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Il finale
Come finisce Napoli Velata?
La trama semina indizi che porteranno però a un capovolgimento del mistero e a un colpo di
scena.
Adriana, un medico legale di Napoli, ha incontrato a una rappresentazione di una simbologia
popolare, il parto dei femminielli, un uomo affascinante.
Pochi sguardi, due parole, e i due si sono trovati nell’appartamento della donna a fare sesso
sfrenato. Il giorno dopo lui, un giovane sommozzatore di nome Andrea, le dà un appuntamento per
la sera, al Museo Archeologico. Non si presenterà mai e, poco dopo, Adriana se lo troverà sul tavolo
di medicina legale ucciso e senza i bulbi oculari.
È solo l’inizio di un mistero fitto, che affonda le sue radici nel cuore di una città affascinante, piena
di magia ma anche di segreti oscuri.
Il finale però è a sorpresa, perché virerà il giallo in un thriller psicologico e svelerà che (forse)
Adriana ha immaginato tutto, per fare fronte al trauma di un ricordo doloroso.
A metà film, Adriana, in un mood stile La donna che visse due volte, incontra e invita a casa sua
Luca, il gemello di Andrea, trovato per caso tra le vie di Napoli. Luca con il tempo dimostra un
temperamento geloso e possessivo, è nascosto tra le quattro pareti e nessuno sembra percepire la sua
presenza.
Il motivo, che scopriamo alla fine, è che Luca non esiste. È una proiezione della mente di Adriana,
il cui trauma della morte improvvisa di Andrea ha fatto riaffiorare un altro trauma infantile. Per
difendersi da una verità troppo atroce, Adriana ha creato un doppio nella propria testa, nutrito e
tenuto in vita da ricordi, parole, gesti e scene che aveva visto tanti anni fa (tra i suoi genitori), e poi
rimosso.
Grazie all’amico poliziotto Antonio, Adriana si rende conto di aver sdoppiato (e poi conservato)
tutte le porzioni di cibo, e quindi di avere una grande quantità di cibo andato a male in frigorifero.
Con l’aiuto di Antonio e di qualche sacco della spazzatura, la donna prende coscienza. Si sbarazza
di tutto dopo che ha ricordato, ha ricordato il momento in cui sua madre, per gelosia, uccise suo
padre, e poi si lanciò dal tetto del loro palazzo.
Fare i conti con il passato proietta Adriana in una dimensione di apparente tranquillità. Tenendo a
bada il suo lato più focoso e passionale, e seguendo un consiglio della zia, trova un uomo tranquillo,
gentile, con cui costruire una relazione per condividere la vita. Alla fine, però, ci troviamo di fronte
a un'ulteriore sorpresa.
Adriana si reca a una premiazione artistica alla cappella Sansevero, con protagoniste due donne, una
coppia di commercianti d’arte, un evento in cui viene ribadita, proprio da loro, la necessità che la
verità, troppo cruda, rimanga velata, proprio come il Cristo Velato.
Uscendo dalla cappella, Adriana viene fermata dalla custode. Il ragazzo che era con lei ha perso un
oggetto, un occhio portafortuna, che la donna aveva consegnato a Luca dopo averlo trovato tra i
ricordi di suo padre. Ma allora Luca esiste o non esiste? Adriana se l’è immaginato o è ancora
accanto a lei? Chi ha perso l’occhio portafortuna? Dopo un momento di smarrimento, la donna
ringrazia la custode e prende l’oggetto, uscendo dalla porta principale e riprendendo a camminare
per le vie di Napoli.
Per questo, se abbiamo raccolto questo insegnamento nel corso del film, anche l’approccio nei
confronti del finale deve muoversi in questa direzione: Adriana stessa sembra aver capito la lezione,
perché alla fine smette di chiedersi cosa sia reale e cosa no, se Luca sia una proiezione della sua
mente, una magia (nera) o una persona realmente esistita. Smette quindi anche di indagare sul giallo
della morte di Andrea, forse assassinato perché era un trafficante di opere d’arte che recuperava dai
fondali marini. O forse no.
I personaggi si muovono tra i veli e a tutti fa comodo mantenere lo status quo ontologico: alla zia,
all’amica, a Pasquale, per non parlare delle feste, dei salotti degli artisti, dei ricordi di un passato
che riecheggia ancora tra le mura dell’antico palazzo affrescato.
Vediamo Adriana in bilico tra chiedere aiuto e squarciare quel velo (di Maya) e mantenere la
situazione della sua schizofrenia coperta, filtrata. Sappiamo che lascerà il suo lavoro di
anatomopatologa, ma non sappiamo se entrerà in cura, se si farà analizzare, se Antonio l’aiuterà a
uscire dalla spirale della malattia mentale.
Alla fine, in mano, le rimane un occhio, simbolo sacro e tangibile di iconografia, religione e
superstizione, l’occhio di suo padre che aveva passato a Luca, anche se Luca non esiste. Adriana
decide di non chiedersi più se le sue allucinazioni non allucinazioni o misteri dell’occulto; sceglie,
semplicemente, di vivere così, tra le aree velate e quelle vere.
Allo spettatore viene chiesto di lasciar perdere le spiegazioni dei fatti, e concentrarsi sui
percorsi della mente.
È uno sforzo per qualcuno difficile, che a qualcun altro lascerà l’amaro in bocca, ma è quello a cui
chiama questo controverso film.
La teoria psicoanalitica
Un modo per leggere tutto il film è l’approccio della psicoanalisi. I riferimenti culturali, i simboli
religiosi, i talismani sarebbero quindi funzionali a isolare nell’approccio solo e unicamente il punto
di vista della protagonista, che sviluppa una schizofrenia da trauma.
La storia psicoanalitica (e cinematografica, basti pensare a Marnie di Hitchcock) insegna che,
trauma è troppo doloroso per la propria mente, questa tende a rimuoverlo, confinarlo in un angolo
dell’inconscio, che poi gli incubi e il rimosso che affiora pensano, regolarmente o di tanto in tanto, a
risvegliare.
Partendo da questo punto di vista, il violento e passionale rapporto sessuale che Adriana ha
consumato con Andrea, e la conseguente straziante perdita, hanno portato il medico a sviluppare
un’ossessione e una schizofrenia che da una parte ha indotto l’oggetto del desiderio, Andrea, a
sdoppiarsi in Luca (come avveniva ne La donna che visse due volte; ma in quel caso era
chiaramente un piano diabolico!), dall’altra a fluttuare tra le perdite, i ricordi e i racconti per
ricostruire quel passato dimenticato e poter, forse, così, finalmente uscire dall’incubo.
Warner Bros.
L’inconscio, per la lettura di Özpetek, sembra funzionare per interruttori. La morte violenta di
Andrea mette in modo la malattia mentale (che fino ad allora era latente) e la figura del doppio,
Luca, oltre alla sequenza di numeri, un altro topos nel mondo delle malattie mentali.
La morte improvvisa di Pasquale (che ai fini della teoria psicoanalitica va letta come naturale e non
come un complotto o un assassinio) riporta Adriana alla realtà, le fa ricordare (grazie alla frase che
la zia pronuncia al funerale, definendo Napoli “l’assassina dei suoi figli”) e capire che Luca non
esiste. Il finale va invece inteso come un ritorno della malattia, che però la donna ha ormai imparato
a tenere a bada.
Ci sono dei farmaci per tenere i sintomi sotto controllo, ma non si può guarire completamente da
una patologia mentale.
NAPOLI VELATA
• Ferzan Ozpetek
NazioneItalia
Anno Produzione2017
Genere
• Drammatico
• Giallo
• 66590
Durata113'
Interpreti
• Giovanna Mezzogiorno
• Alessandro Borghi
• Luisa Ranieri
• Anna Bonaiuto
• Lina Sastri
Sceneggiatura
• Ferzan Ozpetek
• Gianni Romoli
• Valia Santella
Fotografia
• Gian Filippo Corticelli
Montaggio
• Leonardo Alberto Moschetta
Musiche
• Pasquale Catalano
TRAMA
una passioNe impetuosa, un morto Ammazzato, una Pista fantasmatica, un trauma da risOLvere,
una derIva quasi horror
RECENSIONI
Ferzan Özpetek è regista in grado di ammaliare il pubblico (si può permettere di firmare il poster
con il solo cognome) ma è quasi sempre stroncato dalla critica che ad ogni film, quando va bene,
esordisce con “è il suo progetto più ambizioso, ma purtroppo..”. Questo film non fa eccezione.
Eppure, Napoli velata è più riuscito delle sue ultime deludenti opere. Sarà lo sguardo
particolarmente avvolgente del regista, che filma una città a lui congeniale fatta di estremi
folcloristici di grande fotogenia, sarà una ritrovata Giovanna Mezzogiorno, che sembra un pesce
fuor d’acqua proprio come il personaggio che è chiamata a incarnare, oppure è proprio l’atmosfera
che il film riesce a evocare, un impasto non privo di fascino di esoterismo, ineluttabilità e apparenza
ingannevole. Sta di fatto che, nonostante una sceneggiatura che fa di tutto per inguaiarsi senza
trovare un approdo felicemente fluido, l’insieme riesce a farsi seduttivo. È una seduzione di pura
superficie che nasce da quel movimento di macchina di apertura che cita Alfred Hitchcock per poi
passare a Dario Argento (a proposito, perché quel flashback a inizio film che rende subito lo
spettatore più consapevole della protagonista?) e che finisce per soggiacere al vedo non vedo
imposto dal regista.
È infatti il “velo” il vero protagonista del film. Apre il sipario sui personaggi intenti ad assistere alla
“Figliata”, rito arcaico in cui le doglie del parto sono simulate da un “femminiello” sdraiato su un
letto. Protegge la protagonista da una verità difficile da accettare e dal giudizio del mondo. Si stende
su una città in cui riti ancestrali e modernità convivono non senza attriti e in cui tutto può accadere
mentre sembra che nulla accada. Si posa sul celeberrimo Cristo di Giuseppe Sanmartino di cui
esalta le forme pur coprendole. Ma è anche il filtro attraverso cui la vicenda si dipana per lo
spettatore, sempre sul punto di comprendere e sempre sviato. Il film prende quindi la forma di una
riflessione sullo sguardo e sulla complessità della percezione. La verità è sempre sotto gli occhi (la
cui simbologia invade il film) ma bisogna decidere di vederla e anche quando si pensa di averla
afferrata può essere solo un’illusione, vedi la bella sequenza conclusiva che nell’assenza mette,
forse, tutto nuovamente in discussione. Il finale concretizza quindi il mantra che abbraccia tutto il
film sull’importanza del sentire rispetto al vedere. Purtroppo le felici intuizioni sono più momenti
singoli che tasselli di una visione davvero organica. Il problema non è infatti tanto nei molti generi
che si intrecciano tra loro, ognuno con i suoi codici e la sua fame di risposte, quanto nella mancanza
di raffinatezza che spesso le parole hanno rispetto alle immagini. Se l’allusione di certi passaggi
colpisce in positivo (come la soluzione del giallo, a cui si può decidere di credere o meno, in base
allo spessore del proprio “velo”), dialoghi improbabili, svolte forzate, simbolismi fin troppo insistiti
e disequilibri di scrittura finiscono per disperdere l’alto potenziale messo in scena. Ed è un peccato,
perché induce a porre l’accento più sui difetti che sugli aspetti positivi.
Luca Baroncini
(6 Gennaio 2018)
Voto: 6.7