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LEZIONI DI TOPOGRAFIA
Anno Accademico 1998/99
PREFAZIONE
SOMMARIO
PARTE I:
ELEMENTI DI GEODESIA
PARTE II:
ELEMENTI DI CARTOGRAFIA
VI
Sommario
VII
Sommario
PARTE III:
TEORIA DEGLI ERRORI
PARTE IV:
STRUMENTI ED OPERAZIONI DI MISURA
VIII
Sommario
IX
Sommario
X
Sommario
PARTE V:
RILIEVI TOPOGRAFICI
XI
Sommario
XII
PARTE I
ELEMENTI DI GEODESIA
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Parte I – Capitolo 1
CAPITOLO 1
GENERALITA' E DEFINIZIONI – ELEMENTI DI GEODESIA
OPERATIVA
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Parte I – Capitolo 1
sulla superficie terrestre e la sua proiezione sul geoide presa lungo la verti-
cale);
c) misurazione sul geoide di angoli e distanze per definire la posizione relativa
di ciascun punto. Trattandosi di superficie curva è necessario definire sia gli
angoli che le distanze;
d) determinazione, sulla base delle misure fatte, della posizione dei punti e ciò
mediante coordinate curvilinee (u, v). A tal scopo è necessario definire
l’equazione del geoide, un sistema di coordinate curvilinee ed eseguire i do-
vuti calcoli sulle misure per ricavare le coordinate di ciascun punto;
e) costruzione, in scala opportuna, della porzione di geoide interessata al rilie-
vo, riporto su di essa del sistema di coordinate curvilinee e quindi di tutti i
punti rilevati tramite le relative coordinate. A questo punto, congiungendo
opportunamente con linee i punti proiettati, si possono evidenziare tutte le
particolarità del terreno. Per evidenziare l’andamento altimetrico, a fianco di
ciascun punto si riporta la sua quota: punti di eguale quota uniti danno luogo
alle curve di livello; un esempio di ciò è il mappamondo;
f) se però si vuole un supporto piano si deve ricorrere ad una rappresentazione
cartografica. Per far ciò si deve stabilire una corrispondenza biunivoca tra le
coordinate curvilinee u e v e le coordinate cartesiane del piano x ed y:
x = f (u,v )
(1)
y = g (u,v )
che si definiscono equazioni della carta. Poiché il geoide non è una superficie
sviluppabile sul piano la rappresentazione piana che si ottiene sarà deformata.
Fig. 1
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Parte I – Capitolo 1
sura di angoli e distanze che usiamo forniscono gli stessi angoli e distanze che si sa-
rebbero misurati sul geoide.
Anche le quote non possono essere misurate: noi misuriamo solo dislivelli per
cui basterà collegarsi ad un punto situato sul geoide per avere le quote di tutti i punti
misurati.
Ciò detto per risolvere i problemi detti occorre:
1) definire l’equazione del geoide;
2) definire il sistema di coordinate curvilinee;
3) definire la natura degli angoli e delle distanze da misurare;
4) definire i calcoli che permettono di ricavare le coordinate dalle misure;
5) specificare le equazioni della carta.
Difficoltà enormi: per fortuna esistono delle semplificazioni che possono sin-
tetizzarsi in:
a) per piccoli intorni la superficie del geoide può considerarsi piana;
b) per intorni di qualche centinaio di chilometri può considerarsi sferica;
c) differenziazione tra punti di inquadramento e punti di dettaglio.
I punti di inquadramento vengono effettuati con operazioni geodetiche e sono
distribuiti sul territorio a distanze di tre-quattro chilometri.
I punti di dettaglio si appoggiano a questi e sia per le misure che per i calcoli
possono intendersi come effettuati sul piano.
Tutto ciò vale solo per la planimetria non per le quote che debbono sempre es-
sere riferite al geoide.
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Parte I – Capitolo 1
Fig. 2
Ricordiamo che in generale indicando con dP uno spostamento infinitesimo si
ha:
dW = g × dP
cioè la derivata del potenziale secondo la direzione dP dà la componente del vettore
gravità in quella direzione; in particolare se la direzione individuata da dP è tangente
alla superficie equipotenziale passante per P risulta ovviamente
dW = 0 cioè g × dP = 0
da cui si deduce l’ortogonalità di g rispetto alla superficie equipotenziale.
Ciò detto il potenziale W è la somma del potenziale V relativo alla forza di at-
trazione newtoniana e del potenziale ν relativo alla forza centrifuga.
Il potenziale ν è di immediata deduzione
1 1
ν ( X ,Y ) = ω 2 r 2 = ω 2 ( X 2 + Y 2 )
2 2
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Parte I – Capitolo 1
Fig. 3
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Parte I – Capitolo 1
3. L'ellissoide terrestre
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Parte I – Capitolo 1
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Parte I – Capitolo 1
a cos ϕ e cos λe
X=
W
a cos ϕ e sen λe
Y= (11)
W
Z=
( )
a 1 − e 2 sen ϕ e
W
avendo posto
W = 1 − e 2 sen 2 ϕ e
I due angoli ϕe e λe possono
pertanto essere presi come coor-
dinate di un punto P sulla superfi-
cie ellissoidica (Fig. 5) e si indi-
cano col nome generico di co-
ordinate geografiche ellisoidiche
e col nome specifico di
- latitudine ellissoidica ϕe : si
specifica in latitudine nord e
latitudine sud a seconda che il
punto giaccia nell’emisfero
boreale o australe;
- longitudine ellissoidica λe, che
è l’angolo minore di 180° che
il semipiano meridiano pas-
sante per P forma con un se- Fig. 5
mipiano origine, assunto come
il semipiano passante per la planimetria sull’ellissoide di un punto G (osservato-
rio di Greenwich) della superficie terrestre: si specifica in longitudine est o lon-
gitudine ovest a seconda che il punto sia ad est o a ovest del meridiano di Gre-
enwich.
Alle linee λe = cost. corrispondono i meridiani, luogo dei punti che hanno la
stessa longitudine; alle linee ϕe = cost. corrispondono i paralleli, luogo dei punti che
hanno la stessa latitudine. Queste due famiglie di curve sono tra di loro ortogonali.
E’ importante osservare che i parametri ϕe e λe individuano sia la direzione di
una normale all’ellissoide che la posizione del punto per cui passa (coordinate curvi-
linee).
Se misurassimo direttamente i valori di ϕe e λe per tutti i punti della superficie
terrestre da rilevare avremmo con un solo atto realizzato tutte le operazioni descritte
nei punti a), b), c) e d) del par. 1.2..
Queste misure in effetti si possono eseguire con stazioni astronomiche, come si
vedrà in seguito, ma richiederebbero complesse apparecchiature e lunghe e raffinate
osservazioni per ottenere la precisione necessaria per cui si ritengono inapplicabili
allo scopo.
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Parte I – Capitolo 1
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Parte I – Capitolo 1
4.1. Generalità
Al punto c) del par. 1.2. abbiamo visto che, dopo aver proiettato i punti sulla
superficie di riferimento, è necessario poter misurare angoli e distanze fra i punti in
modo da poterne determinare la posizione reciproca.
Diviene quindi fondamentale definire gli angoli e le distanze che poi potremo
realmente misure.
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Parte I – Capitolo 1
e 2π.
Ciò posto si richiama il teorema di Clairaut espresso dalla formula
r senα = cos t
e dall’enunciato: sulle superfici di rotazione è costante per ogni punto della geodeti-
ca il prodotto del raggio del parallelo per il seno dell’azimut della geodetica.
Tale teorema è molto importante in quanto ci permette di definire con sempli-
cità le linee geodetiche di una superficie di rotazione e di individuarne il percorso.
Per es. una geodetica che esce da P con un angolo di 50° avrà il suo azimut
sempre crescente mano a mano che si allontana da P in quanto il raggio del parallelo
andrà diminuendo.
e) Dislivello
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Parte I – Capitolo 1
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Parte I – Capitolo 1
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Parte I – Capitolo 1
Per le quota, quindi, i limiti entro i quali si può assumere come superficie di ri-
ferimento la sfera sono molti più’ ristretti.
Tenendo conto della precisione con cui si possono ottenere i dislivelli con una
livellazione trigonometrica tale limite si può stabilire sui 20 km.
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Parte I – Capitolo 1
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Parte I – Capitolo 1
Poiché si possono misurare differenze di quota tra punti distanti 100 m con la
precisione del decimo di mm, con livellazione geometrica di alta precisione, si può
constatare che non è mai lecito sostituire il piano tangente nelle misure delle quote.
Fig. 13
do il teorema di Legendre (Fig. 13) che, in forma semplificata, si può così enunciare:
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Parte I – Capitolo 1
un triangolo sferico può essere risolto come un triangolo piano avente i lati della
stessa lunghezza del triangolo sferico e gli angoli uguali ai corrispondenti del trian-
golo sferico, diminuiti ciascuno di un terzo dell’eccesso sferico.
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Parte I – Capitolo 2
CAPITOLO 2
DETERMINAZIONE DELLE COORDINATE DI PUNTI SULLA
SUPERFICIE DI RIFERIMENTO
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Parte I – Capitolo 2
s = ( X + εY )2 + ( Y − 2εX )2
X + εY
tanα =
Y − 2εX
2.1. Generalità
Consideriamo un insieme di punti di inquadramento Pi (Cap.1 par. 1.3.) sull'el-
lissoide congiunti a due a due da archi di geodetica in modo da formare una rete di
triangoli e supponiamo di aver eseguito tutta una serie di misure di angoli e distanze
(Fig. 15).
Fig. 15
Si determinino le coordinate ϕa0 e λa0 di in punto P0, opportunamente scelto,
con una stazione astronomica (vedi seguito) e l'azimut αa0 di una geodetica uscente
da P0 e passante per uno dei punti Pi , nel nostro esempio sia P1 , e si assumano tali
misure come riferite all'ellissoide; ciò vale a dire che in tale punto si farà coincidere
la verticale, individuata dalle coordinate astronomiche, con la normale all'ellissoide,
ovvero che in tale punto si renderà l'ellissoide osculante (tangente) al geoide.
In tale operazione consiste il cosiddetto "orientamento dell'ellissoide" che però
va completata bloccando la possibilità che l'ellissoide ha di ruotare intorno alla nor-
male; ciò viene fatto facendo coincidere l'azimut αa0 con l'azimut ellissoidico.
In sintesi possiamo dire che in tale punto si avrà
ϕ a0 = ϕ e0 λ a 0 = λe 0 α a0 = α e0
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Parte I – Capitolo 2
Fig. 17
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Parte I – Capitolo 2
Fig. 18
3.1. Generalità
Gli argomenti trattati in questo capitolo sono utili al topografo quando esso
opera in zona totalmente prive di rilievi ma, fondamentalmente quando in tale zona è
necessario istituire una rete di punti di inquadramento.
Si è già visto come, operando sulla superficie terrestre, mediante misure di an-
goli e distanze e relativi calcoli con riferimento all’ellissoide, si può determinare la
posizione di un punto mediante le sue coordinate geografiche ellissoidiche, ϕe e λe ,
che, come già detto, danno la direzione della normale all’ellissoide in corrispondenza
del punto rilevato, con riferimento al piano dell’equatore ed al piano del meridiano
fondamentale di riferimento.
Le osservazioni astronomiche conducono invece alla determinazione delle co-
ordinate geografiche astronomiche o geoidiche, ϕa e λa , del punto in cui si sono
eseguite le osservazioni degli astri che differiscono dalle precedenti in quanto defini-
scono la direzione della verticale nel punto.
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Parte I – Capitolo 2
Avendo già visto che la verticale (normale al geoide) non coincide con la nor-
male all’ellissoide se non in punti molto particolari, se ne conclude che le due coppie
di coordinate differiscono da punto a punto.
Fig. 19
L’equatore celeste è il parallelo di raggio massimo, contenente il centro della
sfera celeste.
Contrariamente alle stelle, i componenti del sistema solare (sole, luna, pianeti,
satelliti, etc.), data la loro vicinanza alla terra, non possono considerarsi immutabili;
essi variano la loro posizione sensibilmente da un giorno all’altro.
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Parte I – Capitolo 2
L’ecclittica è un cerchio massimo nel quale si svolge il cammino del Sole sulla
sfera celeste; il piano dell’ecclittica è inclinato di 23°27′ sul piano dell’equatore e
interseca tale piano in due punti, γ e γ′, detti punti equinoziali (γ equinozio di prima-
vera, γ′ equinozio di autunno).
Il punto γ si sposta lungo l’ecclittica poiché l’asse terrestre, pur rimanendo
sempre inclinato rispetto al piano dell’ecclittica, descrive ogni 26.000 anni un cono
di 2 x 23°27′ ≅ 47° (precessione degli equinozi).
Oltre a questo movimento l’asse terrestre descrive nel periodo di circa 19 anni
un altro cono di apertura molto più piccola (nutazione) che determina spostamenti
del punto γ molto più piccoli di quelli dovuti alla precessione.
A parte questi movimenti, ben noti, il punto γ può considerarsi fisso sulla sfera
celeste.
Nelle considerazioni che seguono considereremo la sfera celeste di raggio uni-
tario poiché sono implicate soltanto direzioni e si possono applicare le formule della
trigonometria sferica; ogni punto sulla sfera individua con il centro una direzione e,
viceversa, ogni direzione uscente dal centro individua un punto sulla sfera.
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Parte I – Capitolo 2
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Parte I – Capitolo 2
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Parte I – Capitolo 2
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Parte I – Capitolo 2
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PARTE II
ELEMENTI DI CARTOGRAFIA
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Parte II – Capitolo 1
CAPITOLO 1
GENERALITA' E DEFINIZIONI – ELEMENTI DI TEORIA DELLE CARTE
1.1. Generalità
Si consideri sulla superficie di un cilindro un triangolo ABC i cui lati a, b e c
siano archi di geodetiche (in questo caso archi di eliche cilindriche); i corrispondenti
angoli α, β e γ saranno gli angoli formati dalle tangenti alle geodetiche (Fig. 1).
Fig. 1
Se ora tagliamo il cilindro secondo una generatrice e lo distendiamo sul piano
noteremo che il triangolo geodetico si deforma, nel senso che da figura spaziale di-
viene piana, però i lati, anche trasformandosi da archi di geodetiche a segmenti di
retta (geodetica del piano), mantengono la stessa lunghezza; analogo discorso vale
per gli angoli che mantengono inalterato il loro valore.
Il cilindro infatti, come anche il cono, sono figure sviluppabili sul piano; cioè si
possono distendere sul piano senza che gli angoli o lati di figure tracciate su di essi
subiscano deformazioni.
L'ellissoide invece, o nel caso più semplice la sfera, non è una superficie svi-
luppabile sul piano, nel senso che non è possibile distenderla sul piano senza che gli
angoli e i lati subiscano delle deformazioni.
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Parte II – Capitolo 1
Fig. 2
dsr il corrispondente nella rappresentazione (Fig. 2), il rapporto
ds
ml = r
ds e
dicesi modulo di deformazione lineare.
Esso varia con continuità da punto a punto della rappresentazione, perché nel
caso contrario si avrebbe una rappresentazione priva di deformazioni; si può mante-
nere uguale all'unità solo in particolari linee della rappresentazione.
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Parte II – Capitolo 1
Fig. 3
Fig. 4
rico arco di geodetica sull'ellissoide e l'azimut α' della corrispondente linea sulla
rappresentazione (Fig. 4), la differenza
mα = α' −α
dicesi modulo di deformazione angolare.
La deformazione di un angolo risulta anche dalle deformazioni delle due dire-
zioni che lo formano.
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Parte II – Capitolo 1
2.1. Generalità
Le equazioni di corrispondenza possono ottenersi per via geometrica, cioè pu-
ramente proiettiva, eseguendo da un opportuno centro P la proiezione dei punti del-
l'ellissoide su una superficie sviluppabile convenientemente disposta e ricavando poi
le deformazioni della rappresentazione sulla superficie spianata; si ottengono in tal
modo i sistemi di proiezione cartografica.
Le superfici sviluppabili sono il piano, il cilindro ed il cono che danno luogo a
diversi sistemi cartografici appresso indicati.
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Parte II – Capitolo 1
Fig. 5
A seconda della posizione del punto C di tangenza si avranno:
- proiezioni polari col piano tangente al polo;
- proiezioni azimutali col piano tangente in un punto qualunque della superficie
della sfera;
- proiezioni meridiane col piano tangente in un punto dell'equatore.
Tutte le proiezioni prospettiche sono afilattiche ad eccezione della stereografi-
ca che è conforme. La centrografica possiede il pregio di far corrispondere rette agli
archi di cerchio massimo, cioè alle geodetiche.
E' evidente come le deformazioni aumentino
allontanandosi dal punto C di tangenza; per conte-
nerle entro limiti accettabili è necessario limitare,
intorno al punto C, la zona della Terra da rappre-
sentare.
Per rappresentare zone molto ampie si ricor-
re alle rappresentazioni policentriche in cui si ese-
guono varie proiezioni spostando il piano di tan-
genza in modo opportuno.
A parità di deformazioni, si può aumentare il
raggio della zona della terra da cartografare ricor- Fig. 6
rendo all'artifizio di rendere il piano secante anzi-
ché tangente (Fig. 6).
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Parte II – Capitolo 1
Fig. 8
In Fig. 9 è indicato lo sviluppo sul piano di una proiezione cilindrica diretta li-
mitata ad una ampiezza di latitudine di ± 60°; si può notare che le immagini sia dei
meridiani che dei paralleli costituiscono due fasci di rette parallele fra loro ortogona-
li. Le distanze fra i meridiani risultano proporzionali alle differenze delle loro longi-
tudini mentre la distanza fra i paralleli è funzione della latitudine e le deformazioni
della carta crescono rapidamente con la latitudine.
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Parte II – Capitolo 1
Fig. 9
In Fig. 10 è indicato lo sviluppo sul piano di una proiezione cilindrica inversa
relativamente al semiellissoide compreso fra le longitudini di ± 90° ; da notare in
particolare che i meridiani di latitudine ± 90° si scindono in due semirette parallele
all'asse delle E.
Fig. 10
I meridiani risultano fortemente deformati all'aumentare delle differenze di
longitudine dal meridiano di tangenza; così pure i paralleli all'aumentare della latitu-
dine.
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Parte II – Capitolo 1
Fig. 11
Le proiezioni coniche sono afilattiche, mantenendo l'equidistanza solo sul pa-
rallelo di tangenza.
Per contenere le deformazione è necessario limitare in latitudine la fascia della
Terra che si può restituire; anche in questo caso si può aumentare la zona da carto-
grafare rendendo il cono secante secondo due paralleli lungo i quali la proiezione,
ovviamente, diviene equidistante.
Per la rappresentazione di vasti territori si ricorre ad una proiezione policonica;
cioè a proiezioni coniche ottenute con coni di apertura variabile; ad esempio su coni
tangenti a paralleli che differiscono di 4° di latitudine.
Come casi limite la conica diviene prospettica ai poli (apertura 180°) e cilin-
drica (apertura 0°) all'equatore.
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Parte II – Capitolo 1
3.1. Generalità
Le equazioni di corrispondenza indicate nel par. 1.6. possono essere stabilite
per via puramente analitica, e con ampia arbitrarietà, senza alcun riferimento ad una
proiezione geometrica.
Approfittando di tale arbitrarietà si possono imporre alla corrispondenza le
proprietà desiderate, cioè la conformità o l'equivalenza, ed insieme la equidistanza
lungo una linea o la rettilineità di tutti i meridiani o paralleli oppure di un assegnato
meridiano o parallelo.
La flessibilità dello strumento analitico permette anche di creare corrisponden-
ze afilattiche con moduli di deformazione molto piccoli realizzando un compromesso
ottimale fra le varie deformazioni.
Le realizzazione di carte con questo metodo danno luogo ai cosiddetti sistemi
di rappresentazione cartografica.
Il termine rappresentazione viene quindi usato in cartografia per indicare corri-
spondenze per via analitica, in alternativa a corrispondenze ottenute per via pura-
mente geometrica; in questo senso le proiezioni geometriche modificate dovrebbero
essere considerate delle rappresentazioni in quanto le modifiche apportate alle proie-
zioni derivano da condizioni imposte analiticamente.
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Parte II – Capitolo 1
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Parte II – Capitolo 1
Fig. 12
4.1. Generalità
Una carta è una rappresentazione sul piano della crosta terrestre secondo nor-
me e segni convenzionali assegnati; per tutti gli usi cui è destinata ogni carta deve
contenere la possibilità di misurare, entro tolleranze stabilite, distanze, angoli e disli-
velli fra due punti qualunque in essa rappresentati.
Un carta può essere formata da un unico elemento (foglio) o più elementi che
non debbono presentare soluzioni di continuità; è ovvio che ciò dipende dalla scala
che si adotta per rappresentare la superficie terrestre: una scala piccolissima permette
la rappresentazione di tutta la Terra in un unico foglio, mentre scale grandi necessi-
tano di molti fogli per rappresentare tutto il territorio.
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Parte II – Capitolo 1
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Parte II – Capitolo 1
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Parte II – Capitolo 1
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Parte II – Capitolo 1
Fig. 13
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Parte II – Capitolo 1
L'importanza di questa carta, ancora oggi largamente usata per le carte nautiche
e per la navigazione aerea, deriva dall'essere conforme e da avere meridiani e paral-
leli rettilinei.
In conseguenza di ciò se tracciamo sulla carta una retta che congiunge due
punti P e Q essa incontra sia i meridiani che i paralleli secondo angoli costanti; in
marina l'angolo più usato è l'angolo ρ che tale retta forma con i meridiani e che, es-
sendo la carta conforme, coincide con l'angolo che la linea corrispondente tracciata
sull'ellissoide forma con i meridiani.
Questa linea viene indicata con il nome di lossodromia e rappresenta il percor-
so che bisogna fare sulla Terra per andare da un punto P ad un punto Q mantenendo
una angolo di rotta costante (mediante la bussola); sulla carta del Mercatore si de-
termina semplicemente congiungendo i due punti con una retta e misurando con un
goniometro l'angolo che essa forma con i meridiani.
Si noti però che la lossodromia, sulla Terra, non rappresenta la rotta di minor
percorso coincidente con la geodetica PQ e detta ortodromia, la quale interseca i me-
ridiani secondo angoli sempre variabili (si ricordi il teorema di Clairaut Parte I Cap.1
par. 4.4.).
Per distanze PQ non troppo elevate la differenza tra le due rotte è trascurabile,
per cui si naviga secondo la lossodromia, di più facile ed immediata determinazione;
per distanze PQ elevate (attraversamenti di oceani) conviene percorrere una spezzata
di lossodromie che approssimi quanto meglio la ortodromia. Per il tracciamento della
ortodromia sulla carta del Mercatore è necessario l'ausilio di una carta realizzata in
proiezione centrografica in cui, come detto, la retta congiungente i due punti P e Q
rappresenta la geodetica.
Un altro pregio notevole della carta del Mercatore è che con essa si rappre-
senta con continuità tutta la Terra in un unico sistema di coordinate piane N ed E.
Lo svantaggio della carta del Mercatore deriva dal rapido accrescimento del
modulo di deformazione lineare con l'aumentare della latitudine; in conseguenza di
ciò la scala della carta, all'interno di ogni foglio, non è costante ma variabile da pa-
rallelo a parallelo e viene indicata per fasce di latitudini (Fig. 13).
In conseguenza di ciò la misura delle distanze sulla carta del Mercatore è scar-
samente precisa ma per l'uso che se ne fa ciò ha poca importanza.
Al disopra e al disotto di 80° di latitudine, a causa delle notevoli deformazioni,
la carta del Mercatore non viene praticamente usata.
La proiezione del Mercatore viene usata per allestire le carte nautiche e nella
Carta Aeronautica di Navigazione (plotting Cart) alla scala 1:2.000.000.
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Parte II – Capitolo 1
viamente maggiori dei raggi dei rispettivi paralleli e tale diseguaglianza aumenta al-
l'allontanarsi dall'origine degli assi a causa dell'aumento delle deformazioni.
Il modulo di deformazione può considerarsi uguale ad 1 nei dintorni del polo e
tende ad aumentare col diminuire della latitudine.
Fig. 14
Per mantenere le deformazioni in limiti accettabili tale proiezione si estende
non oltre i paralleli di ± 70° di latitudine. All'interno di tali limiti il modulo di defor-
mazione è così piccolo che ogni foglio della carta è da ritenersi a scala costante.
Un pregio fondamentale di tale carta è che la ortodromia tra due punti è rap-
presentata dalla retta congiungente; unendo così i due punti sulla carta con una retta
si possono misurare gli angoli di rotta da tenere per seguire il percorso minimo e so-
no gli angoli, sempre diversi, che la retta forma con i meridiani.
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Parte II – Capitolo 1
Fig. 15
Per contenere le deformazioni all'interno del graficismo per ogni elemento
della carta è necessario che l'ampiezza della latitudine della carta non superi 4°.
Quindi per cartografare vaste zone della Terra, a latitudini molto differenziate,
è necessario ricorrere a più sviluppi conici che hanno l'inconveniente di essere indi-
pendenti l'uno dall'altro, cioè hanno sistemi di coordinate N ed E diversi. Per tale
motivo questa proiezione si presta meglio per cartografare Stati che si estendono in
longitudine più che in latitudine.
I pregi di tale proiezione sono i medesimi messi in evidenza per la stereografi-
ca polare: grande approssimazione nella costanza della scala e nella rettilineità del-
l'ortodromia all'interno di ogni elemento.
E' una proiezione molto utilizzata; di essa sono note:
- la Carta Internazionale del mondo in scala 1:1.000.000 in fogli di 6° di longitudi-
ne per 4° di latitudine estesa tra + 4° e + 72° di latitudine Nord e – 4° e – 72° di
latitudine Sud ed integrata dalla carta del Mercatore tra – 4° e + 4° di latitudine e
dalla stereografica polare tra ± 72° e ± 90°la carta Aeronautica del Mondo OACI-
WAC in scala 1:1.000.000;
- la carta Aeronautica del Mondo in scala 1:1.000.000 allestita dalla Coast and
Geodetic Survey degli USA; la proiezione di Lambert è stata usata per le qua-
ranta fasce di ampiezza di 4° comprese fra – 80° e + 80° di latitudine integrata
dalla stereografica polare per le calotte polari;
- la Carta Aernautica regionale d'Italia in scala 1:500.000 in 11 fogli;
- la carta degli USA.
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Parte II – Capitolo 2
CAPITOLO 2
LA CARTOGRAFIA UFFICIALE DELLO STATO ITALIANO
LA CARTOGRAFIA CATASTALE
Fig. 16
La sua genesi la dovrebbe porre fra le rappresentazioni, ma viene comune-
mente indicata col nome di proiezione in quanto può ritenersi ottenuta col seguente
procedimento:
- si inscrive l'ellissoide in un poliedro le cui facce, a forma di trapezio isoscele, gli
sono tangenti in punti distribuiti ad intervalli regolari di latitudine e longitudine;
1998/99 F.Resta 51
Parte II – Capitolo 2
- si proiettano i punti dell'ellissoide su tali facce dal suo centro (proiezione centro-
grafica).
Ogni faccia rappresenta quindi una carta a se stante con un proprio centro C
(punto di tangenza) diverso da quello delle altre carte del sistema e per tale motivo la
proiezione viene detta policentrica.
L'asse N corrisponde al meridiano centrale e l'asse E al parallelo per C.
I pregi di questa proiezione derivano dal fatto che, limitando opportunamente
gli intervalli di latitudine e di longitudine da cartografare, essa, oltre che equivalente,
risulta anche praticamente equidistante e quindi anche praticamente conforme nel-
l'ambito di ogni carta.
L'inconveniente principale consiste nel fatto che i sistemi di coordinate piane N
ed E sono diversi da carta a carta; pertanto se si vuol calcolare la distanza fra due
punti appartenenti a carte diverse, anche contigue, bisogna ricorrere alle loro coordi-
nate geografiche.
Per la cartografia Italiana gli intervalli di longitudine e latitudine sono stati fis-
sati in 30' e 20' rispettivamente; in tal modo si sono ottenuti i 284 fogli che coprono
tutto il territorio italiano.
Ulteriori suddivisioni dei fogli in quattro parti, denominate quadranti, e dei
quadranti in quattro parti, denominate tavolette, hanno portato alla seguente organiz-
zazione della cartografia italiana (Fig. 17):
- Fogli che coprono una porzione di
territorio di 30' di longitudine e 20'
di latitudine, sono restituiti in scala
1:100.000 ed indicati con un nu-
mero arabo da 1 a 284;
- Quadranti, ottenuti dalla suddivi-
sione di un foglio in quattro parti,
che coprono una porzione di terri-
torio di 15' di longitudine e 10' di
latitudine, sono restituiti in scala
1:50.000 ed indicati con un nu-
mero romano, I quello ad orienta-
mento NE e gli altri tre numerati in
senso orario;
- Tavolette, ottenute dalla suddivi- Fig. 17
sione di un quadrante in quattro
parti, che coprono una porzione di
territorio di 7'30'' di longitudine e 5' di latitudine, sono restituiti in scala 1:25.000
e denominati con l'orientamento cardinale (NE, SE, SO, NO) ed il nome della lo-
calità più caratteristica in esse cartografata.
L'origine delle longitudini, che determina il taglio geografico delle carte, è il
meridiano astronomico di Roma M. Mario (passante per un punto dell'Osservatorio
Astronomico di Roma M. Mario) mentre l'origine delle latitudini è stato assunto dal-
l'equatore.
Come ellissoide di riferimento fu assunto l'ellissoide di Bessel orientato in un
punto situato presso l'Osservatorio di Genova.
52 1998/99 F.Resta
Parte II – Capitolo 2
Fig. 18
1998/99 F.Resta 53
Parte II – Capitolo 2
per tutta la Terra adottando la rappresentazione conforme di Gauss tra –80° e +80° di
latitudine e la proiezione stereografica polare per le calotte polari ed adottando come
ellissoide quello di Hayford, da allora indicato come ellissoide internazionale.
I sistemi cartografici ottenuti vengono denominati UTM (Universal Transverse
Mercator) la prima per la nota similitudine detta, ed UPS (Universal Polar Stereo-
grafic) la seconda.
Nel sistema UTM la Terra è divisa in 60 fusi (Fig. 18) di 6° di longitudine nu-
merati da 1 a 60 procedendo da Ovest verso Est e dando il numero 01 al fuso com-
preso fra 180° e 174° ovest da Greenwich; con tale numerazione il fuso 31 è compre-
so tra 0° e 6° est di Greenwich, il 32 tra 6° e 12° ed il 33 tra 12° e 18° (questi due ul-
timi sono quelli interessanti l'Italia che sborda anche nel 34 fuso per parte della peni-
sola salentina).
Per identificare in modo rapido un punto sulla superficie terrestre si è seguita la
seguente procedura:
- ogni fuso è stato suddiviso in 20 zone di 8° di latitudine ciascuna, individuate da
una lettera maiuscola (l'Italia fa parte delle zone S e T tratteggiate in Fig. 18);
- ciascuna zona è stata suddivisa in quadrati di 100 Km di lato con rette parallele
agli assi N ed E individuati da due lettere maiuscole.
Un punto viene identificato dal numero del fuso, dalla lettera della zona, dalla
coppia di lettere del quadrato ed infine dalle sue coordinate piane.
Ricordiamo che nella rappresentazione di
Gauss le coordinate piane di un punto sono in-
dividuate con riferimento ai due assi N ed E in
cui l'asse N è individuato dal meridiano cen-
trale di ciascun fuso, mentre l'asse E è indivi-
duato dall'equatore.
Nella cartografia UTM la coordinata N ha
origine dall'equatore mentre alla coordinata E si
aggiunge sempre la quantità di 500 km esatti
per renderla positiva comunque; in pratica ciò
equivale a far corrispondere al meridiano cen-
trale la coordinata E0 = 500 km (Fig. 19) o, co- Fig. 19
me suol dirsi, ad avere un falso Est pari a 500
km (500.000 m).
Si è già detto che nella rappresentazione di Gauss il modulo di deformazione
lineare è uguale ad 1 sul meridiano centrale e cresce rapidamente con l'allontanarsi
dall'asse N (par. 5.3.) e che, per limitare le fortissime deformazioni, si limita la zona
da cartografare ad un fuso di ampiezza pari a 6°.
Con tale limitazione, alle nostre latitudini si ottiene una deformazione massima
(dilatazione) delle distanze ai bordi del fuso pari a 80 cm/km ( 0,8 ‰). Ricordando
che le tolleranze grafiche ammissibili su una tavoletta in scala 1:25.000 sono pari a 5
m (par. 6.4.) e che su tale carta, per l'Italia, si possono misurare distanze massime di
14 km, si può notare che la deformazione massima, pari a circa 11 m, è notevolmente
superiore alla tolleranza.
Per ridurre tale problema, nella cartografia UTM viene applicata una contrazio-
ne a tutto il piano della rappresentazione, ottenuta moltiplicando tutte le coordinate
per la costante 0,9996, detta coefficiente di contrazione; in tal modo le deformazioni
lineari, invece di essere sempre dilatazioni comprese tra 0 sul meridiano centrale e +
54 1998/99 F.Resta
Parte II – Capitolo 2
0,8‰ al margine del fuso, risultano sempre comprese tra – 0,4‰ (contrazione mas-
sima sul meridiano centrale) e +0,4‰ (dilatazione massima al margine del fuso) e
quindi sempre assorbite dal graficismo (la deformazione massima risulta di 5,6 m su
una tavoletta).
Con tale artifizio il modulo di deformazione lineare (compreso tra i limiti
0,9996 e 1,0004 all'interno di un fuso) all'interno di ogni tavoletta ha delle variazioni
talmente piccole da poterle considerare nulle e quindi tale da poter considerare la
carta, all'interno di ogni tavoletta, praticamente equidistante.
Un'altra caratteristica fondamentale della cartografia UTM è la presenza su
ogni carta di un reticolato a maglie quadrate di 1 Km di lato sul terreno; le rette che
formano questo reticolato sono tracciate parallelamente agli assi N ed E per valori
tondi alle unità del Km e sono numerate di Km in Km sui bordi della carta.
Ricordando come si deformano i meridiani ed i paralleli nella rappresentazione
di Gauss rispetto al meridiano di tangenza ne risulta che il reticolato chilometrico ri-
sulta disorientato rispetto al reticolato geografico e tale disorientamento tende ad
aumentare allontanandosi dal meridiano centrale.
Fig. 20
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Parte II – Capitolo 2
Fig. 21
Nella Fig. 21 è riportata una tavoletta in scala 1:25.000 della cartografia italia-
na dove si notano:
- il reticolato geografico indicato solo sui bordi con tratti bianchi e neri dell'am-
piezza di 1';
56 1998/99 F.Resta
Parte II – Capitolo 2
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Parte II – Capitolo 2
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Parte II – Capitolo 2
1998/99 F.Resta 59
Parte II – Capitolo 2
Fig. 25
Nella tavoletta indicata in Fig. 25 in corrispondenza del vertice NE leggiamo
nella tabella le seguenti coordinate:
E = 1453880 m N = 4529730 m
per cui il primo contrassegno Gauss-Boaga che incontriamo nella direzione delle E
avrà coordinata 1453 km e quindi disterà dal vertice 880 m, mentre nella direzione N
60 1998/99 F.Resta
Parte II – Capitolo 2
il primo contrassegno avrà coordinata 4529 km e disterà quindi dal vertice 730 m.
Tutti gli altri contrassegni si determineranno per conseguenza sapendo che distano
tra di loro 1 km.
Si noti che i due contrassegni del reticolato Gauss-Boaga hanno le stesse coor-
dinate chilometriche dei contrassegni del reticolato UTM immediatamente vicini
(ovviamente per la E ciò vale a meno di 1000 km in quanto all'origine è stata data
una coordinata di 1500 km contro i 500 km dell'UTM) per cui nelle tavolette che pre-
sentano il reticolato UTM sono di immediata lettura le coordinate del reticolato
Gauss-Boaga.
Lo sfasamento esistente tra i due reticolati deriva, come detto nel paragrafo
precedente, dal diverso orientamento dell'ellissoide e quindi la stessa coordinata de-
scrive punti diversi.
Sulla tavoletta è anche presente il reticolato geografico nel sistema Gauss-
Boaga rappresentato dalla latitudine e dalla longitudine ellissoidiche e tracciato solo
sui bordi a tratti bianchi e neri di ampiezza pari ad 1'; sui vertici sono indicate per
esteso le relative coordinate geografiche: la latitudine a partire dall'equatore, la lon-
gitudine da M. Mario.
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Parte II – Capitolo 2
Fig. 26
62 1998/99 F.Resta
Parte II – Capitolo 2
La tavoletta indicata in Fig. 27 è un'altra edizione ancora che contiene per este-
so il reticolato UTM in colore nero; in essa sono stati evidenziati i reticolati geogra-
fici che si riferiscono, come nelle due tavolette precedenti, sempre al sistema Gauss-
Boaga.
Fig. 27
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Parte II – Capitolo 2
Fig. 28
64 1998/99 F.Resta
Parte II – Capitolo 2
Fig. 29
Per esempio la curva fondamentale evidenziata a sinistra nella figura, posta so-
pra il toponimo "Serra de Mesu", avrà quota di 75 m in quanto rappresenta il multi-
plo di 25 più prossimo a 93 che rappresenta la quota della cima della collinetta; ana-
logamente le altre due evidenziate avranno, rispettivamente prese in senso antiorario,
quote di 75 m e 125 m.
Analogamente le curve direttrici, dovendo essere multiple di 100, avranno en-
trambe quote di 100 m, mentre le curve ausiliarie, prese da sinistra a destra, avranno
quote di 80 m e 65 m.
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Parte II – Capitolo 2
Fig. 30
Questo angolo è in definitiva l'angolo tra due meridiani, quello centrale del fu-
so e quello passante per il punto considerato ed è stato già indicato nel par.1.1.1.
della parte I col nome di convergenza.
La formula semplificata per il suo calcolo, che si richiama, è
γ = ∆λ . sinϕ
dove ∆λ indica la differenza di longitudine tra il meridiano passante per il punto ed
il meridiano centrale e ϕ la latitudine del parallelo passante per il punto.
Su molte tavolette dell'IGMI (Fig. 25) viene indicato il valore di tale angolo al
centro della carta (Fig. 31) in una apposita tabella, posta in genere sul lato destro,
dove viene riportato anche il valore della declinazione magnetica δ al centro della
carta e l'andamento delle linee di uguale declinazione.
Come si noterà,
nella tabella sono indicati
il Nord geografico (N)
che è individuato dalla
direzione dei meridiani,
il Nord reticolato (Nr)
che è individuato dalla
direzione del reticolato, il
Nord magnetico (Nm)
che è individuato dalla
bussola; quest'ultimo non
è costante nel tempo per
cui il valore della decli-
nazione magnetica, cioè
dell'angolo che tale dire- Fig. 31
zione forma col Nord
geografico, indicato nella tabella (3°32') è definito temporalmente (1 gennaio 1959)
e viene anche indicata la sua variazione annuale (7') ed il suo verso (Est); volendone
66 1998/99 F.Resta
Parte II – Capitolo 2
conoscere il valore oggi (1999) bisognerà sottrarre al valore indicato il valore 7'.40 =
280' ottenendo 1° 08' a destra del Nord geografico.
In molte tavolette il valore della declinazione non viene riportato e la tavoletta,
o parte di essa, viene riportata in tratteggio con la scritta "Z.A." ciò che sta a signifi-
care che si è in presenza di una zona anomala magneticamente; per esempio la pre-
senza di rocce ferrose che impedisce l'uso della bussola.
La convergenza, all'interno di una ta-
voletta, si può anche determinare in modo
approssimato facendo uso della tabella delle
coordinate dei vertici e considerando i meri-
diani come delle rette (in ciò sta l'approssi-
mazione).
Sempre riferendosi alla tavoletta rap-
presentata in Fig. 25 si considerino i due
vertici NE e SE di cui sono note le coordi-
nate (Fig. 32): l'angolo γ si ricava semplice-
mente da
∆E 58 60
tanγ = = da cui γ = 0°,36∗ = 0°22'
∆N 9251 100
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Parte II – Capitolo 2
Fig. 33
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Parte II – Capitolo 2
Fig. 34
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Parte II – Capitolo 2
Fig. 35
70 1998/99 F.Resta
Parte II – Capitolo 2
Si notino le coordinate di Roma M.Mario riportate che, per essere riferite al-
l'orientamento medio europeo (E.D.50), differiscono dalle precedenti riportate nelle
vecchie tavolette; in particolare la longitudine risulta di 12°27'10'',93, diversa da
quella indicata nel par. 1.3. e pari a 12°27'08'',40.
Fig. 36
La rappresentazione di Cassini-Soldner è afilattica; riducendo però la distanza
dal centro di sviluppo entro un raggio di 70 km la rappresentazione si può considera-
re praticamente equivalente, cioè con modulo di deformazione areale pari a 1; a tale
distanza la deformazione lineare raggiunge il valore massimo di 6 cm per chilometro
nelle direzione del meridiano, cioè dell'asse delle X, mentre è nullo nella direzione
del parallelo. All'interno di tale zona si può sostituire all'ellissoide la sfera locale e
quindi i due archi di geodetiche P'Q' ed O'Q' divengono archi di cerchio massimo
con notevole semplificazione nei calcoli.
Il Catasto Italiano ha quindi suddiviso il territorio nazionale in 35 zone omo-
genee per ognuna delle quali è stato definito un centro di sviluppo, in generale coin-
cidente con un punto trigonometrico del primo ordine (non sempre).
1998/99 F.Resta 71
Parte II – Capitolo 2
Fig. 37
Si noti l'essenzialità delle informazioni: i confini delle proprietà, dei numeri o
lettere per la loro individuazione, alcuni toponimi fondamentali.
Altra caratteristica delle mappe catastali è che le informazioni contenute non si
estendono a tutto il foglio ma si interrompono su di un confine ben delimitato (una
72 1998/99 F.Resta
Parte II – Capitolo 2
strada nel caso in fig.) che sarà riportato anche nel foglio adiacente (F° 22 nel caso in
Fig. 37).
In Sardegna vi è un solo centro di sviluppo, pur se le dimensioni eccedono i li-
miti anzidetti; tale centro non coincide con un punto trigonometrico del primo ordine,
come di solito avviene, ma è un punto virtuale situato all'intersezione del meridiano
passante per il punto trigonometrico del primo ordine situato sulla Torre di San Pan-
crazio a Cagliari ed il parallelo situato alla latitudine di 40°, secondo l'ellissoide di
Bessel orientato a Genova.
1998/99 F.Resta 73
Parte II – Capitolo 2
Fig. 38
74 1998/99 F.Resta
Parte II – Capitolo 2
quando si lavora ai confini della Sezione per ritrovare immediatamente le sezioni ne-
cessarie.
A fianco del quadro d'unione è anche riportato l'inquadramento della Sezione
nella tavoletta corrispondente della cartografia dell'IGMI.
Fig. 39
La nuova cartografia
L'esempio indicato in Fig. 40 si riferisce ad una Sezione della Gallura e, ri-
spetto alla precedente, riporta tutti i reticolati, geografico e chilometrico UTM, chi-
lometrico Gauss-Boaga; può ingenerare confusione il fatto che il reticolato chilome-
trico UTM è stato indicato con il simbolo generalmente usato per indicare il retico-
lato chilometrico Gauss-Boaga.
Il reticolato chilometrico Gauss-Boaga, come per la precedente, è indicato in
tutta la Sezione con i relativi parametri (in fig. sempre indicati a tratto più spesso).
Nel riquadro sono indicati anche i parametri per convertire coordinate chilo-
metriche UTM in Gauss-Boaga, e viceversa.
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Parte II – Capitolo 2
Fig. 40
76 1998/99 F.Resta
Parte II – Capitolo 2
Nella Fig. 41, sempre riferita alla sezione precedente, si può notare la simbolo-
gia utilizzata per l'altimetria che prevede curve fondamentali ogni 10 m, curve diret-
Fig. 41
trici ogni 50 m e curve ausiliarie ogni 5 m; la differenza fondamentale rispetto alla
cartografia IGMI consiste nel fatto che le curve direttrici hanno indicata la quota re-
lativa che gli compete.
1998/99 F.Resta 77
998/99 F.Resta
PARTE III
TEORIA DEGLI ERRORI
998/99 F.Resta
998/99 F.Resta
Parte III – Capitolo 1
CAPITOLO 1
ELEMENTI DELLA TEORIA DELLE PROBABILTA’
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Parte III – Capitolo 1
n−m
q= (2)
n
Ovviamente si deduce che la somma delle probabilità dell’evento atteso e di
quello contrario è uguale all’unità
p+q=1 (3)
come del resto appare logico in quanto si ha "a priori" la certezza che all’atto di una
prova si presentino l’uno o l’altro dei due eventi.
Si consideri, per es., una prova costituita dal lancio di due dadi: in tale prova i
casi possibili sono 36 in quanto ad ogni faccia del primo dado si può associare una
qualsiasi faccia del secondo. Se si vuole conoscere la probabilità che la somma dei
numeri usciti valga, ad esempio, 2 o 4 si deve contare il numero dei casi favorevoli
che vale 1 nel primo caso (l’evento si verifica solo se su entrambi i dadi appare il
numero 1) e 3 nel secondo (l’evento si verifica con le seguenti combinazioni 1+3,
2+2 e 3+1): la probabilità degli eventi detti vale quindi 1/36 e 3/36.
Da quanto detto, e dall’esempio sopra riportato, sembra che la misura della
probabilità sia estremamente semplice richiedendo al più una certa accuratezza nella
determinazione dei casi possibili e di quelli favorevoli.
Le cose in effetti non stanno in questa maniera in quanto la definizione ha una
sua validità a condizione che i casi possibili siano tutti ugualmente probabili.
La definizione di probabilità matematica ha quindi una sua validità quando ci
si possa ridurre ad una enumerazione di casi ugualmente probabili e presuppone la
formulazione "a priori" di un giudizio di uguale probabilità.
Questo è evidentemente possibile in molti eventi aleatori riportabili a schemi
di giochi d’azzardo o di estrazioni da urne (che anzi tali eventi sono proprio basati su
tale principio); diviene invece estremamente difficile e per lo più impossibile in tutti
quei fenomeni aleatori che interessano la scienza e la tecnica e che ovviamente rive-
stono un interesse prevalente.
In tali casi la definizione classica "a priori" cade in difetto e sta in ciò la ragio-
ne della limitata applicabilità e dello scarso sviluppo che ebbe il calcolo delle proba-
bilità classico che su tale definizione si basava.
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Parte III – Capitolo 1
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Parte III – Capitolo 1
84 1998/99 F.Resta
Parte III – Capitolo 1
3 2 3
P= * =
5 4 10
Stabilita la regola valida per eventi che discendano per prodotto logico da al-
tri eventi aleatori, rimane da considerare quelli derivanti da somma logica.
Per tale problema vale il principio delle probabilità totali che così può enun-
ciarsi: la probabilità totale di un evento E che all’atto di una prova può presentarsi
secondo due o più modalità, E1 E2…En, tra loro diverse ed escludentesi vale la som-
ma delle probabilità che a ciascuna di tali modalità compete:
p E = p E1 + p E2 + .... p En (6)
Come esempio consideriamo un’urna che contenga nB = 20 palline bianche, nR
= 50 palline rosse ed nN = 30 palline nere: vogliamo sapere quale è la probabilità che
venga estratta una pallina non nera. L’evento atteso si manifesta sia che venga
estratta una pallina rossa sia che venga estratta una pallina bianca, modalità distinte
ed escludentesi, per cui la sua probabilità vale (20/100) + (50/100) = 70/100.
Il principio ora enunciato si presta ad alcune contraddizioni se non si tiene bene
a mente che la sua applicazione è possibile solo se le modalità con cui si presenta
l'evento si escludano mutuamente, e ciò comporta una analisi molto approfondita
della prova e dell'evento atteso.
Si consideri, per es., di lanciare due dadi e si voglia calcolare la probabilità che
esca almeno una volta il numero 5 su uno o sull'altro dei due dadi; ad una analisi su-
perficiale sembrerebbe di essere in presenza di un evento cui poter applicare il prin-
cipio delle probabilità totali ed ottenere quindi
1 1 1
p= + =
6 6 3
Ad una più attenta riflessione però si può constatare che le due modalità con
cui l'evento si può presentare non si escludono in quanto il 5 può presentarsi sia sul-
l'uno che sull'altro dei due dadi.
In questo caso è preferibile calcolare la probabilità q che si verifichi l'evento
contrario e quindi risalire alla probabilità p dell'evento atteso dall'equazione
p = 1− q
L'evento contrario si verifica quando contemporaneamente su entrambi i dadi
si presentano numeri diversi da 5 per cui si tratta di una probabilità composta e vale
5 5 11
q= * per cui p = 1 − q =
6 6 36
Il problema si risolve anche dando una definizione più generale del principio
delle probabilità totali nel seguente modo: la probabilità di un evento E che può pre-
sentarsi in due modalità E ed E tra loro non escludentisi vale la somma delle proba-
bilità che competono a ciascuna delle due modalità diminuita della probabilità com-
posta delle due modalità stesse supposte stocasticamente indipendenti
p E = p E1 + p E2 − p E1 * p E2 (7)
Nell'esempio sopra riportato si avrebbe
1 1 1 11
p= + − =
6 6 36 36
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Parte III – Capitolo 1
86 1998/99 F.Resta
Parte III – Capitolo 1
u-2 nere vale p 2 q u −2 ; ma di configurazioni che contengono due palle bianche co-
u
munque disposte ce ne sono , per cui la probabilità totale varrà
2
u
P2 = p 2 q u −2 .
2
In generale la probabilità che si presenti la configurazione con i palle bianche
ed u-i palle nere vale
u
Pi = p i q u −i (8)
i
con
u u!
= (9)
i i!(u−i )!
Infine la probabilità che si presentino solo palle bianche (i=u) vale
u
Pu = p u
u
Eseguendo una serie di u prove la probabilità che si presenti una qualunque
delle configurazioni dette (0 palle bianche, 1 palla bianca, .......u palle bianche) è una
probabilità totale
P= P0 + P1 + ....Pi + .....Pu
che deve valere 1 in quanto rappresenta la certezza; ed infatti se sostituiamo ai valori
delle probabilità le formule trovate riscontriamo che il secondo membro della for-
mula rappresenta lo sviluppo del binomio di Newton che vale
( p+q )u
ed essendo p + q = 1 si ottiene
P=1
Ovviamente da quanto detto ne consegue che la probabilità che l’evento atteso
sia l’uscita di una qualunque delle configurazioni comprese tra due limiti -l e +l sarà
i =+ l
u
P−+l l =∑ p i q u −i (10)
i =− l i
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Parte III – Capitolo 1
15 35
* 50 = 15 palle bianche e * 50 = 35 palle nere
50 50
Se la serie di prove fosse di 80 si avrebbe la configurazione normale di
24 palle bianche e 56 nere.
Ricordando la legge empirica del caso ciò significa che se eseguiamo
l’esperienza (consistente in una serie di 50, o 80, estrazioni) un numero di volte
molto elevato e prendiamo nota della frequenza con cui si presentano le varie confi-
gurazioni, la configurazione corrispondente alla frequenza massima dovrebbe rappre-
sentare la configurazione di probabilità normale; si noti che avendo, nel primo esem-
pio, preso in esame un’esperienza consistente in una serie di estrazioni pari al nume-
ro totale di palle bianche e nere, ciò ci permetterebbe di conoscere il numero di palle
bianche e nere contenute nell’urna.
Fig. 1
88 1998/99 F.Resta
Parte III – Capitolo 1
Si noti che per u dispari si hanno due massimi; ciò vuol dire che le configura-
zioni corrispondenti hanno uguale probabilità.
Fig. 2
La formula (12), ove u sia molto grande talchè i rapporti v/up e v/uq risultino
minori dell’unità, si può, con opportuni passaggi, trasformare nella formula semplifi-
cata
v2
1 −
pv = e 2 upq
(13)
2πupq
1998/99 F.Resta 89
Parte III – Capitolo 1
5. La funzione θ(γ)
Come si vedrà in seguito nei problemi del calcolo delle probabilità e della teo-
ria degli errori ricorre spesso l'integrale
γ
F = lim ∫ e − x dx
2
(14)
γ →∞
0
Tale integrale, sviluppando i calcoli, risulta
π
F= (15)
2
Consideriamo ora la funzione
γ
2
θ (γ ) = ∫e
dx − x2
(16)
π 0
Essa si annulla per γ = 0 e cresce al crescere di γ e tende al limite
lim θ (γ ) = 1
γ →∞
90 1998/99 F.Resta
Parte III – Capitolo 1
Volendo conoscere la probabilità che lo scarto ν sia compreso tra due limiti -a
e +a si applicherà il principio delle probabilità totali ottenendo
ν =+ a
h − h 2ν 2
p −+aa = ∑ e
ν =− a π
Introducendo la variabile x = hν si potrà considerare l’incremento ∆x come
l’incremento al quale corrisponde un incremento di ν, cioè ∆ν ; ma poiché lo scarto ν
rappresenta un numero di prove, l’incremento ∆ν sarà rappresentato dall’unità e
quindi si avrà
∆x = h
Sostituendo, e ponendo γ = ha si avrà
1 x = +γ
∑ ∆x e − x
2
p −+aa =
π x = −γ
Aumentando sempre il numero delle esperienze, la sommatoria può essere so-
stituita con l’integrale, ed allora si avrà
+γ γ
1 2
∫ ∫ e − x dx = θ (γ )
2 2
+a −x
p −a = e dx = (18)
π −γ π0
Quindi la probabilità che lo scarto sia compreso entro i limiti ±a è rappresen-
tata dalla funzione θ(γ) assumendo per γ il valore ha. Il valore ottenuto rappresenta
anche la probabilità che la configurazione con i palle bianche sia compresa nell'inter-
vallo pu-a e pu+a.
Tutte le considerazioni fatte ci permettono di fare il passo successivo conside-
Fig. 3
rando la funzione probabilità dello scarto come una funzione continua nel campo dei
numeri reali.
Se si riportano in ascisse gli scarti ed in ordinate le relative probabilità la fun-
zione si presenta nel seguente modo, detta curva a campana,
Tale curva presenta le seguenti caratteristiche:
1998/99 F.Resta 91
Parte III – Capitolo 1
92 1998/99 F.Resta
Parte III – Capitolo 2
CAPITOLO 2
MISURE DIRETTE ED INDIRETTE
1.1. Definizione
Si definisce misura diretta di una grandezza il numero reale che esprime il rap-
porto della grandezza da misurare rispetto ad un’altra assunta come unità di misura.
Esempio classico è la misura di una lunghezza che si ottiene comparandola col
metro campione, assunto come unità di misura.
La definizione data si riferisce però a modelli astratti di grandezze misurate in
quanto, andando ad eseguire la misura reale di una grandezza nella realtà fisica, ci
rendiamo conto dell’impossibilità di determinare la grandezza vera ( per es. il punto
non è più un’entità astratta ma concreta dotata di dimensioni, etc.).
Diremo che, misurando una grandezza varie volte, ne otterremo sempre valori
leggermente diversi tra i quali scegliere il valore che più sia rappresentativo della
grandezza misurata.
Nei prossimi paragrafi si esporrà il procedimento per effettuare tale scelta ma
prima daremo una rapida descrizione degli errori che si possono commettere quando
si esegue una misura.
1998/99 F.Resta 93
Parte III – Capitolo 2
Fig. 4
Si otterrà un istogramma del tipo indicato in Fig. 4
94 1998/99 F.Resta
Parte III – Capitolo 2
∑x
i =1
2
i = min
1998/99 F.Resta 95
Parte III – Capitolo 2
i =n 2
∑ (X i − X )
i =1
=min (26)
Si giunge così all’enunciazione del principio dei minimi quadrati: il valore più
probabile di una grandezza osservata è quello che rende minima la somma dei qua-
drati degli errori.
Il valore di X che rende minima tale funzione è quello che ne annulla la deri-
vata prima.
Derivando ed annullando si trova
X + X 2 + ....X n
X = Xm = 1 (27)
n
che è effettivamente un minimo in quanto la derivata seconda è positiva.
Si può quindi dire che: il valore più probabile di una serie di osservazioni atto
a rappresentare il valore di una grandezza fisica è dato dalla media aritmetica delle
singole osservazioni.
Si noti che il valore di Xm oltre che rendere minima la somma dei quadrati degli
scarti, rende nulla la somma degli errori
i =n
∑ x =0
i =1
i
96 1998/99 F.Resta
Parte III – Capitolo 2
l’area sottesa dalla curva e l’asse delle ascisse -entro i limiti ±m sarà sempre uguale a
0,683(Fig. 5).
Fig. 5
1998/99 F.Resta 97
Parte III – Capitolo 2
∑ vi2 = ∑ ( X i − X m )
2
i =1 i =1
e cioè per il valore
X 1 + X 2 + ....X n
Xm =
n
che rappresenta la media aritmetica degli n valori ottenuti dalle misure.
Il parametro che caratterizza il grado di fiducia da attribuire a ciascuna misura
si deriva dall'errore quadratico medio individuato da Gauss.
Indicando con X l'ipotetico valore vero e con ε lo scostamento incognito Xm-X ,
m
che si può porre approssimativamente uguale a , si avrà
n
xi = X i − X = X i − X m + X m − X = vi + ε da cui quadrando xi2 = vi2 + ε 2 + 2εvi
Sommando n volte l'espressione predetta si otterrà
i =n i=n i =n
∑ xi2 = ∑ vi2 + nε 2
i =1 i =1
ricordando che ∑v
i =1
i =0
∑v 2
i
m =± i =1
(34)
n−1
98 1998/99 F.Resta
Parte III – Capitolo 2
e di conseguenza
i =n
∑v 2
i
M =± i =1
(35)
n(n − 1)
La quantità m suole definirsi come scarto quadratico medio di ogni singola os-
servazione (s.q.m.) o come standard deviation nella letteratura anglossassone (devia-
zione standard).
La quantità M suole definirsi come scarto quadratico medio della media.
Nel seguito di questo testo si userà m per indicare l's.q.m. della media ora indi-
cato con M.
1998/99 F.Resta 99
Parte III – Capitolo 2
1998/99 F.Resta
1998/99 F.Resta
Parte IV – Capitolo 1
CAPITOLO 1
STRUMENTI E OPERAZIONI DI MISURA DEGLI ANGOLI AZIMUTALI E
ZENITALI
e ponendo α r = 1 radiante
s
α= (3)
r
si ottiene la misura di un angolo in radianti come rapporto tra la lunghezza
dell’arco di circonferenza corrispondente ed il relativo raggio.
La (3), esprimendo un angolo come rapporto tra due lunghezze, rende questa
misura adimensionale, quindi di uso comune nelle formule matematiche, e per ciò
detta misura analitica di un angolo.
Dalla (3), se poniamo s = 2π r, s = π r, s = π r/2, otteniamo rispettivamente le
espressioni analitiche di un angolo giro (2π ), un angolo piatto (π ) ed un angolo retto
(π/2).
Sistema sessagesimale
Si suddivide la circonferenza in 360 parti ed all’angolo sotteso da ciascuna
parte si da il nome di grado sessagesimale; a sua volta il grado si divide in 60 primi,
il primo in 60 secondi; il successivo frazionamento avviene per decimali.
Il grado viene indicato col simbolo °, il primo con un apice ', il secondo con
due apici '', per cui l’angolo
37°28′35′′,165
si legge: 37 gradi, 28 primi, 35 secondi e 165 millesimi.
Nelle calcolatrici tascabili tale unità di misura è indicata spesso col simbolo
HMS (ore, minuti, secondi) in quanto usa la stessa suddivisione in sessantesimi della
unità di tempo.
Sistema centesimale
Si suddivide la circonferenza in 400 parti ed all’angolo sotteso da ciascuna
parte si da il nome di grado centesimale; a sua volta il grado si suddivide in 100 pri-
mi, il primo in 100 secondi; il successivo frazionamento avviene ovviamente per de-
cimali
Il grado viene indicato col simbolo g, il primo col simbolo c, il secondo col
simbolo cc per cui l’angolo
28g12c38cc,125
si legge 28 gradi 12 primi 38 secondi e 125 millesimi.
Trattandosi però di un sistema di unità di misura a frazionamento decimale, lo
stesso angolo si può esprimere come un normale numero decimale con apice g (modo
più semplice e più usato) e cioè
28g,1238125.
Sistema sessadecimale
Ha come unità fondamentale la stessa definita per il sistema sessagesimale,
cioè il grado sessagesimale.
La differenza consiste nei sottomultipli che si presentano come suddivisione
decimale del grado: cioè il primo sessadecimale è la centesima parte del grado ed il
secondo sessadecimale è la centesima parte del primo (o la decimillesima parte del
grado), per cui un angolo sessadecimale si scrive
38°,378546
Questo sistema fu proposto dall’ing. Salmoiraghi, intorno al 1930, per sostitui-
re il sistema sessagesimale nella graduazione degli strumenti topografici ma non eb-
be molto seguito.
Nella calcolatrici tascabili viene indicato con la lettere D (degree).
Fig. 1
L’angolo azimutale fra A e B misurato in O è la sezione normale dell’angolo
diedro formato dal piano contenente la verticale per O ed il punto A e dal piano con-
tenente la verticale per O ed il punto B; questo angolo coincide, a meno di correzioni
trascurabili rispetto ai minimi errori di misura, con l’angolo tra le due sezioni nor-
mali OoAo e OoBo dove con Oo , Ao e Bo si indicano le proiezioni dei punti O, A e B
sulla superficie di riferimento.
L’angolo zenitale zOA o distanza zenitale è l’angolo che la direzione OA forma
con la verticale in O; il suo complemento è l’angolo d’altezza αOA.
Il teodolite, come detto, è lo strumento che essenzialmente misura angoli azi-
mutali e zenitali dopo essere stato opportunamente sistemato su un treppiede.
La sua struttura è visibile in Fig. 2 dove si possono notare:
- una base dotata di tre viti calanti che permettono l’orientamento dell’asse prima-
rio a1 secondo la verticale (operazione detta “messa in stazione dello strumen-
to”);
- un’alidada che può ruotare intorno all’asse primario a1 ed è dotata di un asse se-
condario a2 ;
3. Il cannocchiale
Il mezzo migliore per realizzare un’asse di collimazione è un cannocchiale
dotato di reticolo.
Il tipo più in uso è quello astronomico o di Keplero che analizzeremo nella sua
struttura elementare utilizzata nel passato.
Fig. 3
Esso è costituito da una lente, detta obbiettivo (Fig. 3) di distanza focale f1
montata all’estremità di un tubo cilindrico e da una lente, detta oculare, di distanza
focale f2 montata su un secondo tubo, movibile con un bottone, interno e coassiale al
primo.
Fig. 4
chiamato centro del reticolo; esso va posto nello stesso piano in cui si forma
l’immagine data dall’obbiettivo.
Si definisce come asse di collimazione di un cannocchiale la congiungente il
centro del reticolo con il secondo punto nodale dell’obbiettivo.
Tale asse, per eventuali operazioni di rettifica, deve avere la possibilità di su-
bire piccoli spostamenti; il problema si risolve dotando il reticolo di viti a contrasto
che ne permettono piccoli
spostamenti sia in orizzon-
tale che in verticale (Fig. 6).
Da quanto detto ri-
sulta evidente che per col-
limare punti posti a distanze
diverse è necessario poter
variare la distanza q tra
l’obbiettivo ed il reticolo,
con che si realizza il cosid-
detto adattamento alla di-
stanza che, si ribadisce,
Fig. 6 consiste nel far coincidere il
piano in cui si forma
l’immagine con il piano in cui è posto il reticolo.
Questa immagine viene osservata tramite l’oculare che quindi deve possedere
la caratteristica di potersi muovere rispetto al reticolo per adattarsi alla vista
dell’osservatore; in quest’ultima operazione consiste l’adattamento alla vista.
Uno dei meccanismi costruttivi con cui si realizzava tale necessità nei tempi
passati è indicato in Fig. 3.
Per collimare un punto sono quindi necessari due adattamenti che vanno ese-
guiti in un ordine ben definito:
1) si esegue sempre per prima cosa l’adattamento alla vista che consiste nel muove-
re l’oculare fino ad avere una visione nitida e distinta del reticolo; questo adatta-
mento conviene sia eseguito orientando il cannocchiale al cielo in modo da vede-
re ben chiaro il reticolo su sfondo bianco;
2) successivamente si esegue l’adattamento alla distanza muovendo relativamente i
due tubi fino ad avere una visione nitida e distinta dell’oggetto sullo stesso piano
del reticolo. Per controllare che tale adattamento sia stato ben eseguito si muove
leggermente l’occhio controllando che l’oggetto collimato ed il reticolo rimanga-
no solidali tra di loro; ove ciò non avvenga vuol dire che si è in presenza di un
errore di parallasse cioè che l’oggetto ed il reticolo giacciono su due piani di-
stinti. Per eliminarlo si procede per tentativi con piccoli aggiustamenti
dell’adattamento alla distanza.
Negli strumenti moderni l’adattamento alla distanza non avviene più muoven-
do l’obbiettivo relativamente al reticolo (con ciò causando la variabilità della lun-
ghezza del cannocchiale) ma utilizzando il cannocchiale a lunghezza costante che
contiene al suo interno un complesso di lenti mobili che provvedono a far sì che le
immagini di oggetti collimati a varie distanze si formino sempre sul piano del reti-
colo.
Una variante che presentano molti teodoliti moderni è l'aggiunta di una lente
supplementare all'interno del cannocchiale con il compito di raddrizzare l'oggetto
4.1. Generalità
Nei teodoliti moderni i cerchi graduati sono sempre costruiti in vetro ottico ed
hanno sulla periferia una finissima graduazione direttamente incisa con una macchi-
na a dividere (negli strumenti antichi erano costruiti in ottone).
L’incisione dei cerchi deve essere eseguita con elevata precisione anche se so-
c
no destinati a strumenti di scarsa precisione; basta osservare che 1 è la quaranta-
millesima parte dell’angolo giro e che alla periferia di un cerchio, avente un diametro
c
di 80 mm, 1 corrisponde ad un intervallo di circa 6 µm; ciò significa che anche in un
c
teodolite da 1 i tratti debbono essere tracciati con la precisione di pochi µm.
La presenza di graduazioni con tratti così sottili impone l’utilizzo di un micro-
scopio semplice ( o lente di ingrandimento) come ausilio per le letture da effettuare
sui cerchi; lo schema ottico è lo stesso dell’oculare del cannocchiale con ingrandi-
menti pari a 10 volte (Fig. 8).
Per effettuare una lettura con il microscopio semplice è necessario predisporre
un indice di lettura, meglio se dotato di un nonio, sullo stesso piano della graduazio-
ne ed affiancato sul bordo.
Tale sistema veniva utilizzato negli strumenti antichi; l’indice di lettura veniva
posto sull’alidada.
Negli strumenti moderni si usa un microscopio composto il cui schema ottico è
essenzialmente identico a quello del cannocchiale; l’unica differenza consiste nel
fatto che l’oggetto da osservare (la graduazione) è posto poco al di là del primo fuoco
per cui l’obbiettivo dà una immagine reale ed ingrandita sul piano del reticolo;
l’oculare a sua volta ingrandisce ulteriormente l’immagine per cui si possono rag-
giungere da 30 a 80 ingrandimenti.
Lo strumento di lettura viene posto vicino al cannocchiale per cui l’osservatore
con un leggero movimento della testa passa direttamente dalla collimazione alla let-
tura; in genere nel campo dell’oculare compaiono contemporaneamente i due cerchi
(azimutale e zenitale). Per realizzare questa configurazione si rendono necessari op-
portuni veicoli ottici, in genere prismi rettangolari, che trasportino le immagini dei
cerchi nelle posizioni volute.
Fig. 8
b) il microscopio a nonio: il
nonio, associato all’indice di lettura,
viene costruito dividendo in n parti
una lunghezza pari ad n-1 intervalli
della graduazione del cerchio;
l’indice di lettura è in genere la
prima tacca del nonio.
Fig. 9
Se d è il valore
dell’intervallo della graduazione
principale l’intervallo d′ del nonio vale:
n −1
d' = d
n
L’approssimazione del nonio, cioè la differenza tra i valori degli intervalli
della graduazione principale e del nonio, vale
d
d − d' = (4)
n
In genere nei noni n = 10, raramente n = 20, per cui se il valore della gradua-
c c
zione principale è 10 l’approssimazione del nonio vale 1 .
Per capire il funzionamento del nonio si consideri la Fig. 11 in cui la gradua-
c
zione principale è suddivisa in 10 , il nonio è diviso in 10 parti e lo zero del nonio è
stato portato in coincidenza con la tacca relativa a 18 gradi. L’approssimazione del
c
nonio vale 1 per cui la prima tacca del nonio si discosterà dalla prima tacca della
c
graduazione principale di 1 , la seconda tacca del nonio si discosterà dalla seconda
c c
tacca della graduazione principale di 2 , la terza di 3 e cosi via.
Fig. 11 Fig. 10
Pensiamo ora di dover fare una lettura
con lo zero posizionato come in Fig. 10. L’intervallo tra lo zero ed il 18 si potrebbe
apprezzare a stima; con l’ausilio del nonio andiamo a vedere quale tacca del nonio
coincide con una tacca della graduazione principale; per valutare esattamente la tacca
coincidente possiamo aiutarci controllando che le tacche del nonio precedente e se-
guente quella coincidente devono risultare interne all’intervallo rappresentato dalle
tacche precedente e seguente sulla graduazione principale.
Nell’esempio risulta coincidente la quarta tacca per cui l’intervallo cercato
c
vale 4 e quindi la lettura risulta di 18,04 gradi centesimali.
Quando l'indice di lettura è organizzato con un nonio bisogna pertanto in pri-
mo luogo contare le tacche del nonio, poi verificare quanto vale la minima gradua-
zione della scala principale, indi calcolare l'approssimazione del nonio tramite la (4).
Spesso nei noni utilizzati nei teodoliti il valore della approssimazione è già indicato
su alcune tacche per cui la lettura diviene immediata.
Due esempi di letture sessagesimale e centesimale sono indicate in Fig. 12.
Fig. 12
Nel caso il raggio incida la superficie con un angolo i subisce il fenomeno della
rifrazione cioè il raggio subisce una deviazione seguendo la legge di Snellius
sen i n
= n 21 = 2 (5)
sen r n1
dove con n21 si indica l’indice di rifrazione relativo del mezzo 2 rispetto al mezzo 1
(nel nostro caso vetro-aria) dato dal rapporto dell’indice di rifrazione assoluto n2 del
mezzo 2 (vetro) con l’indice di rifrazione assoluto n1 del mezzo 1 (aria).
Nello schema indicato il raggio passando dall’aria al vetro si avvicina alla
normale formando con essa un angolo r minore di i in quanto passa da un mezzo ot-
ticamente meno denso (aria) ad un mezzo otticamente più denso (vetro).
Continuando il suo percorso nel vetro il raggio incide la superficie di separa-
zione vetro-aria con un angolo r (trattasi di angoli alterni interni) e la attraversa su-
bendo nuovamente una deviazione secondo l’equazione
sen r n1 1
= =
sen i n2 n21
In questo secondo passaggio il raggio si allontana dalla normale in quanto pas-
sa da un mezzo più denso ad un mezzo meno denso.
Nel suo percorso il raggio riemerge quindi nell’aria con lo stesso angolo di in-
cidenza ma subendo una traslazione pari a d.
Per ricavare il valore di d notiamo che dal triangolo BDC si ha
s
BC =
cos r
mentre dal triangolo ABC
d
BC =
sen( i − r )
Dalle due relazione si ricava
s
d= sen( i − r )
cos r
Per angoli di incidenza molto piccoli si può porre cos i = cos r = 1 per cui
sviluppando sen(i-r) si ottiene
d = s(sen i − sen r )
da cui, dividendo e moltiplicando il termine entro parentesi per sen r e ricordando
che seni/senr=n21 , si ottiene
d = s sen r( n21 − 1 )
da cui ancora moltiplicando e dividendo per sen i e ponendo sen i = i essendo i pic-
colo si ottiene
n −1
d = s 21 i
n21
In definitiva d risulta proporzionale all’angolo di incidenza e tale
proporzionalità si può ritenere valida per angoli di incidenza anche di parecchi gradi.
Nei teodoliti si pone una lamina piano-parallela in posizione opportuna lungo il
cammino dei raggi ottici dal cerchio al reticolo, girevole intorno ad un asse ortogo-
nale alla direzione dei raggi, e si fa in modo che nel campo dell'oculare si possa leg-
gere in una opportuna finestra, in frazioni dell’intervallo della graduazione principa-
le, la rotazione della lamina.
Fig. 15
Sul percorso dei raggi ottici sono inserite due lamine piano-parallele collegate
con un bottone esterno che ne permette la simultanea rotazione di quantità uguali e
contrarie. Con tale bottone si portano quindi a coincidere i due tratti contrapposti del
cerchio realizzando con ciò una media ottica in quanto ognuna delle immagini ha tra-
slato di una quantità pari ad (a+b)/2 ; lo spostamento effettuato si legge in una fine-
strella che appare nel campo dell'oculare in frazioni dell’intervallo da misurare.
Questo metodo oltre a fornire la massima precisione nelle letture elimina an-
che l’errore di eccentricità in modo automatico.
5.2. Le livelle
I dispositivi fondamentali che si applicano in topografia per verificare la verti-
calità di un’asse, l’orizzontalità di un’asse e l’orizzontalità di un piano sono le li-
velle.
Fig. 18
forma cilindrica (Fig. 18) oppure avrà la base d’appoggio piana se l’utilizzo è quello
di rendere orizzontale un piano (Fig. 19).
Fig. 19
La livella così costruita si dice rettificata quando la sua tangente centrale è pa-
rallela alla retta o al piano d’appoggio.
La condizione di rettifica è molto importante in quanto solo se essa è verificata
si può rendere orizzontale un asse appoggiando su di esso la livella e ruotandolo fino
a centrare la bolla.
Per verificare la perfetta efficienza della livella si opera nel seguente modo:
- si consideri una livella non rettificata, la si poggi su di un asse e si ruoti tale asse
fino a centrare la bolla. La tangente centrale si disporrà orizzontale ma l’asse su
cui poggia la livella, causa la non rettifica, formerà con l’orizzonte un angolo ε
(Fig. 20);
Fig. 20
- si tolga ora la livella dall’asse, che resterà fermo nella sua posizione, si ruoti la
livella di 180° e la si poggi nuovamente sull’asse. In questo nuovo assetto la
bolla si disporrà in una posizione non centrale subendo una rotazione pari a 2ε,
misurata contando il numero delle tacche incise sulla livella di cui si è spostata la
bolla (Fig. 21) (si noti che la tangente centrale continuerà a formare un angolo ε
con l’asse e che le perpendicolari alla tangente centrale ed all’orizzontale forme-
ranno un angolo pari a 2ε, cioè lo stesso angolo formato dalla tangente centrale e
l’orizzontale).
Fig. 21
Se, messa così in evidenza la non rettifica della livella, la si vuole rettificare
basterà agire sulla vite di rettifica W della stessa spostando la bolla verso il centro di
un angolo pari ad ε, cioè alla metà del numero di tacche.
Per rendere invece orizzontale un piano basterà rendere orizzontali due rette
del piano, in genere tra di loro perpendicolari per poter condurre le operazioni senza
compromettere nell’una quanto già raggiunto nell’altra.
Questa operazione in topografia non viene mai usata in quanto non esistono
piani da rendere orizzontali.
Fig. 23
L'operazione di
rendere l'asse verticale
viene effettuata con l'au-
silio della livella posta
sull'alidada, come visto
nel precedente paragrafo,
mentre il riporto a terra
sul punto segnalizzato si
realizza tramite un sem-
plice filo a piombo fis-
sato ad un gancio pre-
sente all'interno del vi-
tone e, costruttivamente,
in asse con l'asse princi-
pale dello strumento.
L'operazione, dopo
aver fissato il teodolite ed
il filo a piombo al trep-
piede, si effettua cer-
cando di centrare il punto
a terra con leggeri movi-
menti del treppiede; dopo Fig. 28
tale centramento si rende
l'asse verticale tramite la livella con che, però, perdendo il centramento a terra. Si
svita, allora, leggermente il vitone di fissaggio e, con piccoli spostamenti del teodo-
lite sulla base del treppiede, si centra nuovamente col filo a piombo il punto a terra;
con tali movimenti si è però perso il centramento della bolla e quindi la verticalità
dell'asse che deve nuovamente con le solite manualità essere ripristinata. L'operazio-
ne si ripete con successivi piccoli aggiustamenti fino ad ottenere la completa messa
in stazione cioè asse verticale e passante per il punto a terra.
Questa operazione,
lunga e fastidiosa, può esse-
re notevolmente sveltita se
lo strumento possiede un
piombino ottico, basato sul
principio della riflessione
totale.
Come noto una raggio
di luce incidente una super-
ficie di separazione tra due
mezzi, nel nostro caso vetro- Fig. 29
aria (Fig. 29 a)), con un an-
golo i subisce il fenomeno della rifrazione viene cioè deviato formando con la nor-
male alla superficie di separazione un angolo r che soddisfa la legge di Snellius
sen i
= nva
sen r
dove con nva è indicato l'indice di rifrazione relativo dell'aria rispetto al vetro (prati-
camente è l'inverso dell'indice indicato al par. 4.4.).
E' noto che l'angolo i ha un limite oltre il quale il raggio non attraversa più la
superficie di separazione ma viene riflesso. Tale valore limite iL si ottiene facilmente
dalla legge di Snellius ponendo r = 90°
sen i L = nva sen 90°
Per l'accoppiamento vetro-aria tale angolo ha il valore di
i L = 41°48'
Su tale principio si realizza il prisma
rettangolare (Fig. 29 b)), con la sezione a for-
ma di triangolo rettangolo isoscele; un raggio
di luce proveniente dall'aria, che incontra la
prima superficie di separazione (rappresentata
da un cateto del triangolo) perpendicolar-
mente, la attraversa senza subire deviazioni e ,
nel suo cammino, incontra la superficie di se-
parazione vetro-aria (rappresentata dall'ipote-
nusa del triangolo) con un angolo di incidenza
pari a 45°, cioè superiore all'angolo limite, su-
bendo la riflessione totale; dopo tale riflessio-
ne il raggio, proseguendo nel suo cammino,
incontra la seconda superficie di separazione
vetro-aria (rappresentata dall'altro cateto del
triangolo) perpendicolarmente e quindi la at- Fig. 30
traversa senza subire deviazioni.
In Fig. 30 è indicata schematicamente la struttura con cui viene realizzato il
piombino ottico, quasi sempre incor-
porato nella basetta dotata delle viti
calanti (In molti teodoliti la base può
materialmente essere svincolata dallo
strumento tramite una opportuna chia-
ve).
Il prisma viene opportunamente
sistemato nella basetta e, tramite un
microscopio composto (rappresentato
dalle lenti L1 ed L2), permette all'os-
servatore di vedere il punto a terra con
l'ausilio di una terza lente L3.
In Fig. 31 è indicato un classico
esempio costruttivo di una basetta di
un teodolite.
In tali casi la messa in stazione
Fig. 31 si realizza secondo le seguenti ma-
nualità:
- si fissa la basetta al treppiede;
- tenendo il treppiede sollevato e ponendo l'occhio nel cannocchialino si cerca di
individuare il punto segnalizzato a terra;
- individuato il punto, purchè sia nel campo del cannocchialino, si poggia il trep-
piede a terra e si fissa nel terreno;
- muovendo le viti della basetta si centra perfettamente nel mirino ottico il punto a
terra;
- si centra la livella torica sollevando o abbassando i piedi del treppiede;
- si controlla nel piombino ottico che il punto a terra sia centrato;
- se necessario, sbloccando leggermente il vitone, si sposta il teodolite per perfe-
zionare il centramento del punto a terra;
- si perfeziona la verticalità dell'asse tramite la livella torica.
Fig. 35
l'errore di inclinazione; si può tuttavia notare che se nella formula (6) del paragrafo
precedente poniamo α = 0, cioè cannocchiale orizzontale, otteniamo
L' − L = ±c
cioè l'unico errore presente è l'errore di collimazione.
In queste condizioni possiamo quindi controllare se esiste un eventuale errore
di collimazione e come rettificare lo strumento.
Fig. 36
Fig. 37
La misura di un angolo viene eseguita nel seguente modo:
- si collimano i punti P1 e P2 e si esegue la lettura dell'angolo, applicando natural-
mente la regola di Bessel (con ciò si è eseguita la prima reiterazione);
- fissato il numero di reiterazioni n che si vogliono eseguire si ricollima il punto P1
nella stessa posizione iniziale (C.S. o C.D.) e con il bottone di reiterazione si
200 g
ruota il cerchio di un angolo pari a e si esegue una seconda lettura dell'an-
n
golo, sempre applicando la regola di Bessel (con ciò si è eseguita la seconda re-
iterazione);
- si prosegue al solito modo tenendo presente che ad ogni ulteriore reiterazione il
200 g
cerchio va preventivamente ruotato di un angolo pari a .
n
Si noti che per determinare l'angolo di rotazione del cerchio si è preso in consi-
g
derazione un angolo pari a 200 in quanto l'altra metà del cerchio viene coperta ese-
guendo le letture coniugate.
Quando non erano disponibili le raffinate macchine a dividere odierne la possi-
bilità di ridurre gli errori di graduazione per mezzo della reiterazione era assai ap-
prezzabile; oggi lo è molto meno, ma si continua ad utilizzare il metodo della reitera-
zione, in particolare per le misure di elevata precisione, perché la distribuzione re-
golare delle letture sul cerchio è quella che dà maggiori garanzie di precisione ed
inoltre la ripetuta lettura di un angolo serve a mediare i vari errori accidentali pre-
senti.
I teodoliti moderni, in particolare quelli di elevata precisione, sono sempre re-
iteratori.
permettono il fissaggio del cerchio alla base. Si noti che in tale strumento l'alidada
può essere fissata alla base solo tramite il cerchio.
La misura con ripetizione dell'angolo azimutale tra due punti P1 e P2 si esegue
nel seguente modo:
1) la vite W è bloccata e tiene il cerchio fisso alla base; si sblocca la vite V e,
ruotando l'alidada, si collima il punto P1 con l'ausilio della vite dei piccoli
spostamenti v e si esegue la lettura L1 ;
2) sempre lasciando il cerchio fisso alla base, con l'ausilio delle viti V e v si
collima il punto P2 senza effettuare alcuna lettura (la lettura L2, per diffe-
renza con la L1, darebbe la misura dell'angolo cercato);
3) tenendo bloccato il cerchio all'alidada tramite la vite V, si sblocca il cer-
chio dalla base tramite la vite W e, ruotando insieme alidada e cerchio, si
collima nuovamente il punto P1 perfezionando la collimazione con la vite
dei piccoli spostamenti w (così facendo abbiamo portato la lettura L2 nelle
direzione di P1);
4) adesso si blocca nuovamente il cerchio alla base e, sbloccando V, si ricol-
lima il punto P2 con l'ausilio delle viti V e v;
5) si ripete l'operazione indicata al punto 3);
6) si ripete l'operazione del punto 4);
7) si prosegue con le stesse modalità per il numero n previsto di ripetizioni;
8) quando si collima per l'ennesima volta il punto P2 si esegue la lettura fi-
nale Ln+1;
9) l'angolo richiesto sarà
L − L1
θ = n +1
n
Teoricamente la ripetizione dell'angolo dovrebbe essere più precisa della reite-
razione poiché si eliminano tutte le misure intermedie ed inoltre aumenta la rapidità
delle operazioni.
Si è però constatato
che nelle operazioni di
blocco del cerchio all'ali-
dada si possono avere dei
leggeri scorrimenti del
cerchio stesso che infirma-
no la precisione delle mi-
sure in modo sensibile per
cui tale metodo è stato per
lungo tempo abbandonato
almeno nei teodoliti di
elevata precisione.
Da notare che con
questo procedimento le
letture non sono distribuite
regolarmente lungo tutta la
Fig. 38
graduazione e che quindi
la eliminazione degli errori di graduazione è meno efficace che con il metodo della
reiterazione. Va però detto che anche con lo strumento ripetitore si possono eseguire
Fig. 39
gue la tecnica costruttiva moderna che tende a sostituire il sistema di bloccaggio cer-
chio-alidada con una molla comandata all'esterno da una chiavetta D a due posizioni
che permette il fissaggio del cerchio o al basamento o all'alidada: dei bottoni prece-
denti ne resta solo una coppia che permette il collegamento alidada-base (come per i
reiteratori).
Tale strumento funziona nel seguente modo:
- con la chiavetta D si blocca il cerchio al basamento;
- si collima il punto utilizzando le viti W e w;
- oppure, sempre utilizzando le due viti, si impone la lettura desiderata (0, per es.);
- con la chiavetta D si sblocca il cerchio dalla base e lo si fissa all'alidada (l'opera-
zione si fa con un semplice movimento della chiavetta);
- ruotando l'alidada si collima il punto nuovamente con le viti W e w che non alte-
rano la lettura imposta.
8.5.2. Misura di più angoli tramite il metodo ad angoli semplici a giro d'oriz-
zonte
Siano P1, P2 .……. Pn (Fig. 40)i punti che si devono osservare da Ps; le misure
vengono effettuate nel seguente modo:
1) si misura l'angolo P1P2 eseguendo le
collimazioni con il C.S. e C.D. e, se
richiesto, reiterando le misure un
certo numero n di volte: tra una reite-
razione e l'altra si può ripetere la mes-
sa in stazione;
2) si misura con le stesse modalità l'an-
golo P2P3;
3) quindi, sempre con le stesse modalità,
si misurano i restanti angoli fino a
PnP1.
Gli angoli vengono misurati tutti in manie-
ra indipendente, ma nel loro complesso non sono Fig. 40
indipendenti in quanto sono legati dalla condi-
zione
g
P1P2 + P2P3 +…… Pn-1Pn + PnP1 = 400
Le misure vanno compensate ripartendo in parti uguali l'errore di chiusura.
Non è conveniente usare nei calcoli angoli diversi da quelli misurati, risultanti
cioè da somme di due o più angoli misurati, perché avrebbero evidentemente degli
s.q.m. maggiori dello s.q.m. di un singolo angolo.
9.1. Generalità
Nella misura degli angoli zenitali si richiede una precisione minore di quella
degli angoli azimutali, come già detto; pertanto negli strumenti moderni i cerchi ze-
nitali sono generalmente di diametro minore di quelli azimutali e non sono reiterabili,
sicché gli errori di graduazione non sono eliminabili.
D'altronde non avrebbe molto senso procedere alla eliminazione dei piccoli er-
rori del cerchio perché le distanze zenitali per effetto della rifrazione atmosferica e
dell'impossibilità di tenerne perfettamente conto risultano in genere di precisione in-
feriore agli angoli azimutali.
Tuttavia la ripetizione delle misure, anche se eseguita nelle stesse condizioni,
serve a ridurre l'influenza degli errori accidentali di puntamento e di centramento
della livella zenitale
Fig. 42
g
per cui nell'applicare la (8) occorre aggiungere 400 ad S che pertanto diviene:
400 g + S − D
z= (9)
2
Molto grossolanamente per dare un'indicazione delle letture che si farebbero
nell'esempio riportato in Fig. se per S si legge 48g per D si dovrebbe leggere 352g e
quindi, applicando la formula si otterrebbe z = 48g.
Se la graduazione fosse antioraria nella formula in luogo di S-D si avrebbe D-S.
400 g + S − D
2( z − v ) = 400 g + S − D ovvero z−v =
2
La semidifferenza non da quindi la distanza zenitale z ma la quantità z-v; se
l'asse a1 fosse inclinato dalla parte opposta la semidifferenza delle letture darebbe
z+v.
Fig. 43
L'esempio descritto rappresenta la situazione in cui l'errore di verticalità si tra-
smette alla distanza zenitale in tutta la sua grandezza; nel caso in cui l'asse a1 non sia
inclinato nel piano verticale che contiene il punto collimato ma in una direzione
qualunque si deve considerare la componente dell'errore di verticalità nel piano di
collimazione.
Per eliminare tale errore si ricorre
ad una livella, in generale a coincidenza
d'immagine, posta in prossimità del cer-
chio zenitale, con la tangente centrale
parallela al piano di questo, quindi pra-
ticamente parallela al piano verticale di
collimazione durante le due collimazioni
del punto A.
Questa livella è detta livella zeni-
tale ed è collegata agli indici di lettura;
il complesso indici-livella può essere
ruotato per mezzo di una apposita vite S
a piccolo passo (Fig. 44).
Centrando questa livella la sua
tangente, e quindi gli indici, si dispon-
gono orizzontali e ciò indipendente-
mente dalla posizione dell'asse a1 (si
tenga presente che costruttivamente gli Fig. 44
indici sono resi perpendicolari ad a1 ).
Eseguendo prima di ogni lettura il centramento della bolla si ottiene che la se-
midifferenza dà il valore della distanza zenitale depurato dall'errore di verticalità.
Infatti sia S la lettura nella posizione C.S. dopo il centramento della livella che
g
ha quindi tangente orizzontale; ruotando l'alidada di 200 (Fig. 43 b)) la tangente
centrale si inclina di 2v e si indichi con D la lettura che si farebbe dopo aver ricolli-
mato il punto; se adesso centriamo la livella, l'indice, come si vede in fig., si sposta
in senso tale da far diminuire la lettura di 2v; indicando con D' questa nuova lettura si
avrà perciò D' = D-2v e quindi, facendo la semidifferenza, si avrà:
400 g + S − D' 400 g + S − D + 2v 400 g + S − D
= = +v = z−v+v = z
2 2 2
Poiché la livella viene centrata subito prima di ogni lettura ed essendo inoltre a
coincidenza d'immagine, quindi di elevata sensibilità, la precisione che si ottiene nel-
l'eliminazione di v è superiore a quella con cui si può rendere verticale l'asse a1 .
Resta da vedere cosa succede quando si è in presenza dell'errore di verticalità v
e lo zenit strumentale Z non è rettificato, precisando che con Z si intende la lettura
che si fa al cerchio quando l'asse di collimazione è diretto secondo la verticale.
In questo caso la semisomma delle due letture non da lo zenit strumentale Z ma
g
la lettura corrispondente all'asse di collimazione diretto secondo l'asse primario a1 ;
indicata con Z' questa lettura si ha dunque
S + D − 400 g
Z' = = Z +v
2
Eseguendo invece le letture a bolla centrata si ha
S + D' −400 g S + D − 2v − 400 g S + D − 400 g
= = − v = Z ' −v = Z + v − v = Z
2 2 2
ottenendo cioè il vero zenit strumentale.
T2 – Leica
E' un teodolite reiteratore da 1cc, dotato di livella zenitale, piombino ottico, ba-
setta smontabile ed immagine del cannocchiale rovescia.
Fig. 45
La lettura degli angoli avviene con il sistema micrometrico descritto al par. 4.4.
e quindi con correzione automatica dell'erro-
re di eccentricità
Nella finestra del microscopio di lettu-
ra, dopo aver portato in coincidenza le tac-
che dei due lembi diametrali del cerchio tra-
mite l'opportuno bottone (indicato con il n.
16 nella legenda allegata alla Fig. 45), si pre-
senta la visione indicata in Fig. 46.
Nella scala principale, in corrispon-
denza dell'indice si leggono numeri interi
corrispondenti alla minima graduazione trac- Fig. 46
ciata (nel nostro caso si leggono i gradi ed i
primi in multipli di 10 in quanto l'indice può indicare la mezzeria della tacca); nella
scala inferiore del micrometro, che tramite una lamina pianoparallela ha suddiviso
una mezza tacca della graduazione principale (pari a 10c) in cinquecento parti, si leg-
gono tre cifre che rappresentano il numero di primi centesimali da sommare alla let-
tura precedente.
Fig. 47
(Fig. 47).
Fig. 48
Tg3b – Galileo
cc
E' un teodolite reiteratore da 50 dotato di micrometro ottico (Fig. 49).
Fig. 49
La lettura delle direzioni viene effettuata portando all'interno dell'indice, for-
mato da due tacche parallele, una tacca della gradua-
zione principale ruotando il bottone relativo (N. 16 in
Fig. 49).
Si leggerà quindi (Fig. 50) il numero di gradi
indicato sulla graduazione principale ed i primi diret-
tamente nella finestrella superiore dove è riportata la
c
graduazione del micrometro; qui ogni tacca vale 2
cc
per cui a stima si raggiungono i 50 (1/4 di tacca).
Fig. 50
Tg4br – Galileo
c
E' un teodolite ripetitore da 2 ,5 dotato anche di una livella a cavaliere del can-
nocchiale che ne permette l'utilizzo come livello per la determinazione delle diffe-
Fig. 51
renze di quota (Fig. 51)
La lettura viene effettuato con un indice dotato di nonio (vedi par. 4.3.) le cui
tacche sono già graduate.
Nell'esempio di Fig. 52 si hanno le seguenti
letture:
g
cerchio zenitale 299 ,75;
g
cerchio azimutale 397 ,75
Fig. 52
4150 – Salmoiraghi
cc
E' un teodolite reiteratore da 20 dotato di livella zenitale e piombino ottico
(Fig. 53).
Fig. 53
Fig. 54
DK 2 – Kern
cc
E' un teodolite reiteratore da 50 dotato di livella zenitale e piombino otti-
Fig. 55
co(Fig. 55).
Il sistema di lettura ha il
pregio di indicare direttamente la
media aritmetica delle due posi-
zioni diametrali dei cerchi, elimi-
nando così in modo diretto l'errore
di eccentricità.
Il metodo di lettura consente
di leggere direttamente sulla scala
principale i gradi e le decine di
primi.
Per la successiva lettura si
fa uso della scala secondaria indi- Fig. 56
cata da piccole tacche poste al di-
sopra della scala principale in V e al disotto in Az.
Queste tacche rappresentano l'indice di lettura di una scala decimale per i primi
centesimali che è individuata dai tratti lunghi della scala principale che cadono a ca-
vallo dell'indice di lettura (Fig. 56).
Fig. 57 Fig. 58
talliche con una freccia incisa (Fig. 63C) o come croci scolpite sulla roccia; di tali ri-
ferimenti viene eseguita una piantina con indicate le distanze dal centro e vengono
utilizzati per ricostruire il punto quando esso venisse danneggiato o asportato.
Fig. 63
I capisaldi di livellazione invece vengono collocati in un pozzetto (Fig. 64 a)),
spesso accompagnati da un caposaldo verticale (Fig. 64 b)) a forma di mensola posto
nelle vicinanze sulla parete di un edificio(sono visibili entrambi sul lato destro
dell’ingresso della sezione di topografia).
La stadia, dopo aver
aperto il pozzetto, viene po-
sta sul caposaldo e sorretta
dal portastadia in posizione
verticale; il caposaldo verti-
cale richiede invece una
particolare stadia che abbia
lo 0 in corrispondenza del
piano di riferimento e che
viene appesa alla mensoli-
na, oppure l'utilizzo di una
stadia di cui sia nota con
elevata precisione la sua
lunghezza.
Tutti questi punti ri-
vestono una importanza
fondamentale per qualsiasi
lavoro di topografia in
quanto permettono, aggan-
ciando ad essi i rilievi, la
esatta posizione planimetri-
Fig. 64 ca dei punti rilevati e/o la
loro quota assoluta.
Per tutti questi punti viene sempre redatta una opportuna monografia con tutti i
riferimenti necessari per ritrovarli (Fig. 65 e Fig. 66) e i dati per il loro utilizzo; sono
reperibili a pagamento presso la sede dell'IGMI a Firenze.
Fig. 65
Fig. 66
Fig. 67
Il più comune è la classica palina, un’asta di legno o di metallo dipinta a fasce
di 20 cm verniciate alternativamente di bianco e rosso e terminante con una punta
metallica, di altezza standard di 1,60 m; a volte, per individuarle meglio, si pone su-
periormente uno scopo dipinto a scacchi (Fig. 67).
Per collimazioni di alta
precisione si utilizzano scopi
metallici con parti in vetro opaco
che vengono posizionati sul
punto tramite un treppiede ed
una basetta intercambiabile con
il teodolite; hanno in genere la
caratteristica di poter essere il-
luminati da dietro per collima-
zioni notturne (Fig. 68).
Infine per collimazioni a
grandissima distanza (50-60Km)
si costruiscono opportuni colli-
matori in legno o ferro (Fig. 69). Fig. 68
Fig. 69
CAPITOLO 2
STRUMENTI E OPERAZIONI DI MISURA DELLE DISTANZE
1.2. Allineamenti
Se si vuole misurare una distanza che eccede la portata dello strumento, per in-
dividuare la traccia corrispondente a una sezione normale sulla superficie del terreno
si deve eseguire una operazione chiamata allineamento e facilmente eseguibile con
uno squadro (Cap. 1 par. 10.) o meglio ancora con un teodolite.
Di fatto, dovendo misurare la distanza tra due punti A e B che eccede la portata
dello strumento, si pone in A il teodolite ed in B un segnale; collimato il punto B e
d m sen z
d o = R arc tan (13)
Q + d m cos z + R
che è la formula finale che cercavamo.
E’ necessario osservare che la riduzione delle distanze alla superficie di riferi-
mento deve essere eseguita solo per rilievi a scopo cartografico mentre la riduzione
all'orizzonte deve sempre essere eseguita.
Quando le misure hanno come scopo l’esecuzione di lavori quali il traccia-
mento di gallerie, funivie, canali ,ecc., la riduzione non deve essere effettuata poichè
interessano in effetti le distanze orizzontali con riferimento al piano orizzontale in un
determinato punto del rilievo.
Fig. 71
Fig. 72
Tenendo presente che 2ω è l’angolo costante sotto cui dal punto O si vede
1
l’intervallo di stadia H, la quantità è una costante strumentale, detta costante
2 tan ω
distanziometrica; si indica in genere con C e, scegliendo opportunamente ω, si fa in
modo che assuma valori semplici come 50, 100 o 200.
Si ha quindi
H sen 2 α tan 2 α
d = CH cos 2 α − = CH cos 2 α 1 −
4C 4C 2
Trascurando infine il secondo termine tra parentesi in quanto molto piccolo (al
massimo 1/40.000 se C = 100) si ottiene la formula finale della distanza
d = CH cos 2 α (14)
Se invece dell’angolo d’altezza α è nota la distanza zenitale z la formula assu-
me la forma
d = CH sen 2 z (15)
Resta da vedere come si possano realizzare le due visuali che formano l’angolo
ω con l’asse di collimazione.
Fig. 73
Nel cannocchiale di tipo astronomico sul vetrino del reticolo vengono incisi
altri due fili ad una distanza h (Fig. 73) ed il reticolo prende il nome di reticolo di-
stanziometrico.
Ricordando come si forma l’immagine notiamo in primo luogo che il punto O
descritto precedentemente coincide col fuoco anteriore dell’obbiettivo per cui la di-
stanza d indicata dalla formula soprascritta rappresenta la distanza dal punto F1 indi-
cato in Fig. 73 fino alla stadia: per ottenere la distanza effettiva dal punto di stazione,
indicato dal centro dello strumento E, alla stadia occorre aggiungere una costante
strumentale a; in secondo luogo, indicando con h la distanza fra i due tratti del reti-
colo, si ottiene
h f
tan ω = e C=
2f h
da cui si può determinare h in modo che C risulti uguale a 100 (o 50).
In conclusione la distanza tra il centro del cannocchiale ed il punto in cui viene
messa la stadia, quando l’asse di collimazione è inclinato di α vale
d = CH cos 2 α + a cos α (16)
oppure se, come spesso avviene, si legge z
d = CH sen 2 z + a sen z (17)
I cannocchiali moderni sono tutti costruiti in modo da rendere la costante ad-
ditiva a = 0 e vengono detti centralmente anallattici; ciò si realizza aggiungendo
all’obbiettivo una lente convergente (lente anallattica) che ha lo scopo di far coinci-
dere il fuoco anteriore con il centro dello strumento.
Per analizzare la precisione di questo metodo consideriamo il caso semplice di
una misura effettuata a cannocchiale orizzontale.
Le letture che eseguiamo alla stadia hanno un loro s.q.m. che possiamo quanti-
ficare in 1mm, quando la stessa è posta ad una distanza di 100m, ricordando che le
stadie sono graduate in centimetri e quindi il millimetro viene stimato; ovviamente se
la stadia fosse posta ad una distanza superiore l’s.q.m. della lettura tenderebbe ad
aumentare in quanto la stima diverrebbe più grossolana.
Dalla teoria degli errori, ricordando che si è in presenza di una misura indiretta,
si ottiene l’s.q.m della distanza
2 2
md = ±C ml1 + ml2 = ±100 2 ≅ 140 mm
Come si vede ci troviamo di fronte ad un metodo di scarsa precisione e di por-
tata molto modesta; ciò nonostante, fino all’avvento dei distanziometri ad onde, è
stato l’unico metodo largamente utilizzato nei rilievi topografici in cui non era ri-
chiesta un’elevata precisione.
controllo in quanto dovrebbe rappresentare la media delle letture ai due fili inferiore
e superiore: esatta, se si lavora a cannocchiale orizzontale, con notevole approssima-
zione, se si lavora a cannocchiale inclinato.
Tale lettura è inoltre necessaria quando si vuole determinare il dislivello tra il
punto di stazione ed il punto in cui è posta la stadia, come si vedrà in seguito.
Fig. 76
Se la grandezza fisica oscilla in A con legge sinusoidale il fenomeno è rappre-
sentato da un’equazione del tipo:
x
V ( t , x ) = V0 sen ω t − + ϕ 0 (18)
v
dove
V0 = ampiezza dell’oscillazione;
ϕ0 = fase iniziale = ω t0 (con t0 tempo iniziale);
ω = pulsazione = 2π f = 2π / T;
T = periodo;
f = frequenza.
L’equazione (18) indica che la grandezza fisica all’origine oscilla con legge si-
nusoidale secondo la funzione
V ( t ,0 ) = V0 sen(ω t + ϕ 0 ) (19)
(indicata in Fig. 77) e che si propaga nello spazio (indicata in Fig. 76) con velocità
v = c/m
dove c è la velocità dell’onda nel vuoto (circa 3.108 m/sec) ed m l’indice di rifrazione
dell’aria.
All’istante t, in un punto di ascissa x, essa assume il valore dato dalla (18), cioè
il valore che aveva all’origine x/v secondi prima.
Ciò significa che lungo tutti i punti della traiettoria, fissato un determinato
istante t, i valori di V sono ancora rappresentati da una sinusoide (Fig. 78).
Fig. 77
λ
V0 sen ω t − ω + ϕ 0 = V0 sen(ω t − 2π + ϕ 0 )
v
si avrà
λ 2π λ
ω = 2π cioè = 2π
v T ν
quindi
v
λ = Tv =
f
La grandezza λ è detta lunghezza d’onda.
Fig. 78
mentre l’onda rientrante sarà stata emessa ∆t secondi prima, essendo ∆t = 2D/v il
tempo impiegato per andare da A a B e rientrare in A, e quindi avrà equazione
Vr = V0 sen[ω (t − ∆t ) + ϕ 0 ]
La differenza di fase tra l’onda uscente e la rientrante sarà
∆ϕ = (ω t + ϕ 0 ) − [ω (t − ∆t ) + ϕ 0 ]
∆ϕ = ω ∆t
Con chiare sostituzioni avremo
2π 2 D 2π 2 D
∆ϕ = =
T v λ
Da cui, ricavando D, si ottiene l’equazione
∆ϕ λ ∆ϕ
D= con 0 ≤ ≤1
2π 2 2π
(∆ϕ può assumere valori compresi tra 0 e 2π).
Fig. 79
Da tale equazione, nel caso semplice esaminato, la distanza risulta essere una
frazione di metà della lunghezza d’onda impiegata e si può ottenere misurando lo
sfasamento tra l’onda uscente e l’onda rientrante.
Se ora il punto B si sposta di un numero intero di mezze lunghezze d’onda (A’
Fig. 80
λ ∆ϕ ∆ϕ λ ∆ϕ λ λ s.q.m. Valore di
D =( +n ) n
2 2π 2π 2 2π 2 2
10 0,920 9,20 9,20 + n.10 0,005÷0,01 4148
100 0,892 89,2 89,2 + n.100 0,05÷0,1 414
1000 0,489 489 489 + n.1000 0,5÷1 41
10.000 0,148 1480 1480 + n.10.000 5÷10 4
100.000 0,414 41400 41400 + n.100.000 50÷100 0
Da tale sequenza si può senz’altro risalire alla misura della distanza conside-
rando per ogni l.d.o. la cifra sicuramente non affetta da errori (sottolineata in colonna
3): otterremo in conclusione una misura di
D = 41489,20m ± 0,005÷0,01m
tenendo presente che lo s.q.m. indicato è solo quello riferito al discriminatore di fase.
Va detto che per ottenere una precisione elevata sulle cifre decimali la misura
con una l.d.o di 20m viene ripetuta varie volte per calcolare in modo corretto, appli-
cando la teoria degli errori, il relativo s.q.m..
Questo metodo, utilizzato in uno dei primi distanziometri prodotti, veniva rea-
lizzato variando manualmente la lunghezza d'onda e quindi con notevole allunga-
mento dei tempi di misura.
Il metodo fu, per tale motivo, abbandonato a favore dei metodi b) e c) ma, con
il progredire dell'elettronica, è stato successivamente ripreso ed oggi tutti i moderni
distanziometri lo utilizzano, ovviamente in variante più sofisticata con la realizzazio-
ne di tutto il processo di misura in maniera automatica.
Fig. 82
Tale metodo presenta le stesse caratteristiche di adattabilità al metodo di misu-
ra delle onde modulate in ampiezza .
Un’altra possibilità è rappresentata dalla generazione di un fenomeno periodico
tramite la produzione di battimenti, cioè dalla somma di due onde sinusoidali isodi-
rette di frequenza poco diversa tra loro. Il risultato è un’oscillazione con una fre-
quenza media delle due componenti ed ampiezza che varia nel tempo sinusoidal-
mente; è quindi lo stesso della modulazione di ampiezza anche se diversa ne è la ge-
nerazione del fenomeno.
Intorno agli anni ottanta l'idea è stata ripresa e risolta dalla Leica che ha lan-
ciato sul mercato un distanziometro, denominato Distomat DI 3000S (Fig. 87), che
ha avuto subito rapido successo commerciale per la notevole portata che si raggiun-
geva con un solo prisma (7000 m).
A grandi linee il principio su cui si basa tale distanziometro è il seguente:
- nel momento in cui lo strumento emette il segnale questi apre un circuito elettro-
nico che viene successivamente chiuso al rientro del segnale riflesso;
- questo circuito emette una serie di impulsi che vengono conteggiati da un adatto
"clock" e che costituiscono la scala per la valutazione del tempo di andata e ritor-
no.
Indicando con T la durata di un impulso ed n il numero di impulsi, il tempo t di
andata e ritorno sarà semplicemente
t = nT
A tale tempo dovranno però essere aggiunti dei residui derivanti dai segnali di
inizio e fine che vengono determinati tramite un meccanismo di variazioni di tensio-
ne dei segnali.
Si otterrà infine
t = nT + t1 – t2
da cui si risale alla distanza.
La stessa Ditta ha anche prodotto con lo stesso principio un distanziometro
identico al precedente ma che utilizza una radiazione Laser e può essere utilizzato su
qualunque superficie riflettente, quindi senza l'uso di un prisma, con portate fino a
100 m; ovviamente con l'uso di un prisma raggiunge le stesse portate del modello
precedente.
Fig. 85
Fig. 86
Fig. 87
CAPITOLO 3
STRUMENTI ED OPERAZIONI DI MISURA DEI DISLIVELLI
1. Generalità e definizioni
In realtà, ricordando che la posizione dei punti è definita dalla latitudine e lon-
gitudine sull'ellissoide scelto, la definizione più razionale di quota di un punto do-
vrebbe essere rappresentata dalla sua distanza dall'ellissoide presa lungo la normale
allo stesso; tale quota si indica col nome di quota ellissoidica.
La quota ellissoidica è richiesta per svariate applicazioni ma è la quota orto-
metrica che ha valenza più generale ed è più largamente usata.
Con il terzo percorso il risultato è rappresentato dalla somma dei tratti CD,
EF,…MN.
Matematicamente ciò si esprime dicendo che
dW
dh = −
g
non è un differenziale esatto in quanto g non è funzione di W e che quindi l'integrale
degli incrementi infinitesimi di quota lungo un percorso che congiunge due punti
sulla superficie terrestre
dW
∫s dh = −∫s g (23)
che si può così enunciare: la somma dei prodotti dei relativi dh per il valore della
gravità nei singoli punti eguaglia la differenza di potenziale delle due superfici pas-
santi per A e B.
Se la superficie passante per A si fa coincidere con il geoide all'integrale (24)
viene dato il nome di quota dinamica.
-2
Se la gravità è espressa in kilogals (1 gal equivale all'accelerazione di 1cms . 1
-2
kgal = 1000 gal = 10 ms . Mediamente la gravità al livello del mare vale 980 gal) ed
h in metri l'unità di misura della quota dinamica, detta unità geopotenziale, è indicata
con la sigla GPU, dove
2 -2 2 -2
1 GPU = 1kgal.metro = 100000 cm s = 10 m s
2.1. Generalità
In topografia la quota assoluta di un punto non si riesce a determinare; quello
che riusciamo a determinare è la differenza di quota, meglio nota come dislivello fra
punti della superficie fisica del terreno.
La misura diretta di una quota non è in genere possibile per cui, definito un
punto di quota nulla e partendo da esso, con successive misure di dislivelli si possono
ottenere le quota assolute di tutti i punti della terra.
Fig. 92
Sui due punti A e B del terreno sono poste due stadie ed accanto ad esse due
bicchieri contenenti acqua e collegati tra di loro tramite un tubo.
Le superfici del liquido in ogni bicchiere si dispongono secondo una superfi-
cie equipotenziale del campo della gravità che, data la vicinanza dei punti A e B, può
ritenersi parallela al geoide.
Indicando con lA ed lB le letture fatte sulle stadie in corrispondenza della su-
perficie del liquido si avrà
Q A + l A = QB + l B
da cui
∆ AB = QB − Q A = l A − l B (25)
Questa operazione viene denominata battuta di livellazione e permette di ri-
cavare il dislivello tra i due punti A e B; lo strumento utilizzato va sotto il nome di li-
vello ad acqua di portata limitata a qualche decina di metri.
Volendo determinare dislivelli tra punti distanti si ricorre a più battute fra
punti disposti lungo una linea, detta linea di livellazione.
Il livello ad acqua ha però un limitato campo d'uso, quasi esclusivamente per
collaudi di particolari manufatti; nella pratica topografica lo strumento utilizzato è il
livello a cannocchiale (semplicemente livello nell'uso comune).
Fig. 93
la differenza lA – lB delle letture fatte alle stadie fornisce ancora il dislivello QB – QA
dato che le due lettura differiscono da quelle individuate dalla superficie equipoten-
ziale di un'identica quantità h, peraltro piccolissima data la portata del livello che in
genere non eccede i 100m.
3. Il livello
Fig. 94
Con un livello rettificato, dopo aver reso verticale l'asse a tramite la livella
sferica, si rende facilmente orizzontale l'asse di collimazione semplicemente centran-
do la livella torica tramite la vite di elevazione E.
Quando si ruota il livello per effettuare altre letture la bolla della livella torica
tende a spostarsi a causa dell'errore di verticalità, peraltro notevole dato l'utilizzo di
una livella sferica di non elevata sensibilità per la messa in stazione, per cui si rende
necessario un nuovo centramento della livella con la vite E per riportare l'asse di col-
limazione in posizione orizzontale.
Quindi il centramento della livella torica deve essere eseguito sempre prima
di ogni lettura alla stadia.
Si noti che tutti i teodoliti che possiedono una livella posta a cavaliere sul can-
nocchiale possono essere utilizzati come livelli (vedi il teodolite rappresentato in
fig.51 al Capitolo 1 ); in tal caso la vite micrometrica degli spostamenti zenitali funge
da vite di elevazione.
Il cannocchiale dei livelli è sempre dotato di reticolo distanziometrico in
quanto spesso, per i motivi che saranno spiegati nel prossimo paragrafo, si rende ne-
cessaria la misura della distanza dello strumento dalle stadie.
Tale capacità però è anche dipendente dal potere risolutivo del cannocchiale
che esprime la minima distanza di due punti sul reticolo per averne la visione distinta
ed è inversamente proporzionale al diametro del cannocchiale.
Le due caratteristiche devono essere armonicamente bilanciate in un livello;
variano in un campo di 15-60 per gli ingrandimenti e di 20mm-50mm per i diametri.
Dalla terza caratteristica dipende la precisione con cui si realizza l'orizzontalità
cc c
dell'asse di collimazione ed ha un campo di variazione da 10 a 2 .
Nella battuta dal mezzo non è importante che il livello sia posto lungo l'alli-
neamento AB ma in qualunque posizione purchè equidistante dalle due stadie; né è
importante che tale equidistanza sia realizzata con elevata precisione: si può tollerare
una differenza di 4-5 m.
Fig. 95
le facce perpendicolari all'asse di collimazione essa viene attraversata dal raggio lu-
minoso senza che questo subisca alcuna traslazione ne deviazione; alla stadia quindi
la lettura al filo medio del reticolo è la stessa fatta in assenza di lamina: nel caso in-
dicato in Fig. 96 a). la lettura al filo medio sarà 1142 mm.
Ruotando la lamina con un opportuno bottone si realizza una traslazione ti del-
l'immagine del reticolo fino a far coincidere il filo medio esattamente con la tacca
centimetrica più prossima (Fig. 96 b)).
La rotazione della lamina è comandata da un tamburo graduato, in genere, in
100 divisioni che coprono l'intervallo di 1 cm; cioè ruotando la lamina da 0 a 100 il
filo medio subisce una traslazione di 1 cm. Quindi la traslazione ti subita dal filo nel-
l'esempio in figura si legge direttamente sul tamburo in decimi di mm e si giunge a
stimare i centesimi di mm.
Fig. 96
Stadia in invar
Per misure di elevata precisione anche le stadie do-
vranno essere di elevata precisione; si usano per tale eve-
nienza stadie in invar.
Queste sono costituite da un'armatura in legno cui è
opportunamente fissato un nastro in invar (Fig. 98) su cui
sono tracciate due graduazioni con tratti di spessore non su-
periore ad 1 mm.
I tratti (Fig. 98)sono tracciati con grande cura in modo
che gli errori di graduazione siano inferiori a poche centesimi
di mm.
Le due graduazioni sfalsate di una determinata quantità
detta costante della stadia servono a migliorare a precisione
della lettura; infatti effettuando le letture alle due graduazioni
e verificando che, a meno delle fluttuazioni accidentali, la lo-
ro differenza rientri nella costante della stadia si eliminano
eventuali errori grossolani e si ottengono due misure della
stessa grandezza.
La parte termi-
nale delle stadie in in-
var, costituita da una
struttura metallica ter-
minante a piano rettifi-
cato, viene sempre
poggiata su una basetta
metallica terminante
con un perno cilindrico
a testa semisferica..
In tal modo viene
assicurato l'appoggio
puntuale e la perfetta
rotazione della stadia
senza movimenti verti-
cali.
Data la loro
struttura le stadie invar
non sono pieghevoli
come le normali stadie Fig. 97
Fig. 98 in legno ed hanno lun-
ghezze variabili fino ad un massimo di 3 m
(Fig. 97).
Reticolo a cuneo
Per leggere sulle stadie invar viene utilizzato un reticolo particolare detto re-
colo a cuneo o reticolo a coda di rondine.
E' visibile in Fig. 99 dove si può notare
come viene utilizzato per collimare una tacca
della stadia.
Fig. 100
Per rettificare il livello si procede nel seguente modo:
- si considera come esatta la lettura eseguita in A, data la piccolezza del tratto εd;
Fig. 101
Il rilievo si esegue con due stadie ed un livello con la seguente procedura:
- si dispongono le stadie sui punti CS1 ed A ed il livello al centro;
- si eseguono le letture alle stadie;
- quindi la stadia che era in CS1 si sposta in B, il livello si pone al centro tra A e B,
mentre la stadia che era in A viene fatta ruotare su se stessa per permetterne la
lettura ( si nota in questa operazione l'importanza della basetta su cui poggiare la
stadia: essa permette la rotazione della stadia su di un punto senza nessun movi-
mento verticale, cosa che invece si avrebbe se la stadia ruotasse sul terreno per
ovvi motivi);
- si prosegue quindi nello stesso modo per le tratte B-C e C-CS2.
Il dislivello tra i punti CS1 e CS2 sarà ovviamente dato dalla somma dei disli-
velli parziali delle varie battute.
In genere se si individua un verso di percorrenza e si indica con i la lettura in-
dietro e con a la lettura in avanti il dislivello della battuta k-ma sarà
∆k = ik − a k
per cui il dislivello complessivo tra i due capisaldi sarà
k =n k =n k =n
∆ = ∑ (ik − a k ) = ∑ ik − ∑ a k
k =1 k =1 k =1
si può cioè ottenere come differenza fra la somma di tutte le letture indietro e la
somma di tutte le letture in avanti.
La precisione di un livello che dipende dalle caratteristiche indicate nel par. 3.2.
viene in genere espressa globalmente con l's.q.m. ottenibile su una linea di livella-
zione di 1 km eseguita in andata e ritorno e si indica come errore medio chilometri-
co.
3.9. Il mareografo
Il livello medio del mare che rappresenta il punto di quota 0 è il livello che cor-
risponde alla media delle altezze dell'acqua (variabili per una serie di cause quali
moto ondoso, azione delle correnti, del vento delle variazioni termiche e delle maree)
rispetto ad un punto fisso.
Il livello medio viene determinato tramite il mareografo che è costituito da un
galleggiante posto in un pozzo in comunicazione con il mare, i cui movimenti ven-
gono registrati da una punta scrivente su un foglio che trasla con velocità costante; il
mareografo viene posto all'interno di un porto ed al riparo da eventuali azioni pertur-
batrici.
Si determina in tal modo la posizione nel tempo del livello del mare rispetto ad
una retta tracciata sulla carta che rappresenta il riferimento.
Il mareografo viene quindi collegato con una livellazione di alta precisione ad
un caposaldo costruito con particolare cura che si chiama punto di derivazione delle
quote.
In Sardegna il mareografo è situato nel porto di Cagliari presso la sede della
Capitaneria di Porto mentre il punto di derivazione delle quote è situato sul lato de-
stro del portone di ingresso del Convento attaccato alla Basilica di Bonaria.
3.10. Autolivelli
E' stato osservato che con il livello con vite di elevazione, già messo in stazio-
ne, bisogna centrare la livella torica ogni volta che si legge alla stadia.
Ciò richiede una allungamento del tempo di misura tanto più elevato quanto
più sensibile è la livella ed inoltre l'eventuale dimenticanza di tale centramento, non
così rara quando si eseguono decine di misure, introduce un errore grossolano nella
misura del dislivello.
Per ovviare a tali inconvenienti sono stati progettati dei livelli autolivellanti
medianti sistemi a pendolo detti compensatori.
In tali livelli l'orizzontalità dell'asse di collimazione viene realizzata automati-
camente senza eseguire alcuna manovra non appena l'asse di rotazione della traversa
sia stato posto verticale con l'ausilio della livella sferica e delle tre viti calanti; essi
quindi non sono dotati ne di livella torica ne di vite di elevazione.
Essendo tali autolivelli basati su un sistema a pendolo sono dotati di un siste-
ma, di solito pneumatico, che ne smorza rapidamente le oscillazioni e ciò sia per non
avere disturbi nelle letture sia per non dover attendere troppo tempo per ottenere la
stabilizzazione del pendolo.
Il campo di oscillazione del pendolo ha una ampiezza molto limitata, in genere
appena maggiore della sensibilità della livella sferica applicata al livello; quando il
livello non è perfettamente messo in stazione in modo che venga superato il campo
di oscillazione il compensatore non agisce e quindi si eseguono letture ad asse di
collimazione non orizzontale.
Per avvertire la presenza di tale situazione molti autolivelli sono dotati di un
opportuno segnale che compare nel campo del cannocchiale per indicare che il si-
stema sospeso non è in libera oscillazione oppure hanno un pulsante esterno che
permette di dare piccoli colpi al sistema e di controllarne nel cannocchiale la libera
oscillazione.
In questo tipo di livelli la condizione di rettifica assume una diversa definizio-
ne; la si può enunciare nel seguente modo: quando l'autolivello è in stazione il suo
asse di collimazione deve essere orizzontale.
La verifica si esegue nello stesso modo detto per il livello con vite di elevazio-
ne; l'eventuale rettifica si esegue spostando il reticolo e quindi l'assetto dell'asse di
collimazione.
Fig. 103
Wild NA2
E' un autolivello dotato di lamina piano-parallela di elevata precisione (Fig.
104).
Fig. 104
Utilizzato con una stadia in invar permette l'esecuzione di livellazioni di alta
precisione.
Errore medio chilometrico di 0,3÷0,7
mm.
Dopo aver centrato, con l'ausilio della la-
mina, una tacca della stadia, sulla stessa si leggo-
no direttamente i centimetri mentre nell'oculare
della lamina si leggono i millimetri ed i decimi e
si stimano i centesimi.
Nell'esempio di Fig. 105 si leggerà 77,556
cm.
Fig. 105
Kern GK 1
E' un livello (Fig. 106) con vite di elevazione, dotato di livella torica a coinci-
denza, di livella sferica, con innesto a baionetta sull'apposito treppiede.
Fig. 106
La sensibilità della livella torica è di 20".
L'errore medio chilometrico è di 3÷4 mm.
Salmoiraghi L 5150-A
E' un livello da cantiere con vite di elevazione dotato di cannocchiale anallat-
tico.
La livella torica ha sensibi-
lità di 15".
L'errore medio chilometrico
di ± 5 mm.
Fig. 107
Jena NI 040 A
E' un autolivello con errore medio chilometrico di ± 4.
Fig. 108
Fig. 109
1998/99 F.Resta
1998/99 F.Resta
Parte V – Capitolo 1
CAPITOLO 1
DETERMINAZIONI PLANIMETRICHE
o 4° quadrante a seconda che i segni del numeratore e del denominatore sono rispet-
tivamente + , +; + , −; − , − ; − , +.
Fig. 1
In altre parole dopo aver calcolato (AB) con la (1) se i segni del numeratore e
del denominatore sono entrambi positivi l'angolo è quello risultante dal calcolo
(AB);
se il numeratore è positivo ed il denominatore negativo l'angolo sarà uguale a
200 g – (AB);
se sono entrambi negativi l'angolo sarà uguale a
200 g + (AB);
se il numeratore è negativo ed il denominatore positivo l'angolo sarà uguale a
400 g – (AB)
L'angolo di direzione (BA) si chiama reciproco di (AB) e vale ovviamente
(BA) = (AB) ± 200 g
dove il segno – va usato quando (AB) è maggiore di 200 g .
Dopo aver calcolato l'angolo di direzione (AB) la distanza AB può calcolarsi
con le seguenti formule
E − EA N − NA
AB = B = B (2)
sen( AB ) cos( AB )
La distanza AB si può anche calcolare con la formula
AB = ( N B − N A ) + (E B − E A )
2 2
(3)
nel qual caso potrebbe essere più conveniente determinare l'angolo di direzione suc-
cessivamente utilizzando la formula (la cui semplice dimostrazione si lascia al letto-
re)
tan
( AB ) = E B − E A (4)
2 AB + N B − N A
che ha il pregio di dare il valore di (AB) senza l'indeterminazione del quadrante come
invece avviene per la (2).
Fig. 2
1.4. Irradiamento
L'irradiamento è uno schema di rilievo molto semplice e pratico che con l'av-
vento dei distanziometri ha notevolmente incrementato la sua portata si da farlo di-
ventare lo schema più usato da tutti i rilevatori.
Per determinare la posizione di un punto basta avere a disposizione due punti
di coordinate note, uno su cui fare stazione ed il secondo per orientarsi.
Lo schema è indicato in Fig. 3 dove A e B indicano i punti di coordinate note
ed il punto P quello di cui si vogliono determinare le coordinate.
Messo in stazione lo strumento sul punto A si misura l'angolo α e la distanza d
dal punto incognito P avendosi così tutti i dati necessari per determinarne le coordi-
nate.
Infatti, essendo l'angolo di direzione (AB) noto e ricavabile con la (1), si deter-
mina l'angolo di direzione (AP) con la relazione
(AP) = (AB) + α (6)
Applicando quindi le (2) si ottengono immediatamente le coordinate del punto
P
E P = E A + d sen( AP )
(7)
N P = N A + d cos( AP )
Fig. 3
Fig. 4
Fig. 5
ra si accumulano di vertice in vertice divenendo rapidamente intollerabili; per tale
motivo nessuna normativa di rilevamento ammette l'utilizzo di poligonali non con-
trollate. Quando la necessità oggettiva le impone (per esempio in galleria), vanno
eseguite con molta accuratezza utilizzando tutti i metodi disponibili per migliorarne
la precisione: reiterazioni degli angoli, stazioni con centramento forzato, etc.).
Per il calcolo delle coordinate dei punti, dopo aver misurato in campagna gli
angoli α α0 α1 α2 e le distanze d0 d1 d2 d3 si determinano gli angoli di direzione con
la (5) e le coordinate dei punti con le (7).
Fig. 6
Il vantaggio di tale modo di procedere consiste nel fatto che si hanno misure
sovrabbondanti, rappresentate dalle due coordinate note del punto Pn e dall'angolo αn
e ciò permette di eseguire un controllo su tutte le misure eseguite, verificarne la con-
gruità e quindi eseguire la compensazione.
Il calcolo e la compensazione possono essere eseguiti con metodi matematici
rigorosi (minimi quadrati) però spesso per poligonali tecniche si preferisce eseguire
una compensazione empirica i cui risultati non differiscono eccessivamente da quelli
ottenuti con un calcolo rigoroso.
La compensazione empirica viene eseguita prima sugli angoli (compensazione
angolare) e poi sulle distanze (compensazione lineare).
Dopo aver misurato in campagna tutte le distanze di e gli angoli αi si calcolano
con la (1) gli angoli di direzione (P1A) e (PnB), noti in quanto noti i punti P1, A, Pn e
B
E A − E P1 E B − E Pn
tan( P1 A ) = tan( Pn B ) = (11)
N A − N P1 N B − N PN
Si calcolano quindi, facendo uso della (5) tutti gli angoli di direzione
( P1 P2 ) = ( P1 A ) + α 1
( P 2 P3 ) = ( P1 P2 ) + α 2 ± π
( P3 P4 ) = ( P2 P3 ) + α 3 ± π
(12)
..........................................
( Pn −1 Pn ) = ( Pn − 2 Pn −1 ) + α n −1 ± π
( Pn B ) = ( Pn −1 Pn ) + α n ± π
Sommando i primi ed i secondi membri delle (12) ed uguagliando si perviene
infine alla
i=n
( Pn B ) = ( P1 A ) + ∑ α i + kπ (13)
i =1
dove k è un numero intero che si individua facilmente in sede di calcolo.
Sostituendo nella (13) i valori degli angoli di direzione noti (PnB) e (P1A), sup-
posti privi di errori, a causa degli inevitabili errori accidentali di misura, si otterrà un
residuo ∆, detto errore di chiusura angolare:
i =n
∑α
i =1
i + ( P 1 A ) − ( Pn B ) + kπ = ± ∆ (14)
che non per gli angoli misurati con lo strumento più preciso. In tal caso la distribu-
zione del ∆ viene effettuata empiricamente per esempio assegnando a ciascun angolo
una correzione inversamente proporzionale allo s.q.m. dello strumento utilizzato per
la loro misura.
Dopo aver compensato gli angoli di direzione si hanno tutti gli elementi per
determinare le coordinate incognite di tutti i punti tramite le (7).
Si avrà:
N P2 = N P1 + d 1 cos( P1 P2 ) E P2 = E P1 + d 1 sen( P1 P2 )
N P3 = N P2 + d 2 cos( P2 P3 ) E P3 = E P" + d 2 sen( P2 P3 )
(18)
...................................................................................................
N Pn = N Pn −1 + d n −1 cos( Pn −1 Pn ) E P n = E Pn −1 + d n −1 sen( Pn −1 Pn )
Sommando i primi membri ed i secondi membri di queste relazioni ed egua-
gliando si otterrà:
i = n −1 i = n −1
N Pn = N P1 + ∑ d i cos( P i Pi +1 )
i =1
E Pn = E P1 + ∑d
i =1
i sen( Pi Pi +1 ) (19)
Se ora nelle (19) si pongono i valori delle coordinate dei punti noti P1 e Pn,
supposte prive di errori, gli angoli di direzione già compensati e quindi anche essi
supposti privi di errori, ed infine le distanze misurate si otterranno degli errori di
chiusura dovuti solo agli errori di misura delle distanze.
Si avrà pertanto
( )
i = n −1
∑d
i =1
i cos( Pi P i +1 ) − N Pn − N P1 = ∆N
(20)
( )
i = n −1
∑d
i =1
i sen( Pi Pi +1 ) − E Pn − E P1 = ∆E
Alla quantità
∆L = ∆N 2 + ∆E 2 (21)
si da il nome di errore di chiusura lineare della poligonale.
Anche per tale errore vale lo stesso discorso fatto per gli angoli; esso deve ri-
sultare in valore assoluto inferiore ad una tolleranza assegnata
∆L ≤ t L (22)
Alla tolleranza viene assegnata l'espressione
tL = p L (23)
dove L esprime la lunghezza complessiva della poligonale espressa in metri e p è un
coefficiente, anche esso espresso in metri, che qualifica la precisione richiesta alla
poligonale. Misurando le distanze con un distanziometro p può assumere valori com-
presi tra 0,001÷0,002 m.
Ove la (22) sia verificata si può procedere alla compensazione dei lati, cioè di-
stribuire l'errore di chiusura tra tutti i lati, o ciò che è lo stesso tra le componenti dei
lati, in modo che i secondi membri delle (20) vadano a 0.
Questa distribuzione non avviene però come per gli angoli in parti uguali in
quanto gli errori commessi sulle misure delle distanze sono proporzionali alle lun-
ghezze delle stesse: è naturale quindi distribuire l'errore di chiusura in parti propor-
zionali alla lunghezza di ciascun lato.
Si calcolano quindi le correzioni unitarie con
∆N ∆E i = n −1
uN= − uE = − con L = ∑ d i (24)
L L i =1
e si ricavano le componenti compensate di ciascun lato con le
[d i cos( Pi Pi +1 )]c = d i cos( Pi Pi +1 ) + u N d i
(25)
[d i sen( Pi Pi +1 )]c = d i sen( Pi Pi +1 ) + u E d i
Con le componenti compensate si determinano infine le coordinate dei punti
applicando le (18).
Fig. 7
Nell'esempio indicato in fig, che rappresenta il caso più generale, si tratta di
poligonale orientata per cui sono noti sia il punto P1 che il punto A esterno alla poli-
gonale.
La condizione cui devono soddisfare gli angoli misurati si deriva immediata-
mente dalla condizione cui devono soddisfare gli angoli interni di un poligono di n
lati
i =n
∑α − (n − 2)200
i =1
i
g
=∆ (26)
i = n −1
∑d
i =1
i cos( Pi Pi +1 ) = ∆N
i = n −1
(27)
∑d
i =1
i sen( Pi Pi +1 ) = ∆E
L'errore di chiusura lineare ∆L, calcolato tramite la (21), se inferiore alla tolle-
ranza, si distribuisce tra tutti i lati misurati in parti proporzionali alle loro relative
lunghezze dopo aver calcolato tramite le (24) le correzioni unitarie.
Fig. 8
Essendo nota la distanza AB, calcolabile con la (2) o la (3), ed applicando al
triangolo ABP il teorema dei seni si ottiene
AB AP BP
= = (28)
sen( α + β ) sen β sen α
da cui si possono calcolare le distanze AP ed BP.
L'angolo di direzione (AP) si ricava immediatamente con
(AP) = (AB)-α
essendo l'angolo (AB) noto e calcolabile tramite la (1).
Applicando infine le formule dell'irradiamento (7) si determinano le coordinate
incognite del punto P.
Il rilievo si può anche eseguire stazionando nei punti A e P, oppure B e P, nel
qual caso prende il nome di intersezione laterale. La scelta dell'uno o dell'altro meto-
do dipende solo da considerazioni pratiche sulle possibilità, o sulla convenienza, di
fare stazione sui punti.
Il metodo, come si può notare applicando le (28), si utilizza anche per la de-
terminazione indiretta di una distanza quando, per esempio è materialmente impossi-
bile raggiungere il punto P o quando la distanza da misurare eccede la portata del di-
stanziometro.
Fig. 9
Nello schema indicato in Fig., dopo aver fatto stazione sui punti noti Pi e misu-
rato gli angoli αi, applicando il teorema dei seni si determinano le distanze PiP,
quindi si calcolano gli angoli di direzione (PiP) e successivamente le coordinate del
punto incognito P.
Si avranno in tal modo tre valori delle coordinate di P e si potrà constatare la
eventuale presenza di errori grossolani e, ove non presenti, assumere la media dei
valori come valore più probabile delle coordinate di P.
Ove si voglia un valore più pertinente delle coordinate di P bisognerà far ricor-
so ad un metodo di compensazione più rigoroso basato sul principio dei minimi qua-
drati.
Fig. 10
e β a tre punti incogniti A, B e C (Fig. 10).
La soluzione numerica dell'intersezione inversa può essere ottenuta con diversi
schemi di calcolo; quello che si propone è dovuto a V. Galkiewictz (1936).
Si considerino gli angoli di direzione
(PA) = γ
(PB) = (PA) + α = γ + α
(PC) = (PA) + α + β = γ + α + β
Applicando la (1) si otterrà
E A − E P = ( N A − N P ) tan γ
E B − E P = ( N B − N A ) tan( γ + α )
E C − E P = ( N C − N P ) tan( γ + α + β )
cioè un sistema di tre equazioni in tre incognite, EP , NP e γ che risolto porta alle se-
guenti soluzioni
( E A − E B ) cot α + (EC − E A ) cot (α + β ) + N B − N C
tan γ =
( N A − N B ) cot α + ( N C − N A ) cot (α + β ) + EC − E B
E B − E A + N A tan γ − N B tan(γ + α )
NP = (29)
tan γ − tan(γ + α )
E P = E A + ( N P − N A ) tan γ
Del problema esiste anche una soluzione geometrica che meglio mette in evi-
denza i grossi limiti del metodo.
Dopo aver riportato su un foglio in scala opportuna i segmenti AB e BC (Fig.
11)si manda per il punto A una retta che formi un angolo α col segmento AB; quindi
per A si manda la normale a tale retta sino ad intersecare nel punto O1 la normale alla
mezzeria del segmento AB. Si ripete analoga operazione per il punto B riportando
l'angolo β sino a determinare il punto O2.
Fig. 11
Il metodo cade in difetto tutte le volte che il punto P appartiene alla circonfe-
renza che passa per A, B e C (Fig. 12 a)) perché in tal caso tutti i punti appartenenti
all'arco APC soddisferebbero il problema
E' questo il caso di indeterminatezza del problema che rigorosamente si pre-
senta quando la somma degli angoli misurati e dell'angolo noto a loro opposto nel
g
quadrilatero ABCP, cioè l'angolo γ, è uguale a 200
α + β + γ = 200 g (30)
La (30) rappresenta infatti la condizione che un quadrilatero sia inscrittibile in
una circonferenza.
Naturalmente è rarissimo nella pratica che la (30) sia esattamente verificata;
g
avviene però spesso che il risultato sia molto prossimo a 200 . In questo caso il pro-
blema, nonostante non sia indeterminato, presenta una grande imprecisione in quanto
piccoli errori nella misura di α e β provocano grandissimi errori nella posizione di P.
Nella Fig. 12 b) si può notare che se le due circonferenze sono distinte, ma di
centri molto prossimi e raggi quasi uguali, il punto d'intersezione P risulta non net-
tamente definito dall'intersezione dei due archi in quanto le loro tangenti formano un
angolo troppo piccolo.
Il metodo di Snellius può pertanto presentare casi di criticità che ne ridimen-
sionano il grande vantaggio che consente di determinare la planimetria di un punto
semplicemente stazionandovi sopra e misurando gli angoli a tre punti noti visibili.
Per questo motivo il Catasto non lo accetta tra i metodi di rilievo validi per la
determinazione delle coordinate di punti.
Fig. 12
Data la sua praticità il metodo viene però spesso utilizzato dai topografi che si
tutelano contro i casi di criticità collimando più di tre punti noti e possibilmente a gi-
ro d'orizzonte; in genere conviene collimare tutti i punti noti visibili dal punto P. Si
hanno così a disposizione
n n!
=
3 (n − 3 )! 3!
coppie di coordinate del punto P incognito, con n numero di punti noti collimati.
L'esame della serie di coordinate permette facilmente di individuare le terne
che creano condizioni di criticità in quanto scartano notevolmente dalla media (si
manifestano alla stessa stregua degli errori grossolani); tali terne si eliminano dalla
serie di coordinate e si assume come valore delle coordinate il valor medio.
Nei casi in cui i punti noti visibili siano pochi (come minimo almeno quattro)
la situazione ideale si presenta quando il punto P è situato all'interno del quadrilatero
formato dai punti noti perché in questo caso si è sicuri di non incappare nelle condi-
zioni di criticità.
1.11. Triangolazione
Da quando Snellius l'ha impiegata per la prima volta nel 1672, e prima della
comparsa dei distanziometri, è stato l'unico metodo usato per la determinazione dei
punti di inquadramento o di punti di elevata precisione.
Lo schema è identico a quello dell'intersezione in avanti; l'unica, e sostanziale,
differenza consiste nel fatto che bisogna fare stazione su tutti i punti (Fig. 13) e misu-
rare i tre angoli del triangolo.
Avendo misurato i tre angoli si può determinare l'errore di chiusura
α + β + γ − 200 g = ∆
che, se inferiore alla tolleranza assegnata, si distribuirà, cambiato di segno, in parti
uguali ai tre angoli.
La triangolazione quindi, contrariamente a quanto accade per l'intersezione in
avanti, permette di eseguire la compensazione delle misure.
Fig. 13
Fig. 15
CAPITOLO 2
DETERMINAZIONI ALTIMETRICHE
1
tan ( Â − B̂ )
( QB + R ) − ( Q A + R ) 2
=
( QB + R ) + ( Q A + R ) 1
tan ( Â + B̂ )
2
ed essendo
( Â − B̂ ) = ( 200 g − Z A ) − ( 200 g − Z B ) = Z B − Z A
(31)
( Â + B̂ ) = 200 g − ω
con evidenti sostituzioni si ottiene
1
tan ( Z B − Z A )
2 Q + QB 1 ω
QB − Q A = ( QB + Q A + 2 R ) = 2 R( 1 + A ) tan ( Z B − Z A ) tan
ω 2R 2 2
tan( 100 g − )
2
(32)
Tenendo presente che
D
ω=
R
ω
sviluppando in serie tan si avrà
2
D D D2
tan = (1+ )
2R 2R 12 R 2
e potremo pertanto porre
D D
tan =
2R 2R
in quanto il secondo termine dello sviluppo in serie si può trascurare data la recisione
-6
ottenibile dalla misura; per D = 30 km esso vale 2.10 .
Dalla (31) si otterrà in definitiva
Q 1
QB − Q A = D( 1 + m ) tan ( Z B − Z A ) (33)
R 2
avendo posto
Q + QB
Qm = A (34)
2
La (32) è la formula che fornisce il dislivello tra i centri dei teodoliti posti in A
e B per cui volendo il dislivello tra i punti A e B al suolo a detta formula va aggiunta
l'altezza strumentale hA dello strumento posto in A e tolta l'altezza strumentale hB
dello strumento posto in B.
Conoscendo la quota di uno dei due punti si può quindi determinare la quota
dell'altro.
Non deve meravigliare il fatto che nel secondo membro della (32) sia presente
il termine Qm dato dalla (33) che contiene l'incognita. Esso si può determinare in
prima approssimazione assegnandogli il valore della quota nota, per es., QA; quindi
calcolare un valore approssimato di QB da utilizzare per determinare nuovamente il
valore di Qm da introdurre nella (32) per il calcolo definitivo del dislivello.
Il procedimento ha una sua validità in quanto Qm è, salvo casi eccezionali,
molto piccolo rispetto al raggio R per cui la quantità
Qm 1
D tan ( Z B − Z A )
R 2
interviene nel calcolo del dislivello per una frazione molto piccola e quindi tolleran-
do su Qm un errore di circa 30 m si avrebbe sul dislivello un errore del centimetro
ininfluente se si tiene conto che l's.q.m del dislivello tra punti distanti qualche chilo-
metro è dell'ordine di alcuni centimetri.
Quando non siano necessarie elevate precisioni, o non si operi in condizioni
estreme (elevato dislivello a quote molto alte) il termine entro parentesi si trascura
per cui la (32) assume la forma semplificata
1
QB − Q A = D tan ( Z B − Z A ) (35)
2
gue che la distanza zenitale misurata zA, detta apparente, è sempre minore di quella
teorica ZA di una quantità ∆z detta angolo di rifrazione. Lo stesso fenomeno si pro-
porrà in B.
L'angolo di rifrazione, secondo studi dovuti a Gauss, è stato posto uguale a
ω
∆z = k (38)
2
dove k è un coefficiente di proporzionalità detto coefficiente di rifrazione.
Se le due collimazioni sono eseguite contemporaneamente i due angoli di rifra-
zione possono ritenersi uguali; si avrà quindi
Z A = z A + ∆z e Z B = z B + ∆z
Sostituendo nella (35) otterremo infine
1
QB − Q A = D tan ( z B − z A ) (39)
2
che permette la determinazione del dislivello tra A e B tramite le distanze zenitali mi-
surate eliminando le cause perturbatrici dovute alla rifrazione atmosferica.
A tale metodo, che prevede la simultanea presenza di due osservatori in A e B,
si ricorre solo in casi in cui sia necessaria una elevata precisione ma non nei casi cor-
renti di rilevamento che risulterebbero attardati e più costosi.
Il metodo correntemente usato è invece quello della livellazione da un estremo
per cui sostituendo nella (37) il nuovo valore di ZA si avrà
D D 1− k
QB − Q A = D cot( z A + k − ) = D cot( z A − D) (40)
2R 2R 2R
Sviluppando in serie la cotangente e trascurando i quadrati e le potenze supe-
riori si ottiene
1− k 1 1− k
cot( z A − D ) = cot z A + 2
D (41)
2R sen z A 2 R
e quindi
1 1− k 2
QB − Q A = D cot z A + 2
D (42)
sen z A 2 R
Nella (42) si può porre anche sen 2 z A = 1 in quanto nelle ordinarie condizioni
di lavoro l'angolo z è molto prossimo a 100 e quindi, nei limiti di approssimazione di
tale formula, si ottiene
1− k 2
QB − Q A = D cot z A + D + H s − LB (43)
2R
che rappresenta la formula finale per il calcolo
del dislivello avendo indicato con Hs l'altezza
strumentale in A e con LB l'altezza del segnale
sul punto B.
Nella (43) il termine D cot z A rappresenta
il dislivello che si avrebbe tra i punti A e B se la
terra fosse piana ed in assenza di atmosfera(Fig.
18).
Il secondo termine è composto da due
2
componenti: la prima D /2R rappresenta la cor-
rezione di sfericità che abbassa il punto B e Fig. 18
2
quindi aumenta il dislivello; la seconda –kD /2R rappresenta l'effetto della rifrazione
che tende ad alzare il punto B e quindi a diminuire il dislivello.
Fig. 19
In Fig. 19 sono riportati due grafici che indicano l'andamento del coefficiente k
nel Sud dell'Italia e nel Sud della Francia.
L'andamento di k dimostra che le ore migliori per effettuare una livellazione
trigonometrica sono quelle centrali della giornata in cui la curva presenta un basso
gradiente.
In Italia mediamente si può assumere il valore di 0,12 ÷ 0,13.
Esso dipenderà dagli errori medi mD , relativo alla misura della distanza D, mz ,
relativo alla misura della distanza zenitale zA ed mk , relativo al valore adottato per il
coefficiente k in quanto possono considerarsi trascurabili gli errori medi di Hs ed LB.
Eseguendo le derivate si otterrà
( 1 − k )2 D 2 D2 D4
m∆ = ± cot 2 z A ⋅ m D2 + 2
⋅ m 2
D + 4
⋅ m 2
z + 2
⋅ mk2 (44)
R sen z A 4R
Il secondo termine entro la radice è una quantità molto piccola (per D=6 km
vale circa 10) per cui si può trascurare, si può porre sen 4 z A = 1 ; data la prossimità
g m
di zA a 100 e si può introdurre lo s.q.m. relativo della distanza pari a s D = D ; si
D
ottiene così
D2
m∆ = ± D cot 2 z A ⋅ s D2 + m z2 + 2
⋅ mk2 (45)
4R
Analizzando la (45) e sostituendo opportuni valori numerici si può constatare
che fino ad una distanza di 10.000 m l'influenza di mk, nonostante sia proporzionale a
2
D , è bassa; entro tale limite prevale in modo preponderante l'errore sulla distanza
zenitale e si può ritenere che lo s.q.m. del dislivello sia approssimativamente propor-
zionale alla distanza secondo la
m∆ ≅ ±1,2 D
dove m∆ è espresso in centimetri e D in chilometri.
CAPITOLO 3
RILIEVO DI DETTAGLIO
1.1. La fotogrammetria
La fotogrammetria, allo stato attuale dell'arte, può considerarsi il metodo più
largamente diffuso per il rilievo di dettaglio di vaste aree del territorio. Si pensi al
contenuto di una qualsiasi carta, sia a piccola che a grande scala; esso va considerato
tutto come rilievo di dettaglio e mentre all'inizio del secolo quando furono impostate
e rilevate tutte le cartografie dei grandi Stati esso era ottenuto con metodi topografici,
oggi è totalmente rilevato tramite rilievo fotogrammetrico.
La fotogrammetria è una tecnica complessa ed articolata che si presta ad un
corso universitario a se stante.
In termini molto sintetici si basa sull'esecuzione di fotogrammi che riprendono
una determinata porzione del terreno da due punti di vista diversi in modo che si pos-
sa realizzare un modello stereoscopico della zona interessata.
I fotogrammi possono essere ripresi sia da terra (fotogrammetria terrestre) sia
dall'aereo (aerofotogrammetria).
Per poter essere utilizzati essi debbono avere almeno quattro particolari del ter-
reno comuni di cui si possiedano le coordinate plano-altimetriche nel sistema di rife-
rimento della carta che si vuole produrre. In genere tali punti si rilevano in campagna
dopo aver effettuato la ripresa e sono indicati col nome di punti di appoggio.
Con tutti questi dati a disposizione i fotogrammi vengono montati in particolari
strumenti, detti apparecchi restitutori, che con determinate operazioni (orientamento
relativo ed assoluto) permettono all'operatore di vedere la porzione di terreno inte-
ressata in stereoscopia.
L'operatore, aiutandosi con opportuni volantini, può esplorare tutto il modello
aiutandosi con un reticolo dotato di una piccola marca presente nell'oculare; tutto il
complesso è collegato ad un pantografo dotato di punta scrivente che traccia su un
foglio di carta tutti i particolari seguiti dall'operatore.
1.2. La celerimensura
Su molti testi di Topografia si parla ancora della celerimensura come metodo
fondamentale del rilievo di dettaglio.
Esso si basava sul rilievo dei particolari con l'utilizzo di un teodolite di bassa
c
precisione (1 ) dotato di reticolo distanziometrico utilizzando il metodo dell'irradia-
mento con l'aggiunta delle letture alla stadia effettuate ai tre fili e della lettura del-
l'angolo zenitale.
Con la comparsa dei distanziometri, o meglio delle stazioni totali, si può ancora
assegnare il nome di celerimensura al tipo di rilievo in cui, ovviamente scompare la
stadia.
Ponendosi quindi in stazione su un punto di inquadramento ed orientandosi su
un altro, entrambi noti, si collimano i vari punti di dettaglio misurando l'angolo azi-
mutale, l'angolo zenitale e la distanza; si hanno così, con l'aggiunta dell'altezza stru-
mentale e dell'altezza della palina, tutti gli elementi per calcolare le coordinate plano-
altimetriche di tutti i punti di dettaglio collimati. utilizzando le formule dell'irradia-
mento e quelle della livellazione trigonometrica.
Si tratta ovviamente di un rilievo speditivo per cui le letture agli angoli, sia
azimutali che zenitali, saranno eseguite in una sola posizione del strumento (CD o
CS); diviene importante pertanto conoscere l'entità dello zenit strumentale prima del-
l'inizio di ogni serie di misure.