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ANDREA CAMILLERI/ Il “giallo” è donna e

veste un tailleur grigio


18.07.2019 - Silvia Stucchi
Andrea Camilleri, scomparso il 17 luglio 2019, viene normalmente associato al
commissario Montalbano. Andrebbe invece riletto “Il tailleur grigio”

Se, nel giorno della morte di Andrea Camilleri, dovessi consigliare un libro, uno solo, di
questo autore, la mia scelta non cadrebbe su un romanzo della serie di Montalbano, anche
se i primi hanno un fascino ancora oggi molto forte per chi li legge, o rilegge: penso, per
esempio, a Il cane di terracotta, con il suo affascinante intreccio, che viaggia fra presente e
passato; oppure a La gita a Tindari, in cui Mimì Augello incontra Beba, che diverrà sua
moglie, e di cui il lettore conserva, soprattutto, l’immagine di Montalbano seduto a
riflettere tra i rami di un gigantesco ulivo secolare.
Ma a me piace ricordare Il tailleur grigio (Mondadori 2008), un romanzo senza il
commissario Montalbano, e nemmeno appartenente alla serie storica (ambientata nella
Vigàta del XIX secolo), che sviluppa uno dei temi più cari a Camilleri, e cioè l’analisi
spassionata dell’animo femminile, senza falsi moralismi o preconcetti. La protagonista
del Tailleur grigio, Adele, è la moglie, bellissima, di Luigi, un alto funzionario di banca. Ma
prima dell’attuale marito, Adele è stata brevemente sposata, per soli otto mesi, con Angelo,
dipendente di Luigi, morto in un incidente stradale.
Adele, persino in gramaglie, inguainata nel tailleur scuro e con il velo nero sui capelli
biondissimi, è di una bellezza tale da togliere il fiato. Ben presto Luigi, che da un
precedente matrimonio ha avuto un figlio, ormai adulto, diviene il secondo marito di Adele.
La donna è tanto sensuale quanto, agli occhi della cerchia delle sue conoscenze,
irreprensibile nei modi, sobria ed elegante nel vestire, attenta alle convenienze: già, perché
con il nuovo marito ormai è diventata una signora dell’alta borghesia e occupa un ruolo
molto in vista nella buona società cittadina.
Il comportamento della donna è però ricco di segnali inquietanti: non solo la certosina
cerimonia del bagno e del rituale delle cure di bellezza dichiara in maniera lampante come
il più grande amore di Adele sia lei stessa, il suo corpo e la sua avvenenza; la sensualità
della donna fa presto capire, e poi sospettare a Luigi, più maturo di Adele, che presto o
tardi sua moglie lo tradirà. Ma quello che affascina del personaggio di Adele è il carattere
sfingico che Camilleri ha saputo conferirle. Da un lato, negli occhi di questa donna c’è una
determinazione assoluta, fredda e ardente, specialmente quando deve soddisfare le sue
passioni. Dall’altro, la sua vita interiore e  intellettuale pare ridotta a ben poca cosa: legge
per lo più insulsi e melensi romanzetti d’amore e il suo giudizio critico su un libro è,
invariabilmente, ridotto a tre possibilità: “Mi è piaciuto”; “Non mi è piaciuto”; “Non ci ho
capito niente”; e poi, le località esotiche dove Adele trascina Luigi a passare le vacanze non
sono mai espressione di un desiderio autonomamente nato in lei, ma riflessi, echi, desideri
indotti dalla volontà di non essere da meno delle amiche del bridge che in quei luoghi sono
già state e che glieli magnificano. In generale, Luigi inizia così a pensare che la
caratteristica dominante di Adele sia l’aridità: bella e vuota; a volte, addirittura, si
sorprende a pensare “Ho sposato la Barbie”.
Ma tutto è destinato a cambiare. Per prima cosa, in casa della coppia arriva Daniele, un
giovane parente, un ragazzo che deve frequentare l’università. Inutile dire che diventerà
l’amante di Adele, e Luigi, lentamente, verrà messo da parte nella sua stessa casa. E poi, fra
i vestiti di Adele, ce n’è uno, un sobrio tailleur grigio, che la donna usa solo per circostanze
particolari: come abito da lutto, per partecipare a funerali, o come abito da pre-lutto, per
far visita a malati gravi. 
Ben presto, la salute di Luigi declina: prima qualche fastidio, poi un’operazione,
apparentemente coronata da un esito positivo; dopo di essa, il referto di alcune radiografie
è preoccupante; quindi una seconda operazione, solo esplorativa, a quanto viene detto a
Luigi, in realtà che dà esiti assai sconfortanti. Da lì il lento declino. E qui arriva il colpo di
scena: la superficiale, fatua Adele, l’Adele attenta alle apparenze e alle convenienze più che
alla sostanza, si rivela una moglie devota e conscia dei suoi doveri; di più, un’infermiera
attenta e premurosa, che assiste il marito giorno e notte; addirittura, un giorno,
osservandola con attenzione mentre ha la finestra alle spalle, Luigi vede, con sommo
stupore, che sulla chioma biondissima della donna spiccano tre capelli bianchi, che non ha
evidentemente badato a coprire con la tinta. Questa trascuratezza smentisce ogni
preconcetto che Luigi poteva nutrire sulla moglie, e spiazza l’uomo, sempre più debole e
malato: “Ma com’era fatta quella fimmina? Possibile che appena si faceva una convinzione
su sua mogliere, bastava un gesto di lei per mandare tutto all’aria?”.
Infine, a conclusione di questo thriller dell’anima, dove il vero mistero è tutto nel cuore e
nella mente della bella ed enigmatica protagonista, Luigi, dopo aver scoperto un foglio in
cui l’accurata e precisa Adele, che tutto organizza e previene, aveva annotato le possibili
frasi per il suo annuncio funerario, capisce che non gli resta altro se non spegnersi via via,
giorno dopo giorno, sino a che, una mattina, o una sera, o una notte (il tempo, per i malati
gravi, è relativo) Adele sveglia il marito per dargli una compressa: e, in un lampo di
lucidità, l’uomo nota che la moglie si è ripresentata “come ai vecchi tempi, di nuovo in
perfetto ordine, pettinata, vestita di tutto punto. Indossava il tailleur grigio”. 

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LUCIANO DE CRESCENZO/ Il “Socrate” di


Napoli a cui non è stato perdonato il
successo
18.07.2019, agg. il 19.07.2019 alle 01:46 - Monica Mondo
È scomparso Luciano De Crescenzo (1928-2019), regista, attore e divulgatore. Ha difeso il
diritto di cercare le risposte alle grandi domande della vita

Bisognerà ringraziare Luciano de Crescenzo, per aver instancabilmente ricordato che la


filosofia ci è necessaria per vivere, come il respiro, come l’acqua, il cibo. Perché vivere, non
sopravvivere o vivacchiare, significa usare la ragione, e non rinunciare alle sue domande
fondamentali: ed io che sono, per citare Leopardi, che fa la luna in ciel, e che senso ha
questa vita mortale. O immortale? E che significato hanno il male, il dolore, e come riunire
gli esseri umani in una comunità, come dettarne le regole, salvando la specificità della
persona e la libertà. Pare banale. Ma la filosofia, cioè la ricerca della verità, è stata appaltata
per troppo tempo agli studi accademici, o alle velleità di qualche intelligentone, oggi si
direbbe nerd. Capace di discettare dei massimi sistemi, da ammirare a distanza o
ridicolizzare, ritagliandone ritratti bizzarri, astrusi, fuori dal mondo. Quando la filosofia è
esattamente la strada per conoscere il mondo, e operarvi.
Luciano de Crescenzo, affabulatore, nascondeva con maestria e vezzo partenopeo la sua
sapienza: ha capito che anche ai meno dotti toccava spiegare lo sforzo dell’uomo per
conoscere i misteri del reale, e raccontare l’eterna insistenza dei nostri padri, per dialogare
con il mistero dell’essere. Così, ha cominciato a scrivere libri che sprezzantemente sono
stati chiamati “divulgativi”, e invece consentono di avvicinare materia complessa, di
incuriosirsi dei protagonisti del pensiero, di farsi domande. Peccato che divulgare,
letteralmente distribuire al volgo, celi maldestramente un pregiudizio snob. Il volgo siamo
noi, i nostri figli. E si impara più dalla storia della filosofia di de Crescenzo che da tanti
manuali verbosi e lezioni soporifere, ancorché conseguenti ai dettami scolastici.
Sta a chi legge, e assapora il gusto dell’inquietudine, approfondire, chiedere, sfrondare
dall’aneddotica, che pure è la strada per far gustare le cose ai bambini: che poi crescono, e
si muovono da soli nello scibile, se qualcuno – con le fiabe, con i miti – ha seminato sapori.
Luciano de Crescenzo ha usato il racconto, qualche volta la favola, o il fumetto,
scandalizzando, facendo storcere il naso ai puristi (lo faceva apposta, ne sono convinta) ma
ci ha restituito come vicini personaggi lontani, ha invitato con leggerezza ad approcciare
temi difficili, a divagare sulle tracce di eroi, dei e semidei.
Ai suoi conterranei tocca ricordare quanto ha amato ed esaltato la sua Napoli, ai cinefili e ai
critici televisivi il suo lavoro di autore, interprete, con la regia e la compagnia di maestri del
cinema e della tv, dalla Wertmuller ad Arbore e Benigni. Bisognerà ringraziare Maurizio
Costanzo per averlo fatto conoscere a un grande pubblico, dal suo salotto-show, e averne
fatto un caso mediatico, di questo ingegnere gentiluomo e allegro che aveva scelto
semplicemente un terreno non suo, come se non fosse di tutti percorrerne i solchi. È la
colpa che non gli hanno mai perdonato, il successo, la popolarità (quante volte si lamentava
che a lui, mai un pezzetto in una terza pagina…), mentre lo perdonano volentieri a Camilleri.
Io lo ricordo col suo sguardo sornione, la sua allegria, la compiacenza con cui guardava il
panorama di Roma dalla sua terrazza sui Fori, la simpatia con cui apriva la sua porta ai più
giovani, mescolandosi, tra una facezia e una storia, ai loro interrogativi, alle loro curiosità.
Ha sofferto tanto, spiace non averlo recentemente incontrato: anche il suo volto stanco, la
sua sofferenza l’hanno accomunato col tempo ai saggi che ha letto e spiegato, senza mai
perdere in eleganza e sprezzatura. Rara virtù, quando ci si prende troppo sul serio, e ci si
innalza a monumenti civili, dimentichi del dogma socratico, che ci fa coscienti solo di non
sapere. 

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successo/1906663/

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