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ALMA MATER STUDIORUM – UNIVERSITA’ DI BOLOGNA

SCUOLA DI LINGUE E LETTERATURE, TRADUZIONE E INTERPRETAZIONE

Corso di studio in Lingue e letterature straniere

FADWĀ ṬŪQĀN:
POETESSA RIBELLE DELLA PALESTINA

Prova finale in:


Letteratura araba

Relatore Presentata da
Prof. Giovanni Domenico Benenati Chiara Busca
Correlatore
Prof. Giulio Soravia

Sessione: 18/03/2014 - 26/03/2014

Anno accademico: 2013-2014

1
INDICE

Nota sui criteri di traduzione e di traslitterazione 2


Introduzione 3

Capitolo I 7
Dagli esordi al 1948: La poesia ispirata al dolore individuale

1. La bambina non voluta


2. Il maestro Ibrahim
3. Il nuovo stile e l’adozione del verso libero

Capitolo II 20
La poesia dopo la Nakba: Il ritrovamento della libertà personale nella catastrofe
1. Il movimento di emancipazione femminile arabo e “l’uscita dall’harem”
2. La poesia d’amore
3. L’incertezza politica e il ruolo del poeta nella resistenza
4. L’Inghilterra e Oxford

Capitolo III 43
Dalla guerra dei Sei giorni all’Intifada: La poetessa della Palestina
1. La guerra dei sei giorni e le conseguenze sulla scena letteraria palestinese
2. La poetessa cannibale: le poesie politiche
3. I riconoscimenti e l’Italia

Conclusione 65

Bibliografia 66

2
Nota sui criteri di traduzione e traslitterazione

Per la traslitterazione dei caratteri arabi in caratteri latini ho optato per il sistema scientifico
internazionale stabilito dall’Organizzazione Mondiale per la Normazione, i.e. ISO 233.
Tutti i nomi di persona arabi sono stati traslitterati in caratteri latini, mentre i titoli delle
poesie e delle raccolte, di riviste o di libri e i nomi di associazioni e partiti non sono stati
riportati in Arabo ma sono stati traslitterati e tradotti da me. Per i nomi di luoghi geografici si
è adottata la grafia correntemente utilizzata in Italiano.
Nella bibliografia, i testi in Arabo sono stati riportati in lingua araba, in translitterazione e in
traduzione italiana.
Nella stesura di questo elaborato mi sono servita di testi in lingua araba, italiana, inglese e
francese: tutte le poesie sono state riportate in Arabo e in traduzione italiana. Gli estratti
dall’autobiografia di Fadwā Ṭūqān in lingua francese e dai saggi e gli articoli in lingua
inglese invece sono stati direttamente tradotti in Italiano da me, con riferimento al testo
originale in nota.

3
Introduzione

La Palestina è inevitabilmente diventata nel corso della storia contemporanea il paese


simbolo della lotta. A pochi la Palestina ispira le immagini di alberi di olive e di limoni, le
nostalgiche melodie suonate con l’ʻūd, la terra rossa e fertile delle colline terrazzate, il
profumo dello zaʻtar. La parola Palestina si trascina dietro invece le pietre lanciate contro i
carri armati, i volti dei ribelli coperti dalle kūfiyyat, le grida delle madri a cui i figli vengono
portati via, i cortei di protesta di fronte ad un muro. È una parola dolorosa e allarmante, che
fa rima con guerra e provoca polemiche, ma che è anche il titolo di migliaia di poesie. La
Palestina è infatti patria di grandi poeti che hanno usato la loro voce per cantare le bellezze e
le disgrazie del loro paese cancellato: alcuni nomi sono divenuti noti al grande pubblico:
uomini come Maḥmūd Darwīš e Ġassān Kanafānī, che hanno messo in parole la tragedia del
loro popolo con grande eloquenza e hanno portato la questione palestinese sotto i riflettori
della letteratura internazionale. Accanto a loro, tra le schiere di poeti, scrittori, musicisti e
artisti palestinesi che hanno lottato e continuano a lottare attraverso un’agguerrita resistenza
culturale, c’è una donna che è stata la madre della poesia palestinese: una poetessa che con i
suoi versi di fuoco e di sangue ha incitato il popolo alla rivolta, lo ha guidato in battaglia e ne
ha curato le ferite: il suo nome è Fadwà Ṭūqān. L’obiettivo principale di questo elaborato è
dunque quello di far conoscere al pubblico italiano non specialistico la figura di questa
poetessa così importante, ma ancora poco conosciuta.
La scelta è ricaduta su questa poetessa per diversi motivi: in primo luogo per la
particolarità di una donna che passò la sua vita a lottare contro due tipi di catene: quelle
impostale da una famiglia autoritaria e una società conservatrice e quelle dell’occupazione
che imprigionava (e tutt’ora imprigiona) la sua terra. Fadwā Ṭūqān nacque dal dolore, crebbe
nel dolore e dal dolore trasse la sua forza: questa doppia sofferenza la rese molto diversa dai
suoi contemporanei poeti uomini, i quali non dovettero lottare come lei per l’emancipazione,
per l’eguaglianza sociale o semplicemente per uscire di casa e studiare. Prima di cantare la
libertà della Palestina la Ṭūqān dovette conquistare la propria libertà individuale, e queste sue
lotte parallele e intrecciate la rendono un soggetto di studio particolarmente interessante.
In secondo luogo, è ancora poco il materiale in lingua italiana su Fadwā Ṭūqān. Le
poesie più conosciute sono state raccolte e tradotte da due grandi studiosi arabi: ‘Īsā al-Nā‘ūrī
e Fatẖī Maqbūl, i quali si sono molto adoperati per diffondere la letteratura araba in Italia.
Tuttavia, si tratta di antologie scritte tra gli anni ’70 e ’80, mentre la poetessa era ancora in

4
vita, e non di opere di critica e di analisi. L’autobiografia della poetessa inoltre - pubblicata in
due volumi, il primo nel 1988 e il secondo nel 1993 - è stata tradotta soltanto in Francese,
precludendo ai letterati italiani un’importante quantità di informazioni sulla sua vita e sul suo
pensiero. Con questo elaborato mi sono proposta di integrare il materiale in lingua italiana
con quello in lingua francese e inglese per legare gli studi degli orientalisti italiani e inglesi
alle memorie narrate in prima persona dalla poetessa, cercando di ricostruire il suo percorso
poetico nel quadro della sua vita personale e delle vicende politiche del paese per restituirne
un’immagine il più possibile fedele.
Ad ultimo, il motivo che più degli altri mi ha spinta ad affrontare questo
argomento è stato il mio recente viaggio in Palestina. Tra dicembre e gennaio del 2013-2014
ho passato un mese viaggiando attraverso le principali città palestinesi, cercando di
comprenderne la storia e la cultura. A Nablus, città natale della poetessa, ho visitato la
fabbrica di sapone della famiglia Ṭūqān, ho camminato per i vicoli di pietra della città antica
e ho visto la casa in cui la poetessa visse gran parte della sua vita. Sono entrata nel suo
giardino degli aranci, le cui mura sono state in parte distrutte dai bombardamenti durante
seconda Intifada, e ho visto il pozzo dove la Ṭūqān compose i suoi primi versi, dedicati
all’uomo che portava l’acqua ogni mattina. Nella mia visita mi fece da guida il Sig. Maǧdī
Šella, operatore sociale e culturale all’interno del campo profughi di Balata. Profondo
conoscitore della storia di Fadwā Ṭūqān, fu lui a raccontarmi con amarezza quanto la grande
poetessa fosse sottovalutata. Forse perché donna in una società al tempo troppo arcaica, forse
perché rimase sempre al margine della politica, ella non ebbe la fortuna di Darwīš o di altri
poeti, e al giorno d’oggi, per quanto venga studiata a scuola, non è certamente ricordata e
omaggiata a dovere. Con questo lavoro ho deciso di impegnarmi a diffondere la profonda
bellezza delle poesie di Fadwā Ṭūqān, in un primo momento ad un pubblico italiano e
idealmente in futuro anche in Inglese e Arabo, affinché il patrimonio costituito dai suoi versi
d’amore per la vita e per la patria non si perdano nel tempo.
Il presente elaborato si propone di esaminare le opere di Fadwā Ṭūqān e il loro ruolo
sociale e politico nel contesto palestinese. Partendo dalle preziose testimonianze contenute
nei due volumi della sua autobiografia e dalle sue poesie, si è cercato di costruire un percorso
che includesse tanto la dimensione storico-politica quanto quella personale, privilegiando la
voce della poetessa e la sua visione degli avvenimenti che racconta. Per fare ciò si è ritenuta
fondamentale un’impostazione di tipo cronologico, in quanto lo sviluppo della poetica della
Ṭūqān, sia per quanto riguarda lo stile che i temi, è strettamente legato agli avvenimenti

5
storici e sociali che hanno condizionato la vita della poetessa e quella del suo paese. In
Palestina più che altrove lo studio della letteratura è imprescindibile da quello della storia: la
poesia palestinese è così dipendente dal conflitto israelo-palestinese che si è costantemente
evoluta secondo I bisogni emotivi dei Palestinesi in seguito a episodi particolarmente
traumatici della loro storia. Seguendo questa teoria la poesia contemporanea palestinese
potrebbe essere divisa in quattro periodi, basati sulla forma e sul contenuto: il Neo-
Classicismo a seguito della prima ondata di immigrazione ebrea in Palestina all’inizio del
Novecento; il Romanticismo dopo la Dichiarazione Balfour del 1917; la Poesia Nuova
coincidente con la Nakba - la disfatta del 1948 - e la Poesia di resistenza dopo la guerra del
19671. Fadwā Ṭūqān visse tutti questi periodi e con lei la sua poesia sperimentò stili e temi
diversi. Anche per questo motivo l’opera di Fadwā Ṭūqān è un eccellente esempio per
mostrare il percorso di una letteratura specchio dei cambiamenti della società che la produce.
L’elaborato si articola di conseguenza in tre capitoli che corrispondono a tre fasi
storiche in sequenza cronologica. Il primo capitolo tratta della poesia come espressione del
dolore individuale derivato dalla condizione di prigionia in cui la Ṭūqān visse la sua
giovinezza. In questo periodo, che va dalla nascita della poetessa nel 1917 alla guerra arabo-
israeliana del 1948, la sua poesia è incentrata sul tema del dolore e dell’irreprimibile
desiderio di libertà, sentimenti che ispirano componimenti malinconici in cui la giovane
poetessa cerca un senso alla propria sofferenza e si ribella alla propria condizione. In questo
capitolo vengono trattati anche la figura del fratello Ibrahim, che la salvò dalla solitudine e la
avvicinò alla poesia, e l’evoluzione dello stile della Ṭūqān dalla rigida metrica classica al
verso libero.
Il secondo capitolo tratta il periodo compreso dal 1948, anno della Nakba, o
“catastrofe”, e il 1967. In questo periodo di guerra, distruzione ed esilio la poetessa visse la
contraddizione di soffrire per il suo popolo ma allo stesso tempo di liberarsi dalle catene
sociali che fino a quel momento l’avevano imprigionata, grazie ai successi dei primi
movimenti politici femminili e alla partecipazione delle donne nella rivoluzione. La
conseguente poesia d’amore dirompente, i viaggi e il soggiorno in Inghilterra sono le
tematiche di questo capitolo che narra la sconfitta generale di un popolo e la vittoria
personale della poetessa.
Il terzo ed ultimo capitolo tratta la poesia prodotta tra il 1967, anno della guerra dei
Sei giorni, e la morte della poetessa, avvenuta nel 2003. Questo è il periodo in cui Fadwā
1
Lovatt, H., Modern Palestinian Poetry and the Poetics of Place: Between Homeland and Homelessness, in
“Modern Palestinian Literature, SOAS”, Jan. 2010, op. cit. p. 2.

6
Ṭūqān abbracciò la causa palestinese e iniziò a scrivere poesie politiche per sostenere il suo
popolo, armata di una nuova aggressività e coraggio, sebbene sempre velata di tristezza. Il
paragrafo finale inoltre offre uno scorcio sulle relazioni internazionali della poetessa con
l’Italia e una sua analisi sul problema della traduzione in poesia.
La poesia di Fadwā Ṭūqān colpisce l’animo del lettore per la sua espressività, la sua
spontaneità e la sua forza. Il mio augurio è che i suoi versi scolpiti nel cuore e nella terra dei
Palestinesi riescano ad affascinare il lettore così come hanno affascinato me.

7
Capitolo I
Dagli esordi al 1948 : la poesia ispirata al dolore individuale

1. La bambina non voluta

Il secondo capitolo dell’autobiografia di Fadwā Ṭūqān inizia con una terribile affermazione:
«Sono uscita dal nulla per entrare in un mondo inospitale. Durante i primi mesi di gravidanza
mia madre provò a più riprese a disfarsi di me. Ma i suoi tentativi furono vani»2. Una verità
così dura e crudele da far tremare il lettore e per cui l’autrice sembra ancora soffrire.
Nata in una famiglia dell’alta borghesia di Nablus -una città a nord della Cisgiordania
che all’epoca faceva parte della Giordania- e settima di dieci fratelli, Fadwā visse la sua
infanzia e adolescenza chiusa tra le mura di casa, imprigionata dalle tradizioni conservatrici
del suo tempo. Non si conosce con esattezza la data di nascita della poetessa; lei stessa scrive
nelle sue memorie:

Ho chiesto a mia madre: - Puoi dirmi in quale anno o almeno in quale stagione sono nata? Ella mi
rispose sorridente: - Il giorno in cui stavo cucinando il cardo, questo è il tuo certificato di nascita; per
conoscere l’anno della tua nascita posso indicarti una fonte certa: quando fu ucciso mio cugino Kāmil
‘Asqalān ero al settimo mese3.

Il periodo in cui nacque doveva quindi essere compreso fra i primi di febbraio e la fine di
aprile, periodo della crescita del cardo in Palestina, mentre l’anno sarebbe il 1917, poiché il
cugino della madre morì durante la Prima Guerra Mondiale e la poetessa afferma che aveva
più di un anno quando il padre fu esiliato in Egitto nel 1918 4. Dalle sue memorie emerge che
la madre si era sposata all’età di undici anni e a quindici aveva già avuto il primo figlio. Si
comprende quindi facilmente come nella visione tradizionale dell’epoca la donna fosse
relegata al ruolo di madre e di padrona di casa, senza alcuna possibile aspirazione sociale e
culturale. Prima di avere a cuore la questione femminile però, la Ṭūqān provò il dolore del
non sentirsi voluta. Si chiede nelle sue memorie:

2
Ṭūqān, Fadwā. Le Rocher et la Peine :Mémoires I, trad. fr. di Joséphine Lama e Benoît Tadié, Langues et
Mondes, 1997, p. 15.
3
Maqbūl, Fatẖī. Fadwā Ṭūqān attraverso le sue poesie. Roma, Centro Culturale Arabo, 1982. Cit. p.7.
4
Ibid.

8
In Palestina, la gente collega la felicità o l’infelicità ad un nuovo nato, o al cavallo di recente comprato,
o alla novella sposa, o alla casa nuova; queste cose rappresentano ottimismo o pessimismo, secondo gli
eventi che le accompagnano. Forse mia madre ha collegato la mia nascita con la morte del cugino o con
l’allontanamento di mio padre?5.

In lei bruciava la paura di non appartenere, di non aver alcun posto nella propria famiglia. La
madre, altrove descritta come una donna gentile e solare, si era vista rinnegare la propria
libertà e di conseguenza non ne concedeva di più alle sue figlie. La sensibile poetessa
comprendeva la sofferenza invisibile celata dietro alla severità della madre e per questo la
perdonò. La piccola Fadwā, costantemente indebolita dalla malaria e dal carattere fragile e
timido, visse un’infanzia solitaria e triste. All’età di dodici anni la prima grande tragedia si
abbatté su di lei: venne punita per aver accettato un fiore donatole da un ragazzo tramite un
bambino per strada, e per questo atto impudico le venne impedito di andare a scuola. Chiusa
fra le quattro mura della casa arrivò al punto di meditare il suicidio, tanto la sua vita le
sembrava priva di senso. Scrive nella sua autobiografia: «Non c’era altra soluzione che il
suicidio per ricoverare la libertà individuale che mi era stata rubata. Era il solo modo di
esprimere la mia ribellione contro la mia famiglia, il solo modo di vendicarmi della loro
ingiustizia nei miei confronti»6. A poco a poco la Ṭūqān adolescente si ripiegò su se stessa,
astraendosi dal mondo reale e immergendosi in un mondo di sogni impossibili. Questo
aspetto introverso del suo carattere l’accompagnerà per tutta la vita ed emerge in particolar

modo nella sua prima raccolta di poesie, intitolata ‫وحدي مع االيام‬ , Wahdî maʻa al-
ayâm, (Sola con i giorni) e pubblicata al Cairo nel 1952. In questa raccolta viene fuori tutta la
sofferenza dovuta alla repressione e la malinconia per un’adolescenza mancata. Il carattere
umiliante della sua situazione, l’impotenza e l’impossibilità di imporsi sul proprio ambiente

trovano sfogo nelle parole di poesie quali ‫الشاعرة و الفراشة‬, al-Šāʻra wa’lfarāša, (La
poetessa e la farfalla), dove la poetessa compiange una farfalla che viene colpita dalla morte
nel pieno della sua vitalità:

Oh quanto è bella la vita, ella pensava,


ma questa dolce riflessione
viene interrotta da una farfalla

5
Maqbūl, Fatẖī, Fadwā Ṭūqān attraverso le sue poesie, Roma, Centro Culturale Arabo, 1982, p.8.
6
Ṭūqān, Fadwā, Le Rocher et la Peine :Mémoires I, tr.fr. di Joséphine Lama e Benoît Tadié, Langues et
Mondes, 1997, p. 71.

9
caduta improvvisamente a terra;
pare che essa voglia salutare la terra
con l’estremo, lento battere
delle sue ali.
Muore immersa nel silenzio,
i fiori che le sono attorno non sono pieni di gioia.

Sorella mia, cosa è successo?


Ti abbandona la rugiada
e sei morta nel pieno della vita?

Ti hanno forse respinta i fiori?


Ti ha privata dell’aria
il venticello fresco della collina?

Sorella mia, non intristirti!


Ci sono io che ti compiango
con la tenera e dolce poesia.
Forse anch’io morirò come te,
dimenticata
senza un amico o un compagno che mi conforti.
Oh, com’è dura la morte
che ci spinge nelle profondità
del Nulla!7

‫ما أجمل الوجود!! لكنها‬


‫أيقظها من حلو أحساسها‬
‫فراشة تج َد لت في الثرى‬
‫تودعه آخر أنفاسها‬
‫تموت في صمت كأن لم تفض‬
‫مسارح الروض بأعراسها‬
‫دنت إليها و انثنت فوقها‬
‫ترفعها مشفقة حانيه‬:
7
Maqbūl, Fatẖī, Fadwā Ṭūqān attraverso le sue poesie, Roma, Centro Culturale Arabo 1982, p 18.

10
‫ ماذا؟هل جفاك الندى‬،‫أختاه‬
‫فمتّ في أيامك الزاهية؟‬
‫هل ص ّد عنك الزهر؟هل ضيّعت‬
‫هواك أنسام الربى الالهيه؟‬
[…]
‫أختاه ال تأسي فهذي أنا‬
‫أبكيك بالشعر الحنون الرقيق‬
ً‫قد أنطوي مثلك منسيّة‬
‫ال صاحب يذكرني أو رفيق‬
‫ ما أقسى الردى ينتهي‬:‫أواه‬
‫بنا الى كهف الفناء السحيق‬

Questa poesia rivela quanto fosse colmo di dolore il cuore della poetessa, che vede se stessa
nella farfalla e immagina per se stessa un’egual sorte di dolore e solitudine. In un altro

componimento intitolato ‫هروب‬, Herūb, (Fuga), la poetessa si rimprovera l’esagerato


abbandono al sogno e alla fantasia e si chiede il perché della sua incapacità ad adattarsi alla
realtà.

Hai odiato la realtà della gente


e ti sei tuffata con l’immaginazione
nel mondo della fantasia;
vivi soltanto di visioni, di sogno, di ombre;
figlia della fantasia, quando esci
da questo mondo immaginario?
Svegliati, ti è bastato
questo viaggio fantastico
nel miraggio del deserto.
Tu vivi perduta nel mondo dei sogni
in un orizzonte remoto e strano
e riempi la tua anima prigioniera
del canto nostalgico e desioso dell’esule.

Tu vivi con la fantasia fuori dal mondo

11
superando il corso delle stelle
e penetrando
nell’immensità misteriosa dell’infinito

Non appartieni a questa terra.


Perché vuoi proiettarti in alto, fuori di essa?

Ti ha forse spaventata il sangue che si sparge


sulla terra e la tirannia dei forti
che opprimono i deboli e i grandi disastri?
Ti ha spaventata la durezza della vita
e la lotta fra gli uomini?8

‫كرهت حقائق الدنيا الورى‬


‫وهمت بأوهام دنيا الخيال‬
‫فما يتصبّاك إال الرؤى‬
‫وسحر الطيوف وسحر الظالل‬
‫متى يا أبنة الوهم تستيقظين‬
‫متى ينجلي عنك هذا الخيال‬
‫ لقد طال مسراك‬،‫ كفاك‬،‫أفيقي‬
‫عطشى وراء سراب الرمال‬
‫تعيشين في ذهلة الحالمين‬
‫كون عجيب‬ٍ ‫!بعيداً بآفاق‬
‫ويمأل روحك في قيده‬
‫حنين المشوق وشجو الغريب‬
‫ومن فلك األرض كم تطلقين‬
‫خيالك فوق الفضاء الرحيب‬
‫يجوز مدار النجوم ويمعن‬
‫ عبر الغيوب‬،‫في الالنهايات‬

‫ألست من األرض؟ فيم انخطافك؟‬
‫فيم انجذابك نحو األعالي؟‬
8
Maqbūl, Fatẖī, Fadwā Ṭūqān attraverso le sue poesie, Roma, Centro Culturale Arabo, 1982, p. 22.

12

‫أراعك في األرض سيل الدماء‬
‫وبطش القوى والرزايا الكبر‬
‫أراعك فيها شقاء الحياة؟‬
‫اراعك فيها صراع البشر؟‬

Nel primo periodo di produzione poetica la Ṭūqān sembrava incapace di staccarsi dal tema
del dolore personale che la strugge, che spesso esprime attraverso un’appassionata
comunione con la natura, come già visto nella poesia dedicata alla farfalla. La lirica forse più

simbolica di questo periodo è ‫خريف و مساء‬, H̱arīf wa masā, (Autunno e sera): qui la
poetessa, contemplando il giardino devastato dalla tempesta, lo sente quasi simbolo della
caducità umana, della sua propria fine9:

Ecco il giardino, devastato dalle mani dell’autunno


che han disperso i verdi suoi veli, e portato via il suo splendore.
Dannato uragano, quanto hai infierito sulla sua bellezza!
La mano sua stolta l’hai spogliato delle sue foglie
nudo esso sta, senza ombre né fiori né lievi sussurri.
[…]
Il giardino tornerà a verdeggiare generosamente fecondo
La luce tornerà a palpitare con la fresca aurora
Ma io, una volta sfiorita e avvizziti i miei bocci
Una volta spentasi domani la luce della mia vita
Come potrò mai risorgere, sfiorita e spenta in eterno?10

‫ها هي الروضة قد عاثت بها أيدي الخريف‬


‫عصفت بالجسف الخضر وألوت بالرفيف‬
‫ كم جار على أشراقها‬،‫تعس اإلعصار‬
‫ج ّردتها كفّه الرعناء من أوراقها‬
‫ ال همس حفيف‬،‫ ال أفياء‬،‫ ال زهر‬، ّ‫عريت‬

9
Gabrieli, F., Sette fogli dal divano di Fadwā, in “Oriente Moderno” 60.1/6, 1980, pp. 147-157.
10
Ibid.

13
‫سيعود الروض للنضرة والخصب السري‬
‫سيعود النور رفّاقا ً مع الفجر الطّري‬
‫غير أني حينما أذوي وتذوي زهراتي‬
‫غير أني حينما يخبو غداً نور حياتي‬
‫كيف بعثي من ذبولي وانطفائي األبدي؟‬

2. Il maestro Ibrāhīm

Nel 1929 il fratello maggiore della Ṭūqān, Ibrāhīm, una volta laureatosi all’Università
Americana di Beirut tornò a casa per insegnare in una scuola di Nablus: il suo ritorno
simbolizzò per la giovane Fadwā la rottura di quel muro di solitudine che si era costruita
intorno e portò nella sua vita un barlume di felicità. Ibrāhīm era il fratello premuroso e
accorto di cui Fadwā aveva bisogno: resosi conto della sofferenza della sorella a causa della
proibizione della scuola, Ibrāhīm offrì a Fadwā di insegnarle la poesia, e da quel giorno
diventò il suo maestro.
La scuola “poetica” del fratello, l’unica che potrà frequentare, offrì alla Ṭūqān adolescente
l’occasione di emanciparsi e di sognare la libertà. In un quaderno scrisse:

Nome: Fadwā Ṭūqān


Classe: nessuna
Insegnante: Ibrāhīm Ṭūqān
Materia: Poesia
Scuola: La casa11

La poesia diventò tutto il suo mondo e i grandi poeti preislamici, omayyadi e abbasidi i suoi
migliori amici, con i quali passava intere giornate. Ibrāhīm la spinse a convertire il
sentimento di oppressione in forza creatrice e ben presto la giovane Fadwā si dimostrò
un’eccellente allieva. La sua sensibilità e la sua propensione naturale per la poesia la
portarono in poco tempo a padroneggiare le regole di metrica della poesia classica e la
grammatica della lingua araba. Ibrāhīm la educò alla poesia dei grandi classici quali al-
Buḥturī, Abū Tammām e Ibn al-Rūmi, ai quali lei si ispirò per i suoi primi componimenti.
11
Camera d’Afflitto, Isabella, Letteratura araba contemporanea: dalla nahḍah a oggi. Vol. 221. Carocci, 2007,
p. 151.

14
Tale imitazione non si limitava allo stile ma si estendeva ai contenuti: nelle strazianti poesie
del poeta Abū Firās scritte durante la sua prigionia sotto i Bizantini Fadwā ritrovava la
propria prigionia; così pure il dolore cantato da Ibn al-Rūmī, desolato per la perdita immatura
del figlio, attirava l’animo di Fadwā, ugualmente sconvolta dalla lontananza del fratello, che
dovette lasciarla per andare a vivere a Beirut, dov’era stato chiamato per insegnare
all’università12. Anche dopo la partenza di Ibrāhīm, la poetessa in erba continuò a scrivere
imitando i suoi poeti preferiti e modellando i suoi componimenti sulle loro antiche elegie.
Tentò anche di imitare il fratello in alcuni componimenti di carattere patriottico: Ibrāhīm
infatti nel frattempo era diventato la voce dei palestinesi militanti la cui coscienza politica e
sociale si levava contro la realtà del colonialismo britannico e la sempre più incalzante
minaccia sionista. Insieme ai suoi due amici poeti Abd al-Karīm al Karāmi (detto Abū Salma)
e Abd al-Rahīm Mahmūd13, Ibrāhīm aveva aperto la strada alla prima generazione di poeti
militanti, schierati con il movimento nazionalista arabo. I tentativi di Fadwā però si
rivelarono semplici esercizi di stile, in quanto non si era ancora sviluppato in lei un
sentimento patriottico forte né una coscienza politica. Allo stesso tempo, gli avvenimenti
politici la toccavano sempre più da vicino. A seguito della rivolta popolare palestinese
iniziata nel 1936 (che durò fino al 1939), il governo britannico impose la legge marziale e il
coprifuoco: iniziò un periodo di repressioni, torture e arresti collettivi. La Ṭūqān, che nel
frattempo era andata a vivere con Ibrāhīm prima a Beirut e poi ad Amman, tornò a Nablus e
visse in prima persona il rapido deteriorarsi della situazione. Nelle sue memorie ricorda le
perquisizioni notturne, i saccheggi delle case e la violenza crescente. Passò poco tempo prima
che il padre della poetessa venisse arrestato e messo in carcere, senza mai far ritorno. Lo
shock provocato dalla scomparsa del padre provocò nella Ṭūqān un blocco poetico che si
ripeterà dopo ogni tragedia della sua vita. Essa lo descrive così nella sua autobiografia:

Ho sempre scritto poco in preda alle emozioni. Anche durante i due mesi che hanno seguito la guerra
del 1967 sono rimasta muta. È nella calma che segue la tempesta che posso riprendere a scrivere; la
poesia, come un embrione, comincia a prendere forma, e in questo stadio non so ancora cosa dirò; poi
progressivamente le idee fanno il loro cammino, si cristallizzano, e nella confusione mi ritrovo a
scrivere il primo verso, poi il secondo. Dopodiché comincia lo sforzo individuale 14.

12
Maqbūl, Fatẖī, Fadwā Ṭūqān attraverso le sue poesie. Roma, Centro Culturale Arabo, 1982, op. cit., p.93.
13
Ṭūqān, Fadwā, Le Rocher et la Peine :Mémoires I, trad. fr. di Joséphine Lama e Benoît Tadié, Langues et
Mondes, 1997, p.106.
14
Ibid. p.137.

15
La poesia intitolata ‫الى أبي‬, Ilā Ābī, A mio padre infatti verrà scritta e pubblicata sulla
rivista “al-Risāla” solo molti mesi dopo.
Gli anni Trenta videro il nascere di una nuova generazione di poeti militanti che si
servivano della poesia come strumento di resistenza culturale e come manifesto del loro
nazionalismo. Il poeta divenne una figura simbolo della resistenza palestinese, «prodotto
della lotta in corso e allo stesso tempo elemento motore della lotta» 15. Ibrāhīm continuava ad
essere una delle guide di questa nuova generazione di poeti ed esercitava la sua influenza
tramite Radio Palestina, di cui era il presidente. La sua vita però era sempre più in pericolo a
causa del crescente antagonismo tra britannici, arabi ed ebrei. A seguito della proclamazione
del Libro Bianco16, nel 1939 il clima di tensione si inasprì notevolmente, alimentato da
violenze e attentati sempre più frequenti. Il 2 agosto del 1939, un attentato sionista fece
esplodere il palazzo da dove andava in onda Radio Palestina; Ibrāhīm si salvò
miracolosamente, ma le sue condizioni di salute incominciano a deteriorarsi. Licenziato dalla
Radio con il pretesto di aver fatto propaganda antisemita e anti-coloniale, si trasferì in Iraq
per insegnare lasciando la sorella a casa, ma dopo qualche mese la sua malattia si aggravò e
Ibrāhīm morì. Nella sua autobiografia, la Ṭūqān scrive a proposito della morte del fratello:
«Qualcosa si infranse in fondo al mio cuore, la sofferenza mi invase, ero orfana» 17. Ibrāhīm
era stato per lei padre, maestro e fratello; l’aveva salvata dal baratro della solitudine e l’aveva
illuminata della luce della poesia. La scomparsa dell’unico punto fermo nella vita della
giovane Ṭūqān la scosse profondamente. La prima poesia dedicata alla sua morte è intitolata

‫على القبر‬,ʻlā al-qabr, (Sulla tomba), e dice:

Oh tomba, per quanto tempo


la mia anima ti ha sorvolato,
vagandoti intorno,
come un uccello ferito!
[…]
Qui vivono i desideri della mia anima,

15
Ibid. p.141.
16
Con la proclamazione del Libro Bianco nel 1922 e nel 1939 il Regno Unito intendeva chiarire il significato di
“focolare nazionale per il popolo ebraico” espresso nella dichiarazione Balfour del 1917, precisando che il suo
obiettivo non era quello di rendere la Palestina ebrea. Questa rettifica escludeva l’idea che il popolo ebreo
potesse imporsi al popolo arabo privandolo del suo paese e del suo lavoro. V. Ṭūqān, Fadwā. Le Rocher et la
Peine :Mémoires I, trad. fr. di Joséphine Lama e Benoît Tadié, Langues et Mondes, 1997, Cit. p.147.
17
Ṭūqān, Fadwā, Le Rocher et la Peine :Mémoires I, trad. fr. di Joséphine Lama e Benoît Tadié, Langues et
Mondes, 1997, Cit. p.157.

16
questo luogo è la meta dei miei sogni
e dei miei pensieri,
che vengono in devoto pellegrinaggio.
Ovunque io sia, vicina o lontana,
il mio cuore è legato a te, per sempre…
[…]
O tomba, che fiammeggi di luce,
sei per me la più bella fra le tombe!
C’è in te il mondo
e nel mio cuore spezzato c’è la desolazione
da quando in te è calato il suo corpo.
[…]
Dov’è Ibrāhīm, luce dei miei occhi?
Io sono tra la vita e la morte;
forse presto giungerà l’ora
che cancellerà le ferite
e i dolori del rimpianto.18

‫ هنا كم طاف روحي‬،‫آه يا قبر‬


‫هائما ً حولك كالطير الذبيح‬
[…]
‫وهنا يا قبره أشوق نفسي‬
‫يا ألشواق على تربك حبس‬
‫وهنا قِبلة أحالمي وهجسي‬
‫ أو طال نزوحي‬،‫ الدار‬¥‫ق ّربتني‬
‫فخيالي بك رهنٌ ك ّل حين‬
[…]
‫آه يا قبراً له إشعاع نو‬
‫! ال أرى أجمل منه في القبور‬
‫ وفي قلبي الكسير‬،‫فيك دنياي‬
‫مأتم ما أنف ّك مذ بات لديك‬
‫قائما ً يأخذ منه بالوتين‬
18
Maqbūl, Fatẖī, Fadwā Ṭūqān attraverso le sue poesie, Roma, Centro Culturale Arabo, 1982, p. 37.

17
[…]
‫ أين أين‬،‫أين إبراهيم مني‬
‫حبة القلب ونور الناظرين‬
‫أنا من عيش وموت بين بين‬
‫فلعل الحين موف عن قريب‬
‫يمسح الجرح واالم الحنين‬

Le poesie scritte per il fratello morto non possono non riportare alla mente un’altra
importantissima figura della poesia araba: la poetessa preislamica al- H̱ansā, prima figura
femminile di spicco della letteratura araba e riformatrice del componimento poetico elegiaco.
Al- H̱ansā è conosciuta soprattutto per le sue elegie scritte per la morte di due fratelli periti in
battaglia contro tribù rivali, elemento che evidenzia subito un possibile parallelismo. Anche
la Ṭūqān infatti perderà un altro fratello, Nimr, morto in un incidente aereo poco prima della
guerra del 1967, fratello che aveva parzialmente sostituito Ibrāhīm e che la poetessa amava
moltissimo.
Lo stile poetico della poetessa palestinese è molto diverso da quello della poetessa
preislamica; al-H̱ansā scriveva in maniera più impersonale e senza mai attribuire le emozioni
che descriveva direttamente a sé stessa ma spostandole su altri oggetti o esseri presenti
nell’ambiente. Entrambe però esprimono il loro dolore in maniera aperta e sincera, vittime
della stessa tragedia. Il componimento più conosciuto di al-H̱ansā è la sua rā’iyya, elegia che
rima in “r”, scritta per commemorare il fratello Ṣakhr. Sebbene nelle sue opere la Ṭūqān non
faccia nessun riferimento esplicito alla conoscenza o all’influenza di al-H̱ansā, è interessante
notare come due poetesse arabe simbolo della loro epoca abbiano sofferto lo stesso dolore e
lo abbiano trasformato in commoventi elegie19.
Per Fadwā Ṭūqān la morte di Ibrāhīm fu l’ennesimo colpo malvagio del destino. A lui
venne dedicato il primo volume pubblicato dalla poetessa nel 1946 a Gerusalemme, intitolato

‫اخي إبراهيم‬, Aẖī Ibrāhīm, (Mio fratello Ibrāhīm): un’opera in prosa dove la Ṭūqān
descrive la vita e le opere del fratello prematuramente scomparso. Dopo la morte di Ibrāhīm
la Ṭūqān si avvicinò sempre di più al tema della resistenza cantato nelle sue poesie; si sentì
19
DeYoung, T, Love, Death and the Ghost of al-Khansa: The Modern Female Poetic Voice in Fadwā Tuqan’s
Elegies for Her Brother Ibrahim, in “Tradition, Modernity and Post Modernity in Arabic Literature”, 2000, pp.
45-77.

18
erede del ruolo del fratello nel denunciare le oppressioni e inneggiare alla libertà della
Palestina. In un frammento della poesia Il sogno del ricordo, dedicata “allo spirito di mio
fratello Ibrāhīm”, ella scrive:

“Fratello, hai visto come la storia è finita? Hai visto tu l’esito spaventoso?
Ricordi quando profondevi la tua poesia, che trascorreva sulla patria, come un soffio di fiamma? mettendoli in
guardia da una fine obbrobriosa, come se leggessi nelle tavole dell’arcano futuro?” Ma il tuo fantasma spariva in
silenzio, senza rispondere, dietro l’estremo confine.
E la tua feriva gocciava del più puro sangue, fluente nel grembo di un’umida nube.
e prese ad abbracciare la ferita della patria, la patria nostra inchiodata sulla croce 20

‫أخي أرأيت القضية كيف‬


‫ أرأيت المصير الرهيب‬،‫انتهت‬
‫أتذكر إذ أنت ترسل شعرك‬
‫يطوي الحمى عاصفا ً من لهيب‬
ِّ
‫تحذرهم من هوان المآل‬
‫كأنك تقرأ لوح الغيوب‬
‫ولكن طيفك كان يغيب‬
‫وراء المدى صامتا ً ال يجيب‬
‫وجرحك يقطر أزكى دماء‬
‫همت في حواشي غمام خضيب‬
‫ جرح الحمى‬¥‫وراحت تعانق‬
‫حمانا المسمر فوق الصليب‬

3. Un nuovo stile: l’adozione del verso libero.

Se nonostante gli sforzi la Ṭūqān ancora non riuscisse ad appassionarsi alla politica, la sua
attenzione si rivolse verso un nuovo movimento poetico del Romanticismo e a cui stavano
aderendo tutti i poeti arabi della nuova generazione. Iniziato con al-Bārādi all’inizio della
Nahda, - il rinascimento arabo -, e portato avanti dal poeta egiziano Shawqi e dai suoi
contemporanei egiziani, iracheni e libanesi, questo movimento era stato creato proprio dai

20
Gabrieli, F., Sette fogli dal divano di Fadwā, “Oriente Moderno”, 60.1/6, 1980, pp. 147-157.

19
poeti del gruppo Apollon, formatosi negli anni Trenta, e stava riscontrando un enorme
successo. Agli occhi di Ibrāhīm però la poesia romantica era inconsistente e debole, e
soprattutto mancava dell’eloquenza che contraddistingueva la poesia classica. Ibrāhīm faceva
parte della generazione di poeti palestinesi del primo Novecento, nei quali la nascita del pan-
arabismo e del nazionalismo arabo si rifletteva con il desiderio di ritornare agli esempi
letterari dell’epoca abbaside. Lo stile neo-classico proprio dei poeti della sua epoca era
definito da una severa adesione alla struttura e alla metrica classiche, alla scelta di un
vocabolario arcaico e ad un rifiuto di troppe metafore prediligendo una retorica schietta e
chiara. Ansiosa di soddisfare il fratello, la Ṭūqān si sforzò, soprattutto nel periodo compreso
tra il 1933 e il 1940, di fare proprio il modello classico e di riprodurne la solennità e
l’eloquenza. Tuttavia, l’attrazione verso il Romanticismo era troppo forte e ben presto la
giovane poetessa si abbandonò alla scrittura di poesie d’amore, che inviava alle riviste “al-
Amāli” e “al-Risāla” firmate con lo pseudonimo di “Danānīr”, per tenere nascosta la sua
identità al fratello. La ribellione alla rigida struttura dei componimenti classici risultò però
difficile: così abituata a dare priorità esclusiva ai suoni delle parole e alla metrica la Ṭūqān
non riusciva ad abbandonarsi al flusso dei suoi sentimenti. La musicalità del ritmo classico
monotono ed uniforme la guidavano a comporre versi regolari ma tutti uguali. Ad affrancarsi
dalle costrizioni della metrica classica la aiutarono la conoscenza della letteratura Mahjar,
cioè la letteratura degli scrittori arabi emigrati, e quella del gruppo Apollon, che aveva come
unica ambizione quella di «scrivere una poesia che derivasse la sua bellezza dalla sua
semplicità, la sua flessibilità, la sua sincerità, da una forma spogliata di manierismo.»21 Nel
1947, la poetessa irachena d’avanguardia Nāzik al Malā’ika pubblicò le prime poesie in verso
libero, definito in arabo shiʻr al-ḥurr. Il suo successo fu tale che vi si convertirono i poeti
degli anni Cinquanta e la Ṭūqān li seguì, entusiasta di questo nuovo stile che esaltava la
soggettività del poeta e che simboleggiava per lei una nuova evoluzione, un nuovo
affrancamento dal vecchio verso il nuovo, una nuova libertà. Così se la tematica prevalente
dei suoi componimenti in verso libero rimase quella del dolore, esso venne affiancato da un
crescente senso di attaccamento alla vita, un amore che si infilò nelle crepe del solido muro

che le stringeva il petto e che cercava uno sfiato. Questo estratto della poesia ‫حياة‬, Ḥayāt,
(Vita), mostra la violenta e perenne lotta interiore tra dolore e amore:

21
Ṭūqān, Fadwā, Le Rocher et la Peine :Mémoires I, trad. fr. di Joséphine Lama e Benoît Tadié, Langues et
Mondes, 1997, Cit. p.113.

20
La mia vita è lacrime, è un cuore
passionale, è desiderio, è poesia, è musica;
la mia vita è un pianto; se domani
la sua ombra dovesse sparire,
rimarrà sulla terra un’eco di essa,
che ripete la mia voce cantando;
la mia vita è in lacrime22.

‫حياتي دموع‬
‫وقلب ولوع‬
‫ وعود‬،‫ وديوان شعر‬، ‫وشوق‬
‫ حياتي أس ًى كل ّها‬، ‫حياتي‬
‫اذا ما تالشى غداً ظلّها‬
‫سيبقى على األرض منه صدى‬
ً‫يردد صوتي هنا منشدا‬
‫حياتي دموع‬
Il dolore intimo e profondo dell’infanzia non abbandonò mai la Ṭūqān, ma non la portarono
mai neanche all’annichilimento e al rifiuto della vita. Essa cercò sempre la felicità, fu sempre
rivolta verso la vita e accolse il dolore a braccia aperte per sublimarlo in poesia, poesia che
nelle raccolte successive darà sempre più spazio all’amore.

Capitolo II
La poesia dopo la Nakba : il ritrovamento della libertà individuale nella
catastrofe

22
Maqbūl, Fatẖī, Fadwā Ṭūqān attraverso le sue poesie, Roma, Centro Culturale Arabo, 1982, p. 26.

21
1. Il movimento di emancipazione femminile arabo e “l’uscita dall’harem”

A partire dai primi decenni del Novecento le donne arabe e quindi anche palestinesi
iniziarono un lento processo di emancipazione legato alla fase storica e politica che stava
interessando tutta la regione. Con il nascere del nazionalismo arabo e il crescente fermento
culturale infatti, in quasi tutte le città della Palestina vennero create numerose università e
circoli culturali che riunivano intellettuali, scrittori e poeti e che contribuivano a diffondere le
idee nazionaliste e lo spirito di ribellione al mandato britannico e al movimento sionista, che
favoriva dall’Europa l’immigrazione ebraica in terra palestinese. A Nablus, come scrive
Fadwā Ṭūqān nella sua autobiografia, nacque la Scuola Nazionale di al-Naǧāh (oggi nota
come università nazionale di Naǧāh), con annesso un circolo culturale che in breve tempo
diventò l’anima delle varie manifestazioni nazionaliste.
Il movimento nazionalista arabo incominciò ben presto a coinvolgere anche le
donne, ma in Palestina diversamente dall’Egitto –fulcro del movimento nazionalista- le
battaglie si caratterizzavano non tanto per motivi ideologici quanto per un chiaro e concreto
impegno politico di fronte alla minaccia incombente del sionismo e dell’oppressione
britannica: le prime organizzazioni nacquero ad ‘Akka nel 1903, a Giaffa nel 1910 e a Haifa
nel 1911 con il nome di al-Ǧamʻiyyah al-nisā’iyyah (Associazione femminile)23. Queste
prime associazioni di donne in Palestina assomigliavano a quelle di ogni altra parte del
mondo arabo: erano organizzazioni caritatevoli, indistintamente cristiano-ortodosse o
islamiche e senza alcuna rivendicazione politica; erano dirette per lo più da figlie dell’alta
borghesia e si occupavano di volontariato verso i più bisognosi attraverso azioni concrete di
sostegno alle famiglie e alle donne in difficoltà, ai prigionieri o ai ribelli. La loro importanza
risiedeva nell’essere un punto di partenza: luoghi di riunione di donne con intenti comuni che
rappresentavano rampe di lancio per associazioni che con il tempo sarebbero diventate
sempre più organizzate e forti.
L’aumento della scolarizzazione fu alla base di questa presa di coscienza femminile:
oltre alle scuole palestinesi che iniziavano ad essere aperte ad entrambi i sessi, erano sempre
più numerose le scuole straniere confessionali; la stessa Fadwā studiò francese, pianoforte e
pittura per due anni presso la scuola delle suore di San Giuseppe, anche se le fu permesso
frequentarla solo dopo la morte del cugino paterno più anziano, quando lei aveva 25 anni. A

23
Camera d’Afflitto, Isabella, Cento anni di cultura palestinese, Roma, Carocci, 2007, p.24.

22
Nablus, più conservatrice rispetto alle altre città palestinesi, non aprirono molte scuola
straniere e per imparare l’Inglese Fadwā e la sorella Fatāya dovettero aspettare il 1993,
quando il padre le autorizzò a prendere lezioni private da una ragazza cristiana che aveva
studiato presso la scuola “Friends” di Ramallah. Tuttavia, dopo poco tempo gli anziani della
famiglia proibirono loro di continuare questa attività “inopportuna”, e le giovani sorelle si
ritrovarono nuovamente rinchiuse tra le mura di casa. Nella sua autobiografia, la Ṭūqān
descrive così la decisione della sua famiglia:

Si vestivano all’europea, parlavano il turco il francese e l’inglese, mangiavano con le forchette e i


coltelli, si innamoravano; poi si mettevano in guardia, pronti a intervenire se una di noi voleva
affermare la propria personalità sviluppando le proprie naturali inclinazioni o cercando di migliorare la
propria condizione. Rappresentavano perfettamente la rigidità dell’individuo arabo, la sua incapacità
totale a preservare una personalità intera. Erano l’incarnazione vivente di questa personalità scissa in
due: una metà protesa verso il progresso, lo spirito del tempo e il ritmo della vita moderna, l’altra
paralizzata, abitata da questo egoismo i cui sedimenti si sono, col tempo, depositati nell’uomo arabo,
con tutto ciò che può portare la vanità orientale, vanità che non cessa di ispirarlo nel suo
comportamento verso le donne della sua famiglia24.

Nonostante all’epoca Nablus fosse la città più conservatrice della Palestina era al
contempo una delle più politicamente attive, portando come conseguenza un coinvolgimento
sempre maggiore delle donne. Nel 1921, sotto la presidenza di Mariam Hāshim nacque
un’associazione femminile con scopi caritatevoli che nel 1929 si inserì nella più organizzata
Unione delle donne arabe, fondata da Hudā al-Shaʻrāwī in Egitto, e si trasformò poi
nell’Unione delle donne della Palestina, con ramificazioni in tutta la regione 25. Anche la
madre della Ṭūqān faceva parte di una di queste associazioni di volontariato, pur
partecipando in maniera molto limitata rispetto alle altre donne a causa delle rigide regole
della famiglia. La Ṭūqān ricorda che a quell’epoca la partecipazione politica delle donne
appartenenti alla borghesia nazionalista si limitava in fondo a qualche timida manifestazione
in città e soprattutto agli invii di telegrammi di protesta e alla collaborazione con varie testate
arabe. Nelle campagne invece, dove da sempre la popolazione godeva di più libertà di
movimento, soprattutto dovuta al fatto che per lavorare nei campi non si portava il velo, le
donne erano più attive, lavoravano fuori casa e potevano svolgere mansioni sociali e

24
Ṭūqān, Fadwā. Le Rocher et la Peine :Mémoires I, trad. fr. di Joséphine Lama e Benoît Tadié, Langues et
Mondes, 1997, p.120.
25
Camera d’Afflitto, Isabella, Cento anni di cultura palestinese, Roma, Carocci, 2007, p.25.

23
politiche, ad esempio assistere le famiglie bisognose o sfamare i rivoltosi che fuggivano dalle
città nelle campagne. L’aspetto politico della partecipazione delle donne infatti prese il
sopravvento rispetto alle rivendicazioni prettamente femministe; erano le donne stesse a dare
maggiore importanza alla causa palestinese rispetto alla causa femminile e a dedicarvisi con
raccolte fondi, assistenza ai caduti e ai carcerati e creazione di legami sempre più forti con le
attiviste egiziane, che sostenevano la lotta palestinese con fondi e delegazioni. È importante
sottolineare però che queste donne erano lungi da definirsi “femministe”, dal momento che il
concetto di femminismo all’epoca era ancora in incubazione tanto nel mondo arabo quanto in
Occidente. Più che di femminismo si potrebbe parlare di movimenti di emancipazione
femminile, che comunque attraverso l’attivismo politico portarono a notevoli cambiamenti
sociali. Il più importante fu certamente l’abolizione del velo, che molte egiziane avevano
iniziato ad abbandonare seguendo il coraggioso esempio di Hudā al-Shaʻrāwī 26, famosa
femminista egiziana. Nel 1930 venne organizzata una vera e propria campagna per
l’abolizione del velo e l’emancipazione femminile e molte donne che parteciparono agli
scontri del 1929 si mostrarono per la prima volta a viso scoperto, suscitando le
preoccupazioni degli ambienti conservatori e anche di alcune frange del movimento
progressista che ritenevano che l’abolizione del velo non portasse ad una reale liberazione
della donna, ma fosse una manovra dell’Occidente per fini coloniali.
Leggendo i versi delle struggenti poesie giovanili d’amore e di dolore della Ṭūqān
risulta tuttavia molto difficile credere al successo dei movimenti di emancipazione femminile
che stavano conquistando l’Egitto e la Palestina. Se infatti le mogli e le figlie dei politici
progressisti crescevano in un ambiente più libero e culturalmente aperto che dava loro la
possibilità di agire da donne indipendenti, la maggior parte della popolazione restava
saldamente ancorata alle tradizioni e viveva secondo i dettami di una cultura ultra-
conservatrice che vedeva le donne come madri e come mogli dipendenti dalla volontà
maschile, non come individui in grado di decidere del proprio destino. Nablus in particolare
rimaneva una città restia al cambiamento, dove la maggior parte delle donne viveva reclusa e
oppressa, vittima della propria condizione. Contrariamente ad alcune donne che
consideravano lo stato delle cose naturale, o meglio “voluto da Dio”, la Ṭūqān intimamente
rigettava i valori imposti dalla sua società, che criticava duramente. Scrive nella sua
autobiografia:

26
Camera d’Afflitto, Isabella. Letteratura araba contemporanea: dalla nahḍah a oggi. Vol. 221. Carocci, 2007,
p.189.

24
La realtà quotidiana dietro le pareti di questo “harem” era umiliante e degradante […] Intorno a me
vedevo solo vittime senza volto, senza una vita indipendente […] Queste vittime, le ho sempre
conosciute vecchie. Invecchiavano a venticinque anni: le vedevo sempre vestite in maniera austera,
ascetica, i capelli coperti da un foulard bianco, sedute tra quattro mura. Non avevano amiche. Non
avevano una vita privata. Erano delle giovani ragazze dai capelli bianchi, i volti rugati prima del tempo
dalla frustrazione. Il matrimonio di una ragazza ad uno straniero era contraria alle tradizioni familiari:
bisognava scegliere tra il cugino paterno e la virginità fino alla tomba27.

L’esclusione da ogni funzione o attività sociale, la reclusione e la negazione dell’individualità


femminile immersero la poetessa in una solitudine crudele. Per quanto ribelle, non aveva la
forza di opporsi agli ordini paterni e degli anziani e non aveva altra via di fuga se non il
proprio mondo interiore. Ogni ribellione alla tradizione avrebbe infatti avuto bisogno di un
sostegno maschile, senza il quale era impossibile vincere. Come sempre quindi, la Ṭūqān si
ripiegò su sé stessa in uno stato di isolamento e alienazione totale, incapace di reagire.
È in questo periodo che il padre iniziò a chiederle di scrivere componimenti politici.
Probabilmente per colmare il vuoto lasciato dal fratello Ibrāhīm, il padre si rivolgeva a Fadwā
in occasione di ogni celebrazione nazionale affinché lei scrivesse una poesia, e lei lo
accontentava per timidezza e per guadagnarsi il suo affetto. Dentro di sé però si levava la
voce della ribellione: come poteva un padre-padrone chiederle di scrivere componimenti
politici mentre la teneva prigioniera in casa e non le permetteva di partecipare alle riunioni
degli uomini né di discutere con loro? La rabbia repressa traspare dal suo racconto di quel
tempo:

Dal momento che non ero socialmente libera, come potevo mettere la mia penna al servizio di una
liberazione politica, ideologica o nazionale? Mancavo di maturità politica, così come mancavo di
intelligenza sociale. Non possedevo che l’intelligenza letteraria, che da sola non poteva bastare 28.

La giovane poetessa si rendeva conto che l’essere umano non può affermarsi che attraverso la
società, che non far parte del mondo esterno significa in fondo non esistere affatto, e un senso
di impotenza soffocante si impadronì di lei. Scrive nelle sue memorie:

27
Ṭūqān, Fadwā, Le Rocher et la Peine :Mémoires I, trad. fr. di Joséphine Lama e Benoît Tadié, Langues et
Mondes, 1997, p.163.
28
Ṭūqān, Fadwā. Le Rocher et la Peine :Mémoires I, trad. fr. di Joséphine Lama e Benoît Tadié, Langues et
Mondes, 1997, p.167.

25
Un deserto poetico ricoprì questo periodo difficile della mia via. La presa di coscienza dello stato di
frustrazione e di tensione nel quale mi trovavo lasciava delle tracce nel mio animo e sul mio corpo. […]
La vita non aveva più senso né sapore. La debolezza dei miei legami con la realtà, unita alla necessità
di un contatto con il mondo esterno, erano le fonti di un conflitto di cui soffrivo da tempo. Continuavo
a sentirmi assolutamente sola29.

Sopravvissuta ad un nuovo tentativo di suicidio e ad un periodo di estrema desolazione, la


Ṭūqān riprese a scrivere dopo la morte del padre, avvenuta durante la guerra del 1948. La
morte del padre costituì un punto di svolta. Per quanto egli avesse sempre ricoperto il ruolo di
padre-padrone e sua guardia carceraria, la sua improvvisa scomparsa gettò la poetessa in uno
stato di temporanea confusione e blocco. La caduta del pilastro della famiglia coincise con la
caduta della coalizione araba per mano dell’esercito israeliano: la catastrofe nazionale si
rifletté nella catastrofe familiare, e l’una aumentò la tragedia dell’altra. La prima guerra
arabo-israeliana -scoppiata alla proclamazione dello Stato di Israele- provocò l’occupazione e
la distruzione di centinaia di villaggi palestinesi e Nablus, rimasta sotto il controllo arabo,
venne invasa da migliaia di profughi che si riversarono nelle case, nelle scuole e nelle
moschee. La Nakba, parola araba che significa “catastrofe” , sciolse la lingua della poetessa e
ne sbloccò i sentimenti. Ella incominciò così a scrivere poemi patriottici, per la prima volta
nella sua vita spontaneamente, spinta da un nuovo ardore. Paradossalmente, come per la
poetessa la morte del padre rappresentò allo stesso tempo una disgrazia e una liberazione, per
le donne palestinesi la catastrofe della disfatta fu l’occasione di unirsi agli uomini in battaglia
e unire alle rivendicazioni di libertà per la Palestina quelle per i propri diritti. Anche a
Nablus, sebbene in ritardo rispetto alle altre città palestinesi, con la Nakba le donne
abbandonarono il velo, come racconta la Ṭūqān, perché «la necessità dell’evoluzione finisce
sempre per vincere la tradizione»30:

Con il crollo della Palestina nel 1948, anche il velo finì per cadere dal volto della donna di Nablus che
aveva lottato a lungo per liberarsi della malā’ah, il tradizionale e spesso velo nero (che copriva dalla
testa alle caviglie). Ma tutto questo aveva richiesto ben trent’anni: negli ultimi venti si era sbarazzata
della tannūrah lunga e ampia, e l’aveva sostituita con un soprabito nero o marrone, o di un altro colore
sobrio. Agli inizi degli anni quaranta si era liberata del manto che le copriva la testa fin alla vita […] e
a metà sempre degli anni quaranta il mandīl, il velo nero, divenne trasparente. Nella metà degli anni

29
Ibid. p.169.
30
Ṭūqān, Fadwā, Le Rocher et la Peine :Mémoires I, trad. fr. di Joséphine Lama e Benoît Tadié, Langues et
Mondes, 1997, p.176.

26
cinquanta, poi, il velo fu abbandonato definitivamente e apparve la bellezza dei volti a testimoniare con
pudore la grazia di Dio31.

Finalmente, anche per Fadwā Ṭūqān arrivò il momento di gustare la tanto ambita libertà.
Uscita dall’ “harem”, la poetessa si lanciò verso il mondo esterno come un uccellino a cui è
stata aperta la gabbia, come un prigioniero lasciato in libertà. Respirò la vita a pieni polmoni
e, liberata dalle catene della tradizione, poté finalmente esprimersi da donna e da poetessa
indipendente.

2. La poesia d’amore

La conquista della libertà individuale per Fadwā Ṭūqān non coincise immediatamente con
l’impegno politico: la poetessa era, come lei stessa affermò, immatura sia socialmente che
politicamente. La lunga reclusione non le aveva permesso di formarsi una coscienza politica e
uno spirito critico e lei, ritrovatasi libera dalle catene, si volse spontaneamente verso il
sentimento che aveva dovuto reprimere più a lungo, che non era mai riuscita ad esprimere
perché non lo aveva mai davvero conosciuto: l’amore. La società araba orientale
tradizionalmente reprimeva l’amore; lo considerava un tabù, un pericoloso peccato, una
devianza dall’austera morale religiosa. Ma l’amore per la Ṭūqān rappresentava
l’affermazione della sua umanità oppressa, il frutto proibito che l’attirava a sé e la
perseguitava, invitandola a coglierlo. La poetessa cercava l’amore guidata dal cieco istinto,
senza conoscerne il volto ma fidandosi della dolcezza che le ispirava. Scrive nelle sue
memorie:
A dire il vero, l’amore era per me un’idea astratta, un mondo assoluto di cui ero innamorata. “L’altro”
era l’incarnazione di un’idea che non potevo mai perdere di vista, al punto che essa faceva parte dei
miei sensi e dei miei istinti, mi riscaldava e faceva battere il mio cuore senza sosta. Questa idea astratta
non aveva né rive né porti dove io potessi gettare l’ancora. Era un mare immenso dove le onde talvolta
di alzavano in tempesta e mi sbattevano fino a farmi perdere la nozione del mondo esterno 32.

La Ṭūqān sembrava quasi un’adolescente in balia del primo amore, una ragazzina
insicura che arrossisce e si lascia trasportare da sentimenti turbolenti e confusi. Nelle pagine
delle sue memorie scrive di come l’amore aumenti l’umanità dell’uomo, di come esso

31
Camera d’Afflitto, Isabella, Cento anni di cultura palestinese, Roma, Carocci, 2007, p.30.
32
Ṭūqān, Fadwā. Le Rocher et la Peine :Mémoires I, trad. fr. di Joséphine Lama e Benoît Tadié, Langues et
Mondes, 1997, p.176.

27
raccolga a sé le particelle dell’universo in un tutt’uno unico e indistruttibile, che unisce la
bellezza e la crudeltà del mondo, la sua dolcezza e la sua amarezza, le contraddizioni e i
paradossi della vita, la vita stessa e la morte. Le sue poesie diventarono piene di dettagli che
si trasformano in oggetti meravigliosi, di sentimenti dirompenti che le invadono il cuore. La
Ṭūqān non rivelò mai il nome del suo amato e dalle indicazioni che dà pare che i suoi
sentimenti non siano diretti ad una persona in particolare. Al contrario ella scrive:

Non è per niente strano che il cuore ami più di una volta. Non è normale che esso si leghi ad una
persona sola per tutta la vita. Al contrario, è naturale che nel cuore nascano nuovi amori, che hanno
ogni volta la stessa forza, la stessa sincerità e lo stesso profumo. Ma per me non sono mai state
avventure leggere o passeggere33.

In questo periodo di fervente attività poetica la Ṭūqān compose due raccolte:

‫وجدتها‬, Waǧadtuhā (L’ho trovata), edita a Beirut nel 1957 e ‫أعطنا حبا‬, Aʻṭinā ḥubban
(Dacci amore), edita sempre a Beirut nel 1960, che contengono le più belle liriche d’amore
del suo canzoniere, così diverse per lingua, stile, immagini e sentimenti dal repertorio
classico della poesia erotica araba. Liberatisi della rigidità formale della raccolta precedente,
questi nuovi versi hanno una nuova vivacità e musicalità. Non mancano le poesie tristi e
nostalgiche, strascico di un passato insopprimibile alla cui desolazione aveva ormai fatto
l’abitudine, ma la tematica romantico/erotica prevale nettamente. Come scrisse lo studioso
Khiḍr ʻAbbās al-Ṣāliḥī: «La poetessa crede nell’amore come a una forza formidabile, capace
di infrangere le mura delle prigioni e divellerne porte e catenacci, a una forza che può
spezzare le catene arrugginite dell’angoscia e della solitudine…»34 Di un’espressività

immediata e un’esplosione di sentimenti è la poesia che dà il nome alla raccolta ‫وجدتها‬,


Waǧadtuhā (L’ho trovata), che rappresenta il momento di approdo della poetessa che ritrova
se stessa, dopo tanto smarrimento:

L’ho trovata in un giorno bello e sereno,


dopo un lungo smarrimento
e una lunga ricerca.
[…]

33
Ṭūqān, Fadwā. Le Rocher et la Peine :Mémoires I, trad. fr. di Joséphine Lama e Benoît Tadié, Langues et
Mondes, 1997, p.178.
34
Canova, G, Due poetesse: "Fadwā Ṭūqāne e Salmà’l Khaḍrā’al ǧayyūsī" , “Oriente Moderno” 53.10, 1973,
pp. 876-893.

28
L’ho trovata! Soffiate, cicloni,
coprite il cielo di nuvole!
O giorni, siate pure cupi o luminosi!
La mia luce non si spegnerà.
L’ombra che mi ha avvolta
per tutta la vita,
è diradata come il mio passato,
quando ho ritrovato me stessa35

‫وجدتها في يوم صحو جميل‬


‫بعد ضياع بعد بحث طويل‬

‫ يا عاصفات اعصفي‬، ‫وجدتها‬
‫وقنّعي بالسحب وجه السما‬
‫ يا أيام دوري كما‬، ‫ما شئت‬
‫ مشمسةً ضاحكه‬، ‫قدّر لي‬
‫أو جهمة حالكة‬
‫فان أنواري ال تنطفئ‬
‫وكل ما قد كان من ظل‬
‫يمتد مسوداً على عمري‬
‫يلفه ليالً على ليل‬
‫ ثوى في ه ّوة األمس‬، ‫مضى‬
‫يوم اهتدت نفسي الى نفسي‬
È impossibile rintracciare nei versi amorosi di queste raccolte una storia, un nome, una
relazione reale: l’innamorato della poetessa cambia volto e carattere in ogni poesia, ogni
componimento descrive un aspetto diverso dell’amore quasi a creare un compendio del
mondo delle relazioni sentimentali. La Ṭūqān canta l’amore travolgente che lega i due amanti

in una prigione in ‫االنفصال‬, al-Infaṣāl, (La separazione) e in ‫كلما ناد يتني‬, Kullumā
nād yatnī, (Ogni volta che mi chiami); descrive la gioia che sta nei dettagli di un amore

35
Maqbūl, Fatẖī, Fadwā Ṭūqān attraverso le sue poesie, Roma, Centro Culturale Arabo, 1982, p. 95.

29
giovane e spensierato in ‫ساعة في الجزيرة‬, Sāʻa fī al-ǧazīrā, (Un’ora nell’isola); evoca
i momenti felici vissuti con l’amato dopo una sua lunga assenza in ‫ذكريات‬, Ḍakrīāt,
(Ricordi); racconta un incontro con un ex-innamorato di cui ha dimenticato le sembianze in

‫نيسان‬, Nīsān, (Aprile); lotta per tener vivo un amore lontano nutrendolo di memorie in
‫اليه بعيدا‬, Ilaīhi baʻīdān, (Per lui lontano); espone la contraddizione di un amante che
pretende da lei fedeltà, senza saperla ricambiare in ‫ اسطورة الوفاء‬,Asṭūrā al-wafā’, (La
leggenda della fedeltà) e raggiunge l’apice della sentimentalità con ‫اسمك‬, Ismak, (Il tuo
nome), dove si rifiuta di pronunciare il nome dell’amato per serbarlo nel suo cuore, lontano
dalla curiosità delle amiche.
Poco importa che nella realtà la poetessa non abbia un vero amante. Come scrisse Francesco
Gabrieli: «pensiamo alla poetessa, rifiutando ogni pettegola curiosità autobiografica, […] ciò
che conta è il palpito appassionato di una creatura assetata d’amore».36
In questo periodo la Ṭūqān iniziò a viaggiare, ospite di conferenze e incontri poetici.
Si recò ad Amsterdam, a Mosca, Pechino e Stoccolma, e proprio nel 1956 a Stoccolma, dove
accompagnava una delegazione giordana in occasione della Conferenza mondiale della Pace,
Fadwā incontrò Salvatore Quasimodo. Il poeta italiano era probabilmente rimasto colpito
dall’intensità della poesia della Ṭūqān, tanto da sussurrarle “I tuoi occhi sono profondi e tu

sei bella!”. La risposta della poetessa fu il componimento ‫لن ابيع حبه‬, Lan Abīʻ ḥubbahu,
(Non venderò il suo amore), dedicato a Quasimodo, in cui la Ṭūqān, pur lusingata, rifiuta le
sue avances in quanto ha un amore che l’aspetta nella sua patria. Scrisse:

Io, poeta mio, ho nella mia cara patria


un innamorato che attende il mio ritorno.
È un amato compatriota, del mio paese natio;
e tutte le ricchezze del mondo,
le stelle luminose e la luna
non mi faranno mai perdere il suo cuore
o vendere il suo dolce amore.
Ma, ciò nonostante, i sentimenti ed i desideri di donna

36
Gabrieli, F., Sette fogli dal divano di Fadwā, “Oriente Moderno” 60.1/6, 1980, p.148.

30
mi fanno battere il cuore gioiosamente
al vedere le ombre d’amore negli occhi tuoi
e al sentire il loro desideroso invito.
Perdona, o caro, l’orgoglio del mio cuore
al sentirti bisbigliare dolcemente:
«I tuoi occhi sono profondi e tu sei bella!»37

‫أنا يا شاعر لي في وطني‬


‫ينتظر‬
ْ ‫حبيب‬
ٌ ‫وطني الغالي‬
‫إنه ابن بالدي لن أضي َع‬
‫قلب ْه‬
‫إنه ابن بالدي لن أبي َع‬
‫حبّه‬
‫ض‬
ِ ‫بكنوز األر‬
‫باألنجم زه ًرا‬
‫بالقمر‬
‫غير أنّي تعتري قلبي نشو ْه‬
¥‫حينما تطفو ظالل الحب في عينيك‬
‫أو تومض دعو ْه‬
‫ فاغتفر للقلب زهو ْه‬،‫أنا أنثى‬
‫ق‬
ٌ ‫ في عينيك عم‬:‫كلما دغدغه همسك‬
‫أنت حلو ْه‬
Sebbene la Ṭūqān non si sposò mai né ebbe mai un compagno, l’amore rimase il tema
dominante del suo canzoniere. Nel corso della sua vita e della sua carriera di poetessa, la
Ṭūqān ricoprì molti ruoli, il più importante e riconosciuto dei quali fu quello politico grazie
alla sua poesia di denuncia contro i soprusi e le violenze israeliane, a favore della libertà della
sua terra. Nonostante ciò, dentro di sé la Ṭūqān volle sempre parlare d’amore. Leggendo i
suoi versi più sentimentali si ha l’impressione che se la guerra non fosse scoppiata e la
Palestina non fosse stata invasa, se la vita della poetessa non fosse stata travolta dalla
catastrofe politica ed ella non si fosse sentita in dovere di soccorrere la patria con le sue
37
al-Nā‘ūrī, ‘Īsā (a cura di), Fadwā Toqan poetessa araba della resistenza, Roma, Lega degli Stati Arabi, s.d.

31
potenti parole, l’amore sarebbe stato l’unico scopo della sua vita. L’avremmo ricordata come
la poetessa della lirica amorosa più dolce e sensibile della letteratura araba contemporanea.
Come ella stessa scrisse nelle sue memorie: «Il mio cuore è restato un giardino aperto
all’amore, di cui gli alberi non avvizziscono mai».38

3. L’incertezza politica e il ruolo del poeta nella resistenza.

L’uscita dall’ “harem” della poetessa coincise con la fase drammatica che stava attraversando
il popolo arabo nella lotta contro il colonialismo occidentale. Con la sconfitta del 1948 e
l’occupazione della Palestina le fondamenta della società araba tremarono; i movimenti
popolari si intensificarono ed il pensiero socialista e marxista cominciò a impregnare la
coscienza dei popoli, a spingerli a lottare contro il dominio coloniale da un lato e la società
tradizionale dall’altro. Il popolo si strinse intorno al presidente egiziano Jamāl abd al-Nasser,
divenuto l’idolo nazionalista del mondo arabo, una figura di speranza di fronte al dominio
straniero. A Nablus, tra il 1956 e il 1957 venne fondato il “Club culturale misto”, che
riempiva il vuoto culturale e sociale che regnava in città. Il club divenne ben presto il ritrovo
di intellettuali e di attivisti politici che organizzavano conferenze e riunioni per discutere
della fragile situazione Palestinese. Anche Fadwā Ṭūqān divenne membro del club, segnando
così il suo “debutto in società”, la sua prima azione di integrazione e partecipazione. Una
volta nel club, la Ṭūqān prese parte attiva alla vita politica della città, pur sempre trascinata
da altri e non spinta dalla propria volontà, ancora troppo timida e insicura per lanciarsi in
campagne e discorsi politici. Nel maggio del 1957 ad esempio, mentre il paese stava
attraversando un’ondata di repressioni e persecuzioni, Fadwā nascose in casa sua un
oppositore al regime reazionario giordano, il Dottor Abd al-Rahmān Shuqayr, in fuga
dall’arresto. Il club le permise inoltre di entrare in contatto con altri poeti e scrittori
palestinesi: una profonda amicizia si instaurò fra lei e il poeta Kamāl Nasser 39, il quale nel
1957, all’epoca della legge marziale e della repressione delle ideologie, dovette nascondersi
per non essere arrestato. Dal suo nascondiglio egli scriveva componimenti per il quotidiano di
Gerusalemme «Filastīn» sotto il nome “Abū Firās”. A lui la Ṭūqān dedicò un bellissimo

componimento intitolato ‫الى المغرد السجين‬, Ilā al-muġarrad al-saǧīn, (Al cantore
38
Ṭūqān, Fadwā, Le Rocher et la Peine :Mémoires I, trad. fr. di Joséphine Lama e Benoît Tadié, Langues et
Mondes, 1997, p.176.
39
Membro del comitato esecutivo dell’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina), Kamāl Nasser
venne assassinato con altri due dirigenti dell’OLP nel corso di un’incursione israeliana a Beirut, nel 1973.

32
prigioniero), in cui paragona il poeta ad un uccellino in gabbia e lo invita a non smettere di
cantare:

Fino a noi giunge l’eco del tuo canto,


volando oltre l’angustia con l’amore,
oltre le sbarre, uccello prigioniero,
delle tenebre fonde e della pena.
Canta, sì, ché se il ferro il vasto cielo
a te sottrae, non serra a noi l’orecchio.
Canta, sì, che la morsa della notte
non chiude mai la via della speranza.

Il canto tuo mi riporta


a tempi piegati dal tempo,
quando, con passo lieve,
libera l’ala, al chiostro,
ombra di gelsomino,
nel grembo conducevi,
e dicevi dei sogni,
e l’orgoglio lodavi
e la forza, e più vicine
facevi le stelle alla terra,
e ascoltavamo i campi
verdi di te, lo splendore
dei clivi, ed il sussurro dei profumi,
il gonfiore del vento
e dei monti, fierezza
che se non vinci non s’erge.

Canta, uccello, per noi, dalla prigione,


oltre l’umiliazione ed oltre il buio,
un orizzonte ancor ricco di sogni,
un sole ancora pronto all’agguato.
Bianca gloria di luce canta lieto,
canta un domani patria ai nostri sogni,
vividi sogni canta non perduti.

Canta, sì, ché la speranza,


è sempre là, la strada ferma e radiosa,

33
‫‪anche se attorno a noi‬‬
‫‪s’infittisce la rabbia della notte.40‬‬

‫محلّقا ً رغم انغالق الرحاب‬


‫يا طائري السجين فاصدح لنا‬
‫من خلف جدران الدجى والعذاب‬
‫غنّ ‪ ،‬فقضبان الحديد التي‬
‫لن تحجب الغناء عن سمعنا‬
‫يا طائري‬
‫غنّ ‪ ،‬فدرب الرجاء‬
‫ما زال يمتد مش ّع الضياء‬
‫رغم انطباق الليل منحولنا‬
‫ارجعني شدوك يا طائري‬
‫إلى زمان قد طواه الزمان‬
‫أيــّــــــام كانت ظلّة الياسمين‬
‫تحضننا ‪ ،‬وأنت تشدو لنا‬
‫شعر المنى والزهو والعنفوان‪¥‬‬
‫فتقرب النجوم من أرضنا‬
‫‪ ،‬تصغي إلى اللحن ونصغي‬
‫وكان‬
‫ملء اغانيك اخضرار المروج‬
‫ونضرة السفح ‪ ،‬وبوح األريج‬
‫وملئها كان هدير الرياح‬
‫وكان فيها من شموخ الجبال‬
‫‪ ،‬في وطني‬
‫وع ّزةٌ ال تنال‬
‫إال مع النّصر وفوز الكفاح‬
‫يا طائري السجين اصدح لنا‬
‫‪40‬‬
‫‪Blasone P., Di Francesco T. (a cura di), La Terra più amata. Voci della letteratura palestinese, Roma, il‬‬
‫‪manifesto, 2002, p.35.‬‬

‫‪34‬‬
‫رغم هوان القيد رغم الظالم‬
‫فاألفق ما زال غن ّي المنى‬
‫ينتظر الشمس وراء القتام‬
‫ فال تبتئس‬، ‫المجد للنور‬
‫والنصر للحرية الرائعة‬
‫وغدنا موطن أحالمنا‬
‫فال تقل أحالمنا ضائعة‬
‫ هناك درب الرجاء‬، ‫يا طائري‬
‫هناك يمت ّد مش ّع الضياء‬
‫رغم انطباق الليل من حولنا‬
Il paragone tra il poeta e un uccello in gabbia esprime chiaramente il clima di oppressione
culturale che gravava sulla scena intellettuale palestinese. Dopo la sconfitta militare e
l’occupazione territoriale ai Palestinesi sembrava essere rimasta solo la poesia per difendersi;
ma la poesia stessa, metafora per la resistenza culturale, causava l’arresto di molti
intellettuali, nel tentativo di soffocare il loro potente canto. Nello scrivere a Kamāl però la
Ṭūqān sovrappone la dimensione emotiva a quella della denuncia politica, e mescola la rabbia
e la tristezza alla dolcezza dei ricordi. La risposta di Kamāl Nasser alla Ṭūqān è altrettanto
commovente: egli ricorda gli stessi momenti passati insieme con un romanticismo nostalgico,
stringe la poetessa in un abbraccio di parole e la ringrazia per il conforto ricevuto
promettendole di essere forte. Vale la pena di riportare alcuni versi di questa lunga poesia

intitolata ¥‫ من االعماق‬, Min al-āmʻāq, (Dal profondo):

Se amabile l’eco del canto


ti giunge nel serrarsi degli spazi
è perché ho aperto l’ala
ad abbracciare nelle tue la pena
e a te m’unisce la cattiva sorte
e quando insieme ci vide
nel male, in te m’accolgono i ricordi
i sogni buoni i bianchi desideri.
[…]
M’è giunto il tuo scritto, sorella,

35
a un’anima ho dato la mano,
han sorriso le deste ferite,
dal passato le ombre a segnare
una risposta: sì, io le ricordo,
quelle liete serate di fratelli
e d’amici, era ombrello il gelsomino,
delizia e malinconia,
due ali che guidavano il discorso
sino a farlo impazzire per un sogno
dormiente nel miraggio; ridevamo
di noi, agli occhi le lagrime del gioco41

‫حبيب الصدى‬ َ ‫لئنْ جا َء شدوي‬


‫حاب‬
ْ ‫انغالق ال ِر‬ ِ ‫وافيك رغ َم‬ ِ ُ‫ي‬
‫فذاكَ ألنّي نشرتُ جناحي‬
‫العذاب‬
ْ ‫جانحيك‬
ِ ‫ق في‬ ُ ‫يُعان‬
‫فيك سو ُء المصي ِر‬ ِ ‫ويجم ُعني‬
‫صاب‬
ْ ‫وما ض ّمنا في األذى وال ُم‬
ُ‫بك الذكريات‬ ِ ‫كما تحتويني‬
‫غاب‬
ْ ‫وبيض ال ِر‬ ُ ‫وطيب األماني‬ ُ

‫أتاني كتابُ ِك يا أخت روحي‬
‫تاب‬
ْ ‫روح ِك بين ال ِك‬ َ ُ‫فصافَ ْحت‬
ْ‫وهشَّتْ جراحي له واستفاقَت‬
‫الجواب‬
ْ ُّ ‫َخياالتُ أمسي تخ‬
‫ط‬
‫بلى إِنَّني ذاك ٌر ذاك ٌر‬
‫حاب‬
ْ ‫الص‬ ِ ‫ولهو‬ َ ‫عشايا اإلخا ِء‬
‫الياسمين‬
ِ ُ‫تظلَلُنا ظُلَّة‬
‫ئاب‬ ¥ْ ِ‫ من لَ َذ ٍة واكت‬،‫جناحان‬ ِ
ُ
‫الحديث‬ ُّ‫ونَس َم ُر حتَّى يَ ِجن‬
41
Blasone P., Di Francesco T. (a cura di), La Terra più amata. Voci della letteratura palestinese, Roma, il
manifesto, 2002, p.37.

36
‫السراب‬
ْ ‫هاجع في‬
ٍ ‫على ُحلُ ٍم‬
‫فنأسى ونضح ُك من أم ِرنا‬
‫الدعاب‬
ْ ‫ع‬
ُ ‫وبين المآقي دمو‬
Questo intimo e allo stesso tempo pubblico scambio di poesie è ricco di emozioni, e allo
stesso tempo pare che i sentimenti inespressi siano di più di quelli espressi. La poesia appare
come un legame fortissimo, capace di tenere in vita un prigioniero; è linfa vitale, energia
pura, una roccia a cui aggrapparsi per non scivolare nella disperazione.
Le nuove amicizie avvicinarono molto Fadwā Ṭūqān al panorama politico, ma
malgrado ciò il suo entusiasmo acceso dagli avvenimenti più esaltanti si spegneva
velocemente e la poetessa non riusciva ad appassionarsi di politica. Nella sua autobiografia
ella scrive: «Desideravo con tutto il cuore di potermi gettare nella comunità e condividerne la
vita, le preoccupazioni, […]. Ma in verità ciò era al di sopra delle mie forze. Ero incapace di
avere dei rapporti naturali con delle persone che non conoscevo e questa incapacità totale a
integrarmi era per me una perenne fonte di insoddisfazione»42. Ella si lasciò prendere dal
senso di colpa del riconoscere il necessario e non riuscire a compierlo: aveva di fronte a sé
una scelta politica chiara e non riusciva a prenderla. La poesia, forma letteraria più in voga
nel mondo arabo, ricopriva in quel momento lo stesso ruolo che aveva all’epoca degli antichi
Greci, quando agli aedi delle corti veniva chiesto di celebrare le vittorie e commemorare i
caduti con sublimi parole. Come la Ṭūqān stessa scrisse «In quel momento la poesia
abbandonò la sua torre d’avorio per accompagnare le folle»43; ogni poeta era iscritto ad un
partito progressista e prendeva parte attivamente al movimento di resistenza, ognuno si
sentiva responsabile di utilizzare la propria arte a servizio del popolo. La Ṭūqān sentiva il
peso di questo dovere che non riusciva a compiere: da poco liberatasi da un giogo altrettanto
opprimente di quello che ora gravava sul suo popolo, il suo Io era troppo forte e prevaleva
sulla causa comune. Ella non riusciva a dedicarsi alla Palestina intera perché ancora non
riusciva ad occuparsi di sé stessa. Leggeva molto e cercava le risposte nei classici e nei
filosofi; nella sua autobiografia compaiono i nomi di Jung, Blake e Kierkegaard, ma anche
l’Antico Testamento e i testi sacri dell’Islam. Il fratello minore Rahmi cercava continuamente
di convincerla a prendere parte agli avvenimenti politici: comunista incallito, Rahmi era già
stato imprigionato all’età di diciassette anni per le sue azioni rivoluzionarie. La Ṭūqān sentiva
42
Ṭūqān, Fadwā, Le Rocher et la Peine :Mémoires I, trad. fr. di Joséphine Lama e Benoît Tadié, Langues et
Mondes, 1997, p.192.
43
Ibid. p.180.

37
una contraddizione crescente dentro di sé, ma ancora non riusciva ad avvicinarsi alla politica
senza istintivamente fuggirla. Abbracciare la causa palestinese avrebbe voluto dire
abbandonare l’innocenza, mettere da parte la dolcezza delle sue parole, rinunciare a
quell’amore che solo riusciva a farla vivere. La poetessa sentiva la necessità di crescere e di
cambiare, sentiva il peso della sua immaturità che la bloccava e soprattutto era cosciente della
sua incapacità di rompere quell’isolamento che non le era più imposto dagli altri, ma da cui
non riusciva ad uscire. Sentiva il bisogno di un cambiamento, di evadere ancora una volta la
realtà per conoscere meglio il mondo e conoscere meglio sé stessa, di volare lontano.
L’Inghilterra era il suo sogno, che non tardò ad avverare.

4. L’Inghilterra e Oxford

Per le persone ambiziose, la vita è un viaggio senza il quale non si possono conoscere né continuità né
innovazione. Non c’è una destinazione finale, per essi la vita è un perpetuo movimento in avanti. […] È la
ricerca persistente di nuovi orizzonti che dà alla vita la sua ricchezza e la sua intensità44.

Fadwā Ṭūqān partì alla volta dell’Inghilterra alla fine del mese di marzo del 1962, piena di
speranze. Il cugino Fārūq, il quale studiava già da tempo ad Oxford, l’aveva invitata a
raggiungerlo per realizzare il suo sogno di vivere in Inghilterra, e lei aveva subito colto
l’occasione. Per la prima volta nella sua vita, all’età di quarantacinque anni la poetessa
intraprese un viaggio completamente sola e indipendente: una sensazione che descrive con
evidente eccitamento nelle sue memorie. Le pagine che raccontano del suo arrivo a Londra e
dei suoi primi giorni in Inghilterra sembrano scritte da una bambina: l’innocenza e la
genuinità con cui la poetessa osservava questo nuovo mondo ispirano una grande tenerezza
nel lettore. Ella descrive l’aeroporto di Heathrow con parole piene di stupore: tutto accade nel
silenzio più solenne, niente disordine, nessuno grida o si spintona in fila, gli addetti al
controllo passaporti fanno il loro lavoro, gli addetti alle indicazioni la scortano dove desidera.
Un nuovo mondo le si stava schiudendo davanti e la poetessa osservava tutto ad occhi
sgranati, come se si trovasse in una favola. È in queste pagine che la Ṭūqān espone tutta la
propria ingenuità e impreparazione sul mondo: l’Inghilterra idealizzata attraverso i racconti
del cugino e dei fratelli che un tempo vi avevano studiato è impermeabile ad ogni critica.
Uscita dalla gabbia che l’aveva imprigionata così a lungo, Fadwā respirava per la prima volta

44
Ṭūqān, Fadwā, Le Rocher et la Peine :Mémoires I, trad. fr. di Joséphine Lama e Benoît Tadié, Langues et
Mondes, 1997, p.215.

38
una libertà incondizionata: poteva muoversi, prendere un taxi, affittarsi una camera d’albergo,
cenare e discorrere con uomini stranieri. L’Inghilterra ai suoi occhi era l’Occidente intero, il
mondo al di là di quello che aveva conosciuto fin ora, l’Altro.
Questa avventura alla scoperta dell’Occidente è stata ben descritta dallo studioso
Samar Attar: «Il viaggio della Ṭūqān in Inghilterra è, in un certo senso, il contrario di quello
di un antropologo colonialista. Normalmente, egli viaggia in un’ex-colonia o un paese meno
sviluppato di quello da cui proviene. […] Al contrario, la Ṭūqān viaggia in un ex-paese
colonizzatore, più sviluppato della Palestina dove nacque o della Giordania, dove visse dal
1948 al 1967»45.
Sebbene i fratelli della poetessa fossero tutti oppositori del colonialismo britannico, erano
tutti stati in Inghilterra per più o meno lunghi soggiorni di studio, e la sua concezione
idealizzata di quel paese lontano veniva probabilmente proprio dai loro racconti. L’Inglese
era la lingua necessaria per avere successo nella vita e il sistema educativo inglese era visto
come un modello da seguire. L’Inghilterra appariva come un modello di civilizzazione e
progresso che attirava tutti i giovani arabi affamati di conoscenza e di libertà dalle rigide
regole sociali della loro cultura d’appartenenza.
Per Fadwā, cresciuta nella Palestina sotto il mandato britannico, l’Inghilterra ricopriva il
ruolo di colonizzatore. Negli anni Trenta ella aveva assistito all’arresto del padre da parte
delle autorità britanniche. Nel 1936, quando lei aveva diciannove anni, visse lo scoppio della
Grande Rivoluzione Palestinese, che durò per tre anni e venne repressa dalle forze armate
britanniche, di cui Fadwā ricorda la brutalità. Nelle sue memorie, scrive di come i soldati
avessero fatto irruzione nella loro casa devastandola e saccheggiandola, rubandole persino la
penna regalatale dal fratello Ibrāhīm. Gli Inglesi erano diventati nella mentalità palestinese la
fonte di tutti i mali, tanto che il poeta Abū Salma aveva scritto: «Se Dio fosse Inglese
esorterei tutti a diventare atei»46. L’odio per i Britannici fu aumentato dal loro sostegno alla
creazione dello stato di Israele tramite la Dichiarazione Balfour: quando poi i Britannici si
ritirarono dal territorio palestinese lasciandolo allo sbando, privo di istituzioni e di una
successione politica, la lobby sionista forte del sostegno internazionale ne approfittò per auto-
proclamare la nascita dello Stato di Israele, provocando la guerra del 1948, lo smembramento
di ciò che rimaneva della Palestina e la diaspora di migliaia di Palestinesi divenuti
improvvisamente profughi. Dopo tutto ciò, l’amore per l’Inghilterra sembrerebbe quanto
45
Attar, S., A discovery voyage of self and other: Fadwā Tuqan's sojourn in England in the early sixties , “Arab
Studies Quarterly”, (2003), p.1.
46
Ibid. p.6.

39
meno ingiustificato, se non incriminabile da parte di qualsiasi Palestinese. Eppure, il
complesso rapporto amore/odio verso il colonizzatore è presente in Fadwā Ṭūqān quanto in
moltissimi altri Arabi suoi contemporanei: La Gran Bretagna era l’invasore e l’oppressore,
ma allo stesso tempo la sua cultura era portatrice di ideali che alla società araba tradizionale
erano ancora preclusi, quali la libertà d’espressione o l’uguaglianza tra uomo e donna. Gli
effetti psicologici del colonialismo sui popoli colonizzati sono troppo vasti e complessi per
essere trattati anche minimamente in questa sede, ma basti dire che per quanto gli intellettuali
arabi di inizio Novecento portassero odio e rancore verso le grandi potenze che si erano
arrogate il diritto di governarli dall’alto privandoli della loro indipendenza, essi vivevano allo
stesso tempo una lotta intestina contro la loro propria cultura arretrata e troppo conservatrice,
e per questo motivo erano attratti da quegli aspetti della società occidentale più liberali, che
essi sognavano di poter portare in Oriente.
Viaggiare, scoprire nuovi orizzonti e confrontarsi con l’“Altro”, era uno dei più
grandi sogni d’infanzia della Ṭūqān. Scrive nelle sue memorie:

Si dice che coloro che sognano di girare il mondo siano proprio quelle persone che vivono come
animali dietro a barre di ferro. Anche io vivevo così. Quante volte guardavo gli uccelli nel nostro
cortile lasciare gli alberi e volare oltre i muri della nostra casa senza paura! Quante volte mi struggevo
desiderando di avere anch’io due ali per volare!47.

Il viaggio era dunque per la Ṭūqān qualcosa di necessario, non tanto per entrare in un mondo
diverso quanto per uscire da sé stessa, dal suo mondo e dal suo passato, e ricominciare
lontano. Dopo un breve soggiorno ad Oxford ospite di Fārūq, la poetessa andò a vivere presso
la famiglia French, in un piccolo borgo di campagna chiamato Banbury. I suoi giorni passati
in compagnia dei libri e dei musei, a visitare Stratford-upon-Avon e la casa di Shakespeare o
i musei d’arte di Oxford le davano una tranquillità infinita. In una lettera alla sorella Adība
scrisse: «Non puoi immaginare quanto la mia vita sia felice qui, quanto sia intensa, quanto sia
dolce…Un giorno lessi queste parole: “Una bocca abituata al gusto del miele non può
assaporare la dolcezza.”; tua sorella che ha conosciuto il gusto delle cose amare oggi assapora
il miele della vita e la sua dolcezza…».48 Al termine dell’estate, la poetessa si decise ad
iscriversi ad un corso di lingua e letteratura inglese all’università di Oxford per poter
prolungare il suo soggiorno. La sua vita si riempì ben presto di spettacoli teatrali, visite ed
47
Ṭūqān, Fadwā, Le Rocher et la Peine :Mémoires I, trad. fr. di Joséphine Lama e Benoît Tadié, Langues et
Mondes, 1997, p.222.
48
Ibid.

40
escursioni, libri e amicizie intellettuali. Particolarmente importante fu l’amicizia con un
pittore, sempre nominato come “L’amico inglese”, con cui probabilmente la Ṭūqān
intrattenne una relazione amorosa. La sua vita era felice, ma mano a mano che la sua
conoscenza di quel paese lontano si approfondiva il suo giudizio sull’Inghilterra cambiava:
alcune vecchie idee vennero scardinate, e nuove visioni di quell’Occidente sempre più vicino
nacquero e si modificarono. Ai suoi occhi l’Inghilterra rimaneva un paese altamente
civilizzato, dove le persone bisbigliano per non disturbare, aspettano in fila e rispettano la
legge e l’ordine; un paese dove la libertà d’opinione è sempre rispettata, anche riguardo alle
questioni più controverse. Particolare è l’episodio in cui la poetessa si stupì di un arcivescovo
che in un articolo sull’«Observer» suggeriva una religione senza Dio, e questo suo articolo
venne pubblicato senza provocare ripercussioni di alcuna sorta sul suo autore o sul giornale.
Oxford rimaneva il luogo d’istruzione per eccellenza, culla di cinque presidenti britannici e di
grandi scrittori e filosofi. A teatro andavano in scena opere apertamente critiche nei confronti
delle autorità; la poetessa divenne grande amica dell’attrice e attivista Vanessa Redgrave, la
quale manifestava con forza contro l’imperialismo e la monarchia senza paura di mettere a
rischio la sua reputazione. La figura della donna emancipata e padrona di sé stessa però venne
presto bilanciata dall’immagine della donna inglese sottomessa, che la Ṭūqān scoprì esistere
anche lì. Leggendo i giornali e guardando la televisione infatti la poetessa scoprì che in
Inghilterra le donne stavano ancora combattendo per la parità dei diritti e un salario uguale a
quello degli uomini. Scoprì inoltre che molte famiglie preferivano spendere il loro denaro per
garantire un’educazione ai figli maschi, mentre le femmine erano tenute in casa ad aspettare
un marito. Iniziò così a sfaldarsi l’idea di un Occidente perfetto. Un’altra crepa nell’ideale
che la Ṭūqān si era costruita nacque con il riconoscimento dell’ignoranza degli Inglesi nei
confronti di tutto ciò che non li riguardava da vicino. Nelle sue memorie, racconta di come
spesso le venisse chiesto se nel suo paese ci fossero case, strade e scale: un’ignoranza che lei

trovava ingiustificabile e oltraggiosa. Significativa è la poesia: ‫أردنية فلسطينية في‬


‫انجلترا‬, Urdunīa falasṭinīa fī Inǧiltarā,( Una Giordano-palestinese in Inghilterra), scritta
per l’amico pittore, che in questo componimento non appare in veste di maestro ma di tipico
Inglese ignorante e noncurante. In essa si manifesta tutta la frustrazione del trovarsi tra
persone che non sanno nulla, né si interessano, della situazione nel suo paese natale:

Brutto tempo; e il nostro cielo è sempre coperto di nebbia.

41
Ma dì, di dove sei signorina?
Una Spagnola, forse?
- No, sono della Giordania.
- Scusami, della Giordania, dici?
Non capisco!
- Sono delle colline di Gerusalemme; della Patria della luce e del sole!
- Oh, oh! Capisco; sei un’ebrea!
Dio! Che pugnalata mi ferì al cuore!
Una pugnalata tanto crudele e tanto selvaggia!49

 ‫ وسماؤنا أبدا ضبابية‬..‫طقس كئيب‬, ‫من أين؟ إسبانيةٌ؟‬


‫ من األردن‬.. ْ‫ أنا من‬..ّ‫كال‬
!‫ ال أفهم‬..‫ من األردن؟‬..‫عفوا‬
‫والشمس‬
ْ ‫سنى‬
ّ ‫ وطني ال‬..‫القدس‬ْ ‫أنا من روابي‬
!‫ إذن يهوديّ ْه‬.. ُ‫ عرفت‬..‫ يا‬،‫يا‬
‫يهودية؟‬
!‫ ص ّماء وحشيّ ْه‬..‫يا طعنة أهوت على كبدي‬

Molte altre cose scioccarono la Ṭūqān della cultura occidentale: dall’abbandono degli anziani
da parte delle famiglie, cosa impensabile nei paesi arabi che nutrivano una concezione della
famiglia molto più forte, all’espressione dei sentimenti in pubblico, così libera e
incondizionata al punto da sembrare alla poetessa una dissacrazione l’essenza dell’amore. La
poetessa rivedeva così i suoi preconcetti e maturava un giudizio più critico della cultura
occidente, che prima adorava incondizionatamente. In questo senso, il viaggio diventò una
scoperta non solo dell’ “Altro” ma anche di sé stessa, della propria mentalità e della propria
cultura. Il suo essere tormentato aveva bisogno di essere ridefinito e riscoperto e il viaggio
divenne un viaggio soprattutto interiore. Il suo soggiorno in Inghilterra si rivelò essere un
percorso spirituale e intellettuale. Come in ogni percorso, la Ṭūqān fu accompagnata da dei
mentori: il cugino Fârouq all’inizio, poi i suoi padroni di casa, i suoi insegnanti e infine
l’amico pittore. Essi la guidarono alla scoperta di prospettive di vita diverse, di nuovi ideali e
di nuovi orizzonti. Nonostante la sua iniziale ingenuità, la poetessa maturò attraverso le

49
al-Nā‘ūrī, ‘Īsā Versi di fuoco e di sangue dei poeti arabi della resistenza, Roma, E.A.S.T, s.d., p. 64,65.

42
esperienze di vita, liberandosi definitivamente di quelle catene che ancora si trascinava dietro
dai giorni della prigionia, catene mentali che erano troppo difficili da abbandonare.
Proprio quando la sua vita ad Oxford sembrava renderla felice però, una nuova
tragedia si abbatté sulla povera Fadwā: il fratello minore Nimr morì in un’incidente aereo,
lasciandola nuovamente orfana. Nel suo cuore, Nimr aveva preso il posto di Ibrāhīm, e
l’aveva sempre accompagnata e protetta con dolcezza e amore. La scomparsa di Nimr lasciò
una nuova profonda ferita nel fragile cuore della poetessa, ed ella non poté più rimandare il
suo ritorno in Palestina. Scrive nelle sue memorie:

Nimr incarnava in tutto il suo essere l’energia esuberante della vita che sgorgava sotto la spinta di
quella che Bergson chiama la forza vitale. Adorava la vita, vi si gettava. […] Perché? Perché questa
morte precoce? Perché morire così tragicamente? La vita mi apparve arbitraria e il mondo privato della
minima consolazione, di ogni senso50

Ritornò, e dopotutto il suo animo era pronto al ritorno: dopo il soggiorno nel paese della
civilizzazione, in fuga dalla patria maledetta alla ricerca di una nuova lingua e una nuova
cultura, la viaggiatrice più forte e consapevole poté tornare alla madrepatria armata della
propria cultura e del proprio linguaggio, l’Arabo, che non fu mai soppiantato dall’Inglese e
che costituì sempre il suo punto fermo, la sua dichiarazione di indipendenza nei confronti
dell’Occidente, la ragione per cui in seguito verrà incoronata “poetessa della Palestina” e sarà
in grado di ispirare e guidare il popolo arabo. Di ritorno a Nablus la poetessa lasciò la casa
natale e nel 1965 si trasferì a vivere da sola, armata di una nuova conquistata indipendenza.

Al fratello Nimr dedicò la sua quarta raccolta: ‫أمام الباب المغلق‬ , Amām al-bāb al-
muġlaq , (Davanti alla porta chiusa), pubblicata a Beirut nel 1967.

50
Ṭūqān, Fadwā, Le Rocher et la Peine :Mémoires I, trad. fr. di Joséphine Lama e Benoît Tadié, Langues et
Mondes, 1997, p.268.

43
Capitolo III
Dal 1967 all’Intifada: la poetessa della Palestina

1. La guerra dei Sei giorni e le conseguenze sulla scena letteraria


palestinese

‫ مدينتي الحزينة‬, Madīnatī al-ḥazīna, (La mia triste città)

Il giorno in cui vedemmo la morte e il tradimento


l’alta marea si ritirò,
e finestre del cielo si chiusero
e la mia città perse il fiato.
Il giorno in cui si ritirarono le onde
e le bruttezze dei precipizi volsero il volto verso il sole,
s’infiammarono gli occhi della speranza
e la mia triste città
si soffocò di tormento.

Sparirono bimbi e canzoni,


non più ombre né più echi,
e la tristezza andava nuda in mezzo alla mia città
s’accovacciò come alte montagne,
come la notte, il silenzio tragico,

44
‫‪appesantito dalla morte e dalla sconfitta.‬‬

‫!‪O mia triste e silenziosa città‬‬


‫‪Così, nella stagione della mietitura‬‬
‫?‪s’incendiano messe e frutti‬‬
‫‪Ahimè! Che brutta fine del cammino!51‬‬

‫يوم رأينا الموت والخيانة‬


‫تراجع الم ّد‬
‫وأغلقت نوافذ السماء‬
‫وأمسكت أنفاسها المدينة‬
‫يوم اندحار الموج ‪ ،‬يوم أسلمت‬
‫بشاعة القيعان للضياء وجهها‬
‫تر ّمد الرجاء‬
‫صة البالء‬
‫واختنقت بغ ّ‬
‫مدينتي‪ ¥‬الحزينة‬

‫اختفت األطفال واألغاني‪¥‬‬


‫ال ظ ّل ‪ ،‬ال صدى‬
‫يدب عاريا ً‬‫والحزن في مدينتي ّ‬
‫ضب الخطى‬ ‫مخ ّ‬
‫‪ ،‬والصمت في مدينتي‪¥‬‬
‫رابض‬
‫ٌ‬ ‫‪ ،‬الصمت كالجبال‬
‫غامض ‪ ،‬الصمت فاجع‬ ‫ٌ‬ ‫كالليل‬
‫مح ّم ٌل‬
‫بوطأة الموت وبالهزيمة‬
‫أواه يا مدينتي‪ ¥‬الصامتة الحزينة‬
‫أهكذا في موسم القطاف‬
‫تحترق الغالل والثّمار ؟‬
‫‪51‬‬
‫‪al-Nā‘ūrī, ‘Īsā (a cura di), Fadwā Toqan poetessa araba della resistenza, Roma, Lega degli Stati Arabi, s.d.,‬‬
‫‪p.23.‬‬

‫‪45‬‬
!‫أ ّواه يا نهاية المطاف‬
!‫أ ّواه يا نهاية المطاف‬
Il 5 giugno 1967, l’esercito israeliano diede inizio al terzo conflitto arabo-israeliano 52 con
l’attacco all’aviazione egiziana, annientandola quasi completamente. Le pagine del diario di
Fadwā Ṭūqān scritte in quei giorni sono un febbricitante susseguirsi di brevi note impregnate
d’ansia. In soli sei giorni l’esercito israeliano strappò la penisola del Sinai e la striscia di
Gaza dall’Egitto, le alture del Golan dalla Siria e la Cisgiordania e Gerusalemme Est dalla
Giordania. La sconfitta del fronte arabo fu bruciante: il cielo piombò sulla Palestina e la
sommerse di dolore e disperazione. I giorni immediatamente precedenti alla guerra vennero
vissuti dalla Ṭūqān nell’attesa e nel silenzio: nelle sue memorie riporta una conversazione
telefonica con un amico, a cui lei si riferisce sempre come “l’amico straniero”: una persona
incontrata per caso a cui la poetessa si legò sentimentalmente e con cui dopo il suo ritorno in
Palestina passava intere giornate. Preoccupato del pericolo incombente egli le consigliò di
lasciare Nablus e di rifugiarsi ad Amman o Beirut, ma la poetessa gli rispose che preferiva
morire sulla soglia di casa sua piuttosto di fuggire e abbandonare il suo paese 53.
L’autobiografia della Ṭūqān si trasforma in questa occasione in un libro di storia dove gli
avvenimenti politici vengono riportati nei particolari, giorno dopo giorno: le radio che nei
caffè e nei negozi gracchiano aggressive annunciando le ultime notizie, i bombardamenti
aerei, la presa di Gerico e di Ramallah, l’incertezza dell’esito della guerra tenuto nascosto
alla popolazione civile, l’ordine di cessate il fuoco delle Nazioni Unite e infine, all’alba dell’8
giugno, l’entrata dell’armata israeliana a Nablus, la sconfitta della resistenza e l’imposizione
del coprifuoco. La poetessa non riuscì a scrivere altro per due mesi, in preda ad un blocco
poetico. Sembra quasi non sapere da dove iniziare, il dolore troppo grande da poter essere
messo in parole. Il primo volume della sua autobiografia termina con questa frase:

La catena del silenzio si è spezzata. Ho scritto cinque poesie, mi sento un po’ meglio. Scriverò, scriverò
molto. Ho l’impressione di vivere un’opera teatrale, minuto dopo minuto, un’opera di cui ogni scena mi
sconvolge. Ed ecco che io stessa sono una poesia febbricitante, piena di tristezza e di speranza, gli
occhi fissi al di là dell’orizzonte!54

52
Per conflitti arabo-israeliani si intendono generalmente la guerra del 1948-1949, la guerra contro l’Egitto del
1956, la guerra dei Sei Giorni del 1967 e la guerra del Kippur del 1973.
53
Ṭūqān, Fadwā. Le Cri de la pierre : Mémoires II, trad. fr. di Joséphine Lama e Benoît Tadié, Langues et
Mondes, 1998, op. cit. p.290.

46
Lo sconcerto è l’emozione dominante in questi primi componimenti. Sui tetti di Nablus
sventolavano bandiere bianche, le strade erano cadute nel silenzio. Le misure repressive
attuate dall’esercito flagellavano la popolazione: punizioni collettive, arresti, esili,
deportazioni di elementi nazionalisti, confische di terre e torture. La Ṭūqān narra ad esempio
l’arresto di tre sorelle resistenti: Saʻādāt, Randa e Hiba Ibrāhīm al-Nabulsi, la cui casa venne
fatta esplodere. La loro famiglia aveva già perso tutti i beni durante la guerra del 1948, per
cui la popolazione di Nablus si mobilitò in massa per ottenere la loro liberazione. Fadwā
stessa si recò dal comandante militare della regione per trattare con lui insieme ad alcuni
esponenti della resistenza, ma senza alcun risultato. L’importanza del contesto storico diviene
qui più importante che mai. Da questo momento in poi infatti fu impossibile per la poetessa
non parlare dell’occupazione. Come per ogni altro letterato palestinese, l’occupazione
divenne inevitabile, il tema centrale o lo sfondo di ogni componimento e libro: perché parlare
di vita, di amore, di famiglia e di dolore in Palestina voleva dire parlare di occupazione. Per
questo anche Fadwā Ṭūqān diventò una poetessa della resistenza: non per una scelta
consapevole e ponderata, non per un cambio di rotta o di stile: semplicemente, perché non
poteva parlare d’altro.
Dopo la guerra dei Sei Giorni divenne possibile agli abitanti di Gerusalemme-Est,
della Cisgiordania e di Gaza recarsi nei territori palestinesi occupati nel 1948, da cui erano
stati separati fino a quel momento dalla linea di cessate il fuoco stabilita dall’ONU. Scrive la
Ṭūqān: «Dopo il crollo del tetto della Palestina, le visite furono come un ponte gettato tra le
due parti della casa distrutta».55 La poetessa iniziò a ricevere visite da giovani arabi di Haifa,
Giaffa, Acri, Nazareth e altre città, che si interessavano alla poesia e alla letteratura. Tra
questi, il romanziere Tawfīq Fayyād fu tra coloro che le si avvicinarono per primi e con cui
stabilì un legame d’amicizia molto forte. Tawfīq Fayyād viveva al tempo con Mahmūd
Darwīš56 e Samīḥ al-Qāsim57 e i tre facevano parte di un gruppo di scrittori divenuto simbolo
54
Ṭūqān, Fadwā. Le Rocher et la Peine :Mémoires I, trad. fr. di Joséphine Lama e Benoît Tadié, Langues et
Mondes, 1997, p.292.

55
Ṭūqān, Fadwā. Le Cri de la pierre : Mémoires II, trad. fr. di Joséphine Lama e Benoît Tadié, Langues et
Mondes, 1998, p.20.
56
Mahmūd Darwīš è probabilmente il più famoso poeta palestinese. Nato nel 1942 a al-Birwa egli dovette
rifugiarsi in Libano con la famiglia dal 1948 al 1949. Visse poi ad Haifa fino al 1971, periodo durante il quale
scrisse i primi componimenti politici, aderì al partito comunista e fu più volte imprigionato. In seguito visse in
esilio a Beirut, Tunisi e Parigi per ritornare a Ramallah nel 1996. È il fondatore di al-Karmel, una delle
principali riviste letterarie del mondo arabo.
57
Samīh al-Qāsem fu un poeta palestinese nato a Zarqa e vissuto a Haifa. Collaborò con le riviste al-Ghad e
Ittihâd, pubblicazioni del partito comunista israeliano, e venne più volte imprigionato per la sua attività politica
e poetica. Fu il presidente dell’Unione generale degli scrittori arabi e dell’Unione generale degli scrittori arabi in
Israele.

47
nazionalista della rivolta, del rifiuto e dell’attaccamento all’identità nazionale. Grazie a
Fayyād la Ṭūqān venne a conoscenza di alcune riviste politiche e letterarie la cui diffusione
era vietata in Cisgiordania e nella striscia di Gaza, quali “al-Jadīd” (Il Nuovo), “al-Ghad”
(Domani) e il quotidiano «al-Ittihād» (L’Unione), pubblicazioni del partito comunista
israeliano e uniche tribune per la libera espressione degli Arabi in Israele. Proprio a “al-
Ittihâd” tramite Tawfîq Fayyâd la Ṭūqān inviò le prime cinque poesie scritte dopo la

sconfitta, che vennero pubblicate il 22 settembre del 1967: ‫مدينتي الحزينة‬, Madīnatī al-
hazīna, (La mia triste città), ‫الطاعون‬, al-Ṭāʻoun (Epidemia), ‫الشجرة‬
ّ ‫الط ّوفان و‬, al-
Tūfān wal-šaǧǧara (Il diluvio e l’albero), ‫ح ّي أبدا‬, Haī ābadān (Eternamente vivo) e ‫إلى‬
‫صديق غريب‬, Ilā al-sadīq al-ġarīb (All’amico straniero). Questi cinque componimenti
racchiudono tutti i sentimenti provati dalla poetessa a seguito della sconfitta: nella prima,
riportata all’inizio di questo capitolo, viene descritta l’atmosfera cupa che grava sulla sua
città occupata, mentre nella seconda (Epidemia) la poetessa invoca il vento e la pioggia
affinché purifichino l’aria della città infestata dall’epidemia, che diventa metafora per
l’occupazione. La terza poesia (Il diluvio e l’albero) esprime la frustrazione di fronte alla
reazione della stampa straniera, ostile agli Arabi e quasi felice della loro sconfitta. A questa
ostilità lei contrappone la forza e la speranza del suo popolo, sicura che rinascerà come un
albero devastato da un diluvio:

Un giorno l’albero risorgerà;


sarà più robusto e più alto,
e le fronde rinasceranno contro il sole;
saranno verdi ancora una volta,
sorrideranno le foglie nella luce del sole
e ritorneranno un’altra volta gli uccelli;
dovranno ritornare ancora una volta gli uccelli;
dovranno ritornare;
ritorneranno!58

‫ستقوم الشجرة‬
58
al-Nā‘ūrī, ‘Īsā (a cura di), Versi di fuoco e di sangue dei poeti arabi della resistenza, Roma, E.A.S.T, s.d.
p.70.

48
‫ستقوم الشجرة واألغصان‬
‫ستنمو ضحكات الشجرة‬
‫في وجه الشّمس‬
‫وسيأتي الطير‬
‫ال بد سيأتي الطير‬
‫سيأتي الطير‬
‫سيأتي الطير‬
La quarta poesia (Eternamente vivo) è un inno alla vita cantato in mezzo alla morte: in esso la
poetessa canta alla sua patria soffocata, crocifissa, derubata e tuttavia invincibile, a cui il
nemico non riuscirà a strappare gli occhi e dalle cui piaghe nascerà una nuova vita. L’ultima
poesia (All’amico straniero) è invece una triste poesia per un amore mancato. Fadwā la
scrisse pensando ad un incontro con questo suo misterioso amante che avrebbe dovuto avere
luogo la mattina del 6 giugno, ma che non avvenne. Egli sarebbe dovuto partire qualche
giorno dopo per tornare a casa, dall’altra parte del mare:

Se il mio cuore che tu conosci


fosse rimasto come ieri
e non spargesse il suo sangue
per la sconfitta,
sarebbe al tuo fianco,
ancorato alla sponda dell’amore
e saremmo due colombi.59

‫ولو أنّ قلبي الذي تعرف‬


‫كما كان باألمس ال ترعف‬
‫دماه على خنجر اإلنكسار‬
‫لكنت إلى جنبك اآلن عند‬
‫شواطئ حبّك أرسي‬
‫سفينة عمري‬
…‫لكنّا كفرخي حمام‬
59
Maqbūl, Fatẖī, Fadwā Ṭūqān attraverso le sue poesie, Roma, Centro Culturale Arabo, 1982, p.98.

49
Nella sua autobiografia la Ṭūqān rimpiange di non aver intitolato questa poesia Se, che
sarebbe stato un titolo più significativo: se infatti non ci fosse stata la guerra, se le sue
emozioni non fossero state annientate dal dolore della sconfitta, se tutta la sua devozione non
fosse dovuta al suo popolo bisognoso, allora si, ella avrebbe potuto amare. Ma la guerra
proibiva l’amore, e l’amico straniero rimase un sogno proibito.
Con l’apertura delle frontiere anche a Fadwā Ṭūqān fu possibile viaggiare nella
propria terra e visitare quelle città arabe che nel 1948 erano divenute israeliane. Il suo
pellegrinaggio doloroso partì dal no man’s land60 di Gerusalemme, passando per Giaffa verso
Haifa, dove andò ad incontrare i poeti della nuova generazione della resistenza: Maḥmūd

Darwīš, Tawfīq Zayyād61 e Samīḥ al-Qāsim. A loro dedicò una poesia carica di dolore: ‫لن‬
‫ابكي‬, Lan Ābkī, (Non piangerò), frutto della sua visita a Gerusalemme e Giaffa. Giaffa,
antichissima città e principale porto palestinese, era in rovine: le case abbandonate, le finestre
vuote e l’aria pesante e soffocante le ispirarono questi tristi versi:

Alle porte di Giaffa, o miei cari,


nello scompiglio delle macerie delle case,
fra le rovine e le spine
mi fermai e dissi agli occhi:
fermatevi, piangiamo
sui ruderi delle dimore di coloro che partirono e le abbandonarono
[…]
(Eccomi davanti a voi
Raccolgo e asciugo le lacrime dell’ieri)62
Pianterò come voi i miei piedi nella patria e nella terra!
Pianterò come voi i miei occhi sul sentiero del sole!63

‫على أبواب يافا يا أحبائي‬


60
Dal 1948 al 1967 Gerusalemme era divisa in due secondo la linea di cessate il fuoco imposta dall’ONU. La
parte tra la linea israeliana e quella giordana venne dichiarata no man’s land fino alla guerra del 1967, quando
Gerusalemme Est venne occupata dall’esercito israeliano.
61
Tawfīq Zayyād è l’altro nome di spicco della poesia palestinese, insieme a Darwīš e al-Qāsim. Membro del
partito comunista, conobbe più volte le prigioni israeliane ma nel 1974 fu eletto parlamentare allo Knesset, in
rappresentanza degli Arabi di Israele.
62
Versi mancanti nella raccolta al-Layl wa’lfursān.
63
Camera d’Afflitto, Isabella, Cento anni di cultura palestinese, Roma, Carocci, 2007, p.108.

50
‫وفي فوضى حطام الدور‬
‫والشوك‬
ِ ‫الردم‬
ِ ‫بين‬
:‫وقفتُ وقلتُ للعينين‬
‫نبك‬
ِ ‫قفا‬
‫على أطالل من رحلوا وفاتوها‬

‫وأزرع مثلكم قدم َّي في وطني‬
‫وفي أرضي‬
‫وأزرع مثلكم عين َّي‬
‫والشمس‬
ْ ‫سنى‬
َّ ‫في درب ال‬
A questa poesia Maḥmūd Darwīš rispose con una rubāʻyyāt64 dal titolo Yawmiyyāt ǧurḥ
Filasṭīn (Diario di una ferita palestinese), in cui fa riferimento alla poesia della Ṭūqān
All’amico straniero:

Prima di giugno non eravamo come due giovani colombi


E dunque il nostro amore non si è sgretolato tra le catene
Noi, o sorella, da vent’anni ormai
Non scriviamo poesie ma combattiamo65

‫لم نكن قبل حزيران كأفراح الحمام‬


‫ لم يتفتّت حبنا بين السالسل‬،‫ولذا‬
‫ من عشرين عام‬،‫نحن يا أختاه‬
‫نحن ال نكتب أشعارا‬،
‫و لكنا نقاتل‬
L’amicizia con questo gruppo di agguerriti e giovani poeti e scrittori rianimò Fadwā con un
nuovo vigore. Ella li definì «Perle di luce nella notte opaca dell’occupazione»66. Per loro la
politica e l’appartenenza ad un partito era una questione di sopravvivenza – la loro, quella del

64
Quartina poetica parzialmente rimata, di origine persiana, molto utilizzata da Darwīsh.
65
Ṭūqān, Fadwā, Le Cri de la pierre : Mémoires II, trad. fr. di Joséphine Lama e Benoît Tadié, Langues et
Mondes, 1998, p.27.
66
Ibid. p.26.

51
paese e quella dell’intero genere umano – e una trasformazione profonda iniziò nell’animo
della più anziana poetessa, che ormai giunta a maturità poetica si sentì finalmente pronta a
prestare la sua voce alla causa palestinese.
La scena letteraria palestinese conobbe, nei primi due anni di occupazione, un
vuoto desolante. Le istituzioni nazionali e le manifestazioni culturali scomparvero, così come
tutti i quotidiani locali e le riviste pubblicate nel mondo arabo. Le autorità militari imposero
un embargo culturale che comportava la confisca di libri dalle biblioteche pubbliche e private
e una durissima censura che stilava delle liste di testi proibiti. I letterati palestinesi si
trovarono così tagliati fuori dalla scena culturale araba, parte di un piano di isolamento e di
distruzione dell’identità palestinese, di cancellazione della memoria e della cultura di un
popolo attraverso il soffocamento della voce dei suoi scrittori e intellettuali. Fadwā Ṭūqān
scrive nella sua autobiografia di come un quacchero americano venuto a trovarla si offrì di
portarle regolarmente delle riviste letterarie: la poetessa ebbe così l’opportunità di leggere
“al-Ādāb” (Letteratura), pubblicata a Beirut, e “Mawāqef” (Situazioni), diretta dal poeta
Adūnīs. Di fronte agli sforzi delle autorità militari di ostacolare e impedire la circolazione di
idee, i letterati palestinesi reagirono unendo le forze in uno scambio vivace e costante,
soprattutto tra la nuova generazione di scrittori e i grandi nomi della letteratura e del pensiero
arabo nazionalista. Grazie a questa interazione costante la letteratura palestinese assunse
contorni sempre più definiti e un ruolo via via più importante nel movimento di resistenza
all’occupazione. Tra le attività a cui la Ṭūqān partecipò ci fu l’iniziativa di Maḥmūd Darwīš
di pubblicare nella rivista “al-Jadīd” (Il nuovo), di cui al tempo era capo redattore, alcune
pagine dei diari personali di scrittori e poeti palestinesi. Le pagine che lei pubblicò
costituirono il nucleo fondante della sua futura autobiografia, di cui altri capitoli furono
pubblicati tra gli anni 1977-1978, quando la rivista era sotto la direzione di Samīḥ al-Qāsim.
Furono questi giovani scrittori ad avvicinare Fadwā Ṭūqān al movimento della resistenza,
ammiratori dell’espressività e dell’immediatezza delle sue poesie: proprio loro, che anche a
lei si erano ispirati, le diedero la forza di tirare fuori il suo antico spirito ribelle e unirsi alla
lotta, armata di parole.

1. La poetessa cannibale: le poesie politiche di Fadwā Ṭūqān.

Fadwā Ṭūqān iniziò ad unire la sua voce a quella del popolo leggendo le sue poesie durante
gli incontri organizzati in segreto dai comitati nazionalisti, in diverse città dei territori

52
occupati. La sua fama iniziò a crescere e con essa il suo impegno politico, pur sempre
limitato all’ambito della scrittura. Ci fu tuttavia anche un momento in cui la poetessa si vide
affibbiare il ruolo diplomatico: nell’autunno del 1968 venne in visita a Nablus Moshe
Dayan67, al tempo ministro della difesa israeliano. A seguito della sua visita, a scopo di
ammonire il sindaco contro la lotta armata, egli chiese un incontro con la Ṭūqān, che avvenne
poco dopo a Tel-Aviv. La natura timida e introversa della poetessa non la rendevano una
persona adatta alla politica: nonostante ciò Dayan doveva considerarla un personaggio molto
influente nella società palestinese, tanto da affermare che «una sola sua poesia è sufficiente a
far nascere dieci vocazioni di resistenti»68 e che i suoi versi erano ben più efficaci dell’azione
militare dei fidā’iyyīn69. Lo scopo dell’incontro fu subito chiaro alla Ṭūqān: Dayan intendeva
utilizzarla come tramite per dialogare con Nasser. Il generale a guida dell’Egitto infatti,
durante la conferenza di pace di Khartoum del 1967 aveva proclamato i tre “no”: no alla
pace, no al riconoscimento di Israele e no alla negoziazione. La situazione diplomatica era in
stallo e Dayan era interessato ad avere una figura che potesse fungere da mediatore con i
leader arabi: probabilmente qualcuno di amabile e pacato come la poetessa. L’occasione
dell’incontro con Nasser arrivò dopo non molto, sebbene la Ṭūqān non lo avesse cercato,
restia a svolgere la mansione affidatale dal ministro israeliano: ella infatti non ne parlò, e
nonostante le pressioni successive di Dayan e la sua insistenza, si rifiutò di fare da tramite.
Questa reticenza non deve far pensare ad una mancanza di capacità della poetessa: ella infatti
dedicò a questi due incontri numerose pagine della sua autobiografia, dove riporta le
conversazioni nei dettagli e dà prova di conoscere molto bene la situazione politica e di
rendersi perfettamente conto dei meccanismi che la fanno funzionare. Durante il colloquio
con Dayan si dimostra spietata nel giudicare l’azione dell’esercito nei confronti della
popolazione civile e nel condannare l’occupazione; allo stesso modo dà prova di poter
sostenere una discussione con Nasser sulle sue scelte diplomatiche e sui problemi interni
all’Egitto e alla Palestina. Il motivo del suo rifiuto a fare da intermediario per Dayan va forse
cercato piuttosto nella consapevolezza dell’inutilità di una falsa intesa con un uomo politico
che - a detta della poetessa - credeva bisognasse soffocare i Palestinesi sotto occupazione

67
Moshe Dayan fu un generale e uomo politico israeliano, nominato ministro della difesa nel 1967 e poi
ministro degli affari esteri dal 1977 al 1979.
68
Ṭūqān, Fadwā, Le Cri de la pierre : Mémoires II, trad. fr. di Joséphine Lama e Benoît Tadié, Langues et
Mondes, 1998, p.43.
69
Gruppi armati di resistenza.

53
usando «una mano di ferro in un guanto di velluto».70 La sua intransigenza e la sua crudeltà
erano note, e pare che Fadwā non riponesse in lui alcuna fiducia.

Le prime poesie di genere politico vennero raccolte nell’opera intitolata: ‫الليل و‬


‫الفرسان‬, al-Lail wa al-Fursān (La notte e i cavalieri), edita a Beirut nel 1969, ed è una
raccolta di ventiquattro poesie che documentano la vita dei Palestinesi sotto l’occupazione. In
esse la relazione tra occupante e occupato viene raccontata in maniera diretta e con un grande
realismo, sia in termini geografici (la dislocazione, l’espulsione, la descrizione di città
distrutte e vuote, di strade silenziose e cupe) che in termini di impatto sulla vita della
popolazione (l’umiliazione, l’espropriazione di terre e lo sradicamento degli ulivi, gli arresti,
la separazione di famiglie, la violenza quotidiana dei soldati). Accanto alla violenza fisica la
poetessa descrive quella psicologica e culturale a scopo di annientare un’intera civiltà, attuata
attraverso gli assassini di intellettuali e di rappresentanti del popolo, la riscrittura dei libri
scolastici in base alla versione israeliana della storia, l’introduzione di nuove mappe, il
complotto tra archeologi e storici ebrei nel cercare disperatamente reperti che giustifichino
l’esistenza di Israele. Le poesie di questa raccolta sono quasi un flusso di coscienza,
fotografie della realtà palestinese raccontate così come vengono vissute dalla narratrice. Una

delle più espressive è ‫اهات أمام شبّاك التّصاريح‬, Ahāt amām šubbāk al-tteṣārīḥ
(Sospiri davanti allo sportello dei permessi), in cui Fadwā racconta il suo rancore per la
sofferenza, l’umiliazione e l’estenuazione dei Palestinesi che devono fare una fila
interminabile per ottenere il permesso di attraversare il Giordano e recarsi in territorio
israeliano, cosa proibita fino al 1967:

Fermarmi sul ponte a mendicare un permesso!


Ahimè! Mendicare, sì, un permesso di attraversata!
Soffocare, perdere il fiato
nel caldo del mezzodì!
Sette ore di attesa…
Ahi! Chi ha rotto le ali del tempo?
Chi ha paralizzato le gambe al giorno?
Il caldo mi flagella la fronte
e il sudore mi colma gli occhi di sale.

70
Ṭūqān, Fadwā, Le Cri de la pierre : Mémoires II, trad. fr. di Joséphine Lama e Benoît Tadié, Langues et
Mondes, 1998, p.61.

54
Ahimè! Migliaia di occhi
sono fissi con calorosa ansia
allo sportello dei permessi;
sono specchi di angoscia,
titoli di ansia e di pazienza.
Ahimè! Mendicare un permesso!
E la voce di un militante straniero
scoppia furiosa come uno schiaffo
sul volto della folla:
«Arabi…Disordine…Cani!...
Tornate indietro!
Non venite vicino al cancello!
Indietro!...Cani!...»
Una mano sbatte con rabbia lo sportello dei permessi,
chiudendo ogni possibilità,
in fronte alla folla che preme.
Umiliata la mia umanità,
pieno di amarezza il mio cuore
e il mio sangue è tutto veleno e fuoco!
«Arabi! Disordine! Cani!»
O santa vendetta del mio popolo offeso!
Ormai ho solo da attendere,
ma il momento giungerà…
il momento della giustizia e della vendetta!71

‫عند جسر اللنبي‬


‫العبور‬
ْ ‫وقفتي بالجسر أستجدي‬
‫العبور‬
ْ ‫ أستجدي‬,‫آه‬
‫ع محمو ٌل على‬ُ ‫ نَفَسي المقطو‬,‫اختناقي‬
‫وهج الظهير ْه‬
‫انتظار‬
ْ ‫ت‬
ِ ‫سب ُع ساعا‬
‫قص جناح الوقت‬ َّ ‫ما الذي‬,
‫سح أقدام الظهير ْه ؟‬ ّ ‫من ك‬
‫يجلد القيظ جبيني‬
71
al-Nā‘ūrī, ‘Īsā (a cura di). Versi di fuoco e di sangue dei poeti arabi della resistenza, Roma, E.A.S.T, s.d.

55
‫عرقي يسقط م ْل ًحا في جفوني‬
‫ آالف العيون‬,‫آه‬
ٍ ‫علّقتها اللّهفة الح َّرى مرايا‬
‫ألم‬
‫ عناوين‬,‫فوق شباك التصاريح‬
‫واصطبار‬
ْ ‫انتظا ٍر‬
‫العبور‬
ْ ‫آه نستجدي‬
‫هجين‬
ِ ‫جندي‬
ٍّ ‫ويد ّوي صوت‬
:‫لطمةً تهوي على وجه الزحام‬
(‫ كالب‬,‫ فوضى‬,‫عرب‬
‫ عودوا يا كالب‬,‫ ال تقربوا الحاجز‬,‫)ارجعوا‬
‫ويد تصفق شباك التصاريح‬
‫تس ّد الدرب في وجه الزحام‬
‫ قلبي‬,‫ تنزف‬¥‫ إنسانيتي‬,‫آه‬
‫ونار‬
ْ ‫ دمي س ٌم‬,‫يقطر الم َّر‬
!(‫ كالب‬,‫ فوضى‬,‫عرب‬..)
‫ وامعتصماه‬,‫!آه‬
‫آه يا ثار العشيره‬
‫كل ما أملكه اليوم انتظار‬
I sentimenti violenti espressi in questa poesia non sono quelli cui i lettori della Ṭūqān erano
abituati: l’odio emerge sopra il dolore e la rassegnazione. Non c’è spazio per la speranza o il
perdono, la vendetta è tutto ciò a cui pensa la poetessa. La reazione dal fronte opposto non
tardò ad arrivare: insieme a numerose lettere e minacce, un giornale israeliano pubblicò un
articolo intitolato “Una poetessa cannibale nel XX secolo” 72. A detta della poetessa, la poesia
si guadagnò una così terribile reputazione da ispirare perfino alcuni Israeliani a ordinare al
ristorante il “menù Fadwā -Ṭūqān”, cioè un piatto di fegato. Numerosi giornalisti vollero
intervistarla sulle cause di questo feroce attacco, ma nessuno ebbe mai il coraggio di riportare
la verità dei fatti. Solo la giornalista Hannah Zimir, la quale lavorava per il giornale ebreo
72
Nella sua traduzione in Italiano, al-Nā‘ūrī non riporta l’ultima strofa, che fu quella che causò il dibattito sulla
“poetessa cannibale”: “Il mio odio ha fame, la sua bocca è avida, tranne il loro fegato nulla potrà saziare la fame
che mi strazia la carne – Ahimè, terribile è il mio rancore! – Hanno ucciso l’amore e iniettato nelle mie vene
catrame bollente!”, v. Ṭūqān, Fadwā. Le Cri de la pierre : Mémoires II, trad. fr. di Joséphine Lama e Benoît
Tadié, Langues et Mondes, 1998, p.75.

56
“Davar”, dopo un colloquio con la poetessa scrisse un articolo imparziale e obiettivo sulle
ragioni della poesia: la Ṭūqān, infatti, rivelò di essersi ispirata al poeta ebreo Haïm-Nahman
Bialik e al suo componimento (L’Inno di Bar Kokhba). Bar Kokhba era stato il comandante
ebreo durante la terza rivolta degli Ebrei contro Roma (132-135). Nella poesia, Bar Kokhba
diceva al nemico romano:

Voi avete fatto di noi degli animali feroci


Pieni di crudeltà e collera
Noi berremo il vostro sangue
Saremo senza pietà
Quando il popolo intero si solleverà
E chiederà vendetta!73

Con questa poesia Fadwā Ṭūqān dimostrò un’astuzia senza pari. Nel ferire il nemico con la
sua stessa arma dimostrò che Israele si stava comportando con i Palestinesi nello stesso modo
in cui gli Ebrei erano stati trattati in passato: emarginati, espulsi, deportati, arrestati e uccisi.
L’oppresso era diventato oppressore, il popolo esiliato era diventato un popolo colonizzatore
e l’ingiustizia subita continuava ad essere perpetrata sotto gli occhi di tutti, senza che
l’opinione internazionale ne evidenziasse l’incontestabile uguaglianza. La sottigliezza di
scrivere una poesia piena d’odio e rancore sul calco di una poesia del tutto simile ma scritta
da un poeta ebreo sionista mise sotto gli occhi di tutti la crudele verità dell’occupazione
Israeliana. Sebbene la questione della “poetessa cannibale” fu presto dimenticata, questa
poesia rimane un esempio del potere dei versi di Fadwā Ṭūqān.

La seconda raccolta di componimenti politici si intitola ‫على قمة الدنيا وحيدا‬,


alā Qimmat al-Dunyā Waḥīda (Sola sulla cima del mondo), pubblicata a Beirut nel 1973. In
questa collezione di undici poesie emerge sempre più forte la sua disperazione di fronte non
solo all’indifferenza del mondo, ma anche alla retorica vuota del suo stesso popolo 74. Nella

poesia ‫أمنية جارحة‬, Amnīa ǧārḥa, (Desiderio che ferisce), Fadwā lamenta l’abbondanza
di parole, invece di un’azione concreta da parte degli Arabi nei confronti degli invasori.

73
Ṭūqān, Fadwā, Le Cri de la pierre : Mémoires II, trad. fr. di Joséphine Lama e Benoît Tadié, Langues et
Mondes, 1998, p.76.
74
Attar, S., Women under occupation: Fadwā Tuqan and Sahar Khalifah Document Israeli Colonization, in
Debunking the Myths of Colonization: The Arabs and Europe, University Press America, 2010, p.181.

57
Accusa i Palestinesi di “spargere zucchero sulla morte” e prendendo ad esempio la guerra in
Vietnam invoca i Vietcong affinché insegnino al suo popolo a lottare e resistere
l’occupazione. L’amarezza della poetessa era grande: il suo popolo sembrava anestetizzato e
il mondo cieco e sordo, schierato dalla parte dell’oppressore. In questo periodo di intensa
attività Fadwā Ṭūqān entrò in contatto anche con diversi intellettuali e attivisti israeliani
convinti della necessità della pace e della coesistenza con i Palestinesi. Tra di essi c’erano il
violinista Yehudi Menuhin, umanista dalla reputazione internazionale; la cantante Si Hyman,
le cui canzoni promuovevano la pace e condannavano la guerra; la poetessa Rachel Farhi, con
cui intrattenne una lunga relazione epistolare. La Ṭūqān sentiva impellente il bisogno di
dialogo, di scambio di idee, di reciproca conoscenza. L’ignoranza del nemico porta ad odiare
ciò che non si conosce: durante un’intervista con una giornalista israeliana, documentata nelle
sue memorie, la poetessa scopre con stupore che quest’ultima ignorava le reali condizioni in
cui viveva il popolo palestinese; era convinta che gli Arabi odiassero tutti gli Israeliani, che
fossero loro a non volere la pace, e che non stessero affatto soffrendo. Il blocco di ogni
comunicazione e le barriere impedivano (e impediscono tutt’ora) ai due popoli di conoscersi:
i bambini imparano ad odiare e crescono odiando, il rifiuto reciproco di costruire ponti
distrugge ogni prospettiva di speranza. Nelle sue memorie la poetessa scrive di come le sue
poesie fossero state censurate dall’autorità militare, che le proibirono anche di leggerle in
pubblico e impedirono a tutti i giornali di pubblicarle. La distribuzione delle sue raccolte fu
bloccata in tutte le librerie e perfino la proposta di Dayan di invitare Fadwā a leggere le sue
poesie al palazzo della cultura di Tel-Aviv venne rifiutata: dimostrazione questa non solo
della reticenza alla cooperazione, ma anche della forza morale della poesia, tanto disturbante
da essere combattuta al pari delle armi.
All’apice della sua carriera sebbene sempre più addolorata, la Ṭūqān era diventata
ormai la voce femminile della poesia palestinese. Molti furono i letterati e i pensatori che da
tutto il mondo desideravano incontrarla, incluso Alberto Moravia tra gli Italiani. Fadwā seppe
sfruttare queste connessioni non per il proprio prestigio personale ma per far conoscere la sua
sofferenza e rendersi ambasciatrice della causa palestinese. Una persona a cui era
particolarmente riconoscente fu il filosofo americano Herbert Marcuse, il quale dopo il suo
soggiorno in Palestina e il suo incontro con la poetessa scrisse un articolo sul “Jerusalem
Post” in cui criticava duramente il governo israeliano: «In quanto Ebreo che ha sofferto la
repressione nazista, nulla mi rattrista di più al mondo di vedere che Israele è diventato uno
Stato militari forzati che sfrutta le proprie capacità materiali e intellettuali per scopi bellici. I

58
Palestinesi sono stati forzati all’esilio due volte a causa delle ambizioni regionali sioniste. Le
sofferenze degli Ebrei in Europa danno forse loro il diritto di espellere centinaia di migliaia di
Arabi? Io mi sollevo contro la menzogna sionista che dice “Israele è in pericolo” […] Gli
Israeliani dovrebbero sapere per esperienza che la forza non può spezzare un popolo».75
Numerose in questo periodo furono le poesie elegiache che Fadwā Ṭūqān dedicò ai
martiri palestinesi: oltre ai componimenti dedicati alle donne della resistenza imprigionate e
torturate quali Randa al-Nabulsi e sua sorella Hiba, e la poesia che piange la morte di Nasser
(Elegia del cavaliere), la più importante è forse quella scritta per Wā’il Zuʻaytir,
l’ambasciatore dell’OLP a Roma assassinato il 17 ottobre 1972. Il mondo fu scioccato dalla
morte di quest’uomo di pace, che Alberto Moravia descrisse così: “Wā’il era un mondo vasto
e leggendario. Davanti alla sua povertà e alla sua semplicità ci interrogavamo sempre sul
mondo ricco e complesso che racchiudeva in sé, e che è scomparso…Era un mio amico…Il
suo omicidio non mi ha solo causato un grande dolore ma…come dire, è stata una catastrofe
ideologica.” A Moravia si unirono tutte le voci degli intellettuali e degli uomini di politica,
Arabi ed Europei, che riconobbero in quell’uomo di diplomazia una vittima della
cospirazione sionista. Nel 1979 uscì su «L’Unità» un articolo di Armeniosa Violi intitolato
“Wā’il Zuʻaytir, pensatore e combattente che diceva il vero” che diceva: «Per condurre la sua
lotta scelse l’ascetismo sull’esempio di Gandhi o di Che Guevara. Per Wā’il era assurdo
lavorare per guadagnarsi il denaro e comprarsi una giacca che finiva sempre per donare a
qualcuno più povero di lui».

A lui Fadwā Ṭūqān dedicò la poesia ‫ زعيتر‬¥‫الى الشّهيد وائل‬, Ilā al-šahīd Wa’il
Zuʻaytir, (Al martire Wā’il Zuʻaytir), i cui versi finali recitano:

Quando la notte coprì il sole e


sentì il pericolo,
quando lo stagno dell’infame bugia
sentì il pericolo,
quando il volto cattivo nascosto,
sentì il pericolo,
quando il mondo si mise contro di te,
senza farti piegare,
vennero nel cuore della notte e
nell’oscurità ti hanno assassinato
75
Ṭūqān, Fadwā, Le Cri de la pierre : Mémoires II, trad. fr. di Joséphine Lama e Benoît Tadié, Langues et
Mondes, 1998, p.131.

59
a tradimento!76

‫حينما الليل الذي أغمض عين الشمس‬


‫أمسى في خطر‬
‫حينما مستنقع األكذوبة النكراء أمسى‬
‫في خطر‬
‫حينما الوجه الذي‬
‫قنّعت تشويهه األصباغ أمسى في‬
‫خطر‬
‫حينام الدنيا الهلوك‬
‫وقفت ضدّك واستعصيت أنت‬
‫وتأبّيت على العالم أنت‬
‫اقبلوا في معطف الليل وداورا‬
‫في الظالم‬
¥‫دورةً غدّارة واقتنصوك‬
Dopo un periodo di calma illusoria, nel 1987 la prima Intifada scoppiò e fece
nuovamente tremare il suolo palestinese: le pietre volavano nell’aria e l’odore del sangue
arrivava fino al cielo, i giovani cadevano come stelle comete, ribelli e ostinati, il viso rivolto
al nemico e una pietra in mano. La lotta era ineguale. Ai soldati nei bulldozer armati fino ai
denti si contrapponevano i ragazzi che bruciavano copertoni e lanciavano sassi. L’Intifada fu
il sollevamento più importante della storia palestinese, e segnò una svolta storica nei rapporti
israelo-palestinesi. Ancora una volta le pagine dell’autobiografia di Fadwā Ṭūqān si
trasformano i fedeli resoconti storici, raccontati dal punto di vista interno di chi la storia l’ha
vissuta. La notte, dalla sua finestra, la poetessa osservava le luci delle processioni per i
funerali dei giovani uccisi. L’enorme sacrificio umano la paralizzava per il dolore, sebbene la
nuova rivolta portava con sé la speranza della fine dell’occupazione. Sul piano letterario, si
assistette ad una nuova fase estremamente produttiva, in cui gli scrittori e i poeti erano
chiamati a svolgere un’importante funzione di sostegno morale ai giovani rivoltosi; il
compito del poeta assunse anche in questa fase il ruolo di incitamento emotivo per le masse,
76
Maqbūl, Fatẖī, Fadwā Ṭūqān attraverso le sue poesie. Roma, Centro Culturale Arabo, 1982. p.88.

60
proprio come temeva il generale Dayan quando diceva che una poesia della Ṭūqān bastava a
sollevare dieci palestinesi. Con un ritmo sempre più incalzante gli autori palestinesi
producevano versi e libri i cui protagonisti erano i ragazzi dell’Intifada, che nell’immaginario

collettivo diventavano eroi. Ai giovani martiri Fadwā Ṭūqān scrisse la poesia ‫شهداء‬
‫االنتفاضة‬, Šuhadā’ al-intifāḍah (I martiri dell’Intifada), di cui i versi finali recitano:

Sono morti in piedi,


illuminando il cammino,
scintillanti come stelle,
baciando le labbra della vita.
Si sono alzati di fronte alla morte
Poi sono scomparsi come il sole.77

‫ متوهجين‬.... ‫وماتو واقفين‬


‫متألقين على الطريق‬
‫مقبلين فم الحياة‬

Una terza raccolta di componimenti politici fu pubblicata nel 1980 ad Acri, con il

titolo ‫ قصائد سياسية‬, Qaṣā’id syāsīa, (Poesie politiche): un compendio dei versi più
infuocati e taglienti di una poetessa che una volta liberatasi dalle proprie catene sociali e
familiari, ha lottato con tutta se stessa per liberare il suo popolo da altre catene, quelle
dell’occupazione. Poesie queste, lontane dai delicati versi amorosi del periodo giovanile; non
più fragili elegie ma manifesti di rabbia, di dolore, perfino di odio di fronte alla violenza e
all’indifferenza. Poesie attraverso le quali, dopo una lunga e sofferente ricerca della propria
identità e della propria libertà, Fadwā Ṭūqān trovò finalmente il suo ruolo, il suo posto nel
mondo, per quanto difficile e doloroso: la prima poetessa della Palestina, come sarà sempre
ricordata.

77
Ṭūqān, Fadwā, Le Cri de la pierre : Mémoires II, trad. fr. di Joséphine Lama e Benoît
Tadié, Langues et Mondes, 1998, p.157.
61
2. I riconoscimenti e l’Italia

Nel 1976 il Comitato culturale italiano, composto dai più importanti critici, autori e studiosi
orientalisti, decise di assegnare un premio annuale ad un certo numero di poeti e scrittori
italiani e originari dei paesi del Mediterraneo, compresi i paesi arabi, con lo scopo di
approfondire le relazioni culturali tra popoli e di promuovere la conoscenza, la comprensione
e il rispetto reciproci. Nel 1978, Fadwā Ṭūqān ricevette l’“Ulivo d’argento” all’Opera di
Palermo, in quanto “poetessa impegnata”. La Lega araba a Roma pubblicò una raccolta di sue
poesie tradotte in Italiano, che Francesco Gabrieli presentò dicendo: «La poesia di Fadwā
Ṭūqān brucia per la sua terra usurpata, per il suo popolo umiliato e oppresso». 78 A Palermo,
la poetessa ebbe l’occasione di incontrare gli orientalisti italiani che avevano contribuito alla
diffusione delle sue opere. Oltre a Francesco Gabrieli, uno dei più insigni arabisti italiani e
professore all’Università la Sapienza di Roma, conobbe Umberto Rizzitato, professore
all’Università di Palermo, che la intervistò per Giornale Sicilia; conobbe inoltre Faṯi Maqbūl,
un giovane Palestinese che insegnava l’Arabo all’Università Orientale di Napoli e che curò
un’antologia di sue poesie, e Giovanni Canova, altro giovane orientalista che scrisse su di lei
nella rivista “Oriente Moderno”. Fondamentale importanza fu poi ‘Īsā al-Nā‘ūrī, studioso
italianista e Giordano come la poetessa, il quale fu il primo a tradurre le sue poesie in
Italiano, così come fu un importante diffusore della letteratura italiana nel mondo arabo.
Nella sua autobiografia, la poetessa prende spunto da questi incontri per parlare del problema
della traduzione. La poesia, di tutte le forme letterarie, è la più difficile a tradurre: perde
molta della sua forza passando da una lingua all’altra. «Questa forza è emanata dalle parole
stesse, che non servono solo per veicolare le idee: in una sola parola, oltre al suo significato,
si concentrano un certo numero di emozioni, di echi, di ombre che la traduzione esprime

difficilmente»79. L’esempio che lei dà è quello della parola ‫ األرض‬al-ārḍ (la terra): per il
poeta palestinese questa è una parola carica di connotazioni, di emozioni, di immagini e di
significati. È una parola che porta con sé il peso dell’occupazione, perché chi parla di terra
spesso non l’ha più. Per questo la poesia in traduzione non ha mai la stessa forza di colpire gli
animi che ha quella in lingua originale; nonostante ciò, senza lo sforzo fatto dagli orientalisti
italiani, la meravigliosa poesia palestinese ci sarebbe preclusa.
78
Ibid. p.146.
79
Ṭūqān, Fadwā, Le Cri de la pierre : Mémoires II, trad. fr. di Joséphine Lama e Benoît Tadié, Langues et
Mondes, 1998, p.147.

62
Oltre all’ “Ulivo d’argento”, la prolifica attività poetica di Fadwā Ṭūqān le meritò
numerosi premi, tra cui il Jerusalem Award for Culture and Arts a Gerusalemme e
l’International Poetry Award a Palermo nel 1990, lo United Arab Emirates Award negli
Emirati Arabi Uniti sempre nel 1990 e l’Honorary Palestine Prize for Poetry nel 1996. Fece
inoltre parte del consiglio di amministrazione dell’Università al-Naǧah di Nablus. Nel corso
degli anni ’80 e ’90 le sue poesie vennero tradotte in diverse lingue e trattate da moltissimi
studiosi. Nel 2000, la poetessa e cineasta Liyāna Badr realizzò un documentario sulla sua
vita intitolato Fadwā, la storia di una poetessa palestinese.
Fadwā Ṭūqān Morì a 86 anni, e il mondo letterario palestinese pianse il suo fiore più
delicato, la sua poetessa sensibile e forte, che aveva guidato il popolo in rivolta come una
madre, che aveva dato tutto il suo amore alla sua terra.

‫ كفاني أظل بحضنها‬, Kafānī aẓall biḥḍanihā (Desidero solo restare nel suo seno)

Desidero solo morire nella mia terra,


esservi seppellita,
fondermi e svanire nella sua fertilità
per resuscitare erba nella mia terra,
resuscitare fiore
al quale toglie i petali un ragazzo cresciuto
nel mio paese.
Desidero solo restare nel seno della mia patria,
terra
erba
o fiore.80

‫كفاني أموت على أرضها‬


‫وأدفن فيها‬
‫وتحت ثراها أذوب وأفنى‬
‫وأبعث عشبا ً على أرضها‬
‫وأبعث زهره‬
80
Colombo, Valentina (a cura di), Non ho peccato abbastanza. Antologia di poetesse arabe contemporanee,
Mondadori, 2007, p.280.

63
‫طفل نمته بالدي‬‫تعيث بها كف ٍ‬
‫كفاني أظل بحضن بالدي‬
‫ترابا ً‬
‫وعشبا ً‬
‫وزهره‬

‫‪Parte della casa dove nacque e crebbe Fadwā Ṭūqān, Nablus‬‬

‫‪64‬‬
Colline palestinesi, Battīr

Conclusione

Il presente elaborato si proponeva di presentare la figura di Fadwā Ṭūqān, la sua poetica e il


suo ruolo nella resistenza palestinese. Partendo dal titolo si è cercato di mostrare come questa
poetessa sia stata una ribelle sia verso l’opprimente società conservatrice palestinese che
l’occupazione militare israeliana, attraverso un percorso che ha intrecciato storia politica e
vicende familiari e personali. Diversi punti della sua storia sono stati toccati, mentre altri
sono stati inevitabilmente tralasciati; spesso la mancanza di traduzioni in Italiano delle sue
poesie ha impedito una maggiore fruizione e comprensione della sua opera. L’elaborato ha
cercato di rispondere in qualche modo a questa mancanza di testi critici di riferimento
attraverso un’analisi per punti essenziali dell’opera e del pensiero di Fadwā Ṭūqān. Per ogni
capitolo è stata fatta una selezione dei frammenti di autobiografia e delle poesie più rilevanti
alle tematiche trattate, che però costituiscono solamente un frammento dell’immenso
repertorio della poetessa, la quale rimane purtroppo largamente sconosciuto al pubblico
italiano. Consapevoli di questo impedimento, con questo elaborato si è cercato di riportare
l’attenzione su una delle figure fondanti della poesia contemporanea palestinese, che se

65
adeguatamente tradotta permetterebbe di conoscere meglio la cultura e la letteratura di un
popolo e di una terra che vivono ancora nelle stesse condizioni descritte nei suoi
componimenti. La questione palestinese è infatti ancora tragicamente attuale e sconosciuta e
uno degli strumenti a disposizione per conoscere la sofferenza e l’oppressione del popolo
palestinese rimane la letteratura, strumento di resistenza potentissimo. Fadwā Ṭūqān ha
dimostrato che la poesia può colpire il cuore degli uomini più delle armi, e lei stessa ha
saputo trasformare i suoi versi i frecce avvelenate d’odio e disperazione, ma anche in rifugi di
speranza e amore. Questa tesi ha voluto essere spunto per futuri studi da parte di arabisti
italiani, affinché riportino alla luce e mantengano viva una cultura che rischia altrimenti di
essere cancellata, così come la sua terra.

BIBLIOGRAFIA

Opere di Fadwā Ṭūqān in lingua araba

١٩٤٦ ‫ يافا‬،‫آخي ابرهيم‬


Aẖī Ibrāhīm, Yāfā 1946; Mio fratello Ibrāhīm, Giaffa 1946.

١٩٥٢ ‫ القاهره‬،‫وحدي مع االيام‬


Wahdī maʻa al-ayyām, al-Qāhira 1952; Sola con i giorni, Il Cairo 1952.

١٩٥٧ ‫ بيروت‬،‫وجدتها‬
Waǧdatahā, Beirūt, 1957; L’ho trovata, Beirut 1957.

١٩٦٠ ‫ بيروت‬،‫أعطنا حبا‬


Aʻṭinā ḥubban, Beirūt, 1960; Dacci amore, Beirut 1960.

١٩٦٧ ‫ بيروت‬،‫أمام الباب المغلق‬


66
Amām al-bāb al-muġlaq, Beirūt 1967; Davanti alla porta chiusa, Beirut 1967.

١٩٦٩ ‫ بيروت‬،‫الليل و الفرسان‬


al-Layl wa’lfursān, Beirūt 1968; La notte e i cavalieri, Beirut,1968.

١٩٧٣ ‫ بيروت‬،‫على قمة الدنيا وحيدا‬


ʻlā qama al-dunyā waḥīdā, Beirūt 1973; Sola sulla cima del mondo, Beirut 1973.

١٩٧٨ ‫ بيروت‬،‫ديوان فدوى طوقان‬


Dīwān Fadwà Ṭūqān, Beirūt 1978; Il Canzoniere di Fadwà Ṭūqān, Beirut, 1978.

١٩٨٠ ‫ عكا‬،‫قصائد سياسية‬


Qaṣā’id siyasiya, ʻakā 1980 Poesie politiche, Acri, 1980.

Libri in lingua italiana

al-Nā‘ūrī, ‘Īsā (a cura di), Fadwa Toqan poetessa araba della resistenza, Roma, Lega degli
Stati Arabi, s.d.

--, Versi di fuoco e di sangue dei poeti arabi della resistenza, Roma, E.A.S.T, s.d.

Blasone P. e Di Francesco T. (a cura di), La Terra più amata. Voci della letteratura
palestinese, Roma, il manifesto, 2002.

Camera d’Afflitto, Isabella, Cento anni di cultura palestinese, Roma, Carocci, 2007.
--, Letteratura araba contemporanea: dalla nahḍah a oggi, Vol. 221, Roma, Carocci, 2007.

Colombo, Valentina (a cura di), Non ho peccato abbastanza. Antologia di poetesse arabe
contemporanee, Mondadori, 2007.

Maqbūl, Fatẖī, Fadwā Ṭūqān attraverso le sue poesie, Roma, Centro Culturale Arabo, 1982.

Libri in lingua francese

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Ṭūqān, Fadwà, Le Rocher et la Peine :Mémoires I, tr.fr. di Joséphine Lama e Benoît Tadié,
Parigi, Langues et Mondes, 1997. ed originale Rihla Ǧabaliyya – Rihla Sa’ba , Dar al-
Shorouk, Amman, 1988.

--, Le Cri de la pierre : Mémoires II, tr.fr. di Joséphine Lama e Benoît Tadié, Parigi, Langues
et Mondes, 1998. ed originale Al-rihla al-asʻab, Dar al-Shorouk, Amman, 1993.

Articoli e saggi in lingua inglese

Attar, S., A discovery voyage of self and other: Fadwa Tuqan's sojourn in England in the
early sixties, in “Arab Studies Quarterly”, 2003, pp. 1-23.

- -. Women under occupation: Fadwa Tuqan and Sahar Khalifah Document Israeli
Colonization, in Debunking the Myths of Colonization: The Arabs and Europe, University
Press America, 2010, pp. 179-280.

DeYoung, T., Love, Death and the Ghost of al-Khansa: The Modern Female Poetic Voice in
Fadwa Tuqan’s Elegies for Her Brother Ibrahim, in Tradition, Modernity and Post
Modernity in Arabic Literature. 2000, pp. 45-77.

Joffe, L. Fadwa Ṭūqān. Palestinian poet who captured her nation’s sense of loss and
defiance, in «The Guardian» ,15/12/2003.

Lovatt, H., Modern Palestinian Poetry and the Poetics of Place: Between Homeland and
Homelessness, in “Modern Palestinian Literature, SOAS”, Jan. 2010, pp. 2-17.

Articoli di riviste in lingua italiana

Canova, G., Due poetesse: “Fadwà Ṭūqāne e Salmà’l Khaḍrā’al ǧayyūsī”, in “Oriente
Moderno”, LIII.10, 1973, pp. 876-893.

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Gabrieli, F., Sette fogli dal divano di Fadwà, in “Oriente Moderno”, LI.1/6, 1980, pp. 147-
157.

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