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Novità, autodeterminazione e comunicazione come elementi essenziali dell’agire umano.


Riflessioni a partire dalla teoria dell’azione in K. Wojtyla

(Prof. Antonio Malo)

Il tema dell’azione umana ha assunto nella modernità e, soprattutto, nell’odierna cultura


tecnologica, un ruolo capitale sia in ambito teoretico che in ambito pratico. Infatti, la rivalutazione
della praxis nelle recenti fenomenologia ed ermeneutica di origine heideggeriana e nella filosofia
analitica, va di pari passo con il ruolo svolto dall’azione nel progresso della società in tutti i suoi
ambiti (economico, politico, culturale), arrivando a modellare la stessa mentalità odierna: molti dei
nostri abiti, dei nostri modi di pensare, di fare esperienza e di comportarci dipendono da un particolare
modo di concepire l’azione umana ed anche dal senso che le attribuiamo per raggiungere una vita
compiuta.

Come in altri campi dell’esistenza, nell’azione umana si osserva un quadro pieno di luci ed
ombre. Basta dare uno sguardo al panorama della ricerca scientifica attuale, allo sviluppo delle
strutture economico-sociali e, soprattutto, al ruolo decisivo del lavoro nella vita di milioni di persone,
per rendersi conto che l’operatività umana è fonte di progresso, di miglioramento delle condizioni di
vita di persone e di popoli, ma nel contempo tale crescita non è esente da rischi: l’ingegneria genetica,
ad esempio, non sembra conoscere alcun principio etico, per cui comincia ad essere usata sugli
embrioni umani con fini eugenetici e commerciali; lo sviluppo economico di pochi paesi ricchi sembra
realizzarsi a scapito del benessere più elementare dei paesi poveri; l’efficacia tecnica delle persone è,
molte volte, in contrasto con la loro immaturità personale; lo svolgimento massimamente
razionalizzato dei ruoli sociali sembra convivere con la disgregazione delle istituzioni sociali naturali,
come la famiglia, o dei rapporti umani, come l’amicizia.

Forse, però, l’aspetto più inquietante non è costituito dalle questioni che fanno notizia sui mass-
media, bensì da qualcosa di quotidiano, apparentemente di scarsa importanza, ma in realtà più
insidioso, poiché impregna la totalità del nostro vivere. Ci riferiamo «alla profonda tensione fra ciò
che “sarebbe umano fare” e ciò che viene di fatto agito o prodotto senza qualità umana»1. Ecco che

1 P. DONATI, Il problema della umanizzazione nell’era della globalizzazione tecnologica, in Atti


del Congresso organizzato dall’Università Campus Bio-Medico in collaborazione con le Università di
Catania, Parma, Navarra e con la Fondazione Rui (“Prendersi cura dell’uomo nella società
tecnologica”, Roma, 6-8 settembre 2000), a cura di P. G. Palla e S. Grossi Gondi, Edizioni
Universitarie dell’Associazione Rui, Roma 2000, p. 45.
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questo fare disumano comincia a non essere più visto come un male, ma come qualcosa di normale,
per il semplice motivo che molti agiscono così.

Infine, la stessa idea di un agire libero e responsabile scompare a poco a poco dall’orizzonte
mentale di tante persone, sostituita dalla considerazione dell’azione umana come un evento fisico più
o meno necessario, perché determinato dal nostro codice genetico, dai traumi dell’infanzia,
dall’educazione ricevuta, da situazioni eccezionali, ecc.

Certamente i contrasti fra sviluppo tecnologico e perdita di valori umani non possono essere
spiegati adducendo, come unica motivazione, la trasformazione teorica e pratica del senso dell’azione
umana. Ci sembra però che, sebbene tale alterazione possa essere annoverata fra le tante cause del
cambiamento in atto, essa rimanga una causa essenziale tanto per i rapporti inscindibili che l’azione
ha con la persona quanto per i rapporti che, attraverso le azioni, intercorrono fra le persone e le
istituzioni sociali.

Il quadro appena abbozzato ci fa capire che nel nostro modo di intendere l’azione c’è qualcosa
di sbagliato o, per lo meno, di parziale, che deve essere messo in luce se non vogliamo che gli aspetti
negativi vanifichino o, per lo meno, tolgano valore a tante conquiste della nostra civiltà occidentale2.

La mia relazione si presenta come un contributo in questa direzione. Partendo dalla riflessione
sulla teoria dell’azione in K. Wojtyla, tenterò di individuare alcuni degli elementi essenziali dell’agire
umano: novità, autodeterminazione e comunicazione. Il loro carattere di elementi essenziali sarà
dimostrato attraverso una doppia via: in primo luogo, mediante gli errori che la loro negazione o
riduzione portano con sé; in secondo luogo, individuando nella loro integrazione la chiave di volta per
elaborare una teoria dell’azione che permetta uno sviluppo perfezionante delle persone. Forse in
questo ultimo punto si trova la principale tesi della mia relazione: la comunicazione della perfezione è
la vetta più alta a cui è chiamata l’azione umana.

1. Due prospettive dell’azione umana: teleologica e genetica

Ad un primo sguardo l’azione umana, come gli altri tipi di eventi della natura inanimata ed
animata, può essere definita come un evento esterno reale. Il termine reale fa riferimento alla sua
attualità (da questo punto di vista l’azione si distingue dalla potenza, dalla possibilità, dalla

2Per un’analisi approfondita dei problemi e delle prospettive aperti dalle diverse teorie dell’azione
mi permetto di rimandare al mio saggio Il senso antropologico dell’azione. Paradigmi e prospettive,
Armando, Roma 2004.
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rappresentazione e dal virtuale), mentre quello di evento esterno riguarda il suo apparire e, in
definitiva, la sua contingenza (da questo punto di vista l’azione umana si distingue dalle realtà
immutabili ed eterne). Nonostante questa comunanza con gli altri eventi che accadono nel cosmo, il
carattere di evento reale dell’azione umana non è univoco, ma analogo. Ciò appare con particolare
chiarezza quando si analizza l’azione sia dal punto di vista della sua realtà sia dal punto di vista del
suo accadere.

Prospettiva teleologica

Uno dei primi a studiare l’azione umana a partire dalla sua realtà è stato Aristotele. Secondo lo
Stagirita, la realtà dell’azione umana — come di qualsiasi altra realtà — si basa sulla sua attualità
(energeia), in quanto l’atto è perfezione e sorgente di ogni perfezione3. L’azione umana non è però
unica, ma molteplice: costruire, suonare il flauto, agire giustamente, contemplare i primi principi sono
solo alcune delle azioni di cui l’uomo è capace. Da qui si evince che le azioni umane debbano
intendersi anche in modo analogico, cioè secondo un maggiore o minore grado di attualità.

Da che cosa dipende la maggiore o minore attualità delle azioni umane? La risposta di
Aristotele è chiara: dal fine, poiché il fine è la perfezione dell’azione ovvero ciò a cui essa tende;
nell’azione di costruire, ad esempio, c’è meno perfezione che nella casa costruita perché non si è
ancora raggiunto il fine. Questo è particolarmente importante nelle azioni che mirano al bene, come
accade in quelle che dipendono da una scelta. Di conseguenza, anche se nell’azione giusta c’è sempre
il fine, in quella giusta solo per caso c’è meno perfezione che nell’azione giusta nata dalla scelta di ciò
che è giusto, cioè nata dalla virtù4.

Insomma, le azioni umane tendono tutte verso il loro fine, ma non tutte lo possiedono. Per cui, è
possibile distinguere le azioni che non hanno in sé il fine, come il costruire, suonare il flauto, ecc. dalle
azioni che, invece, l’hanno, come le azioni virtuose.

3 Energeia sarebbe un sostantivo derivato dal verbo energein, coniato a sua volta sul termine
ergon. Energein avrebbe un valore intensivo: un essere all’opera in modo gagliardo, per cui il
sostantivo energeia conterrebbe la stessa carica di attuosità e di attività del verbo da cui deriva. Sia
energein sia energeia sarebbero termini coniati da Aristotele (cfr. ARISTOTELE, Metafisica, a cura di
G. Reale, Vita e Pensiero, Milano 1993, IX, 8, 1050a 22).
4 «Ma tra i fini c’è un’evidente differenza: alcuni infatti sono attività (energeiai), altri sono opere
(erga) che da esse derivano. Quando ci sono dei fini al di là delle azioni (praxeôn), le opere sono per
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Sembrerebbe che la prospettiva del fine dell’azione sia sufficiente per poter stabilire i diversi
gradi di perfezione delle azioni umane e, dunque, la loro maggiore o minore realtà. Invece, non è così;
e ciò per due motivi. In primo luogo, perché la perfezione dell’azione umana rimanda sempre alla
perfezione dell’uomo di cui l’azione partecipa; di conseguenza, per conoscere la perfezione delle
azioni umane, si deve sapere prima qual è il fine dell’uomo, per lo meno in modo generico. In
secondo luogo, perché, per poter giungere a ciò che costituisce la perfezione dell’uomo, non basta la
conoscenza delle sue azioni, ma è necessaria anche quella delle sue potenze.

Cercherò di spiegare meglio questi due punti. Anche se l’azione umana che possiede in se
stessa il proprio fine è la più perfetta (ad esempio, l’atto giusto, la considerazione del principio di non
contraddizione, ecc.) e, quindi, quella che possiede un maggior grado di realtà, essa continua ancora
ad essere una realtà di secondo ordine, poiché si tratta di una perfezione accidentale che per poter
esistere richiede un uomo, ovvero una sostanza che la causa. D’altro canto, bisogna tener presente che
il potere di causare azioni umane non s’identifica con la sostanza, poiché questa non sempre agisce (il
bambino, ad esempio, non può agire virtuosamente perché ancora non ha sviluppato la ragione) o, per
lo meno, non causa tutte le azioni di cui è capace (quando, ad esempio, uno dorme non può
contemplare i primi principi). Per cui, l’azione rimanda sì alla sostanza, ma non direttamente bensì
mediante una potenza attiva o facoltà posseduta dalla sostanza, che, come nell’esempio precedente,
esiste anche quando non è attualizzata. Così il nesso causale fra uomo e azione umana si trova nella
potenza attiva. L’azione altro non è che l’attualizzazione di detta potenza attiva.

Di qui che, per studiare la genesi dell’azione, bisogna seguire uno schema ormai classico, che
parte dall’azione nel tentativo di individuare la sostanza che l’ha causata: l’oggetto o fine dell’azione
rimanda ad una potenza attiva (nel caso dei viventi alle diverse facoltà), la quale a sua volta si riferisce
alla sostanza (nel caso dei viventi, all’anima5 o entelecheia prima). Ad esempio, il mangiare, che ha
come fine il nutrimento, dipende dalla facoltà nutritiva, la quale dipende a sua volta dall’anima
vegetativa o inferiore, poiché essa si trova già nei vegetali. Il vedere, che ha come fine la visione di
forme e colori, dipende dalla facoltà visiva, la quale dipende da un’anima sensitiva. Il pensare, che ad
esempio si manifesta nel linguaggio, dipende dalla ragione, la quale dipende a sua volta da un’anima
razionale.

natura di maggior valore delle attività» (ARISTOTELE, Etica Nicomachea, a cura di Claudio
Mazzarelli, Bompiani Testi a fronte, Milano 2003, I, 1, 1094a 3-6).

5 L’anima sarebbe entelecheia prima rispetto ai suoi atti, che diventerebbero perciò entelecheia
seconda. Tale ipotesi è confermata dalla seconda definizione di anima: «ciò per cui viviamo e
sentiamo e pensiamo anzitutto» (ARISTOTELE, De anima, a cura di G. Movia, Loffredo, Napoli 1979,
II, 2, 414a 12).
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A partire da tale schema, è possibile individuare le azioni umane, quelle cioè che dipendono
dall’attualizzazione della facoltà razionale, proprietà della specie umana. Il fine dell’uomo è quindi —
per Aristotele — il vivere bene ovvero secondo la ragione6. Come nel caso del fine delle azioni,
l’attualizzazione della ragione ammette modi e gradi diversi. In primo luogo, c’è la theoresis o azione
del noûs poietikos o intelletto agente, come conoscenza dei primi principi, la quale dipende
esclusivamente dalla ragione per cui il suo principio è quanto di più divino c’è nell’uomo7; in secondo
luogo, c’è la praxis o azione della ragione pratica, come azione giusta, prudente, ecc., il cui principio
è l’uomo in quanto essere capace di virtù e di amicizia; infine, c’è la poiêsis o fare, come costruzione
o fabbricazione di oggetti, ecc., la quale dipende da un uso tecnico della ragione pratica, il cui
principio è la necessità di soddisfare i bisogni propri della condizione umana8.

Dunque, anche se theoresis, praxis e poiêsis sono considerate da Aristotele azioni umane, non
hanno lo stesso grado di perfezione in rapporto alla vita umana. La theoresis è l’azione più perfetta,
anzi è così perfetta che trascende non solo le necessità legate al corpo, ma anche la stessa ragione
pratica e le sue azioni. La ragione di tale superiorità non deriva solo dal possesso del fine da parte
dell’azione, ma soprattutto dal suo essere fine in modo assoluto. Infatti, le altre azioni non lo sono: la
poiêsis perché si trova al servizio della praxis, la quale a sua volta, sebbene sia fine, è relativa al
vivere; solo la theoresis è fine senza relazione a qualcosa d’altro. Di conseguenza il fine della vita
dell’uomo o felicità si trova nella contemplazione, anche se a causa della condizione umana essa
richiede il soddisfacimento dei bisogni, la pratica delle virtù nella polis e l’amicizia9.

6 Cfr. Etica Nicomachea, X, 6, 1176b.

7 «Questo intelletto è separato, impassivo e senza mescolanza perché per sua essenza è atto; e
l’agente è sempre più eccellente del paziente, il principio della materia. [...] Separato, esso è solo ciò
che realmente è, e questo solo è immortale ed eterno» (De anima, III, 430a 17-24).

8 L’abito della ragione pratica che riguarda la produzione è la teknê, che ci permette di fare le cose
con l’aiuto di una regola esatta. La teknê è il sapere relativo alla poiêsis, mentre la poiêsis è l’atto
della teknê (Cfr. Etica Nicomachea, VI, 4, 1140). Berti, nel commentare il libro VI, sostiene che
Aristotele avrebbe incluso l’arte (teknê) fra le virtù dianoetiche, nella misura in cui la tecnica produce
nel soggetto che la pratica “un abito produttivo accompagnato da logos vero (hexis metá logou
alethoús poietiké)” (cfr. E. BERTI, Le ragioni di Aristotele, Laterza, Roma-Bari 1989, pp. 153-154).

9 «Dunque, la felicità è insieme la cosa più buona, la più bella e la più piacevole, qualità queste
che non devono essere separate (...). È manifesto tuttavia che essa ha bisogno in più dei beni esteriori,
come abbiamo detto: è impossibile, infatti, o non facile, compiere le azioni belle se si è privi di risorse
materiali. Infatti, molte azioni si compiono per mezzo degli amici, della ricchezza, del potere politico,
come mezzo di strumenti. E coloro che sono privi di alcuni di questi beni si trovano guastata la
felicità» (Etica Nicomachea, I, 9, 1099a 24-b 4).
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Insomma, la visione aristotelica dell’azione umana, oltre a permettere di annoverarla nel mondo
degli eventi contingenti, fa scoprire la sua caratteristica essenziale: il fine dell’azione umana è la vita
buona o felicità. Allo stesso tempo, essa non riesce però a risolvere due questioni: la trascendenza
dell’azione teoretica nei confronti del vivere; l’esistenza di azioni, come quelle della poiêsis, che,
nonostante siano umane, non hanno valore in se stesse poiché non sono fini.

D’altro canto, sembra che la razionalità teoretica scoperta attraverso la contemplazione abbia
come caratteristica l’assoluta indipendenza, ovvero l’autarkeia o autosufficienza. Ma, poiché essa si
realizza solo nell’atto di vivere, l’esercizio di tale razionalità ha bisogno di condizioni vitali adeguate.
Per cui, si dà un paradosso: per poter raggiungere tale indipendenza è necessario rendere dipendenti
altri uomini dalla necessità-contingenza dei processi vitali, sono cioè necessari gli schiavi10.

La prospettiva genetica

Nella modernità, la prospettiva teleologica dell’azione è sostituita da quella genetica o


dell’origine. Certamente, anche in Aristotele la causalità efficiente aveva un ruolo importantissimo nel
differenziare le diverse azioni in quanto esse altro non erano che l’attualizzazione delle potenze
dell’uomo. Nella modernità, però, la causalità efficiente non si coglie indirettamente attraverso delle
potenze attive o delle facoltà ma nella medesima azione, e in particolare nello stesso principio
dell’azione: la natura, caratterizzata dalla necessità, o la libertà, caratterizzata dalla sua indipendenza
assoluta.

Qual è il principio che si scopre nell’azione umana? Secondo Cartesio, considerato uno dei
padri della modernità, tale principio è il cogito11.

Apparentemente anche qui la razionalità, indicata già da Aristotele, pare la caratteristica


essenziale dell’azione umana. Ma non è così. Il cogito, origine dell’azione umana, non ha — secondo

10Questa, ad esempio, è la tesi di Arendt, che lega il problema della schiavitù all’impossibilità che
l’uomo ha di liberarsi pienamente dalle necessità vitali (cfr. H. ARENDT, Vita Activa. La condizione
umana, Bompiani, Milano 1989, pp. 165-166).

11«Nell’atto in cui volevo pensare così, che tutto era falso, bisognava necessariamente che io, che
lo pensavo, fossi qualcosa» (CARTESIO, Discours, AT VI, p. 33; COF I, 312). Le opere di Cartesio
sono citate secondo l’edizione di Charles ADAM e Paul TANNERY, Oeuvres de Descartes, Vrin, Paris
1974-1983. La traduzione dall’originale francese è tratta da Cartesio. Opere filosofiche, 4 voll.,
Laterza, Bari 1986.
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Cartesio — niente a che vedere con la razionalità pratica né con quella teoretica. Esso ha a che fare
con la coscienza o, meglio ancora, con l’autocoscienza. Essere razionali, secondo il filosofo della
Turenna, equivale a essere consci di se stessi, e tale coscienza s’identifica con il pensiero.

L’azione propriamente umana è, dunque, puro pensiero?

Se così fosse, la critica fatta da Kant, e poi ripresa in parte da Husserl, sarebbe valida: Cartesio
avrebbe confuso il pensiero con la riflessione. Infatti, la coscienza che coglie se stessa come essere
pensante è una riflessione, poiché come ha indicato Husserl e, prima ancora, il pensiero aristotelico-
tomista, la conoscenza è intenzionale: cioè conoscere è sempre conoscere qualcosa e mai un puro
conoscere di conoscere12.

La critica a Cartesio di aver scambiato la coscienza per la riflessione non sembra invece che
colga nel segno, perché il pensatore della Turenna introduce nel pensiero un elemento, che senza
essere pensiero, lo accompagna sempre, sebbene non sempre ne siamo consci: la valutazione del
pensiero come qualcosa di positivo o, se vogliamo, la sua affermazione come valore. Detto in altre
parole, pensiamo perché vogliamo pensare e lo vogliamo perché valutiamo questo atto come positivo.

Cartesio mette a nudo questa struttura dell’azione umana perché il suo punto di partenza non è
la spontaneità del pensiero, ma ciò che lo attiva: il voler trovare la verità. Il dubbio iniziale serve a far
venire fuori questo volere implicito: Cartesio dubita perché vuole dubitare e vuole dubitare perché
vuole conoscere la verità13. L’introduzione del volere nell’atto del pensare non è però una forzatura,
come se il pensiero non avesse bisogno di essere affermato. La forzatura consiste nel non voler
riconoscere tale punto di partenza, cioè nel sostituire il voler conoscere la realtà con una pura
autocoscienza.

Molti secoli prima, Sant’Agostino aveva già accennato a una simile struttura quando sosteneva
la necessità di tre principi perché si potesse dare qualsiasi operazione dell’anima: dalla sensazione,

12 Com’è noto, il punto di collegamento fra scolastica e fenomenologia è l’opera di Brentano


Psycologie vom empirischen Standpunkt: «Ogni fenomeno psichico è pertanto caratterizzato da ciò
che gli Scolastici del Medioevo chiamano la inesistenza intenzionale (o anche mentale) di un oggetto;
noi la chiameremo la relazione a un contenuto, la direzione verso un oggetto (il quale non va qui
inteso senz’altro come realtà) o anche oggettività immanente» (I, Felix Meiner Verlag, Hamburg
1973, p. 124).

13 «Nell’atto in cui volevo pensare così, che tutto era falso, bisognava necessariamente che io, che
lo pensavo, fossi qualcosa. E osservando che questa verità, penso dunque sono, era così salda e certa
da non poter vacillare sotto l’urto di tutte le più stravaganti supposizioni degli scettici, giudicai di
poterla accettare senza scrupolo come il primo principio della filosofia che cercavo» (Discours, AT.
VI, p. 32; COF I, p. 312).
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alla volizione, passando per il pensiero. Per poter conoscere, spiega il vescovo d’Ippona, non basta
l’oggetto, né l’attività del conoscere, ma è anche necessaria l’attenzione14. A differenza dell’oggetto e
dell’atto di conoscere, l’attenzione dipende solo dall’anima. L’anima conosce, secondo
Sant’Agostino, solo quando applica l’attenzione all’oggetto conosciuto.

Ma perché l’anima fissa la sua attenzione? Perché è interessata, perché quella realtà non la
lascia indifferente, cioè perché vuole conoscerla. Certamente, il grado di volontarietà è differente
nell’attenzione prestata alla sensazione e in quella prestata ad un ragionamento e ancora di più in
quella dell’esecuzione di un’azione per noi importante.

Ecco perché il pensare, come qualsiasi altra azione umana (intesa in senso classico, cioè come
atti umani in contrapposizione agli atti dell’uomo), può permettere alla persona non solo di conoscere
ma anche di conoscere di voler conoscere, cioè di conoscere di essere l’origine del proprio atto. È
questo, a nostro parere, che viene rivelato dal Cogito ergo sum. La differenza fra l’azione umana e le
restanti azioni si coglie nello stesso atto di pensare: non per quello che viene pensato (oggetto), ma per
colui che lo pensa, poiché pensare è conoscere se stessi come origine del proprio atto15.

In Cartesio, quindi, è implicita questa struttura del pensiero umano e in genere delle azioni
umane. Ma, proprio perché il pensiero viene ridotto all’autoconoscenza, non è resa esplicita.

2. Verso una prospettiva sintetica dell’azione umana: la persona origine dell’azione

Nel senso più generico possibile, l’azione umana potrebbe essere definita secondo questa
seconda prospettiva come una realtà originata dalla persona.

In quale senso è originata? Senza cercar di offrire una risposta esauriente, si potrebbe affermare
che il carattere di originata coincide con la sua dipendenza assoluta dalla persona, che la rende reale:
la persona è assolutamente necessaria perché ci sia un’azione umana.

14«Inoltre, come il volere applica il senso al corpo, così egli applica la memoria al senso, e lo
sguardo del pensiero alla memoria. Ma lo stesso volere, che li mette insieme e li combina, li divide
anche e li separa» (SANT’AGOSTINO, De Trinitate, XI, cap. 8).

15 In questo senso, condividiamo la tesi di Taylor, secondo cui Agostino si trova alla sorgente
dell’atteggiamento moderno di portare «in primo piano un tipo di presenza a se stessi
inseparabilmente legato al fatto che siamo agenti di esperienza, cioè realtà l’accesso alle quali è
asimmetrico» (CH. TAYLOR, Radici dell’io. La costruzione dell’identità moderna, trad. it. di R. Rini,
Feltrinelli, Milano 1993, p. 172).
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Certamente, tale dipendenza non sembra esclusiva della persona poiché le operazioni degli
animali hanno bisogno dell’animale in questione, come il leone o la gazzella. Ma è qui che giace
l’errore: le operazioni degli animali non dipendono da un individuo unico e irrepetibile, ma è
sufficiente un individuo qualsiasi della specie leone o gazzella. Nell’operazione dell’animale, non
agisce l’individuo in quanto tale, ma la specie attraverso l’individuo.

L’originalità dell’azione umana, invece, non si trova solo a livello della specie, ma a livello
personale: non è la specie che agisce nella persona, ma la persona che agisce attraverso ciò che è
comune al genere umano. Detto in altre parole, affinché ci sia un’azione umana non basta che ci sia
un qualsiasi individuo della specie umana, ma questo individuo e nessun altro, cioè una persona. Da
questo punto di vista la dipendenza dell’azione umana dalla persona è assoluta: se non esistesse
questo individuo, anche se ci sono altri esseri umani che realizzano apparentemente le stesse azioni,
non ci sarebbe questa determinata azione.

L’assoluta dipendenza dalla persona significa anche che la contingenza dell’azione umana è
maggiore di quella non umana: l’azione umana dipende non solo dalle potenzialità della specie, ma
anche dalle possibilità della persona di agire o di non agire, di agire in un modo o nell’altro. L’idea
aristotelica secondo cui gli atti secondi sono l’attualizzazione di una potenza o facoltà non può
applicarsi all’azione umana senza introdurre un’importante modifica, perché l’azione umana non è la
ripetizione ciclica di operazioni derivate dall’attualizzazione di una specie eterna nel tempo; l’azione
umana esce dal tempo ciclico — della generazione e corruzione delle sostanze — nella misura in cui
è contenuta nella potenza solo come possibilità. E la realizzazione di tale possibilità non dipende solo
dalla potenza, ma soprattutto da un’intenzione che trasforma la possibilità in azione. Ecco perché,
l’azione umana introduce la novità nel tempo: non è generata dal passato della specie, bensì da una
realtà presente che la rende reale trascendendo il tempo16.

16 Aristotele sostiene anche la trascendenza di una realtà, ma non sarebbe l’uomo, bensì solo il
noûs poietikos. L’intelletto poietico, che proviene dall’esterno (thyrathen), è divino, «perché l’attività
corporale non ha niente in comune con l’attività propria di lui» (De Generatione, II, 3, 736b 8).
Alcuni, come Zucchi, sostengono che l’intelletto umano non è essenzialmente o sostanzialmente
attività, giacché esso non sempre è in atto e, inoltre, è corruttibile (H. ZUCCHI, Acto y potencia como
principios o conceptos explicativos, in AA.VV., L’atto aristotelico e le sue ermeneutiche, Herder,
Roma 1990, pp. 80-81). Anche se si tratta di uno dei punti più oscuri della dottrina aristotelica,
sembra che tali deficienze dell’intelletto umano non corrispondano all’intelletto agente, ma solo a
quello paziente.
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Tale realtà che genera l’azione è la persona17. La persona non la genera però in quanto corpo e
psiche umani, ma in quanto spirito. Certamente, senza la corporeità e la psiche umane, lo spirito non
potrebbe agire. Questo non tanto per mancanza di possibilità poiché lo spirito umano in se stesso è
pura possibilità, quanto per mancanza di potenzialità18. È lo spirito che fa trasformare la potenzialità
in azione umana. Il che significa che lo spirito, sebbene abbia bisogno delle potenzialità per agire,
specialmente dell’intelligenza e della volontà, non ha bisogno dei loro atti per esistere. Altrimenti fra
spirito e atti ci sarebbe una relazione di dipendenza dialettica, come quella sostenuta da Scheler,
secondo cui lo spirito non è altro che l’origine di atti intenzionali, per cui esisterebbe solo negli atti
intenzionali19. Si dovrebbe dire invece che le azioni umane dipendono dalla persona nel loro essere,
mentre la persona dipende da loro nell’agire. La persona, in virtù della sua spiritualità, è il principio
esclusivo dell’agire.

Che l’essere dell’azione sia generato dalla persona permette di capire che l’azione umana, a
differenza di tutte le altre azioni, partecipa della spiritualità e, dunque, che essa, sebbene non sia una
persona, possiede delle caratteristiche personali, grazie alle quali, la si può chiamare una quasi
persona20. Di qui il nuovo metodo usato da Wojtyla: per conoscere la persona non è necessario
conoscere le sue potenze, basta conoscere il suo agire21.

L’immanenza della persona nell’azione

17 Anche se Aristotele sembra di non considerare la trascendenza dell’uomo in quanto tale


riguardo al tempo, sostiene invece la sua trascendenza nei confronti delle azioni quando afferma che
l’agente e principio (archê), anzi «principio e padre delle proprie azioni» come lo si è dei figli
(ARISTOTELE, Etica Nicomachea, III, 5, 111b 18-19). Forse qui si potrebbe trovare una certa
contraddizione riguardo alla tesi della sola eternità dell’intelletto agente.

Questa pura possibilità dello spirito umano si dà insieme all’attualità dell’intelletto agente (SAN
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TOMMASO, De ente et Essentia, cap. V).

«Die Person ist nur ‘in’ ihren Akten und ‘durch’ sie» (M. SCHELER, Zur Phänomenologie und
19

Metaphysik der Freiheit, in Gesammelte Werke, III, Francke, Bern 1954, p. 49).

20La definizione dell’atto come quasi persona, non si trova nell’opera di Wojtyla se non in modo
implicito.

21 «Pertanto, l’uomo, essendo agente dell’azione, non cessa di essere soggetto di essa. È
contemporaneamente agente e soggetto e vive interiormente se stesso come agente e soggetto, anche
se l’esperienza vissuta dell’operatività relega quella della soggettività quasi in un secondo piano» (K.
WOJTYLA, Persona e atto, a cura di Giovanni Reale e Tadeusz Styczen, Bompiani Testi a fronte,
Milano 2001, p. 201).
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Dal punto di vista esterno, l’azione umana presenta degli aspetti simili alle restanti azioni, in
particolare a quelle degli animali più evoluti, come le azioni legate ai processi organici in rapporto con
la vita — nutrizione e riproduzione —, le azioni sensoriali di alcuni mammiferi, ecc. Le differenze
essenziali fra le azioni animali e quelle umane si scoprono, invece, quando si analizza l’azione dal
punto di vista interno, specialmente attraverso due esperienze radicali: la distinzione fra accadere e
agire e quella di posso ma non sono costretto. Si tratta di due esperienze che, nonostante siano
irriducibili, sono collegabili tra loro.

Mentre nell’esperienza dell’accadere si percepisce solo la costrizione propria dei dinamismi


fisici e psichici, dipendenti dai processi organici e dallo scaturire delle tendenze, desideri ed emozioni,
nell’esperienza dell’agire, tale costrizione appare solo come dinamizzazione, attualizzazione e a volte
anche movente dell’azione, ma non come origine di quest’ultima, poiché sono io ad agire. Di qui
l’esperienza, posso, cioè mi rendo conto di tale attualizzazione e di tali motivi e delle possibilità di
agire in un modo o nell’altro, ma non sono costretto.

Oltre all’esperienza posso ma non sono costretto, c’è quella ulteriore del voglio, cioè quella del
voler agire. Come nel caso del cogito cartesiano, nel voglio la persona conosce di essere lei stessa
l’origine radicale della propria azione. Il voglio però non si riferisce solo all’uso delle nostre facoltà,
specialmente dell’intelligenza e della volontà; certamente, nell’uso di queste potenze è già presente
tale voglio; per cui in qualsiasi tipo di volere, che tende all’oggetto voluto, si trova implicito il voglio.
Ma non è al livello dell’intenzione-volizione che si scopre il principio dell’azione, perché questo
livello riguarda l’oggetto delle facoltà, ovvero il livello orizzontale dell’intenzionalità della persona 22.
Il voglio appartiene ad un livello più profondo, quello verticale, in cui la persona assume il dominio di

22 Aristotele si limita invece a questo livello, facendo dipendere l’azione dalla decisione
(proairesis) risultante dall’incontro tra il desiderio che cerca il fine e la ragione che sceglie i mezzi
per raggiungerlo (cfr. ARISTOTELE, Etica Nicomachea, III, 5, 114b 31-32). Certamente, è evidente
che, secondo lo Stagirita, l’agente ha il potere di prendere una tale decisione perché vuole liberamente
voler prendere quella scelta, ma questo implicito non viene tematizzato. La necessità di rendere
esplicito questo secondo livello del volere si osserva, ad esempio, nelle tesi di Hobbes e di Voltaire, i
quali sostengono la possibilità di voler fare qualcosa, senza però essere padroni di tale volere.
Secondo Hobbes, gli uomini e gli animali hanno la facoltà, non di volere liberamente, ma di fare ciò
che vogliono: «Neque libertas volendi vel nolendi major est in homine quam in aliis animalibus. [...]
Quod is per libertatem intelligamus facultatem, non quidem volendi, sed quae volunt faciendi, ea
certe libertas utrique concedi potest; et cum adest, aeque utrique adest» (De corpore, c. 25, 12).
Anche Voltaire afferma: «Essere veramente liberi, è potere. Quando posso fare ciò che voglio, ecco la
libertà: ma ciò che voglio lo voglio necessariamente» (Le philosophe ignorant, 1767, 70, cit. in Lluís
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sé mediante l’amore: nel volere qualcosa, la persona ama se stessa autodeterminandosi secondo il tipo
d’amore con cui ama l’oggetto voluto. In definitiva, la persona assume il dominio di sé amandosi e si
ama amando altre realtà. Così il principio dell’azione è l’amore con cui la persona si ama, basato su
una certa conoscenza di sé e di ciò che essa vuole23. Per cui, in ogni azione c’è una presenza della
persona che non consiste nella pura razionalità pratica né nell’autocoscienza né in una riflessione su di
sé, ma nell’immanenza dell’amore24. È quello che Wojtyla denomina l’immanenza della persona
nell’atto, legata alla concezione della volontà non solo come potenza o facoltà, ma soprattutto come
una proprietà della persona.

Certamente la coscienza è necessaria per poter agire e conoscere che si agisce, ma l’azione
umana non consiste nell’aver coscienza di esserci e neppure nell’aver coscienza di essere un agente,
ma nella relazione libera che, attraverso l’amore, si stabilisce fra la persona e il suo atto. Tale
relazione, sebbene non sia costitutiva della persona, ha la virtualità di determinarla. Infatti, attraverso
l’amore, la persona non solo si possiede in modo oggettivo, ma anche reale, sebbene sempre in modo
parziale e limitato. L’azione umana appare come una realtà unitaria e complessa: dinamismi
fisiologici e psichici (organici, tendenziali e affettivi), conoscenza di sé e delle proprie possibilità,
intenzionalità, scelta ed esecuzione dell’azione sono alcuni degli elementi che la costituiscono. Ciò
che conferisce loro unità, oltre all’origine personale, è l’intenzionalità amorosa. Tale intenzionalità

Clavell, Verità e libertà, Pontificia Accademia di San Tommaso d’Aquino, 6 Sessione Plenaria, 23-25
giugno 2006, Roma, in corso di stampa).

23 Tale conoscenza di sé non è, secondo Wojtyla, intenzionale: «non vi sono atti intenzionali della
coscienza che oggettivino l’“io” riguardo all’esistenza o all’azione. Questa funzione viene svolta dagli
atti dell’autoconoscenza. Ad essi ogni uomo deve il contatto oggettivante con sé e con i propri atti»
(K. WOJTYLA, Persona e atto, cit., p. 111).

24 Anche se Wojtyla non lo afferma esplicitamente, ci sembra che tale interpretazione sia in linea
con le sue analisi dell’autopossesso, autodominio e autodeterminazione. L’origine dell’azione umana
sembra dunque essere questo atto di dominio di sé che implica l’autopossesso, ma anche la capacità-
necessità di amare se stesso. Da questo punto di vista, si può considerare adeguata la distinzione di
Blondel fra l’atto e l’azione all’interno dell’azione umana, in quanto l’azione umana viene generata da
un atto: «Sono note le differenze assai precise che gli scolastici segnalano tra l’atto dell’uomo e l’atto
umano e anche tra volontario e libero. Allo stesso modo una sfumatura molto netta separa atto e
azione. L’atto è più che altro (salvo usi particolari) l’iniziativa primordiale dello sforzo interno, sia
che per natura tutto debba limitarsi a questa operazione spirituale, sia che si tenga presente nell’opera
stessa la parte assolutamente soggettiva dell’agente. La parola azione denota invece il passaggio
dall’intenzione all’esecuzione che la incarna, e spesso, per conseguenza, il risultato o l’opera stessa di
questa operazione transeunte. Dunque tra atto e azione sussiste una differenza analoga, ma contraria,
a quella che c’è tra opera e operazione» (M. BLONDEL, L’Azione. Saggio di una critica della vita e
di una scienza della prassi, a cura di S. Sorrentino, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1993, p.
210).
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agisce come lo spirito nella persona, integrando i diversi elementi dell’azione che sono così
personalizzati.

Adesso si capisce meglio perché l’azione umana non sia né un puro effetto fisico né una pura
attualizzazione dei dinamismi organici e psichici né un prodotto della ragione pratica, ma sia qualcosa
di vivo, anzi di vita personale e, come tale, possieda una novità assoluta. L’azione umana è praxis;
non solo perché possieda in se stessa il proprio fine (l’immanenza del fine secondo Aristotele), ma
soprattutto perché, in quanto generata dalla persona, nell’azione umana si trova la persona nella sua
unità spirituale tramite l’amore con cui ama. La persona riconosce se stessa nell’azione, con il cui fine
s’identifica25. Attraverso detto riconoscimento, la persona sperimenta il suo essere origine e la sua
responsabilità: quell’azione dipende da sé e da nessun altro.

L’immanenza della persona nell’azione è, dunque, amore e conoscenza di sé come essere unico
e irripetibile: per mezzo dell’azione conosco la mia irripetibilità (il mio essere origine di novità nel
cosmo e nella Storia) senza però riuscire a esaurirla. La mia irripetibilità non dipende dall’azione, se
non nella misura in cui mi permette di realizzarla parzialmente rendendola così anche parzialmente
conoscibile.

L’azione non è la persona che agisce perché, a differenza della persona, non è origine radicale;
detto in altre parole: l’azione dipende ontologicamente dalla persona (senza persona non ci può essere
azione), la persona non dipende ontologicamente dall’azione (senza azione la persona continua ad
essere, anche se la sua esistenza non raggiunge la perfezione che le è possibile). La dipendenza della
persona nei confronti dell’azione è etica: la persona si determina essenzialmente attraverso le sue
azioni come buona o cattiva (gli aspetti tecnici, poietici e teoretici dell’agire, invece, anche se sono
perfezioni non sono essenziali, poiché non corrispondono alla totalità della persona). Il rapporto
genetico fra persona e azione è, dunque, biunivoco, ma non simmetrico: l’azione dipende dalla
persona ontologicamente ed eticamente, la persona dipende dall’azione eticamente. La persona
possiede il principio dell’azione, l’amore, mentre l’azione contiene in sé la persona che ama. Dunque,
la persona che genera l’azione mediante l’amore è trasformata a partire dall’amore con cui ama.

25 Tale identificazione non significa, però, che il fine dell’atto venga causato dall’intenzione
dell’agente, poiché — come sostiene Vigna — la vita intenzionale è impotente riguardo al fine, che
non è una forma di produzione causale. Ciò si osserva nei fenomeni di lontananza (in quelle azioni
che hanno il fine fuori di sé, come il costruire, ma anche nelle azioni perfette come vivere felice o
essere virtuoso), di impotenza (quando l’azione non ci riesce o quando finisce con l’insuccesso) e di
fragilità (quando l’intenzione non si mantiene dovuta agli ostacoli interni o esterni). Su questa
tematica si veda C. VIGNA, Azione, responsabilità e valore, in AA.VV., Azione e persona: Le radici
della prassi, a cura di Luigi Alici, Vita e Pensiero, Milano 2002, p. 135.
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Apertura dell’azione al mondo personale

Il ruolo che l’amore e il riconoscimento di sé hanno nell’azione ci aiuta a cogliere meglio perché
l’autodominio ed anche l’autonomia sono stati valori così importanti nella modernità e continuano ad
esserlo ancora oggi. Infatti, la persona sperimenta nell’azione il dominio di se stessa: sebbene
possieda l’azione in quanto la genera, è nell’azione dove domina se stessa determinandosi in un modo
o in un altro. Senz’altro l’autodominio è un aspetto centrale dell’agire umano sia in quanto manifesta
il suo carattere specifico nei confronti del cosmo, cioè la sua indipendenza dalla necessità-contingenza
propria dei processi naturali, sia in quanto implica l’esistenza e l’uso della propria libertà. Ciò
nonostante, l’autodominio non deve essere considerato il fine dell’agire umano. Una concezione della
vita umana come autodominio, è riduttiva in un doppio senso. In primo luogo, perché, contro il
razionalismo, l’autodominio non consiste nell’esercizio di una ragione disincarnata o di un soggetto
trascendentale, ma nel compito di una persona di carne ed ossa, che originariamente è in relazione26.
In secondo luogo, perché il dominio di sé, essendo appunto un compito e non semplicemente una
possibilità o un fatto, può riflettersi sulla persona integrandola, ovvero facendola diventare virtuosa.

Tale influsso dell’azione sulla persona non significa però che la persona si trovi determinata
completamente dalle sue azioni. Nessun’azione ha tale capacità, perché la persona trascende sempre il
suo agire, in quanto ne è la sorgente. Bisogna però capire il senso di tale trascendenza: essa
corrisponde al livello delle possibilità dello spirito, non a quello della sua verità. Detto in altre parole:
la persona trascende l’azione ma non la verità di quest’ultima, perché la verità dell’azione è la stessa
della persona. Ecco un'altra caratteristica dell’azione che la rende quasi persona. Infatti, la verità
dell’azione, come quella della persona, non s’identifica con le sue possibilità (contro le pretese
dell’ideologia tecnologica) né con la sua fattualità (contro le tesi fisicistiche e comportamentistiche27)

26 Ciò spiega che si dia una circolarità fra autosufficienza e dipendenza: per poter arrivare ad una
relativa autosufficienza si ha bisogno dell’aiuto degli altri e, una volta acquistata tale autosufficienza,
si deve aiutare coloro che ancora non sono autosufficienti o che hanno smesso di esserlo (vid. A.
MACINTYRE, Dependent Rational Animals. Why Human Being Need the Virtues, Open Court,
Chicago and La Salle, Illinois 1999).

27 Non tutti i fisicalisti condividono la negazione degli eventi mentali, come fa invece il
comportamentismo. Davidson, ad esempio, accetta l’esistenza di una teleologia nell’azione umana,
che può essere collegata a veri e propri eventi mentali e, ciò nonostante, considera l’azione umana
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neppure con l’amore e riconoscimento di sé (contro un falso concetto d’autenticità) e neanche con il
calcolo razionale di colui che agisce (contro l’utilitarismo), ma con la verità delle persone, poiché la
persona da sola non esiste. Nella verità di ognuno di noi è inclusa la verità degli altri, allo stesso
modo che nella verità degli altri è inclusa la nostra.

In quanto quasi persona, l’azione umana ha la capacità di creare relazioni — o di permettere di


entrare in relazione — con le altre persone, poiché essa è non solo atto (l’aspetto fisico, oggettivo e
fattuale non esaurisce la realtà dell’azione), ma anche origine di nuove possibilità e di nuovi atti nel
mondo personale28.

Le nuove possibilità non si basano solo sul carattere processuale dell’azione, cioè sulla sua
capacità di mettere «in relazione un’iniziativa con uno stato di cose che, una volta realizzato, si
distacca dall’atto che lo ha prodotto e diviene una situazione nel mondo». Certamente, l’azione, in
quanto diviene visibile, inaugura un nuovo stato di cose, e, di conseguenza, può diventare «oggetto di
una procedura sociale di attribuzione e di giudizio»29. La novità dell’azione non si esaurisce nel suo
carattere oggettivo, conoscibile e identificabile; nell’azione c’è sempre un aspetto soggettivo, la sua
intenzionalità.

La presenza di un’intenzionalità personale fa sì che l’azione, in primo luogo, possa essere


compresa30. La razionalità è qui, soprattutto, ermeneutica, poiché l’azione non può essere conosciuta
né come un semplice fatto né come la conosce l’agente, cioè nella sua stessa intenzionalità e, in parte,
verità. In secondo luogo, tale interpretazione dell’azione, che si realizza a partire dalla propria
situazione esistenziale, influisce sul proprio agire e, attraverso di esso, sulla propria vita. Detto in altre

come una sottoclasse degli eventi, nella prospettiva di un evento impersonale (cfr. D. DAVIDSON,
Azioni ed eventi, trad. it. di R. Brigati, Il Mulino, Bologna 1992).
28 Una idea simile si trova in H. Arendt: «l’azione, la sola attività che metta in rapporto diretto gli
uomini senza la mediazione di cose materiali, corrisponde alla condizione umana della pluralità, al
fatto che gli uomini, e non l’Uomo, vivono sulla terra e abitano il mondo» (H. ARENDT, Vita activa.
La condizione umana, cit., p. 7).

29J. LADRIÈRE, L’etica nell’universo della razionalità, trad. it. di M. Minelli, Vita e Pensiero,
Milano 1999, p. 132.

30 Le nostre riflessioni sulla partecipazione si discostano da quelle di Wojtyla sia dal punto di vista
metodologico che contenutistico. Come è noto, Wojtyla è interessato alla partecipazione in quanto in
essa si realizza il valore personalistico dell’atto, cioè in quanto la persona agisce; per questo motivo,
definisce la partecipazione come «ciò che corrisponde alla trascendenza della persona nell’atto
quando questo è compiuto “insieme con gli altri”, in varie relazioni sociali o interumane» (K.
WOJTYLA, Persona e atto, cit., p. 631). La nostra prospettiva è, invece, differente: è quella dell’azione
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parole: nel dialogo con l’azione altrui siamo cambiati a volte anche in profondita, come accade nella
contemplazione degli esempi di santità, dei capolavori del pensiero o dell’arte, oppure nel lavoro con
gli altri, ecc. Il livello più grande di cambiamento attraverso l’azione si realizza nel fenomeno della
cooperazione. In questo caso, colui che coopera non si limita ad una interpretazione, reinterpretazione
o interazione, ma ad una co-realizzazione di una stessa azione. Una tale co-realizzazione ha un doppio
significato: oggettivo e soggettivo. L’aspetto oggettivo consiste nell’avere un fine in comune, il che
implica la possibilità di attualizzare la stessa azione. «Gareggiare nella corsa, discutere, insomma,
tutte le azioni del cooperare e del comunicare, riescono soltanto se contemporaneamente altri attori
attualizzano (vogliono attualizzare) lo stesso schema d’azione»31.

L’aspetto soggettivo, invece, consiste nello scegliere tale fine perché è visto come il proprio
bene, nel senso che l’uomo come persona si realizza in esso. Ciò che nell’azione è amato da un altro
come bene è considerato da colui che coopera un proprio bene, cioè in esso scopre un bene comune32.

La possibilità stessa dell’influsso sugli altri, aiutandoli ad essere migliori, insieme al fenomeno
della cooperazione, ci fanno capire perché l’azione umana è collegata alla responsabilità ed al
merito33. Infatti, l’influsso delle nostre opere sul mondo e sugli altri fa sì che dobbiamo rispondere di
esse. D’altro canto, il merito, cioè la valutazione di una azione come degna da parte della comunità, è
la manifestazione più chiara di un tale influsso, come esempio da imitare e come realizzazione del
bene comune.

Altre volte, il livello di cambiamento fra coloro che partecipano dell’azione è asimmetrico, cioè
non si dà una co-realizzazione34. Ciò accade, ad esempio, nell’atteggiamento della solidarietà, in cui
l’agente va oltre ciò che è la sua responsabilità nei confronti della comunità. «La consapevolezza del

come apertura e, dunque, lasciamo fra parentesi la distinzione fra l’azione che si fa e l’azione fatta,
poiché in tutte e due possono essere riscontrati segni di una tale apertura.
31P. JANICH, L’agire fra vita quotidiana e scienza, trad. it. di M. Buzzoni, in AA.VV., Azione e
persona: Le radici della prassi, cit., p. 112.

32 «Il bene comune è bene della comunità propria perché crea in senso assiologico le condizioni
dell’esistere insieme, mentre l’agire lo segue. Si può dire che il bene comune determina nell’ordine
assiologico la comunità, la società o collettività, che definiamo in base al bene comune che è proprio
di ciascuna di esse» (K. WOJTYLA, Persona e atto, cit., p. 659).

33Janich si serve di questi elementi per distinguere fra l’azione e le cose che capitano (cfr. P.
JANICH, L’agire fra vita quotidiana e scienza, cit., p. 106).
34È chiaro che Wojtyla non analizza la solidarietà nella sua asimmetria rispetto alla cooperazione,
perché, come abbiamo già indicato, il suo punto d’impostazione è la trascendenza della persona
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bene comune gli impone di giungere al di là della parte che a lui compete, sebbene in questo
riferimento intenzionale egli realizzi sostanzialmente la sua parte»35. L’asimmetria non si esaurisce
nell’andare oltre la giustizia legale, ma si estende anche alla stessa azione solidale, in quanto la
persona solidale riceve più di quanto dona agli altri. Infatti, nell’azione nata dalla solidarietà, la
persona attraverso un’intenzionalità che ha come riferimento il bene comune trova la realizzazione di
sé nella realizzazione degli altri.

Bastano questi cenni per capire che l’azione umana è una novità personale irripetibile che, lungi
dall’isolare le persone nella loro soggettività rendendole incomunicabili, permette loro di entrare in un
dialogo di cooperazione e di servizio mutuo. L’azione svela così una dimensione essenziale della
condizione umana, messa in rilievo dalle analisi fenomenologiche dell’essere-con e dell’essere-per,
che corrisponde alla struttura soggettiva del noi. Nella cooperazione e nella solidarietà, l’intenzionalità
soggettiva è oltrepassata poiché essa diventa luogo d’incontro con l’altro; tale trascendenza del noi
riguardo all’intenzionalità soggettiva si osserva soprattutto nell’accettazione o rifiuto di tale
intenzionalità da parte dell’altro. Così il Mit-Dasein o essere con altri concreti, si trasforma in mit-sein
o incontro con l’altro.

Sembrerebbe che tale dimensione comunicativa dell’agire fondi lo stesso autodominio da parte
della soggettività, in quanto quest’ultimo è conditio sine qua non affinché la persona possa
relazionarsi con gli altri in modo autenticamente personale: solo quando la persona è immanente alle
sue azioni volendo fare ciò che fa, può comunicare se stessa ed attraverso il suo agire entrare in
dialogo con gli altri. Ma se così fosse, si dovrebbe concludere che il fondamento della soggettività è il
Mit-Dasein, come in Heidegger, oppure lo zwischen, come in Buber. Wojtyla, però, si rifiuta di
accettare il noi o l’incontro come fondamento della soggettività, perché ciò porterebbe secondo lui a
dimenticare che fra l’io ed il noi c’è una struttura veramente fondante, quella dell’io-tu, che partecipa
sia della soggettività individuale sia della relazione. Tale struttura, secondo Wojtyla, manifesta il
carattere di comunione della persona36.

nell’atto, mentre noi consideriamo la stessa apertura dell’azione sia nella sua realizzazione
(cooperazione) sia nell’atteggiamento dei soggetti (solidarietà).

35 K. WOJTYLA, Persona e atto, cit., p. 665.

36 «Tuttavia può sorgere la domanda se l’esperienza dell’agire “insieme con altri” non sia
fondamentale e se, pertanto, la concezione della comunità e della relazione non debba già essere
premessa nell’elaborazione della concezione della persona. Penso che l’interpretazione della comunità
e della relazione interpersonale non possa essere premessa correttamente se non poggia già in qualche
modo sulla concezione della persona nell’atto, cioè, su quella in cui dall’esperienza “l’uomo agisce”
sia stata ricavata adeguatamente l’immagine della trascendenza della persona nell’atto. In caso
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L’azione umana come comunione e comunicazione personali

La comunicabilità scoperta nell’azione è una possibilità o una necessità? Nei fenomeni di


cooperazione e di solidarietà, soprattutto in quest’ultimo, la comunicabilità sembra essere una
possibilità poiché non tutte le nostre azioni, per lo meno in modo diretto, hanno una tale apertura al
bene comune.

C’è allora un rapporto con l’alterità sempre presente nell’azione? Qual è l’essenza di questo
tipo di rapporto?

Dall’analisi finora effettuata si possono ricavare una serie di elementi che ci aiutano a trovare
delle risposte alle precedenti domande: a) l’origine dell’azione è l’intenzione amorosa; b) tale
intenzione perché sia adeguata deve essere in accordo con la verità della persona, cioè con la sua
indisponibilità ad essere usata come mezzo, perché è sempre fine; c) l’amore verso se stessi contiene
anche l’amore degli altri, poiché non è possibile amare se stessi come persona, se non si amano gli
altri in quanto tali.

Tale intenzione amorosa che si rivolge agli altri come a dei fini, anche se ci indica perché
l’azione deve essere aperta all’altro, ancora non ci permette di sapere quando tale apertura si realizza.
Certamente, come abbiamo già visto nei fenomeni di cooperazione e di solidarietà, l’accettazione da
parte dell’altro di tale intenzione amorosa, o per lo meno, il non rifiutarla, realizza in parte tale
apertura, ma non pienamente, poiché l’altro continua ad essere un qualcuno che entra nell’azione o
solo come intenzione o solo esternamente, ma non realmente dall’interno.

Nella necessità dell’altro perché l’azione possa essere generata si trova, secondo Wojtyla, la
chiave della comunione personale scoperta nell’azione: l’altro non solo è fine intenzionale del mio
agire, ma anche fine reale, come accade nel dono di sé, in cui due amori «si uniscono e creano un tutto

contrario, nell’interpretazione della comunità e della relazione interpersonale possono essere


facilmente trascurati alcuni aspetti di ciò che è costitutivo della persona e che sostanzialmente
condiziona e insieme definisce la comunità e la relazione, proprio in quanto comunità e relazione tra
persone» (K. WOJTYLA, Persona e atto, cit., p. 695).
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obiettivo, in certo qual modo un solo essere in cui sono implicate due persone»37. L’unità di io-tu
nell’azione manifesta la struttura di comunione della persona e, allo stesso tempo, la realizza. Nel
dono di sé il fine dell’atto non consiste nell’amare l’altro, ma nel rendere l’altro fine del proprio atto.
Infatti, la donazione non ha come fine se stessa, ma la ricezione del dono da parte dell’amante. E,
nonostante la donazione incominci dall’intenzionalità amorosa di un io, essa comporta nella sua
realizzazione piena due agenti, che vengono così uniti nell’azione. Detta unità raggiunta nell’azione
stessa (e non solo mediante l’azione) è trascendente riguardo alle persone.

Tale trascendenza della donazione si osserva in modo paradigmatico, secondo Wojtyla,


nell’amore fra uomo e donna, specialmente nella sua unione sponsale. Infatti, nell’atto generativo
umano non solo si dà un’unione delle persone che le trascende, manifestando così la capacità
dell’atto di mettere in comunione le persone, ma quella stessa unione trascendente è origine di una
persona e inizio di novità. La generazione della persona attraverso l’atto sponsale ci permette in
questo modo di capire ancora meglio come l’azione umana sia una quasi persona: non solo la
persona è immanente nell’azione attraverso la sua intenzione amorosa, ma la stessa persona dovrebbe
essere generata da un’azione massimamente personale perché possiede una struttura di comunione,
quella cioè che corrisponde alla medesima persona38.

Ciò significa che tutte le altre azioni umane, in quanto azioni della persona, possono avere
questa stessa struttura di comunione; anzi devono averla per diventare massimamente personali.
Evidentemente, la comunione con il tu umano è possibile solo in alcune azioni. Ma, poiché tale
struttura di comunione è essenziale all’azione umana, c’è bisogno dell’esistenza di un Tu assoluto,

37K. WOJTYLA, Amore e responsabilità. Morale sessuale e vita interpersonale, Marietti, Torino
1980, p. 61. Anche se si riferisce all’unione sponsale, il testo di Wojtyla potrebbe anche applicarsi alla
donazione personale cui sono chiamati i diversi tipi di rapporti interpersonali.

38 L’importanza che in Wojtyla la generazione ha nella struttura persona-atto è stata segnalata da


Serretti: «L’atto di generazione per certi versi costituisce il vertice dell’agire umano che ha come
termine l’altra persona. Tanto più che esso si produce all’interno dell’atto che informa la verità di tutto
l’agire: l’amore. La meditazione sulla relazione di generazione comprova il ruolo che Wojtyla assegna
alla perfezione dell’agire volto all’altra persona» (M. SERRETTI, Il contributo di Karol Wojtyla
all’antropologia filosofica e teologica, «Nuovo Areopago» 4 (2005), pp. 40-41). Certamente, l’atto
di generazione non deve essere inteso in senso fisico, sino personale. Infatti, la generazione fisica di
una persona non sempre nasce dall’amore. Inoltre, tutti gli atti di donazione che hanno luogo nelle
altre relazioni interpersonali non generano fisicamente. Si dovrebbe, dunque, concludere che la
generazione della persona inizia si con la sua generazione fisica, ma non si esaurisce in essa. La
persona attraverso la donazione è generata nell’amore e dall’amore. Per cui, il vertice dell’agire
umano non è generare fisicamente, bensì personalmente.
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capace di accettare la nostra donazione e, di conseguenza, di essere il fine di ognuna delle nostre
azioni.

Nelle azioni in cui il fine è anche un altro tu umano, l’accettazione della propria donazione dà
luogo, in modo simile a quanto accade nella generazione della persona, a una comunicazione di
perfezione personale che oltrepassa gli stessi soggetti dell’azione.

La perfezione comunicata non va ridotta, perciò, alla semplice intenzione delle persone; essa
contiene in sé la sorpresa, ovvero l’andare oltre la progettazione più audace, e la gratuità ovvero
l’andare oltre il necessario e il dovuto. Infatti, l’apertura dell’altro, il suo accettare la mia azione o
lasciarmi partecipare della sua azione e del suo carattere perfettivo, va al di là del nostro potere, cioè è
un dono che noi riceviamo.

Conclusione

K. Wojtyla, nel suo dialogo con la filosofia classica e moderna, corregge sia la teleologia
oggettivista aristotelica sia il soggettivismo riduttivo di stampo cartesiano: la differenza radicale
scoperta nell’agire umano non consisterebbe nell’avere nell’azione la realizzazione di una potenza
razionale neppure l’avere una presenza intenzionale di se stessi, bensì nell’esperienza di essere una
persona che agisce e, di conseguenza, di conoscere se stessi come origine e, allo stesso tempo,
trasformati da quella medesima azione.

Alla luce di tale rapporto generativo fra persona e azione, si capiscono meglio le note
dell’azione umana finora individuate: la sua novità, la sua capacità di determinare la persona e di
comunicarle perfezione fino ad arrivare alla stessa comunione personale.

Infatti, l’azione umana è sempre una novità perché dipende da una persona, la cui generazione è
l’inizio di ogni novità.

La dipendenza dell’azione dalla persona spiega perché l’azione implichi l’autodominio della
persona giacché solo così l’azione può essere generata in modo radicale e responsabile come
corrisponde ad un essere irripetibile. Tale dipendenza spiega pure che l’azione possa trasformare
essenzialmente la persona, ovvero dal punto di vista etico, poiché nel generare l’azione la persona
genera in un certo senso se stessa. Infatti, la persona, che è originariamente irripetibile, può essere
determinata essenzialmente solo da se stessa, cioè da quella stessa irripetibilità.

Tale novità e irripetibilità dell’azione umana non solo non sono contrarie alla possibilità di
essere aperti agli altri, ma addirittura richiedono tale apertura perché l’azione possa essere veramente

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perfettiva della persona. La persona genera se stessa nell’azione, ma solo quando l’azione non si
chiude in un amore egoistico è generativa in senso personale, cioè secondo la struttura di comunione
insita nella persona. Nella partecipazione attraverso l’azione e — soprattutto — nella donazione di sé
nell’azione la persona raggiunge la massima perfezione.

Ecco perché la donazione fonda la possibilità stessa dell’autodominio, in quanto esso ha come
fine non la sua semplice realizzazione, ma la relazione con l’altro in modo autenticamente personale.
La donazione è la perfezione dell’azione personale e, di conseguenza, della persona che agisce. Tutte
le azioni personali devono collocarsi sulla linea del dono di sé, potendosi affermare che quando ciò
avviene l’azione è perfezionante per la persona nella sua e altrui umanità, viceversa, quando l’azione
si chiude nella propria soggettività, disintegra la persona, influendo anche negativamente sugli altri39.

39 «L’inizio è decisivo per la verità del seguito. Tutto l’agire dell’uomo in quanto figlio, sarà un
agire secondo verità nella misura dell’adeguazione all’atto che originariamente lo ha posto in essere.
Quando l’agire del soggetto personale si colloca sulla linea di prosecuzione dell’atto primo, la sua
causalità sarà costruttiva per la sua e altrui umanità, viceversa, quando l’azione contraddirà il
principio, essa disintegrerà tendenzialmente il soggetto in questione» (M. SERRETTI, ibid., p. 41)
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