia
o addirittura migliaia di gradi.

Figura 3: Un prototipo di forno solare che unisce il principio del concentratore con quello dell'accumulatore.
Lo chiamammo “modello Eli” (eli in amarico vuol dire tartaruga).

In prima istanza provai a fare un sistema ibrido tra i due schemi, quello che si vede in figura 3.
Funzionava molto bene ma presentava un nodo difficile da risolvere, quello tra pentola e vetro. Nel
prototipo costruito, i due elementi si inclinano insieme, cosicché per cucinare dopo una certa ora si
finirebbe per versare tutto il contenuto della pentola per terra. Dopo qualche tentativo abbandonai
questa strada perchè qualunque soluzione aveva troppe dispersioni di calore. Decisi di aumentare un
po' il dimensionamento del concentratore e rinunciare all'effetto “accumulo”, eliminando il vetro.

Quello che ne uscì fuori fu chiamato forno “sherarit”, che in Amarico significa “ragno”, per la
forma del treppiede che disegnai per supportare la pentola. La parabola è realizzata in terra e letame
su uno stampo di cemento, lasciata asciugare e rivestita internamente con un foglio di carta
d'alluminio. La durabilità dell'oggetto è bassa, ma il suo costo lo è ancora di più.

Figura 4: La versione definitiva del forno progettato per PS76, il “modello Sherarit”
Tecnologie appropriate

Per “tecnologia” si intende conoscenza umana applicata alla produzione, ossia


quell'insieme di informazioni necessarie per trasformare materie prime, semilavorati e ore di lavoro
(input) in nuova produzione (output).
“Una tecnologia è detta 'appropriata' quando è compatibile con i bisogni propri della
natura umana, le condizioni culturali, naturali ed economiche locali ed utilizza risorse
umane, materiali ed energetiche disponibili sul posto, con strumenti e processi controllati e
gestiti dalla popolazione locale”6

Il Professor Ernst Friedrich Schumacher7, economista riconosciuto come il padre del concetto di
“tecnologie appropriate” (T.A.)8, mette dunque in evidenza come una tecnologia sia da
considerare o meno “appropriata” a dipendenza del contesto (risorse e cultura) oltre che della
intrinseca sostenibilità.
Il altri termini, gli attributi che contraddistinguono una T.A. sono i seguenti:
1) Gestibilità locale
2) Compatibilità culturale
3) Sostenibilità ambientale

Le caratteristiche che individuano una T.A. dal punto di vista causale sono generalmente le
seguenti:
– Impiego intelligente delle risorse locali (uso intensivo di lavoro, per esempio)
– Facile riproducibilità con le risorse disponibili sul posto
– Forte radicamento nella realtà locale (partecipazione delle comunità di riferimento)
– Semplicità gestionale (impiego, manutenzione, riparazioni e smaltimento)
– Piccola-media scala
– Basso impatto ambientale
– Basso costo (accessibile almeno alla maggior parte della popolazione target)

Dal punto di vista effettuale invece, le T.A. hanno le ricadute qui di seguito elencate, o perlomeno
a queste dovrebbero aspirare:
– Socialmente migliorano le condizioni di vita della gente
– Economicamente usano in maniera saggia le risorse del pianeta
– Ecologicamente rispettano gli equilibri della natura
– Politicamente decentrano fra la gente la cura della cosa pubblica

“Ebbene, unire mattoni di fango messi su da contadini inesperti e apparecchi informatici che
ne controllano le qualità sul posto, là dove si costruisce la casa, è una forma di “ibridazione
tecnologica” di cose vecchissime e poverissime con cose nuove e scientificizzate: è
l’incontro di civiltà per risolvere i problemi dei “più poveri”. “Più poveri” che hanno
bisogno di usare tutta l’esperienza dei secoli ma anche tutta la tecnologia e la scienza del
presente.
(omissis) Anche noi abbiamo una qualche possibilità concreta di aiutare, col nostro lavoro
(omissis): approfondire il nostro mestiere per cercare tecnologie appropriate utili al Terzo
Mondo nell’edilizia, nella meccanica, nell’insegnamento, nella tipografia, nell’agricoltura,
nei lavori casalinghi, nella medicina, in ogni tipo di lavoro: e, trovata qualche idea semplice
e utile, metterla a disposizione, ad esempio, degli organismi di volontariato perché la
sperimentino con le popolazioni interessate.

6 E. F. Schumacher, Small is Beautiful, 1973

7 Per una breve bibliografia, vedere https://it.wikipedia.org/wiki/Ernst_Friedrich_Schumacher

8 Un approfondimento sulle tecnologie appropriate, con interessanti rimandi esterni, si trova su


https://en.wikipedia.org/wiki/Appropriate_technology
E chissà che qualcosa non serva, anche, direttamente, per la nostra società, per le nostre
famiglie e per farci uscire dal consumismo ottuso che chiede sempre, anche quando non
serve, la qualità migliore, il prodotto più caro. Sarebbe anche questo un risultato bello e
molto importante”9

Sono queste le parole del compianto Prof. Giorgio Ceragioli dell'Università di Torino, massimo
esperto italiano nel settore delle T.A., nel suo libro “Tecnologie per tutti”, pubblicato e diffuso
gratuitamente con la Diocesi di Torino nel 2003. Nello stesso volume, il Professore racconta
brevemente come, negli anni '80, abbia progettato per LVIA (una ONG italiana) un modello di pala
eolica abbinata alla pompa per il pozzo, modello che fu concepito in ambito di cooperazione, ma
subito trasferito ad imprese locali che si occuparono di produzione e manutenzione.
Ancora oggi, a distanza di più di 30 anni, la maggior parte di quegli impianti sono ancora attivi,
alcuni di essi si trovano a non più di 100km dalla zona di intervento di questo progetto: il processo
di trasferimento tecnologico ha funzionato, grazie all'appropriatezza delle tecnologie impiegate.

Alcuni esempi di T.A. sono: costruzioni in materiali locali, artigianato in bambù, aratri
meccanici migliorati, cisterne per acqua autocostruibili, impianti di irrigazione a risparmio di acqua,
sistemi semplici per la potabilizzazione, fertilizzazione tramite compostaggio o illuminazione a
biogas. Naturalmente ciascuna di queste tecnologie, come tutte le altre, può essere appropriata o
meno a seconda del contesto fisico e culturale all'interno del quale la si vuole utilizzare, in sé e per
sé sono solo potenzialmente appropriate.

Su questo tema ho difficoltà a scegliere un progetto che ho seguito da portare come esempio, perché
grossomodo tutto quello che ho fatto si inserisce nell'ottica delle T.A.
Sceglierò quindi un progetto minimalista, anche per dare l'idea di quanto possa bastare poco, alcune
volte, per ottenere dei grandi risultati: parliamo di sperimentazione agricola, un progetto che ho
seguito nel villaggio di Sinta.
A Sinta, come nella maggior parte dell'Etiopia e non solo, la coltura principale è il mais.
La popolazione però è sedentaria da non più di 2 generazioni, dunque l'agricoltura non rientra nella
cultura tradizionale: parliamo di contadini quasi improvvisati, la cui cultura di pastori nomadi è
stata tranciata di netto una cinquantina d'anni fa.
Tutti sanno che concimando troppo poco le pannocchie vengono piccole, mentre troppo concime
aumenta la spesa ma, oltre un certo limite, non le dimensioni della pannocchia.
Tutti sanno anche che piante molto distanziante crescono più rigogliose, ma se si distanziano troppo
ne diminuisce troppo il numero per metro quadrato, quindi la produttività del campo diminuisce.
Ecco che con un semplice esperimento, si possono coltivare diverse parcelle di terreno tutte uguali
variando la quantità di concime e la distanza tra le piante, misurare il costo e la resa di ogni parcella
e trarre le conclusioni su quale sia la combinazione più conveniente.
Se questi parametri (che variano a seconda del tipo di terreno, quindi della zona geografica)
vengono diffusi tra la popolazione contadina che vive in quella zona, si assisterà ad una produzione
di cibo mediamente più alta che non se ciascuno avesse operato secondo il proprio istinto.
Analoghe prove possono essere fatte per stabilire quale sia il periodo ideale per seminare,
paragonare diversi sistemi di aratura, concimi, anticrittogamici, se sia meglio la semina diretta o in
semenzaio.
A Sinta abbiamo fatto tutte queste cose, cercando poi di diffondere i risultati al meglio tra la
popolazione locale.
Ecco che una tecnica di coltivazione diventa più o meno efficace a seconda di quanto sia stata
“calibrata” sulle specificità locali, alla ricerca dei parametri ottimali.
Significa che – caso estremo – si può migliorare una tecnologia senza nessun apporto materiale.

9 G. Ceragioli, Tecnologie per tutti, 2003. Il volume è consultabile gratuitamente all'indirizzo


http://areeweb.polito.it/ricerca/crd-pvs/documenti/321.pdf
Figura 5: Coltivazione di parcelle sperimentali di granoturco a Sinta.

Figura 6: Determinazione del grado di umidità del mais, utile per comparare i risultati parziali
sulla reale resa, a prescindere dal grado di essiccamento.
Ibridazione

Il concetto di ibridazione è una illuminante via alla comprensione dell'Africa, dove il contadino
manovra ancora il preistorico aratro a chiodo, ma nell'altra mano stringe un i-phone.
L'Africa è un continente postmoderno, che spesso mostra questa compresenza di antichissimo e
contemporaneo.

Figura 7: L'impianto autocostruito della bottega di un caricatore di telefoni cellulari,


fotografato al mercato di Tore (Sud Sudan).

Questo continente, quasi tutto, ha ricevuto (senza chiederlo) i frutti di alcune migliaia di anni di
progresso europeo in un tempo estremamente breve, senza avervi partecipato. Forme di governo,
sistema educativo, religioni, tecnologia, infrastrutture, tipologie abitative, tutto quanto è stato
importato senza alcun criterio logico, senza che le società avessero avuto il tempo di metabolizzare i
cambiamenti e anche di fare gli anticorpi necessari.
Per inciso, questo spiega la ragione per cui – è esperienza comune in Africa – chiunque porti una
divisa o abbia un po' di potere di qualche tipo, tende ad abusarne a scapito degli altri più facilmente
che in altre zone del mondo: qui il “potere” non è mai stato detenuto dalle singole persone, lo hanno
sempre avuto dei comitati, come il consiglio degli anziani o i tribunali civili tradizionali.
E' naturale che interrompere una cultura consolidata precedente, con una sua storia, per assumere
una forma importata (distribuire divise e ruoli al di sopra degli altri), significa affidare ai singoli
delle responsabilità mai avute da nessun predecessore: è un passaggio che non può avvenire in
maniera indolore.
Fine dell'inciso.

Torniamo alla sovrapposizione di epoche remote ed attualità, questa volta per considerarne una
conseguenza positiva. Nell'immaginario delle persone del posto, questa simultaneità tra epoche è
reale, cosicché la cultura è pronta ad accettare tecnologie e materiali moderni senza sentirli “altri”
da quelli che hanno impiegato per millenni.
La straordinaria conseguenza di questa peculiarità è il superamento dell'antitesi tra cultura materiale
tradizionale ed innovazioni tecnico-scientifiche, scontro che nelle nostre culture europee non ottiene
quasi mai una sintesi coerente. In Africa invece una sintesi si trova sempre, in qualche maniera.
In campo tecnologico, l'ibridazione permette di potenziare soluzioni tradizionali o comunque a
basso contenuto tecnologico, semplicemente grazie all'integrazione di una componente
industrializzata o comunque appartenente alla modernità.
Figura 8: Pezzi di gomma nera giunti alla loro terza “vita”: nella prima erano pneumatici di automobile,
nella seconda suole di scarpa ed ora, infine, si sono trasformati in cardini per un cancello.

Ebbi l'onore di fare un progetto, nel 2006, in collaborazione con l'Agricultural Research Centre di
Melkassa. Si trattava di sistemi di aratura e semina appropriati.
In Etiopia si usa perlopiù l'aratro a chiodo trainato da una coppia di buoi: si tratta di una punta
metallica che fende il terreno, montata sull'estremità di un legno tirato dai buoi e guidato dal
contadino.

Figura 9: L'aratro versoio ibrido, a fianco del tradizionale aratro a chiodo etiopico.

E' un sistema molto poco efficiente: per dissodare il campo sono richieste tre arature (est-ovest,
nord-sud e di nuovo est-ovest), dunque molte energie e molto tempo.
E' da notare che non tutti hanno due buoi, solo i contadini più ricchi, che possono mantenerli anche
durante la stagione secca.
Appena iniziano le piogge essi iniziano ad arare. Non prima, perché il terreno secco sarebbe troppo
duro. Impiegano il tempo necessario, dopodiché “noleggiano” la coppia di buoi con tanto di aratro a
chi non ne ha uno di proprietà, ma può comunque permettersi di pagare un buon affitto. Quando
anche loro finiscono di preparare i propri campi, i buoi saranno dati a chi è ancora più povero, e
così via. Dato questo meccanismo, succede che i più poveri di tutti iniziano ad arare quando già
piove da settimane: se la stagione delle piogge è più breve del solito, essi sono i primi a perdere il
raccolto. Un sistema che permettesse di diminuire i tempi di aratura, avrebbe grandi effetti sulla
sicurezza alimentare della popolazione rurale, soprattutto delle fasce più povere.
Mossi da questa idea, sperimentammo un aratro versoio del tipo che usava in Europa prima della
meccanizzazione agricola.
Il vomere ha dimensioni molto ridotte, in modo da non affaticare troppo gli esili buoi locali (zebù),
mentre tutti gli “attacchi” erano uguali a quelli usati tradizionalmente.
Il risultato fu buono: con questo aratro, ottenuto sagomando un pezzo di tubo di acciaio e punta
rinforzata ritagliata da una balestra di automobile, era sufficiente un'unica passata per dissodare una
campo, anziché tre.
Ma il risultato che fu più apprezzato dai contadini fu quello della seminatrice manuale a ruota.

Figura 10: Due prototipi di seminatrice meccanica a ruota, l'output migliore


del progetto “Improved small scale agricultural equipments”

Questo strumento, apparentemente utile solo per risparmiare la fatica di chinarsi ed assittare il seme
a mano, si è dimostrato in grado di aumentare notevolmente la resa dei campi coltivati.
La seminatrice regola in modo preciso la distanza tra i semi, e li depone tutti alla stessa profondità.
Questo semplice accorgimento, risultò dalle misurazioni, è sufficiente per incidere in modo
significativo sulla produttività delle coltivazioni, soprattutto quelle di granoturco.
Inculturazione

Detta così, sembra quasi una parolaccia.


Ed in effetti lo sarebbe qualora il complemento oggetto dell'azione fosse una persona o un popolo,
ma l'idea di “inculturare” qualcuno non è ciò di cui stiamo per parlare.
Il complemento oggetto, ossia ciò che viene ad essere inculturato, è una tecnologia, o meglio un
metodo, il principio che sta alla base di una tecnologia. “Inculturare” significa sostanziare
conformemente alla cultura locale un concetto astratto più o meno universale, trasformandolo in un
concreto oggetto tecnologico. Faccio un esempio per rendere più chiara la questione.
La pompa è un oggetto tecnologico con delle caratteristiche intrinseche specifiche, pur avendo poi
diverse declinazioni possibili. A livello ideale, essa è semplicemente un sistema che consuma
energia ed in cambio porta in superficie dell'acqua da una falda in profondità.
Questo principio teorico può essere incarnato da un generatore che attiva un rotore elettrico sigillato
collegato ad un tubo verticale, o da dei pannelli solari che attivano una pompa sommersa a corrente
continua, o da dei pedali che fanno girare una corda all'interno di due tubi paralleli, come nel caso
della “pompa a corda” di Ceragioli (vedi figura 12).
Nella zona di Moyale, al confine tra Kenya ed Etiopia, le popolazioni Borana hanno elaborato una
loro declinazione molto particolare del concetto di “pompa”. La profondità della falda varia dai 20
ai 50 metri nel loro territorio.

Figura 11: Un “pozzo cantante” degli Oromo Borana, nella zona di Moyale

Essi scavano un pozzo a mano del diametro di qualche metro, e costruiscono delle vasche subito a
fianco. Alcune decine di persone vi entrano dentro disponendosi ad una distanza verticale di 2-3
metri l'uno dall'altro, dopodiché iniziano a fare catena e passarsi secchi da 20-30 litri, su su fino in
superficie, per poi svuotarli nelle vasche in superficie e ributtarle in fondo.
Vengono chiamati i “pozzi cantanti”, ma a cantare sono i lavoratori che ci stanno dentro.
Essi intonano un coro che gli serve a dare il tempo e quindi ad ottimizzare la catena, e le frasi che
ripetono aiutano il gruppo a tenere alto il morale. Avvicinandosi a questi pozzi si vede solo un buco
nel terreno da cui escono un eco ritmico rimbombante e secchiate da 20 litri a ritmo di musica.
Le parole non bastano a descrivere l'emozione che si prova davanti ad una manifestazione del
genere, ma vi sono aspetti ben più concreti da prendere in analisi.
La portata di questi pozzi è di 150-200 litri al minuto, consumano biomassa, non costano,
necessitano di poca e semplice manutenzione, sono totalmente gestibili dalla comunità locale:
hanno un'efficienza ed una insita resilienza che li rendono unici al mondo.
Per questo motivo quelli di LVIA, che inizialmente volevano fare una serie di pozzi convenzionali
al servizio del popolo Borana, quando studiarono meglio lo stato di fatto decisero che esso non
poteva essere migliorato in nessun modo ed abbandonarono l'idea.
Preferirono invece documentare questa rara tecnica di estrazione dell'acqua, cercare di valorizzarla,
eventualmente di “esportarla” in altri contesti dove potrebbe attecchire e cercare di interagirvi, per
esempio usando sistemi analoghi per produrre energia o per macinare il grano.

Figura 12: La pompa a corda. Come i pozzi cantanti, è alimentata da forza umana (quindi è corretto dire che va a biomassa).
La differenza principale sta nell'individualità dell'azione, che la rende un po' meno “africana”.

Vorrei ora fare un'altra riflessione sul tema dell'inculturazione tecnologica, di tipo un po' diverso, la
farò attraverso una storia realmente accaduta ad un mio conoscente, Padre Giuseppe Monti.
Si tratta di un anziano missionario italiano che viveva in Etiopia da moltissimi anni, quando un
giorno ebbe un incidente e si ruppe un piede. Diciamo piuttosto che se lo frantumò, dato che fu
schiacciato da un generatore caduto da diversi metri di altezza. Immediatamente lo vollero portare
all'ospedale più vicino ma lui si rifiutò, dicendo che lo stregone aggiustaossa era meglio.
Così si sottopose alle dolorosissime manipolazioni dello stregone, per poi prendere il primo aereo
per l'Italia e farsi ricoverare in un ospedale specializzato.
L'ortopedico che lo prese in cura gli disse che lo stregone, con le sue manipolazioni, aveva liberato
con grande perizia tutte le vene e le arterie principali dalle schegge di ossa, riattivando la
circolazione sanguigna: se non lo avesse fatto, il solo tempo del trasferimento aereo in Italia gli
sarebbe costato la cancrena, quindi l'amputazione della gamba.
Se Padre Monti avesse deciso di lasciarsi trasportare all'ospedale, si sarebbe trovato davanti un
giovane medico generico del pronto soccorso locale, che probabilmente non ha mai neppure letto di
casi del genere. Andando invece dallo stregone, ha trovato una persona che fa quel mestiere non
solo da tutta la vita, ma da molte generazioni (la carica è ereditaria). Fin da bambino ha visto il
padre manipolare ossa rotte, poi da quando le sue mani sono forti abbastanza suo padre gli insegna a
tastare, sentire le fratture, esercitare le pressioni giuste e rimettere le cose a posto. Dapprima si è
esercitato con capre e pecore, poi asini e mucche, ed infine su esseri umani.
Allora, la domanda è la seguente: le ONG che aprono ospedali, cliniche e centri di cura, dovrebbero
avvalersi di giovani ortopedici o di stregoni?
Ovviamente è una provocazione, nel senso che si violerebbero molte leggi a propendere per la
seconda opzione. Tuttavia, se noi andiamo dallo stregone, perché provvediamo ospedali con
ortopedici laureati? Ecco un'altra faccia dell'inculturazione: bisogna prevedere nuove strategie che
non mettano i due mondi in contrasto ma li renda interfecondi. Lo stregone potrebbe dare lezioni ai
giovani medici, gli ospedali nel frattempo potrebbero (come già spesso fanno informalmente)
mandare i casi più gravi da lui, si potrebbero fare interessantissime ricerche sulle manipolazioni
tradizionali in vari luoghi dell'Africa, e cercare di salvaguardare questo patrimonio culturale che
invece – paradossalmente – al momento gli interventi di cooperazione in campo sanitario stanno
mettendo a rischio di estinzione.
Autocostruzione

Parlando di autocostruzione in contesto africano, il primo ed imprescindibile riferimento è senza


dubbio l'esperienza edilizia ed architettonica di Hassan Fathy10, in Egitto, nella seconda metà del
1900. E' importante tener presente che non stiamo parlando di cooperazione, perché Fathy era un
egiziano che lavorava in Egitto su programmi di edilizia popolare finanziati dal suo stesso paese,
dunque parliamo di un'esperienza squisitamente locale.
Si tratta comunque di una storia interessante sotto molti punti di vista, non ultimo il fatto che, per
molti versi, il programma non funzionò.

Figura 13: Disegni autografi di Hassan Fathy

Il governo gli affidò un intero quartiere residenziale da costruire per alcune migliaia di abitanti,
persone che dovevano essere ricollocate da qualche parte.
Egli riuscì a lavorare in grande economia producendo spazi di straordinaria qualità architettonica,
grazie all'impiego esclusivo di mattoni fatti di terra del posto.
I suoi accorgimenti tecnologici raffinatissimi permettevano alle case di terra di resistere anche ai
climi bizzarri di quei luoghi, comprese le inondazioni. Il clima interno era regolato da sistemi
passivi all'avanguardia, il tutto con un linguaggio compositivo fortemente locale e vernacolare.
Pensare che quelli, poco più a nord, erano gli anni del movimento moderno, fa una certa
impressione.
Fathy volle coinvolgere i futuri abitanti nella progettazione e nella realizzazione del complesso, e
questo gli prese molti anni di lavoro. Purtroppo le persone che dovevano andare ad abitare a New

10 Davvero non riesco a pensare ad un libro che abbia influito sulla mia formazione più del capolavoro di H. Fathy,
“Costruire con la gente”, Milano, 1985.
Gourna non ne avevano nessuna intenzione. Dopo alcuni anni di lavoro le case furono poco a poco
abbandonate, prima ancora che l'insediamento fosse completato. Si trattava di una brutta zona di
periferia, lontano dai servizi della città, dunque rimase disabitata per decenni.
L'intervento fallì e Fathy ne parlò con grande amarezza nel suo saggio. Oggi New Gourna è un
quartiere molto in voga, le case originali di Fathy hanno prezzi elevatissimi... magra ricompensa.

Esponiamo ora, in generale, in concetto di autocostruzione, quel processo che Fathy cercò di
innescare senza successo. E' un concetto antico, un processo che fino all'epoca premoderna
costituiva il modo usuale di costruire le case in tutto il mondo.
In molti contesti africani ancora ognuno provvede a costruire la propria casa, ricorrendo a
professionisti solo per specifici compiti particolarmente delicati, come la stesura del manto di paglia
sul tetto o le legature dei giunchi.
Nei luoghi dove l'identità culturale è forte, perlopiù non c'è bisogno che nessun architetto vada ad
insegnare come si fanno le case, perché generalmente la tradizione ha già scoperto le forme più
funzionali e sostenibili per quella zona.
In altri contesti invece questo dono potrebbe non essere presente: senza arrivare al caso estremo dei
campi profughi, è sufficiente guardare ai luoghi dove alcune tribù sono state recentemente forzate a
passare dalla vita nomade a quella stanziale, o anche semplicemente a quelle rilocalizzate dalle
autorità pubbliche. Questi due casi sono frequentissimi in tutta l'Africa.
Si parla allora di autocostruzione “assistita” quando essa non è più il frutto di una tradizione locale
endogena, ma viene pilotata da un progettista – direttore dei lavori.
L'autocostruzione assistita può essere impiegata con profitto nei progetti di cooperazione: si presta
molto bene perché consente anche ai più poveri tra i beneficiari di contribuire al progetto offrendo
ore di lavoro. Questo consente di impostare un discorso di reale collaborazione anziché semplice
assistenzialismo. Inoltre un edificio autocostruito presenta in genere alcuni vantaggi, il più
importante dei quali è che l'utenza, avendo partecipato attivamente a tutte le fasi della costruzione, è
anche in grado di mantenere e riparare il manufatto.

L'autocostruzione è un processo molto interessante, in grado di abbattere i prezzi degli edifici, utile
ai fini dell'inculturazione e dunque certamente da tenere nel repertorio degli strumenti del
cooperante.
Tuttavia c'è una controindicazione che non bisogna sottovalutare (io credo di averlo fatto in più di
un'occasione): la dispersione delle competenze.
Puntare su un processo con il quale ciascuno costruisce la sua propria casa significa perlopiù che ciò
che gli utenti-operai apprendono in un cantiere non verrà mai più utilizzato.
Se si vuole introdurre qualche novità nelle prassi costruttive locali, ha molto più senso coinvolgere
chi già lavora in quel settore o formare ex-novo delle cooperative e delle imprese locali che, una
volta apprese le tecniche, potranno poi integrarle nella loro prassi professionale.

Ecco quindi che l'autocostruzione rappresenta un'arma a doppio taglio, che da una parte porta
innegabili benefici ma dall'altra crea un episodio isolato, che difficilmente contaminerà il contesto
in cui viene applicata. Può servire per una dimostrazione, per una sperimentazione o per la
realizzazione di edifici low-cost, ma attraverso di essa raramente si riesce ad interagire con il sapere
locale, a meno di non avere la fortuna di operare in quei luoghi dove essa è ancora il metodo
principale attraverso cui si produce edilizia.

Personalmente ho impiegato molte volte sistemi di autocostruzione assistita.


Mi è capitato di farlo sia a proposito che a sproposito, con buoni risultati o pessimi, come Fathy.
Vorrei qui raccontare un episodio piuttosto particolare in cui ho preso questa via con convinzione,
ma nonostante gli sforzi e le attenzioni, tutto si è chiuso con un completo fallimento.
Figura 14: Il metodo tradizionale di cottura è a fiamma libera, con enorme dispersione di calore e disomogeneità
della temperatura che porta alla rottura dei pezzi, come quello che si vede in basso a sinistra

Si trattava di lavorare con la comunità di vasai di Ropi.


Bisogna sapere che i vasai, insieme ai conciatori di pelli, rappresentano il gradino più basso della
società rurali in moltissime aree del mondo, tra cui il villaggio in questione.
La gente si rifiuta di mangiare un pasto insieme a loro o di mandare i figli in scuole dove ci siano
anche i bambini dei vasai.
Essi parlano una lingua diversa dal resto del villaggio ed abitano in una zona a cui nessuno si
avvicina. Solo al mercato settimanale le persone li cercano, per acquistare i loro manufatti.
E' una delle comunità più emarginate e discriminate che vi siano.

Figura 15: L'incredibile “danza” dei vasai che, in mancanza di un tornio per far girare l'oggetto,
vi girano attorno essi stessi, per dare la forma alle terre cotte
La gente del posto, interrogata sulle ragioni di questa ghettizzazione, risponde in modi diversi:
alcuni dicono che sono sporchi, le loro mani hanno “la lebbra” e sono pieni di malattie infettive;
altri dicono che, mentre i contadini si avvicinano a Dio perché creano la vita dalla terra (le piante), i
vasai la bruciano e ne fanno cosa morta, inerte, dunque si avvicinano più a Satana; capita infine che
qualcuno gli attribuisca una natura più animale che umana, poiché stanno sempre ricurvi a terra.

Sia come sia, avevamo avuto un'ottima accoglienza dal clan dei vasai, quindi provai a proporre loro
un progetto: avremmo fatto un forno per cuocere la legna ed un tornio per modellare il vasellame.
Il forno serviva per diminuire l'incredibile spreco di legna che si ha con la cottura a fiamma libera,
da loro usata: era una questione di protezione delle risorse naturali e questa fu la ragione per cui mi
fu facile far accettare il progetto al finanziatore. Un forno poi, oltre a ridurre la dispersione di
calore, genera una temperatura più uniforme, per cui i pezzi che si rompono durante la cottura a
causa dei differenziali termici diminuiscono di molto. Entrambi questi pregi contribuiscono a
diminuire la quantità di legna impiegata per numero di pezzi commerciabili.
La questione del tornio invece è più sottile: per quanto con esso si possa risparmiare un po' di tempo
e modellare manufatti leggermente più precisi, non sembra esservi un evidente beneficio sulla
produzione.

Figura 16: Il tornio a volano progettato e costruito con la comunità dei vasai di Ropi

Infatti la mia idea non era tanto quella di migliorare la produzione, ma la dignità dei produttori: con
il tornio non avrebbero più lavorato piegati sulla terra, ma seduti e manovrando una “macchina”.
Questo, insieme ad un miglioramento dello standard di qualità (manufatti più precisi perché fatti al
tornio e di colore uniforme perché cotti in forno), unitamente a qualche campagna di
sensibilizzazione avrebbe forse potuto riscattare socialmente le comunità di vasai.
Forse la gente avrebbe iniziando a rispettarli quanto per esempio i sarti, che impiegano la macchina
da cucire, o chi fa qualunque altro mestiere seduto ad un banco da lavoro.
Questa era l'idea.
Quindi progettammo un tornio “appropriato”: nel villaggio non c'è elettricità quindi avrebbe dovuto
essere meccanico, e avremmo usato solo materiale reperibile facilmente in tutta l'Etiopia.
Pensammo all'autocostruzione per la semplice ragione che nessuno avrebbe mai costruito e
commercializzato prodotti destinati ai vasai.
D'altra parte erano cose molto semplici da fare, così realizzammo forno e tornio insieme a loro,
passo dopo passo, discutendo ogni dettaglio.
Il forno è fatto di mattoni di terra, un'unica camera di combustione e cottura rivestita in cocci di
vaso con un camino centrale ed una copertura leggera in terra e letame.
Il tornio invece è un volàno in cemento posato su un cuscinetto reggispinta (pezzo di ricambio della
moto) che fa girare sul suo asse un tubo dell'acqua e dunque un piatto di compensato: il volano si
aziona con il piede, accelerandolo per una trentina di secondi, dopodiché si ha all'incirca lo stesso
tempo prima che esso perda la spinta e necessiti di una nuova accelerata.
I vasai apprezzarono il tornio ed iniziarono ad usarlo per molti dei loro manufatti, ma soprattutto
apprezzarono il forno, che aveva un ritorno economico significativo.
Quindi in realtà ho detto una bugia quando ho parlato di fallimento completo, la cosa ha funzionato
abbastanza bene in sé.
Quello che non ha funzionato è stata la fase successiva, quella di manutenzione e replicazione.
Pensavo che sarebbe stato facile e quasi spontaneo per i vasai prendere a cuore gli strumenti,
mantenerli, ripararli ed andare in altri villaggi per estendere le loro nuove tecniche ad altre comunità
che fanno lo stesso mestiere, ma mi sbagliavo di grosso: quelle persone hanno assorbito talmente
tanto odio immotivato per talmente tante generazioni, da aver iniziato a disprezzarsi anche da soli, e
pensare di non meritare nulla.
Non credo che il nostro tornio verrà riparato quando il cuscinetto sarà usurato, si tornerà
semplicemente “alla vecchia maniera”, e questo è il fallimento.

Figura 17: Alcuni manufatti dei vasai di Ropi, prima della cottura
Ricerca, sperimentazione ed errore

Raccontando i progetti sperimentali cui mi è capitato di partecipare, spero di non aver dato
l'idea che la cooperazione e le tecnologie al suo servizio siano argomento totalmente pionieristico,
all'interno del quale ciascun operatore deve trovare da sé le soluzioni più adatte partendo da zero.

In realtà esiste una bibliografia più vasta di quanto si possa immaginare a riguardo e dedicarsi ad
una qualunque sperimentazione senza prima studiare per bene quelle fatte dagli altri su temi simili,
prima che essere un gesto arrogante, è assolutamente stupido.
In ogni attività esistono dei problemi insiti, che sono sempre gli stessi. Ogni problema che ci
troviamo ad affrontare è stato già risolto centinaia di volte in molti modi diversi e non ha molto
senso pensare ad una propria via senza essersi documentati sull'efficacia o meno di tutte quelle già
provate.
Nel campo delle tecnologie sociali esistono diversi database che si possono consultare
gratuitamente on-line11, ma è sempre bene anche parlare personalmente con qualcuno che si occupa
di cose simili a quelle su cui si vuole intervenire12: una buona fase di indagine iniziale può far
risparmiare tempo, soldi, fatica e credibilità.
Oltre a questo tipo di informazioni generali, è anche saggio rivolgersi agli enti locali preposti allo
sviluppo nella zona dove si vuole intervenire: ad essi bisogna chiedere notizie di precedenti progetti
nella zona e lasciare copiosa documentazione di quello che si fa al termine dei lavori, in modo tale
che il patrimonio di esperienza non vada perduto.
Gli enti locali di cui sto parlando sono gli uffici di governo (di zona e centrale), le università, i
centri di ricerca e le organizzazioni della società civile.

Vorrei fare una riflessione su un aspetto particolare dell'attività sperimentale, non solo in ambito
tecnologico.
La cooperazione allo sviluppo è una disciplina giovane, ha una cinquantina d'anni appena.
I punti fermi sono pochi, sia negli obiettivi che nella metodologia, ogni ente ha un suo modo di
intendere lo sviluppo e di perseguirlo attraverso i suoi progetti.
Manca totalmente un qualsiasi tipo di connessione tra enti diversi che operano nella stessa area,
capita spesso che programmi simili si sovrappongano su certe zone lasciandone altre totalmente
scoperte, altri programmi entrano addirittura in conflitto tra di loro.
Esiste un'ampia bibliografia13 che dimostra puntualmente i fallimenti di decenni di cooperazione,
mentre le testimonianze di progetti che realmente hanno innescato processi di sviluppo endogeno
sono estremamente rare (e non sempre vere).

Facendo un discorso forse un po' semplicistico ma credo sostanzialmente giusto, imputo tutto
questo sfacelo ad un unico “peccato originale” del sistema: il ruolo della diffusione degli errori,
indispensabile in ogni disciplina, in cooperazione non è riconosciuto essere importante.
Perlomeno, non quanto la comunicazione dei successi (veri, gonfiati o completamente inventati che
siano, tanto chi va veramente a controllare?).
Gli errori non vengono segnalati, spesso neppure all'interno della ONG che li ha commessi e
comunque mai ai finanziatori (e dunque al resto del mondo).
Il segreto di Pulcinella è che tutti fanno errori in tutti i progetti che implementano, più o meno
grossi.

11 Il più completo e facile da fruire penso che sia www.appropedia.org, ma anche www.engineeringforchange.com è
stato ampliato parecchio negli ultimi anni.
12 Esiste un registro nazionale delle ONG che dice di cosa si occupa ciascuna. In genere, nel campo delle tecnologie
appropriate, interrogare Ingeneria Senza Frontiere o LVIA può essere una buona idea.
13 “I disastri dell'uomo bianco”, di W. Easterly (Torino, 2007) è un ottimo libro a riguardo, contenente una bibliografia
piuttosto articolata e ragionata sull'argomento.
Nessuno “paga” per questi errori, come se il solo fatto di averli commessi in buona fede
comportasse in automatico l'autoassoluzione e – cosa ancora più grave – nessuno impara da essi, dal
momento che vengono puntualmente nascosti, mascherati ed imputati a fattori imponderabili.
Potrei essere smentito, ma mi risulta che nessuna ONG, da quelle minuscole ai grandi colossi, tenga
un database degli errori fatti.
Gli indicatori vengono messi nei progetti per bellezza, per rendere il tutto credibile, ma nessuno
chiede conto del loro raggiungimento14, men che meno delle ragioni dello scollamento tra
programmato e realizzato.
Finché gli enti di cooperazione non si doteranno di un sistema serio di raccolta ed analisi degli
errori, non potranno mai migliorare il loro operato, sarà un eterno nuovo inizio. L'ideale sarebbe che
ciascuno pubblicizzasse i propri errori, fornendo i dettagli sulle cause e sulle conseguenze, in modo
tale che possano diventare patrimonio comune.
Durante i miei giri per l'Africa ho visto ONG fare e rifare fino allo sfinimento lo stesso errore,
sempre come se fosse la prima volta. Molti di questi errori li ho fatti anche io credendo che fossero
in qualche modo originali, per poi scoprire negli anni che si trattava di errori “standard”.

Tanto per dirne qualcuno: le fondazioni degli edifici in terra non devono essere impermeabilizzate;
le cupole di terra è meglio che non abbiano controcurvatura nella parte bassa; gli impianti di biogas
devono avere un digestore di almeno 10mc altrimenti non sono convenienti, il microcredito va fatto
solo alle donne perché gli uomini non restituiscono mai il prestito; l'orticultura funziona solo se si
impiegano ortaggi già conosciuti ed apprezzati dalla popolazione.

Ecco, questo è un mio piccolo contributo personale, che volentieri pubblicherei fornendo tutti i
dettagli se vi fosse una sede per farlo, anziché l'omertà assoluta.

Una volta chiesi in sede formale al delegato di un famoso finanziatore istituzionale lombardo perché
non mettesse, tra le clausole del contratto che firmava con le ONG cui erogava i fondi, l'impegno a
riservarne una piccola percentuale per fare un'analisi degli errori a chiusura progetto,
obbligatoriamente.
Mi fu risposto che non avrebbe “giovato a nessuno”.
Sono anni che ci penso, e non ho ancora capito a cosa si potesse riferire quella risposta: a chi non
avrebbe giovato?
Le ONG dopo un po' imparerebbero che l'errore non è una vergogna da nascondere ma
un'esperienza preziosa se condivisa, i donatori saprebbero di finanziare progetti più trasparenti ed i
beneficiari ne gioverebbero più di tutti, perché i progetti sono a loro vantaggio, e diventerebbero
molto più efficaci se chi li fa iniziasse ad imparare dagli errori propri ed altrui. A chi conviene
nascondere la polvere sotto il tappeto?

L'Unione Europea, con alcuni recenti bandi, sembra andare un poco in questa direzione.
Ci auguriamo non rimangano esperienze isolate.

14 Il discorso degli indicatori è complesso ed articolato. Esistono indicatori “fisici”, quelli che perlopiù si riferiscono
alle attività ed in misura minore ai risultati attesi, essi sono facili da valutare ed infatti spesso vengono controllati a
fine progetto, ma hanno il difetto di non voler dire nulla, se non che i soldi sono stati in effetti spesi. Si tratta dei
metri quadri costruiti, del numero di kit distribuiti, della durata dei training, cose di questo genere.
Poi invece ci sono gli indicatori “ottenibili”, ossia quelli che misurano il beneficio dei beneficiari, indicando quanto
è migliorata la situazione dei singoli e dei gruppi.
Gli indicatori di questo tipo sono più difficili da tradurre in numero, quasi impossibili da ottenere oggettivamente e
comunque mai verificati da nessun finanziatore o ente di controllo.
Faccio un esempio: facendo una scuola, ci si può porre l'obiettivo fisico di fare 200mq in 4 classi per 120 studenti
con 8 professori: tutti questi numeri sono indicatori “fisici”. Se però voglio affrontare il discorso in termini di
obiettivi, dovrò parlare di quelli “ottenibili”, dicendo cose del tipo: questa scuola ridurrà l'analfabetismo del 20%,
permetterà a 50 studenti l'anno di accedere all'educazione superiore e a lungo termine garantirà uno stipendio del
30% più alto a chi la frequenta. Ma come si possono controllare questi numeri? E chi se ne occuperà?
Sfide

Per finire, 7 pericoli da cui guardarsi, problemi strutturali non di questa o quell'altra
associazione, ma dell'intero sistema della cooperazione internazionale. Da leggere non come
lamentazioni senza via di uscita, ma appunto come sfide costruttive a cercare nuovi e più efficaci
metodi di intervento.

1. Cooperazione a progetto
Nessuno, che mi risulti, nel mondo della cooperazione lavora con piani più che triennali. Quasi tutti
ragionano sulla durata dei singoli progetti perché quella è l’unità finanziaria nel sistema metrico
della cooperazione. Questo vuol dire dai 6 ai 36 mesi. Tutti quelli che hanno un minimo di
esperienza in progetti reali, sanno che questo è un tempo assurdamente breve, per fare qualunque
cosa. Se il progetto è un pozzo, un impianto eolico o qualcosa del genere, 4-5 anni di follow up
sono necessari per qualunque installazione. Se si tratta di un progetto sociale, bambini di strada o
cooperative di donne, il tempo minimo aumenta ancora. Non esiste una vera garanzia che i progetti
proseguiranno al termine di ogni finanziamento, dunque non è possibile alcuna reale pianificazione
seria, per nessun tipo di intervento

2. Finanziamenti
Se una ONG vuole sopravvivere (pagare affitto della sede, stipendi del personale amministrativo
più le strutture nei paesi in cui opera) deve per forza entrare nel meccanismo dei finanziamenti
ufficiali. Essi non coprono mai il 100% ma solo una quota, dunque spetta agli equilibristi delle
ONG trovare magicamente bandi che si sovrappongano e siano cofinanziabili a vicenda, valorizzare
delle spese inesistenti oppure adoperarsi per raccogliere la parte mancante con fondi privati, come
donazioni o sostegni a distanza. Questi complicati equilibri diventano per forza di cose
predominanti rispetto alle vere necessità dei luoghi in cui si interviene, ed i progetti si spostano
verso aree geografiche e temi dove si intravvedono più finanziamenti. Non sono migliori i donatori
privati, come le associazioni benefiche borghesi o massoniche, che chiedono un ritorno di
immagine quasi sempre incompatibile con il modo giusto di intervenire e le spese che davvero
bisognerebbe sostenere, ed hanno interesse solo per qualcosa su cui possono avere l’esclusiva.

3. Il pizzo dei cooperanti


Nessuno, seriamente, pensa che il cooperante sia un mestiere come un altro. Ci sono quelli di alto
livello, Unicef, FAO, Banca Mondiale e via dicendo, che sono milionari e tutti sanno che queste
macrostrutture consumano 9 e producono, quando va bene, 1. I cooperanti delle ONG invece sono
dei buoni samaritani, il cui stipendio non ha nulla a che vedere, come per qualunque altro lavoro,
con fattori tipo le ore di lavoro, i risultati ottenuti o le reali competenze. Si calcolano in percentuale
al progetto. Il 7% va all’ONG, e con la somma del 7% di tutti i vari progetti questa deve
sopravvivere e pagare gli stipendi fissi. E poi un 8-10% può andare per un coordinatore progetto
espatriato.
Questo folle meccanismo, il calcolo del pizzo del cooperante in base a quanto spende, rende
impossibile per lui e sconveniente per l’ONG scrivere progetti piccoli e misurati, mentre spiana le
strade a progetti semplici, con poche ed enormi voci di spesa. Proprio quelli che non funzionano
mai.

4. Il budget tutto in negativo


E’ una regola non negoziabile: su qualunque budget di una ONG, le voci del budget devono avere
tutte il segno meno: solo spese. Al contrario, se una ONG avesse delle entrate, si andrebbe contro la
legge italiana, quella internazionale e quella del paese in cui si lavora. E’ chiaramente esclusa, con
questa regola, ogni possibilità di rendere davvero sostenibile un progetto o una catena di progetti.
Se fai una scuola, i bambini devono andarci gratis. Se fai una clinica, non puoi chiedere nessun
pagamento. Se realizzi un pozzo, non puoi vendere l’acqua, neppure per coprire le spese del
consumo del generatore. Quindi fino a che le ONG riescono a pompare soldi per stipendi e spese
vive nelle strutture che hanno creato, queste sopravviveranno. Per morire nell’esatto istante in cui il
sostegno viene meno.
Certo che a parole ogni progetto vuole essere sostenibile, grazie ad improbabili partnership
innovative profit – no profit o altri escamotage per prestare il nome, e rendersi di fatto ricattabili.

5. L’ONG vista da Sud


Ovvia conseguenza del punto precedente, L’ONG è vista, nei paesi dove opera, come una macchina
che spende soldi. L’impresa privata è il contrario, una macchina che deve generare reddito, mentre
la cooperazione è un’impresa capovolta, che spende senza poter guadagnare. Come ci si può
stupire, se la cooperazione richiama a sé il peggio del paese dove opera? E’ chiaro che tutte le
persone di talento si dedicheranno al “business”, mentre le sanguisughe si avvicineranno alla
cooperazione.

6. L’egemonia del progetto


Nei contesti geo-culturali dove la cooperazione si trova ad operare, non c’è nulla di più frequente di
un cambio di condizioni al contorno. Eventi positivi come l’arrivo della corrente elettrica,
dell’acqua potabile, o negativi come migrazioni o guerre, possono cambiare le condizioni dove si
interviene talmente tanto da rendere idiota un progetto che fino a qualche mese prima sarebbe stato
appropriato. La cooperazione non ha quasi mai meccanismi flessibili che concedano una certa
agilità nell’emendare le attività previste al momento della scrittura, e comunque ogni modifica in
corso d’opera è vista come un’incapacità del progettista piuttosto che come una fase necessaria.

7. Risorse solo per l'implementazione


I progetti si compongono di tre fasi.
Nella prima si disegna l'albero dei problemi, si fissano gli obiettivi ed i settori, si scrive il piano di
fattibilità e si concepisce l'azione, selezionando partners, finanziatori, stakeholders e beneficiari: è
la fase preliminare.
La seconda è quella dell'implementazione, quando cioè il progetto viene messo in pratica.
La terza fase è la chiusura, quando cioè si fanno gli handover finali, si verifica il raggiungimento di
obiettivi e risultati attesi, si cerca di capire cosa si è sbagliato e si compila la reportistica. Un
minimo di follow-up dovrebbe sempre essere compreso in questa ultima fase.
Il vero problema è che, se per la parte centrale qualche soldo ancora si trova, per il prima e per il
dopo, non c'è mai nulla. E questo svuota parecchio il senso della cooperazione.

Credo che queste siano 7 tra le sfide più grandi che ci siano, perlomeno al livello di
cooperazione a cui lavoro io. Posso però dire di conoscere molti progetti che sono riusciti a
risolvere o comunque aggirarle tutte, centrando in pieno gli obiettivi.

Si può fare attraverso certi tipi di micro-cooperazione, con associazioni “a statuto speciale”, con
schemi ibridi di cooperazione e business, lavorando con le associazioni locali ed infine attraverso le
Università, che dovrebbero essere il centro nevralgico dell'innovazione ed invece vengono spesso
tagliate fuori da chi ha più facile accesso ai finanziamenti.

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