Sei sulla pagina 1di 49

TECNOLOGIE SOCIALI

principi teorici ed esperienze pratiche

Corso di Ateneo in Cooperazione Internazionale e Sviluppo


2017 – III edizione
UNIGE – Università degli studi di Genova

“Aspetti tecnologici ed edilizi negli interventi di cooperazione”


A cura di Lorenzo Fontana, Architetto
In copertina si trova un dipinto dell'artista svedese Nikolay Cyon che rappresenta un'ipotetica Africa qualora
l'invasione europea non fosse intervenuta a turbarne gli equilibri interni.
Si tratta chiaramente di un lavoro di fantasia, anche se guidato da ricerche storiche puntuali.

Se da una parte il dipinto comunica una strana malinconia per quello che avrebbe potuto essere ma non è stato,
dall'altro questo scenario ideale in cui schiavismo, colonialismo e land grabbing non sono mai esistiti
può ancora rappresentare un sogno, una visione per quanti sperano,

- irragionevolmente e contro ogni evidenza -

che un giorno l'Africa troverà una via di sviluppo realmente endogena,


basata sulle sue proprie peculiarità ed istanze.
INTRODUZIONE

Nell'ultima dozzina d'anni, ossia dalla laurea in Architettura fino ad oggi, mi sono sempre
occupato di cooperazione allo sviluppo. Ho operato principalmente in Etiopia, dove vivo, ma mi è
capitato di seguire progetti anche in Sud Sudan, Kenya e Senegal.
Ho lavorato per molte ONG italiane ed etiopi, e per qualche Università.
I contesti di progetto che mi sono più familiari sono le piccole comunità rurali stanziali, soprattutto
quelle della Rift Valley; i lavori che ho fatto riguardano principalmente l'ottimizzazione delle risorse
naturali, la conservazione del suolo, il miglioramento delle tecniche agricole e l'avviamento di
attività redditizie per gruppi e cooperative. I temi su cui ho fatto più ricerca sono le costruzioni in
terra cruda, le tecnologie appropriate e l'antropologia dei popoli africani.

Mi sono capitate molte cose interessanti in questi anni, ho fatto tanti errori e qualche cosa
ben riuscita, ho visitato centinaia di progetti attivi, ho speso molto tempo a parlare con le comunità
locali per capire meglio possibile il loro modo di ragionare e di vedere il mondo.
Nonostante tutto ciò, e lo dico fin da subito con estrema chiarezza, non credo di essere riuscito ad
elaborare neppure un principio di massima che possa essere utile a chi sta per affacciarsi al
mondo della cooperazione. Non dispongo quindi di leggi universali da elargire agli aspiranti
cooperanti, ma credo di essermi imbattuto in alcuni concetti (che possiamo anche chiamare
“teorici”) su cui vale la pena richiamare l'attenzione, perché possono ispirare progetti “buoni” e
mettere in guardia da errori potenzialmente in grado di rovinare anche un progetto ben concepito e
strutturato.

Al fine di evitare facili malintesi, ritengo indispensabile chiarire quanto segue: esistono due
discipline, due modi di agire, che prendono entrambi il nome di “cooperazione allo sviluppo”, ma
non hanno in comune praticamente nulla.
Chiameremo la prima “cooperazione piccola”: è il mondo al quale appartengo, fatto di privati
cittadini, ONG, ONLUS, piccoli gruppi informali, enti locali, consorzi, imprese sociali che –
ciascuno con le proprie piccole o grandi forze – cercano di concepire ed implementare programmi
circoscritti, geograficamente e temporalmente, a beneficio di particolari realtà locali in situazione di
sofferenza.

Figura 1: La “piccola cooperazione”


Scelgo di rappresentare il mondo della cooperazione piccola con un'immagine forse un po' abusata:
mani bianche e mani nere che, lavorando, si sporcano insieme. E' una sorta di definizione
didascalica del concetto di cooperazione: lavorare insieme su un progetto dalle finalità comuni.

Esiste poi un secondo tipo di cooperazione, che per antitesi chiameremo “grande cooperazione”
(anche se, forse, “grassa” sarebbe il termine più appropriato): è il mondo della Banca Mondiale,
della FAO, delle UN e di tutte le innumerevoli sue emanazioni, delle ambasciate e di alcune grandi
ONG che non hanno nulla da invidiare alle multinazionali più becere.
Rappresento questo secondo concetto di “cooperazione” con un'immagine di repertorio che
chiarisce, credo piuttosto bene, ciò che ne penso.

Figura 2: La “grossa cooperazione”

Chiarito questo, ossia che tutto ciò che segue è riferito alla cooperazione piccola, possiamo iniziare
il nostro itinerario, tra tecnologia e cooperazione.
Procedo con una serie di parole chiave, dando per ciascuna una breve spiegazione e qualche
esempio applicativo, perché mi sembra la forma più snella e comprensibile per toccare tutti gli
argomenti che mi sembrano utili ed interessanti, a proposito del ruolo della tecnica nella
cooperazione.
INDICE

1. Community based approach


(chiesa di Webedidika; defluorizzatore di Ropi)

2. Sostenibilità
(forno solare “Sherarit”, Shashemane)

3. Ottimizzazione
(estrazione olio di moringa, SNNPR)

4. Tecnologie Appropriate
(miglioramento agricolo, Sinta)

5. Ibridazione
(aratro versoio e seminatrice, Melkassa)

6. Inculturazione
(pompa a corda di Ceragioli)

7. Autocostruzione
(tornio e forno per i vasai, Ropi)

8. Tecnologie intermedie
(arnie kenyote, Isiolo)

9. Income Generating Activities


(lavanderia sociale, Tambacounda)

10. Sviluppo tecnologico


(atelier “stabilized earth & bamboo”, Hawassa)

11. Digital development (ICTs)


(riconciliazione tribale, North Kenya)

12. Errore
1. Community based approach

E' una delle espressioni più utilizzate del settore.


“Community based approach” significa coinvolgimento della popolazione locale nello studio e
nell'implementazione dei progetti di sviluppo, possiamo tradurlo come “approccio partecipativo”.
Sembra che si tratti di una cosa buona, e infatti perlopiù lo è, perché significa rendere le persone
partecipi del loro proprio sviluppo, tuttavia si tratta di un paradigma utile per certe cose e non
desiderabile per altre, non è una chiave universale attraverso cui affrontare tutte le fasi di tutti gl
interventi di cooperazione, indistintamente. I pregi di questo approccio sono piuttosto chiari: senso
di appartenenza da parte dei destinatari (ownership) e possibilità di calibratura.
Sono invece meno evidenti i limiti di questa metodologia, che pure è necessario considerare.
Attraverso due esempi simbolici, cerchiamo di approfondire prima gli uni e poi gli altri.

La chiesa di Webedidika

Iniziamo con un progetto edilizio: la chiesa di Webedidika (Figura 3), un cantiere di autocostruzione
assistita cui ho avuto l'opportunità di partecipare nelle veci di progettista1.
L'edilizia è un campo che si presta molto bene al “community based approach”, perché quasi tutte le
scelte importanti possono essere prese dalla comunità locale: il progettista può limitarsi a dire cosa
si può fare e cosa non è tecnicamente possibile, a far presenti vantaggi e svantaggi di ogni soluzione
e a dare dei pareri, lasciando ogni scelta ai futuri fruitori dell'edificio.
La comunità cattolica del piccolo villaggio di Webedidika, nel sud dell'Etiopia, è molto cresciuta
nell'ultimo decennio, passando da qualche decina di fedeli a quasi trecento. Questo ha fatto si che
non si potesse più celebrare la messa in una capanna come si era fatto fino ad allora, perché quasi
tutti rimanevano fuori: serviva una chiesa vera.

Figura 3: La chiesa di Webedidika, veduta centrale dall'ingresso verso l'altare. Progettata e costruita con l'Arch. Mirco Vagge

La zona (sud-est dell'Etiopia) è piuttosto povera e remota, non servita da strade asfaltate, e questo
rende il prezzo dei materiali da costruzione convenzionali (blocchi di cemento e lamiera)
inaccessibile per la gente del posto. D'altra parte l'impiego massiccio della legna sta provocando
grossi danni alle foreste, che vengono bruciate per dare spazio a vivai di eucalipto, così anche le

1 Il committente era la parrocchia di Soddu Abala, il direttore lavori era l'Arch. Mirco Vagge, che ha anche progettato
l'altare ed altri elementi; cantiere completato nel 2012.
tipologie tradizionali non sembravano essere le più indicate.
Proposi così al parroco di fare un cantiere-scuola di costruzione in terra di termitaio2, data
l'abbondanza di questo ottimo materiale nella zona.
Costruire la chiesa in mattoni di terra di termitaio avrebbe reso il prezzo dell'edificio abbordabile
per la comunità, perché il materiale era gratis e la manodopera sarebbe stata offerta gratuitamente
dai beneficiari del progetto, che avrebbero lavorato a turno in cantiere. Allo stesso tempo avrebbe
offerto una tecnica costruttiva a bassissimo impatto ambientale, replicabile in futuro anche nelle
abitazioni private.
L'unico costo da affrontare rimaneva quello per le lamiere del tetto e per il cordolo sommitale in
cemento armato che avevamo deciso di inserire per prudenza, data l'altezza della scatola muraria.
Insegnai alla comunità locale come formare i mattoni in una cassetta di legno, e loro provvidero alla
produzione su larga scala. Una volta avviata la fabbrica di mattoni, iniziammo a discutere del
progetto. Decisero loro ogni dettaglio: collocazione, planimetria, prospetti, ingressi, bucature, vani
accessori, posizione dell'altare, del coro e dei fedeli, colori, finiture... tutto quanto.
Io mi sono limitato ai dimensionamenti, ad alcuni accorgimenti strutturali (lesene e cordolo
sommitale) e ad affrontare le varie questioni in modo ordinato ed organico.
Se dovessi stimare in quale percentuale la comunità abbia inciso sulla realizzazione di questo
progetto, direi almeno il 90%.

Il defluorizzatore di Ropi

Ora, con il secondo esempio, vedremo un progetto in cui invece questa percentuale è stata molto
vicina allo 0%: la comunità locale non ha partecipato in maniera significativa alle decisioni
importanti, né sul “cosa” né sul “come”.
Si tratta di un impianto per la potabilizzazione dell'acqua che abbiamo installato nel villaggio di
Ropi con McP ONLUS3.
La questione è semplice: chi non ha mai visto acqua trasparente nella propria vita, chi non sa che
l'acqua contaminata porta malattie (magari perché crede che esse siano il frutto di qualche sortilegio
o spirito maligno), NON SA di aver bisogno di acqua pulita, non può saperlo.
L'acqua dei pozzi di Ropi presentava contenuti di sali (soprattutto fluoruri, ma anche arsenico)
talmente alti da renderla dannosa per la salute. Bevendo quell'acqua per molti anni denti ed ossa si
indeboliscono, eventuali fratture non si ricompongono più e si hanno pesanti ricadute sull'intero
sistema scheletrico (osteoporosi).
Tuttavia le persone del posto non avvertono questo problema, perché non hanno modo di fare
confronti con altri luoghi.

Ecco, in un caso del genere ci è parso giusto NON coinvolgere la popolazione in fase decisionale,
per farlo poi in un secondo momento: il fatto che qualcuno non veda un problema non significa che
non possa capirlo, ecco che allora la comunità venne coinvolta attraverso dei corsi specifici e
campagne di sensibilizzazione per spiegare i pregi dell'acqua defluorizzata per la salute. Abbiamo
coinvolto in queste campagne tutte le autorità più ascoltate, da quelle governative a quelle religiose,
per fare in modo che il nostro defluorizzatore fosse compreso e voluto dal villaggio, anche se l'idea
non è nata da un “community based approach”: ogni tanto il cooperante deve anche prendersi
qualche responsabilità.

2 La terra di termitaio è un ottimo materiale da costruzione perchè le termiti, oltre ad operare una selezione
granulometrica (scartano i grani di sabbia ed impiegano di preferenza le argille), aggiungono una sostanza salivare
all'impasto. Questi colloidi organici hanno un triplo effetto: aumentano la resistenza meccanica, donano elasticità al
composto e limitano fortemente le fessurazioni dovute al ritiro in fase di essiccamento.
3 Progetto di Missionari con Paolo ONLUS, 2006. L'impianto fu fornito a prezzo di costo dalla ditta Idrotecnica di
Genova, che provvide anche alla formazione dei tecnici locali.
Entriamo un poco nel dettaglio dal punto di vista tecnico, che è piuttosto interessante4: esistono
diversi modi di trattare l'acqua per rimuovere i dannosi fluoruri in eccesso, essenzialmente tre.
Il primo è il più semplice di tutti, si tratta di filtri a calcio. Si prendono delle ossa dagli scarti di un
macello, si puliscono tramite bollitura, si polverizzano e se ne fanno dei filtri. L'acqua che vi passa
attraverso scatena le sue proprietà insidiose su questo filtro, che permette di fissare il calcio delle
ossa animali in polvere al fluoro dell'acqua, evitando quindi che esso arrivi allo scheletro di chi
successivamente la beve.
Il secondo sistema si basa sulla polvere di allumina, che deve essere addizionata a delle riserve di
acqua e mescolata tramite degli agitatori per 24 ore circa, dopodiché si lascia precipitare la parte
solida e quello che rimane è acqua pura.
Il terzo sistema è il più complesso di tutti (figura 4), si tratta di spingere l'acqua a forte pressione
contro una membrana a maglia finissima in modo da innescare il processo di osmosi inversa5. La
membrana deve essere continuamente tenuta pulita da un getto d'acqua ortogonale al flusso, si tratta
quindi di un impianto complesso dotato di molti automatismi di funzionamento.

Figura 4: Il desalinizzatore a osmosi inversa installato a Ropi nel 2006. Il sistema è composto da un prefiltro,
una membrana ad osmosi inversa desalinizzante ed infine da un rimineralizzatore.

Nonostante un “principio generale” sensato dica che è meglio usare soluzioni semplici piuttosto
che complesse, decidemmo di seguire la terza via, quella più complicata.
Questo perché il filtro ad ossa sarebbe stato inaccettabile per la cultura locale (altrove, quando i
beneficiari si sono accorti della natura di quella polvere bianca, la gente ha dato fuoco ai filtri e
all'ufficio di chi glieli aveva portati). D'altra parte il sistema ad allumina, già molto diffuso nel
paese, ha l'inconveniente che la quantità di polvere da aggiungere deve essere calibrata esattamente
sul tenore di fluoruri nell'acqua: aggiungerne troppo poca non la purifica completamente, il
sovraddosaggio ha effetti ancora più negativi perché l'allumina che rimane libera in soluzione ha

4 Ci fu una tesi di laurea della Facoltà di Ingegneria Chimica di Genova, relatrice la Prof. Elisabetta Arata. In
quell'occasione, furono studiate in maniera puntuale tutte le soluzioni possibili e comparate tra di loro, prima di
decidere. Spesso, davanti ad una caso concreto, trovare un aiuto tecnico qualificato è molto facile.
In un altro caso, per necessità di un sostegno in campo agronomico, ci rivolgemmo a “Seniores”, un'emanazione
dell'ONU che raccoglie professionisti in pensione disponibili a dare consulenze su progetti di cooperazione: i
professionisti lavorano gratuitamente, l'associazione paga tutte le spese di missione. Ci fu mandato un agronomo
appena andato in pensione, con competenze specifiche sui metodi di coltivazione previsti dal progetto, che fece un
ottimo lavoro.
5 L'osmosi è una differenza di pressione che si ottiene tra due contenitori di liquido grazie ad una diversa
concentrazione di sali; l'osmosi inversa, al contrario, è una differenza di salinità causata da un differenziale di
pressione. I sali si concentrano tutti da una parte della membrana, mentre dall'altra rimane acqua demineralizzata.
conseguenze sulla salute peggiori del fluoro stesso.
Nell'acqua di falda il tenore di sali varia in modo significativo su base annua, risultando più alto
dopo la stagione secca e più basso dopo le piogge, cosicché risulta molto oneroso e a rischio di
errori gravi il continuo processo di analisi di laboratorio su campioni e dosaggio dell'allumina.

Per conto suo, il sistema ad osmosi inversa ha una complessità interna piuttosto alta (vedi figura 4)
ma una semplicità di impiego straordinaria: si preme un pulsante per far partire l'impianto, e non c'è
bisogno di altro intervento se non cambiare la membrana ogni 3-4 anni e sostituire la cartuccia del
risalinizzatore ogni 10-20 anni. L'unica parte che può rompersi è la pompa, ma in Etiopia esiste la
manodopera necessariamente qualificata per ripararla, anche se non per produrla.
Decidemmo quindi di importare un impianto ad osmosi inversa in Etiopia: il primo in assoluto nella
storia del paese. Alla dogana la cosa non fu semplice perché i funzionari volevano capire di cosa si
trattasse, avevano paura che potesse essere pericoloso.

Qualcuno ci disse che avevamo fatto “una cattedrale nel deserto”, che non avrebbe funzionato.
Oggi, a dieci anni da quell'intervento, l'Etiopia importa da ditte europee ed indiane centinaia di
impianti di purificazione ad osmosi inversa ogni anno.
2. Sostenibilità

E' un attributo quasi necessario ma non sufficiente per l'adeguatezza ai contesti di


cooperazione.
Iniziamo col dire che ci possono essere diversi gradi di “sostenibilità” di un intervento.
Un dentista che vada a far volontariato in qualche villaggio africano, estraendo denti gratis a chi ne
ha bisogno, fa certamente un'opera meritoria ma altrettanto certamente insostenibile: può cavare
mille denti, ma il milleunesimo non si caverà da solo. Insegnando l'arte di cavare i denti ad un
individuo del posto, raggiunge un certo grado di sostenibilità nel senso che questo continuerà a
cavare denti anche in sua assenza... fintanto che ne avrà le forze.
Se poi il dentista riesce a trovare qualche sponsor e dunque a fondare una scuola di odontoiatria, il
grado di sostenibilità sale di molto perché si formeranno nuovi dentisti, che continueranno ad
estrarre denti anche quando il primo sarà diventato troppo vecchio per farlo.
Nel momento in cui questa scuola fosse avviata e poi passata al governo locale o ad un privato che
riesce a gestirla, il grado di sostenibilità sarebbe ancora più alto perché si sarebbe creata una
“fabbrica di dentisti” duratura nel tempo.
A questo discorso non c'è limite, nel senso che se si riuscisse a fare pressioni sulle istituzioni
governative affinché esse stabiliscano scuole di odontoiatria in ogni regione del paese e si
impegnino a mantenerle attive sarebbe ancora meglio, e questo dimostra che i discorsi sulla
sostenibilità sono alquanto aleatori: ciascuno ha un suo modo di intendere la “sostenibilità” di
un progetto.

Come nell'esempio appena fatto, si potrebbe riflettere sulla sostenibilità della produzione energetica
nei contesti rurali africani, lontano dalle reti elettriche.
Il generatore a benzina è il livello zero di sostenibilità, equivalente al dentista volontario solitario.
L' impianto fotovoltaico può certamente essere considerato ad un livello superiore perché, una volta
acquistato, produce energia senza bisogno di carburante. Tuttavia rimane il problema che tutte le
componenti sono importate: pannelli, batterie, stabilizzatore, inverter e perfino i cavi, a prezzi
difficilmente accessibili per la popolazione locale.
Per salire ancora nel livello di sostenibilità abbiamo una strada difficile da percorrere che è quella
dell'autarchia: avviare in Africa una produzione di pannelli, batterie al gel e strumentazione
elettronica. Servirebbero investimenti enormi. E poi c'è un'altra strada più facile, ossia cambiare
approccio tecnologico in favore di sistemi più facilmente producibili (e ri-producibili) in loco, pur
se meno convenienti per gli standard con cui ragioniamo solitamente. I collettori solari parabolici
(vedi figura 5) possono essere fatti di comune specchio piano opportunamente tagliato e montato, e
gli specchi sono prodotti in qualunque stato africano, così come le strutture di metallo necessarie.
Se i collettori scaldano dell'olio o altro fluido (sali fusi) che poi viene stoccato in contenitori ben
coibentati, questo calore accumulato può azionare un motore (a vapore o di Stirling6) e dunque
produrre energia quando richiesto, senza bisogno di batterie.

6 Il motore di Stirling è in sostanza un ciclo di Carnot perfetto, ha dunque una resa teorica molto alta. Se paragonato al
motore a vapore, ha anche il pregio di non lavorare in pressione (combustione esterna). Significa che non rischia di
esplodere, vantaggio non trascurabile.
Figura 5: Diversi modelli di concentratore solare alimentano un motore di Stirling, prodotti dalla ditta Dawtec

Impianti di questo tipo, quando hanno taglia media o piccola, hanno una resa nettamente inferiore al
fotovoltaico. Ma ammettiamo pure che la resa sia di un quarto: a chi dovrebbe importare?
I [W/mq] sono importanti solo per chi ha carenza di metri quadri, e in Africa non capita spesso.
Per contro il prezzo dell'energia in [€/Wh] è circa uguale, solo che paga lavoratori locali (c'è molta
manutenzione da fare) e materiali prodotti nel paese in cui si opera, mentre la scomposizione del
prezzo del fotovoltaico svela che quei denari vanno a finanziare solo le multinazionali che
producono e trasportano in giro per il mondo le componenti.

Un caso in cui mi capitò di lavorare in questo ambito fu quando progettai un modello di forno solare
per conto di PS76, nel 2005.
Esistono due tipi di forni solari: gli accumulatori ed i concentratori. I primi sono delle scatole ben
coibentate con un vetro sul lato superiore: la radiazione solare entra e si accumula, portando la
temperatura interna anche sopra i 100 gradi. I secondi invece concentrano i raggi solari nello spazio
anziché accumularli nel tempo, grazie alla forma parabolica: la temperatura di questo tipo di forni, a
dipendenza dal rapporto tra la grandezza del collettore e quella della della pentola, può anche
raggiungere temperature di diverse centinaia di gradi.

Figura 6: Un prototipo di forno solare che unisce il principio del concentratore con quello dell'accumulatore.
Lo chiamammo “modello Eli” (eli in amarico vuol dire “tartaruga”, dalla sua forma quando è rovesciato).
In prima istanza provai a studiare un sistema ibrido tra i due schemi, quello che si vede in figura 6.
La parabola è realizzata con un impasto di terra e letame (la terra da sola sarebbe stata troppo fragile
con sezioni così ridotte, e pure l'isolamento termico sarebbe inferiore) rivestita con carta di
alluminio, in modo da concentrare i raggi solari nel centro. Poi un vetro forato è fissato
ermeticamente al corpo della parabola e nel foro centrale è posta una pentola esternamente dipinta
di nero, cosicchè il calore sviluppato non si disperde ma rimane all'interno della parabola.
Funzionava molto bene ma presentava un nodo difficile da risolvere: quello tra pentola e vetro. Nel
prototipo costruito, i due elementi si inclinano insieme, cosicché per cucinare dopo una certa ora si
finirebbe per versare tutto il contenuto della pentola per terra. Dopo qualche tentativo
abbandonammo questa strada perché qualunque soluzione aveva troppe dispersioni di calore. Si
decise di aumentare un po' il dimensionamento del concentratore e rinunciare all'effetto
“accumulo”, eliminando il vetro.

Quello che ne uscì fuori fu chiamato forno “sherarit”, che in Amarico significa “ragno”, per la
forma del treppiede per supportare la pentola (figura 7). Come abbiamo detto la parabola è rivestita
con un foglio di carta d'alluminio, dunque la durabilità dell'oggetto è bassa, ma il suo costo lo è
ancora di più.

Figura 7: La versione definitiva del forno progettato per PS76, il “modello Sherarit”
L'impronta ecologica

Come abbiamo accennato, non esiste un modo scientifico per misurare la sostenibilità di un
prodotto o di un processo. La difficoltà più grande che si incontra è quella di rendere
monodimensionale un fenomeno che invece è complesso e multiforme.
Riportiamo qui quello che sembra essere il tentativo più promettente in questa direzione: l'impronta
ecologica.
Si tratta di un indicatore che mette in relazione la capacità del suolo terrestre e marino di produrre
beni e smaltire rifiuti con le necessità umane.
Espressa generalmente in [ha], l'impronta ecologica misura l'impatto di una popolazione sul
territorio. Il suo valore è dato dalla somma dell'area della casa in cui abitiamo (divisa per il numero
degli inquilini) più i i campi coltivati necessari ad alimentare noi ed i capi di bestiame di cui ci
nutriamo, più lo spazio che serve per generare l'energia, raccogliere l'acqua e produrre i servizi che
impieghiamo.
L'indicatore ha valori estremamente diversi a seconda del livello di industrializzazione: se un
cittadino medio del Bangladesh ha bisogno di 0,56ha, un americano necessita di ben 12,5ha, vale a
dire 22 volte tanto, per soddisfare tutte le sue esigenze.
La media sull'intera popolazione mondiale è di 2,7ha a persona7.
Moltiplicando questa cifra per i 7 miliardi di abitanti del pianeta, otteniamo che – ad oggi –
l'umanità necessita di circa 20 miliardi di ettari per il proprio sostentamento. E' il 120% della
superficie disponibile sul pianeta.
Sebbene calcoli di questo tipo abbiano margini di aleatorietà piuttosto elevati e contengano un gran
numero di approssimazioni (quasi tutte per difetto), il significato è chiaro: stiamo consumando più
di quanto il pianeta possa produrre, e per farlo stiamo attingendo a risorse finite, in via di
esaurimento.
E' in base a calcoli come questo che si parla di “overshoot day8”, riferendosi al giorno di ogni anno
in cui si oltrepassa il limite massimo di sfruttamento sostenibile del pianeta per lo stesso anno.

L'impronta ecologica di una persona (e dunque di una comunità) cambia in base a molti parametri:
chi indossa una camicia di cotone consuma meno superficie terrestre di chi ce l'ha di seta, i
vegetariani ne consumano meno rispetto ai carnivori; chi si muove con i mezzi pubblici ne consuma
meno di chi impiega l'automobile. In sostanza ogni abitudine che abbiamo lascia una traccia sulla
nostra impronta ecologica9.

Figura 8: L'impronta ecologica delle diverse nazioni del mondo (dati relativi al 2010)

7 Tutti i dati relativi alle impronte ecologiche sono presi dal rapporto dal Global Footprint Network, consultabile al
sito www.footprintnetwork.org/en/index.php/GFN/page/data_sources
8 Per un approfondimento, vedere direttamente www.overshootday.org
9 Sul sito del WWF svizzero è disponibile un questionario per calcolare la propria impronta ecologica, nonché una
breve guida al consumo critico, contenente alcuni consigli per ridurla:
www.wwf.ch/it/attivi/vivere_meglio/impronta_ecologica/
3. Ottimizzazione

Spesso il lavoro del cooperante consiste nell'ottimizzare dei processi. C'è sempre una risorsa
scarsa (può trattarsi di energia, tempo, ettari, acqua, suolo, carbone, foresta, cibo o altro ancora)
che, con qualche attenzione, può essere impiegata (o stoccata, prodotta, difesa, distribuita) con
maggiore efficienza.

Non è sempre facile trovare un buon modo per ottimizzare: specie nei contesti rurali, il “saper
fare” tradizionale spesso individua i migliori modi possibili per affrontare qualunque problema
tecnologico, in accordo con le specificità locali.
L'illusione di chi, visitando un paese africano per la prima volta, si lascia sfuggire un “ma qui
basterebbe...” o un “sarebbe facilissimo fare così e così, per risolvere questo problema”, è appunto...
un'illusione. Non “basterebbe”. Le idee di chi non conosce il contesto non valgono praticamente
nulla (è questa la ragione per cui si parla di “Community based approach”).
Sarebbe come se un abitante di un remoto villaggio africano, che non ha mai visto un'automobile in
vita sua, venisse in Europa e volesse risolvere il problema del traffico di una grande città,
studiandone viabilità e percorsi: come potrebbe mai fare un buon lavoro?
Per capire “come” ottimizzare, è dunque indispensabile una profonda conoscenza della realtà locale
ed il coinvolgimento sostanziale della società civile.
Ma il vero problema, il più delle volte, consiste in “che cosa” ottimizzare.

Nel precedente capitolo, sulla sostenibilità, abbiamo visto attraverso l'esempio della produzione di
energia solare che l'unità di misura [W/mq] è molto poco interessante da ottimizzare in contesti
africani, mentre [€/KWh] è molto più interessante, ed [€con ricaduta locale / €per importazioni e trasporti], che
è quindi una percentuale, è la più interessante di tutte.
Massimizzare i [W/mq] significa occupare un po' meno spazio, mentre massimizzare gli [€/€]
minimizzando al contempo [€/KWh] significa aiutare concretamente e durevolmente l'economia
locale.
Questo esempio dovrebbe far riflettere sull'importanza delle dimensioni fisiche da ottimizzare,
per non affrontare la questione in modo sbagliato.

Con un secondo esempio, vogliamo invece sottolineare l'importanza di quantificare concretamente


il valore numerico di ciò che ci si propone di ottimizzare. Spesso non è facile arrivare a dei dati
precisi, ma è importante arrivare almeno a delle approssimazioni, per poter essere sicuri che la
propria idea sia buona, e non frutto di un preconcetto.
Questo esempio riguarda uno dei più incredibili preconcetti che negli ultimi anni si sia affermato in
Europa: gli effetti devastanti sul pianeta dell'impiego di olio di palma.
Immagini terribili di foreste secolari bruciate per fare spazio a coltivazioni di palma da olio.
Animali che fuggono, popoli indigeni allo stremo, microclimi e nicchie ecologiche a rischio,
emissioni di gas serra, aumento della temperatura del globo.
Tutto per colpa dell'olio di palma (figura 9).
Sto per sostenere la tesi opposta: l'olio di palma in realtà è oggi il miglior amico dell'ambiente e
delle foreste tropicali, nonostante il fatto che migliaia di ettari di foresta ogni anno vengano
bruciati e destinati a questa coltivazione, o meglio, proprio per questa ragione.
Giustifico questa presa di posizione con l'analisi del processo e la quantificazione dell'unità di
misura più interessante.
Misuriamo quindi l'olio in [Kg]. Si calcola che il fabbisogno mondiale di olio sia di
140.000.000.000 Kg/anno: una quantità strabiliante, che per di più è in continua crescita.
Esistono molti tipi di olio; quale dobbiamo considerare il “migliore” per soddisfare questo
fabbisogno? Ossia: qual è il parametro da ottimizzare, nel processo di produzione di olio a fini
alimentari?
Dato che il mondo non è infinito e dato che si tagliano foreste per fare spazio a nuove coltivazioni,
l'olio migliore sarà quello che sottrae minore superficie a parità di prodotto. Ogni tipo di pianta ha
una produzione tipica espressa in chili di semi per ettaro annuo, ossia [Kg/ha*y]. Ogni tipo di seme,
poi, ha una resa in chili di olio ottenibili per chilo di semi, [%]. Moltiplicando questi due dati tra
loro, si ottengono i chili di olio che un ettaro di terreno può produrre in un anno, per ogni tipo di
coltura oleifera. Vediamo i numeri indicativi relativi a diverse tipologie di colture.

Tipo di olio Resa [kg/(ha*y)]


1 Mais 80
2 Arachide 400
3 Soia 370
4 Moringa 350
5 Girasole 500
6 Oliva 700
7 Jatropha 700
9 Palma 3800

In realtà i dati hanno bisogno di essere integrati con tutti i coprodotti, cosa che si fa in genere
usando le [Kcal] o i [Wh] come unità di misura.
Il dato relativo al mais, per esempio, appare così disastroso perché i suoi semi contengono
pochissimo olio e moltissimo amido ed altre sostanze nutrienti, così che dopo l'estrazione dell'olio
rimane ancora materia secca molto pregiata, da cui si possono per esempio ottenere farine o estratti
di amido o sciroppo dolcificante.
Dalla tabella risulta evidente che, dato il fabbisogno mondiale di olio, la palma è di gran lunga la
coltivazione che richiede meno terreno per poterlo soddisfare.
Se si smettesse di tagliare foreste per fare olio di palma, se ne taglierebbe 10 volte di più, per
fare posto a coltivazioni alternative.
Nel 2014 sono stati prodotti 54 miliardi di chili di olio di palma, su una superficie di circa 15
milioni di ettari.
Per ottenere la stessa quantità di olio da colture alternative, sarebbero serviti 180 milioni di ettari a
girasole, 135 ad arachide o 145 a soia.

Figura 9: L'ingannevole immagine di una foresta, dalla visibile biodiversità, tagliata per dare posto a coltivazioni di palma da olio.
E' un'immagine terribile perché dà conto della scelleratezza delle politiche locali ed internazionali, ma rischia di essere fraintesa
perché può far sembrare l'olio di palma in sé meno sostenibile di altri olii, mentre è vero il contrario. Se dall'oggi al domani, per
esempio, si vietasse in tutto il mondo l'impiego, la vendita e la coltivazione di palma da olio, la situazione diventerebbe peggiore, e
non migliore, per il pianeta e per le sue foreste.

A questo si aggiunga che la palma è una pianta poco esigente (poca acqua e pochi fertilizzanti) e
molto resistente (pochi antiparassitari), dunque anche in tema di risorse idriche e di chimica nelle
coltivazioni la palma è quanto di meglio si possa avere.
Si noti che pure la Jatropha ha una resa 5 volte inferiori alla palma. Ipocritamente, oggi si vieta di
usare l'olio di palma come biocombustibile perché è considerata una risorsa alimentare pregiata, da
non “sprecare” per far andare un motore. E allora come biocombustibile si impiega un olio che
produce un quinto, che ha il solo “pregio” di essere velenoso per l'uomo.
Come si vede, sia il sentire dell'uomo comune10 che la legislazione (per esempio dell'UE11) si
discostano di molto dal concetto scientifico di “ottimizzazione”.
Per certe situazioni, un generatore diesel può essere più appropriato di un pannello fotovoltaico,
anche se non si direbbe.

Con PS76 stiamo lavorando al progetto di una pressa per estrarre olio di moringa (figura 10).
Come si vede in tabella, la resa non è in sé straordinaria, ma i coprodotti la rendono una soluzione
più che interessante. La moringa rilascia azoto nel terreno (nutrimento per altre piante) e si
accontenta di suoli sabbiosi, è una buona pianta pioniera anche in zone aride e poco fertili. Vive in
riva al mare come in alta montagna, avendo nel gelo il suo unico vero nemico.
Le foglie sono la parte più nutriente della pianta, si mangiano fresche o secche. Anche le radici e i
germogli possono essere mangiati. Dai semi si produce l'olio, ma la parte solida di scarto è ancora
ricca di sostanze nutritive, può essere la base di un ottimo foraggio o becchime. Se le moringhe
vengono piantate in maniera non troppo intensiva, è possibile coltivare a orto lo spazio tra gli alberi,
con mutui benefici. I fiori della moringa sono melliferi, si prestano quindi all'apicoltura.
Ecco che su un unico terreno, possiamo avere molti apporti calorici sovrapposti, che tutti insieme
possono arrivare a superare anche quello della palma da olio.

Contribuiscono al valore calorico totale, esprimibile in [KWh/(ha*y)]12:


– Olio estratto dai semi
– Foglie fresche o seccate
– Foraggi e becchimi prodotti con parti di risulta di semi e foglie
– Pellet o carbone ottenuti dalle potature annuali
– Orto inframezzato tra gli alberi (che beneficia dell'azoto fissato nel terreno dalla moringa)
– Miele, cera e pappa reale

Figura 10: Una pressa per la spremitura a freddo di olio di palmisto, impiegata in Guinea Bissau da PS76
(macchina prodotta da Bracco S.r.l.)

10 Un buon esempio di pensiero basato sul sentimento più che sui dati oggettivi, a questo proposito:
http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/04/12/olio-di-palma-brutte-notizie-per-eni-buone-notizie-per-le-
foreste/3518217/
11 Con una risoluzione del 04/04/2017, il Parlamento Europeo di Strasburgo ha deciso di limitare gradualmente
l'impiego di olio di palma come biocombustibile, impiego che verrà completamente proibito nel 2020.
12 E' difficile omogeneizzare le calorie (o i Wh) per alimentazione umana, quelle per animali e quelle fruibili come
combustibile. Per questa ragione, spesso risulta più pratico fare i conti semplicemente in [€/(ha*y)], usando come
coefficienti di omogeneizzazione i parametri ottenuti in base ai dati locali, del posto dove si sta intervenendo,
relativi al prezzo del cibo, del foraggio e del combustibile, tutti espressi in [€/Kcal].
4. Tecnologie appropriate

Per “tecnologia” si intende conoscenza umana applicata alla produzione, ossia


quell'insieme di informazioni necessarie per trasformare materie prime, semilavorati e ore di lavoro
(input) in nuova produzione (output).
“Una tecnologia è detta 'appropriata' quando è compatibile con i bisogni propri della
natura umana, le condizioni culturali, naturali ed economiche locali ed utilizza risorse
umane, materiali ed energetiche disponibili sul posto, con strumenti e processi controllati e
gestiti dalla popolazione locale”13

Il Professor Ernst Friedrich Schumacher14, economista svizzero riconosciuto come il padre del
concetto di “tecnologie appropriate” (T.A.)15, mette dunque in evidenza come una tecnologia sia
da considerare o meno “appropriata” a dipendenza del contesto (risorse e cultura) oltre che della
intrinseca sostenibilità.
Il altri termini, gli attributi che contraddistinguono una T.A. sono i seguenti:
1) Gestibilità locale
2) Compatibilità culturale
3) Sostenibilità ambientale

Le caratteristiche che individuano una T.A. dal punto di vista causale sono generalmente le
seguenti:
– Impiego intelligente delle risorse locali (uso intensivo di lavoro, per esempio)
– Facile riproducibilità con le risorse disponibili sul posto
– Forte radicamento nella realtà locale (partecipazione delle comunità di riferimento)
– Semplicità gestionale (impiego, manutenzione, riparazioni e smaltimento)
– Piccola-media scala (per evitare che si creino dei centri di potere)
– Basso impatto ambientale
– Basso costo (accessibile almeno alla maggior parte della popolazione target)

Dal punto di vista effettuale invece, le T.A. hanno le ricadute qui di seguito elencate, o perlomeno
a queste dovrebbero aspirare:
– Socialmente migliorano le condizioni di vita della gente
– Economicamente usano in maniera saggia le risorse del pianeta
– Ecologicamente rispettano gli equilibri della natura
– Politicamente decentrano fra la gente la cura della cosa pubblica

“Ebbene, unire mattoni di fango messi su da contadini inesperti e apparecchi informatici che
ne controllano le qualità sul posto, là dove si costruisce la casa, è una forma di “ibridazione
tecnologica” di cose vecchissime e poverissime con cose nuove e scientificizzate: è
l’incontro di civiltà per risolvere i problemi dei “più poveri”. “Più poveri” che hanno
bisogno di usare tutta l’esperienza dei secoli ma anche tutta la tecnologia e la scienza del
presente.
(omissis) Anche noi abbiamo una qualche possibilità concreta di aiutare, col nostro lavoro.
(omissis) Approfondire il nostro mestiere per cercare tecnologie appropriate utili al Terzo
Mondo nell’edilizia, nella meccanica, nell’insegnamento, nella tipografia, nell’agricoltura,
nei lavori casalinghi, nella medicina, in ogni tipo di lavoro: e, trovata qualche idea semplice
e utile, metterla a disposizione, ad esempio, degli organismi di volontariato perché

13 E. F. Schumacher, Small is Beautiful, 1973

14 Per una breve bibliografia, vedere https://it.wikipedia.org/wiki/Ernst_Friedrich_Schumacher

15 Un approfondimento sulle tecnologie appropriate, con interessanti rimandi esterni, si trova su


https://en.wikipedia.org/wiki/Appropriate_technology
la sperimentino con le popolazioni interessate.
E chissà che qualcosa non serva, anche, direttamente, per la nostra società, per le nostre
famiglie e per farci uscire dal consumismo ottuso che chiede sempre, anche quando non
serve, la qualità migliore, il prodotto più caro. Sarebbe anche questo un risultato bello e
molto importante”16

Sono queste le parole del compianto Prof. Giorgio Ceragioli dell'Università di Torino, massimo
esperto italiano nel settore delle T.A., nel suo libro “Tecnologie per tutti”, pubblicato e diffuso
gratuitamente con la Diocesi di Torino nel 2003. Nello stesso volume, il Professore racconta
brevemente come, negli anni '80, abbia progettato per LVIA (una ONG italiana) un modello di pala
eolica abbinata alla pompa per il pozzo, modello che fu concepito in ambito di cooperazione, ma
subito trasferito ad imprese locali che si occuparono di produzione e manutenzione.
Ancora oggi, a distanza di più di 30 anni, la maggior parte di quegli impianti sono ancora attivi: il
processo di trasferimento tecnologico ha funzionato, grazie all'appropriatezza delle tecnologie
impiegate.

Alcuni esempi di T.A. sono: costruzioni in materiali locali, artigianato in bambù, aratri
meccanici migliorati, cisterne autocostruibili, impianti di irrigazione a risparmio di acqua, sistemi
semplici per la potabilizzazione, fertilizzazione tramite compostaggio o illuminazione a biogas.
Naturalmente ciascuna di queste tecnologie, come tutte le altre, può essere appropriata o meno a
seconda del contesto fisico e culturale all'interno del quale la si vuole utilizzare, in sé e per sé sono
solo potenzialmente appropriate.

Come caso di studio su questo argomento, presento un progetto minimalista, anche per dare l'idea di
quanto possa bastare poco, alcune volte, per ottenere dei grandi risultati: parliamo di
sperimentazione agricola, un progetto che ho seguito nel villaggio di Sinta.
A Sinta, come nella maggior parte dell'Etiopia e non solo, la coltura principale è il mais17.
La popolazione però è sedentaria da non più di 2 generazioni, dunque l'agricoltura non rientra nella
cultura tradizionale: parliamo di contadini quasi improvvisati, la cui cultura di pastori nomadi è
stata tranciata di netto una cinquantina d'anni fa.
Tutti sanno che concimando troppo poco le pannocchie vengono piccole, mentre troppo concime

16 G. Ceragioli, Tecnologie per tutti, 2003. Il volume è consultabile gratuitamente all'indirizzo


http://areeweb.polito.it/ricerca/crd-pvs/documenti/321.pdf .

17 Il mais è in realtà la monocoltura più diffusa in Africa e nel mondo intero. Le ragioni sono quattro:
1) Quando il terreno era una risorsa virtualmente illimitata, ossia fino ad un paio di secoli fa, le rese dei cereali si
calcolavano sul seminato. Grano, segale, orzo, miglio ed altri concorrenti hanno tutti una resa tra il 20 ed il 50,
mentre il mais supera abbondantemente il 300 (ossia trecento nuovi semi da un unico seme piantato), e questa è la
ragione della sua fortuna e diffusione storica.
2) Al giorno d'oggi invece le rese si contano il quintali su ettaro (vedi cap.3, “Ottimizzazione”), ed ancora una
volta il mais risulta nettamente superiore rispetto ad ogni altro concorrente, con i suoi 130 quintali per ettaro.
3) Tra le monocolture, quella del mais è la sola a non necessitare di rotazione dei campi.
4) Si tratta del cereale più resistente alla siccità.

C'è un'unica caratteristica del mais da cui discendono tutte e quattro le virtù appena descritte: il trucco sta nel
sistema di fotosintesi. Nel corso di tale processo, la maggior parte delle piante crea dei composti con tre atomi di
carbonio (C3), sottratti alla CO2 presente nell'aria. Il mais è invece un rarissimo caso di pianta “C4”, ossia
sintetizza delle molecole con quattro atomi di carbonio.
Il prezioso elemento viene catturato dall'aria attraverso dei piccoli organelli chiamati “stomi”. Quando uno stoma si
apre, una molecola di carbonio entra nella pianta, ma un po' di acqua esce ed evapora. Ecco che allora essere C4
rende il mais il 33% più efficiente delle altre piante, più resistente alla siccità perchè “inghiottisce” 4 atomi di
carbonio per ogni apertura di uno stoma, e dunque in grado di produrre più biomassa. Più del 97% della massa del
mais proviene dall'atmosfera, meno del 3% dal suolo: i geni del mais sono delle macchine evolute appositamente
per trasformare l'aria in cibo, ed è questa la ragione per cui 9.000 anni fa mais e uomo hanno stretto un patto
coevolutivo che dura ancora oggi.
aumenta la spesa ma, oltre un certo limite, non le dimensioni della pannocchia.
Tutti sanno anche che piante molto distanziante crescono più rigogliose, ma se si distanziano troppo
ne diminuisce eccessivamente il numero per metro quadrato, quindi la produttività del campo si
riduce.
Ecco che, con un semplice esperimento, si possono coltivare diverse parcelle di terreno tutte uguali
variando la quantità di concime e la distanza tra le piante, misurare il costo e la produttività di ogni
parcella e trarre le conclusioni su quale sia la combinazione più conveniente.
Se questi parametri ottimali (che variano a seconda del tipo di terreno, quindi della zona geografica)
vengono diffusi tra la popolazione contadina che vive in quella zona, si assisterà ad una produzione
di cibo mediamente più alta che non se ciascuno avesse operato secondo il proprio istinto.
Analoghe prove possono essere fatte per stabilire quale sia il periodo ideale per seminare,
paragonare diversi sistemi di aratura, concimi, anticrittogamici, se sia meglio la semina diretta o in
semenzaio.
A Sinta abbiamo fatto tutte queste cose (figura 11), cercando poi di diffondere i risultati al meglio
tra la popolazione locale.
Ecco che una tecnica di coltivazione diventa più o meno efficace a seconda di quanto sia stata
“calibrata” sulle specificità locali, alla ricerca dei parametri ottimali.
Significa che – caso estremo – si può migliorare una tecnologia senza alcun apporto materiale.

Figura 11: Coltivazione di parcelle sperimentali di granoturco a Sinta. Si nota piuttosto bene che diverse parcelle, tutte delle stesse
dimensioni, riportano piante con dimensioni differenti: alcune sono più alte, altre più basse. Eppure sono tutte state seminate lo stesso
giorno. La differenza sta nel tipo di aratura, concimazione e semina, ed è una differenza tale da incidere notevolmente sulla resa.

Figura 12: Determinazione del grado di umidità del mais, utile per comparare i risultati parziali
sulla reale resa, a prescindere dal grado di essiccamento. In questo modo si può calcolare la resa in termini di Kcal/mq (o W/Ha) che,
depurata dai costi vivi, indica quale siano le condizioni ideali di semina tra quelle sperimentate.
Esempi di tecnologie inappropriate

Alcune tecnologie sono appropriate in alcuni posti e non in altri; altre invece non lo sono mai, in
nessun posto. Generalmente queste tecnologie vengono scartate e dimenticate rapidamente, tranne
che in alcuni casi: quando vi è un grande fascino in un'immagine, talmente potente da far
dimenticare le reali caratteristiche di quella tecnologia, che a quel punto non è altro che una sorta di
pubblicità di sé stessa, utile a chi la propone e a chi la implementa per avere facile consenso da
parte dei donatori, ma non certo agli utenti beneficiari. La lista sarebbe lunga, dalle cisterne per
l'acqua a ruota ai laptop con pannello solare sul retro dello schermo18.
Chiamiamo questi oggetti “chindogu della cooperazione” (vedi didascalia di figura 14 per una
spiegazione).

Ecco qui due esempi clamorosi.

Figura 13: La cosiddetta “Play pump”. I bambini giocano con una specie di giostra, attivando così un rotore nascosto al centro di
essa. Questa forza meccanica viene trasferita all'adiacente pozzo, che così pompa acqua nella cisterna, disponibile poi alle donne che
vengono a prenderla. L'immagine è forte: i bambini, il gioco, l'acqua, l'energia gratis, i “due piccioni con una fava”.
E' talmente forte da far dimenticare i dati reali.
Il gioco dei bambini non sarà mai sufficiente per pompare tutta l'acqua necessaria 19, il rotore è piccolo e quindi poco efficace,
dimensionato per i bambini e dunque difficile da azionare per un adulto. La pompa costa circa dieci volte rispetto alle più diffuse in
Africa, che hanno una leva lunga, studiata per il braccio di un adulto, e necessitano di molta meno manutenzione. La Play Pump, tra
l'altro, ha gli estremi per prestarsi a schemi di sfruttamento minorile.
Il progetto è stato finanziato dalla fondazione Bush e da quella Clinton (con ben 16 milioni di dollari!), riscuotendo così un successo
che possiamo definire “bipartisan”.

18 Come riportato dal Telegraph (http://www.telegraph.co.uk/technology/samsung/8588174/Solar-powered-laptop-


launched-by-Samsung.html), un tale computer è stato davvero progettato e prodotto da Samsung Electronics
Africa, grazie a dei fondi per la ricerca e la cooperazione internazionale. Il computer tuttavia, dovendo stare al sole,
si usura velocemente e la sua batteria soffre le alte temperature, diventando inutilizzabile nel giro di pochi mesi. Per
quanto meno attraente, un comune pannello fotovoltaico connesso ad un caricabatterie sarebbe certamente più
efficace (ma la sua immagine non avrebbe un effetto altrettanto immediato e comunicativo).
19 Un ottimo articolo di Andrew Chambers, pubblicato sul Guardian il 24.11.2009 (“Africa's not-so-magic
roundabout”), riporta un calcolo secondo il quale, per ottenere la resa pubblicizzata, i bambini dovrebbero giocare
con la giostra per 27 ore al giorno (sic). L'articolo è consultabile all'indirizzo
https://www.theguardian.com/commentisfree/2009/nov/24/africa-charity-water-pumps-roundabouts.
Figura 14: Altra immagine fortissima, il cosiddetto “Warka, tree of life”20.
Laddove la gente cammina ore per andare a prendere acqua contaminata dal fiume più vicino,
si possono costruire delle specie di alberi artificiali che, senza consumare alcuna energia, producono acqua pura: un sogno.
Poco importa se le reti da condensa esistono da 100 anni, se il progetto non ha altro valore aggiunto se non di tipo estetico,
con un design etno-afro, che solletica l'immaginario dei donatori.
Poco importa se l'acqua di condensa è distillata, dunque non potabile, e se le condizioni termoigrometriche
perché la produzione sia alta sono rarissime.
E' solo un ologramma, ma è uno dei progetti più reclamizzati pubblicati e premiati del settore, negli ultimi anni.

20 Nonostante i nostri ripetuti tentativi di contatto, l'associazione Warka risulta indisponibile a fornire i dati
sull'efficienza del sistema. Ci ha invece risposto il Prof. Taddese Girmay, della Scuola di Architettura di Addis
Ababa (EiABC), partner locale di questo progetto. Secondo lui “il prototipo è stato realizzato nel villaggio di Dorze,
nel sud dell'Etiopia. Il principio funziona, anche se i risultati sono molto lontani dalle aspettative”.
Eppure, si noti, Dorze è un luogo estremamente umido e con forti escursioni termiche: condizioni ideali per avere
un'ottima resa.
Con più chiarezza una sua collaboratrice, la Dott. Melat Assefa, afferma che “il prototipo costruito non è più
visitabile perchè è stato demolito dai contadini locali”.
Dopo questa fallimentare esperienza, tuttavia, la presentazione sul sito internet (www.warkawater.org) non ha
smorzato i toni trionfalistici con cui il progetto è descritto. Gli stessi toni impiegati anche in innumerevoli articoli
(evidentemente privi di fonti di verifica) apparsi sia sulla stampa che sul web.
Il progetto è stato premiato dal World Design Impact Prize nel 2015, come miglior progetto a fini umanitari.
Figura 15: I “chindogu”, letteralmente “attrezzi insoliti”, più liberamente traducibile come “oggetti parafunzionali”. Sono
sostanzialmente degli scherzi visuali, creati da artisti designer. Questo vestitino, che mentre il bambino gattona pulisce anche il
pavimento, è solo un esempio della fantasia dei grafici giapponesi che li producono, per pura ironia, in forma di fotografie o filmati.
In cooperazione non c'è spazio per i chindogu, che dovrebbero trovare un'unanime condanna da parte di informazione e donatori
istituzionali.

Figura 16: Alcuni “chindogu” del mondo della Cooperazione allo Sviluppo.
Non sono altrettanto divertenti, poiché per queste finte tecnologie sono stati spesi dei soldi veri, che avrebbero potuto essere
impiegati più proficuamente. In alto a sinistra vediamo la “radio a manovella” (le pile sono molto economiche e disponibili ovunque
siano disponibili anche le radio, per contro la manovella è corta e la sua carica dura pochissimo), nelle altre immagini invece sono
rappresentati due diversi modelli di “cisterna rotolante”: quella in basso a sinistra è leggera e per questo si deteriora molto
velocemente, quella a destra è pesante dunque faticosa da impiegare. Entrambi i modelli hanno grossi problemi su suoli accidentati,
come in genere sono le sponde dei fiumi.
5. Ibridazione

Il concetto di ibridazione è una illuminante via alla comprensione dell'Africa, dove il contadino
manovra ancora il preistorico aratro a chiodo, ma nell'altra mano stringe uno smartphone di
ultima generazione.
L'Africa è un continente postmoderno, che spesso mostra questa compresenza di antichissimo e
contemporaneo (figura 17).

Figura 17: L'impianto autocostruito della bottega di un caricatore di telefoni cellulari,


fotografato al mercato di Tore (Sud Sudan).

Questo continente, quasi tutto, ha ricevuto (senza chiederlo) i frutti di alcune migliaia di anni di
progresso europeo in un tempo estremamente breve, senza avervi partecipato. Forme di governo,
sistema educativo, religioni, tecnologia, infrastrutture, tipologie abitative, tutto quanto è stato
importato senza alcun criterio logico selettivo, senza che le società avessero avuto il tempo di
metabolizzare i cambiamenti e anche di sviluppare gli anticorpi necessari.
Per inciso, questo spiega la ragione per cui – è esperienza comune in Africa – chiunque porti una
divisa o abbia un po' di potere di qualche tipo, tende ad abusarne a scapito degli altri più facilmente
che in altre zone del mondo: qui il “potere” non è mai stato detenuto dalle singole persone, lo hanno
sempre avuto dei comitati, come il consiglio degli anziani o i tribunali civili tradizionali.
E' naturale che interrompere una cultura consolidata precedente, con una sua storia, per assumere
una forma importata (distribuire divise e ruoli al di sopra degli altri), significa affidare ai singoli
delle responsabilità mai avute da nessun predecessore: è un passaggio che non può avvenire in
maniera indolore. Fine dell'inciso.

Torniamo alla sovrapposizione di epoche remote ed attualità, questa volta per considerarne una
conseguenza positiva. Nell'immaginario delle persone del posto, questa simultaneità tra epoche è
reale, cosicché la cultura è pronta ad accettare tecnologie e materiali moderni senza sentirli “altri”
da quelli che hanno impiegato per millenni (figura 18: chiodi, lamiera e gomma sono elementi presi
dal mondo della modernità, integrati nel “saper fare” locale).
La straordinaria conseguenza di questa peculiarità è il superamento dell'antitesi tra cultura materiale
tradizionale ed innovazioni tecnico-scientifiche, scontro che nelle nostre culture europee non ottiene
quasi mai una sintesi coerente. In Africa invece una sintesi si trova sempre, in qualche maniera.
In campo tecnologico, l'ibridazione permette di potenziare soluzioni tradizionali o comunque a
basso contenuto tecnologico, semplicemente grazie all'integrazione di una componente
industrializzata o comunque appartenente alla modernità.
Figura 18: Pezzi di gomma nera giunti alla loro quarta “vita”: nella prima erano pneumatici di automobile,
nella seconda gomme riempite di cemento per un carro ad asino, nella terza erano suole di scarpa
ed ora, infine, si sono trasformati in cardini a ritorno elastico per un cancello esterno.

Ebbi l'onore di implementare un progetto, nel 2006, in collaborazione con l'Agricultural Research
Centre di Melkassa. Si trattava di sistemi di aratura e semina appropriati.
In Etiopia si usa perlopiù l'aratro a chiodo trainato da una coppia di buoi: si tratta di una punta
metallica che fende il terreno, montata sull'estremità di un legno tirato dai buoi e guidato dal
contadino.

Figura 19: L'aratro versoio ibrido, a fianco del tradizionale aratro a chiodo etiopico.

E' un sistema molto poco efficiente: per dissodare il campo sono richieste tre arature (est-ovest,
nord-sud e di nuovo est-ovest), dunque molte energie e molto tempo.
E' da notare che non tutti possiedono una coppia di buoi, solo i contadini più ricchi, che possono
mantenerli anche durante la stagione secca grazie al fieno accumulato durante l'estate.
Appena iniziano le piogge essi arano i propri campi. Non prima, perché il terreno secco sarebbe
troppo duro. Impiegano il tempo necessario per l'aratura in triplice passata, dopodiché danno a nolo
i buoi con tanto di aratro a chi non ne ha di proprietà, ma può comunque permettersi di pagare un
buon affitto.
Quando anche loro finiscono di preparare i propri campi, i buoi saranno dati a chi è ancora più
povero, e così via. Dato questo meccanismo, succede che i più poveri di tutti iniziano ad arare
quando già piove da settimane: se la stagione delle piogge risulta più breve del solito, cosa che
accade con una certa frequenza, essi sono i primi a perdere il raccolto.
Un sistema che permettesse di diminuire i tempi di aratura, avrebbe quindi grandi effetti sulla
sicurezza alimentare della popolazione rurale, soprattutto delle fasce più povere.

Mossi da questa idea, sperimentammo un aratro versoio del tipo che usava in Europa prima della
meccanizzazione agricola (in figura 19, a fianco di quello tradizionale).
Il vomere ha dimensioni molto ridotte, in modo da non affaticare troppo gli esili buoi locali (zebù
indiani), mentre tutti gli “attacchi” erano uguali a quelli usati tradizionalmente in Etiopia.
Il risultato fu buono: con questo aratro, ottenuto sagomando un pezzo di tubo di acciaio e punta
rinforzata ritagliata da una balestra di automobile, era sufficiente un'unica passata per dissodare un
campo, anziché tre.
Ma il risultato che fu più apprezzato dai contadini fu quello della seminatrice manuale a ruota (due
prototipi in figura 20).

Figura 20: Due prototipi di seminatrice meccanica a ruota, l'output migliore


del progetto “Improved small scale agricultural equipments”

Questo strumento, apparentemente utile solo per risparmiare la fatica di chinarsi ed assittare il seme
a mano, si è dimostrato in grado di aumentare notevolmente la resa dei campi coltivati.
La seminatrice infatti regola in modo preciso la distanza tra i semi, e li depone tutti alla stessa
profondità. Questo semplice accorgimento, risultò dalle misurazioni, è sufficiente per incidere in
modo significativo sulla produttività delle coltivazioni, soprattutto quelle di granoturco.
Si tratta di tecnologie dotate di un'immagine molto meno attraente ed immediata rispetto a quelle
che abbiamo definito “chindogu” della cooperazione, la cui utilità richiede più parole per essere
compresa, ma i cui risultati sperimentali sono inequivocabilmente apprezzati dagli utenti.
Figura 21: Uno straordinario esempio di ibridazione tecnologica “regressiva”, documentato presso il piccolo museo di Awra Amba.
Si tratta di una teiera in terra cotta, risalente agli anni '90.
Awra Amba è una piccola comunità, attualmente di circa 600 persone, nel nord dell'Etiopia.
Vivono come una tribù a parte, secondo regole sociali molto diverse da tutti i popoli circostanti.
Uomini e donne fanno gli stessi lavori, non esiste proprietà privata, credono in una divinità ma si rifiutano di darle alcun nome,
hanno un codice morale molto articolato che si insegna nella loro unica scuola, sono agricoltori e tessitori.
La comunità nacque sotto l'Imperatore Haile Selassie, passò senza conseguenze l'epoca dell'occupazione italiana, ma fu perseguitata
dal regime filo-sovietico che rovesciò l'Impero negli anni '70. Lasciarono forzatamente le loro terre da un giorno all'altro, sotto la
minaccia dei militari, e fuggirono verso sud. Percorsero quasi 1000km a piedi, per insediarsi vicino ad Arbaminch, tra gli sterminati
campi di cotone. Le fertili terre del nord erano solo un ricordo, la popolazione locale non riservò loro una buona accoglienza.
Vissero per vent'anni come fuggiaschi, spostando di continuo il proprio insediamento e cibandosi quasi esclusivamente di semi di
cotone, avanzo della lavorazione dei popoli locali. Conservarono il rito del tè, cui erano molto legati, anche se il clima afoso del sud
non lo rendeva necessario per scaldarsi, come invece era sul freddo altipiano del nord.
Là, la rotta commerciale con l'Eritrea gli permetteva di accedere al mercato d'importazione, dunque usavano teiere di alluminio,
provenienti dall'Arabia. Nella nuova condizione di seminomadi in terre remote, non avevano più accesso a questo tipo di beni.
Fu così che iniziarono a forgiarsi delle teiere in terracotta, mantenendo la forma tipica della versione metallica.
Si notano in particolare le righe verticali, che nella teiera di alluminio sono delle nervature che rafforzano il cilindro proteggendolo
dal rischio di imbozzarsi, mentre in questa versione di argilla hanno perso il loro significato. La maniglia ed il beccuccio risultano
estremamente fragili, la forma non è coerente con il materiale. Il fondo piatto è un ulteriore elemento non adatto alla terracotta, che
non si riscontra mai nei manufatti tradizionali “puri”. Tutta la forma, nel suo complesso, ha un pessimo rapporto tra il peso proprio ed
il volume d'acqua portato, comportando un consumo di combustibile e dei tempi di bollitura molto più elevati.
L'involuzione tecnologica, dall'alluminio alla terracotta, è stata causata dalla migrazione forzata della comunità di Awra Amba,
durante il regime comunista. Caduto il regime, vent'anni più tardi, le terre originarie furono assegnate nuovamente agli antichi
proprietari, che ancora vi risiedono. Tornarono alla prosperità di un tempo ma vollero tenere memoria del ventennio in esilio, ed è
nato così il piccolo museo dove questo oggetto è conservato insieme ad altri documenti dell'epoca.
Se la storia fosse andata diversamente e la gente di Awra Amba fosse stata costretta a rimanere al sud, in quella zona lontana dalle
rotte commerciali, certamente il modello di teiera si sarebbe perfezionato nel giro di qualche decennio.
Realizzazione dopo realizzazione, il fondo sarebbe diventato bombato, si sarebbe accorciato il beccuccio e stretto l'apertura
superiore, la maniglia sarebbe diventata laterale, ed il rapporto tra peso proprio e volume d'acqua sarebbe migliorato di molto,
insieme alle prestazioni generali e alla resistenza del manufatto.
E il tutto sarebbe avvenuto – questo è l'aspetto più sorprendente – senza che necessariamente tutti questi problemi fossero noti, a
livello conscio, agli artigiani di Awra Amba.
Possiamo essere certi di ciò osservando centinaia di esempi in cui il processo si è ripetuto, sempre uguale a sé stesso.
La terracotta, per essere resistente e funzionare per ciò a cui serve, deve assumere determinate forme, disponibili in un numero finito.
Tutto il vasellame di tutte le culture del mondo si somiglia, al di là di decorazioni e tratti secondari. Questo accade perché, da
qualunque forma si parta, dopo un certo numero di rotture e successive ricostruzioni “rivedute e corrette”, si arriva ai medesimi
risultati, ossia quelli che meglio risolvono il problema.
6. Inculturazione

“Inculturare” significa sostanziare conformemente alla cultura locale un concetto astratto più
o meno universale, trasformandolo in un concreto oggetto o processo tecnologico.
Affrontiamo la questione con un esempio.
La pompa è un oggetto tecnologico con delle caratteristiche intrinseche specifiche, che ha poi
diverse declinazioni possibili. A livello ideale, essa è semplicemente un sistema che consuma
energia ed in cambio porta in superficie dell'acqua da una falda in profondità.
Questo principio teorico può essere incarnato da un generatore che attiva un rotore elettrico sigillato
collegato ad un tubo verticale, o da dei pannelli solari che attivano una pompa sommersa a corrente
continua, o da dei pedali che fanno girare una corda all'interno di due tubi paralleli, come nel caso
della “pompa a corda” di Ceragioli (vedi figura 23).

Nella zona di Moyale, al confine tra Kenya ed Etiopia, le popolazioni Borana hanno elaborato una
loro declinazione molto particolare del concetto di “pompa” (figura 22).
La profondità della falda varia tra i 20 e i 50 metri nel loro territorio.

Figura 22: Un “pozzo cantante” degli Oromo Borana, nella zona di Moyale

Essi scavano un pozzo a mano del diametro di qualche metro, e costruiscono delle vasche subito a
fianco. Alcune decine di persone vi entrano dentro disponendosi ad una distanza verticale di 2-3
metri l'uno dall'altro, dopodiché iniziano a fare catena e passarsi secchi da 20-30 litri, su su fino in
superficie, per poi svuotarli nelle vasche in superficie e ributtarli, vuoti, in fondo.
Vengono chiamati i “pozzi cantanti”21, ma a cantare non sono i pozzi, sono i lavoratori che ci
stanno dentro.
Essi intonano un coro che gli serve a dare il tempo e quindi ad ottimizzare la catena, e le frasi che
ripetono aiutano il gruppo a tenere alto il morale. Avvicinandosi a questi pozzi si vede solo un buco
nel terreno da cui escono un eco ritmico rimbombante e secchiate da 20 litri a ritmo di musica.
Le parole non bastano a descrivere l'emozione che si prova davanti ad una manifestazione del
genere, ma vi sono aspetti ben più concreti da prendere in analisi.

La portata di questi pozzi è di 150-200 litri al minuto con prevalenza di 40m, consumano
biomassa, non costano, necessitano di poca e semplice manutenzione, sono totalmente gestibili
dalla comunità locale: hanno un'efficienza ed una insita resilienza che li rendono unici al mondo.
Per questo motivo i volontari di LVIA, che inizialmente volevano fare una serie di pozzi
convenzionali al servizio del popolo Borana, quando studiarono meglio lo stato di fatto decisero che

21 Oxfam ha realizzato un piccolo documentario sui pozzi cantanti che vale la pena vedere:
https://www.youtube.com/watch?v=YVjix7F-FUs
esso non poteva essere migliorato in nessun modo ed abbandonarono l'idea.
Preferirono invece documentare questa rara tecnica di estrazione dell'acqua, cercare di valorizzarla,
eventualmente di “esportarla” in altri contesti dove potrebbe attecchire e cercare di interagirvi, per
esempio usando sistemi analoghi per produrre energia o per macinare il grano.

Figura 23: La pompa a corda. Come i pozzi cantanti, è alimentata da forza umana (quindi è corretto dire che va a biomassa).
La differenza principale rispetto ai pozzi cantanti sta nell'individualità dell'azione, che la rende un po' meno “africana”.

Proponiamo ora un'altra riflessione sul tema dell'inculturazione tecnologica, di tipo un po' diverso,
attraverso una storia realmente accaduta ad un conoscente, Padre Giuseppe Monti.
Si tratta di un anziano missionario italiano che viveva in Etiopia da moltissimi anni, quando un
giorno ebbe un incidente e si ruppe un piede. Diciamo piuttosto che se lo frantumò, dato che fu
schiacciato da un generatore caduto da diversi metri di altezza. Immediatamente lo vollero portare
all'ospedale più vicino ma lui si rifiutò, dicendo che lo stregone aggiustaossa era la scelta migliore.
Così si sottopose alle dolorosissime manipolazioni dello stregone, per poi prendere il primo aereo
per l'Italia e farsi ricoverare in un ospedale specializzato.
L'ortopedico che lo prese in cura gli disse che lo stregone, con le sue manipolazioni, aveva
liberato con grande perizia tutte le vene e le arterie principali dalle schegge di ossa,
riattivando la circolazione sanguigna: se non lo avesse fatto, il solo tempo del trasferimento aereo
in Italia gli sarebbe costato la cancrena, quindi l'amputazione della gamba.
Se Padre Monti avesse deciso di lasciarsi trasportare all'ospedale, si sarebbe trovato davanti un
giovane medico generico del pronto soccorso locale, che probabilmente non ha mai neppure letto di
casi del genere. Andando invece dallo stregone, ha trovato una persona che fa quel mestiere non
solo da tutta la vita, ma da molte generazioni (la carica è ereditaria). Fin da bambino ha visto il
padre manipolare ossa rotte, poi, da quando le sue mani sono forti abbastanza, suo padre gli ha
insegnato a tastare, sentire le fratture, esercitare le pressioni giuste e rimettere le cose a posto.
Dapprima si è esercitato con capre e pecore, poi asini e mucche, ed infine su esseri umani.
Allora, la domanda è la seguente: le ONG che aprono ospedali, cliniche e centri di cura,
dovrebbero avvalersi di giovani ortopedici o di stregoni?
Ovviamente è una provocazione, nel senso che si violerebbero molte leggi a propendere per la
seconda opzione. Tuttavia, se noi andiamo dallo stregone, perché provvediamo ospedali con
ortopedici laureati? Ecco un'altra faccia dell'inculturazione: bisogna prevedere nuove strategie che
non mettano i due mondi in contrasto ma li rendano interfecondi. Lo stregone potrebbe dare lezioni
ai giovani medici, gli ospedali nel frattempo potrebbero (come già spesso fanno informalmente)
mandare i casi più gravi da lui, si potrebbero fare interessantissime ricerche sulle manipolazioni
tradizionali in vari luoghi dell'Africa, e cercare di salvaguardare questo patrimonio culturale che
invece – paradossalmente – al momento gli interventi di cooperazione in campo sanitario stanno
mettendo a rischio di estinzione.
Attenzione all'effetto “piatto di plastica”, frutto di una non corretta inculturazione

Ho in mano una forchetta di acciaio inossidabile.


L'acciaio è resistente, duro, facile da stampare in fabbrica, economico, disponibile su larga scala,
non invecchia, è inodore e insapore.
La ragione per cui al mondo si fanno le posate in acciaio inossidabile è presto detta: non esiste
nessun altro materiale che raduni in sé tutte queste caratteristiche peculiari.
Se però guardo davanti a me, vedo un piatto di porcellana bianca. Questo è più difficile da spiegare.
Storicamente, si può capire che questo materiale sia stato utilizzato per tanti secoli: la porcellana è
liscia, facile da pulire, duratura, mantiene il calore delle pietanze, si presta ad essere lavorata per
tornitura e a realizzare manufatti sottili.
Al giorno d'oggi tuttavia esistono materiali sintetici che hanno tutte queste caratteristiche in misura
anche maggiore rispetto alla porcellana, pesano meno, costano meno, producono meno emissioni ed
hanno in più un pregio enorme: quando cadono non si rompono né si sbeccano.
Come mai allora, nelle nostre case, usiamo tutti ancora i primitivi e fragili piatti di porcellana?
Per quanto incredibile, la risposta è una soltanto: il suono.

Ci piace il tintinnio della forchetta di acciaio sul piatto fondo, e quell'altro del piatto fondo su quello
piano. Non c'è un'altra ragione. Non vogliamo che quel “tin-tin” tipico delle stoviglie sia
rimpiazzato dal sordo “toc-toc” dei piatti in plastica dura; pur di sentire quel suono siamo disposti a
maneggiarli con cura, accettare che si scheggino e si rompano, pagarli di più e via dicendo.
E' del tutto irrazionale, ma è così che va il mondo.

Figura 24: “Jabana”, ossia una tipica caffettiera etiopica, in terracotta.


L'acqua si mette a bollire nella jabana in posizione verticale. Quando si aggiunge la polvere di caffè, la si toglie dal
fuoco e la si appoggia su un anello di paglia, che funge da supporto. Grazie al suo fondo tondo, la jabana può essere
questa volta appoggiata con una certa inclinazione, per facilitare la sedimentazione della polvere.
Il forno solare Sherarit (figura 7) è stato concepito con un simile sistema di inclinazione, per sfruttare un tipo
tecnologico (e dunque una gestualità) già in uso, e già legato culturalmente all'ambito della preparazione di cibi.
Non è un sistema di inclinazione razionalmente migliore degli altri, ma ha più probabilità di risultare già familiare a chi
lo dovrà utilizzare, e dunque di rendere “simpatico” l'oggetto agli occhi dei beneficiari del progetto.
Il forno solare “Sherarit” che ho presentato al cap. 2 (vedi figura 7) è stato progettato tenendo
presente che nella cultura Oromo, per la quale il forno era stato pensato, le donne non cucinano né
in piedi né sedute, ma accucciate a terra.
Ci è sembrato importante proporre una tecnologia che permettesse di mantenere tutta la gestualità
legata all'atto del cucinare, cambiando solo il combustibile (dalla legna alla radiazione solare).
Per questo il forno poggia a terra e non su un cavalletto rialzato.

Ma perché le donne Oromo cucinano accucciate e non comodamente sedute? E perché non in piedi?
E perché il “tin-tin” dovrebbe essere meglio del “toc-toc”?
Sono domande che non ha senso porsi, bisogna semplicemente accettare i dati di fatto: agli europei
non piace il “toc-toc” e continueranno a usare la ceramica per fabbricare i piatti; alle donne Oromo
non piace sedersi quando stanno cucinando, né stare in piedi.
Un forno solare non deve solo cuocere il cibo, deve farlo in maniera inculturata, altrimenti verrà
rigettato come un corpo estraneo.

L'effetto “piatto di plastica” consiste proprio nell'inconscio ed irragionevole rifiuto sociale a


priori per una determinata pratica tecnologica, per quanto ottima in sé stessa, a causa di
fattori soggettivi che dipendono da innumerevoli elementi storici, culturali ed ambientali.

Il piatto di plastica è la rappresentazione della difficoltà, da parte di ogni gruppo umano, a lasciare
una vecchia abitudine per prenderne una nuova e oggettivamente migliore.
Questa irrazionale difficoltà è tanto più grande quanto più l'oggetto in questione è legato alla vita
quotidiana (con un oggetto che usiamo una volta all'anno abbiamo meno problemi di adattamento
alle novità), e quanto più la nuova pratica chiede di modificare le abitudini, i riti e le gestualità
legata al suo utilizzo. L'effetto “piatto di plastica” distingue noi umani dagli automi.

Per fare un esempio concreto, voglio parlare del più eclatante “piatto di plastica” di cui sia mai
venuto a conoscenza. Si tratta dell'invenzione più semplice, geniale ed allo stesso tempo inutile22 di
tutta la storia della cooperazione internazionale: il sistema SODIS (figura 25).

Figura 25: Il sistema SODIS (SOlar DISinfection): una bottiglia di plastica esposta al sole. L'acqua si pastorizza in
poche ore per effetto dei raggi ultravioletti contenuti nella radiazione solare, risultando così potabile per circa 24 ore.
Dopo tale periodo la carica batterica torna a crescere, e l'acqua deve essere nuovamente pastorizzata.

22 I “piatti di plastica”, a differenza dei “chindogu” (vedi cap. 4, figure da 9 a 12) assolvono perfettamente la loro
funzione, non hanno nessun problema tecnico. Il loro problema è nella percezione che le comunità si creano di
quella tecnologia e del suo impiego. Usiamo l'aggettivo “inutile” quindi non per dire che non funziona, ma per dire
che un'insuperabile barriera culturale lo rende praticamente inutilizzabile.
SODIS è un potabilizzatore d'acqua efficace contro tutti i tipi di batteri e parassiti, dalla giardia al
colera, dall'ameba al tifo. Non costa nulla, dura molto senza manutenzione, è accessibile a
chiunque, semplicissimo da usare, dal risultato garantito. Consiste semplicemente in una bottiglia di
plastica lasciata al sole per una mezza giornata.
Se ogni famiglia africana adottasse questo elementare sistema di sanificazione, tutte le malattie che
si trasmettono attraverso l'acqua verrebbero debellate all'istante nell'intero continente.
Non esisterà mai una tecnologia più semplice, economica e funzionale di questa.
Eppure non si è mai sentito parlare di un luogo, una tribù, una regione e neppure di una singola
famiglia che impieghi questo sistema nella vita quotidiana, all'infuori dei programmi pilota.
Come mai?

Perché è un piatto di plastica, e nessuno vuole un piatto di plastica.

Figura 26: Un altro piatto di plastica, più elaborato, chiamato “life straw”.
Anche questo serve per purificare l'acqua, si tratta di un potabilizzatore portatile.
Succhiando con una certa forza, l'acqua passa attraverso un filtro di ceramica microporosa che trattiene le impurità,
inclusi i batteri. I filtri di ceramica esistono da un secolo e funzionano benissimo, per gravità. Si versa acqua sporca di
sopra e da un rubinetto sottostante, dopo qualche minuto, si prende quella potabile. Cosa aggiunge questo oggetto di
design alla già ben nota tecnica di filtrazione?
La possibilità, per le donne africane... di succhiare acqua pulita direttamente dal fiume sporco.
Funziona, è perfetta, ma – strano a dirsi – le donne africane non la vogliono neppure gratis.
7. Autocostruzione

Parlando di autocostruzione in contesto africano, il primo ed imprescindibile riferimento è senza


dubbio l'esperienza edilizia ed architettonica di Hassan Fathy23, in Egitto, nella seconda metà del
1900. E' importante tener presente che non stiamo parlando di cooperazione, perché Fathy era un
egiziano che lavorava in Egitto su programmi di edilizia popolare finanziati dal suo stesso paese,
dunque parliamo di un'esperienza squisitamente locale.
Si tratta comunque di una storia interessante sotto molti punti di vista, non ultimo il fatto che, per
molti versi, il programma ebbe esiti ingloriosi.

Figura 27: Disegni autografi di Hassan Fathy

Il governo gli affidò un intero quartiere popolare da costruire per alcune migliaia di abitanti,
persone che dovevano essere ricollocate da qualche parte.
Egli riuscì a lavorare in grande economia producendo spazi di straordinaria qualità architettonica,
grazie all'impiego esclusivo di mattoni crudi fatti di terra del posto.
I suoi accorgimenti tecnologici raffinatissimi permettevano alle case di terra di resistere anche ai
climi bizzarri di quei luoghi, comprese le inondazioni. Il clima interno era regolato da sistemi
passivi all'avanguardia, il tutto con un linguaggio compositivo fortemente locale e vernacolare.
Pensare che quelli, poco più a nord, erano gli anni del movimento moderno, fa una certa
impressione (figura 27).
Fathy volle coinvolgere i futuri abitanti nella progettazione e nella realizzazione del complesso, e
questo occupò molti anni di lavoro. Purtroppo le persone che dovevano andare ad abitare a New
Gourna non ne avevano nessuna intenzione. Dopo alcuni anni di lavoro le case furono poco a poco

23 H. Fathy, “Costruire con la gente”, Jaca Book, Milano, 1985.


abbandonate, prima ancora che l'insediamento fosse completato. Si trattava di una brutta zona di
periferia, lontano dai servizi della città, dunque rimase disabitata per decenni.
L'intervento fallì e Fathy ne parlò con grande amarezza nel suo saggio. Oggi New Gourna è un
quartiere molto in voga e le case originali di Fathy hanno prezzi elevatissimi... magra ricompensa.

Esponiamo ora, in generale, in concetto di autocostruzione, quel processo che Fathy cercò di
innescare senza successo. E' un concetto antico, un processo che fino all'epoca premoderna
costituiva il modo usuale di costruire le case in tutto il mondo.
In molti contesti africani ancora ognuno provvede a costruire la propria casa, ricorrendo a
professionisti solo per specifici compiti particolarmente delicati, come la stesura del manto di paglia
sul tetto o la produzione degli infissi.
Nei luoghi dove l'identità culturale è forte, perlopiù non c'è bisogno che nessun architetto vada ad
insegnare come si fanno le case, perché generalmente la tradizione ha già scoperto le forme più
funzionali e sostenibili per quella zona.
In altri contesti invece questo dono potrebbe non essere presente: senza arrivare al caso estremo dei
campi profughi, è sufficiente guardare ai luoghi dove alcune tribù sono state recentemente forzate a
passare dalla vita nomade a quella stanziale, o anche semplicemente a quelle rilocalizzate dalle
autorità pubbliche. Questi due casi sono frequentissimi in tutta l'Africa.
Si parla allora di autocostruzione “assistita” quando essa non è più il frutto di una tradizione locale
endogena, ma viene pilotata da un progettista – direttore dei lavori.
L'autocostruzione assistita può essere impiegata con profitto nei progetti di cooperazione: si presta
molto bene perché consente anche ai più poveri tra i beneficiari di contribuire al progetto offrendo
ore di lavoro. Questo consente di impostare un discorso di reale collaborazione anziché semplice
assistenzialismo. Inoltre un edificio autocostruito presenta in genere alcuni vantaggi, il più
importante dei quali è che l'utenza, avendo partecipato attivamente a tutte le fasi della costruzione, è
anche in grado di mantenere e riparare il manufatto.

L'autocostruzione è un processo molto interessante, in grado di abbattere i prezzi degli edifici, utile
ai fini dell'inculturazione e dunque certamente da tenere nel repertorio degli strumenti del
cooperante. Si veda, in proposito, l'esempio della chiesa di Webedidika nel capitolo sul “community
based approach”, cap. 1.
Tuttavia c'è una controindicazione che non bisogna sottovalutare (io credo di averlo fatto in più di
un'occasione): la dispersione delle competenze.
Puntare su un processo con il quale ciascuno costruisce la sua propria casa significa perlopiù che ciò
che gli utenti-operai apprendono in un cantiere non verrà mai più utilizzato.
Se si vuole introdurre qualche novità nelle prassi costruttive locali, ha molto più senso coinvolgere
chi già lavora in quel settore o formare ex-novo delle cooperative e delle imprese locali che, una
volta apprese le tecniche, potranno poi integrarle nella loro prassi professionale.

Ecco quindi che l'autocostruzione rappresenta un'arma a doppio taglio, che da una parte porta
innegabili benefici ma dall'altra crea un episodio isolato, che difficilmente contaminerà il contesto
in cui viene applicata. Può servire per una dimostrazione, per una sperimentazione o per la
realizzazione di edifici low-cost, ma attraverso di essa raramente si riesce ad interagire con il sapere
locale, a meno di non avere la fortuna di operare in quei luoghi dove essa è ancora il metodo
principale attraverso cui si produce edilizia.

Personalmente ho impiegato molte volte sistemi di autocostruzione assistita.


Mi è capitato di farlo sia a proposito che a sproposito, con buoni risultati o pessimi, come Fathy.
Vorrei qui raccontare un episodio piuttosto particolare in cui ho preso questa via con convinzione,
ma nonostante gli sforzi e le attenzioni, tutto si è chiuso con un completo fallimento.
Figura 28: Il metodo tradizionale di cottura è a fiamma libera, con enorme dispersione di calore e disomogeneità
della temperatura che porta alla rottura dei pezzi, come quello che si vede in basso a sinistra

Si trattava di lavorare con la comunità di vasai di Ropi.


Bisogna sapere che i vasai, insieme ai conciatori di pelli, rappresentano il gradino più basso della
società in moltissime aree del mondo, tra cui il villaggio in questione.
La gente si rifiuta di mangiare un pasto insieme a loro o di mandare i figli in scuole dove ci siano
anche i bambini dei vasai.
Essi parlano una lingua diversa dal resto del villaggio ed abitano in una zona a cui nessuno si
avvicina. Solo al mercato settimanale le persone li cercano, per acquistare i loro manufatti.
E' una delle comunità più emarginate e discriminate che vi siano.

Figura 29: L'incredibile “danza” dei vasai che, in mancanza di un tornio per far girare l'oggetto,
vi girano attorno essi stessi, per dare la forma alle terre cotte
La gente del posto, interrogata sulle ragioni di questa ghettizzazione, risponde in modi diversi:
alcuni dicono che sono sporchi, le loro mani hanno “la lebbra” e sono pieni di malattie infettive;
altri dicono che, mentre i contadini si avvicinano a Dio perché creano la vita dalla terra (le piante), i
vasai la bruciano e ne fanno cosa morta, inerte, dunque si avvicinano più a Satana; capita infine che
qualcuno gli attribuisca una natura più animale che umana, poiché stanno sempre ricurvi a terra.

Sia come sia, avevamo avuto un'ottima accoglienza dal clan dei vasai, quindi provai a proporre loro
un progetto: avremmo fatto un forno per cuocere i manufatti ed un tornio per modellare il
vasellame.
Il forno serviva per diminuire l'incredibile spreco di legna che si ha con la cottura a fiamma libera,
da loro usata: era una questione di protezione delle risorse naturali e questa fu la ragione per cui mi
fu facile far accettare il progetto al finanziatore. Un forno poi, oltre a ridurre la dispersione di
calore, genera una temperatura più uniforme, per cui i pezzi che si rompono durante la cottura a
causa dei differenziali termici diminuiscono di molto. Entrambi questi pregi contribuiscono a
diminuire la quantità di legna impiegata per numero di pezzi commerciabili.
La questione del tornio invece è più sottile: per quanto con esso si possa risparmiare un po' di
tempo e modellare manufatti leggermente più precisi, non sembra esservi un evidente beneficio
sulla produzione.

Figura 30: Il tornio a volano progettato e costruito con la comunità dei vasai di Ropi

Infatti l'idea non era tanto quella di migliorare la produzione, ma la dignità dei produttori: con il
tornio non avrebbero più lavorato piegati a terra, ma seduti e manovrando una “macchina”.
Questo, insieme ad un miglioramento dello standard di qualità (manufatti più precisi perché fatti al
tornio e di colore uniforme perché cotti in forno), unitamente a qualche campagna di
sensibilizzazione avrebbe forse potuto riscattare socialmente le comunità di vasai.
Forse la gente avrebbe iniziato a rispettarli quanto per esempio i sarti, che impiegano la macchina
da cucire, o chi fa qualunque altro mestiere seduto ad un banco da lavoro.
Quindi progettammo un tornio “appropriato”: nel villaggio non c'è elettricità quindi avrebbe dovuto
essere meccanico, e avremmo usato solo materiale reperibile facilmente in tutta l'Etiopia.
Pensammo all'autocostruzione per la semplice ragione che nessuno avrebbe mai costruito e
commercializzato prodotti destinati ai vasai.

D'altra parte erano cose molto semplici da fare, così realizzammo forno e tornio insieme a loro,
passo dopo passo, discutendo ogni dettaglio.
Il forno è fatto di mattoni di terra, un'unica camera di combustione e cottura rivestita in cocci di
vaso per la coibentazione, con un camino centrale ed una copertura leggera in terra e letame.
Il tornio invece è un volàno in cemento posato su un cuscinetto reggispinta (pezzo di ricambio della
moto) che fa girare sul suo asse un tubo metallico e dunque un piatto di compensato: il volano si
aziona con il piede, accelerandolo per una trentina di secondi, dopodiché si ha all'incirca lo stesso
tempo prima che esso perda la spinta e necessiti di una nuova accelerata.
I vasai apprezzarono il tornio ed iniziarono ad usarlo per molti dei loro manufatti, ma soprattutto
apprezzarono il forno, che aveva un ritorno economico significativo.

Quindi in realtà ho detto una bugia in apertura quando ho parlato di fallimento completo, la cosa di
per sé ha funzionato abbastanza bene.
Quello che non ha funzionato è stata la fase successiva, quella di manutenzione e replicazione.
Pensavo che sarebbe stato facile e quasi spontaneo per i vasai prendere a cuore gli strumenti,
mantenerli, ripararli ed andare in altri villaggi per estendere le loro nuove tecniche ad altre comunità
che fanno lo stesso mestiere, ma mi sbagliavo di grosso: quelle persone hanno assorbito talmente
tanto odio immotivato per talmente tante generazioni, da aver iniziato a disprezzarsi anche da soli, e
pensare di non meritare nulla.
Non credo che il nostro tornio verrà riparato quando il cuscinetto sarà usurato, si tornerà
semplicemente “alla vecchia maniera”, e questo è il fallimento.

Figura 31: Alcuni manufatti dei vasai di Ropi, prima della cottura
8. Tecnologie intermedie

Le tecnologie intermedie sono una famiglia, molto vasta e prolifica, di tecnologie


appropriate. Sono caratterizzate dall'avere un approccio a metà strada tra le soluzioni
tradizionali e quelle industriali, ed essere particolarmente convenienti nei contesti dove l'industria
pesante è assente e troppo costosa per essere importata.

In realtà, alcuni esempi di tecnologia intermedia sono stati già descritti in queste pagine, nel
capitolo sull'ibridazione (aratro migliorato, cap. 5) ed in quello sull'autocostruzione (tornio e, ancora
di più, forno, cap. 7).
Sceglieremo ora un esempio che renda più chiare e comprensibili le caratteristiche di questa classe
tecnologica: l'arnia kenyota.
In quanto “intermedio”, l'oggetto si colloca a metà strada tra un estremo tradizionale ed uno
industriale. Nel nostro caso questi estremi sono rappresentati rispettivamente dall'arnia tradizionale
africana e dalle arnie a cassetto, in Africa spesso chiamate “modello olandese”.

La tradizione africana, in tante aree anche molto distanti tra loro, ha prodotto una sorta di alveare
artificiale, costituito da un cilindro di stuoia leggera aperto all'estremità inferiore e chiuso con un
piccolo tetto conico all'estremità opposta. L'arnia viene incastrata tra i rami di un albero, al riparo
dai predatori; spesso sul tronco dell'albero si mette un disco di lamiera che impedisca a sciacalli,
topi, puzzole ed altri piccoli predatori di arrivare all'alveare. Le api vengono attratte con del cibo,
oppure – in maniera un po' più spiccia – la regina viene rapita da un alveare naturale, le vengono
strappate le ali e viene “forzata” a generare una nuova colonia. L'alveare avrà le celle disposte sulla
base chiusa, su un'area piuttosto piccola. Per prendere il miele, bisogna affumicare l'arnia per
scacciare le api (cosa che lascia un evidente odore di fumo al miele) e rimuovere i favi, per poi
romperli. Si tratta di uno shock da cui spesso la colonia non si riprende (figura 32).

Figura 32: Arnie tradizionali africane (fotografate in Niger)

All'estremo opposto abbiamo l'arnia a cassetti, o “olandese”. Si tratta di un dispositivo molto più
efficiente, ma anche molto più complesso (figura 33).
Il cassetto inferiore è la residenza della regina, separata dal resto dell'alveare da un buco abbastanza
grande perché ci passino i fuchi, ma troppo piccolo per il grande ventre della regina, che quindi non
può uscire (con questo stratagemma, si evita di doverle strappare le ali). Gli altri cassetti
contengono tra i 10 e i 20 telai, tutti paralleli, ordinati in verticale. Ai telai sono fissati altrettanti
fogli di cera, tutti perfettamente equidistanti. Lo spazio tra un foglio di cera ed il successivo deve
essere calcolato con cura in base allo “spazio di manovra” delle api di quella determinata specie
(che dipende direttamente dalle dimensioni fisiche delle api operaie): deve essere calibrato affinché
due individui possano lavorare schiena contro schiena alla fabbricazione dei favi.
Se la distanza è un po' troppo piccola, i fuchi si comporteranno da schizzinosi, e non costruiranno
nemmeno un favo. Se è troppo grande, essi riempiranno l'avanzo con una crosta di cera, che renderà
impossibile rimuovere il singolo telaio, e dunque asportare il miele. Pochi millimetri possono essere
sufficienti per causare innumerevoli problemi.
Si è però ripagati dello sforzo al momento della raccolta del miele: con queste arnie, è sufficiente
vestire una tuta da apicoltore, estrarre i telai uno ad uno e scapitozzare con una lama i favi di cera.
Togliendo il miele un po' per volta, diminuisce di molto lo shock per la colonia, che non ne risente e
non abbandona mai il proprio ricovero.

Figura 33: Veduta interna di un'arnia a cassette, modello olandese

L'impossibilità di avere opere di falegnameria di precisione millimetrica, ha portato le


Organizzazioni Non Governative a cercare delle vie alternative alle arnie a cassette, ma più
redditizie di quelle africane tradizionali. E' nata in questo modo la cosiddetta “arnia
intermedia”, o “arnia a culla”, o ancora “arnia kenyota” (figura 34).
Si tratta di un modello realizzato in tavole di legno, che non richiede precisione millimetrica, ma al
contempo aumenta di molto la redditività rispetto a soluzioni tradizionali.
Vi si trovano più telai, ma distanziati talmente tanto che le api li percepiscono singolarmente,
facendo dunque cadere il problema delle distanze “millimetriche”.
Rendono circa la metà di quelle a cassette, ma condividono con esse le principali caratteristiche
vantaggiose: nessuna necessità di affumicamento, nessun rischio di perdere la colonia di api,
maggiore produttività, sicurezza nelle manovre di estrazione, maggior comfort per la colonia.

Figura 34: Un'arnia intermedia (modello “Kenyota”)


9. Income Generating Activities

Sempre più spesso i bandi di finanziamento EU e MAE richiedono esplicitamente o


comunque caldeggiano la creazione di attività generatrici di reddito: avvio di nuove cooperative,
partnership innovative profit - no profit, trasmissione di know-how tecnici specifici, formazione
all'imprenditoria.
Capita di frequente che i bandi che prevedono queste attività si esprimano con la logica grezza e
ruvida dell'“aiutiamoli a casa loro” (sottintendendo: in modo che non vengano qui in Europa), tanto
che l'unico indicatore che è sempre richiesto è il numero di nuovi posti di lavoro creati: si
presuppone che chi ha un'occupazione redditizia si “radichi” al suo territorio, e dunque perda lo
stimolo a lasciare la sua casa per diventare un “migrante economico”.
Questo postulato, per quanto in apparenza ragionevole, è in contrasto con tutte le osservazioni
dirette sulla realtà. Esiste una regola empirica ben nota a tutti quelli che lavorano nel settore24: al
miglioramento delle condizioni di vita, corrisponde un aumento – e non una diminuzione –
dell'emigrazione.
Solo quando il PIL procapite supera un certo punto critico, sempre compreso tra i 7.000 ed i 9.000
USD annui, un ulteriore innalzamento del benessere inizia a frenare l'emigrazione.
Questo fenomeno è stato battezzato “migration hump”25, e su di esso esiste una ricchissima
bibliografia, dal 1996 ad oggi.

Figura 35: Variazione dei flussi migratori (in percentuale sulla popolazione totale)
in funzione del PIL procapite (in dollari americani)

Quindi in realtà, quando la cooperazione riesce a creare nuove attività redditizie, dunque nuovi posti
di lavoro e nuova ricchezza, il primo risultato è un aumento delle migrazioni da quel paese, non
una diminuzione.
Chi scrive i bandi fa finta di non sapere tutto ciò, perché l'unica alternativa sarebbe non finanziare
nessun programma di cooperazione o – paradossalmente – aiutare solo chi già sta piuttosto bene.
Chi invece ai bandi partecipa per finanziare le proprie attività, mente sull'obiettivo generale del
progetto, dichiarando qualcosa del tipo: “migliorare le condizioni socio-economiche del paese X, in
modo tale da ridurre le cause prime delle ondate migratorie da quel paese verso l'Europa”. La prima

24 Vedi ad esempio M. L. Flahux e H. De Daas, “African Migration: trends, patterns, drivers”, in Comparative
Migration Studies, 2016
25 “Migration hump” letteralmente significa “gobba della migrazione”; il nome si riferisce al grafico riportato in figura
35, che presenta un'evidente convessità. Questo nome è stato attribuito al fenomeno da P. L. Martin e J. E. Taylor nel
1996 (vedi bibliografia).
parte è vera, la seconda è propaganda.
D'altra parte generalmente le ONG, le ONLUS e le Università, ossia chi cerca questo tipo di
finanziamenti, considera il miglioramento delle condizioni socio-economiche di un determinato
luogo come un obiettivo in sé, indipendentemente dal fatto che questo aumenti o diminuisca i flussi
migratori verso l'Europa.

Prescindendo ora dalle bugie che qualche volta si è costretti a raccontare per accedere a certi
finanziamenti, l'avvio di attività generatrici di reddito è perlopiù un'ottima cosa.
Certamente bisogna rispettare alcune condizioni: non bisogna fare concorrenza sleale ad esercizi
locali preesistenti, l'attività deve essere studiata nel dettaglio con i partner locali, deve essere
compatibile economicamente ed ecologicamente con il contesto, e via dicendo.

Generalmente le ONG rispettano tutte queste condizioni, creando nuove nicchie, ottimizzando dei
processi ed impiegando in modo sostenibile le risorse locali.

In Senegal ho partecipato ad un progetto per l'avvio di una nuova lavanderia/saponificio nella città
di Tambacounda, per il MAGIS di Roma.
L'attività è stata concepita nel 2014 ed ha richiesto più di due anni per vedere la luce.
Le beneficiarie sono state formate sia dal punto di vista tecnico, sia manageriale e contabile.
E' stato costituito un primo piccolo gruppo, che ha poi esteso i training ad altre donne.
Ad oggi, più di venti donne del quartiere si sono costituite in cooperativa: ritirano e consegnano la
biancheria a domicilio in bicicletta, fanno buoni prezzi perchè si producono il sapone da sé ed
hanno scavato un pozzo per l'acqua nel terreno della lavanderia. Lavorano per privati, ma anche per
hotel e ristoranti nei dintorni.
Alcuni dei mariti si danno i turni per il guardianaggio e per i lavori di manutenzione, tutto sembra
funzionare piuttosto bene.

Figura 36: La lavanderia sociale di Tambacounda in costruzione

Il problema di questo genere di attività è la necessità di un follow-up molto lungo: tutto potrebbe
andare bene per mesi, magari anni, ma poi collassare non appena si guasta una lavatrice. Oppure
quando il primo funzionario pubblico chiede una tangente. Si può fare progetti di questo tipo solo
quando si ha una controparte locale forte e stabile, che nel nostro caso era il Centro S. Pierre Claver,
diretto dai gesuiti locali.
Se non c'è costanza nel follow-up, nel giro di pochi mesi dall'avvio queste attività sono destinate a
non funzionare, inesorabilmente.

Tra i progetti di successo che ho potuto visitare e a cui ho partecipato, in questo settore, le attività
più interessanti sono state: estrazione meccanica di olii vegetali in Guinea Bissau (PS76), un
panificio per ristoranti (Let Us Change), produzione di olii essenziali medicinali (Improving People
Opportunities), un'impresa per costruzioni in mattoni di terra (13 Sunshine Development
Association), un caseificio bovino (Araara Ethiopia), un ristorante (frati Comboniani - Senegal),
itticultura abbinata ad orticoltura idroponica (Università di Bergen), unit di posatori di
pavimentazioni stradali in pietra (GTZ, oggi GIZ), apicoltura e commercializzazione di latte di
cammello (Slow Food - Ethiopia).

A fronte di questi (pochi) successi e degli innumerevoli insuccessi che ho potuto constatare
personalmente, credo si possa dedurre almeno una regola generale: il business è una cosa difficile, e
bisogna lasciarlo fare a chi lo sa fare.
Non bastano le competenze tecniche e contabili, serve che questi progetti siano seguiti da chi ha
fiuto per gli affari ed esperienza nel settore.
Raccomando quindi, a chi intendesse avviare un'attività generatrice di reddito, di avvalersi della
consulenza di qualche uomo d'affari che conosca bene la realtà locale (quadro normativo, cultura,
schemi di tassazione, etc.), cosicchè i propri sforzi non vadano vanificati.
E' inoltre importante che chi gestisce queste attività (gruppo di beneficiari) abbia la possibilità di
guadagnare, di arricchirsi grazie ad essa, senza un limite prefissato. E' questa la miglior garanzia di
successo.
10. Sviluppo tecnologico

Per “sviluppo tecnologico” intendiamo il processo che porta una comunità di persone
all'acquisizione di tecniche sempre più adatte alle istanze proprie e dell'ambiente.
Questo processo è indiscutibilmente legato al benessere sociale e a quello individuale
nell'evoluzione storica; la sua velocità e capillarità determinano la diffusione di tale benessere.
In ambito di cooperazione, lo sviluppo tecnologico viene stimolato principalmente attraverso due
paradigmi, denominati rispettivamente knowledge transfer e knowledge sharing.

Il “knowledge transfer” (trasferimento di conoscenze) consiste nell'insegnamento dei princìpi e


delle pratiche legati a una determinata tecnologia, in modo che essa possa essere compresa,
impiegata, gestita (mantenuta, riparata, smaltita) ed al limite riprodotta dal destinatario.
Il “knowledge sharing” (condivisione di conoscenze) si differenzia dal precedente sostanzialmente
perchè la condivisione, al contrario del trasferimento, implica una bidirezionalità nello scambio di
informazioni. Si tratta di sedersi insieme attorno a un tavolo per mettere a fuoco un determinato
processo tecnologico ed elaborare alternative migliori.
La fase di mero insegnamento, che pure è presente, viene integrata con una precedente di lettura del
contesto, ascolto dei destinatari ed eventuale rimodulazione dell'oggetto stesso o del modo di
presentarlo e con una successiva di follow-up, risoluzione dei problemi e revisioni conseguenti.

E' importante notare (vedi figura 37) che, attraverso il “knowledge sharing”, il coinvolgimento dei
destinatari riguarda tutti i livelli del processo: la raccolta dei dati, la loro trasformazione in
informazioni, la sintesi di esse in una conoscenza e l'impiego fattuale attraverso la saggezza.

Figura 37: I quattro livelli gerarchici del “knowledge management”, così come enunciati da Ikujiro Nonaka 26

Se il metodo del trasferimento viene normalmente impiegato in ambito informatico, medico ed in


generale quando la complessità tecnologica rappresenta un ostacolo insormontabile, in tutti gli altri
settori la via della condivisione risulta in generale più efficace.
C'è un detto piuttosto conosciuto tra cooperanti: “se vuoi aiutare qualcuno non regalargli del pesce,
ma insegnagli a pescare”. Il paradigma del knowledge sharing propone di fare un passo in più, che
in pratica consiste nel mettersi a pescare insieme.
I workshop di architettura che la SUPSI organizza in Africa (vedi appendice A) si svolgono in
partnership con Università ed Istituti di ricerca locali proprio nell'ottica di condivisione di tutto il
processo, dall'individuazione di problemi e risorse alla programmazione e preparazione, fino alla
realizzazione manuale del manufatto edilizio.

26 D. Astrologo, S. Garbolino, La conoscenza partecipata, Milano, Egea, 2013


Con la sezione genovese di Ingegneria Senza Frontiere, nell'estate del 2008, organizzammo un
atelier di progettazione condivisa, della durata di un mese.
Una dozzina di studenti di architettura ed ingegneria dell'Università di Genova lavorarono in team
con altrettanti studenti etiopi, dell'Università di Hawassa.
Lo scopo era quello di produrre un'unità abitativa minima attraverso l'impiego esclusivo di terra
stabilizzata27 e bambù.
Prima gli studenti etiopi mostrarono ai colleghi italiani gli impieghi tradizionali di terra e bambù nei
dintorni, illustrando anche i processi e le tecniche costruttive. Ne seguì una discussione con
successive ibridazioni, dapprima poco realistiche e poi sempre più percorribili.
Il team si divise in diversi gruppi che studiarono diversi aspetti del problema: qualcuno si occupava
delle connessioni, qualcuno dell'attacco a terra, qualcuno della preparazione e del trattamento dei
materiali. Poi periodicamente ci si riuniva ed ogni gruppo esponeva ciò che aveva trovato, dando
modo agli altri di intervenire, domandare e proporre la propria visione.

Figura 38: La fase di messa in opera della struttura in bambù. Si noti la cucitura al centro, che riunisce su un parallelo le due metà
originariamente connesse su due meridiani

Grazie alla fantasia dei partecipanti, il risultato fu un sistema costruttivo veloce ed efficace.
Chiedemmo a dei costruttori tradizionali di realizzare una sorta di grande cesto alto 3 metri e di
uguale diametro. Poi tagliammo il cesto a metà lungo un asse di simmetria. Ruotammo le due metà
di 90°, in modo tale che i due semicerchi massimi coincidessero e potessero essere cuciti tra di loro.
Ottenemmo così un ellissoide, una specie di mezzo guscio d'uovo lungo 6 metri, largo 3 ed alto 1,5.
Realizzammo un rettangolo di muratura di 3 metri per 6 su cui appoggiammo la struttura di bambù,
per poi rivestirla con lo stesso intonaco di terra stabilizzata che copriva le pareti.

27 Per “terra stabilizzata” si intende un impasto di terra addizionata con uno stabilizzante. In genere si impiega cemento
o calce, con percentuali comprese tra l'8% ed il 15%. In questo caso invece, data la fragilità della terra a
disposizione, impiegammo il 5% di bitume. Esso aumenta l'elasticità dell'impasto e fornisce una buona protezione
all'azione della pioggia, pur non aumentando in maniera significativa la resistenza meccanica.
Figura 39: Il rinzaffo esterno della copertura, in terra stabilizzata con il bitume.

Risultati interessanti sono stati ottenuti anche con una pratica detta “self knowledge sharing”:
LVIA nel 1985 prese in esame 40 differenti stufe a legna tradizionali provenienti da altrettanti
gruppi etnici dell'Etiopia e dell'Eritrea (che allora erano un unico stato). Analizzarono le
temperature, i tempi di cottura, le quantità di legna impiegate, fecero un lavoro di ricerca ed analisi
piuttosto approfondito, paragonando le rese dei diversi modelli. Risultò che uno di essi, quello in
uso presso i Tigre del sud, aveva un'efficienza molto superiore a tutti gli altri. Così organizzarono
giornate dimostrative ed eventi di sensibilizzazione in molti villaggi del paese mostrando i vantaggi
di quel tipo particolare di stufe, ottenendo che molti clan adottassero il nuovo modello nelle loro
famiglie.
Si tratta di creare una rete tra persone che normalmente non hanno occasione di confrontarsi a causa
delle difficoltà negli spostamenti, e di fornire loro un sistema scientifico di valutazione ed analisi.
Progetti così concepiti sono stati fatti anche con tecnologie costruttive e metodi di coltivazione da
varie associazioni, e molti di essi hanno raggiunto l'obiettivo.
11. Digital Development (ICTs)

Siamo nel 2016.


Il partito di governo etiopico ha vinto da pochi mesi le elezioni politiche con un'affluenza superiore
al 96% ed un consenso del 98%: neppure un singolo seggio è stato vinto dall'opposizione.
Si creano dei malumori, soprattutto nella regione dell'Oromia, che presto sfociano in manifestazioni
e cortei. La polizia reprime brutalmente ogni tentativo di riunione pubblica, molte persone filmano
con i propri cellulari scene di violenza contro i manifestanti Oromo.
Una tv satellitare che dall'America trasmette in lingua Oromo riprende i filmati con grande enfasi,
così dai cortei si passa agli scioperi e da questi alle azioni dimostrative, come la chiusura di strade
statali con enormi mucchi di pietre o gli incendi dolosi appiccati a mezzi e proprietà del governo.
Per arginare la situazione e non correre il rischio di un colpo di stato, il governo vorrebbe chiudere
quella rete satellitare, che però invia il suo segnale dall'estero, risultando non oscurabile. Rimane
una sola soluzione: andare casa per casa in tutta la regione, scovare chi ha orientato la parabola
verso il “canale proibito”, imprigionare il padrone di casa e distruggere a bastonate parabola,
decoder e televisione. In molti però hanno nascosto la parabola nella stalla, sotto a un mucchio di
fieno. La tirano fuori solo di notte, riuscendo a tenersi informati su ciò che succede, sulle strategie
di protesta e sulle iniziative per i giorni a venire.
Per evitare l'organizzazione di eventi locali, i servizi segreti bloccano tutti i social network per molti
mesi: facebook, whatsapp, telegram, viber e gli altri, da un giorno all'altro, risultano inutilizzabili da
tutto il territorio nazionale. Ma i ribelli hanno un'arma segreta nella manica, chiamata “Psiphon3”:
si tratta di un progetto open source messo gratuitamente in rete dall'Università di Toronto28,
un'elaborata combinazione di tecnologie di offuscamento diffuse su migliaia di server proxy in tutto
il mondo. E' un'applicazione da installare sul cellulare (o sul computer) che cripta il segnale e lo
devia verso paesi liberi, creando così dei flussi di informazione “pirata” che riescono a scavalcare le
barriere digitali poste dai governi non democratici.
Il governo reagisce mettendo Psiphon3 fuori legge, i contestatori lo nascondono in qualche cartella
interna dei loro cellulari.

Figura 40: Un blocco stradale improvvisato dai manifestanti in Etiopia nel 2016. Attraverso i social network centinaia di persone si
davano appuntamento in un luogo prestabilito ed in pochi minuti costruivano un muro in grado di bloccare i mezzi delle forze
dell'ordine. Centinaia di questi blocchi hanno arrestato il traffico in tutta la regione per molte settimane.
Queste immagini, sempre pubblicate con una risoluzione abbastanza bassa da rendere irriconoscibili i volti delle persone, avevano
una risonanza enorme attraverso i social e la televisione satellitare, provocando infinite emulazioni autonome.

Una guerriglia ben strana, che è stata combattuta con bastoni e satelliti stazionari, con mucchi di
pietre e criptatori di segnale digitale (vedi “Ibridazione”, cap. 5).
In pochissimo tempo è nata dal nulla una rete organizzata di contadini, studenti, donne, che è stata

28 Psiphon è definito dai propri creatori uno “strumento open-source per aggirare la censura in rete”.
Per una descrizione dettagliata: http://psiphon.ca/?page_id=94
capace di portare avanti strategie organizzate ed agire come un unico corpo.
Grazie a ciò, Davide ha ottenuto da Golia quello che chiedeva: qualche seggio d'opposizione in
parlamento, il rilascio di una grande quantità di prigionieri politici e un po' di voce in capitolo
dell'Oromia sulle questioni nazionali.
Nell'esempio appena riportato, le ICTs (Information and Communication Technologies) hanno
giocato un ruolo importante per una battaglia politica. In altre realtà esse hanno avuto un ruolo
importante nello sviluppo economico grazie alla creazione di piattaforme di e-commerce, creazione
di start-up, fab-lab e acceleratori di impresa.
A Kigali, in Rwanda, Aphrodice Mutangana ha fondato Klab29, un incubatore di imprese digitale
che ha già avviato più di 70 start-up. Una di esse, AcGroup, si sta occupando di digitalizzare i
trasporti di tutto il paese: già oggi su tutti i mezzi pubblici della capitale è possibile pagare la tariffa
strisciando una carta prepagata su un apposito lettore.
Un altro settore in cui le ICTs vengono impiegate come strumento di sviluppo è quello medico-
sanitario. APOF30 da diversi anni ha installato in molti paesi africani laboratori di analisi
prevalentemente per la prevenzione del tumore della mammella, formando tecnici locali per
raccogliere i dati e collegati via satellite con patologi italiani in grado di valutare le situazioni
attraverso i vetrini trasmessi elettronicamente.

Nel 2016 presi parte ad un progetto di JHC (Jesuit Hakimani Centre) nel Nord del Kenya, in cui le
ICT sono state impiegate in due attività.
La prima riguardava l'accompagnamento ad un processo di pacificazione tra due tribù, i Turkana e i
Borana, che erano in lotta tra loro da diversi anni: i social network furono usati per diffondere
messaggi di pace e fratellanza provenienti dai leader religiosi cristiani e musulmani e dagli anziani
di entrambe le etnie, proposte di progetti di interscambio ed altre attività comuni.
La seconda attività riguardava un particolarissimo concorso di idee indetto a livello regionale
chiamato “Think Positive, Alternatives exist!”: venivano offerti dei corsi on-line su riciclo,
trasformazione di prodotti agricoli ed altri possibili modi per aumentare il valore di ciò che è
disponibile sul luogo, dopodichè si chiedeva l'invio di idee originali per l'avvio di attività redditizie
sostenibili. I primi tre classificati avrebbero vinto il sostegno economico ed amministrativo per
avviare le attività presentate.
Si classificarono per primi un ragazzo che aveva trovato il modo per modellare e lucidare schegge
d'osso per farne collane e bracciali, una ragazza che voleva fare i succhi di frutta in stagione di
piogge per rivenderli quando è secco ed un gruppo di giovani che ha avviato una pasticceria a base
di patate dolci e cassava. Anche gran parte della formazione e del follow-up è stato fatto per via
telematica.

Figura 41: Un bracciale ottenuto dal riutilizzo di ossa bovine, materiale di scarto delle macellerie.
Si tratta di uno dei progetti premiati dal concorso “Think Positive, Alternatives Exist!” indetto da JHC nel 2016.

29 Vedi https://klab.rw/
30 Associazione Patologi Oltre Frontiera, ONLUS aderente al Consorzio SPeRA.
Si parla di ICT4D31 (ICT for Development) intendendo proprio quegli sforzi tesi a ridurre il divario
digitale che separa il nord e il sud del mondo, a beneficio dello sviluppo sociale, culturale, politico
ed economico dei popoli.
Tra tutti i progetti ICT4D mai avviati in Africa, il più grande e strutturato è denominato infoDev32,
un programma multi-donatore del World Bank Group che supporta le imprese orientate alla crescita
attraverso incubatori e centri di innovazione, mira a aiutare i paesi africani a sfruttare le ICT per
raggiungere i propri obiettivi di sviluppo creando la capacità locale.
Gli esiti di questo programma sono ampiamente discussi33: se da una parte esso ha contribuito
enormemente alla diffusione capillare delle telecomunicazioni nel continente, d'altra parte esistono
dei punti critici evidenti: i costi per la manutenzione delle reti sono molto onerosi, raramente si
misura una riduzione del divario tra ricchi e poveri, e le start-up incontrano molti più problemi di
quanti non ne siano riportati sui report ufficiali.

Figura 42: Il “cubo di Hilbert” o “cubo delle ICT4D”, così come proposto da Martin Hilbert 34

31 Vedi https://en.wikipedia.org/wiki/Information_and_communication_technologies_for_development
32 Vedi www.infodev.org/about
33 Vedi "The Transformational Use of Information and Communication Technologies in Africa"
www.eTransformAfrica.org. Retrieved 28 November, 2014
34 Hilbert, M. Towards a Conceptual Framework for ICT for Development: Lessons Learned from the Latin American
“Cube Framework”. Information Technologies & International Development, 8(4, Winter; Special issue: ICT4D in
Latin America), pp. 243–259; 2012 http://itidjournal.org/itid/article/view/967
12. Errore

Raccontando i progetti sperimentali cui mi è capitato di partecipare, spero di non aver dato
l'idea che la cooperazione e le tecnologie al suo servizio siano argomento totalmente pionieristico,
all'interno del quale ciascun operatore deve trovare da sé le soluzioni più adatte partendo da zero.

In realtà esiste una bibliografia più vasta di quanto si possa immaginare a riguardo e dedicarsi
ad una qualunque sperimentazione senza prima aver studiato per bene quelle fatte dagli altri su temi
simili, prima che essere un gesto arrogante, è assolutamente stupido.
In ogni attività esistono dei problemi insiti, che sono sempre gli stessi. Ogni problema che ci
troviamo ad affrontare è stato già risolto centinaia di volte in molti modi diversi e non ha molto
senso pensare ad una propria via senza essersi documentati sull'efficacia o meno di tutte quelle già
provate.
Nel campo delle tecnologie sociali esistono diversi database che si possono consultare
gratuitamente on-line35, ma è sempre bene anche parlare personalmente con qualcuno che si
occupa di cose simili a quelle su cui si vuole intervenire36: una buona fase di indagine iniziale può
far risparmiare tempo, soldi, fatica e credibilità.
Oltre a questo tipo di informazioni generali, è anche saggio rivolgersi agli enti locali preposti allo
sviluppo nell'area dove si vuole intervenire: ad essi bisogna chiedere notizie di precedenti progetti
nella zona e lasciare copiosa documentazione di quello che si fa al termine dei lavori, in modo tale
che il patrimonio di esperienza non vada perduto.
Gli enti locali di cui sto parlando sono gli uffici di governo (di zona e centrale), le università, i
centri di ricerca e le organizzazioni della società civile.

Vorrei fare una riflessione su un aspetto particolare dell'attività sperimentale, non solo in ambito
tecnologico.
La cooperazione allo sviluppo è una disciplina giovane, ha una cinquantina d'anni appena.
I punti fermi sono pochi, sia negli obiettivi che nella metodologia, ogni ente ha un suo modo di
intendere lo sviluppo e di perseguirlo attraverso i suoi progetti.
Manca totalmente un qualsiasi tipo di connessione tra enti diversi che operano nella stessa area,
capita spesso che programmi simili si sovrappongano su certe zone lasciandone altre totalmente
scoperte, altri programmi entrano addirittura in conflitto tra di loro.
Esiste un'ampia bibliografia37 che dimostra puntualmente i fallimenti di decenni di cooperazione,
mentre le testimonianze di progetti che realmente hanno innescato processi di sviluppo endogeno
sono estremamente rare (e non sempre vere).

Facendo un discorso forse un po' semplicistico ma credo sostanzialmente giusto, imputo tutto
questo sfacelo ad un unico “peccato originale” del sistema: il ruolo della diffusione degli
errori, indispensabile in ogni disciplina, in cooperazione non è riconosciuto essere importante.
Perlomeno, non quanto la comunicazione dei successi (veri, gonfiati o completamente inventati che
siano, tanto chi va veramente a controllare?).
Gli errori non vengono segnalati, spesso neppure all'interno della ONG che li ha commessi e
comunque mai ai finanziatori (e dunque al resto del mondo).

35 Il più completo e facile da fruire penso che sia www.appropedia.org; anche www.engineeringforchange.com è stato
ampliato parecchio negli ultimi anni. Da un'angolazione diversa, è interessante anche www.humanitarianlibrary.org.
36 Esiste un registro nazionale delle ONG che dice di cosa si occupa ciascuna. In genere, nel campo delle tecnologie
appropriate, interrogare Ingeneria Senza Frontiere o LVIA può essere una buona idea.
Anche il Consorzio SPeRA ha reso disponibile on-line un ricco database, raggiungibile all'indirizzo
http://www.consorziospera.org/progetti/view#/lista. Vi si trovano raccolti attualmente più di 600 progetti
implementati da 350 associazioni italiane in Africa.
37 “I disastri dell'uomo bianco”, di W. Easterly (Milano, 2007) è un ottimo libro a riguardo, contenente una bibliografia
piuttosto articolata e ragionata sull'argomento.
Il segreto di Pulcinella è che tutti fanno errori in tutti i progetti che implementano, più o meno
grossi.
Nessuno “paga” per questi errori, come se il solo fatto di averli commessi in buona fede
comportasse in automatico l'autoassoluzione e – cosa ancora più grave – nessuno impara da essi, dal
momento che vengono puntualmente nascosti, mascherati ed imputati a fattori imponderabili.
Nessuna ONG, da quelle più piccole fino ai grandi colossi, offre un database degli errori fatti
liberamente consultabile.
Gli indicatori vengono messi nei progetti per bellezza, per rendere il tutto più credibile, ma nessuno
chiede conto del loro raggiungimento38, men che meno delle ragioni dello scollamento tra
programmato e realizzato.
Finché gli enti di cooperazione non si doteranno di un sistema serio di raccolta ed analisi degli
errori, non potranno mai migliorare il loro operato, sarà un eterno nuovo inizio. L'ideale sarebbe che
ciascuno pubblicizzasse i propri errori, fornendo i dettagli sulle cause e sulle conseguenze, in modo
tale che possano diventare patrimonio comune.
Durante i miei giri per l'Africa ho visto ONG fare e rifare fino allo sfinimento lo stesso errore,
sempre come se fosse la prima volta. Molti di questi errori li ho fatti anche io credendo che
fossero in qualche modo originali, per poi scoprire negli anni che si trattava di errori “standard”.
Tanto per menzionarne qualcuno: le fondazioni degli edifici in terra non devono essere
impermeabilizzate; le cupole in blocchi è meglio che non abbiano controcurvatura nella parte bassa;
gli impianti di biogas devono avere un digestore di almeno 10mc altrimenti non sono convenienti, il
microcredito va fatto solo alle donne perché gli uomini non restituiscono mai il prestito; l'orticultura
funziona solo se si impiegano ortaggi già conosciuti ed apprezzati dalla popolazione.

Ecco, questo è un mio piccolo contributo personale, che volentieri pubblicherei fornendo tutti i
dettagli se vi fosse una sede per farlo, anziché l'omertà assoluta.
Una volta chiesi in sede formale al delegato di un famoso finanziatore istituzionale lombardo perché
non mettesse, tra le clausole del contratto che firmava con le ONG cui erogava i fondi, l'impegno a
riservarne una piccola percentuale per fare un'analisi degli errori a chiusura progetto,
obbligatoriamente.
Mi fu risposto che non avrebbe “giovato a nessuno”.
Sono anni che ci penso, e non ho ancora capito a cosa si potesse riferire quella risposta: a chi non
avrebbe giovato?
Le ONG dopo un po' imparerebbero che l'errore non è una vergogna da nascondere ma
un'esperienza preziosa se condivisa, i donatori saprebbero di finanziare progetti più trasparenti ed i
beneficiari ne gioverebbero più di tutti, perché i progetti sono a loro vantaggio, e diventerebbero
molto più efficaci se chi li fa iniziasse ad imparare dagli errori propri ed altrui. A chi conviene
nascondere la polvere sotto il tappeto?

L'Unione Europea, con alcuni recenti bandi, sembra andare un poco in questa direzione.
Ci auguriamo non rimangano esperienze isolate.

38 Il discorso degli indicatori è complesso ed articolato. Esistono indicatori “fisici”, quelli che perlopiù si riferiscono
alle attività ed in misura minore ai risultati attesi, essi sono facili da valutare ed infatti spesso vengono controllati a
fine progetto, ma hanno il difetto di non voler dire nulla, se non che i soldi sono stati in effetti spesi. Si tratta dei
metri quadri costruiti, del numero di kit distribuiti, della durata dei training, cose di questo genere.
Poi invece ci sono gli indicatori “ottenibili”, ossia quelli che misurano il beneficio dei beneficiari, indicando quanto
è migliorata la situazione dei singoli e dei gruppi.
Gli indicatori di questo tipo sono più difficili da tradurre in numero, quasi impossibili da ottenere oggettivamente e
comunque mai verificati da nessun finanziatore o ente di controllo.
Faccio un esempio: facendo una scuola, ci si può porre l'obiettivo fisico di fare 200mq in 4 classi per 120 studenti
con 8 professori: tutti questi numeri sono indicatori “fisici”. Se però voglio affrontare il discorso in termini di
obiettivi, dovrò parlare di quelli “ottenibili”, dicendo cose del tipo: questa scuola ridurrà l'analfabetismo del 20%,
permetterà a 50 studenti l'anno di accedere all'educazione superiore e a lungo termine garantirà uno stipendio del
30% più alto a chi la frequenta. Ma come si possono controllare questi numeri? E chi se ne occuperà?

Potrebbero piacerti anche