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Una delle verità acclarate nel funzionamento della scienza è che nessuna 'verità scientifica' può
venire alla luce in assenza della precedente formulazione di un'ipotesi adeguata.

Le 'verità scientifiche' emergono quando si mettono alla prova una o più ipotesi, ottenendone
una smentita o conferma. L'intero contenuto della 'verità scientifica' dipende dall'ipotesi.

Molte sono le complicazioni ulteriori, perché non è mai semplice definire cosa conta come
conferma e cosa come smentita, né se l'apparato sperimentale non sia pregiudicato da errori
sistematici nella sua costruzione, ecc.

Però, rimanendo al punto più elementare e non controverso, il dato da tenere fermo è questo:
nessuna verità scientifica, cioè nessuna delle asserzioni che rappresentano nella nostra cultura
la base fondativa più autorevole, può nascere senza che essa sia preceduta dalla formulazione
pubblica di un'ipotesi, che andrà poi verificata.

Ecco, quando si discute con superficialità dei meccanismi della censura preventiva, del
'politicamente corretto', del convenzionalismo normativo, ecc. magari irridendo il fenomeno o
minimizzandolo come fosse un marginale fattore di costume, si dimentica questo punto
fondamentale.

La scienza funziona in modo appropriato solo in presenza della massima libertà di esplicitare,
formulare e testare ipotesi (nessi, correlazioni).

Sotto il nazismo non si poteva testare un'ipotesi relativa al maggior successo scolastico dei
cittadini tedeschi ebrei - tesi che ad occhio e croce sarebbe risultata ampiamente verificabile per
mille ragioni culturalmente strutturate - ma che avrebbe minato la narrazione dominante sulle
gerarchie razziali.

Sotto Stalin le tesi darwiniane sulla selezione naturale erano viste di malocchio, come
regressive, e perciò non venivano più liberamente testate. Si imposero così le teorie di Lysenko
sulla "cooperazione naturale", con conseguente messa al bando di migliaia di genetisti.

Altri numerosi esempi sarebbero possibili.

Ora, se ci si concentra sul contenuto e non sul metodo, tutti quanti oggi siamo pronti a
stigmatizzare come follie controproducenti quelle posizioni.

Solo che ciò che caratterizza la scienza non sono i contenuti, sempre aperti a revisione, ma il
metodo adottato per portarli alla luce.

E il metodo oggi è straordinariamente simile a quello di quei tempi che guardiamo con
sprezzante superiorità.

Ora, la questione di metodo che dovremmo porci è la seguente: oggi uno scienziato, un
ricercatore, sarebbe libero di formulare e testare liberamente qualunque ipotesi?

Potrebbe permettersi di andare a testare ipotesi che potrebbero urtare questa o quella
sensibilità, questo o quell'interesse lobbistico?

Fate un elenco mentale di argomenti oggi tabù, che spaziano dai vaccini, alla maternità
surrogata, all'educazione sessuale nelle scuole, ecc. e chiedetevi se oggi ogni ipotesi (biologica,
psicologica, sociologica, ecc.) potrebbe essere formulata o se invece la stessa formulazione di
certe ipotesi sarebbe ritenuta offensiva o lesiva o incomprensibile o inaccettabile, sempre
sanzionabile.

(Io stesso mi astengo qui dall'esplicitare una qualunque ipotesi del genere perché so che la loro
stessa formulazione ipotetica verrebbe estrapolata e sottoposta a pubblica bastonatura.)

Ma se le cose stanno così, se intere aree ipotetiche sono screditate in partenza non per ragioni
scientifiche (cioè in quanto già ampiamente testate), ma per ragioni presunte 'morali', qual è il
valore scientifico che il 'pubblico' dovrebbe riconoscere alle 'verità scientifiche' (laddove ci sono)
in questi campi?

A me pare chiaro che questa costante mescolanza indistinta nel discorso contemporaneo tra
presunte 'evidenze morali' (mai chiaramente esplicitate), e 'accertamento scientifico' non possa
che portare a fondo nell'opinione pubblica lo stesso credito scientifico.

La verità è che sempre più spesso e in modo sempre più virulento anche solo sollevare
problematicamente certe questioni viene accolto negli ambienti culturalmente egemoni con
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semplici alzate di sopracciglia, smorfie di disgusto, gridolini di scandalo. Nessuno passa
attraverso un argomento, perché già passare nei pressi di un'argomentazione è considerata una
forma di blasfemia. Naturalmente questo è esattamente l'atteggiamento dei bigotti di tutte le
epoche, solo che oggi abbiamo la condizione ironica di bigotti che si credono fustigatori dei
bigottismi passati.

Noto di passaggio come questa situazione sarebbe molto più accettabile se la matrice di
posizione morale fosse chiaramente esplicitata.

Se fossimo in una teocrazia, con un bel Credo, in cui si dichiara che per partecipare alla nostra
società bisogna credere α, β, γ, δ..., il margine di libertà crescerebbe per tutti, perché ci sarebbe
la possibilità di identificare chiaramente i contenuti santificati e quelli blasfemi, e questo
aprirebbe anche lo spazio gradualmente ad una contestazione.

Ma nel momento in cui si mescolano indistintamente sottintesi morali e credito scientifico si può
sempre slittare da un livello all'altro, facendo apparire come immorale un argomento razionale, o
come irrazionale una posizione morale, a seconda della convenienza.

E alla fine in questo gioco ovviamente non vince né il più razionale, né il più morale, ma solo il
più socialmente forte (la lobby più strutturata, o più ricca, o meglio introdotta nei media, ecc.)

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