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Nutrito
così a lungo e variamente dalle
trame fantastiche della nostra era
desiderai l’imperfetta narrazione che si
trova
in leggende, fiabe, quel tono pulito
attraverso i secoli dalle vecchie lingue
leggere,
nonne del novizio, serene, anonime.
... Così il mio narrare
volle essere limpido, non frammentato;
i miei personaggi, figure convenzionali
afflitte in minimo grado
da personalità ed esperienze passate:
una strega, un eremita, giovani
innamorati,
quel genere di esseri che richiamiamo dai
Grimm,
da Jung, Verdi e dalla commedia dell’arte.
Così scrive il poeta americano James
Merrill all’inizio de ‘Il libro di
Ephraim’, prima parte del suo
straordinario poema The Changing
Light at Sandover (La luce cambia a
Sandover, 1982). Nel discutere il modo
in cui spera di raccontare una storia,
distingue due delle maggiori
caratteristiche della fiaba, che sono,
secondo lui, la voce ‘serena e anonima’
che la narra e le ‘figure convenzionali’
che la abitano.
Quando Merrill menziona i Grimm,
non deve aggiungere nulla: sappiamo
tutti cosa intende. Per gran parte dei
lettori e scrittori occidentali degli ultimi
due secoli, le Kinder- und
Hausmärchen (Fiabe del focolare) dei
fratelli Grimm sono fonte e origine della
fiaba in occidente, la collezione più
grande, la più diffusa nel maggior
numero di lingue, la dimora di ciò che
consideriamo unico in quel genere di
storie.
Ma se i fratelli Grimm non avessero
raccolto tutte quelle fiabe, senza dubbio
l’avrebbe fatto qualcun altro. In effetti
c’erano già altri che stavano lavorando a
qualcosa di simile. I primi anni del
diciannovesimo secolo furono un
momento di grande fervore intellettuale
in Germania, in cui studiosi di
giurisprudenza, di storia e di lingua
esaminavano e discutevano cosa
significasse fondamentalmente essere
tedeschi, in un tempo in cui non esisteva
una Germania unita, bensì circa trecento
stati indipendenti, regni, principati,
granducati, ducati, langraviati,
margraviati, elettorati, episcopati e via
dicendo, i detriti frammentari del Sacro
Romano Impero.
La biografia dei fratelli Grimm non è
eccezionale. Jacob (1785-1863) e
Wilhelm (1786-1859) erano i maggiori
dei figli sopravvissuti di Philipp
Wilhelm Grimm, agiato avvocato di
Hanau nel principato dell’Assia, e di
sua moglie Dorothea. Ricevettero
un’educazione classica e furono
cresciuti secondo i dettami della Chiesa
calvinista riformata, diligenti e seri, con
l’intenzione di seguire le orme del padre
nella professione legale, nella quale si
sarebbero senza dubbio distinti, quando
l’improvvisa morte di lui, nel 1796,
costrinse la famiglia, che contava sei
figli, a dipendere dal sostegno dei
parenti della madre. La zia Henriette
Zimmer, dama di compagnia alla corte
del principe a Kassel, aiutò Jacob e
Wilhelm a entrare al Lyzeum, cioè la
scuola superiore, dove si diplomarono
con il massimo dei voti. Ma i soldi
erano pochi e negli anni dell’università
a Marburg furono costretti a vivere con
poche risorse.
A Marburg divennero seguaci del
professor Friedrich Carl von Savigny, la
cui idea che la legge si sviluppasse in
modo naturale fuori dalla lingua e dalla
storia di un popolo, e che quindi non
dovesse essere applicata arbitrariamente
dall’alto, indirizzò i Grimm verso lo
studio della filologia. Grazie a von
Savigny e alla moglie Kunigunde
Brentano, fecero anche la conoscenza
del circolo che si raccoglieva intorno a
Clemens Brentano e Achim von Arnim,
che sposò l’altra sorella di Brentano, la
scrittrice Bettina. Uno dei temi
principali trattati dal gruppo era il
folclore tedesco. L’entusiasmo per
l’argomento sfociò nel Des Knaben
Wunderhorn (Il corno magico del
fanciullo), una raccolta di canzoni e
poesie popolari di tutti i tipi, con un
primo volume che apparve nel 1805 e
che acquistò subito notevole fama.
I fratelli Grimm erano naturalmente
interessati all’argomento, ma anche
scettici: in una lettera a Wilhelm nel
maggio del 1809, Jacob manifestò
disapprovazione per il modo in cui
Brentano e von Arnim avevano trattato il
materiale, tagliando, aggiungendo,
modernizzando e riscrivendo nella
maniera che ritenevano più adatta. Più
tardi i Grimm (e Wilhelm in particolare)
sarebbero stati criticati per gli stessi
motivi per come avevano gestito le fonti
per le Fiabe del focolare.
In ogni caso, la decisione dei Grimm
di raccogliere e pubblicare fiabe non fu
un fenomeno isolato, ma parte di un
diffuso interesse dell’epoca.
Le fonti a cui attingevano erano sia
orali che letterarie. Una cosa che
mancarono di fare fu andare nelle
campagne a cercare i contadini nei
campi e nelle case e trascrivere le loro
storie parola per parola. Alcune delle
loro fiabe furono prese direttamente da
fonti letterarie e due delle più belle, ‘Il
pescatore e sua moglie’ (p. 115) e ‘Il
ginepro’ (p. 211) vennero mandate loro
in forma scritta dal pittore Philipp Otto
Runge e loro le riprodussero nel dialetto
basso tedesco in cui lui le aveva scritte.
Gran parte del resto arrivò loro in forma
orale da persone di vari strati della
borghesia, inclusi amici di famiglia, una
delle quali, Dortchen Wild, figlia di un
farmacista, diventò alla fine moglie di
Wilhelm Grimm. A distanza di duecento
anni è impossibile dire quanto le loro
trascrizioni fossero accurate, ma lo
stesso vale per ogni raccolta di fiabe o
canzoni popolari prima dell’era della
registrazione su nastro. Ciò che conta è
l’energia e l’ardore delle versioni che
pubblicarono.
I fratelli Grimm continuarono a dare
grandi e duraturi contributi alla
filologia. La Legge di Grimm, formulata
da Jacob, descrisse certi cambiamenti di
suono nella storia nella lingua tedesca;
insieme lavorarono anche al primo
grande dizionario tedesco. Nel 1837
accadde l’evento probabilmente più
drammatico delle loro vite: con altri
cinque colleghi di università, rifiutarono
di giurare fedeltà al nuovo re di
Hannover, Ernst August, poiché aveva
illegalmente abrogato la costituzione. Di
conseguenza furono licenziati dai loro
incarichi universitari e costretti ad
assumere nuove cariche all’università di
Berlino.
Ma i loro nomi sono ricordati
principalmente per le Fiabe del
focolare. La prima edizione fu
pubblicata nel 1812 e fu seguita da altre
sei (e fu Wilhelm a svolgere gran parte
del lavoro redazionale) fino all’ultima
edizione del 1857, che godette di
immensa fama e, insieme a Le mille e
una notte, è la più importante e influente
raccolta di fiabe popolari mai
pubblicata. Alla fine del diciannovesimo
secolo la raccolta si accrebbe e le fiabe
si modificarono, diventando, in mano a
Wilhelm, un po’ più lunghe, in alcuni
casi più elaborate, talvolta più pudiche
e certamente più pie di come erano
all’inizio.
Studiosi di letteratura e folclore, di
storia culturale e politica, teorici
freudiani, junghiani, cristiani, marxisti,
strutturalisti, post-strutturalisti,
femministe, postmodernisti e di ogni
altro tipo di scuola hanno trovato in
queste 210 fiabe una immensa ricchezza.
Alcuni dei libri e dei saggi che trovo più
interessanti sono elencati nella
bibliografia e non c’è dubbio che anche
altri abbiano influenzato inconsciamente
la mia lettura e ri-narrazione.
Il mio interesse principale però è
sempre stato vedere se le fiabe
funzionavano come storie. Ciò che ho
voluto fare in questo libro è raccontare
quelle più interessanti, sfrondando tutto
ciò che potesse impedire loro di
scorrere liberamente. Non ho inteso
riportarle in ambientazioni moderne,
darne interpretazioni personali o
comporre variazioni poetiche sulla base
degli originali: ho voluto solo produrne
una versione limpida come l’acqua. La
domanda che mi ha guidato è: ‘Come
racconterei questa storia se l’avessi
sentita da qualcuno e volessi
tramandarla?’ Tutti i cambiamenti
apportati sono mirati ad aiutare la storia
a uscire dalla mia voce in modo
naturale. Quando, occasionalmente, ho
pensato che fosse possibile migliorarla,
ho fatto solo una o due modifiche nel
testo stesso o ne ho proposto una
maggiore nella nota che segue la storia
(un esempio di ciò si trova in
‘Dognipelo’, p. 272, che nell’originale
mi sembrava incompleta).
Figure convenzionali
Celerità
Un tono pulito
IL PRINCIPE
RANOCCHIO,
O ENRICO DI FERRO
***
IL GATTO E IL TOPO
VANNO
A VIVERE INSIEME
***
IL RAGAZZO CHE SE NE
ANDÒ
DI CASA IN CERCA
DELLA PAURA
***
IL FEDELE GIOVANNI
***
I DODICI FRATELLI
***
FRATELLINO E
SORELLINA
***
RAPERONZOLO
***
***
HANSEL E GRETEL
***
***
IL PESCATORE E SUA
MOGLIE
IL SARTINO IMPAVIDO
***
CENERENTOLA
***
L’INDOVINELLO
***
IL TOPO, L’UCCELLO E
LA SALSICCIA
***
CAPPUCCETTO ROSSO
***
I MUSICANTI DI BREMA
***
IL DIAVOLO CON
I TRE CAPELLI D’ORO
***
LA RAGAZZA SENZA
MANI
***
GLI ELFI
Prima storia
Seconda storia
Terza storia
***
IL FIDANZATO
BRIGANTE
***
IL PADRINO MORTE
***
IL GINEPRO
***
ROSASPINA
***
BIANCANEVE
E lo specchio rispondeva:
E lo specchio rispose:
«Maestà, voi siete ancora bella, è vero,
ma i nani tornando la trovarono
il pettine stregato dai capelli le
levarono,
Biancaneve è la più bella e non è un
mistero».
La regina barcollò e dovette appoggiarsi
al muro. Il viso diventò bianco a chiazze
gialle e verdi. Poi si erse in tutta la sua
statura, mandando scintille dagli occhi.
«Biancaneve deve morire!» urlò.
Si recò nella più segreta delle sue
stanze, chiudendosi la porta alle spalle.
Lì non poteva entrare nessuno, nemmeno
i servi. Con un libro di magia e tante
piccole bottigliette scure, preparò una
mela avvelenata. Era bianca da un lato e
rossa dall’altro e chiunque vedendola
avrebbe desiderato morderla, ma chi ne
avesse mangiato anche soltanto un
boccone piccolissimo sarebbe morto
all’istante.
Poi la regina si travestì per la terza
volta, si mise la mela in tasca, andò alla
casa dei nani e bussò.
Biancaneve guardò dalla finestra.
«Non posso lasciare entrare nessuno.
Non mi è permesso».
«Giusto, mia cara» disse la regina,
che aveva l’aspetto di una vecchia
contadina. «Mi chiedevo solo se vuoi
una mela. Quest’anno ne ho raccolte un
mucchio e non so che farmene».
«No, non posso prendere niente»
disse Biancaneve.
«Oh, che peccato» disse la vecchia.
«Sono deliziose, per giunta. Guarda, la
mordo io, se non ti fidi».
Aveva preparato la mela con astuzia
e solo il lato rosso era avvelenato.
Diede un morso alla parte bianca e poi
porse il frutto a Biancaneve.
La mela sembrava così appetitosa
che la poverina non riuscì a resistere.
Allungò la mano, la prese e diede un bel
morso sulla parte rossa. Non aveva
nemmeno finito di ingoiare che cadde a
terra morta.
La regina malvagia si sporse dentro
la finestra a guardare e, vedendola sul
pavimento, scoppiò in una forte risata.
«Bianca come la neve, rossa come il
sangue e nera come l’ebano! E ora morta
stecchita! Stavolta quelle scimmiette non
riusciranno a risvegliarti».
Tornata al suo boudoir chiese allo
specchio:
«Specchio, specchio che stai appeso al
muro,
chi è la più bella? Tu lo sai di sicuro».
E lo specchio rispose:
«Maestà, la più bella siete voi».
La regina tirò un profondo sospiro di
soddisfazione. E se esiste riposo per un
cuore pieno di invidia, lei in quel
momento l’aveva ottenuto.
Quando i nani tornarono a casa quella
sera, trovarono Biancaneve sul
pavimento, rigida e immobile. Non
respirava, aveva gli occhi chiusi e non
si muoveva. Era morta. Si guardarono
intorno per vedere cosa l’aveva uccisa,
ma non trovarono nulla: le allentarono i
lacci del bustino, cercarono un pettine
avvelenato tra i suoi capelli, la
scaldarono vicino al fuoco, le misero
una goccia di brandy sulle labbra, la
appoggiarono sul letto e la misero a
sedere su una sedia, ma invano.
Capirono che era morta, allora la
adagiarono su una lettiga e si sedettero
accanto a lei e piansero per tre giorni.
Volevano seppellirla, ma Biancaneve
era ancora fresca e bella, come se stesse
solo dormendo, e loro non riuscivano ad
accettare l’idea di metterla sotto la nera
terra.
Così le fecero una bara di vetro su
cui scrissero a lettere d’oro PRINCIPESSA
BIANCANEVE e la portarono in cima alla
montagna. Da quel momento ci fu
sempre uno dei nani al suo fianco.
Fecero dei turni e anche gli uccelli
vennero a piangerla: prima un gufo, poi
un corvo e infine una colomba.
E restò tutto così per lungo, lungo
tempo. Il corpo non si decomponeva,
Biancaneve continuava a essere bianca
come la neve, rossa come il sangue e
nera come l’ebano.
Un giorno un principe che andava a
caccia nella foresta giunse alla casa dei
nani e chiese riparo per la notte. La
mattina dopo vide un luccichio sulla
cima della montagna e andò a vedere di
che si trattava. Trovò la bara di vetro,
lesse l’iscrizione a caratteri d’oro e
vide il corpo di Biancaneve.
Disse ai nani: «Lasciate che mi porti
via la bara. Vi pagherò quel che volete».
«Il denaro non ci interessa» dissero.
«Non venderemmo quella bara per tutto
l’oro al mondo».
«Allora regalatemela» li pregò. «Mi
sono innamorato della principessa
Biancaneve e non posso vivere senza
vederla. La tratterò con tutto l’onore e il
rispetto che si devono a una principessa
viva».
I nani si ritirarono a confabulare. Poi
tornarono e dissero che il principe li
aveva mossi a compassione ed erano
sicuri che avrebbe trattato bene la loro
Biancaneve e dunque poteva portarsela
nel suo regno.
Il principe li ringraziò e disse ai
servi di sollevare la bara facendo molta
attenzione e portarla via con loro. Ma
mentre scendevano dalla montagna un
servo fece un passo falso e inciampò,
scuotendo la bara; quello scossone fece
uscire il pezzo di mela che era rimasto
incastrato nella gola di Biancaneve.
E lei lentamente si svegliò, aprì il
coperchio della bara e si mise a sedere,
di nuovo viva. «Santo cielo, dove
sono?» disse.
Il principe rispose con gioia: «Sei
con me!» Le raccontò tutto quello che
era successo e poi disse: «Ti amerò più
di ogni altra cosa al mondo. Vieni con
me al castello di mio padre e diventa
mia moglie».
Biancaneve se ne innamorò subito e
furono organizzate nozze magnifiche.
Tra gli invitati alla cerimonia c’era la
matrigna di Biancaneve. Aveva
indossato il suo più bel vestito, si era
messa davanti allo specchio e aveva
detto:
«Specchio, specchio che stai appeso al
muro,
chi è la più bella? Tu lo sai di sicuro».
E lo specchio aveva risposto:
«Maestà, voi siete sempre bella, è vero,
ma Biancaneve mille volte più, non è un
mistero».
La regina era rimasta senza fiato
dall’orrore. Era talmente spaventata e
terrorizzata che non sapeva cosa fare.
Non voleva andare al matrimonio ma
non voleva nemmeno mancare e a dire il
vero sentiva di dovere andare a vedere
la giovane regina, così alla fine ci andò.
Quando vide Biancaneve la riconobbe
subito e rimase sconvolta. Prese a
tremare.
Ma un paio di scarpe di ferro erano
già state messe nel fuoco. Appena furono
incandescenti, le presero con delle
tenaglie per metterle sul pavimento. E la
regina malvagia fu costretta a indossarle
e a danzare finché non cadde a terra
morta.
***
TREMOTINO
***
L’UCCELLO D’ORO
***
Tipo di fiaba: ATU 550, ‘Bird, Horse and
Princess’ (L’uccello d’oro).
Fonte:: una storia raccontata ai fratelli Grimm
da Gretchen Wild.
Storie simili: Alexander Afanasjev: ‘Prince
Ivan, the Firebird, and the Grey Wolf’ (La fiaba
di Ivan Zarevic, dell’uccello di fuoco e del lupo
grigio [Russian Fairy Tales (Fiabe russe)];
Katharine M. Briggs: ‘The King of the
Herrings’ (Folk Tales of Britain); Andrew
Lang: ‘The Bird Grip’ (Pink Fairy Book).
Gretchen Wild e i Grimm fecero un lavoro
eccezionalmente accurato su questa fiaba, che
facilmente rischia di divagare. La
trasformarono in qualcosa che assomigliava
moltissimo a una narrazione di tipo esoterico
sulla ricerca della salvezza, non diversa dallo
gnostico ‘Canto della perla’ del terzo secolo o
dalle Nozze alchemiche di Christian
Rosenkreutz del 1616. Sarebbe facile costruire
un’interpretazione su queste linee: il giovane
principe rappresenterebbe il Cercatore, la
principessa d’oro la sua metà femminile, o, per
usare le parole di Jung, la sua anima, che deve
essere vinta dalle forze invisibili del mondo:
invisibili perché la montagna blocca la vista al
re, ovviamente. Quando la montagna viene
spostata, il re diventa abbastanza saggio da
vederle e lascia che la giovane sposa vada per la
sua strada. Il cavallo d’oro è la forza del
principe, che non deve essere bardata con le
sgargianti insegne dell’adulazione e della
vanità, ma solo con la dignità del duro lavoro
vero e onesto. L’uccello d’oro è l’anima del
principe: solo lui riesce a vederlo nel giardino
del re e solo lui può seguirlo e averlo, alla fine.
I due fratelli sono le personificazioni più basse
del sé, sopraffatte alla fine dalla bontà
innocente, e il principe è aiutato dalla volpe,
che rappresenta la saggezza. La saggezza è
strettamente collegata alla coscienza del
Cercatore (è il fratello della principessa), ma
non può essere vista fino a che non viene
sacrificata. Le mele d’oro nel giardino del re
sono frammenti di verità, che dovrebbero
essere regalati con mano generosa e che invece
il re, cieco a causa della sua ottusità, tratta
come beni da contare e numerare, non
riuscendo così a...
Eccetera. Io non credo minimamente a
questa interpretazione, non più di quanto creda
nella maggior parte delle chiacchiere sub-
junghiane, tuttavia è plausibile. Una lettura di
questo genere può anche essere appoggiata. E
che cosa mostra? Che l’idea preesisteva alla
storia e che quest’ultima è stata composta
come allegoria per illustrarla? Oppure che la
storia ha casualmente assunto una forma
interpretabile?
Ovviamente la seconda. Tante ingegnose
interpretazioni delle storie somigliano molto a
quelle piacevoli figure che ci sembra di vedere
nelle scintille di un fuoco, ma comunque non
fanno nessun danno.
VENTINOVE
CONTADINELLO
***
DOGNIPELO
***
JORINDA E
JORINGHELLO
***
HANS RISCHIATUTTO
***
L’ALLODOLA CHE
CANTAVA E SALTELLAVA
***
LA GUARDIANA DELLE
OCHE
***
PELLEDORSO
I DUE VIANDANTI
HANS PORCOSPINO
***
IL LENZUOLINO
FUNEBRE
***
I CENTESIMI RUBATI
***
IL CAVOLO ASININO
***
Tipo di fiaba: ATU 567, ‘The Magic Bird-
Heart’ (I due fratelli), che prosegue come ATU
566, ‘The Three Magic Objects and the
Wonderful Fruits’ (L’insalata magica).
Fonte:: una storia proveniente dalla Boemia
raccontata ai fratelli Grimm da un informatore
sconosciuto.
Storie simili: Alexander Afanasjev: ‘Horns’
(Le corna) [(Russian Fairy Tales (Fiabe
russe)]; Katharine M. Briggs: ‘Fortunatus’
(Folk Tales of Britain); Italo Calvino: ‘Il
granchio dalle uova d’oro’ (Fiabe italiane).
Come accade spesso nei Grimm, abbiamo qui
due storie diverse cucite insieme. Una volta
che il cacciatore ha il cuore d’uccello e il
manto fatato, potrebbe in teoria partire per ogni
tipo di avventura. La storia del cavolo (a volte
tradotto come ‘insalata’) che trasforma
chiunque lo mangi in un asino non ha
connessioni logiche con la prima parte della
storia, anche se ben ci si adatta.
Nella versione russa di Afanasjev, quel che
si mangia (due tipi di mela, in questo caso) fa
crescere o sparire delle corna dalla testa di chi
mangia. Meno fastidioso che trasformarsi in un
asino, senza dubbio, ma comunque non facile
da spiegare.
Ciò che mi piace in particolar modo di
questa storia è il carattere allegro del giovane
cacciatore. È interessante vedere di quanti
pochi dettagli di tipo comportamentale
abbiamo bisogno per evocare una personalità.
QUARANTADUE
OCCHIO, DUEOCCHI E
TREOCCHI
***
LE SCARPETTE FATTE A
PEZZI A FURIA DI
DANZARE
***
HANS DI FERRO
***
IL MONTE SIMELI
***
HEINZ IL PIGRO
***
HANS IL FORTE
***
LA LUNA
***
LA GUARDIANA DELLE
OCHE ALLA FONTE
***
***
Presentazione
Frontespizio
Pagina di copyright
Introduzione
Bibliografia
Sette. Raperonzolo
Tredici. Cenerentola
Quattordici. L’indovinello
Seconda storia
Terza storia
Ventiquattro. Il ginepro
Venticinque. Rosaspina
Ventisei. Biancaneve
Ventisette. Tremotino
Ventinove. Contadinello
Trenta. Dognipelo
Trentasei. Pelledorso
Quarantotto. La luna
Note