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VALENTINA VALENTINI
BULZONI EDITORE
TUTTI I DIRITTI RISERVATI
È vietata la traduzione, la memorizzazione elettronica,
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compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico.
L’illecito sarà penalmente perseguibile a norma dell’art. 171
della Legge n. 633 del 22/04/1941
ISBN 978-88-6897-006-2
Sommario
13 Avvertenza
192 4.4 Essere teatro: “a tenebra, u so’ tiatru rappresenta… e iu? Io co-
struisco ombre”
197 Valentina Valentini, La drammaturgia dello spazio
197 1. Rottura senso-motoria
202 2. Lo spazio dinamico e simultaneo
204 3. Spazio sonoro-cromatico
207 4. Lo spazio analitico
208 5. La scena monitor
210 6. Paesaggio e erranza
213 7. Costruire lo spazio
214 8. Installazione e digital space
219 Valentina Valentini, I modi plurali dell’attore
219 1. L’attore è il tema: questioni critiche e metodologiche
222 2. Attore come corpo collettivo
225 3. Il mancare del linguaggio e del soggetto: dal monologo all’assolo
230 4. Bloccare il corpo e liberare la voce
232 5. La parola come evento
235 6. Autofiction
237 7. Eccedere la rappresentazione
238 8. Attore-macchina-scultura-animale-cyborg
240 9. L’ampio spettro del performer
243 10. Il corpo sonoro è l’attante
249 Anna Barsotti, Drammaturgia dello spettacolo: attore-autore e scritture di scena
249 1. Eduardo, Fo, Moscato, Benigni: la linea dell’attore-autore come
identità italiana
257 2. In principio era Eduardo
264 3. Il mondo di Fo
273 4. Moscato, menestrello o Pulcinella noir
283 5. Benigni, demone e buffone del contado toscano
291 Donatella Orecchia, L’attore e le “tradizioni” del Nuovo Teatro
291 1. Avanguardia e tradizioni. «L’avanguardia che esplora e conserva»
296 2. Il (non)attore-artifex: parodia tragicomica della tradizione. Carmelo
Bene
12 SOMMARIO
1
È il titolo di un articolo di Maurizio Grande del 1978, pubblicato su «Rinascita» (3
marzo 1978, pp. 16-17). L’avanguardia, sostiene Grande, «esplora i mezzi più idonei per una
conservazione reale della tradizione, della storia e del passato culturale tramite l’esclusività della
sua appropriazione e del suo ri-uso nell’oggi» (p. 16); anzi, l’avanguardia è «l’unica via di con-
servazione e di continuazione, di ripresa e di salvaguardia della tradizione e delle sue possibi-
lità di parlare nell’oggi» (p. 17).
2
Cfr. le parole di Leo de Berardinis (fra l’altro in Leo e Perla: una coppia nel mito
dell’avanguardia, «Giornale di Sicilia», 16 settembre 1979); di Carmelo Bene (in C. Bene e G.
Dotto, Vita di Carmelo Bene, Bompiani, Milano 1998, p. 124); di Carlo Quartucci (in Colloquio
con Carlo Quartucci. Roma, 3 dicembre 2000, in D. Orecchia e A. Petrini (a cura di), Materiali
per una storia del teatro italiano di contraddizione. “Aspettando Godot”, Teatrostudio, Genova
1964, «L’Asino di B.», n. 6, p. 180); di Rino Sudano (in Colloquio con Rino Sudano. Torino, 28
novembre 2000, ivi, p. 155).
3
L’impostazione originariamente proposta da Silvio d’Amico e ripresa da buona parte
della critica e da qualche teatrante è stata già ampiamente messa in discussione (M. Schino, Sul
“ritardo” del teatro italiano, «Teatro e Storia», aprile 1988).
4
Elaborato all’interno di un’economia familiare, il sistema delle compagnie di prosa (ca-
292 DONATELLA ORECCHIA
pocomicale, itinerante, di ruolo) non regge, infatti, l’urto con l’affermarsi di logiche e pratiche
industriali proprie del nuovo secolo, con l’invasivo affermarsi dei grandi trusts che coinvolgono i
principali teatri italiani, con la competizione del cinema, con il tramonto del mercato interna-
zionale, e così via.
5
Sono gli anni questi in cui si afferma un modello d’attore che Claudio Meldolesi ha con
efficacia definito «dell’antilingua recitativa» (Claudio Meldolesi nel suo Fondamenti del teatro
italiano. La generazione dei registi, Sansoni, Milano 1984, pp. 31-32) e che va a corrodere defini-
tivamente dall’interno, fino a sostituire, il modello attorico della tradizione ottocentesca.
6
Marco De Marinis in Capire il teatro. Lineamenti per una nuova teatrologia (La casa
Usher, Firenze 1988) sintetizza alcuni di questi tratti. In particolare si sofferma sul concetto di
autotradizione. Per un approfondimento rimando a quelle pagine: pp. 177-78.
L’ATTORE E LE “TRADIZIONI” DEL NUOVO TEATRO 293
7
L’attor comico non è organizzato in compagnia, gestisce autonomamente i contratti con i
proprietari dei teatri e con gli impresari; è dunque assolutamente solo nelle fasi relative ai processi
di produzione economico organizzativi, come spesso è solo in scena, se non accompagnato da una
figura femminile, in duetto.
8
Giuseppe Bartolucci, nel farne una sintesi, scriverà: «La caratteristica comune e indica-
tiva che ne viene è di un cattivo e deplorevole buon senso interpretativo, ove scetticismo e mo-
ralità, astrattezza e finalità, si danno stranamente la mano, tecnicamente eludendo e umana-
mente corrodendosi su quel fantasma di pubblico consumatore, la cui immagine persiste sui
nostri palcoscenici [...], per un lato [...] l’interpretazione passando da un’eleganza esteriore a un
decadentismo di maniera, di dubbia riconoscibilità storica e morale; per l’altro, passando da
una accentuazione sensoriale a una reviviscenza naturalistica senza efficacia, per la stessa dub-
bia conoscibilità storica e morale»: G. Bartolucci, Teatro-corpo, teatro-immagine, Marsilio, Ve-
nezia 1970, p. 32. Su Bartolucci e l’attore e, più in generale, sull’attore e il Nuovo Teatro cfr. G.
Mancini, Percorsi dell’attore nel nuovo teatro italiano, in G. Bartolucci, Testi critici 1964-1987, a
cura di V. Valentini e G. Mancini, Bulzoni, Roma 2007.
294 DONATELLA ORECCHIA
9
F. Dei, Dove si nasconde la cultura subalterna? Folk e popular nel dibattito antropologico
italiano, in M. Pavanello e M. Santova (a cura di), Bulgaria-Italia. Dibattiti, culture locali,
tradizioni, Casa Editrice dell’Accademia delle Scienze, Sofia 2006, p. 151. Cfr. anche F. Dei,
Beethoven e le mondine. Ripensare la cultura popolare, Meltelmi, Roma 2002.
10
R. Bauman, Foklore, in R. Bauman (a cura di), Folklore, Cultural Performances, and
Popular Entertainments, Oxford University Press, New York 1992, pp. 30-31.
11
F. Dei, Dove si nasconde la cultura subalterna? Folk e popular nel dibattito antropologico
italiano, cit., p. 151.
L’ATTORE E LE “TRADIZIONI” DEL NUOVO TEATRO 295
12
Cfr. D. Orecchia, Temi e questioni di metodo per lo studio del comico grottesco in Ettore
Petrolini, in R. Caputo, L. Mariti (a cura di), Culture del teatro moderno e contemporaneo, Edi-
campus, Roma 2013, pp. 153-168.
296 DONATELLA ORECCHIA
13
Si veda al sesto paragrafo del primo capitolo, in questo stesso volume.
14
E. Petrolini, Appunto autografo senza titolo, in Biblioteca Burcardo di Roma, Fondo
Petrolini, Autografi e Carteggi, Coll. AUT-PETR-04-B01-15. I corsivi sono nostri.
L’ATTORE E LE “TRADIZIONI” DEL NUOVO TEATRO 297
essere rintracciato nella storia del teatro italiano del Novecento, questi è certa-
mente Petrolini 15 e proprio per la forza e la determinazione con la quale, dal
palco privilegiato del varietà nei primi decenni del Novecento, ha saputo passare
a contrappelo tutta la cultura a lui contemporanea. Attraverso un’attenta e sa-
piente riscrittura delle diverse tradizioni artistiche, Petrolini ha articolato una
poetica e uno stile d’attore che hanno fatto della parodia il modus principale del
suo operare: in cui metalinguaggio16 e grottesco si sono intrecciati in un’opera-
zione di decostruzione linguistica insuperata fino a Carmelo Bene.
Non si tratta di creare, appunto, ma di riscrivere “deformando”. Di una
scrittura scenica che è “di-scrittura” 17. Che trova nel corpo attoriale dell’artista il
suo luogo espressivo per eccellenza 18 e nella parodia tragico grottesca la sua cifra
stilistica. La sua urgenza nel rapporto conflittuale con il proprio tempo. «Si ri-
scrive perché non si può scrivere… Riscrivo soprattutto perché lo sento e mi
sento inattuale. Riscrivo perché mi vergogno di appartenere al mio tempo» 19.
Carmelo Bene 1966: una paradossale «emanazione tirannica e istrionica
dell’attore» 20, come la definì Ennio Flaiano, che si dilata fino a investire tutti i
codici spettacolari, in un modo apparentemente simile al Grande Attore ita-
liano dell’Ottocento: «un inconscio ritorno alle origini di quest’arte» 21 che, in
realtà, ne è un capovolgimento parodico. A partire dal singolare modo in cui
Bene lavora con il suo corpo d’attore, sul quale si sedimenta una lunga e stra-
tificata tradizione e una prodigiosa sapienza tecnica, e dal modo in cui, con
altrettanta prodigiosa sapienza, decostruisce il linguaggio, «toglie di scena»
l’Attore, elimina la «rappresentazione», si dipana buona parte della sua poetica
e prassi teatrale dai primi anni di attività e fino alla fine degli anni Settanta22.
15
«Studiavo anche Ettore Petrolini. Lo studiavo più di Ruggeri e Zacconi. Quella voce ta-
gliente, quegli occhi di ghiaccio. Quel palese disprezzo per il pubblico, che gli attori italiani si
sognano. Ci sono delle scimmie che ci provano a imitare Petrolini, avendo dei vocioni. Petro-
lini era invece taglientissimo»: C. Bene e G. Dotto, Vita di Carmelo Bene, cit., p. 61.
16
Per la centralità dell’aspetto metalinguistico in Petrolini, cfr. in particolare le pagine di
E. Sanguineti, Il gesto verbale di Petrolini, in F. Angelini (a cura di), Petrolini la maschera e la
storia, Laterza, Roma-Bari 1984.
17
C. Bene, Opere, Bompiani, Milano 1995, p. 3
18
Bartolucci parla di un segno-base che è la sua persona-corpo e il suo essere scrittura-
azione.
19
C. Bene, L’orecchio mancante, Feltrinelli, Milano 1970, p. 172.
20
E. Flaiano, Il rosa e il nero di Carmelo Bene. Come vi piace di William Shakespeare (10
novembre 1966), in Id., Lo spettatore addormentato, Rizzoli, Milano 1983, p. 310.
21
Ibidem.
22
La distinzione fra un primo e un secondo Carmelo Bene o, quantomeno, la sottolinea-
tura di una discontinuità nel suo percorso di ricerca, è segnalata ormai da molti storici del tea-
tro: Petrini segnala una fase allegorico grottesca cui succede una simbolista (A. Petrini, Amleto
da Shakespeare a Laforgue per Carmelo Bene, ETS, Pisa 2004); Giacché colloca la discontinuità
298 DONATELLA ORECCHIA
«Per essere un grande attore uno deve avere tutti i requisiti ottocenteschi,
sia chiaro», anzi, meglio ancora se ha quelli di «Richard Burbage, di Shake-
speare, cioè degli interpreti elisabettiani che erano veramente completi, che pen-
savano a tutto» 23. Gli fa eco Carlo Cecchi in una testimonianza di rara efficacia
sui suoi primi anni di attività artistica, indicando il modo in cui Bene si rifà a
quella tradizione, capovolgendola parodicamente: «Era come se l’aura perduta
dell’Attore non la si potesse ritrovare se non attraverso il suo doppio; un doppio
derisorio e celebrativo allo stesso tempo» 24. Cioè a dire: Bene si colloca entro il
solco della storia del Grande Attore italiano – e quindi della tradizione teatrale
romantica innanzitutto – per esserne, consapevolmente, l’appendice tragico
grottesca. Del Grande Attore egli conosce «in maniera prodigiosa le tecniche
[…] e se ne serve; ma per che cosa? per deriderlo e per deridere la sua pretesa di
rappresentazione» 25, la sua idea di personaggio, di eroismo tragico, la sua ten-
sione al sublime. Per ribaltarne parodicamente l’identità 26.
I primi Amleto [FOCUS] sono in questo senso un emblematico esempio e
l’esplicitazione lampante della questione centrale della poetica di Bene, la ragio-
ne della parodia, della riscrittura destrutturante. Amleto è «un saggio sulla figura
dell’artista, sul suo funerale e sull’impossibilità dell’artista nell’arte borghese» 27,
afferma Bene, un saggio sull’impasse che è il tratto caratterizzante di tutta l’arte
contemporanea e, dunque, di tutto il teatro28. In una scena paradossalmente
«irrappresentabile» 29, Amleto è dunque per Bene-attore il terreno per la ricerca
di una presenza scenica segnata dal paradosso: di un attore che è un non-attore.
nel passaggio dalla non-rappresentazione all’irrappresentabile (P. Giacché, Carmelo Bene. Antro-
pologia di una macchina attoriale, Bompiani, Milano 2007 (II ed.), pp. 83-84).
23
Intervista a Carmelo Bene in M.G. Gregori, Il signore della scena. Regista e attore nel tea-
tro moderno e contemporaneo, Feltrinelli, Milano 1979.
24
C. Cecchi, Contro la rappresentazione, in AA.VV, Per Carmelo Bene, Linea d’ombra, Mi-
lano 1995, p. 68.
25
Ivi, pp. 68-69.
26
Operazione questa evidente fin dalle prime recite; non tanto nel Caligola, quanto
piuttosto nell’Amleto, in Pinocchio, in Gregorio e poi in Spettacolo Majakovskij, in Salomè, Faust
o Margherita, Nostra Signora dei Turchi, Il rosa e il nero, fino alla Cena delle Beffe, Romeo &
Giulietta, Riccardo III.
27
E. Z., Questa sera al Quirino torna Carmelo Bene con il suo pessimismo, «Momento sera»,
8 gennaio 1976, cit. in A. Petrini, Amleto da Shakespeare a Laforgue per Carmelo Bene, ETS, Pisa
2004, p. 87. Allo studio di Petrini rimando per un’analisi dell’Amleto di Bene. Cfr. anche il
[FOCUS] dedicato agli Amleto.
28
Cfr. R. Bianchi e G. Livio, Incontro con Carmelo Bene, «Quarta Parete», marzo 1976.
29
«Quando dico è irrappresentabile, dico è però, il teatro, è quindi è, ma poi irrappresen-
tabile. È con l’accento. Io non ho detto che il teatro non è rappresentabile, che è un’altra cosa: il
teatro è irrappresentabile. Qui i misticismi cadono tutti»: sono parole di Carmelo Bene, in Ivi,
p. 110.
L’ATTORE E LE “TRADIZIONI” DEL NUOVO TEATRO 299
30
V. Valentini, Dopo il teatro moderno, Carlo Politi ed., Milano 1989, pp. 87-96.
31
«Ensemble vocale di Amleto, Claudio, Marcello, Francesco e Bernardo. Amleto che sfo-
glia un copione e annota mentalmente e parla d’altro da sé: Oh così questa troppo solida carne
si fondesse, ecc… e Claudio nel suo “Benché la memoria sia ancora verde del nostro caro fra-
tello Amleto re… ecc..”. Orazio allo spettro con i suoi “Parla! … ecc»: C. Bene, Amleto di W.
Shakespeare, in Id., Pinocchio Manon e Proposte per il teatro, Lerici, Milano 1964, p. 102.
32
Vice, Amleto disgregato, «Giornale d’Italia», 23-24 ottobre 1962. Nel 1965 «una specie di
collage dell’Amleto, con sovrapposizioni di battute, falsetti, isterismi, dizioni in coro»: S. Surchi,
Compromesso l’Amleto del terribile Carmelo, «La Nazione», 14 aprile 1965.
33
C. Bene, La voce di Narciso, in Id., Opere, cit., p. 1005.
34
Il rifiuto della formalizzazione compiuta e lo spostamento dell’attenzione sul processo
compositivo continuamente in fieri piuttosto che sul prodotto definito come linea costante del
Nuovo Teatro in questi anni.
35
Cfr. A. Petrini, Amleto da Shakespeare a Laforgue per Carmelo Bene, cit.
300 DONATELLA ORECCHIA
36
Ivi, p. 114.
37
R. Tessari, Un Amleto e una armatura, in R. Alonge e R. Tessari, Immagini del teatro
contemporaneo, Guida, Napoli 1977, p. 397. Sulla regia di Bene come una regia della crisi
rinvio al mio La regia della crisi. Frammenti per un dialogo. Carlo Quartucci, Carmelo Bene, Leo
de Berardinis e Perla Peragallo, in A. Audino (a cura di), Corpi e visioni. Indizi sul teatro contem-
poraneo, Artemide, Roma 2007.
38
C. Bene, La voce di Narciso, in Id., Opere, cit., p. 1010.
39
P. Giacchè, Carmelo Bene. Antropologia di una macchina attoriale, cit., p. 56.
40
G. Deleuze, Un manifesto di meno, in C. Bene e G. Deleuze, Sovrapposizioni. Riccardo
III di Carmelo Bene. Un manifesto di meno di Gilles Deleuze, Feltrinelli, Milano 1981, p. 195.
L’ATTORE E LE “TRADIZIONI” DEL NUOVO TEATRO 301
41
F. Quadri, Colloquio con Carmelo Bene, in Id., Il teatro degli anni settanta. Tradizione e
ricerca, Einaudi, Torino 1982, p. 310.
42
C. Cecchi, Contro la rappresentazione, cit., p. 68.
43
A. Petrini, Amleto da Shakespeare a Laforgue per Carmelo Bene, cit., p. 107.
44
C. Bene, G. Dotto, Vita di Carmelo Bene, cit., p. 61.
45
A. Petrini, Amleto da Shakespeare a Laforgue per Carmelo Bene, cit., p. 108.
46
C. Bene, La voce di Narciso, in Id., Opere, cit., p. 1026.
47
P. Giacchè, Carmelo Bene. Antropologia di una macchina attoriale, cit., p. 50.
302 DONATELLA ORECCHIA
48
Ci sono, già prima del 1968, alcuni sintomi interessanti del cambiamento di Bene.
Nell’edizione dell’Amleto del 1967, in un’apparente posizione defilata, seduto in proscenio,
Bene scruta, legge piccoli bigliettini, sussurra, bofonchia, ride e commenta la scena, rinun-
ciando al protagonismo espanso e violento degli anni precedenti. Ma è una parentesi. Anche
Arden of Feversham del 1968 va nella stessa direzione, di sottrazione della presenza attoriale di
Bene dalla scena, che troverà poi una differente forma per dirsi, dopo il temporaneo abbandono
del teatro durante la parentesi del cinema. Cfr. S. Margiotta, Il Nuovo Teatro in Italia 1968-
1975, Titivillus, Corazzano 2013, pp. 21-24.
49
A. Petrini, Amleto da Shakespeare a Laforgue per Carmelo Bene, cit., p. 145.
50
Bene in D. Righetti, Il principe triste è diventato un clown, «Il Giorno», 28 ottobre 1975.
51
A.M. Ripellino, Che donnina, quell’Amleto, «L’Espresso», 25 gennaio 1976, p. 63.
52
G. Prosperi, Carmelo-Amleto follia con metodo, «Il Tempo», 10 gennaio 1976.
53
C. Bene, G. Dotto, Vita di Carmelo Bene, cit., p. 337.
L’ATTORE E LE “TRADIZIONI” DEL NUOVO TEATRO 303
54
Ivi, p. 336.
55
G. Luporini, Un ricordo per Carmelo, Lucca, 10 luglio 2002, in A CB, a cura di G. Costa,
Editoria & spettacolo, Roma 2003, p. 53.
56
P. Giacchè, Carmelo Bene. Antropologia di una macchina attoriale, cit., p. 138.
57
Per un teatro jazz. Intervista con Leo de Berardinis, a cura di O. Ponte di Pino, in
http://www.trax.it/olivieropdp/leo83.htm; pubblicata originariamente in J. Gelber, La connec-
tion con l’intervento di Leo de Berardinis, Ubulibri, Milano 1983.
304 DONATELLA ORECCHIA
58
G. Fofi, I Padri Zappatori, «Ombre rosse», marzo 1974.
59
Ibidem.
60
A. Blandi, “Sceneggiata” d’avanguardia, «La Stampa», 12 aprile 1972.
61
A.M. Ripellino, Mezza Napoli nel tritacarne, «L’Espresso», 19 novembre 1972, p. 22.
62
Ibidem.
63
Si veda in questo volume al capitolo secondo, di Valentina Valentini.
64
L. de Berardinis, Marigliano, in F. Quadri, L’avanguardia teatrale in Italia (materiali
1960-1976), Einaudi, Torino 197, p. 298. Rimando anche in questo caso alle pagine di Barto-
lucci sulla luce-movimento, sulla funzione innovatrice totale degli elementi luce, corpo, ru-
more intesi come segni di un linguaggio che procede per composizione e scomposizione, in un
delirio scenico che si fa «strumento stilistico in grado di rovesciare una situazione di rapporti
scenici tradizionali»: G. Bartolucci, La luce-movimento-rumore in De Beradinis-Peragallo, in Id.,
La scrittura scenica, Lerici, Roma 1968, p. 56.
L’ATTORE E LE “TRADIZIONI” DEL NUOVO TEATRO 305
delle facili pacificazioni» 65: di conoscenza del territorio e dei suoi abitanti,
della loro cultura che si impasta e reagisce con la propria, in un cortocircuito
rigenerante66.
È bene ricordare che l’attenzione per la cultura popolare è atteggiamento
diffuso negli anni Cinquanta e Sessanta in Italia e gli studi antropologici, in
particolare i lavori di Ernesto de Martino, ne sono il segno più chiaro e im-
portante. La nozione, d’impronta gramsciana, di cultura popolare e di folklore
si afferma nei principali studi: da un lato come un «agglomerato indigesto di
frammenti di tutte le concezioni del mondo e della vita che si sono succedute
nella storia, della maggior parte delle quali, anzi, solo nel folclore si trovano i
superstiti documenti mutili e contaminati» 67; dall’altro, per il suo stesso con-
trapporsi alla cultura ufficiale e delle classi colte, come espressione di «una se-
rie di innovazioni, spesso creative e progressiste, determinate spontaneamente
da forme e condizioni di vita in processo di sviluppo e che sono in contraddi-
zione, o semplicemente diverse, dalla morale degli strati dirigenti» 68.
L’influenza di questo modo di intendere il popolare sul Nuovo Teatro
non è diretto; eppure, il particolare percorso di Leo de Berardinis e Perla Pe-
ragallo a partire dal 1970 è certamente erede di quella temperie culturale e di
quella sensibilità, in un momento in cui a loro pare consumata la prima fase
del teatro di ricerca italiano69.
Intesa la cultura popolare in senso gramsciano, come «agglomerato indi-
gesto di frammenti», «superstiti documenti mutili e contaminati» di culture
antiche, talvolta reazionarie, ma comunque in contraddizione con la cultura
egemone, l’obiettivo è porsi nella situazione di fare reagire se stessi e la propria
sapienza scenica, la propria cultura di origine (la propria “ignoranza”) con
materiali inediti; realizzare quell’operazione di destrutturazione e contami-
nazione dei materiali, delle forme, dei generi e dei linguaggi che, all’interno
della cultura così detta alta e di fronte a un pubblico della borghesia colta e
65
N. Garrone, “Con me la sceneggiata diventa teatro di classe”, «La Repubblica»,10 giugno
1976.
66
L’attività non prevede da principio la creazione di nuovi spettacoli, quanto piuttosto la
realizzazione d’interventi pubblici che coinvolgano gran parte del paese: «Improvvisavo scene,
io, Sebastiano... Facevo partecipare tutta la popolazione ... Discutevo ... Abbiamo fatto mostre
di quadri [...] Li facevo discutere ... E interviste. Moltissime»: Incontro con Leo de Berardinis e
Perla Peragallo, a cura di R. Bianchi e G. Livio, «Quarta parete», nn. 3-4, 1977.
67
A. Gramsci, Quaderni dal carcere, a cura di V. Gerratana, vol. III, Quaderno 27 (XI)
1935, Einaudi, Torino 2007, p. 2312.
68
Ivi, p. 2313. Cfr. F. Dei, Dove si nasconde la cultura subalterna? Folk e popular nel dibat-
tito antropologico, cit.
69
Cfr. per esempio anche le pagine di Franco Quadri in Materiali per una non-introdu-
zione, in Id., L’avanguardia teatrale italiana (materiali 1960-1976), cit., vol. I.
306 DONATELLA ORECCHIA
intellettuale romana, non è più possibile. La “lingua altra” è usata nella sua
contraddizione con la lingua di partenza attorica di Leo e Perla «come corpo
contundente», cosicché «dall’urto, schegge di attualità s’incidono sulla lingua
poetica producendo cortocircuiti, dislivelli parodici, drastiche interruzioni» 70.
E facciamo ritorno a ‘O Zappatore. Dalla sceneggiata tradizionale 71
(esempio emblematico di rappresentazione della cultura popolare napoletana
che, sebbene negli anni Settanta in decadenza, esprime ancora un importante
riferimento per la comunità del sottoproletariato urbano e rurale campano),
Leo e Perla traggono il materiale per un apologo sull’arte contemporanea e
sulla propria esperienza recente. Ecco che le tre figure, il padre (Giggino), il
figlio (Leo de Berardinis), la signora (Perla Peragallo), rappresentano cia-
scuno simbolicamente una dimensione culturale specifica: il padre, la sceneg-
giata; la donna, la decadenza del mondo melodrammatico tardo ottocentesco
borghese; il figlio il prodotto del costume e della moda che si nutre di jazz,
come i figli della borghesia anni Cinquanta e che si trasforma in hippy nei
Sessanta, suona il sassofono e forse è un artista d’avanguardia. Attraverso
l’attore, le tre culture, con i loro modelli recitativi di riferimento, coesistono
sullo stesso palcoscenico e la forza del contatto (senza manipolazione) 72 pro-
voca cortocircuiti imprevisti e un confronto, nei fatti, di punti di vista, di tecni-
che, di disperazioni.
In particolare, le caratteristiche d’attore di Leo de Berardinis trovano qui
nuova e inedita collocazione e significato. Fin da principio attento alla defini-
zione raffinata del gesto altamente formalizzato, senza sbavature 73 e insieme
sempre straniato, con un atteggiamento intellettuale e una cifra parodica e au-
toparodica, Leo costringe qui se stesso entro una situazione scenica che rende
evidente il nodo centrale della sua problematica artistica: il «signorino con il
sax» è metafora del tragico impasse nel quale si muove l’arte d’avanguardia, che
non può farsi effettivamente borghese come non può, d’altra parte, recuperare a
pieno una vitalità popolare, ma si danna fra l’atonalità di Schönberg e la libertà
improvvisativa del jazz e finisce giocando a scacchi, bendato e solo, al centro del
70
Faccio riferimento a una riflessione di Francesco Muzzioli in L’alternativa letteraria,
Meltemi, Roma 2001, p. 45.
71
Genere teatrale popolare che nasce ufficialmente nel 1919, in seguito all’emanazione di
una legge che aumenta le tasse sugli spettacoli di varietà basati sulle canzoni: la sceneggiata,
prendendo lo spunto da una canzone, sviluppa tuttavia una trama e può essere pertanto classi-
ficata come commedia. Cfr. per un discorso articolato P. Scialò (a cura di), La sceneggiata-Rap-
presentazioni di un genere popolare, Guida, Napoli 2002.
72
F. Quadri, Materiali per una non-introduzione, cit., vol. I, pp. 26-27.
73
Cfr. G. Manzella, La bellezza amara. Arte e vita di Leo de Berardinis, La casa Usher,
Lucca 2010, p. 101. A Manzella rimando per un’analisi dell’intero percorso di Leo de Berardi-
nis, anche successivo agli anni qui trattati.
L’ATTORE E LE “TRADIZIONI” DEL NUOVO TEATRO 307
palco. Inoltre avviene allora l’approfondimento dell’uso del dialetto, già speri-
mentato nel periodo romano, ma qui vissuto più in profondità, «dialetto usato
non in senso veristico, ma in quelle che chiamo intonazioni concrete – da non
confondere con la musica concreta – cioè pezzi, frammenti, da inserire nella
composizione, alla maniera pop. Quindi una aggregazione abbastanza com-
plessa di un fraseggio completamente inventato con un altro fraseggio, che è la
traduzione del fraseggio originario nel quale vengono inserite sillabe e parole. È
la sintassi sonora che dovrebbe far parte del bagaglio di ogni attore, di quello che
chiamo attore jazz, o attore lirico» 74.
Perla Peragallo è qui una ballerina che «bianchissima trottola, si aggira e
barcolla come un’afflitta Taglioni da caffè concerto», la sciantosa-cigno con i
piedi fasciati come una ballerina classica che ora «si accuccia avvilita» e ora
«prorompe in urli e crampi grotteschi, rabbiosa come una Gonerilla da barac-
cone», ora con ingenua soavità «vezzeggia, quasi a volerli acquietare, i dannati
strumenti. Blandisce il violino, strofina con una pezzuola il clarino, i tamburi,
carezza la tromba e la posa come una bambola su un nero guanciale da carro
mortuario» 75: il «viso bianco-violaceo», «la voce è un rantolo volgare, viscerale;
il modo di camminare goffo animalesco, feroce; le unghie scure, le dita sono
tese, graffiano lo spettatore per insegnargli chissà quale canzone di miseria e
di abbandono» 76. Qui, come d’ora in avanti accadrà, la potente presenza sce-
nica di Perla, il suo temperamento tragico, la sua raffinata sensibilità musicale,
il suo virtuosismo vocale si coniugano sempre più con qualcosa di visceral-
mente sanguigno e cerebrale insieme, una specie di forza popolaresca violenta,
una furibonda ribellione fisiologica che ha forse messo a fuoco proprio negli
anni di Marigliano e che trova forme dissonanti per esprimersi, «gesti animali,
eppure sordamente anelanti a una angelicità»77, scriverà Guerrieri qualche
anno più tardi, «smorfie scimmiesche, urla con voce squarciata di guitta e di
rivendugliola» 78: una rabbia sorda, quasi ancestrale, che diviene il perno in-
torno al quale ruota l’intero spettacolo e indica, come un basso continuo, il
tempo della recita79.
74
L. de Berardinis, Per un teatro jazz, cit.
75
A.M. Ripellino, Mezza Napoli nel tritacarne, cit.
76
M. d’Abbicco, Appuntamento per una denuncia, «Rocca», n. 17, 1 settembre 1976, cit. in
M. La Monica, Il poeta scenico, Perla Peragallo e il teatro, Editoria e spettacolo 2002, p. 65.
77
G. Guerrieri, Pulcinella e Viviani tornano dal futuro, «Il Giorno», 4 maggio 1975.
78
A.M. Ripellino, Lazzaro fa il marameo, «L’Espresso», 29 giugno 1975.
79
Così spiega Leo de Berardinis: «essendo lei arrabbiata sempre in un determinato modo,
forse -...forse può determinare quel punto focale attorno al quale... in effetti lei ha sempre fatto
da perno allo spettacolo...», Incontro con Leo de Berardinis e Perla Peragallo, a cura di R. Bianchi
e G. Livio, cit., p. 181.
308 DONATELLA ORECCHIA
80
G. Bartolucci, Tra Carella e Leo (1977), in Id., Testi critici 1964-1987, cit., p. 272.
81
Ivi, p. 273.
82
P. Giovannini, I bassifondi di Leo e Perla, «Il Resto del Carlino», 7 marzo 1977.
83
G. Livio, I poeti dovrebbero essere sacri. Perla Peragallo, «L’Asino di B.», novembre 2002,
p. 21.
L’ATTORE E LE “TRADIZIONI” DEL NUOVO TEATRO 309
giata, dove però la trama non importa più nulla, ma in compenso valgono
tutti gli imprestiti e le divagazioni, perché ogni citazione venga ricondotta at-
traverso una mediazione deformata e stravolgente a un dato popolare, e prati-
camente annientata»84.
Accanto a lui, Perla «un riferimento costante, qualcosa di fisso, la martellata
che arriva ogni tanto» 85, assolve alla funzione – che nel jazz è svolta solitamente
dal batterista – di definire il tempo e di tenerlo e, insieme, di sviluppare un di-
scorso che si manterrà sempre parzialmente autonomo e parallelo rispetto a
quello degli altri; infine, provocati, stimolati, talvolta straniati nel loro recitare da
Leo-leader, gli altri attori o musicisti costruiscono le parti della recita.
A distanza di qualche anno l’esperienza di Marigliano è ormai comple-
tamente conclusa e assimilata entro il nuovo percorso di Leo e di Perla 86. Na-
sce allora, nel 1978, Avita murì [FOCUS]: «una tragicomica ballata di morte» 87.
«Lui è un Pulcinella calcagnato che tenta di parlare fiorentino, lei una Co-
lombina storpia aggrappata alle stampelle» 88: due maschere della tradizione
che nel meridione rappresentano, l’una, il sottoproletariato, la fame atavica
sempre insoddisfatta; l’altra, la purezza e insieme la concretezza della terra e
della procreazione, qui tuttavia degradate. Lui parla in fiorentino, lei è storpia;
i loro dialoghi sono luoghi comuni, proverbi smozzicati, di una cultura popo-
lare che torna a brandelli. Come «sopravvissuti cercano delle parole che non
trovano più, si confrontano con un discorso ormai inutile, ripescano luoghi
comuni del più vieto avanspettacolo, quiproquo da far impallidire il primo
Ionesco, s’arrabattono con una caccavella elevata alla dignità di figlio, improv-
visano sopra Stravinskij della colonna sonora un mirabile concerto con due
lattine di birra vuote e le loro voci ai microfoni» 89. «La stessa disarticolazione,
il girare a vuoto del linguaggio, che Beckett o Ionesco hanno attribuito alla
comunicazione borghese […] si applica qui al mondo della popolarità impro-
babile, pur cercata come ancora di salvezza. Essa si rovescia, su questa scena,
84
F. Quadri, Assoli, «Panorama», 22 marzo 1977.
85
Incontro con Leo de Berardinis e Perla Peragallo, cit., p. 180.
86
Di ciò Leo de Berardinis dà ragioni diverse rispetto a quel che parte della critica di al-
lora sostiene (l’esaurimento, cioè, e il fallimento degli anni di Marigliano): «Ora facciamo lo
spettacolo da soli per vari motivi. Primo, perché la gente che sta con noi è gente che lavora [...]
hanno bisogno di essere occupati, mica fanno gli artisti nel senso borghese [...] e quindi non
potendo io affrontare una spesa economica di questo tipo: mi hanno lasciato, giustamente. Il
secondo fatto è che io e Perla dopo tutte queste esperienze volevamo riverificarci da soli in
scena»: Intervista a Leo de Berardinis: S. De Matteis, Leo e Perla: lavorare col sud che c’è al nord,
«Scena», n. 3/4, 1978, p. 35.
87
L. Lapini, Una tragicomica ballata di morte, «Paese sera», 28 gennaio 1978.
88
F. Quadri, Avita murì, «Panorama», 14 febbraio 1978.
89
Ibidem.
310 DONATELLA ORECCHIA
90
A. Cascetta, Anche Pulcinella un mito distrutto, «Il Popolo», 19 aprile 1978.
91
G. Davico Bonino, Pulcinella, Colombina poi la fine del mondo, «La Stampa», 7 aprile 1978.
92
F. Dei, Dove si nasconde la cultura subalterna? Folk e popular nel dibattito antropologico, cit.
93
Fra i suoi allievi Roberto Latini, Ascanio Celestini, Ilaria Drago, Valentina Capone.
94
Leo de Berardinis Re incarna Buzzi, Cangiullo, Corra, Buster Keaton, Majakovskij, Ma-
rinetti, Palazzeschi, Petrolini, Totò, Raffaele Viviani, di e con Leo de Berardinis.
95
G. Manzella, La bellezza amara. Arte e vita di Leo de Berardinis, cit., pp. 106-109.
L’ATTORE E LE “TRADIZIONI” DEL NUOVO TEATRO 311
nella propria recitazione una tragicità più femminile, come sostiene Manzella
(percorso che culminerà nell’Ilse dei Giganti della Montagna del 1993) e pro-
cede intanto verso uno stile più sobrio, più assorto; dall’altro si apre alla con-
divisione, e presto alla pedagogia, riscoprendo nella propria storia artistica e
nelle tradizioni del teatro quei saperi e quelle memorie che si fanno fonda-
menti di un essere attore nella contemporaneità («attore si nasce, ma si di-
venta» amava ripetere Leo).
Chiusa dunque la parentesi romana, i tempi dell’eversione e anche del suo
fallimento, con The connection (1983), nuovo spettacolo epilogo, Leo ricomincia
a Bologna. E il nuovo inizio avviene presto all’insegna di Shakespeare (Amleto,
poi Lear, poi la Tempesta), dell’apertura a nuove collaborazioni e dell’avvio di
un percorso pedagogico che da allora in poi si alternerà con momenti di assoluta
solitudine scenica (per esempio l’Uomo capovolto del 1987). In questi anni si
colloca anche il confronto diretto con Eduardo (Ha da passa’ ‘a nuttata, 1989) e
con Totò (Totò, principe di Danimarca, 1990) [FOCUS].
Leo nei tempi della ricostruzione: attore e operatore culturale, attore e
pedagogo. Per riprendere a costruire dopo le macerie, in un tempo in cui ac-
canto alla «necessità della sperimentazione come superamento dei limiti fissati
[…] resta l’irrinunciabile vitalità del conflitto» 96. «Ogni volta è un azzera-
mento totale. Ogni volta bisogna ricominciare daccapo. In ogni spettacolo,
nego il teatro facendolo. In questo senso si tratta di “teatro-saggio”, di teatro
usato come strumento di conoscenza» 97.
96
Ivi.
97
L. de Berardinis, Per un teatro jazz, cit.
98
C. Cecchi, Datemi un attore, intervista a cura di M. Grande, «Rinascita», n. 37, 1984, p. 21.
312 DONATELLA ORECCHIA
una breve esperienza in compagnia con Eduardo De Filippo 99), l’incontro con
il Living Theatre: di qui prende l’avvio il percorso di ricerca di Carlo Cecchi
attore. E se lasciare l’Accademia è il primo atto di opposizione al teatro istitu-
zionale a lui contemporaneo e alla formazione lì impartita, il Living Theatre è
il contesto in cui impara «il valore della partecipazione collettiva, la plasticità
del gesto, l’esattezza dei ritmi vocali e dinamici, l’uso della sottolineatura sonora
(con qualche imprestito dei Bread and Puppet e anche della scuola americana
di Chaikin), il senso dello spazio in cui lo spessore dei corpi si fa scenografia» 100,
mentre l’esperienza del teatro napoletano è la via per trovare finalmente un
modello di riferimento, una tradizione di appartenenza. Solo qui, e in partico-
lare accanto a Eduardo De Filippo 101, Cecchi incontra una lingua-corpo, da un
lato, e riconosce un gioco scenico reale (fra attori e con lo spettatore) dall’altro,
che saranno le basi su cui proseguirà la sua ricerca come attore e regista-in-
scena (molto vicino al capocomico), due dimensioni, nel suo caso non scindibili,
di una unica identità teatrale. «Sono soprattutto un attore, regista attraverso
l’attore, sono un attore che recita, ma che pensa anche sul recitare» 102.
Quando nel 1968 si costituisce la compagnia del “Granteatro” 103, Cecchi
ne è il regista-capocomico e tale resterà in tutti gli anni successivi, anche
quando cambieranno gli altri componenti. Già il nome, Granteatro, è una di-
chiarazione di poetica nella sua chiara allusione parodica al Piccolo Teatro
milanese di Strehler e di Grassi e nella presa di distanza dal modello, non solo
da loro incarnato, di teatro di regia italiano, una regia sostanzialmente disin-
99
È singolare che Carlo Cecchi, fiorentino di nascita, formato almeno in parte all’Accade-
mia di Roma, elegga Eduardo De Filippo quale riferimento culturale fondante del proprio es-
sere attore, come materiale da modellare e rielaborare; Eduardo che al contrario è, per il conte-
sto teatrale napoletano di ricerca di quegli stessi anni in cui Cecchi esordisce (Teatro Esse,
Fratelli Santella...), un peso, una tradizione invadente, troppo ingombrante emotivamente e
culturalmente e, in quanto tale, quasi reazionaria. Un teatro da cui allontanarsi anche fisica-
mente. Cfr. M. Porzio, La resistenza teatrale. Il teatro di ricerca a Napoli dalle origini al terremoto,
Bulzoni, Roma 2011, pp. 137-145 e 359 e sgg.
100
F. Quadri, L’avanguardia teatrale in Italia (materiali 1960-1978), cit., vol. I, p. 23.
101
«La compagnia di Eduardo era infinitamente superiore al teatro di Mosca, che ho visto
e che oggi è un teatro noiosissimo, solo di maniera»: C. Cecchi, La lingua, il corpo, la scena, in-
tervista a cura di S. De Matteis e V. Dini, «Dove sta Zazà», 1, 1993, p. 32.
102
1968-1978 esperienze d’attore, intervista a Carlo Cecchi a cura di E. Agostini, «Quaderni
di Teatro», novembre 1978, p. 68.
103
Fondata insieme a Paolo Graziosi, Peter Hartmann e Angelica Ippolito, dopo
l’esperienza del “Teatro scelta” (a fianco di Claudio Meldolesi, Gianmaria Volontè, Franco
Prattico) e della “Compagnia del Porcospino”, il Granteatro si scioglie dopo l’esperienza di
Prova del Woyzeck e si ricostituisce l’anno successivo, con lo stesso nome ma differenti compa-
gni: Aldo Pugliesi, Giancarlo Palermo, Maria Luisa Prati e Augusto Pesarani.
L’ATTORE E LE “TRADIZIONI” DEL NUOVO TEATRO 313
teressata al problema della recitazione 104. Fin dal 1970 Cecchi ha chiaro il
«problema principale […]. Da una recitazione mistificata e mistificante come
passare a un gioco reale? […] Reale che è l’opposto di realistico, luogo infido
per il teatro dove si nasconde ormai la difesa ossessiva del lavoro alienato
dell’attore» 105. Di qui anche la questione della lingua: «Come fare esplodere il
castello linguistico decretato dal fascismo come lingua del teatro italiano, ac-
cademizzato, stabilizzato e riaffermato quotidianamente sui palcoscenici na-
zionali?» 106. Sono già interessanti sperimentazioni la prima Prova del Woyzeck
nel 1969 e le Statue movibili di Antonio Petito del 1971, in cui la riscrittura
scenica personale di Carlo Cecchi si incontra con un lavoro collettivo «in vista
di un linguaggio materializzante su elementi di cultura-vita». «Con Cecchi
non siamo sulla soglia di un’ironia deformante e nemmeno nell’ambito di
un’immaginazione astratta; viviamo invece dentro un’ironia straniante ed una
correlazione naturalistica», o detto altrimenti, sempre da Bartolucci, «uno
straniamento corporeizzato e un’esasperazione cosciente»107.
È il 1971 quando il Granteatro porta sulla scena il Bagno di Majakov-
skij 108 [FOCUS].
Così recita il programma di sala: «L’unica tradizione che il GRANTEA-
TRO considera come termine dialettico del suo lavoro è quella del teatro dia-
lettale italiano, il teatro dialettale come forma totale di teatro popolare, l’erede
cioè della Commedia dell’Arte. È nel riconoscimento di questa tradizione che il
GRANTEATRO ha incontrato alle radici la teoria del teatro epico di Brecht».
Qualche anno più tardi Cecchi ricorderà Il bagno come il momento in cui
divenne pienamente consapevole dell’elemento base della sua ricerca (che era,
insieme, il tallone d’Achille di tanto teatro di avanguardia dei suoi tempi): che
«il teatro non è la scena (= luogo degli attori) ma il rapporto fra la scena e la
sala, fra lo spettacolo e gli spettatori» 109, che il teatro, cioè, è “gioco reale”, il
suo tempo è il presente, il suo modello vivente il teatro napoletano110, un tea-
tro in cui il teatro «avviene nel momento in cui avviene, lì e allora», qualcosa
104
M. De Candia, Carlo Cecchi. Intervista, «Ridotto», 12 dicembre 1983, p. 15: «i registi (e
qui non voglio ricreare l’opposizione stupida e banale tra l’attore e il regista) non si sono occu-
pati troppo della recitazione, che è l’anima del teatro, in un tempo in cui occuparsi della recita-
zione vuol dire fare un grande lavoro di ricerca e di invenzione».
105
C. Cecchi Lo spazio tragico (nota sul Woyzeck), «Teatro», n. 1, 1970, p. 121.
106
Ibidem.
107
G. Bartolucci, Crudeltà e candore del “Woyzeck”, in Id., La politica del nuovo, Ellegi,
Roma 1973, p. 107.
108
Cfr. S. Margiotta, Il nuovo teatro in Italia 1968-1975, Titivillus, Corazzano 2013, pp. 87-89.
109
C. Cecchi, Autobiografia del Granteatro, intervista con Carlo Cecchi a cura di G. Fofi del
27 ottobre 1974, in F. Quadri, L’avanguardia teatrale in Italia (materiali 1960-1976), cit., p. 392.
110
C. Cecchi, Datemi un attore, cit., p. 21.
314 DONATELLA ORECCHIA
che, afferma Cecchi non ho «mai trovato nel teatro italiano»111. Tutto questo
in opposizione alla «tradizione melodrammatico-veristico-naturalistica che,
grazie soprattutto all’intelligentissimo lavoro della triade Costa-Strehler-Vi-
sconti è più o meno il canone dell’attore italiano» 112.
In scena, contraffazione caricaturale, precisione dei ritmi e dei tempi delle
gag, contaminazione con il modello popolare della sceneggiata napoletana da
cui deriva una specie di «stile buffonesco e cialtrone» 113, una cifra recitativa
antinaturalistica e straniata che trova «una sua genuina matrice popolaresca»,
«come una specie di grosso avanspettacolo» 114, compongono una lingua tea-
trale e d’attore nella quale, come il programma di sala annuncia, il teatro
epico di Brecht viene a radicarsi nella tradizione del teatro dialettale.
In particolare Cecchi, «con la fissità della sua maschera gessosa di clown»,
un Trionfalov freddo e distaccato con «una parola che gli esce di gola atona e
lunga e piana», coniuga felicemente la stilizzazione recitativa e la naturalezza
(come Eduardo insegna) 115 complice la lingua-corpo napoletana che Cecchi
ha assunto fin da allora come propria 116. Ed ecco la risposta all’interrogativo
sopra riportato: come fare esplodere la lingua italiana imposta in teatro? Cec-
chi vi sostituisce – in fasi progressive di avvicinamento e di sperimentazione –
il corpo della lingua napoletana 117.
Un discorso a parte merita il Woyzeck del 1973 a Torino. Le prove aperte
con gli operai calabresi del Lingotto sono allora il terreno sul quale il Gran-
teatro sperimenta il rapporto fra «avanguardia e tradizione popolare» connet-
tendo la ricerca sulle forme linguistiche con una «situazione storico-politica e
spaziale precisa» 118, in un confronto reale con e per una comunità precisa. Il
cortocircuito fra tradizione popolare (non più napoletana ma calabro lucana,
in relazione con gli operai presenti alle prove e compartecipi della costruzione
111
Ibidem.
112
C. Cecchi, Autobiografia del Granteatro, cit., p. 393.
113
F. Quadri, Il bagno, «Panorama», 10 febbraio 1972, p. 11.
114
R. De Monticelli, Via libera alla fantasia popolaresca, «Il Giorno», 23 febbraio 1972.
115
«Il Cecchi ha derivato questo suo distacco ironico da Eduardo senz’altro, aggiungen-
dovi una sua mobilità nevrotica e un suo segno alienato»: G. Bartolucci, Crudeltà e candore del
“Woyzeck”, cit., p. 109.
116
F. Quadri, Il bagno, cit.
117
«L’attore deve avere un corpo adatto alla scena e il mio corpo “italiano” non era; come a
dire, il mio corpo non riusciva ad incarnare la certezza della mia recitazione […] il mio corpo ha
poco a che fare con la lingua italiana e ha più a che fare, come rapporto storico culturale, biografi-
camente vissuto, con la lingua napoletana, con Scarpetta, con Petito, con... Con il corpo della lin-
gua napoletana»: L’isola di Carlo. Colloquio con Carlo Cecchi a cura di R. Cirio, «L’Espresso», 11
ottobre 1992, p. 138. Cfr. C. Meldolesi, Gesti parole e cose dialettali. Su Eduardo, Cecchi e il teatro
della differenza, «Quaderni di teatro», n. 12, 1981.
118
C. Cecchi, Autobiografia del Granteatro, cit. 397.
L’ATTORE E LE “TRADIZIONI” DEL NUOVO TEATRO 315
119
A. Paladini, Anche a Spazio zero è di scena “Il bagno”, «Il Dramma», aprile 1972, p. 27.
120
La prima volta era stata con Le statue movibili di Petito, nel 1971.
121
C. Cecchi, Autobiografia del Granteatro, cit., p. 399.
122
C. Garboli, Cecchi prima maniera, «Il Mondo», 13 giugno 1975, ora in Id., Un po’ prima
del piombo. Il teatro in Italia negli anni Settanta, Sansoni, Milano 1998, p. 114.
123
C. Garboli, Falbalas. Immagini del Novecento, Garzanti, Milano 1990, pp. 138-141.
124
A. Petrini, Un attore di contraddizione. Note sul teatro di Carlo Cecchi, «L’Asino di B.»,
p. 75, saggio a cui rimando per un approfondimento della poetica artistica di Cecchi e per
un’analisi de L’uomo la bestia e la virtù.
316 DONATELLA ORECCHIA
Sul finale di ‘A morte dint’o lietto ‘e don Felice, «il braccio inerte di Pulci-
nella, rigido e penzoloni, la spalla contratta sotto un’immaginaria bastonatura,
la voce afona, che gli muore in gola, insinuano il sospetto che Carlo Cecchi
voglia dirci qualcosa. Forse che la gioia del teatro, con tanto parlare che si fa di
teatro, non esiste più»125.
Si mescolano fin da allora in Cecchi alcuni tratti che renderanno il suo
stile attorico inconfondibile: quell’incuranza nel recitare con le spalle alla
platea, quel buttare via le battute e inceppare la fluidità del dire, una tendenza
quasi a cancellarsi dalla scena «a nascondersi, a mettersi in ombra, a sparire
negli angoli; a rattrappirsi» 126 pur restando il perno della recita, quell’indo-
lenza meridionale, quella comicità paradossale da cupa maschera mediterra-
nea, talvolta livida e gelida 127, le accelerazioni e gli improvvisi rallentamenti,
quasi a sospendere il gioco 128, un «modo di recitare allusivo e trattenuto,
sparso di vaste pause più o meno allibite, ritmate dalla comica iterazione di
parole o mozziconi di parole, monosillabi, interiezioni al limite del fonema» 129
e, insieme, l’antipsicologismo, la disarticolazione dei movimenti a tratti burat-
tineschi, quella sofferenza tesa ed accigliata 130, lo straniamento persistente,
una esasperata artificialità, il gioco smascherato della convenzione.
«A me non interessa il ‘come se’. Io cerco il ‘come è’»: il teatro è sempre
convenzione e dunque e sempre smascheramento del ‘come se’ naturalistico.
In questa prospettiva, anche l’uso del dialetto che talvolta compare (e non
solo di quello napoletano) 131 non ha mai finalità mimetiche; anzi il più delle
volte funziona come strumento di straniamento, di distanziazione dal perso-
naggio: una dialettalità aspra, innaturale, astratta, stilizzata. Qualcosa di ana-
logo accade anche all’improvvisazione, che diviene talvolta tanto esplicita da
manifestarsi nel suo tratto di «simulazione dell’improvvisazione, del recitare ‘a
125
C. Garboli, Cecchi prima maniera, «Il Mondo» 13 giugno 1975, ora in Id., Un po’ prima
del piombo, cit., p. 115.
126
C. Garboli, Falbalas. Immagini del Novecento, cit., p. 139.
127
R. De Monticelli, Don Giovanni combatte contro i fantasmi, «Corriere della Sera», 23
marzo 1979.
128
«Di solito gli attori italiani fra una battuta e un’altra aspettano sempre un po’. Nel mio
teatro, invece, si attacca subito come in una partita da ping pong. Però ci sono dei punti in cui
tutto si deve sospendere e il silenzio diventa una presenza perché è una sospensione in cui il
play, il gioco, passa attraverso il silenzio. I miei silenzi, allora, sono una sorta di doppia provo-
cazione: agli attori che stanno recitando con me e al pubblico»: “Gioco a calcio col teatro”, inter-
vista a Carlo Cecchi, a cura di M.G. Gregori, «L’Unità», 8 febbraio 1997.
129
R. De Monticelli, Lazzi e dialetti per il “Borghese”, «Corriere della Sera», 22 luglio 1977.
130
C. Garboli, Falbalas. Immagini del Novecento, cit., p. 137.
131
Ricordiamo per esempio vari dialetti (veneziano, napoletano, toscano) nel Borghese genti-
luomo del 1977, il fiorentino nella Mandragola del 1979 e il napoletano ne La locandiera del 1993.
L’ATTORE E LE “TRADIZIONI” DEL NUOVO TEATRO 317
132
G. Raboni, Attenti, il Castello vi ascolta, «Corriere della sera», 27 febbraio 1997.
133
A. Petrini, Un attore di contraddizione, cit., p. 66.
134
C. Garboli, Falbalas. Immagini del Novecento, cit., pp. 136-141.
318 DONATELLA ORECCHIA
135
G. Bartolucci, La materialità della scrittura scenica (elementi per un teatro ‘nuovo’), in
Catalogo del Festival Internazionale del teatro di prosa. La Biennale di Venezia, Marsilio, Venezia
1967, ora in Id., Testi critici 1964-1987, cit., pp. 105-6. Cfr. anche il dossier D. Orecchia e A.
Petrini (a cura di), Materiali per una storia del teatro italiano di contraddizione. “Aspettando Go-
dot”, Teatrostudio, Genova 1964, «L’Asino di B.», n. 6, gennaio 2002, pp. 128-265.
136
Cfr. a questo proposito per un’analisi dello spettacolo: L. Cavaglieri, Verso la «libertà
totale della scena»: Cartoteca di Carlo Quartucci, in AA.VV., Teatro e teatralità a Genova e in
Liguria. Drammaturghi, registi, scenografi, impresari e organizzatori, a cura di F. Natta, Edizioni
di pagina, Bari 2012.
137
Si veda, in questo volume, il capitolo secondo, di Valentina Valentini.
138
Sia nel modo di intendere il linguaggio della scena complessivamente, sia l’attore in par-
ticolare, si ritrovano interessanti sintonie con le riflessioni di Filiberto Menna (confluite ne La
linea analitica dell’arte moderna, Einaudi, Torino 1975), che fu fra l’altro un riferimento di Quar-
tucci per l’analisi di Mondrian (F. Menna, Mondrian. Cultura e poesia, Edizioni dell’Ateneo,
Roma 1962).
L’ATTORE E LE “TRADIZIONI” DEL NUOVO TEATRO 319
inteso, bensì dell’intero gruppo di teatranti, che in quel tempo e in quello spa-
zio, contribuiscono come ‘attori’ alla costruzione della recita (durante lo spetta-
colo, per esempio, il drammaturgo scrive e passa frammenti di copione al regista
che, come servo di scena, li passa poi all’attore-trasformista). Non c’è fusione,
ma costruzione polifonica. Non la deflagrazione di un punto di vista (come in
Carmelo Bene, per fare l’esempio più emblematico), bensì coesistenza polifo-
nica di più punti di vista.
Quale eredità, allora, per questo teatro?
Da un lato la decostruzione, anche per il ruolo e la funzione dell’attore, del
modello grandattorico: «L’attore nobile, in una struttura teatrale codificata, è il
“grande attore”; l’attore di una struttura che sta ai margini, e che è, come tutte le
strutture che stanno ai margini, una forza politica, è l’attore-trasformista. L’altra
faccia di questa struttura messa alla porta è la narrazione, il racconto» 139.
Dall’altro il recupero di un’altra tradizione, quella della narrazione po-
polare, come forma artigianale della comunicazione che attinge all’esperienza
(in parte propria e in parte riferita) e la trasforma in esperienza per coloro che
ascoltano 140.
All’attore narratore Carla Tatò va invece il compito cardine di dare voce al
racconto corale, di testimoniare di fronte ai compagni e agli spettatori una me-
moria da condividere, pezzi di una storia già accaduta della quale, come narra-
tore epico, è depositario. «La fonte a cui attingono tutti i narratori è il racconto
di un’esperienza tramandata di bocca in bocca; in passato l’esperienza veniva
fatta da mercanti-viaggiatori e ascoltata dai contadini e dagli artigiani sedentari.
In questo senso il racconto era uno scambio di esperienza. Storicamente c’è an-
che un’altra dimensione del narrare: il racconto tragico legato alla persona di un
viaggiatore che ad ogni tappa arricchisce la storia di nuova esperienza […]. Io
devo raccontare, invece di interpretare la psicologia di un personaggio; non ho
quindi nulla con cui confrontarmi se non il bagaglio storico del racconto»141.
Il ruolo del narratore, a differenza di quello dell’attore-interprete, è un
comportamento aperto, non un prodotto finito. Non prevede la memorizza-
zione delle battute, ma adesione con il proprio vissuto e scambio di esperienza
con chi ascolta. In opposizione alla consuetudine del teatro che prevede perso-
naggi, psicologie, dialoghi, trame e, possibilmente, immedesimazione dello
139
Un dialogo in viaggio sull’attore di camion, in E. Fadini, C. Quartucci, Viaggio di Ca-
mion dentro l’avanguardia, ovvero la lunga cinematografia teatrale 1960/1976, Cooperativa edito-
riale Studio Forma, Torino 1976, pp. 88-89.
140
Il riferimento delle riflessioni sul narrare e sul narratore, soprattutto per Carla Tatò, è W.
Benjamin, Considerazioni sull’opera di Nikolai Leskov, in Id., Angelus novus. Saggi e frammenti,
Einaudi, Torino 1955.
141
Dagli appunti di Carla Tatò durante la lavorazione di Robinson Crusoe del 1975, ripor-
tati in E. Fadini e C. Quartucci, Viaggio di Camion dentro l’avanguardia, cit., p. 49.
320 DONATELLA ORECCHIA
spettatore, Carla Tatò narra in terza persona; il suo racconto non si dispiega con
linearità di svolgimento, né con fluidità, ma a frammenti, pezzi di una storia.
Esempio di questo primo periodo è Nora, Nora sei proprio una donna (1972)
da Casa di bambola di Ibsen, spettacolo recitato in balere, strade, piazze, che rac-
conta la storia di Nora Helmer dal momento in cui abbandona il tetto coniu-
gale; un abbandono che corrisponde a quello che Camion ha compiuto allonta-
nandosi dal teatro istituzionale. Qui la critica a tanta tradizione scenica che ha
fatto del testo di Ibsen un terreno fertile per le interpretazioni psicologiche e
naturalistiche si fa evidente: Carla Tatò non recita le battute di Nora previste da
Ibsen, ma agisce una Nora fuori scena, una Nora che è attrice nell’impossibilità
di fare uso di parole funzionali a un determinato teatro, un teatro da smontare.
L’attore narratore compie insieme un’azione performativa e metaliguistica.
E così sarà nella seconda versione, Nora Helmer in tournée [FOCUS],
che raccoglie i materiali, le immagini, gli oggetti dello spettacolo precedente e
di Camion (Teatro Uomo di Milano, 10 aprile 1975). In questa occasione il
testo viene smontato e ricostruito attraverso l’uso di didascalie 142 che si fanno
versi, l’intervento di personaggi che vengono ascoltati dai protagonisti come
ipotetici interlocutori di ipotetiche conversazioni telefoniche, monologhi im-
provvisati e continui scambi di parte tra i due attori (Carla Tatò e Luigi Mezza-
notte). «Lui più ieratico con irresistibili effetti distruttori, lei giocando magi-
stralmente sulla deformazione della parola» 143. Tutto ciò poggiato su di un tap-
peto sonoro, dato dallo scorrere continuo di un nastro registrato e sulla proie-
zione ininterrotta di immagini, alternate a sequenze filmiche. L’operazione,
«attraverso lo smontaggio del testo», si fa «analisi strutturalista» demistificante
del teatro borghese e dell’ideologia della famiglia 144. Eppure ciò non basta.
All’attore narratore urge anche il compito di dire e condividere qualcosa che ri-
guardi l’esperienza, quella propria e quella raccolta negli incontri con le donne
avvenute nelle campagne. Perché la narrazione è legata a chi la fa. E il narratore
porta con sé in scena, nelle operazioni di carico e scarico di Camion, nei teatri,
nelle campagne, nelle piazze, la propria esperienza, d’attore e di donna e, in-
sieme alla volontà di raccontare, anche la sua impossibilità. Perché l’esperienza
142
«Abbiamo preso tutti i comportamenti di Nora dalle didascalie: entra, esce, prende. Ab-
biamo capito che quello era il comportamento borghese. Abbiamo raccontato le didascalie di
Ibsen […] La didascalia è tutta la sostanza del teatro borghese e racconta, appunto, tutti i com-
portamenti»: C. Quartucci, Dialogo tra Quartucci e Fadini, in E. Fadini e C. Quartucci, Viaggio
di Camion dentro l’avanguardia, cit., p. 75.
143
Intervento di Franco Quadri su Nora Helmer in tournée del 1975, riportato in La Zattera
di Babele 1981-1991. 10 anni di parola, immagine, musica, teatro, Catalogo a cura de Zattera di Ba-
bele, Tip. Press 80, Firenze 1991, p. 42.
144
Ibidem.
L’ATTORE E LE “TRADIZIONI” DEL NUOVO TEATRO 321
145
W. Benjamin, Considerazioni sull’opera di Nikolai Leskov, cit.
146
Qui la “Zattera di Babele” porta Opera Suite documenta 7, Didone, Platea, Scene di Con-
versazione, Scene di Periferia, Funerale, di Jannis Kounellis, Roberto Lerici, Giovanna Marini,
Giulio Paolini, Carlo Quartucci e Carla Tatò. Kassel, «documenta 7», Museo Fridericianum,
Staatstheater, Schloss Bellevue, Salzmannfabrik; Scene di conversazione, di Carlo Quartucci e
Giulio Paolini, con Carla Tatò, Albrecht Brand, Piero Brega, Maria Habrat, Ryszard Ole-
jniczak, Horst Schafer, Trude Schumacher, Hellmoth Vivell. Kassel, «documenta 7», Schloss
Bellevue.
147
In particolare a Berlino viene sviluppato il progetto sulla Pentesilea di Kleist con Can-
zone per Pentesilea, frammento scenico di Carlo Quartucci da Heinrich von Kleist, musiche
originali di Giovanna Marini, con Carla Tatò; e Rosenfest Fragment XXX, tre sguardi di Carlo
Quartucci su Heinrich von Kleist.
322 DONATELLA ORECCHIA
148
La prima esperienza è accanto a Massarese al Centro Teatro Sud.
149
Sono parole di Franco Carmelo Greco in A. Petito, Palummella zompa e vola, a cura di
F.C. Greco, Bellini, Napoli 1989, p. 19. Con quel linguaggio caratterizzato dall’«ambivalenza
semantica, le inversioni sintattiche e concettuali, il garbuglio studiatamente confuso, lo stravol-
gimento lessicale» (L.M. Lombardi Satriani e D. Scarfoglio, Pulcinella: il mito e la storia, Leo-
nardo, Milano 1992, p. 835) Petito è inoltre un importante esempio e maestro di destruttura-
zione linguistica, cara a Neiwiller.
150
Dopo Don Fausto, Quanto costa il ferro? da Brecht non intende essere «una mistificazione
popolare, popolaresca» bensì «una penetrazione verticale e orizzontale del testo assimilato e rein-
ventato in un patrimonio di gesti tipicamente nostri», in un atteggiamento artistico che ricorda
quello di Cecchi e del Gran Teatro negli stessi anni. Dal programma di sala di Quando costa il
ferro?, regia di Antonio Neiwiller, 1976. Cfr. M. Porzio, La resistenza teatrale, cit., p. 394.
151
A. Grieco, L’altro sguardo di Neiwiller, l’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2002, p. 32.
152
Berlin Dada (Napoli, Teatro Sancarluccio, 1978) è la prima regia di Neiwiller all’interno
della Cooperativa Teatro dei Mutamenti, al quale aderisce ufficialmente a partire dal 1978.
L’ATTORE E LE “TRADIZIONI” DEL NUOVO TEATRO 323
E fin qui la particolarità di Neiwiller regista e del suo lavoro con l’attore in
riferimento alla tradizione popolare è limpido. Eppure l’interesse all’interno del
discorso sul Nuovo Teatro si colloca anche nel modo in cui Neiwiller traghetta
il suo mondo teatrale (poetico, linguistico, attoriale) oltre gli anni Ottanta. Due
elementi intervengono all’inizio di quella decade a ridefinirne il percorso: uno
personale, l’incontro con Kantor attraverso La Classe morta, che lo spinge a una
lunga pausa di riflessione; uno contestuale, la vorticosa trasformazione della so-
cietà dei consumi, l’impatto violento della massificazione e della omologazione
che avrebbe minato irrimediabilmente la possibilità stessa di pensarsi nel tempo
e, dunque, di pensare una qualsivoglia tradizione.
«Dietro questo cattivo rapporto tra passato e futuro, dietro questa muta-
zione del senso del tempo mi chiedo se è possibile fermare qualcosa e dire: “io
questa cosa la voglio guardare per vent’anni per capire che è»153.
Da allora in avanti, Neiwiller radicalizza la sua ricerca, accentua la di-
mensione esistenziale del suo teatro. Da allora diviene un imperativo etico ri-
pristinare innanzitutto una memoria di sé, «di cui ogni singolo è depositario e
custode assoluto», che possa essere un argine contro la dissoluzione di ogni
esperienza del tempo e di ogni memoria possibile. Anche il lavoro dell’attore
deve ripartire di qui, dalla «costruzione giorno per giorno, lenta, faticosa, di
un proprio universo poetico» 154, intessuto di una memoria che è altrettanto
faticosa operazione di recupero di vissuti stratificati dentro di sé. La tradizione
allora non è più un contenuto, né una maestra di forme, non è un punto di
partenza esterno a sé, né un territorio all’interno del quale muoversi, non è un
linguaggio da citare, non sono stilemi da riprendere. La tradizione napole-
tana, che è stata il primo patrimonio riscoperto al quale appartenere, resta la
matrice per la costruzione di una memoria di sé, in vista di un teatro visiona-
rio, poetico, astratto, informale. Un teatro scarno ed essenziale, in uno spazio
interiorizzato e degradato, fatto di bui e squarci di luce, di materiali poveri e di
pochi ma concretissimi oggetti (gli stessi spesso, da uno spettacolo a un altro),
che assumono valore simbolico, come lacerti di memoria, frammenti di in-
cubi, di tragedie comuni; con un attore la cui azione parte sempre dal silenzio
che resta l’elemento dominante anche quando interviene la parola, l’origine
del gesto e del suono, la dimensione della solitudine (e dell’isolamento), lo
spazio dell’ascolto. L’ultimo spettacolo di Neiwiller, ormai profondamente
malato, è L’altro sguardo [FOCUS]. Qui, nelle prime sequenze, l’attore, seduto
153
Antonio Neiwiller, da un intervento tenuto probabilmente presso l’Università di Urbino
nel 1987, la cui registrazione audio è stata fornita da Giancarlo Savino, cit. in M. Porzio, L’arte
silenziosa di Antonio Neiwiller, «Culture teatrali», 2/3, primavera autunno 2000, p. 245-246.
154
Sono parole di Neiwiller in un’intervista del 1991, in occasione della prima di Dritto
all’inferno, in Pasolini e l’utopia, «Il Giornale di Napoli», 8 novembre 1991.
324 DONATELLA ORECCHIA
dietro un telo bianco, evoca, attraverso vecchie nenie napoletane, canti e ri-
chiami dei venditori ambulanti, una memoria antica, un’appartenenza intima
a una storia, mentre il suo corpo sembra disfarsi in un mondo che si sta de-
componendo lentamente. Pessoa, Majakovskij, Tarkovskij, Petito, Eduardo
tornano poi in versi affastellati, gli uni accanto agli altri, fino a che l’attore,
spalancata la porta, grida verso la strada le frasi di Domenico di Nostalghia di
Tarkovskij: «Il male vero del nostro tempo è che non riusciamo più a ricono-
scere i grandi maestri. La strada del nostro cuore è coperta d’ombre. Bisogna
ascoltare le voci che sembrano inutili. Bisogna che nei nostri cervelli, occupati
dalle lunghe tubature delle fogne, dai muri delle scuole, dall’asfalto, dalle pra-
tiche assistenziali, entri il ronzio degli insetti. Qualcuno deve gridare che co-
struiremo piramidi. Non importa se poi non le costruiremo. Bisogna alimen-
tare il desiderio. Bisogna tirare l’anima da tutte le parti. Le cose grandi spari-
scono. Solo quelle piccole durano».