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24/3/2020 A proposito di Arbasino, il Beatle italiano - Linkiesta.

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A proposito di Arbasino, il Beatle italiano - Linkiesta.it


Simonetta Sciandivasci

5-6 minutes

Gli scrittori sono persone orrende. È esistito un tempo in cui non solo non lo nascondevano, non
solo alla casalinga di Voghera che adesso s’aspetta che siano persone meravigliose (e peggio,
belle persone) non importava un fico secco che lo fossero, ma quelli, gli scrittori, erano persino
fieri di far schifo, non avere morale, essere snob, smodati, egocentrici, noiosi, molesti, maiali,
vacui, frivoli, ipocriti, tanto che ne parlavano e, certe volte, ne ridevano pure. Alberto Arbasino
era uno di quei tempi là, ed è morto il 22 marzo, a novant’anni, poche ore prima che, tu guarda a
volte il caso, La Nave di Teseo pubblicasse in anteprima mondiale l’ebook del nuovo libro di
Woody Allen, A proposito di niente, che molti editori si sono rifiutati di pubblicare perché Woody
Allen è considerato persona orrenda da quando sua figlia lo ha accusato di averla molestata (e
non conta che lui sia stato scagionato da ogni accusa, perché questo è il tempo dei tribunali di
Voghera, quelli dove l’accusa fa la prova, e agli scrittori fa obbligo esser brava gente).

Molti anni fa, durante una puntata di Pickwick di Alessandro Baricco, parlando di quanto orrendi
fossero gli scrittori, Arbasino disse: «Se lo immagina lei un pranzo della domenica a casa
Kakfa?». Era irresistibile senza bisogno d’essere simpatico. Era un infelice contento, un
disperato allegro. Un bello. Accidenti, se era bello. Un viveur, certo, ma non alla maniera
metropolitana e glaciale di Truman Capote, del quale scrisse: «Era piccolo, gonfio, smorto, con
questa voluminosa testa da feto imbarazzante (tante volte descritta come malanimo) e quella
petulante vocetta agra che passava dall’aggressivo al perentorio a seconda dell’ambiente
sociale». Oggi nessuno scrittore oserebbe dire tanto di un collega, primo perché il collega lo
querelerebbe, e secondo perché un lettore lo userebbe come alibi per evitare i libri del
malcapitato descritto.

Arbasino era un mondano provinciale, ghiaccio bollente come quel ritratto di Capote, e alle feste
s’annoiava, dopo dieci minuti diceva andiamo via. «Va a teatro come se dovesse incontrare
vecchi amici e fare nuove conoscenze e, viceversa, frequenta salotti (e gran simposi in trattoria)
con lo stesso spirito con cui altri andrebbero a teatro», scriveva alcuni anni fa Nicoletta Tiliacos
sul Foglio.

Quando esordì, ventisettenne, con la raccolta di racconti Le piccole vacanze (uscì per Einaudi;
l’editor fu Italo Calvino), era il 1957 e la letteratura italiana cominciava ad averne abbastanza
della narrativa neorealista, anche se non s’aspettava che un ragazzo potesse essere così
dirompente, così chiaro nella sua intenzione di «voltar pagina e magari cambiar musica, dopo le
tante xilografie e litografie postbelliche vittimistiche e patetiche multiple». Edmondo Berselli ha
scritto che con quella raccolta Arbasino «fece aria nel clima del dopoguerra».

Quello spaziare senza bisogno di far traslochi o viaggi ma semplicemente aprendo la finestra è
rimasto il movimento della sua letteratura. Una letteratura che della lingua italiana ha mostrato
l’inventiva, l’estro, il genio, come soltanto Gadda, prima di lui, era riuscito a fare, tuttavia con
risultati più astrusi, meno limpidi, inanemente faticosi. Arbasino è stato uno sperimentatore, le
parole le ha usate come i Beatles hanno usato le note, all’italiano ha messo le ali, lo ha reso
sexy senza levargli neanche la giacca. Per questo è stato il solo realmente irresistibile del
Gruppo ’63.

Il solo realmente inclassificabile. Quello che ha ballato di tutto, ed è stato a suo agio in tutte le
forme, su tutti i divani, a tutte le feste. Quello che ha scritto libri che sono cinema, epica,
tarocchi, rap (io sogno un disco ispirato a Fratelli d’Italia, qualcuno provveda, per favore). Quello
che ha schivato l’eterno ma ha detto l’universale, e ci è riuscito perché «L’io di Arbasino è un io
minimo prossimo allo zero, sparisce di fronte all’oggetto su cui lavora» (Alfonso Berardinelli), che
poi è anche il motivo per il quale i suoi libri li riscriveva continuamente. Ha scritto di vite vere
tranne la sua. Ha fatto il romanzo borghese antiborghese. Ha raccontato lo scandalo come il lato
pittoresco della libertà, essendone intenerito e innamorato come a Moravia non riuscì mai fino in
fondo di essere, nonostante le migliori intenzioni.

Cosa Arbasino è stato per la letteratura italiana lo diranno i critici. In parte lo hanno già detto.

Cosa Arbasino è stato per le vite di chi lo ha letto, invece, lo ha detto Guia Soncini, in un tweet di
due anni fa (era il 21 gennaio del 2018 e Arbasino compiva 88 anni): «Sono a letto da stamattina
con un Arbasino, un barattolo di nutella, una bottiglia di Franciacorta, senza nessuno che mi
disturbi. E dimmi: tu come mai hai fatto figli?».

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