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Ringrazio della fiducia che ancora una volta avete dimostrato dandomi l'opportunità di indicare
una linea di comprensione sulla questione del male. Consentitemi di fare una premessa che
contiene già la tesi di fondo di questo mio intervento: quella del male è una materia drammatica,
per non dire tragica, dell'antropologia. Essa riguarda da vicino una conoscenza adeguata
dell'identità umana e la possibilità di realizzarla pienamente. Concerne in sostanza la ragionevole
convenienza della fede per fondare una corretta antropologia. Giovanni Paolo II ci ha insegnato
che l'alternativa del cattolicesimo consiste proprio in questo, nel fatto cioè di essere l'unica in
grado di penetrare nel profondo la complessità dell'esperienza umana.
L'aspetto che tratteremo stamane è uno dei più drammatici: l’esistenza del demonio e il suo
influsso. Per occuparci di ciò non potremo non verificare l'dea globale del cristianesimo, dato che
se non si ha una comprensione adeguata del male e dell'uomo, e della sua insufficienza a
conoscere se stesso, non si capisce la redenzione. Il mio grande e indimenticato maestro di
teologia dogmatica al seminario di Venegono, monsignor Giuseppe Colombo, diceva che non si
capisce la redenzione se non si legge nelle vicende umane dei singoli e dei gruppi il sistematico
tentativo di scrivere una storia contro Dio. Pensate alle ideologie, ai sistemi totalitari, alle derive
di carattere morale come quella che stiamo vivendo: se non ci si rende conto che nel mondo è in
azione un anti-Dio che, pur nella minorità di potere, cerca di condizionare la vita degli uomini,
anche la redenzione diventa incomprensibile. Dirò di più: se, come molti ecclesiastici pensano, il
problema del male, in tutti i suoi aspetti, è semplicemente una patologia di carattere fisico o
psicologico su cui presto o tardi la scienza medicale avrà ragione, non si vede che senso possa
avere l'incarnazione. Se il male diventa un’espressione della patologia o della devianza, ovvero
di una realtà che l’uomo può dominare attraverso la scienza e la tecnica, scompare la
necessarietà della redenzione, il bisogno di restituire l'uomo all'uomo vero per mezzo della
grazia.
Ma a quali condizioni salviamo la coscienza esatta della fede? Chi nella Chiesa ha la
responsabilità di avventurarsi in un terreno tanto difficile, qual è quello di cui stiamo discutendo,
di entrare in contatto con problematiche devastanti, ha certamente una responsabilità specifica in
cui tuttavia si gioca la verità della fede e la sua comprensione.
Vengo dunque ad una prima osservazione richiamando quel brano del discorso di Regensburg
che il Papa ha dedicato al domandare greco: la ricerca di un'antropologia adeguata è il contenuto
e l’obiettivo di ogni riflessione filosofica e, potremmo dire, di ogni impresa razionale. E' il
contenuto e l'obiettivo della ragione laddove essa non viene usata nella ristretta modalità tecnico-
scientifica, bensì come apertura al problema del senso ultimo della vita che porta
necessariamente con sé (vedi san Tommaso). E' il problema della piena realizzazione della
propria umanità, cioè della felicità. Paradossalmente anche il male, nella varietà delle sue
manifestazioni (fisica, morale ed etica) viene a rappresentare la grande questione del pensiero
razionale di ogni tempo. Questo perché nella sua natura profonda dice la fine dell'essere, il
prevalere del nulla. Se per la metafisica greca l'eternità è una dimensione dell'essere in quanto
tale, dall'esperienza del male invece proviene il cedimento, il venir meno a qualsiasi livello, che
sia esso fisico o morale. Il nulla acquisisce lo stesso valore dell'essere e, anzi, può arrivare a
distruggerlo. Da ciò discende la grande contraddizione metafisica e antropologica. La domanda
che ci si pone allora è la seguente: da dove scaturisce questo male? Dietro di esso non si
nasconde per caso una volontà di ingiustizia? Orbene, tutta la riflessione di Platone, dei
neoplatonici e, sopratutto, dei tragici greci ha accettato il male come qualcosa di inspiegabile.
Tant'è che la soluzione avviata dalla filosofia classica e ripresa nel corso dei secoli si è
dimostrata peggiore del problema stesso (secondo una prospettiva manichea ha sovrapposto il
male all'essere teorizzando una lotta tra Dio e anti-Dio che poi, sul piano antropologico, ha visto
contrapporsi lo spirito e la materia).
E' chiaro che affermare che la soluzione del problema del male sta nella sua identificazione come
principio opposto all’essere, anziché aiutare ad individuare una soluzione, determina
l'impossibilità a trovarne una. Dal punto di vista dell’uomo (in realtà autore e vittima del male),
dato che l'universo e la storia si caratterizzano per questa contrapposizione meccanica fra l’essere
e il nulla, si finisce per depauperarlo della sua capacità di libertà. Poiché il male avviene per la
presenza del nulla, la responsabilità dell'uomo non esiste. Oltretutto senza una volontà esplicita,
il male, la sofferenza ingiusta e le pene che la classicità fa seguire ad alcune grandi dinastie di
peccatori, rafforzano la contrapposizione essere/ nulla sfociando nella mitologia.
Nell'antropologia classica c'è insomma un tentativo di andare oltre il male e di affermare
l'assolutezza dell'essere. Ciononostante è di ostacolo l'impossibilità di capire gli esatti termini
della questione.
Ho evocato l'antropologia di carattere religioso trascendentale, a cui spesso ha fatto riferimento
Giovanni Paolo II, per introdurre una seconda osservazione ben più pertinente e attuale: noi
viviamo alle spalle di una modernità che ha inteso il male, in tutte le sue forme, semplicemente
come un oggetto conoscibile e manipolabile e, quindi, definitivamente superabile attraverso la
tecnica o la scienza. Il male dell'uomo viene ad essere così (in particolare nella visione delle
ideologie) il male sociale. Sparisce il suo carattere misterioso ed enigmatico: esso è una parte
dell’esperienza dell’uomo e della storia che può essere conosciuta e razionalizzata. Semmai il
problema vero, dopo un lungo lavoro di studio e manipolazione, è il tempo che occorre per
vincerlo. Dio non c'entra, è l'uomo a realizzare questa vittoria. C'è già qui la giustificazione
dell'ateismo moderno e contemporaneo: se l'uomo riesce a salvarsi con le sue mani allora è
inutile la salvezza, tanto più se non proviene dall'esperienza storica umana. Da questo punto di
vista le osservazioni e l'insegnamento di padre Henri de Lubac, contenute ne “Il dramma
dell’umanesimo ateo”, costituiscono una serie di grande attualità.
Sul piano pastorale questo va tenuto ben presente perché ci troviamo di fronte a fasce sempre più
ampie di delusi. Il disincanto è intellettuale: le ideologie non hanno spiegato nulla. Pratico: le
suggestioni offerte di realizzare la propria umanità si sono rivelate inconsistenti e contraddittorie.
Eccoci dunque alla terza osservazione, che ci fa entrare in quello che noi chiamiamo realismo
antropologico e che san Tommaso definiva il realismo del pensare cristiano. L’interlocutore di
Dio non è, in prima battuta, né la materia, né la storia e nemmeno l’universo. E' l’uomo nella sua
assoluta responsabilità dinnanzi a Dio, che lo crea e lo redime. Il primo errore da superare è
allora l’idea che la potenza del Signore sia minacciata dalla materia e dai cicli della storia. Non è
così: Dio crea la libertà umana di agire nello spazio e nel tempo. E nel momento in cui l'uomo ne
prende coscienza, la responsabilità verso Dio, verso se stesso, verso la propria coscienza, verso la
storie e la società si lega alla sua libertà. Questa è l’ontologia fondamentale della creazione e
della redenzione in cui si apre e continua il dialogo fra Dio e l'uomo e nel quale si caratterizza la
storia personale e sociale. Da un lato c'è la misericordia di Dio e dall'altro la libertà umana di
affermare o negare. Fra questi due capi matura il dialogo. E la negazione di uno, nel nostro caso
di Dio, fa crescere una storia anti-Dio che è l'equivalente di una libertà male esercitata o –
direbbe sant'Agostino - di un “Amor sui usque ad contemptum Dei” (un amore di se stessi fino al
disprezzo e alla negazione di Dio) opposto all' “Amor Dei usque ad contemptum sui”.Questi
sono anche i due principi delle due città (civitas diaboli/civitas Dei) che fanno oscillare il cuore
dell'uomo fra l'affermazione e la negazione di Dio.
Noi sappiamo tuttavia che il potere di Dio è assoluto, non può essere negato e ha vinto
totalmente il male dell'uomo e del mondo. Persino la sua negazione testimonia la libertà concessa
da Dio ed è frutto di una libertà male utilizzata. A tale risultato possono concorrere i
condizionamenti della società e degli altri uomini, mai la volontà di Dio. Va detto oltretutto che
la possibilità di negare di Dio non è prerogativa degli uomini. Piuttosto è in loro potere la
costruzione di una società contraria a Dio. Gli uomini possono semmai scrivere una storia capace
di imporsi attraverso l'illusione: quella che ancora sant'Agostino chiamava la “fascinatio
nugacitatis”, il fascino del nulla. A tal proposito Giovanni Paolo II ha usato una formula
radicale: c’è una cultura della vita, della positività, dell’essere, del bene, della pienezza,
dell’umanità che ci è donata in Gesù Cristo e che può essere assecondata da ciascuno di noi
nell’appartenenza al suo Mistero e alla sua Chiesa. E c’è la cultura della morte, di una umanità
che si concepisce contro Dio e che dà luogo ad un nulla che sembra assumere la stessa
consistenza dell'essere.
Anche qui la proporzione tra i due poli è chiarita dal realismo ontologico: Dio è assoluto, è al di
sopra di tutto, è trascendente e non c'è niente che possa condizionarlo. Nessun potere, nessun
progetto di distruzione, nessun male per quanto assoluto. Metafisicamente non c’è che Dio e
tutto ciò che c’è oltre Dio è significativamente connesso a Lui, perché da Lui voluto e da Lui
distinto. Inclusa ovviamente la realtà che è l'essere dell'uomo nella sua libertà di affermare o
negare Dio senza peraltro poter aggiungere nulla alla sua divinità. Gustavo Bontadini, mio
grande maestro di metafisica, ci usava questo schema: Dio + mondo = Dio; Dio – mondo = Dio.
La riflessione teologica, filosofica, il magistero ecclesiastico, ma direi tutta la grande arte e la
grande letteratura, hanno saputo accostare il problema del male all'esercizio malato della libertà.
Penso ad un autore come Dostoevskij e alla rilettura che ne ha dato Henri de Lubac ne “Il
dramma dell’umanesimo ateo”. Il male certamente è un problema umano, ma non è soltanto
questo. Dall'osservazione della vicenda storica e della coscienza della Chiesa, prende posto
inoltre la considerazione che c’è una libertà (creata) infinitamente superiore alla libertà umana:
quella angelica, caratterizzata anch’essa, per sua natura, dalla possibilità dell’affermazione e
della negazione di Dio (prova ne sia l'imponente e devastante ribellione che ha conosciuto). Ma
c'è dell'altro: la volontà di opporsi a Dio è un'esperienza storica che prosegue al di là della
creazione e della redenzione. La libertà di coloro che si sono ribellati, infatti, non è stata
annullata. Più precisamente è stata giudicata e sarà giudicata alla fine dei tempi. Resta quindi
quel che ho affermato sopra, e cioè che nello spazio della vita dell'esperienza deve essere
considerata la presenza di una libertà deviata e antiteistica che agisce nel mondo tentando di
impedire la fede dei cristiani. E' in altre parole l'influsso del demonio, chiarissimamente mostrato
dalla riflessione teologica e dal libro di Giobbe, che tende a scardinare la fede e a renderla, se
non impossibile, faticosa. Più specificatamente è quella compresenza di libertà diabolica e umana
che determina la struttura del peccato originale.
C’è in effetti una volontà di negazione che si è espressa storicamente nei primi uomini e che ha
coinvolto non soltanto la loro storia personale, ma, essendo essi i capostipiti di una natura,
l'umanità intera e di ogni epoca. Tale rifiuto trova dunque la sua giusta connotazione nel dialogo
fra la libertà del demonio e la libertà di Adamo ed Eva. Nel senso che è la libertà diabolica a
convincere i progenitori proponendo un'immagine antropologica alternativa: disobbedite e sarete
come dei...non è vero che è la comunione la grande strada della realizzazione dell'uomo o
l'obbedienza e la corrispondenza tra Dio e l'uomo nel paradiso terrestre...è vero il contrario, che
Dio è geloso di voi...nel momento in cui metterete in crisi il potere di Dio nei vostri confronti
(ecco il peccato!) ritroverete pienamente la vostra identità.
In fondo questa è la prima comparsa di un'antropologia senza Dio, cioè contro di Lui. Quasi
duemila anni dopo e in maniera sorprendente, l’allora cardinal Wojtyla, predicando gli esercizi a
Paolo VI e alla curia romana (siamo nel 1976), osava affermare con un certo coraggio che il
peccato originale è la forma della mentalità moderna: io esisto non con Dio o sotto Dio, ma
contro Dio. In queste parole racchiudeva il cuore, la forma e la cultura di una civiltà. Per creare
questo sistema ateistico si sono profusi tesori di intelligenze, di sensibilità, di riflessione e di
pratica politica. Lo ritroviamo nel testo “Segno di contraddizione” che raccoglie le prediche di
Giovanni Paolo II: le conseguenze del peccato originale hanno ridotto la capacità di intelligenza
e di amore e, al tempo stesso, hanno condizionato la libertà con la suggestione del male celato
dietro molteplici forme, volte in ogni caso a sostituire gli umani affari a Dio. C'è in questa
constatazione molto realismo antropologico: l’uomo di fronte a Dio è per sua natura, intelligenza
e affezione, chiamato al vero, al giusto e al bello. Interviene tuttavia il condizionamento storico
che guida ad un esercizio sbagliato della libertà. Ciò si verifica oltre la redenzione e oltre il
mistero della morte e resurrezione del Signore. Le conseguenze del peccato originale rifioriscono
infatti nell'inclinazione perniciosa dell'uomo al male per poi risolversi nelle negazioni particolari.
Il fatto è che l’uomo vive circondato da una centrale super-umana del male, la diabolicità, la
tentazione permanente di ribellarsi a Dio. Non direttamente contro di Lui (che ha vinto il male),
ma attraverso il condizionamento della libertà umana. Ecco perché il demonio c’entra con
l'uomo. Perché vuole rendergli impossibile la fede e vuole staccare il cuore della società e, prima
ancora, il cuore della Chiesa (dove pare stia avendo molto successo!) dalla fede.
Sono convinto d'altro canto che il limite più grave di tutta questa serie di riflessioni dipenda dal
prevalere del fantastico. Il limite non viene dal tentativo di fare una cosmologia diabolica
introduttiva di considerazioni para-filosofiche e para-religiose. No. Il vero limite discende dal
fatto che il demonio è un problema ontologico e antropologico e perciò di comprensione della
storia. La drammatica correlazione tra “zizzania” e “grano buono”, così opportunamente
rappresentata nelle parole di Cristo, dice esattamente questo: non è possibile comprendere l'uomo
e la sua storia solo seguendo la linea dell'ottimismo. E non è possibile nemmeno seguendo
esclusivamente quella del pessimismo.
Purtroppo però dobbiamo riconoscere che nella modernità, che oramai ha chiuso la sua
infelicissima esperienza, si sono sintetizzate due antropologie altrettanto irrealistiche:
l’antropologia del pessimismo radicale protestantico, nel quale l’uomo, costretto nella maggior
parte dei casi a vivere una situazione irredimibile, verrebbe salvato da un intervento del tutto
arbitrario di Dio. E l'antropologia pelagiana (la modernità ne è l'espressione compiuta), in cui
l'uomo basta a stesso e, grazie alla sua volontà, alla sua scienza, alla sua tecnica realizza
pienamente la propria umanità nella storia e nella società.
Tale ragionamento ci porta alla quarta osservazione: il filone della verità dell'esperienza si
incardina nel dialogo ininterrotto fra Dio e il cuore dell'uomo, nel dialogo che ha il volto
dell'affermazione positiva, perciò il volto dell'amore. Ciò non toglie tuttavia che in momenti e
situazioni differenti il medesimo dialogo, nella medesima persona, possa assumere i toni della
negazione, con la debole consolazione che questo non dipende anche dall'uomo. “Video bona
proboque, deteriora sequor” diceva Ovidio, “vedo il bene e l'approvo ma seguo il male”. Esiste
dunque una realtà drammatica che si può approfondire non soltanto a partire dall'esperienza
singolare e associata dell'uomo, ma anche guardando la sovversione dell'ordine di Dio, che Dio
stesso consente (la libertà di chi si è ribellato non può essere artificiosamente annullata) pur
avendola sconfitta.
Ad ogni modo non è soltanto sul singolo che si esercita il potere del demonio ma anche sulla
società. La setta per l'appunto è il demonio che instaura una solidarietà patologica, immorale e
negativa ben al di là della persona e che addirittura la imprigiona e non le da via d'uscita a parte
la morte. Non si possono accettare opinioni contrastanti su questo. Pena una mancanza di fedeltà
alla propria identità che sarebbe rovinosa. Dove non ci sono più esorcisti, dove lo spazio del
male viene considerato un racconto mitologico, lì la Chiesa tradisce se stessa. Al contrario il vero
potere della Chiesa si chiama carità: occorre condividere le fatiche di questi fratelli e di questi
gruppi fino al massimo grado che è l'esorcismo. Ma ditemi, voi pensate che nell'esperienza
normale della vita della Chiesa questa carità che è il cuore di Dio che vibra nel mondo venga
concepita come come un potere? Non è affatto così. Anzi, nella migliore delle ipotesi diventa il
succedaneo religioso della solidarietà umana. Un atteggiamento del genere sembra negare che la
potenza di Dio passi attraverso la carità e quindi attraverso la volontà (del sacerdote o della
comunità) di condividere la vita dei fratelli nella chiarezza del giudizio. E' bene ricordare invece
che tutto ciò non è delegabile a nessuno. Nessuno, nemmeno lo psicanalista sostituisce la carità.
Nei problemi famigliari, di coppia, nelle difficoltà tra genitori e figli (ma gli esempi possono
essere tanti) sarebbe inconcepibile anche solo pensarlo.
L’ultima osservazione riguarda il potere della Chiesa (carità) e il potere del demonio (male).
Riferendosi al primo termine di confronto, Benedetto XVI, nella Deus caritas est, ha scritto che
tale potere implica un giudizio, perché senza verità non c'è carità (vero volto di Cristo), ma
solamente emotivismo. Venendo invece al male possiamo dire che quello che è palese oggi
poteva non esserlo 50 anni fa: la possessione del demonio investe certo la singola persona. Come
già sottolineato può però intaccare anche la mentalità e la cultura dominante di una società. Non
c'è migliore esempio della modernità che si radica sul principio diabolico dell'autosufficienza
dell'uomo e su questa base costruisce la propria morale. A rileggere la cultura laica moderna
sotto questa luce vi accorgereste delle corrispondenze che ci sono con il maligno: autosufficienza
dell'uomo, validità della violenza come deterrente dei problemi sociali, giustificazione
dell'omicidio (in qualche caso strumento della realizzazione di un bene comune), perseguimento
del progetto rivoluzionario anche a costo della soppressione di vite umane, manipolazione delle
masse e identificazione con il potere giusto. Unico comune denominatore, condiviso a tutte le
latitudini, è il circuito mass-mediatico che ha la forza di propagare ovunque i capisaldi del male.
In fin dei conti non ho fatto altro che riproporre la grande sfida lanciata da Giovanni Paolo II di
una nuova evangelizzazione. Non serve a nessuno un generico messaggio, ma bisogna ristabilire
uno sguardo alla bellezza di un popolo che mangia e beve, veglia e dorme non più per se stesso
ma per Colui che è morto è risorto per noi. Uno sguardo che sappia giudicare le vicende umane.
Sfugge forse a qualcuno che la distruzione della famiglia, il disprezzo della vita, l'accettazione
della manipolazione genetica, dell'eutanasia o il rifiuto della paternità/maternità (secondo una
statistica nove ragazzi su dieci considerano un pericolo la nascita di un bambino, numeri che
nemmeno l'Hiv è riuscita a dare!) sia uno degli obiettivi che il demonio ha perseguito con
successo? Suppongo di no e pertanto penso che alla Chiesa spetti la responsabilità di farsi carico
degli uomini per mezzo della carità. A tal fine è fondamentale non sottovalutare tutte le
implicazioni culturali che l'azione del male porta con sé. La Chiesa su questo fronte deve
intraprendere una battaglia decisa, affinché al nulla e al male si oppongano l'essere e la vita.
Un grande amico, mio e di Benedetto XVI, il filosofo tedesco Robert Spemann, una volta a
margine di un convegno mi confidò queste parole: “voi sacerdoti avete una grande
responsabilità. Quella di far capire agli uomini e soprattutto ai giovani del vostro tempo che il
sentiero della vita non è un sentiero polveroso che va verso il nulla, ma è un sentiero pieno di
vibrante entusiasmo che va verso Dio, e che Dio stesso ha attraversato per primo”.