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La donna sarda tra storia,

cultura e società.
La Carta de Logu d’Arborea e alcuni statuti coevi

Michele Antonio Corona*

Sommario – Lo studio presenta la posizione della donna nel medioevo sardo, secondo
quanto appare dai testi della Carta de Logu d’Arborea, il Breve di Villa di Chiesa
e gli Statuti Sassaresi. I codici offrono un’interessante spaccato della figura femminile,
della sua capacità patrimoniale, della possibilità di redigere testamento, della sostan-
ziale parità con gli uomini del suo stesso ceto. Nel confronto tra i vari codici si evince la
modernità dei testi meno influenzati dai domini pisani e genovesi, ponendo in rilievo la
situazione giudicale come un momento di modernità culturale. La lettura dei testi offre
l’opportunità di riscoprire il patrimonio culturale sardo, la freschezza delle normative,
la ricchezza del periodo giudicale. La categoria del “ricordo” e quella del “dialogo” sono
i punti nodali intorno ai quali si deve prolungare il lavoro di ricerca e di comprensione
della dignità umana e, in questo caso, di quella femminile sarda.

Il patrimonio culturale isolano è uno dei punti di interesse per le ri-


cerche della Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna1, soprattutto per
la sua vocazione alla conoscenza profonda dell’umano e al dialogo con
le persone e le istituzioni. La riscoperta della dignità femminile e del suo
protagonismo nella vita pubblica ci ha indotto a ricercare nei documenti
medievali la fisionomia giuridica e sociale della donna. Tale ricerca non
ha uno scopo puramente archeologico o nostalgico, ma vuole riproporre i
percorsi storici, in modo tale da presentare una figura femminile legata al
territorio e alla storia dell’isola. I tre testi medievali su cui porremo atten-
zione sono la Carta de Logu d’Arborea, il Breve di Villa di Chiesa e gli Statuti
Sassaresi, con particolare attenzione al primo documento.

* Licenziato in Teologia, Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna.


1
«La Facoltà sviluppi sempre più lo studio della cultura sarda, evidenziandone gli aspet-
ti, la storia e le tradizioni; intensifichi il dialogo e la collaborazione già in atto con le
Università sarde e le altre istituzioni culturali». Conferenza Episcopale Sarda, La
Chiesa di Dio in Sardegna all’inizio del terzo millennio. Atti del Concilio Plenario Sardo
2000-2001, Zonza Editori, Cagliari 2001, n. 43 § 4.

Theologica & Historica. Annali della Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna, XVIII (2009), pp.
258 Michele Antonio Corona

Carta de Logu d’Arborea: introduzione generale


La celeberrima Carta de Logu di Arborea (CdLA)2 nacque a partire da un
codice di leggi raccolte ed elaborate da Mariano IV, il quale le promulgò
in data a noi rimasta sconosciuta3. Il lavoro operato dal grande giudice
venne ripreso dai suoi due figli Ugone III ed Eleonora4. A quest’ultima
va attribuito il merito della promulgazione definitiva avvenuta, presumi-
bilmente, il giorno di Pasqua (14 Aprile) del 1392. Mameli de’Mannelli
sostenne che la probabile datazione fosse da fissare nel giorno di Pasqua

2
Ogni Giudicato possedeva il suo codice di leggi, che veniva ugualmente denominato
Carta de Logu, con la ovvia specificazione del nome del Logu, o Breve. Cagliari, Sassari,
Iglesias, Castelsardo, Terranova, Alghero, Domusnovas, Orosei, Bosa avevano i loro
statuti. In ogni città tali codici presentavano caratteristiche proprie legate alla tipologia
di governo e alle attività produttive proprie. Nel Breve di Villa di Chiesa di Iglesias,
ad esempio, si trovano parti molto dettagliate sull’attività mineraria, mentre in quello
cagliaritano è molto più accentuato il commercio e l’economia legati al porto. Cfr. G.
Todde, Politica e cultura in Sardegna nel XIV secolo, in G. Todde [e al.], Il mondo della
Carta de Logu, Edizioni 3T, Cagliari 1979, pp. 15-16. Nell’Ottocento vennero pub-
blicate dal Martini delle carte false attribuite al periodo di Eleonora, che sostenevano
il mito della giudicessa. Vennero ritenute valide e in loro difesa si pose, tra gli altri,
Salvator Angelo De Castro. Per un’esposizione chiara della vicenda e delle problema-
tiche, si veda: P. Gaviano, Le Carte d’Arborea, Ed. S’Alvure, Oristano 1996 e Le Carte
d’Arborea. Falsi e falsari nella Sardegna del XIX secolo, a cura di L. Marroccu, AM&D
EDIZIONI, Cagliari 1997.
3
La parte finale del proemio offre la possibilità di datare la revisione di Eleonora attra-
verso il computo di oltre sedici anni dai quali la Carta non fu più rettificata. “Sa Carta
de Logu, sa quali cun grandissimu provvidimentu fudi fatta peri sa bona memoria de juy-
ghi Mariani padri nostru, in qua direttu juyghi de Arbarèe, non essendo corretta per ispa-
ciu de seighi annos passados,…”. F.C. Casula, La “Carta de Logu” del Regno di Arborea.
Traduzione libera e commento storico, Carlo Delfino Editore, Sassari 1995, pp. 32-
33. Uno dei problemi maggiori che gli esperti cercano di studiare è l’individuazione
delle norme emanate da Mariano, quali quelle introdotte da Ugone e le ultime novità
inserite da Eleonora. Tale problematica rimane irrisolvibile a causa della mancanza di
un qualche manoscritto, che attesti il codice primigenio promulgato da Mariano, in
modo tale da poterlo confrontare con le edizioni di Eleonora. L’unico modo per poter
fare delle ipotesi rimane l’analisi della situazione culturale e sociale in cui si può con-
cepire la genesi delle diverse norme.
4
Per avere una visione d’insieme del testo, della sua importanza e dell’ambiente sto-
rico-culturale in cui viene promulgato, si veda: Id., La Sardegna aragonese (2 voll.),
Chiarella, Sassari 1990. pp. 448-464.
La donna sarda nella Carta de Logu e in alcuni statuti coevi 259

del 1395, deducendo ciò dai capitoli XIX, XX e CV del testo5. Besta6 e
Casula7 hanno datato, invece, la promulgazione nel 1392, mentre la Fois
tra il 1388 e il 13898.
Il codice, prima destinato ai soli territori d’Arborea, allargato da Ma-
riano a molte zone di influenza arborense, venne, nel 1421, esteso all’intera
Isola dal Parlamento celebrato a Cagliari da Alfonso V, detto il Magna-
nimo9. Il codice rimase in vigore fino alla promulgazione del Codice Fe-
liciano del 16 Aprile 182710. L’esaltazione romantica della giudicessa è da
tempo superata11, in virtù di una più approfondita e oggettiva conoscenza
5
Cfr. G.M. Mameli De’ Mannelli, Le costituzioni di Eleonora giudicessa di Arborea
intitolate Carta de Logu, Fulgoni, Roma 1805. E’ interessante notare come la data-
zione del Mameli abbia influenzato la cultura e l’arte del tempo, inducendo gli artisti
ottocenteschi, che raffiguravano Eleonora nell’atto di promulgare la Carta, ad apporre
la data di APRILIS MCCCXCV. Si veda, ad esempio, l’affresco presente nell’attua-
le Aula Consiliare dell’Amministrazione Provinciale di Cagliari nella sala del Palazzo
Viceregio.
6
E. Besta - P.E. Guarniero, “Carta de Logu” de Arborea. Testo con prefazioni illustrative,
«Studi sassaresi» III (1905).
7
Cfr. F.C. Casula, La “Carta de Logu”…, cit., p. 240.
8
Cfr. B. Fois, Sulla datazione della Carta de Logu, «Medioevo. Saggi e Rassegne» 19
(1994) 133-148.
9
Per un confronto con i documenti coevi delle altre zone isolane, per una chiara analisi
dell’applicazione e dell’adattamento della Carta, si veda: M.M. Costa Paretas, Intorno
all’estensione della Carta de Logu ai territori feudali del Regno di Sardegna (1421), in
La Carta de Logu d’Arborea nella storia del diritto medievale e moderno, a cura di I.
Birocchi - A. Mattone, Ed. Laterza, Roma-Bari 2004, pp. 377-384; M.M. Costa,
Intorno all’estensione della Carta de Logu ai territori feudali del Regno di Sardegna nel
1421, «Medioevo. Saggi e Rassegne» 19 (1994) 149-158.
10
Questo dato, apparentemente solo di ambito giuridico, rappresenta un aspetto fon-
damentale: il codice, prima in vigore in un territorio delimitato, poi venne esteso alla
quasi totalità dei cittadini isolani. Questo fatto imprime alla Carta un grande valore
simbolico di unità e mutua integrazione dei vari popoli. La Carta ha rappresentato, sia
nella lingua, sia nella condivisione giuridica, un elemento di appartenenza al popolo
sardo nelle sue varie regioni e culture locali. «In una lettera datata: “Sanluri, 3 febbraio
1392”, Brancaleone Doria annunciava trionfante in ydiomate sardisco che, per ritorna-
re alla situazione territoriale precedente l’iniqua pace dell’88, mancava solo Logosardo,
compensato dall’occupazione di Gioiasaguardia presso Villamassargia. Ciò vuol dire
che, in meno di sei mesi, il regno di “Sardegna e Corsica” si era ridotto solamente
alle due città di Castel di Cagliari e Alghero, ed a qualche castello isolato. Il resto era
tutto Sardegna giudicale». F.C. Casula, La Storia di Sardegna. L’Evo Medio (II), Carlo
Delfino Editore, Sassari 1994, p. 773; ID, La Sardegna…, cit., pp. 636ss.
11
Su Eleonora è stata creata una letteratura romantica, che l’ha dipinta come una vera
e propria eroina con una forte personalità e un’autorevole tempra di governo. Molti
260 Michele Antonio Corona

dei dati storici su Mariano IV e Ugone III12. Tuttavia, ad Eleonora va rico-


nosciuto il merito di una revisione approfondita della CdLA rispetto alla
forma fissata dal padre ed alle probabili inserzioni ad opera del fratello13.
autori l’hanno vista protagonista di romanzi, biografie e opere teatrali (C. Bellieni,
F.C. Casula, G. Dessì, B. Pitzorno, M. Serra,…). Tra questi autori merita menzio-
ne una constatazione - seppur discutibile - di Dessì sull’importante scoperta fatta da
Eleonora sulla Sardegna: «Eleonora è convinta di aver scoperto un segreto dell’Isola:
in Sardegna non è ancora successo niente. Non vi è storia. Vi è soltanto un’importante
misteriosa preistoria in cui uomini e terra si compenetrano». G. Dessi’, Eleonora d’Ar-
borea, EDES, Sassari 1995, p. 18. Per un’analisi profonda del testo di Dessì, si veda:
S. Bullegas, L’Eleonora d’Arborea di G. Dessì: semiotica del personaggio e della storia, in
Giudicato d’Arborea e Marchesato di Oristano: proiezioni mediterranee e aspetti di storia
locale. Atti del 1° Convegno Internazionale di Studi (Oristano, 5-8 dicembre 1997), a
cura di G. Mele, Ed. S’Alvure, Oristano 2000, pp. 253-258. Nei paesi del Campidano
di Milis è ancora presente l’immagine eroica della giudicessa per la ricca tradizione
di racconti molto simili a dei florilegi agiografici. Cfr. G. Angioni - M.G. Da Re,
Eleonora d’Arborea nella memoria popolare in Sardegna, in Giudicato d’Arborea…, cit.,
pp. 85-100. Gli studiosi, invece, hanno ridimensionato la prospettiva, valutando gli
elementi storici e le vicende che hanno fatto sorgere tale prospettiva. Scrive Casula:
«Per la scienza, purtroppo, Eleonora d’Arborea è un personaggio del tutto comune,
sia dal punto di vista politico che diplomatico (…) non ebbe una grande visione po-
litica e non si aprì all’esterno». Eleonora, regina-reggente di Arborea, in F.C. Casula,
Dizionario Storico Sardo, Carlo Delfino Editore, Sassari 2001, col. 569. Ci pare giu-
sto considerare Eleonora con sguardo ampio, evitando qualsiasi distorsione mitica e,
d’altra parte, minimalista. Si può vedere, inoltre, l’articolo panoramico di Pili sui testi
editi e inediti tra il XV e XVIII secolo, in cui si presenta la figura di Eleonora tra storia
e mito: R. Pili, La fortuna di Eleonora d’Arborea agli albori del mito, «Medioevo. Saggi
e Rassegne» 16 (1991) 135-196. Anche Besta nella sua presentazione storica alla Carta
de Logu descrive con eccessiva enfasi, poco consona alla storicità, come Eleonora abbia
operato da «fermo propugnacolo delle sarde libertà contro l’invasore straniero, donna
di propositi virili ed eroina più che donna». E. Besta - P.E. Guarniero, “Carta de
Logu”…, cit., 21.
12
Cfr. R. Carta Raspi, Storia della Sardegna, U. Mursia & C., Milano 1971-1974, pp.
668ss. Per avere una puntuale presentazione del temperamento e della personalità di
Mariano IV, si veda: C. Zedda, La figura di Mariano IV d’Arborea attraverso la lettura
dei Procesos contra los Arborea, «Quaderni Bolotanesi» XXIII (1997) 235-250.
13
Un altro problema discusso riguarda il probabile redattore della Carta, Marongiu ha sup-
posto che fosse un giurista chierico conoscitore del diritto canonico. Presumibilmente il
canonico Filippo Mameli, morto l’8 Maggio 1349, perciò precedente ad Eleonora, ma
coevo del grande Mariano IV. Cfr. A. Marongiu, Saggi di storia giuridica e politica sarda,
CEDAM, Padova 1975, pp. 61-73. La tesi non trova prove inconfutabili, perciò altri
studiosi hanno genericamente attribuito la redazione alla corte d’Arborea e ai personaggi
di spicco che vi ruotavano. Cfr. J. Lalinde Abadía, La Carta de Logu nella civiltà giuri-
dica medievale, in La Carta de Logu…, a cura di I. Birocchi - A. Mattone, cit., p. 16.
La donna sarda nella Carta de Logu e in alcuni statuti coevi 261

Gli studiosi però evidenziano il silenzio di Eleonora circa Ugone. Il mo-


tivo maggiormente plausibile può essere ricondotto all’astio delle famiglie
aristocratiche di Oristano nei confronti di Ugone14. Nel preambolo però,
Eleonora spiega lo stato di necessità di una revisione del Codice e soprat-
tutto di un rigore maggiore verso gli ufficiali del Giudicato, maiorales e
curadores (responsabili diretti di ogni inoperosità), a causa del dilagare della
delinquenza e dello stato d’anarchia successivo all’uccisione del fratello.
«Il corpus legislativo tratta dei delitti e delle pene, dell’ordinamento di
polizia e di quello giudiziario, del diritto contrattuale e di altre disposi-
zioni, tutte dettate per il Giudicato d’Arborea, e trae le proprie origini
da antiche leggi giudicali, ispirate al diritto romano e bizantino prima e
“italiano” e catalano poi»15.
La lingua usata nella CdLA, nelle sue diverse edizioni, presenta caratteri
arcaici del fondo logudorese del dialetto arborense e segni di evoluzione in
conformità al campidanese16. «Il nostro codice di leggi è un testo compo-
sito, che presenta stratificazioni diverse sull’asse orizzontale, ma anche su
quello verticale, storico; stratificazioni che sono il frutto, da un lato, del
confluire di tradizioni giuridico-culturali diverse, nelle fasi di elaborazione,
stesura e trasmissione del testo e, d’altro canto, della collazione di redazioni
diverse e dell’accumulo di ampliamenti, rielaborazioni, interventi aggiun-

14
Eleonora non avrebbe citato il fratello per evitare che le norme, da lui introdotte e
da lei riprese, potessero essere rigettate o contestate. Cfr. R. Carta Raspi, Storia della
Sardegna, cit., p. 669.
15
Manoscritti e Lingua Sarda, a cura di C. Tasca, La Memoria storica, Cagliari 2003, p.
41.
16
Cfr. A. Sanna, Il carattere popolare della lingua della Carta de Logu, in Il mondo…, cit.,
pp. 51-70. Cfr. anche: E. Besta - P.E. Guarniero, “Carta de Logu”…, cit., 69-81; F.C.
Casula, Cultura e scrittura nell’Arborea al tempo della Carta de Logu, in Il mondo…,
cit., pp. 71-109. Bisogna tener ben presente che nelle edizioni che ci sono giunte si
trovano differenze evidenti di scrittura, di dialetto e di forma, per il fatto che esse
hanno gradualmente adattato il linguaggio alla situazione culturale e linguistica, in cui
venivano ripubblicate. La cancelleria arborense usava di norma la lingua latina per i
propri documenti, anche se «occorre operare una distinzione tra documenti ammini-
strativi ad uso interno e documenti di portata internazionale». A. Piras, I caratteri del
latino nei documenti della cancelleria arborense, in Giudicato d’Arborea…, cit., p. 915.
Per approfondire l’uso del latino e lo stile di scrittura, si veda: L. Cicu, Il latino nel
Giudicato d’Arborea, in Società e cultura nel Giudicato d’Arborea e nella Carta de Logu,
Atti del Convegno internazionale di studi (Oristano, 5-8 Dicembre 1992), a cura di
G. Mele, Poligrafica Solinas, Nuoro 1995, pp. 121-131.
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tivi di vario tipo»17. Tali redazioni diverse e le influenze bizantine, romane,


pisane e catalano-aragonesi, non hanno tuttavia contaminato sostanzial-
mente il carattere autoctono delle normative18.
Non possediamo il testo originale della CdLA. Tuttavia siamo in pos-
sesso di un manoscritto donato dal capitolo della Cattedrale di Iglesias
al Conte Baudi di Vesme e da questi alla Biblioteca dell’Università di
Cagliari nel 1866. Questo manoscritto fu pubblicato da Besta e Guar-
niero nel 1905, «ma si tratta di una brutta copia quattrocentesca mutila,
scritta, probabilmente, da due religiosi di Iglesias o di Oristano per scopi
d’uso comune»19.
Rimane ancora da evidenziare ed esplicitare il significato preciso della
consueta denominazione CdLA. Il termine Carta indica un codice di leggi
e un insieme di norme che creano un rapporto giuridico, mentre Logu non
ha il solo significato di Luogo o territorio in cui le leggi risultano vigenti

17
A. Dettori, Testualità e lingua nella Carta de Logu di Arborea, in La Carta de Logu…,
a cura di I. Birocchi - A. Mattone, cit., p. 142. L’articolo rappresenta uno studio serio
di tutte le caratteristiche linguistiche e formali presenti nella Carta, ed, inoltre, offre
un apparato esplicativo notevolmente ricco di riferimenti testuali e bibliografici per
analizzare scientificamente la questione.
18
Cfr. J. Lalinde Abadía, La Carta de Logu…, cit., pp. 20-21.
19
F.C. Casula, La “Carta de Logu”…, cit., p. 26. Il giudizio critico di Casula sul mano-
scritto cagliaritano e sulla traduzione di Besta e Guarniero è piuttosto negativo, poiché
lo ritiene lacunoso e scritto su «modesta carta invece che su più degna pergamena, ed
inoltre con una sciatta grafia documentaria della seconda metà del Quattrocento in
luogo di un’aulica scrittura gotica libraria della fine del Trecento». Ib., p. 239. Besta,
nell’introduzione, aveva a sua volta criticato l’opera del Mameli. «Benché offra ampio
corredo di illustrazioni storico-giuridiche e l’autore abbia anche avuto delle pretese
critiche, è forse di tutte (le edizioni fino ad allora pubblicate, NdR) la peggiore. Non
di manoscritti si valse il Mameli, ma di stampe e di stampe non ottime». E. Besta -
P.E. Guarniero, “Carta de Logu”…, cit., 9. Le nove edizioni a stampa che possediamo
sono riconducibili a due archetipi, chiamati comunemente “A” e “B”, che potrebbero
essere a loro volta delle copie di copie del manoscritto originale; per questo motivo,
tutte le edizioni hanno bisogno di un notevole lavoro di critica testuale. All’archetipo
“A” si rifanno le seguenti edizioni: 1485, 1560, 1567 (utilizzata dal Mameli de’
Mannelli (1805) dal Casula (1995), 1607, 1628, 1805; mentre all’Archetipo “B”:
1617, 1708, 1725. Cfr. F.C. Casula, La “Carta de Logu”…, cit., pp. 26, 243. Per avere
un’attenta panoramica sul manoscritto e sulle edizioni a stampa, si veda: G. Cossu
Pinna, La Carta de Logu. Dalla copia manoscritta del XV secolo custodita nella Biblioteca
Universitaria di Cagliari alla ristampa anastatica dell’incunabolo: bibliografia aggiornata
e ragionata, in Società e cultura…, cit., pp. 113-119; T. Olivari, Le edizioni a stampa
della Carta de Logu (XV-XIX sec.), «Medioevo. Saggi e Rassegne» 19 (1994) 159-175.
La donna sarda nella Carta de Logu e in alcuni statuti coevi 263

e obbliganti, ma con maggiore intensità indica il topos giuridico per cui


le leggi formano l’elemento comune identitario per le persone che vi si
sottomettono20.
La CdLA è composta da un proemio e 198 capitoli, di cui i primi 132
appartengono al codice civile e penale, gli altri 66 al Codice Rurale21, pro-
mulgato circa 40 anni prima dal grande giudice Mariano22.

1 Testi specifici riguardanti la donna

Analizziamo i vari capitoli della CdLA riguardanti la donna23, nei suoi


diritti e doveri personali e coniugali, e le problematiche inerenti. Divi-
diamo, per comodità, l’argomento in due paragrafi, riservando al primo
le norme relative alla donna sposata e la situazione dotale ed ereditaria, al
secondo i diritti e doveri delle donne. La divisione è dettata da esigenze
espositive, poiché i due argomenti sono strettamente complementari.
Poiché la CdLA è un codice di leggi civili e penali non può essere con-
cepita come un trattato di etica né di sociologia, ma ogni norma contiene
e rivela l’idea di matrimonio propria del legislatore e della società coeva24.
20
Cfr. F.C. Casula, La “Carta de Logu”…, cit., p. 241.
21
Tra gli innumerevoli ed autorevoli studi sul Codice rurale, si veda: B. Fois, Territorio e
paesaggio agrario nella Sardegna medioevale, ETS, Pisa 1990, pp. 87-90, pp. 145-198.
22
Cfr. F.C. Casula, La “Carta de Logu”…, cit., p. 29. Probabilmente prima di Mariano
IV esistevano delle raccolte in forma di schede sciolte o in codice (meno attendibile
la tradizione orale) dal X secolo. Mariano ebbe il merito di raccogliere ed ordinare,
Eleonora di pubblicare e far entrare in vigore la Carta rivista dai giuristi e aggiornata
circa le pene sanzionate.
23
Citiamo in nota secondo la versione campidanese e rimandiamo alla traduzione del
Casula perché, sebbene libera e non letterale, permette una comprensione immediata
delle norme e delle espressioni. Inoltre non è intenzione della nostra ricerca lo studio
filologico del testo e la sua ricostruzione più attendibile. Abbiamo notato, che anche
nel momento in cui le varianti sono notevoli, il senso del testo non è modificato nella
sua sostanza. Per evitare di appesantire il lavoro con precisazioni filologiche, consiglia-
mo: E. Besta - P.E. Guarniero, “Carta de Logu”…, cit., 9ss. Nelle pagine indicate
Besta fa un’attenta disamina filologica, sintattica e stilistica delle varianti.
24
Si ricordi inoltre che le norme presenti nella Carta non sono state importate o inven-
tate da Mariano, né da Eleonora, ma sono le leggi orali del territorio e codificate. Per
questo motivo rispecchiano maggiormente il tessuto sociale, ideologico, religioso, eti-
co del popolo. Ci discostiamo da Gregoire quando afferma in modo troppo calcolato:
«Non si può estrarre dalla Carta de Logu una sintesi sui concetti di giustizia e di in-
giustizia, di coscienza morale e di responsabilità etica, di colpevolezza o di innocenza.
Infatti un documento legislativo prende atto di tali situazioni alle quali corrispondono
264 Michele Antonio Corona

Non è facile stabilire dei parametri univoci e valutare senza precompren-


sioni il ruolo e la posizione della donna nella società medievale, a partire
dalla CdLA. Alcuni studiosi hanno affrontato l’argomento, giungendo
spesso a valutazioni differenti e, a volte, addirittura contrastanti. La causa
deve essere ricercata nel modo in cui vengono letti i documenti e lo scopo
per cui si studiano. Infatti, chi vi intende trovare l’esaltazione della società
sarda, presenta una valutazione pienamente positiva e moderna del ruolo
femminile. Altri, invece, demitizzando giustamente la figura di Eleonora e
storicizzando le normative, offrono un quadro tutt’altro che apprezzabile
sulla valutazione della donna nella società. E’ necessaria una rivisitazione
oggettiva dei testi e delle testimonianze del mondo giudicale, per poter
giungere ad un’analisi che presenti l’effettiva modernità della CdLA sul
tema femminile, senza tuttavia ritenere che nelle stesse norme non vi siano
degli evidenti limiti legati ad aspetti sociali e, in alcuni casi, religiosi. Tale
premessa apre l’orizzonte per poter affrontare il tema in modo sereno e non
apologetico, offrendo uno spettro oggettivo dei valori rilevati25.

determinati comportamenti senza delineare le loro motivazioni morali. Pertanto la


Carta de Logu non definisce un rapporto tra religiosità e comportamento, tra fede e
vita». R. Gregoire, Aspetti di religiosità popolare nel Condaghe di S. M. di Bonarcado
e nella Carta de Logu, in Società e cultura…, cit., p. 199. Per un’analisi panoramica, si
veda: A. SATTA, La donna nel Medioevo sardo, in «Sardegna Antica», 6 (1994) 25.
25
Si tenga conto che Pigliaru afferma che la Carta ha legiferato in modo netto ed in-
discutibilmente chiaro, con piglio polemico nei confronti degli usi. Egli sostiene che
la precisione di molte normative è dettata dal fatto che si volessero estirpare alcune
abitudini invalse nel mondo rurale e contadino. Inoltre, afferma che la Carta coinvolge
tutti nella ricerca e denuncia del delinquente non solo per il principio di “responsabi-
lità collettiva” (E. Besta), ma per estirpare il reo dalla giustizia-vendetta private. Cfr. A.
Pigliaru, Il banditismo in Sardegna. La vendetta barbaricina come ordinamento giuri-
dico, Giuffrè, Varese 1975, pp. 171ss.
La donna sarda nella Carta de Logu e in alcuni statuti coevi 265

1.1 La donna nel matrimonio

1.1.1 Matrimonio “assa sardisca” ( Cap. I)26


Il primo capitolo prende in esame il reato di “lesa maestà” sia per la
persona del giudice, sia per la sua intera famiglia27. Viene decretata l’uc-
cisione per impiccagione dopo il vilipendio pubblico, quale deterrente, di
colui che ferisce o offende il giudice e i suoi familiari. All’uccisione dell’at-
tentatore ne consegue anche la confisca di tutti i beni nel caso in cui sia
celibe; mentre, se sposato, risulta dirimente il modo con cui ha contratto
matrimonio. Nel primo capitolo si menziona esplicitamente quello assa
sardisca28: patto matrimoniale29 in cui la dote della donna, mai obbliga-
26
«Ordinamus chi si alcuna persona trattarit e consenterit chi Nos, over alcunu figiu no-
stru, over donna nostra, o figios nostros, o donna issoru, esseremus offesidos o fagherit
offender e consentirit chi esseremus offesidos, deppiat esser posta supra unu carru ed
attanagiada pro totu sa terra nostra d’Aristanis, e posca si deppiat dughiri attanagian-
dolla infini assa furca, ed innnie s’infurchit ch’indi morgiat;ed issos benis suos totu
deppiant esser appropiados assa Corti nostra, dummodo chi sa donna sua coyada assa
sardisca, over a dodas, non perdat sa parti sua in casu chi non si accattarit culpabili in
alcun attu. E si alcuna persona, chi esserit in su dittu trattadu, illu fagherit a intender
a Nos, innantis chi Nos illu ischiremus, siat illi perdonada sa ditta pena et nondi siat
punida, e deppiat haviri premiu e gracia dessu expalesari chi hat a haver fattu dessu
dittu erru trattadu».
27
Facendo attenzione si nota che il legislatore parla nella seconda opzione di donna no-
stra, pertanto si deve attribuire tale norma ad un giudice uomo, sicuramente Mariano
IV. Inoltre Casula ipotizza che le varie opzioni, alcunu figiu nostru…figios nostros…
donna issoru, rivelerebbero le tre edizioni della Carta emanate da Mariano (tra il 1355
al 1369 circa). Cfr. F.C. Casula, La “Carta de Logu”…, cit., p. 243. Pare più difficile
l’attribuzione ad Ugone III, anche per il fatto che questi ebbe una sola figlia, con
cui fu ucciso, pertanto non avrebbero avuto senso le varie alternative. Rimarrebbe la
possibilità che creando la norma possa aver pensato al futuro rendendo più universale
la legge, ma pare inverosimile. E’ molto più probabile che la decisione di Eleonora
contro i congiurati che uccisero suo fratello, possa essere stata fondata su tale norma.
28
Si deve tener conto dell’espressione over a dodas, che non può essere intesa come ossia
a dote o detta anche a dote, poiché over nei testi giuridici ha valore avversativo (=oppure)
e non esplicativo (=ossia). Pertanto nella norma si dichiara che anche la donna sposata
a dote aveva diritto a mantenere la propria parte di beni (la sola dote), come garantiva
il suo patto matrimoniale detto comunemente assa pisanischa. Il valore esplicativo è
sostenuto dal Casula: cfr. F.C. Casula, La “Carta de Logu”…, cit., p. 35.
29
Si noti che il matrimonio si perfezionava nel momento in cui le famiglie dei due nu-
bendi accettavano il patto coniugale. Durante il periodo di trattazione-corteggiamento
si utilizzava un “trattatore”, il quale si adoperava per portare a buon fine la trattativa e
per condurre il corteo nuziale dello sposo a casa della donna. Giunti, si attuava un cli-
266 Michele Antonio Corona

toria in Sardegna, non veniva avocata dal marito, ma in caso di condanna


o di separazione sarebbe tornata alla donna, insieme alla metà dei beni
incamerati durante il matrimonio30. In termini moderni, si direbbe che
tale matrimonio prevedesse la “comunione dei beni”, intesi come lucri –
ma “separazione dei beni”, intesi come patrimonio personale – e garantiva
la sicurezza economica di ogni singolo coniuge31. Pur non addentrandoci
nelle problematiche giuridiche, che hanno impegnato importanti studiosi
di diritto (dai magistrati della Reale Udienza per il riordino delle legisla-
zioni durante la monarchia di Carlo Felice, fino ai giuristi moderni), oc-
corre, tuttavia, tener presente gli studi giurisprudenziali per comprendere
il valore del regime patrimoniale assa sardisca.
Ha grande importanza notare come la modalità comunionale dei beni
permettesse ai coniugi di poter disporre individualmente e autonoma-
mente dei beni32. Secondo alcuni studiosi la comunione era totale, per

ché di domande e risposte tra il padre della sposa e l’intermediario. I procedimenti fa-
vorivano i due criteri necessari per il riconoscimento sociale del matrimonio: pubblico
e consensuale. Un problema notevolmente importante era la mancanza di riconosci-
mento del rito da parte dell’autorità ecclesiastica. Per questa ragione fu notevolmente
duro il continuo richiamo della Chiesa nei confronti della società e del Legislatore, che
favoriva la convivenza “more uxorio”. Tuttavia, ancor peggiore si presentava la situazio-
ne del clero, che spesso viveva nel concubinato riconosciuto e pubblico, attraverso la
modalità presentata. Cfr. J. Day, Uomini e terre nella Sardegna coloniale del XII-XVIII
secolo, CELID, Torino 1987, pp. 297-298. La figura del “trattatore” o “paraninfo”
rimase nell’uso popolare per secoli, fino al dominio sabaudo. Esistono documenti no-
tarili ritrovati nell’Archivio del Tribunale di Cagliari, che descrivono la consuetudi-
ne e l’impossibilità di perfezionare il matrimonio in assenza del citato intermediario.
Cfr. C. Pillai, Riti nuziali e matrimoni clandestini nella Sardegna sabauda, «Quaderni
Bolotanesi» XXX (2004) 371-384. E’ interessante leggere: A. Bresciani, Dei costumi
dell’isola di Sardegna, Illisso Edizioni, Nuoro 2001 [ristampa], pp. 373-394.
30
Cfr. F.C. Casula, La “Carta de Logu”…, cit., p. 244.
31
Negli archivi sono numerosi gli atti notarili dei secoli successivi (XV-XIX), in cui i co-
niugi che avevano contratto matrimonio nella forma dotale separata (richiamata anche
qui – over a dodas – ma che analizzeremo meglio nel capitolo successivo) passavano
a quello comunistico del coiuviu a sa sardisca o ad modo sardesco o senso carta. Cfr. A.
Argiolas, Il matrimonio a sa sardisca nei secoli XV-XIX, in La Carta de Logu…, a cura
di I. Birocchi - A. Mattone, cit., p. 355. Per avere un’ampia panoramica sulle peculia-
rità della comunione dei beni nel matrimonio sardo, si veda il datato, ma validissimo
articolo: M. Roberti, Storia dei rapporti patrimoniali fra coniugi, «Archivio Storico
Sardo» IV (1908) 282 ss.
32
Cfr. E. Besta - P.E. Guarniero, “Carta de Logu” de Arborea…, cit., 58-59.
La donna sarda nella Carta de Logu e in alcuni statuti coevi 267

altri concerneva i soli beni acquisiti durante il matrimonio33. In questo


secondo caso, soprattutto i beni immobili portati da ciascuno dei coniugi
potevano tornare alla famiglia d’origine per evitare la suddivisione del pa-
trimonio familiare. La classe contadina cercava con l’istituto comunionale
di evitare la frammentazione della proprietà, in vista dello sfruttamento
collettivo del terreno («pro indiviso»), sopperendo alla difficoltà economica
di dotare convenientemente la prole femminile34. Si tenga presente che il
matrimonio assa sardisca non prevedeva dote per la donna, ma nel mo-
mento in cui il padre della sposa le donava qualcosa, questi non era più
tenuto a renderla partecipe dell’eredità35. Concludiamo facendo notare la
modernità di questo istituto e l’involuzione avuta nel codice Feliciano, che
modificò la divisione dei beni da egualitaria per i due sessi ad una quota
minore per la donna36.

1.1.2 Matrimonio “assa pisanischa” (Cap. II)37


Il secondo capitolo riflette il primo in modo speculare e pare un am-
modernamento. Ancora più evidente tale ipotesi se si pensa che il Nos
33
Cfr. A. Marongiu, Saggi di storia…, cit., pp. 37-39.
34
Cfr. J. Day, Uomini e terre…,cit., pp. 292-293.
35
Si noti che probabilmente la variante dotale al matrimonio assa sardisca, di per sé non
dotale, fu creato dall’influenza pisana sulle costumanze locali. Pertanto coesistevano
di fatto tre modalità: comunione dei beni senza dote, a modo pisano con dote e assa
sardisca con dote.
36
Cfr. A. Argiolas, Il matrimonio a sa sardisca…, cit., p. 365; per maggiori informa-
zioni sulle modifiche felicitane e il confronto sinottico di alcune norme, si veda: M.
Da Passano, La Carta de Logu e le Leggi feliciane, in La Carta de Logu…, a cura di I.
Birocchi - A. Mattone, cit., pp. 479-497. Molto interessante l’assenza delle denomina-
zione assa sardisca e a modu pisaniscu, a favore di perifrasi maggiormente tecniche.
37
«Item ordinamus chi si alcuna persona trattarit o consentirit causa alcuna pro sa quali
Nos perderemus honori, terra over castellu de cussos chi amus hoe, o de cussos chi
acquistaremus dae como innantis, deppiat esser istraxinada a coha de cavallu pro tota
sa terra nostra d’Aristanis, e posca infini assa furca, ed innie s’infurchit ch’indi mor-
giat; ed issos benis suos totu siant appropriados assu Rennu. Si veramenti, ch’in casu
su dittu traitori havirit mugeri, ed esserit coyadu assu modu sardiscu, sa ditta mugeri
happat sa parti sua senza mancamentu alcunu, secundu ch’in su dittu capidulu si con-
tenit. E si havirit happidu mugeri per innantis assa sardisca, dessa quale havirit alcunu
figiu o figia, cussu figiu, o figios, comenti ed heredis de cussa mamma issoru happant,
ed haver deppiant sa parti issoru dessos benis predittos, secund’usanza sardisca, senza
mancamentu alcunu, secundu chi est naradu de supra pros sos atteros. E si esseret co-
yada a doda a modu pisaniscu, su simili sas dodas suas senz’alcunu mancamentu, pro
chi non est ragioni ch’issos perdant pro culpa e defettu dessu padri, e de su maridu. E
268 Michele Antonio Corona

potrebbe essere attribuito ad Eleonora. Tuttavia, la differenza maggiore la


si rileva per il richiamo esplicito del matrimonio a doda a modu pisaniscu,
inserito nel capitolo precedente solo nell’inciso già rilevato. Il Legislatore
menziona la modalità, ma poi la assimila negli effetti a quello già esami-
nato, concedendo a moglie e figli del condannato la possibilità di riavere
la dote. Il matrimonio a modu pisaniscu prevedeva che la donna nel mo-
mento del patto nuziale fosse obbligata a portare dei beni (dote o doda)
e che questi entrassero di diritto a far parte del patrimonio dell’uomo38.
La famiglia della donna offriva al marito una somma proporzionata alla
propria ricchezza per provvedere e sostenere gli onera matrimonii. Il marito
si impegnava a conservare ed amministrare la dote della donna e, nel caso
di separazione, restituiva ai di lei parenti la somma ricevuta. Il marito, pur
non essendo proprietario in senso pieno, ne era possessore e amministra-
tore. «La donna era esclusa dall’amministrazione e dalla gestione della pro-
pria dote; questa facoltà spettava al coniuge che aveva diritto interamente
ai frutti di essa. I beni però restavano separati e inalienabili, garantiti da
un’ipoteca sulle sostanze maritali»39. Anche lo sposo poteva apportare una
sorta di dote, che consisteva in una somma donata alla propria moglie per
rahò de la verginitat (in ragione della sua verginità)40.
Pertanto si può constatare che nel matrimonio a dodas la donna risul-
tava meno attiva e, sebbene avesse garanzie per via della dote che veniva

semper s’intendat chi ciascunu creditori chi havirit a reciver innantis chi su dittu ma-
leficiu esseret perpetradu e fattu, chi siat pagadu de totu chi justamenti hat a mostrari
chi happat a reciver».
38
Cfr. F.C. Casula, La “Carta de Logu”…, cit., p. 246; A. Argiolas, Il matrimonio a sa
sardisca…, cit., p. 356. Si trova un attento confronto tra l’usanza comunionale sarda e
la legislazione pisana, che non consentiva alla donna né l’acquisizione né l’alienazione
di beni senza il consenso del marito, in A. Era, Sulla capacità giuridica della donna
maritata nella storia del diritto in Sardegna, Gallizzi, Sassari 1932.
39
A. Argiolas, Il matrimonio a sa sardisca…, cit., p. 356.
40
La verginità era una caratteristica ambita dagli uomini che cercavano moglie ed era
considerata dalle famiglie un aspetto importante per il “valore” della donna. I mariti
sovente pretendevano che la propria moglie non si potesse risposare dopo la loro mor-
te. Cfr. G. Olla Repetto, La donna cagliaritana tra ‘400 e ‘600, «Medioevo. Saggi
e Rassegne» 11 (1986) 201ss. Per una descrizione ampia e dettagliata degli istituti
giuridici romani, longobardi e franchi circa gli apporti maritali e muliebri, si veda: R.
Braccia, “Uxor gaudet de morte mariti”: la donazione propter nuptias tra diritto comune
e diritti locali, «Annali della Facoltà di Giurisprudenza di Genova» XX (2000-2001)
76-128 [Distribuito in formato digitale da “Reti Medievali”].
La donna sarda nella Carta de Logu e in alcuni statuti coevi 269

restituita alla propria famiglia in caso di scioglimento del matrimonio, non


aveva la possibilità di alienare senza il consenso del marito i propri beni41.

1.1.3 Passaggio dei beni coniugali (Cap. XCIX)42


Si menziona il matrimonio assa sardisca43 per stabilire che alla morte di
uno dei coniugi e del/dei figlio/i in minore età, la proprietà rimaneva al
coniuge vivo. Questa norma detta un importante principio: il patrimonio
familiare non passava direttamente al coniuge, ma era di diritto destinato
alla prole. In questo modo si garantivano due cose: una base economica
o terriera ai figli e si evitava, nel contempo, che il coniuge vivo potesse
incorporare il bene in un possibile nuovo matrimonio. Ribadiamo che nel
matrimonio assa sardisca i lucri derivanti dalle proprietà personali di ogni
coniuge e dei beni in comunione, erano di entrambi. Per questo motivo
in caso di morte del coniuge, i lucri erano interamente acquisiti dall’altro,
concedendo ai figli il bene posseduto dal genitore defunto prima del ma-
trimonio44. «La CdLA non ha introdotto il matrimonio alla Sardesca, ch’era
in uso molto prima della compilazione di essa, ma rende irrefragabile te-

41
Interessante notare che anche Mariano, il Legislatore, concesse alla propria figlia
Eleonora Casteldoria come dote per il matrimonio con Brancaleone Doria. Tuttavia,
non si conoscono né i dettagli contrattuali, né con quale istituto venne sancito il pat-
to coniugale. Cfr. P.F. Simbula, Casteldoria: dote matrimoniale di Eleonora d’Arborea,
«Medioevo. Saggi e Rassegne» 16 (1991) 117-130, con appendice documentaria.
42
«Item ordinamus chi si alcuna femina si coyarit a modu sardiscu, over a dodas, e mor-
rerit et lassarit alcunu figiu picciu, si cussu figiu picciu morrerit posca senza legittima
edadi de annos deghiottu, chi su padri dessu dittu ceraccu succedat et happat s’here-
didadi dessu dittu figiu suo; e simigiàtementi sussedat sa mamma assu figiu picciu in
cussos benis ch’illi furuntu remasidos dae su padri. Excettu chi su padri over sa mam-
ma havirint fattu testamentu, ch’in cussu casu si deppiat osservari s’ordini de cussu
testamentu ed issa voluntadi dessu testadori».
43
Cfr. A. Virdis, Il Matrimonio a su modu sardiscu e la Carta de Logu, «Teologica &
Historica» XI (2002) 451-485. Virdis analizza questo capitolo attraverso un’ottica ca-
nonistica con particolare attenzione alla posizione di Olives (1567).
44
Il problema sorgeva nel momento in cui il coniuge morto avesse avuto precedenti lega-
mi matrimoniali con prole. Nella Carta non è menzionato il problema. Per avere una
visione del problema nel mondo fiorentino nel periodo coevo alla promulagazione del
documento arborense, si veda: I. Chabot, Seconde nozze e identità materna a Firenze
tra Tre e Quattrocento, in Tempi e spazi della vita femminile nella prima età moderna, a
cura di S. Seidel Menchi - A. Jacobson Schutte - T. Kuehn, Il Mulino, Bologna 1999,
pp. 493-523, (Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento; quaderno 51)
[Distribuito in formato digitale da “Reti Medievali”].
270 Michele Antonio Corona

stimonianza dell’antichità di tal consuetudine»45. Nel capitolo viene anche


sottolineata l’importanza della volontà del defunto, nel senso che, se questi
avesse deciso qualcosa di diverso dalla normale successione al coniuge, sa-
rebbe dovuta essere rispettata46. Anche in questo caso non si fa alcuna
differenza tra i due sessi, supportando l’ipotesi di una sostanziale pari di-
gnità successoria tra i due coniugi, almeno nei ceti più abbienti47. Si deve
notare che non esisteva alcuna differenza tra marito e moglie nel fare te-
stamento48: entrambi avevano piena autorità sui propri beni che potevano
destinare ai propri figli e donarli ad altre persone o enti, nel caso in cui non
avessero avuto figli o fossero già morti. Il Mameli sottolinea che questa

45
G.M. Mameli De’ Mannelli, Le costituzioni di Eleonora…, cit., nota 162.
Testimonianza forte di tale antichità sia il fatto che anche il codice di Sassari del 1316
(Il codice degli Statuti del libero comune di Sassari) riportava lo stesso istituto, eviden-
ziando l’utilizzo comune da parte dei cittadini isolani. Cfr. J. Day, Uomini e terre…,
cit., p. 291.
46
La casistica è esplicitata ed esemplificata in modo diretto dal capitolo LI, in cui si
evidenzia nettamente la mancanza di un numero sufficiente di notai per permettere te-
stamenti validi e la preoccupazione incalzante dei Capitoli per le donazioni, chiamate
Cause pie. Cfr G.M. Mameli De’ Mannelli, Le costituzioni di Eleonora…, cit., nota
99.
47
Nei documenti notarili rinvenuti negli archivi dei Condaghi sono state trovate nume-
rose testimonianze di atti voluti, firmati e portati a termine da attori di sesso femminile
in completa autonomia. Cfr. E. Artizzu, Il ruolo della donna nei negozi giuridici ripor-
tati dai Condaghi, «Quaderni Bolotanesi » XIX (1993) 251-262. Per il ruolo delle mo-
nache benedettine, si veda: I. Delogu, Quasi una cronaca al femminile nel Condaghe
di San Pietro in Silki, «Quaderni Bolotanesi» XXVII (2001) 153-168. Il ruolo delle
religiose può certamente essere un filone da studiare, per capire meglio la posizione
delle donne nella società e nella chiesa medievale d’Arborea.
48
La disparità giuridica tra moglie e marito è praticamente inesistente sia a livello pa-
trimoniale, sia giuridico. Si tenga tuttavia presente che, anche nella Carta de Logu, si
trovano delle differenze di prezzo per il riscatto di servi maschi o serve. Si dovrebbe
ricondurre tale differenza alla diversa capacità di forza lavoro agricola tra i due sessi,
piuttosto che a mere illazioni sulla svalutazione femminile. Cfr. J. Day, Uomini e ter-
re…, cit., pp. 292-295. Riteniamo interessante annotare una particolarità dell’Isola
legata saldamente alla donna. Nel Medioevo sono testimoniati in diversi documenti i
matronimici: i figli di donne di varia estrazione sociale avevano il cognome della ma-
dre. Si ipotizza il loro uso per diverse ragioni: per distinguere figli di diverse madri e
stesso padre, per distinguere un figlio dall’altrimenti omonimo padre, per indicare ille-
gittimità, per indicare che lo status giuridico derivava dalla propria madre, per indicare
i figli di matrimoni di ecclesiastici, non canonici, per indicare che la posizione sociale
ereditata derivava dalla madre. Cfr. R. J. Rowland Jr., Matronimici e altre singolarità
nella Sardegna medioevale, «Quaderni Bolotanesi» XV (1989) 369-375.
La donna sarda nella Carta de Logu e in alcuni statuti coevi 271

norma è stata dettata dalle questioni che sorgevano a causa «dell’avarizia


di alcuni mariti»49, i quali rifiutavano la legittimità dei testamenti delle
mogli a favore degli enti. Questa norma potrebbe essere stata fortemente
voluta dagli enti religiosi, che erano i maggiori beneficiari delle donazioni
alternative, attestabili nei Condaghi.

1.2 Valore patrimoniale del sistema dotale o di comunione dei beni

1.2.1 Protezione sui beni familiari di un rapinatore (Cap. XIII)50


Si parla di persona che ha commesso una rapina in un luogo “pubblico
o privato”. Questi doveva pagare un’ammenda nel momento in cui veniva
riconosciuto colpevole per la prima volta; mentre in caso di reiterazione
doveva essere giustiziato e costretto a subire la confisca dei beni, tenendo
sempre conto dei diritti muliebri sul patrimonio secondo il patto matri-
moniale.

1.2.2 Protezione della moglie e della prole di un fuggitivo (Cap. VI )51


Nel presente capitolo si prende in considerazione il caso in cui un uomo
che, essendo fuggito, non fosse trovato prima di un mese. In questa cir-
costanza veniva prevista la confisca di tutti i beni, tranne una parte da
utilizzare per i diritti di moglie e figli, compresa la prole che il malfat-
tore avrebbe potuto avere da altra donna. In questo modo si riconosceva
alla famiglia (moglie e figli) il diritto di non dover incorrere nella pena
comminata all’uomo, per il solo legame di parentela. E’ sicuramente un
principio di grande umanità, poiché individua la responsabilità penale e
morale della persona, senza dover riversare sul nucleo familiare la pena
corrispondente52.
49
G.M. Mameli De’ Mannelli, Le costituzioni di Eleonora…, cit., nota 162.
50
«(…) Et si nò pagat, siat justiciadu in persona, secundu qui est ordinadu in su presenti
capidulu; ed issos benis suos si confischint assa Corti, reservando sas ragionis dessas
mugeris, secundu chi per innantis est naradu, in casu chi esserit justiciadu in perso-
na».
51
«(…) E si cuss’homini, chi havirit mortu s’homini, fuirit e non si poderit haviri infra su
dittu tempus de unu mesi, siat isbandidu dae sas Terras nostras, ed issos benis suos totu
siant conficados assa Corti nostra, reservando pro sas ragionis dessa mugeri, e dessos
figios, chi havirit dae attera mugeri, chi non havirint happidu sa parti pertinenti ad
issos pro parti dessa prima mugeri (…)».
52
«Sarebbe meglio parlare non di un solo criterio, ma di due criteri concorrenti: severità
e giustizia. Quest’ultimo rilievo si trae in specie dalla considerazione delle frequenti di-
272 Michele Antonio Corona

1.2.3 Impossibilità a diseredare (Cap. XCVII)53


In questo capitolo si decretava l’impossibilità legittima di diseredare figli
o nipoti senza una giusta causa54. E’ evidente che la legge cercava di assi-
curare la prosperità dei beneficiari dell’eredità stabilendo che a nessuno
potesse essere lecito eliminare la propria prole dal testamento. Ciò sarebbe
stato possibile solo nel caso in cui fosse stata provata in modo evidente e
legittimo l’indegnità dell’erede. In modo puntuale e preciso veniva sottoli-
neata la possibilità di provare l’occasione giusta e ragionevole di privazione
dell’eredità entro un mese dalla morte del testante. L’inclusione di questo
capitolo nella nostra ricerca è data dal fatto che viene ribadita per la donna
la possibilità di redigere il testamento.

1.2.4 Eventuali lasciti alla figlia sposata a dote (Cap. XCVIII)55


Questa norma richiama in modo diretto ciò che è già stato detto per
la consuetudine di non lasciare altro in eredità alla figlia sposata a dote.
A questa, non spettava nient’altro se non ciò che aveva ricevuto all’atto
della promessa matrimoniale. Tuttavia viene decretato che, in assenza di
altri figli, ad essa dovesse naturalmente essere concesso l’intero patrimonio
sposizioni intese ad evitare ogni effetto aberrante della pena. Opportunamente, infatti,
la legge si preoccupava di impedire che la confisca dei beni del marito si estendesse a
quelli della moglie e viceversa». A. Marongiu, Saggi di storia…, cit., p. 80.
53
«Volemus et ordinamus chi nixuna persona dessu Rennu nostru de Arbarèe usit nen
deppiat deseredari figios over nebodis nados dessos figios, dessas rexonis chi s’illis hant
a apartenni pro s’here(di)dadi dessu padri, over dessa mamma issoru; salvu si su padri
over sa mamma assa morti issoru volerint narri ed opponerint contra sos figios, over
nebodis, justa occasioni, pro sa quali illos deberint deseredari. E sa ditta occasioni si
deppiat provari legittimamente peri su chi hant a haviri lassadu sos benis issoru, infra
unu mesi dae sa die dessa morti dessu testadori».
54
Questa normativa è una prova usata dagli studiosi per ricondurre alcuni principi della
Carta al diritto romano, nella sua origine giustinianea. Cfr. F. Sini, Influssi del diritto
romano sulla Carta de Logu, in La Carta de Logu …, a cura di I. Birocchi – A. Mattone,
cit., pp. 67-70.
55
«Constituimus et ordinamus chi si alcuna persona coyarit figia sua a dodas, chi non
siat tenuda de lassarilli nen darilli in vida nen in morti sua si non cussu ch’illi hat a
haviri dadu in dodas, si non a voluntadi sua; salvu chi, s’issa non havirit atteru figiu illi
deppiat lassari sa parti sua, secundu ragioni, contadu illoy in cussa parti chi hat a deber
haviri sas dodas chi hat haviri hapidu daenanti. Et simigiantementi s’intendat pro totu
sos descendentis suos. E totu s’atteru, ch’illi hat a remaner, indi pozzat fagheri cussu
ch’illi hat a plagheri. Ed in casu chi morrerit ab intestadu, succedat sa figia femina
coyada cun sos atteros fradis et sorris suas, iscontada dae sa parti sua cussa doda chi hat
a haviri hapidu».
La donna sarda nella Carta de Logu e in alcuni statuti coevi 273

del padre o della madre nel momento della morte di questi56. Dobbiamo
osservare che non esisteva discriminazione tra figlio maschio e figlia fem-
mina, sebbene si debba rilevare che il passaggio patrimoniale fosse auto-
matico per il primo, mentre per la figlia necessitava di codifica. Risulta
interessante annotare, inoltre, che il Legislatore stabiliva che parte dell’ere-
dità dovesse andare di diritto a fratelli o sorelle del morto. Si può proba-
bilmente ricondurre tale preoccupazione all’esigenza di non avere famiglie
e persone completamente sprovviste del necessario per vivere; così parte
del patrimonio di un uomo con una sola figlia doveva essere condiviso, in
giusta misura, coi collaterali.

1.2.5 Scambio di donazioni tra coniugi (Cap. C)57


La possibilità di vicendevole donazione tra marito e moglie era profon-
damente legata alla preoccupazione di lasciare il patrimonio a discendenti,
ascendenti e collaterali in attesa di eredità. In questo caso marito e moglie
potevano donarsi solo delle cifre stabilite dal canone, con una casistica pre-
cisa. In caso di mancato pretendente legittimo al patrimonio era consentita
qualsiasi donazione tra i coniugi. Tale possibilità sarebbe stata negata e,
poi, reinserita nei decreti delle Corti del Cinquecento, a favore della con-
suetudine di restituire alla famiglia del coniuge morto la parte di eredità

56
Successivamente tra le richieste degli Stamenti militari in periodo aragonese si può
notare una puntualizzazione, che nella risposta regia, mina la capacità giuridica della
donna. Il re approvò la successione della donna, in un feudo in cui non fossero pre-
senti eredi maschi, a condizione che la successione femminile fosse durata per una sola
generazione. Precisa inoltre, nei casi in cui non era stato fatto testamento, che si fosse
preferito il figlio maschio del primogenito morto a qualsiasi sorella del legittimo di-
scendente. Tali precisazioni rivelano, da una parte la direzione maschilista che si veniva
formando con le decisioni della corte d’Aragona, dall’altra la quasi totale disattenzione
alle norme degli statuti sardi. Cfr. Acta Curiarum Regni Sardiniae, I Parlamenti del
Viceré Giovanni Dusay e Ferdinando Giròn de Rebolledo (1495,1497,1500,1504-1511),
a cura di A.M. Oliva - O. Schena, Cagliari 1998, pp. 721, 728.
57
«Volemus ed ordinamus chi alcuna femina non usit nen deppiat dari in alcunu modo
assu maridu nen in vida nen in morti sua plus de liras deghi, ed issu maridu assa mu-
geri atteru e tantu, dess’issoru pegugiari ; ed icussu det cussu chi hat a haviri valsenti de
liras vinti ‘nsusu ; ed icussu chi hat a haviri valsenti dae liras vinti ‘ngiossu, det soddos
vinti ; ed icussu det s’unu a s’atteru, s’illi hat a plagheri ; e si nolli plagherit, nondi siat
tenudu nen assu maridu nen assa mugeri. Ed icustu capidulu happat legittimu logu
in casu chi su maridu over mugeri havirint descendentis over ascendentis; e si nondi
havirint, siat illis licitu de lassarisi s’unu ass’atteru per testamentu, over per donacioni
causa mortis, totu ciò chi hant a voler dessos benis issoru».
274 Michele Antonio Corona

personale, permettendo al vivo di acquisirne al massimo la metà, in caso di


esplicito e valido testamento scritto58.

1.2.6 Caso in cui un uomo muoia senza fare testamento (Cap. CI)59
Il primo dato da notare in questo capitolo è la differenza presente tra
il testo e la rubrica. In quest’ultima si parla di Dessos Ufficialis chi debint
fagher inventariu dessos benis dessos Minoris chi remanint appusti dessu padri
over dessa mamma ed è presente un esplicito riferimento alla morte di en-
trambi i genitori. Padre e madre avevano lo stesso diritto di lasciare, come
già visto, la propria parte di eredità alla prole. Nel testo invece si dice:
quando alcun homini morrerit senza fagheri testamentu, dando l’impressione
di un’impronta maschilista. E’ probabile, invece, che in questo caso il ter-
mine homini abbia un’accezione ampia, indicando l’individuo giuridico a
prescindere dal sesso60.
Giungendo al senso della norma, si deve annotare l’interesse del Legisla-
tore per una giusta e inopinabile chiarezza sui beni dei minori orfani. La
procedura prescritta è molto accurata e attenta per evitare ogni improvvisa-
zione. La norma appare anche molto severa verso parenti o tudoris reticenti
e sprovveduti. I curadoris avevano il dovere di redigere con alcuni boni ho-
mines61 un elenco ordinato dei beni (“dintro de domu e foras”). Questo ca-

58
Nel Parlamento del 1500 venne chiesta l’abrogazione di un precedente capitolo di
corte (1481-1485), che aveva modificato la normativa della Carta. Si chiese sostanzial-
mente di rimettere in vigore il capitolo C. Cfr. Ib., pp. 251-253.
59
«Constituimus et ordinamus chi sos Curadoris ed Officialis nostros de Corti de
Arbarèe, ciascunu in sa curadorìa ed officiu suo, chi hant a haviri in manos, deppiant
esser tenudos, quando alcun homini morrerit senza fagheri testamentu, e lassarit figios
o figias piccinnas, e nollas accomandarit per testamentu, chi sos benis suos propios,
chi remanint dintro de domu e foras, chi si deppiant totu fagheri scriviri ordina(da)
menti, avendo s’Officiali a compagnia sua dessos bonos hominis dessa contrada over
dessa villa (…)».
60
Già Mameli aveva notato questa discrepanza tra il testo e la nota rubricale, ribadendo
l’assoluta parità di diritti tra padre e madre. Cfr. G.M. Mameli De’ Mannelli, Le
costituzioni di Eleonora…, cit., nota 167. Casula traduce “…allorquando qualcuno
muore…”, interpretando allo stesso modo. Cfr. F.C. Casula, La “Carta de Logu”…,
cit., p. 127.
61
I boni homines sono giudicati tali per la loro integrità e statura morale (requisiti:
buon senso, equilibrio, diligenza, onestà, senso civico, giustizia, etc.). Cfr. G. Olla
Repetto, L’ordinamento costituzionale-amministrativo della Sardegna alla fine del ‘300,
in Il mondo…, cit., pp. 154-157. Casula precisa: « probi uomini per integrità morale e
pubblica stima». Cfr. F.C. Casula, La “Carta de Logu”…, cit., p. 127.
La donna sarda nella Carta de Logu e in alcuni statuti coevi 275

talogo doveva essere inoltre redatto in duplice copia, in modo tale da con-
segnarne uno alla persona prescelta per l’affidamento dei minori e l’altro
depositato nella Corte. Tale ufficialità e precisione burocratico-legislativa
rivelava l’importanza dell’eredità in una società legata al patrimonio e l’in-
teresse per una giustizia equa, soprattutto nei confronti dei più indifesi. Il
ruolo dell’affidatario non poteva essere rifiutato dalla persona nominata,
a meno che non ci fossero stati dei motivi validi e giustificati. Nel caso in
cui il parente stretto (alcunu parenti de istrittu) avesse i giusti motivi per
rigettare l’incarico, si prescriveva, ad altre persone di fiducia, l’affidamento
e la custodia dei beni, fino alla maggiore età dei minori62. Ogni violazione
dei diritti dei minori e le varie irregolarità nella gestione dei beni avrebbero
comportato delle pene pecuniarie a carico dei tutori.

1.3 La donna in altri ambiti tematici

1.3.1 Condanna per veneficio (Cap. V)63


Il capitolo presenta il delitto per veneficio, non facendo alcuna distin-
zione sul sesso della vittima; anzi viene esplicitamente dichiarato che, in
caso di somministrazione di veleno, il reato assumeva lo stesso valore per
l’uomo e per la donna64. La differenza principale invece era presente nella

62
La cura con cui il Legislatore prescrive tale norma e obbliga un parente, o una persona
di fiducia, all’affidamento dei minori, richiama quella figura giuridica presente nella
società ebraica veterotestamentaria, denominata go’el. Nel caso in cui una donna fosse
rimasta vedova, senza aver avuto figli da suo marito, il parente più prossimo (go’el) del
defunto avrebbe dovuto prendersi cura della vedova e concepire con lei, per una logica
comunitaria, un figlio, in modo tale da concedere la discendenza. Ciò avveniva anche
per gli orfani, i quali erano affidati al parente più prossimo del padre.
63
«Item ordinamus chi si alcuna persona maschiu o femina darit a mandigari over a bieri
alcunu venenu malu, o tossigu, dessu quali poderit morri s’homini, over sa femina, a
chi esserit dadu, s’indi esserit confessa, over ch’illi esserit provadu legittimamente, e
morreritindi s’homini, over sa femina a chi esserit dadu, si est homini cussu chi hadi
fattu su dittu mali, siat infurcadu ch’indi morgiat; e si esserit femina, siat arsida. E non
campit pro dinari alcunu. E si cussu a chi s’illi darit su dittu toscu, over venenu, nondi
morrerit, nen haverit mancamentu dessa persona, siat illi segada sa manu destra. E pro
dinari alcunu non campit, chi nolli siat segada (…)».
64
Non è scontata tale uguaglianza anche esplicita, visto che in molti codici medievali si
valutava il reato in modo diverso, a seconda del sesso e dello stato sociale della vittima.
Per avere un quadro ampio sull’argomento, in riferimento al basso Medioevo, si veda:
P. Aries - G. Duby, La vita privata. Dall’Impero romano all’Anno Mille, Arnoldo
Mondadori Editore, Cles 1993, pp. 366-382.
276 Michele Antonio Corona

modalità di condanna dell’avvelenatore in relazione al sesso. Se il reo fosse


stato maschio sarebbe dovuto essere inforcato, mentre la donna bruciata.
Già da questo punto possiamo evidenziare due elementi: il primo di ugua-
glianza giuridica per l’uomo e la donna, avendo avuto diritto alla stessa
protezione legislativa; il secondo rivelava la consuetudine e la convinzione
che il rogo fosse la pena più adatta per la donna (unico caso menzionato
in cui era prevista la pena di morte per la donna), mentre l’impiccagione65
maggiormente idonea alla natura maschile66. Probabilmente l’impic-
cagione, compiuta sempre in un luogo ben visibile del villaggio o della
città, serviva come deterrente per gli altri uomini. L’uomo inforcato po-
teva rimanere in quella posizione per un intero giorno dal momento della
sentenza alla morte effettiva. Alla donna veniva inflitto il rogo, una pena
che, sicuramente, provocava grandissime sofferenze, ma spesso, chi subiva
questa pena moriva o perdeva i sensi prima che le fiamme potessero ardere
il proprio corpo, a causa dell’intossicamento da fumo67. Lungi dal dire che
tale pratica, per questo, fosse maggiormente umana, si può tuttavia affer-
mare che fosse meno dolorosa rispetto alla pena maschile della forca. Però
il motivo per cui alla donna fosse riservata una così brutale pena non ci è
dato di conoscerlo, sebbene fosse consuetudine prescrivere tale condanna
in molte legislazioni68. Un altro aspetto da notare è la forza con cui il Le-

65
L’impiccagione non era operata con un cappio al collo, ma la testa dell’imputato veni-
va bloccata nello snodo di due rami appoggiandovi la mandibola. E’ evidente che tale
modalità presenta una maggiore brutalità e provocava lunghe sofferenze.
66
Sugli aspetti generali riguardanti l’omicidio e le pene connesse nella Carta de Logu,
si veda: E. Artizzu, L’omicidio nella Carta de Logu, «Quaderni Bolotanesi» XXII
(1996) 157-166.
67
Si può supporre che la gravità e l’infamia del rogo fossero legate al fatto che questa
condanna distruggeva il corpo e lo deturpava, presentando un grave problema per il
dogma cristiano della resurrezione della carne. Questo motivo potrebbe essere la causa
più probabile del giudizio così negativo nei confronti della condanna al rogo. Altri
hanno supposto che la difformità di pena sia in funzione intimidatoria nei confronti
della donna, più incline per natura (!) a compiere avvelenamenti. Cfr. J. Lalinde
Abadía, La Carta de Logu…, cit., p. 34.
68
Il Mameli nel suo commento ricorda che solo nel 1593 si mutò tale disposizione,
stabilendo anche per la donna la forca. Nello stesso periodo della Carta, anche il Re di
Francia, Luigi IX (1214-1270), prescrisse che le donne venissero condannate al rogo.
Cfr. G.M. Mameli De’ Mannelli, Le costituzioni di Eleonora…, cit., nota 8. Nella ri-
cerca degli atti dei Parlamenti sardi, abbiamo ricavato che la data esatta della modifica
è il 1594 e non il 1593, come afferma il Mameli. Cfr. Acta Curiarum Regni Sardiniae,
Il Parlamento del viceré Gastone de Moncada marchese di Atona (1592-1594), a cura di
La donna sarda nella Carta de Logu e in alcuni statuti coevi 277

gislatore prescriveva l’impossibilità di commutare la pena capitale con un


pena pecuniaria. Sicuramente la motivazione che ha suscitato tale prescri-
zione era una vera e propria garanzia per i poveri, i quali avrebbero avuto
meno possibilità, rispetto ai più abbienti, di mutare la pena69.

1.3.2 “Ius corrigendi” familiare (Cap. IX)70


Il capitolo IX tratta delle ferite e delle mutilazioni provocate volonta-
riamente e con premeditazione ad altre persone. E’ interessante notare che
tutte le ferite erano sanzionate con una pena pecuniaria o, in mancanza
di questa, con pene corporali che andavano dalle frustate alla cosiddetta
“legge del taglione”, in cui veniva operata all’imputato la stessa ferita o
mutilazione provocata alla vittima. Il punto principale che ci interessa è il
passaggio in cui si analizza l’atteggiamento violento di un padre nei con-
fronti della moglie e della prole. Veniva decretato che un padre potesse
legittimamente percuotere i membri della propria famiglia e infliggere loro
“castighi opportunamente per educarli”. Su questo punto non possiamo,
oggettivamente, che dissentire, sebbene la formulazione non prevedesse
una possibilità irrazionale e immotivata di castigo. Il pater familias aveva il
compito sociale di educare71 i propri figli e di governare la propria famiglia,
compresa la moglie, in modo tale che il loro comportamento non provo-

D. Quaglioni, Cagliari 1997, p. 609.


69
«Il sistema della Carta de Logu non va confuso con quello di altre leggi continentali
che, stabilita come pena principale la mutilazione, permettevano al reo di potersene
riscattare col denaro: in quelle era più evidente ed odioso il privilegio dei ricchi, men-
tre nella legge sarda la giustificazione delle pene afflittive stava, in molti casi, nella
necessità di non lasciare impuniti i delitti per il solo fatto della incapienza economica
dei colpevoli». A. Marongiu, Saggi di storia…, cit., pp. 90-91.
70
«(…) salvu si sa persona ferida esserit mugeri, o figiu de figiu, o fradi carrali, o sorri, o
nebodi de fradi, over de sorri, over famigiali suo, chi starit a imparari, chi cussu, chillu
hat a ferri, essendo peri su dittu modu, chi est naradu de supra, illu pozzat batteri e
castigari acconzadamenti, ed in cuss’attu nondi paghit pen’alcuna. Ed intendatsi chi
pen’alcuna non paghit, s’illi bogarit sambini dae sa bucca, over dae su nasu, over ch’illu
iscarrafiarit in sa facci, o in attera parti dessa persona sua, chi dannu non di havirit. E
simili s’intendat dessos tudoris e curadoris de alcunos minoris chi castigarint e battirint
cussos ch’istant sutta cura et tudoria issoru, chi nondi paghint pena castigandollos peri
su dittu modu (…)».
71
«In Sardegna, come altrove, il marito esercitava lo ius corrigendi: il diritto di punire
fisicamente chiunque abitava sotto il suo tetto “a pane e a vino”, compresa la moglie,
senza incorrere nelle sanzioni prescritte dalla legge per colpi e ferite». J. Day, Uomini e
terre…, cit., p. 295.
278 Michele Antonio Corona

casse disturbo sociale. Appare quasi una sorta di responsabilità patriarcale


nei confronti della società. Si deve dunque notare che nell’ambito stretta-
mente familiare la donna aveva un ruolo passivo72.

1.3.3 Violenza sulla donna (Cap. XXI)73


Questo capitolo presenta il delitto di violenza sulla donna secondo una
triplice tipologia di condizione femminile: sposata, fidanzata e vergine74.
Nel caso in cui un uomo avesse usato violenza nei confronti di una donna
sposata o promessa in sposa, avrebbe dovuto pagare una multa di cin-
quecento lire. Mentre, se a subir violenza fosse stata una nubile, la pena
pecuniaria sarebbe stata ridotta a duecento lire. In entrambi i casi, l’in-
solvenza di pagamento comportava l’amputazione di un piede del colpe-
vole75. Nella violenza di una donna nubile, senza legame matrimoniale, la
72
Cfr. A.P. Loi, La figura della donna nella Carta de Logu, «Quaderni Bolotanesi» IX
(1983) 155. Nella Carta de Logu cal(l)ariana troviamo riscontro nei capitoli LXXXV
e LXXXXVI. Il primo, intitolato “Di coloro che battesseno le femine”, riporta la preci-
sazione di coloro che ferivano una donna sposata. Se era sposa dell’uomo che l’aveva
ferita, non vi era condanna alcuna (come il testo della CdLA), mentre se era sposata
con altro, il feritore era tenuto ad un cospicuo pagamento per risarcire la donna e,
soprattutto, il marito del danno arrecato. Cfr. F.C. Casula, La “Carta de Logu”…, cit.,
pp. 250-251.
73
«Volemus ed ordinamus chi si alcun homini levarit per forza mugeri coyada, over
alcun’attera femina, chi esserit jurada, o isponxellarit alcuna virgini per forza, e dessas
dittas causas esserit legittimamenti binchidu, siat iuygadu chi paghit pro sa coyada
liras chimbicentas; e si non pagat infra dies bindighi, de chi hat a esser juygadu, siat illi
segad’uno pee pro modu ch’illu perdat. E pro sa bagadìa siat iuygadu chi paghit liras
duecentas, e siat ancu tenudu pro levarilla pro iugeri, si est senza maridu, e placchiat
assa femina; e si nolla levat pro mugeri, siat ancu tentu pro coyarilla secundu sa con-
dicioni dessa femina, ed issa qualidadi dess’homini. E si cussas caussas issu non podit
fagheri a dies bindighi de chi hat a esseri iuygadu, seghintilli unu pee per modu ch’illu
perdat. E pro sa virgini paghit sa simili pena; e si non hadi dae hui pagari, seghintilli
uno pee, ut supra».
74
Secondo il Casula questa distinzione appare piuttosto maliziosa, perché se dirimente
fosse lo stato fisico sarebbero bastate solo le due categorie di “sposata e vergine”, se lo
stato sociale, allora il termine “vergine” avrebbe dovuto lasciare il posto a “nubile”. Il
Casula propone che si debba pensare al fatto che il fidanzamento in Sardegna durasse
molto tempo a causa della povertà in cui si sarebbe dovuta costruire la casa coniugale,
per questo motivo era consueto che i due fidanzati si scambiassero effusioni amorose.
Cfr. Ib., pp. 258-259.
75
Da notare l’acutezza sull’arto da amputare: un piede. Parte del corpo che sostiene
l’intera persona in ogni atto e che permette di avere un solido appoggio nelle azioni
lavorative. Sicuramente senza un piede diventava praticamente impossibile trovare un
La donna sarda nella Carta de Logu e in alcuni statuti coevi 279

pena pecuniaria era accompagnata da alcuni obblighi per il violentatore.


Questi avrebbe dovuto sposarla (dandole così una sicurezza economica),
ma solo se la donna stessa fosse stata consenziente. «L’importanza di questo
enunciato è ancora più palese se confrontato con le successive ordinazioni
spagnole da cui risulta come la possibilità di scelta offerta ad una donna
che prenda marito sia pressoché inesistente»76. Sposare una donna dopo la
violenza è la dinamica tipica del “matrimonio riparatore” dell’Italia Meri-
dionale, ma con la differenza che, in quelle regioni, la volontà della donna
era sostanzialmente trascurata. La CdLA si dimostra attenta e struttural-
mente moderna nel prendere atto che il matrimonio aveva bisogno del
consenso libero di entrambi i coniugi, soprattutto nel caso di una violenza
che profana non solo il corpo della vittima, ma ferisce nel più profondo
della personalità. Inoltre, occorre rilevare che il Legislatore prevedeva sag-
giamente che la violentata potesse non volersi sposare con l’uomo che
aveva violato la sua dignità, perciò imponeva all’uomo il dovere di munirla
di dote adeguata, affinché la donna potesse sposarsi con un uomo adatto
alla sua condizione sociale.

lavoro (in un’economia agro-pastorale), per questo la norma era ancora maggiormente
efficace. A questo proposito è interessante riportare il raccapricciante commento del
Mameli: «La durezza, ed austerità di queste pene, ch’io non oso chiamare barbare, per
averne veduto delle simili stabilite da umanissimi Principi, e fra gli altri dal santo Re di
Francia (…) dimostra la costumatezza, ed invidiabil contegno di que’ tempi, e quan-
to i Legislatori fossero zelanti protettori dell’onestà, e dell’innocenza. (…) Era forse
questo uno di que’ delitti, ne’ quali convenisse aver riguardo al maggiore, o minor
dolo? Che se la Legge volle aver riguardo al caso di seduzione per parte della donna,
avrebbe potuto stabilire una pena contro la donna seducente, lasciando in quel caso
l’uomo impunito: disposizione, che forse avrebbe servito di maggior contegno all’or-
mai troppo sfacciato sesso femminile». G.M. Mameli De’ Mannelli, Le costituzioni
di Eleonora…, cit., nota 41.
76
A.P. Loi, “La figura della donna…”, cit., p. 155. La modifica della pena per lesioni e
per violenza carnale prevedette che il reo fosse inviato alle galere per dieci anni, senza
alcuna pena corporale. La pena inflitta rispondeva alla necessità urgente di vogatori
nelle galere iberiche. Cfr. Acta Curiarum Regni Sardiniae…, a cura di D. Quaglioni,
cit., p. 610. Il nostro obiettivo non è assolutamente quello di giustificare o appoggiare
un penalizzazione corporale e di mutilazione, contro i colpevoli. Ma l’interesse mag-
giore è quello di far notare come le pene dei reati compiuti contro le donne, vennero
mitigati in direzione strumentale e funzionale. La pena corporale non è condivisa,
né valida nei confronti della dignità della persona, neppure, logicamente, di quella
colpevole. L’attenzione si concentra sulle modalità diseguali in cui vennero modificate
alcune norme, minando la dignità e la sicurezza femminile.
280 Michele Antonio Corona

E’ evidente che in questo capitolo troviamo una normativa moderna,


attenta al valore della persona, promotrice di umanità, strutturata per la
tutela della dignità della donna, articolata in modo tale da rendere la pena
esemplare77.

1.3.4 Violenza a donna sposata nella casa di questa (Cap. XXII)78


Nella norma si analizza il caso in cui un uomo avesse violato il domi-
cilio di una donna sposata per usarle violenza. Il violentatore era tenuto al
pagamento di cento lire, anche se questi non l’avesse violentata. La pena
suppletiva era il taglio dell’orecchio. Se, invece, si accertava che l’uomo
fosse entrato in casa della donna e che questa fosse stata consenziente, la
pena diventava molto severa nei confronti di quest’ultima. Infatti, doveva
essere “bastonata e frustata e privata di tutti i beni - dotali e non”. I beni
confiscati andavano direttamente al marito tradito, senza più tener conto
77
Si deve evidenziare il fatto che la Carta cal(l)ariana preveda la pena capitale per colui
che alla violenza di una donna non avesse pagato la sanzione nel tempo stabilito. Non
credo che la Carta d’Arbarèe lo avesse eliminato per maggiore clemenza, piuttosto per-
ché rimanendo vivo il reo potesse essere di monito continuo per il resto dei cittadini. A
Sassari e ad Iglesias le leggi prevedevano esigue pene pecuniarie per le violenze usate su
donne non sposate di classi sociali basse. Mentre per violenza su donna sposata si po-
teva giungere alla decapitazione. Cfr. J. Day, Uomini e terre…, cit., p. 295. Besta non
valuta positivamente le disposizioni e le sanzioni ai «reati contro il buon costume».
Afferma che «la punizione di essi è piuttosto mite, essendo essenzialmente pecuniaria».
Cfr. E. Besta – P.E. Guarniero, “Carta de Logu” de Arborea…, cit., 49. Pur essendo
in linea di massima d’accordo con lo studioso, non possiamo sminuire l’importanza
e l’interesse per la condizione della donna. Ci chiediamo inoltre se la mutilazione del
colpevole insolvente si possa valutare una pena così mite.
78
«Item ordinamus chi si alcun homini intrarit per forza a domu de alcuna femina co-
yada, e teninthiellu, e noll’apat hapida carnalimenti, ed est indi binchidu legittima-
menti, siat juygadu a pagari liras centu; e si non pagat a dies bindighi de chi hat a esser
iuygadu, seguintilli un’origla tota. E si alcun homini esserit tentu cun alcuna femina
coyada in domu dessa femina, ed esserit voluntadi dessa femina, cussa codali femina
siat affrastada e fustigada, ed ispossedida dessos benis suos totu e dessas raxonis sua gasi
de dodas comenti de atteros benis, e remangiant assu maridu, e non a figios, chi havirit
cun cussu maridu, e nen cun atteru maridu chi havirit hapidu per innantis, e non ad
atteru parenti suo, exceptu a plagher de cussu maridu cun su quali havirit fattu sa ditta
fallanza. Ed iss’homini, cun su quali esserit acattada, non siat frustadu ma deppiat
pagari infra dies bindighi, de chi hat a esser juygadu, liras centu; e si non pagarit infra
su dittu tempus, siat illi segada un’origla in totu. E zo non s’intendat pro feminas chi
siant publicas meretricis; nen ancu in casu chi sa femina andarit a domo dess’homini,
over de attera persona chi non esserit habitacioni dessa ditta femina; ch’in cussu casu
s’homini paghit liras vintichimbi, ma sa femina siat affrustada, ut supra».
La donna sarda nella Carta de Logu e in alcuni statuti coevi 281

della modalità matrimoniale contratta; il marito diveniva pienamente pa-


drone di ogni lucro e di ogni bene. Si può facilmente comprendere come
la norma, nella sua severità, tendesse a colpire la donna nella sua eman-
cipazione economica, rendendo la confisca dei beni ben più temuta e de-
terrente della pena corporale79. L’uomo con cui era compiuto l’adulterio
veniva condannato a pagare la multa di cento lire, come nell’esempio ri-
portato in apertura del capitolo. E’ evidente che in ciò è presente una pro-
fonda disparità tra i due sessi, a svantaggio della donna.
L’ultima precisazione, sottolinea l’impunibilità professionale per le pro-
stitute pubbliche; alle donne che commettevano adulterio fuori dalla pro-
pria casa coniugale era applicata la pena corporale, mentre all’uomo una
modesta multa. Si può rilevare che il principio sotteso è che la violazione
di domicilio, fosse lesiva per il marito della donna, cioè per il padrone
della casa.

1.3.5 Abbandono del tetto coniugale e adulterio (Cap. XXIII)80


Dopo aver analizzato le norme che prevedono, prima, una violenza sulla
donna, poi una certa complicità nell’adulterio, ora il Legislatore presenta
il caso in cui un uomo trattenesse nella propria casa la moglie di un altro e
questa non volesse più fare ritorno presso il marito legittimo. Si prevedeva
una multa di cento lire, ma non si menzionava il ritorno anche coatto della
donna. Si può pertanto supporre che questa pena pecuniaria potesse dive-
nire quasi un riscatto da parte dell’uomo in questione, nei confronti del
marito tradito. In tal caso appare come una compravendita della donna,
che, pur consenziente, era trattata come un bene da alienare o acquistare.
Anche in questa circostanza il valore e la dignità della donna non sono né
espliciti né evidenti, ma appaiono sottomessi ad una logica di compraven-
dita meramente maschile.

Cfr. A.P. Loi, La figura della donna…, cit., p. 155.


79

«Volemus ed ordinamus chi si alcun homini reerit over tennerit femin’alcuna coyada
80

palesamenti, cun sa quali havirit a fagheri carnalimenti contra a sa voluntadi dessu ma-
ridu, e dimandandosilla cussu maridu, s’illa denegarit siat condennadu in liras centu,
sas qualis deppiat pagari infra dies bindighi de chi hat a esser juygadu; e si non pagat
siat illi segada un’origla in totu. Ed issa femina siat condennada, secundu in su capidu-
lu si contenit».
282 Michele Antonio Corona

1.3.6 Furto in casa dell’amante (Cap. L)81


Prendiamo in analisi anche questo capitolo poiché nella parte conclu-
siva offre un ulteriore spunto di parità tra uomo e donna. Se una donna
o un uomo, nella stessa misura, avessero preso qualche oggetto dalla casa
del proprio amante, senza il suo consenso, dovevano essere condannati
allo stesso modo del ladro generico, con l’obbligo di restituire la refurtiva.
Due aspetti che si possono evidenziare: il primo, l’uguaglianza esplicita
tra uomo e donna e la medesima tipologia di pena; il secondo aspetto
interessante è dettato dal fatto che gli oggetti presenti in una casa fanno
parte del patrimonio personale e, se l’amante derubato fosse stato sposato,
la refurtiva sarebbe appartenuta anche al coniuge tradito, perciò doveva
essere restituita82.

2 Confronto con altri Statuti e Ordinamenti

In questo paragrafo vogliamo presentare due ordinamenti coevi alla


CdLA, con influenze pisane. Il primo, il Breve di Villa di Chiesa, ci offre
la possibilità di avere una panoramica sulle ordinazioni e le normative di
origine pisana, in quanto scritto da nobili toscani e vigente nel periodo di
massimo dominio pisano sulla città del Sigerro. Il secondo, gli Statuti Sas-
saresi, hanno il grande pregio di aver tenuta salda la radice autoctona dei
propri ordinamenti, sebbene abbiano subito influenze pisane e genovesi83.

81
«Item ordinamus chi nexuna femina chi siat fanti de lettu angina, o chi non siat muge-
ri legittima, usit nen deppiat levari dae sa domu dess’habitacioni chi fagherint impari
cun s’amigu cos’alcuna dess’homini suo contra sa voluntadi de cussu, sutta pena de
esser condennada e punida pro fura secundu ch’insu capidulu dessas furas si contenti,
e siat tenuda de restituiri sas cosas furadas e levadas. E simili pena s’intendat ass’amigu
chi levarit contra sa voluntadi dess’amiga cosas proprias».
82
Si noti la discrepanza esistente tra il testo e la rubrica (Dessas Fantis de lettu, over
Servicialis, chi levarint dae sa domu dess’habitacioni dessos fancellos, over padronos issoru
cos’alcuna contro sa voluntadi issoru). Nel testo si parla solo di concubine e non di don-
ne di servizio, come nel titolo.
83
Dopo gli studi del Satta-Branca, gli studiosi sono concordi nel ritenere che l’influsso
maggiore sugli Statuti non fu principalmente genovese, ma pisano. Cfr. F. Artizzu, La
Sardegna pisana e genovese, Sassari, Chiarella, 1985, pp. 207-208.
La donna sarda nella Carta de Logu e in alcuni statuti coevi 283

2.1 Breve di Villa di Chiesa

2.1.1 Presentazione generale del Breve


Villa di Chiesa era una cittadina medievale, odierna Iglesias, che trovò
nuovo impulso attraverso l’attività estrattiva mineraria84. Già nel 1283
vantava uno statuto di tipo signorile che regolava la vita economica e so-
ciale del Comune. Alla fine del XIII secolo, il comune passò sotto il diretto
dominio pisano; in questi anni venne redatto un nuovo codice, chiamato
Breve, che univa principi e norme precedenti con le tipiche regole pisane85.
Il Breve, si inquadra nella legislazione pisana per la Sardegna, sebbene non
sia tanto facile ricostruirne in modo dettagliato e preciso l’origine e gli svi-
luppi che il testo giuridico ha subito. Nel 1302 viene attestata una prima
revisione ad opera del Podestà, messer Bacciameo; successivamente quattro
nobili pisani apportarono ulteriori modifiche concludendo la revisione del
Breve nel 130486. Dal 1304 (anno di emendazione dei quattro) al 1324
(in cui Aragona conquistò Villa di Chiesa e l’Infante Alfonso, dopo tre
anni, avrebbe apportato rettifiche significative) il Breve è eminentemente
di fattura pisana87. Tuttavia, il documento revisionato dagli aragonesi
84
La sua attestazione è già presente nel periodo romano con la denominazione di Metalla
(è significativa l’assonanza con l’espressione latina di condanna al lavoro in miniera:
damnare ad metalla). Cfr. P. Meloni, Sulcis e l’Iglesiente nel periodo romano, in Aa.Vv.,
Iglesias. Storia e società, Rotary Club, Iglesias 1987, p. 80. Nel 1257 Ugolino della
Gherardesca divenne il signore della cittadina nel Sulcis, nota col nome di Argentiera
in riferimento alla particolare attività estrattiva. Il nucleo abitativo si espanse intorno
alle varie chiese comprese dalle mura che vennero fortificate in difesa del Comune,
assumendo il nome di Villa di Chiesa. Cfr. F. Artizzu, La vita sociale nel Medioevo a
Iglesias, in Aa.Vv., Iglesias. Storia.…, cit., p. 87. Per una sintetica presentazione della
città, si veda: G.G. Ortu, La Sardegna dei Giudici, Il Maestrale, Nuoro 2005, pp. 211-
215.
85
Cfr. F. Artizzu, La Sardegna pisana…, cit., pp. 170-171.
86
Cfr. Id., Aspetti della vita economica sociale di Villa di Chiesa attraverso il «Breve», in
Id. Pisani e Catalani nella Sardegna medioevale, CEDAM, Padova 1973, pp. 79-80.
Artizzu afferma che i quattro revisori pisani erano «persone tutte molto esperte, per
cognizione diretta e, potremmo dire, per tradizione familiare, dei problemi sardi». Id.,
La vita sociale…, cit., p. 90.
87
Cfr. Id., Aspetti della vita…, cit., p. 81; L. D’arienzo, Il codice del Breve pisano-ara-
gonese di Iglesias, «Medioevo. Saggi e Rassegne» 4 (1978) 69-71. D’Arienzo e Ravani
ritengono che il problema della datazione rimanga ancora aperto. Cfr. S. Ravani, Il
Breve di Villa di Chiesa (Iglesias): edizione, studio linguistico e glossario, Tesi di Dottorato
in studi italianistici. Università degli studi di Pisa. Dipartimento degli studi italianisti-
ci. Scuola di Dottorato in letterature e filologie moderne. Anno Accademico 2007, p.
284 Michele Antonio Corona

venne in un secondo momento corretto sommariamente dagli Arborea,


durante l’occupazione; costoro però si limitarono a cambiare alcune deno-
minazioni, ma senza modificarne sostanzialmente le disposizioni. Nei se-
coli successivi il testo legislativo rimase in vigore nella città, anche durante
le successive dominazioni, fino alla fine del 170088. Dobbiamo notare
dunque, che il Breve rimase in vigore immutato per soli vent’anni e che
la sua origine è sicuramente da collegare non solo all’influenza pisana, ma
alla stesura che hanno operato i nobili della cittadina sull’Arno. Questa è
già una differenza fondamentale rispetto alla CdLA, generata in Sardegna.
Un’altra dissomiglianza rilevante si deve ricercare nei probabili destinatari
dei due ordinamenti: la CdLA era rivolta principalmente ai contadini e agli
abitanti dei territori rurali di Arborea, mentre il Breve e gli Statuti erano
rivolti ai borghesi, ai mercanti, agli artigiani e alla popolazione urbana89.

2.1.2 Analisi dei testi sulla donna


Dopo questa breve introduzione, necessaria per inquadrare il Breve, cer-
cheremo di presentare le norme che vertono sulla questione femminile.
Occorre sottolineare il fatto che, riportando le consuetudini normative
di Pisa, si può supporre che l’istituto matrimoniale diffuso fosse quello
chiamato, altrove, assa pisanischa, cioè quello a dote90. Tuttavia l’istituto,
come noi lo abbiamo già inquadrato, non avrebbe consentito che “ad ogni
persona, mascho et femina, sia licito di fare et ordinari per notajo testamento
in quello modo che li piace…”91. A questo proposito, occorre fare una fon-
damentale considerazione: nelle norme riguardanti l’eredità lasciata dal
marito, accanto agli eredi non si menziona mai la moglie92. Si dichiara

24.
88
La testimonianza è data dalla scritta «Consta este volumen de 146 ojas escritas, y por etc.
Pinna Deidda secretario» ritrovata nel verso dell’ultimo foglio del manoscritto. Cfr. L.
D’Arienzo, Il codice del Breve…, cit., 81-82.
89
Cfr. J. Lalinde Abadía, “La Carta de Logu…”, cit., pp. 26-27.
90
Sebbene il riferimento non sia esplicito, possiamo supporlo. Cfr. Breve di Villa di
Chiesa nel Sigerro, in Codice Diplomatico di Villa di Chiesa in Sardigna, a cura di C.
Baudi di Vesme, Torino 1877, l. III, III, col. 124. [Da ora in poi citeremo: BVC]
91
BVC, l. III, LXXIII, col. 166. E’ ricorrente l’assimilazione o, almeno, l’accostamento
nell’espressione “mascho e femina”. Cfr. BVC, l. II, VI, col. 88; l. II, XXI, col. 98; l. II,
XXX, col. 101; l. II, XXXIII, col. 102; l. II, XLVI, col. 107; l. II, XLVII, col. 108. Un
problema su cui lavorare e indagare con precisione sarebbe capire il differente valore
tra homo, femina e persona: la questione è tutt’altro che solo linguistica.
92
BVC, l. II, X, coll. 91-92.
La donna sarda nella Carta de Logu e in alcuni statuti coevi 285

solamente che tra i coniugi, in entrambe le situazioni, non ci può essere


uno scambievole donativo maggiore di “dieci libbre d’Alfonsini minuti”93;
si precisa, anche, il divieto ad aggirare la norma attraverso il donativo per
interposta persona. La cura giuridica si approfondisce maggiormente nei
punti in cui si parla dell’amministrazione d’ufficio dei beni di una persona
che fosse morta senza lasciare testamento, per cui le autorità della città si
trovavano nella condizione di amministrare i beni (non propri) col dovere
morale di cercare il legittimo erede. Quest’ultimo aveva pienamente diritto
ad amministrare il patrimonio, se il ritrovamento fosse avvenuto entro i
tre anni, in caso contrario il patrimonio sarebbe stato diviso tra il Re e
le povere persone “per l’anima del deffuncto”94. Tale norma rispecchia un
sentimento religioso profondo nei confronti delle opere di carità, ma non
per la donna che risulta essere ancora assente da questioni così importanti.
La donna dunque non ereditava nulla, anzi, la vedova non poteva preten-
dere in alcun modo “antefacto” (o dote) nel momento in cui, dopo aver
pagato eventuali debiti e spese, agli eredi legittimi non fossero rimaste più
di L libbre95; essa aveva possibilità di ricevere, eccezionalmente, parte di
eredità solo a condizione del giudizio favorevole dei giudici e a seguito di
ricorso entro i 12 mesi96. Un aspetto positivo può essere rilevato nel canone
che impediva a qualunque creditore la confisca dei beni primari rimasti
alla moglie, quelli che costituivano il “corredo” essenziale avuto in dote97.
L’unica possibilità di alienare questi beni era di venderli volontariamente
con autorizzazione previa da parte di due parenti prossimi o di uomini
illustri della città (“duoi suoi propinqui overo duoi buoni homini ”)98.
93
BVC, l. III, LXIIII, col. 166. In realtà il capitolo si apre decretando la possibilità a
mascho et femina di fare testamento “in quello modo che li piace”. Tuttavia, nel dipanarsi
del testo, si esplicita l’impossibilità pratica per la donna di avere piena autonomia ge-
stionale dei beni, senza la cooperazione di un uomo. Tale principio ricorda l’attenzione
nei confronti degli eredi legittimi e la preoccupazione del Legislatore che, questi non
fossero privati dei beni patrimoniali di diritto.
94
BVC, l. III, LXIIII, coll. 166-167.
95
BVC, l. III, LXVII, col. 169. In questa normativa è ancora più evidente la capacità
giuridica ridotta della donna, la quale può pretendere “qualcosa” solo dopo la sicurezza
economica dei figli. Ci pare di vedere una sorta di esaltazione della prole a sfavore del
coniuge di sesso femminile.
96
BVC, l. III, LXVII, col. 169. Ci verrebbe da dubitare che la consuetudine portasse le
donne ad un lutto stretto vicino all’anno, impedendo loro di poter attuare concreta-
mente il ricorso giudiziale.
97
BVC, l. III, LXVII, col. 169.
98
BVC, l. III, LXVI, col. 168.
286 Michele Antonio Corona

Dopo aver presentato brevemente i diritti e i limiti delle donne riguar-


danti il patrimonio e l’eredità, esponiamo le normative più generali. Anche
nel Breve è previsto che per le ferite inferte dall’uomo sui suoi parenti
prossimi - compresa la moglie, sebbene non sia esplicitamente menzionata
- non si dovesse infliggere pena alcuna, in quanto dovere dell’uomo cor-
reggere i propri familiari, su cui esercitava la propria autorità99. Nei casi in
cui le ferite non fossero inferte su un membro della cerchia familiare, ma a
terzi, le pene venivano, sessualmente, differenziate. Infatti è esplicitamente
detto che “se alcuna femina commetesse alcuno de li decti maleficii, paghi di
pena la meità de li decti bandi”100. Non si può sostenere, alla luce dell’in-
sieme delle norme, che queste attenuanti fossero a favore della donna, ma
manifestano in modo evidente l’incapacità della donna, in quanto tale, a
compiere atti giuridici e penali con responsabile identità personale.
Sulla violenza o violazione di domicilio della donna sposata, il peso
maggiore è dato alla volontà del marito e all’affronto nei confronti della
sua dignità. La donna non è citata minimante né con ruolo passivo (come
colei che soffre per la violenza o per la coattività con cui è rapita), né attiva-
mente (come colei che acconsente alla fuga dall’abitazione coniugale)101. La
pena sanzionata per la violazione di domicilio e il rapimento era commi-
nata con la morte per decapitazione; se, invece, l’uomo avesse giaciuto con
una donna sposata “per forsa” senza che questa fosse sua pubblica amante,
la pena era pecuniaria o, decapitazione, se veniva evaso il pagamento102.
Sebbene fosse consentito il concubinato e l’adulterio fosse consuetudine
diffusa, la donna “servigiale” non poteva essere sposata, poiché ciò avrebbe
offeso il coniuge maschio103. Ancor più importante è il fatto che la violenza
carnale verso donna celibe, non comportava in nessun caso la pena capitale,
ma solo pecuniaria da un massimo di “libbre XXV d’alfonsini minuti infini
in libbre L, considerata la qualità delle persone”104. E’ straordinariamente
99
La moglie poteva essere castigata e colpita solo a mani nude, senza uso di strumenti e
senza che le fuoriuscisse del sangue. BVC, l. II, XXXII, col. 102.
100
BVC, l. II, XX, col. 97; l. II, XXI, col. 98; l. II, XXIII, col. 99.
101
BVC, l. II, XII, coll. 92-93; l. II, LV, coll. 112-113. Ci pare sia sotteso il principio che
la pena sia inferta più per la violazione dell’abitazione, piuttosto che per la violenza o
il ratto della donna, in quanto persona con diritti e dignità proprie. L’abitazione rap-
presenta il cuore dell’unione coniugale e della potestà del marito, per cui la violazione
di essa rappresenta un vero e proprio reato verso l’uomo-capo famiglia.
102
BVC, l. II, XII, col. 93.
103
BVC, l. II, LIIII, coll. 112-113.
104
BVC, l. II, XII, col. 93. Si noti che la norma sulla donna nubile si trova in appendice
La donna sarda nella Carta de Logu e in alcuni statuti coevi 287

indicativo a questo punto, il legame profondo e dirimente tra gravità della


violenza sulla donna e la dignità del marito; lo stato sociale della donna
non veniva preso in considerazione. Nel proseguo della norma si prende
in esame il fatto che il violentatore di nubile, per evitare la pena capitale,
avrebbe dovuto sposare la donna oppure concederle una dote adeguata alla
condizione di quest’ultima. L’annotazione fondamentale consiste nell’as-
senza totale di una scelta della donna e della possibilità di quest’ultima di
opporsi al matrimonio con il violentatore. Di maggiore importanza è il
fatto che, se il violentatore non fosse di pari dignità sociale della donna o
non avesse avuto i soldi per una dote adeguata, sarebbe stato condannato
alla decapitazione. Normativa a chiaro vantaggio degli uomini borghesi di
Villa di Chiesa. La casistica presuppone la violenza nei confronti di pro-
stituta pubblica e di donna celibe consenziente, non sanzionando in alcun
modo i due casi così diversi e sostanzialmente opposti105.
Un’altra norma prescriveva il divieto assoluto di bigamia per l’uomo,
pena la restituzione della “dote de la seconda moglie interamente”, il paga-
mento di una multa e l’eventuale decapitazione, per evasione delle prece-
denti sanzioni106. Tutto questo è sicuramente positivo e dimostra una certa
limitazione, della libertà degli uomini, ma si deve tener presente che la
dote veniva restituita di norma ai familiari della donna, poiché il patto era
stipulato con la famiglia d’origine e non con la sposa stessa.
La figura femminile è menzionata in altre norme, a dir poco, singo-
lari. La donna non poteva nei giorni tra venerdì e lunedì comprare grano
e pesce, né accedere agli spazi pubblici preposti107. Coloro che lavavano
i panni a pagamento non avrebbero potuto indossare o porre sul letto i
panni dei committenti, né avrebbero dovuto tenerli per più di quattro
giorni; non potevano lavarli in ogni fontana o lavatoio cittadino, ma solo
in quello prescritto108.
Infine, dobbiamo notare un aspetto positivo, sebbene citato nelle norme
in modo marginale. Nel caso in cui qualcuno fosse stato vittima di un as-
salto doloso, avrebbe potuto condurre come testimoni attendibili “homini
di buona fama o femine”109. Questa precisazione apre uno spiraglio ad una
nel capitolo riguardante la donna sposata.
105
BVC, l. II, XII, col. 93.
106
BVC, l. II, XIII, col. 93.
107
BVC, l. II, LIIII, col. 112.
108
BVC, l. III, XX, col. 134.
109
BVC, l. II, XXI, col. 98.
288 Michele Antonio Corona

valutazione positiva della donna come testimone processuale, sebbene ap-


paia troppo esigua la menzione.

2.2 Statuti Sassaresi

2.2.1 Presentazione generale degli Statuti


Tra il XIII e il XIV secolo, Sassari non era una “città” nel senso stretto
del termine, ma una “terra” fortificata e cinta di mura inserita nella scolca
di Sassari110. E’ ancora discussa la questione del motivo per cui Sassari
scelse di assumere il governo di tipo comunale e, soprattutto, viene posto
in dubbio che la rivolta civile fosse avvenuta dopo l’uccisione di Barisone,
sostenendo che il casus belli fosse stata la presa di potere di Orzocco de
Serra111. E’ evidente che anche Sassari, come molti comuni sardi costieri ed
esposti all’interesse delle due città marinare, era un comune pazionato, cioè
alleato ora con Pisa, ora con Genova112. Solo nel 1294 la città si schierò a
favore della potenza ligure con la firma di un patto, dove venne stabilito,
tra le altre cose, che il Podestà della città sarda fosse genovese113. Questa
figura aveva dei compiti civili e penali ben precisi ed era tenuta ad un ri-
gore burocratico e diplomatico di alto valore, al punto che gli erano inter-
detti traffici, commerci, la possibilità di ricevere regali dalla popolazione,
la stipula di contratti e il pernottamento fuori dalla città senza le dovute
autorizzazioni. I cittadini partecipavano all’amministrazione pubblica at-
traverso due Consigli (Maggiore e Minore) e altre figure con compiti am-
ministrativi e politici114.

110
Cfr. F. Artizzu, La Sardegna pisana…, cit., pp. 181-182. Per avere una breve e pano-
ramica presentazione storica della città, si veda: G.G. Ortu, La Sardegna dei Giudici,
cit., pp. 215-219.
111
Cfr F. Artizzu, La Sardegna pisana…, cit., p. 182.
112
Cfr. F.C. Casula, La Storia… (II), cit., pp. 690ss.
113
Cfr. F. Artizzu, La Sardegna pisana…, cit., p. 183. Per leggere la convenzione si con-
sulti: P. Tola, Codice degli Statuti della Repubblica di Sassari, Chiarella, Sassari [ristam-
pa anastatica Tipografia di A. Timon, Cagliari 1880], pp. 3ss. [Da ora in poi citeremo
CSRS].
114
Per maggiore approfondimento, si veda: F. Artizzu, La Sardegna pisana…, cit., pp.
185-189; Id., Le strutture politico-amministrative del Comune di Sassari attraverso la
lettura degli Statuti, in Gli Statuti Sassaresi. Economia, Società, Istituzioni a Sassari
nel Medioevo e nell’Età Moderna. Atti del Convegno di studi (Sassari, 12-14 maggio
1983), a cura di A. Mattone – M. Tangheroni, EDES, Cagliari 1986, pp. 170-176.
La donna sarda nella Carta de Logu e in alcuni statuti coevi 289

Le vicende legate a Genova e le consuetudini di usare il porto ligure


come unico scalo per le merci e collegamento per la penisola, non deve
indurre nella tentazione di credere che l’ordinamento in questione fosse
una mera trascrizione di qualche normativa genovese, come abbiamo visto
avvenne a Villa di Chiesa con Pisa115. Gli Statuti hanno subito diverse mo-
difiche e sono stati più volte elaborati e aggiornati. Secondo il costume
pisano erano presenti degli statutari, che avevano l’esplicito compito di
apportare le dovute migliorie alle varie normative. Si ha testimonianza di
una prima stesura ai tempi della dominazione pisana (1272-1282) e con
le modifiche legate al patto con Genova già menzionato del 1294 e la
redazione finale in volgare - non più in latino - del 1316116. Occorre far
notare che il testo rimase in vigore nella forma originaria solamente per
15 anni dal momento che, nel 1331, si fece una grossa riforma di alcune
parti sostanziali della normativa, in modo tale da conformarla ai codici di
Barcellona117.

2.2.2 Analisi dei testi sulla donna


Dobbiamo precisare, in primo luogo, che, nel momento in cui si parla
di “benes patrimoniales” si indicano i possessi extradotali, cioè quelli ap-
portati oltre la dote della donna; mentre con “benes matrimoniales”, si
indicano quelli dotali, cioè obbliganti nel matrimonio a modo dotale118.

115
«Anche la parlata genovese è pochissimo presente nella versione volgare degli Statuti:
secondo il Wagner l’unica testimonianza sarebbe data dalla parola asteris che significa
“tranne”, “eccetto che”, ed è da ricondursi al genovese aster». F. Artizzu, La Sardegna
pisana…, cit., p. 209. Tuttavia alcuni studiosi ritengono che l’influsso genovese non
sia stato così inefficace, ma che abbia condizionato significativamente a livello politico
ed economico, soprattutto dopo il 1294, gli Statuti. Cfr. V. Piergiovanni, Il diritto
genovese e la Sardegna, in Gli Statuti Sassaresi…, cit., pp. 213-221.
116
Il problema della datazione è di rilievo, al punto che gli studiosi non hanno ancora
trovato prove inconfutabili che possano confermare qualche ipotesi. Cfr. A. Mattone,
Gli Statuti Sassaresi nel periodo aragonese e spagnolo, in Gli Statuti Sassaresi…, cit., pp.
415-418. Meloni ha fissato la prima redazione (1216) a cento anni dalla pubblicazione
ufficiale in volgare (1316), ma ci sembra un errore di battitura. Cfr. G. Meloni La
Sardegna nel quadro della politica mediterranea di Pisa, Genova, Aragona, in Storia dei
Sardi e della Sardegna, Volume II: Il Medioevo. Dai Giudicati agli Aragonesi, a cura di
M. Guidetti, Jaka Book, Milano 1987, p. 83.
117
Cfr. A. Mattone, Gli Statuti Sassaresi…, cit., pp. 424-428.
118
CSRS, l. II, p. 106, nota 1.
290 Michele Antonio Corona

La donna vedova119 e quella sposata a dote120 appaiono, nell’insieme delle


norme, giuridicamente meno capaci di compiere atti autonomi di acquisto
e vendita di beni, di dote e antefacto121. Nel caso della vedova, però, alcune
norme presentano la possibilità offerta alla donna di recuperare il proprio
antefatto e la dote entro l’anno dalla morte del marito, sia in presenza di
figli, sia che dal matrimonio non ne siano nati. Aveva inoltre la possibilità
di ricevere dalle proprietà del marito gli alimenti per dodici mesi, se non
avesse contratto nuove nozze. In caso di morte della donna, la dote veniva
accordata al marito o ai parenti di lei, ma se questa, nel testamento avesse
concesso in eredità qualche possesso, la cessione non sarebbe stata dichia-
rata valida122.
Nel documento viene affermata la legittimità di fare testamento libero
da parte di ogni donna, con la clausola che, per avere validità era neces-
saria la presenza del proprio padre o di parenti prossimi o di vicini123. Si
dava, anche, licenza a chiunque di lasciare l’eredità ai figli, mentre marito
e moglie potevano vicendevolmente donarsi non più della metà dei propri
beni coniugali124. Nel caso invece una persona fosse morta senza far te-
stamento e senza lasciare figli, i beni sarebbero stati incamerati dal padre,
il quale avrebbe potuto usarli e disporre di essi totalmente; in caso fosse
subentrata la madre del defunto, essa avrebbe potuto goderne, ma senza
avere diritti su essi, al punto di aver l’obbligo di fare un accurato inventario
alla presenza dei parenti prossimi del morto (chi è parente più prossimo
della propria madre?) pena l’affidamento dei beni ai parenti menzionati125.
Nella seconda parte si dichiara che i beni delle mogli sposate a modu sar-
discu dopo la loro morte sarebbero dovuti tornare ai parenti qui la dotarun;
ma se questa avesse fatto testamento a terze persone, si sarebbe dovuto

119
Cfr. CSRS, l. I, XLIX, p. 48.
120
Cfr. CSRS, l. I, L, p. 48.
121
Per antefatto si intendono i beni posseduti dalla donna prima del matrimonio, come se
fosse sposata assa sardisca. Antefatto era l’atto di costituzione di parte della dote prima
del contratto di matrimonio, che costituiva un terzo della dote, secondo l’articolo 140
del presente Statuto. Cfr. G. Madau Diaz, Il Codice degli Statuti del Libero Comune di
Sassari, Ed. Sarda F.lli Fossataro, Cagliari 1969, p. 184.
122
Cfr. CSRS, l. I, CIIII, pp. 74-75. Questo capitolo è il più ricco per la casistica presen-
tata e il più complesso per la sistemazione delle varie norme.
123
Cfr. CSRS, l. I, CV, p. 75.
124
Cfr. CSRS, l. II, I, p. 105.
125
Cfr. CSRS, l. II, II, p. 105.
La donna sarda nella Carta de Logu e in alcuni statuti coevi 291

seguire l’iter dell’inventario redatto alla presenza dei testimoni adeguati126.


Si afferma anche che nessun marito127 avrebbe potuto vendere e alienare i
beni della moglie, neppure col consenso di questa128; mentre i beni situati
fuori dal territorio comunale sarebbero potuti essere liberamente alienati
col solo permesso del coniuge. La vedova poteva vendere solo in necessità
e con l’approvazione dei propri figli e su consiglio dei parenti prossimi.
Tuttavia ogni azione non sarebbe dovuta mai essere lesiva del patrimonio
coniugale129.
Da questi risvolti normativi, si nota che la capacità giuridica della donna
di porre atti validi e responsabili era limitata. Essa poteva fare testamento
e alienare in linea generale, ma nei casi specifici doveva sempre sottostare
alla volontà del marito, alla supervisione del padre o dei parenti prossimi,
doveva sistemare la propria situazione con inventari e atti pubblici.
Alla donna, inoltre, sono riservati alcuni capitoli che presentano la sua
situazione nella vita quotidiana: il salario minimo per una donna che eser-
citava un mestiere per rimborsare un creditore era fissato in 24 soldi ge-
novesi all’anno, pari a 0,22 grammi d’argento al giorno130. Alle donne che
vendevano alimenti per strada era vietato compiere qualsiasi altro lavoro,
per evitare dubbi igienici sul prodotto commestibile131. Un’altra norma
legata all’igiene, è quella che vietava alle donne la possibilità di seguire i
cortei funebri132. Come già visto nella CdLA e nel Breve, anche negli Sta-
tuti, l’uomo-capo-famiglia aveva piena autorità sulla moglie e non gravava
126
Cfr. CSRS, l. II, II, p. 106.
127
Cfr. CSRS, l. II, III, p. 106.
128
Si nota ancor di più che i beni della moglie non sono giuridicamente tali, ma appar-
tengono alla sua famiglia d’origine.
129
Cfr. CSRS, l. II, III, p. 106.
130
Negli Statuti di Castelgenovese (attuale Castelsardo) all’operaio agricolo venivano dati
3 soldi al giorno, pari a circa 0,30 grammi d’argento, più una misura di grano. Cfr.
J. Day, Alle origini della povertà rurale, in Le opere e i giorni. Contadini e pastori nella
Sardegna tradizionale, a cura di F. Manconi – G. Angioni, Silvana Editoriale, Cagliari
1982, p. 13.
131
Cfr. CSRS, l. I, LXXXIII, p. 65. Si osservi anche la bizzarra nota esplicativa (1): «Questa
legge fu fatta per la mondezza, con cui devono essere venduti i commestibili, e forse
contro le donne di Sorso e di Sennori, e le rivendigliuole sassaresi, le quali usano filare
ed occuparsi di altro lavoro manuale, mentre vendono la frutta».
132
Il Tola ipotizza una singolare e bislacca motivazione: «Questa legge è diretta a mante-
nere nelle femmine il decoro, e la gentilezza del costume, e a impedire che la debolezza
del sesso loro rimanesse offesa dalla vista dei cadaveri umani». Cfr. CSRS, l. I, p. 69,
nota 5.
292 Michele Antonio Corona

su di lui alcuna pena in caso di comportamenti violenti, ferite o percosse,


verso gli appartenenti al proprio nucleo familiare133. Presentano curiosa-
mente differenze le pene pecuniarie inflitte a uomini e donne per le ferite
inferte a uomini liberi e a donne libere: la sanzione è sempre maggiore in
relazione alle lesioni sull’uomo, rispetto alla donna134. La subordinazione
tra uomo e donna liberi è confrontabile con quella tra libero e schiavo. In
entrambi i paragoni si evince il diverso trattamento giudiziario, sulla base
del pregiudizio sociale e sessuale.
In senso positivo si trovano due norme che parificano i due sessi: ogni
reato era sanzionato sia nel caso in cui lo avesse perpetrato una donna, sia
che lo avesse commesso un uomo135. In secondo luogo, uomo e donna po-
tevano liberamente denunciare all’autorità competente qualsiasi maleficio
entro otto giorni136. In queste due norme si nota da una parte la piena re-
sponsabilità penale di ognuno e, nel secondo caso, la possibilità concessa,
senza discriminazioni, di capacità personale nelle cause giudiziarie. Tale
principio positivo, però, può essere discusso sulla base della norma che
prevedeva la possibilità alla donna citata in giudizio di essere rappresentata
da una figura maschile, che ne avesse fatto le sue veci137. Ancora in ambito
testimoniale, la deposizione processuale di due donne era paragonata a
quella di un solo uomo. Inoltre la testimonianza femminile era accettata
e credibile solo nel caso in cui si fosse confrontata con quella maschile. Le
donne dovevano essere ascoltate nel loro stesso domicilio138. Si nota anche
in quest’ambito il giudizio di minore attendibilità sulla donna.

133
Cfr. CSRS, l. III, III, p. 140.
134
«Se una donna ne ferisce un’altra facendole fuoriuscire del sangue e lasciandole il segno
sul volto, deve pagare 10 libbre se fosse libera e 3 per la schiava; se la ferisse senza fuo-
riuscita di sangue paghi 40 solidi per la libera e 20 per la serva; se la ferisse in altra parte
del corpo oltre la viso, deve corrispondere 20 solidi per la libera e 10 per la schiava.
(…) Se una donna, invece, produce una ferita al volto, facendo uscire del sangue ad un
uomo deve pagare 10 libbre per il libero e 3 per il servo; se non uscisse sangue paghi 5
libbre per il libero e 20 solidi per il servo; se lo ferisse in altra parte del corpo sia tenuta
a pagare 5 libbre per il libero e 20 solidi per lo schiavo». Cfr. CSRS, l. III, VI-VII, pp.
143-144. [Nostra libera traduzione].
135
Cfr. CSRS, l. III, III, p. 142.
136
Cfr. CSRS, l. III, IX, p. 144.
137
Cfr. CSRS, l. III, IX, p. 144.
138
Cfr. CSRS, l. III, VIII, p. 144.
La donna sarda nella Carta de Logu e in alcuni statuti coevi 293

Conclusioni

Dopo aver presentato con attenzione i punti nodali circa la donna all’in-
terno dei documenti sardi medievali, lo sguardo si deve rivolgere al presente
e al futuro. La ricerca non è stata compiuta con il solo interesse storico di
riportare all’attenzione dei lettori alcuni dati sociologici, ma con l’inten-
zione di indicare la posizione della donna sarda medievale, che godeva di
specifiche responsabilità e significativa identità propria. Pertanto, il lettore
non si deve sentire appagato dalla conoscenza di questi dati, ma deve cer-
care di lasciarsi interrogare dal patrimonio storico, trovando in esso gli ele-
menti utili per favorire un cammino di reciprocità reale tra uomo e donna.
Pertanto, queste conclusioni non sono destinate a sancire un punto
fermo sulla questione femminile sarda, ma devono invitare al dialogo tutti
coloro che, avendo responsabilità civili e religiose, interessi storici e sociolo-
gici, prospettive identitarie e conservatrici, capacità di contatti con le altre
regioni italiane, sentono la crescente necessità di considerare il patrimonio
culturale come una base su cui proporre nuove piste antropologiche, so-
ciologiche ed etiche. La donna deve essere posta al centro della riflessione
e deve essere essa stessa protagonista della costruzione di una società più
equa e più attenta alle esigenze di chiunque. La proposta etica che si pro-
spetta, a tal punto, è rappresentata dal confronto armonico e sinergico tra
istanze culturali e storiche e la dignità umana nella sua pienezza. Solo nel
ricordo storico delle proprie origini, nella conoscenza delle vicende umane
e sociali che hanno generato la società in cui viviamo, nel riconoscere il
bisogno del dialogo con l’altro, si può giungere al riconoscimento unanime
e condiviso della pari dignità e del reciproco richiamo tra uomo e donna.

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