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CORSO TEORICO-PRATICO

ESAME VISIVO

PER

LA CERTIFICAZIONE

II° LIVELLO UNI EN-473


LEZIONE 1

LA LUCE
La luce è un fenomeno fisico di natura energetica. Se, per esempio, riscaldiamo un corpo
di materiale metallico, fino ad una certa temperatura, otteniamo un emissione luminosa. La
propagazione avviene sotto forma di radiazioni nello spazio vuoto e nei materiali solidi,
liquidi ed aeriformi, che consideriamo trasparenti alla luce. Una teoria scientifica - la teoria
ondulatoria della luce - interpreta queste radiazioni come onde elettromagnetiche: un
alternarsi ciclico di campi elettrici e magnetici concatenati, generati da rapidissime
oscillazioni di cariche elettriche, variabili in intensità con legge sinusoidale e perpendicolari
alla direzione in cui si muovono le radiazioni.

Un fascio di luce è composto da un insieme di onde elettromagnetiche trasversali rispetto


alla direzione di propagazione. Assunta come fenomeno di tipo ondulatorio, la radiazione
elettromagnetica è caratterizzata da due grandezze fisiche: la lunghezza d'onda e la
frequenza. La lunghezza d'onda, indicata solitamente con la lettera greca , è la distanza,
espressa in nanometri, percorsa dall'onda durante un ciclo completo di oscillazione. Il
nanometro - unità di misura adottata dalla CIE - è un sottomultiplo del metro: un
nanometro (nm) equivale a un miliardesimo di metro: 1 nm = 10 m-9. La frequenza, che ha
per simbolo la lettera greca v, è il numero di cicli completi di oscillazione che avvengono in
ogni secondo. Si esprime in hertz (Hz): 1 hertz equivale a 1 ciclo al secondo

La lunghezza d'onda è legata alla frequenza.


Sia i materiali condensati, cioè i solidi e liquidi, che gli aeriformi, cioè i gas ed i vapori,
mantenuti ad una temperatura superiore allo zero assoluto, generano radiazioni
elettromagnetiche di diverse lunghezze d'onda e frequenze. L'insieme delle radiazioni
conosciute è rappresentato nello spettro elettromagnetico. L'intervallo di lunghezza d'onda
contenuto nello spettro è ampio: dai 10-5 nm ai 1016nm. Numerose sono le applicazioni
delle microonde, radiazioni con dell'ordine dei millimetri e frequenze che si estendono da
circa 1 gigahertz (1G Hz= 109 Hz). Sono adottate tra l'altro nelle telecomunicazioni via
satellite, nelle ricerche di fisica delle particelle e di radioastronomia, nel telerilevamento, in
medicina a fini diagnostici e nelle terapie antitumorali. Gli impieghi di tipo domestico
riguardano i sistemi di allarme antintrusione e i forni per la cottura in profondità dei cibi.
Per quest'ultima si sfrutta la singolare proprietà delle microonde di disperdere una parte
della loro energia sotto forma di calore all'interno dei corpi intercettati. La proprietà di
trasferire energia termica contraddistingue tutta la famiglia delle radiazioni infrarosse, che
occupa lo spettro da = 1 mm a = 780 nm.

Nella tab.1.1 sono indicate le radiazioni infrarosse con la simbologia (IR-A, IR-B, IR-C) e la
ripartizione per intervalli di lunghezze d'onda stabilite convenzionalmente in sede CIE.
Tab.1.1 Classificazione CIE delle radiazioni comprese nella banda spettrale infrarossa

Radiazioni infrarosse Intervalli di lunghezze d'onda (nm)

IR-A 780 1400

IR-B 1400 3000

IR-C 3000 1000000

Anche per le radiazioni ultraviolette si usa un pratico criterio di raggruppamento


convenzionale basato sulle sigle UV-A, UV-B, UV-C, che serve, come meglio vedremo in
seguito, a classificarle in funzione degli effetti prodotti sugli organismi viventi e sui materiali
irraggiati. La banda dei raggi ultravioletti si sovrappone in parte a quella dei raggi X e
questi, a loro volta, invadono il campo dei raggi gamma. I raggi X sono le note radiazioni a
lunghezza d'onda cortissima e frequenza molto elevata prodotte da strumenti costruiti
dall'uomo. Dalle esplosioni nucleari si sprigionano i raggi gamma. Dagli spazi siderali
riceviamo sia i raggi gamma che i raggi cosmici. Insieme occupano l'area estrema dello
spettro. Le radiazioni che l'organo visivo dell'uomo è in grado di ricevere e di tradurre in
impulsi nervosi occupano una piccola porzione dello spettro: da 380 nm (limite
dell'ultravioletto) a 780 nm (limite dell'infrarosso). Definiamo luce la sensazione prodotta
dalle radiazioni comprese tra questi valori estremi. Solo all'interno di quest’intervallo
l'apparato visivo umano compie le proprie funzioni: ricevere, selezionare, strutturare le
radiazioni provenienti dall'esterno e trasformarle in segnali nervosi da inviare ai lobi della
corteccia cerebrale, dove sono codificati attraverso la complessa catena di reazioni fisico-
chimiche che presiede al fenomeno della percezione visiva.

In quella piccola regione dello spettro elettromagnetico è concentrata l'energia


indispensabile alla vita di tutta la biosfera. L'intero mondo vegetale vive e si riproduce
convertendo l'energia contenuta nelle radiazioni luminose in energia chimica, attraverso il
noto processo della fotosintesi clorofilliana. Grazie alla luce, le sostanze organiche
complesse, costituite da molecole di carboidrati, sono sintetizzate, con il rilascio di
ossigeno nell'aria, a partire da sostanze inorganiche semplici. La riproduzione delle piante
- primo anello della catena alimentare - fornisce i materiali di base per la vita degli animali
e dell'uomo. Per meglio comprendere il concetto di lunghezza d'onda associato ad una
radiazione luminosa consideriamo alcuni esempi (fig.1): gli aspetti da considerare
sarebbero molti. Inoltre le problematiche costruttive delle lampade e le funzioni richieste
all'illuminazione nelle diverse applicazioni sono molteplici, ma semplificando molto si
possono fare le considerazioni che seguono. - La luce del sole ha uno spettro continuo
(ossia contiene radiazioni d'ogni lunghezza d'onda); le lampade ad incandescenza o ad
alogeni, in cui il principio di funzionamento si basa sull'emissione di luce da parte di un
filamento incandescente (radiatori per temperatura, come il sole) hanno anch'esse uno
spettro continuo, con una maggiore intensità nel campo degli infrarossi; nelle lampade a
scarica (il cui principio di funzionamento si basa sul principio della scarica nei gas: la luce
viene generata da un arco tra due elettrodi all'interno di un tubo di scarica contenente gas)
i gas, al passaggio della corrente di scarica e in funzione delle condizioni di pressione
presenti nella lampada, vengono eccitati e sono portati ad emettere energia sotto forma di
radiazione, a diverse lunghezze d'onda. - Per esempio il sodio a bassa pressione emette
nel giallo, ad alta pressione il mercurio a 365 nm, 405, 436, 546 e 578 nm che sono nel
campo del viola, blu e verde ecc. Ne segue che lo spettro può essere composto da singole
linee distinte (per esempio lampade ad alogenuri); tanto maggiore è il numero di sostanze
contenute nel tubo di scarica tanto più lo spettro si avvicinerà allo spettro continuo (nelle
lampade HMI per foto-ottica lo spettro quasi continuo è ottenuto tramite l'inserimento nel
tubo di scarica di un elevato numero di sostanze tra cui le così dette terre rare, metalli
quali disprosio, tullio, olmio. A questo punto, senza voler entrare nel dettaglio, forse vale la
pena di ricordare in modo estremamente sintetico il meccanismo di funzionamento
dell'occhio umano. L'occhio umano è in sostanza, un sistema ottico in cui il cristallino
funge da obiettivo e la retina da rivelatore della luce mediante una serie di ricettori (coni e
bastoncelli) collegati al cervello attraverso il nervo ottico. L'occhio umano adatta la sua
sensibilità in parte tramite l'apertura e la chiusura dell'iride, in parte con un processo
d'adattamento che include il passaggio dalla visione "fotopica", cioè diurna (che interessa i
coni) a quella "scotopica", cioè notturna (che coinvolge i bastoncelli); la messa a fuoco
avviene attraverso la variazione di curvatura del cristallino. L'occhio si adatta a grandi
variazioni delle condizioni dell'ambiente (tra illuminazione diurna e notturna i livelli di luce
possono essere differenti tra loro fino a 10.000.000 di volte). - Ciascuna lunghezza d'onda
della radiazione visibile viene percepita dall'occhio umano sotto forma di un determinato
colore dello spettro (per es. 555 nm giallo-verde, 400 nm violetto, 700 nm rosso). L'occhio
però non è ugualmente sensibile a tutte le lunghezze d'onda da 380 a 780 nm e la sua
sensibilità è diversa in condizioni d'illuminazione diurna e notturna. In base a numerose
esperienze su molti osservatori. La CIE (Commission International Deml'Eclairage-Ente
internazionale che pubblica rapporti e raccomandazioni sulle procedure di misura e sulle
prestazioni di impianti nel settore dell'illuminazione) ha definito delle curve di sensibilità
spettrale dell'occhio umano, normalmente indicate con il termine di V(I), in cui si riporta
l'andamento della sensibilità dell'occhio umano (in valori relativi) in funzione della
lunghezza d'onda in condizioni diurne e notturne. L'illuminazione ha proprio il compito di
portare l'occhio umano a funzionare in visione fotopica anche di notte: la curva che è di
nostro interesse è quindi quella in visione fotopica. In fig.2 si riporta la curva V(I) di
fondamentale importanza in tutte le misure della luce. Come si può vedere, la massima
sensibilità dell'occhio umano si ha in corrispondenza di 555 nm (giallo-verde); una
radiazione di pari intensità ma di diversa lunghezza d'onda dà luogo a una sensazione
visiva di minore intensità: per es., per le radiazioni di lunghezza d'onda di 490 nm, la
sensibilità dell'occhio è pari al 20 per cento rispetto a quella per radiazioni con lunghezza
d'onda di 555 nm.

Fig.1-Esempi di distribuzione spettrale di diverse tipologie di lampade a) lampada a


scarica a vapori di alogenuri per foto-ottica; b)lampada a vapori di sodio a bassa
pressione; c)lampada a incandescenza; d)lampada ad alogenuri
Fig.2-Curva di sensibilità dell'occhio umano V
LEZIONE 2

PROPAGAZIONE DELLA
LUCE
L'ottica studia tutti quei fenomeni relativi alla visione e di conseguenza riguarda le
proprietà della luce e degli strumenti ottici, cioè quegli strumenti in grado di alterare le
immagini.

La luce è elemento fondamentale, indispensabile alla vita sulla terra. è naturale allora che
l'interesse verso di essa e verso i fenomeni ad essa legati si manifestasse fin dall'antichità.
Ma come spesso è accaduto nello studio dei fenomeni naturali in tempi remoti,
l'osservazione propriamente scientifica si è confusa con congetture di carattere filosofico,
e ciò ha ostacolato la giusta impostazione del problema. Si pensi ad esempio che filosofi e
scienziati greci, seguaci di Pitagora, sostenevano che la visione degli oggetti dipendesse
esclusivamente dal soggetto, grazie ad un fuoco che uscendo dagli occhi si posa sulle
cose rendendole visibili.

è chiaro che una tale concezione cade in contraddizione di fronte a fenomeni molto
semplici e comuni, quali il fatto che al buio non è possibile vedere. Molti illustri personaggi
si cimentarono nel tentativo di dare una spiegazione al fenomeno della visione delle cose,
fra gli altri Lucrezio, il quale osservò che avvicinando ad uno schermo bianco un oggetto
vivamente colorato e fortemente illuminato, sullo schermo appaiono dei bagliori del colore
dell'oggetto. Ne concludeva allora che ogni corpo emette delle Scorze che raggiungono
l'occhio provocando la visione. Nessuno era però in grado di stabilire come tali scorze
viaggiassero da un corpo all'altro e di che natura fossero, visto che erano in grado di
attraversare oggetti trasparenti, contraddicendo il principio di impenetrabilità dei corpi.

Fu solo nel 1600 che si riuscì a dare una impostazione corretta al problema, stabilendo
che l'immagine da noi percepita si forma all'interno dell'occhio e non all'esterno, ed è
provocata dall'interazione della luce, proveniente dalle diverse sorgenti luminose, con gli
oggetti. Automaticamente il problema si spostava alla ricerca della natura della luce e del
suo comportamento nell'interazione con gli altri elementi. Si apriva così uno dei capitoli più
affascinanti dello sviluppo del pensiero scientifico, che avrebbe coinvolto le più grandi
menti della fisica moderna, spesso impegnate in diatribe dai toni aspri, talvolta sconcertate
e disorientate di fronte a fenomeni che apparivano contraddittori.

A posteriori sappiamo che tali difficoltà erano dovute ai limiti del modello classico della
fisica, correttamente interpretati solo agli inizi di questo secolo con l'introduzione della
fisica quantistica.
Lo studio dei fenomeni ottici si sviluppò in due direzioni: da un lato la ricerca di un modello
matematico in grado di descrivere con buona approssimazione il comportamento della
luce nei fenomeni osservabili, dall'altro la formulazione di teorie sulla natura della luce
compatibili con il modello sperimentale di comportamento.

Lo studio condotto nella prima direzione portò alla scoperta delle leggi che regolano i
fenomeni di RIFLESSIONE e RIFRAZIONE della luce e dei principi di funzionamento dei
vari tipi di specchi e di lenti. Quello condotto nella seconda direzione si dibatté a lungo in
una disputa fra la teoria Corpuscolare, proposta da Newton e la teoria Ondulatoria, il cui
principale fautore fu Huygens. Accenniamo brevemente a queste due teorie evidenziando,
man mano che saranno presentate, come furono interpretati i diversi fenomeni nell'ambito
di esse.

La teoria ondulatoria

La teoria ondulatoria trovò le sue basi nell'osservazione del fatto che la luce può
attraversare un corpo trasparente senza interagire con le molecole che lo compongono.
Inoltre, se due fasci di luce si intersecano, non modificano la loro direzione, e ciò a prova
del fatto che la propagazione luminosa non comporta trasporto di materia. Pertanto,
Huygens postulò che la luce, in analogia a quanto accade per il suono, si trasmette per
mezzo di onde.
Scrive Huygens nel suo trattato della luce del 1690:
"... Quando si consideri l'estrema velocità con cui la luce si propaga tutt'intorno, e che
quando essa proviene da differenti sorgenti, anche del tutto opposte, la luce dell'una
traversa quella dell'altra senza alcun perturbamento, si comprende bene che quando
vediamo un soggetto luminoso, ciò non sarà dovuto a trasporto di materia che dall'oggetto
luminoso viene fino a noi, nella maniera che una palla e una freccia traversa l'aria. è
dunque in altra maniera che essa si propaga, e quel che può condurci a comprenderla è la
conoscenza che abbiamo della propagazione del suono nell'aria....".

La teoria corpuscolare

La maggiore difficoltà incontrata per l'accettazione della teoria ondulatoria è dovuta al fatto
che le onde allora note avevano bisogno di un supporto di materia per potersi propagare,
infatti il suono non si propaga nel vuoto. La luce invece viaggia dal sole fino a noi
attraversando spazi privi di materia; inoltre se la luce si diffondesse mediante onde
sferiche dovrebbe formare delle ombre confuse e non ben delineate come invece accade,
segno che la propagazione della luce avviene lungo delle rette.
Huygens tentò di dare una spiegazione alla prima obiezione immaginando l'esistenza dell'
Etere come mezzo di supporto alla propagazione postulando l'esistenza di una sostanza
estremamente fluida e rarefatta tanto da non condizionare minimamente il moto dei corpi
nello spazio, ma con straordinarie capacità di elasticità; ciò per giustificare l'elevata
velocità con cui si trasmettono i segnali luminosi.
Secondo Huygens allora la luce era prodotta dalla vibrazione delle molecole dei corpi resi
incandescenti.
Tali vibrazioni si trasmettono all'etere, che avrebbe dovuto permeare tutto l'universo,
giungendo fino all'osservatore.
Scrive ancora Huygens:
"...... Il movimento della luce deve avere origine da ciascun punto dell'oggetto luminoso,
perché possa far percepire tutte le diverse parti dell'oggetto stesso. E io credo che in
questo movimento trovi la sua migliore spiegazione supponendo che i corpi luminosi allo
stato fluido, come la fiamma e apparentemente il Sole e le Stelle, composti di particelle
che si muovono in una materia molto più sottile, che le agita con grande rapidità e le fa
urtare contro le particelle dell'etere, che le circondano e che sono in molto minor numero di
esse, e che nei corpi solidi come il carbone o un metallo arroventato al fuoco, questo
movimento è causato da violento scuotimento delle particelle del metallo e del legno, delle
quali, quelle che sono alla superficie urtano egualmente la materia eterea.
...... Mostrerò qui in qual modo io concepisco che avvenga la propagazione di movimento
della luce. Prendendo un gran numero di palle di eguale grandezza e di materia durissima
e disponendole in linea retta e a contatto l'una con l'altra si trova che, urtando con una
palla identica contro la prima, il movimento si trasmette rapidamente fino all'ultima, la
quale si separa dal rango e non ci accorgiamo che le altre si siano mosse .....
Ora per applicare questa specie di movimento a quello che produce la luce, niente ci
impedisce di supporre le particelle di etere costituito di materia che si avvicina alla durezza
perfetta e di una elasticità tanto pronta quanto vogliamo ......"
Furono in molti però a rifiutare l'idea dell'esistenza dell'etere, poiché non esistevano prove
sperimentali a conferma di questa congettura. Primo fra tutti Newton, il quale al riguardo
scriveva nel suo trattato di Ottica del 1704:
``Per spiegare i moti regolari e perpetui dei pianeti e delle comete, è necessario svuotare i
cieli da tutta la materia, ....., ed anche da questo mezzo etereo eccezionalmente rarefatto,
......., che non è di nessuna utilità ed ostacola le operazioni della natura; inoltre non vi è
alcuna prova inconfutabile della sua esistenza, la quale perciò dovrebbe essere rifiutata.
E se si rifiuta questa esistenza, anche le ipotesi secondo le quali la luce consiste in un
moto che si propaga attraverso tale mezzo vanno rigettate con esso.''
L'autorità e la grande considerazione di cui Newton godeva fece propendere la maggior
parte degli studiosi dell'epoca verso la teoria corpuscolare sulla natura della luce, secondo
la quale essa è composta da uno sciame di particelle di dimensioni infinitesime, soggette
anch'esse alle leggi di gravitazione.
Rimanevano però aperti i gravi problemi già accennati insiti in tale teoria, e di
conseguenza rimaneva aperto lo scontro dialettico fra l'una e l'altra ipotesi che doveva
concludersi, come vedremo, con il trionfo del modello ondulatorio della luce e
successivamente con il recupero di alcuni concetti espressi nella teoria corpuscolare,
all'interno della fisica quantistica e con l'introduzione del concetto di Fotone.

La propagazione rettilinea della luce: la formazione delle


ombre ed il modello del "fronte di onda" di Huygens

Abbiamo accennato, in precedenza, al fatto che il modello ondulatorio della luce fosse da
taluni considerato in contrasto con la propagazione rettilinea della luce in qualunque
mezzo trasparente ed omogeneo.
L' osservazione sperimentale di questo fenomeno (la propagazione rettilinea della luce) è
molto semplice e certamente ognuno avrà avuto modo di osservarlo, ad esempio
esaminando la luce che filtra dalle imposte e la formazione delle ombre.
Vediamo brevemente le caratteristiche di tale fenomeno.
Una sorgente luminosa può essere Puntiforme o Estesa. Da essa partono i fasci di raggi di
luce, che possono essere intercettati da un corpo. Se esso arresta completamente il
cammino della luce si dirà Opaco, altrimenti sarà detto Trasparente.
Solitamente una sorgente luminosa qualsiasi emette un fascio di raggi divergenti, cioè essi
costituiranno un cono di luce come in figura (3.1).

Si possono ottenere in laboratorio, utilizzando filtri e lenti anche dei fasci di luce paralleli o
cilindrici e convergenti (fig. (3.2).
Supponiamo di proiettare come in figura (3.3) su uno schermo la luce proveniente da una
sorgente approssimativamente puntiforme.
Se ora intercettiamo il fascio di luce con un corpo opaco, vedremo prodursi sullo schermo
una macchia scura, l'ombra dell'oggetto, dai contorni ben delineati. Tale figura costituisce
la base del cono ideale che si ottiene considerando le rette che passano per il punto S
dov'è la sorgente, e si appoggiano al contorno del corpo opaco, come in figura (3.3).

Se invece di considerare una sorgente puntiforme consideriamo una sorgente estesa, ma


minore del corpo opaco, si determinano sullo schermo delle zone di penombra, cioè i
contorni della zona d'ombra sullo schermo non sono ben delineati e si passa
gradualmente dall'ombra alla luce piena.
La figura che si otterrà sullo schermo si costruisce geometricamente considerando le rette
che passano per gli estremi della sorgente luminosa e che si appoggiano al contorno del
corpo opaco. Si otterranno in tal modo due coni la cui intersezione delimita la zona
d'ombra più marcata: il resto costituisce la penombra (fig. (3.4).

Se, invece, la sorgente luminosa è più estesa del corpo, l'ombra è convergente, come
appare in figura (3.5).
Al di là del vertice P non c'è più alcuna ombra.
Questo spiega anche il fenomeno delle ECLISSI. In tal caso la sorgente S è il sole, il corpo
opaco C può essere la terra, nel caso delle eclissi di luna, oppure la luna nel caso delle
eclissi di sole.
Nel secondo caso, ad esempio, se la terra viene a trovarsi fra C e P, nel cono d'ombra
determinato da C, nella regione della terra su cui tale cono si proietta vi sarà una eclissi
totale di sole. Nelle regioni che verranno a trovarsi nelle zone 1 o 2 di penombra, l'eclissi
sarà parziale.
Come si vede, la descrizione dei fenomeni collegati alla formazione dell'ombra può
avvenire utilizzando nozioni di tipo geometrico lecite solo se si ammette che la luce viaggia
in linea retta. Newton riteneva che il modello ondulatorio proposto da Huygens non
riuscisse a spiegare questo tipo di fenomeni e portava a riprova di ciò la seguente
analogia:
le onde sferiche si possono visualizzare ad esempio perturbando la superficie di uno
stagno in quiete lanciandovi un sasso.
Se durante l'espansione le onde incontrano un ostacolo esse non formano dietro ad esso
un profilo ben definito, ma si accavallano disordinatamente. La stessa cosa dovrebbe
avvenire nella propagazione della luce.
Huygens ribatteva mediante un'altra analogia:
Se una barca naviga su un fiume, lascia dietro di sé una scia ben definita e dal contorno
regolare. Ciò è dovuto al fatto che la superficie di un fiume è perturbata da una serie di
piccole onde che si confondono se osservate macroscopicamente. Dava inoltre un
modello matematico per spiegare la propagazione rettilinea della luce, partendo dalla
teoria ondulatoria: il Principio di Huygens-Fresnel.

Sorgenti luminose

Allora una sorgente luminosa non è altro che un corpo che emette una radiazione
elettromagnetica pura.
Le sorgenti luminose si possono classificare in diversi modi: distinguiamo le Sorgenti
primarie, che effettivamente emettono la radiazione luminosa, dalle Sorgenti secondarie,
che riflettono la luce proveniente da altre fonti; le sorgenti Puntiformi dalle sorgenti Estese,
intendendo per sorgenti Puntiformi le sorgenti sufficientemente piccole (cioè le cui
dimensioni non superino 1/10 della distanza fra di esse ed una superficie in esame).
A seconda del tipo di luce che viene emessa possiamo classificare le sorgenti in Coerenti
e Incoerenti: le prime emettono radiazioni luminose in fase fra di loro, mentre le seconde
emettono radiazioni sfasate. (Intendiamo per radiazioni in fase delle radiazioni i cui
rispettivi minimi e massimi coincidono (fig. (5.2.1)).

In natura tutte le sorgenti sono incoerenti, poiché l'emissione di ciascuna radiazione


avviene in modo casuale. Le radiazioni coerenti si ottengono solo in laboratorio mediante
sofisticati strumenti ottici (ad esempio il LASER).

Intensità luminosa e d'illuminazione

Per quanto detto in precedenza, possiamo affermare che l'emissione di luce è sempre
legata ad un assorbimento e ad un rilascio di energia; il bilancio energetico complessivo
della quantità di energia assorbita e di quella emessa sotto forma di radiazione luminosa
dipende dal corpo. Sappiamo ad esempio che alcuni corpi trattengono una maggiore
quantità di energia, altri la trasformano in forme diverse dalla radiazione luminosa. è
importante pertanto dare una classificazione dei corpi in base alla quantità di energia che
irradiano sotto forma di luce. A tal fine si introducono i concetti di Intensità luminosa e di
Intensità di illuminazione.

L'intensità luminosa è la quantità di energia che un corpo irradia in un secondo.


Pertanto essa è misurata in Watt.

L'intensità di illuminazione misura la quantità di energia che arriva su una


superficie di un a causa dell'illuminazione.

Essa sarà misurata in .


Ai fini pratici è molto più usata la Candela internazionale (CD).
Bunsen costruì uno strumento detto Fotometro, in grado di misurare l'intensità luminosa
utilizzando semplicemente un foglietto di carta abbastanza spesso in modo da non far
passare la luce, con una macchia d'olio al centro. Posta di fronte ad una sorgente
luminosa, tale macchia appare scura se la guardiamo dallo stesso lato della sorgente,
appare chiara se la guardiamo dall'altro lato. Infatti l'olio rende la carta traslucida per cui
lascia filtrare una certa quantità di luce.
Se la quantità di luce che filtra attraverso la macchia viene compensata ponendo dall'altra
parte del foglio una sorgente della stessa intensità, allora la macchia non è più visibile. Il
fotometro di Bunsen è costituito da un'asta graduata su cui possono scorrere tre sostegni
di cui uno al centro porta la carta con la macchia e gli altri due le sorgenti luminose, per
una delle quali è nota la sua intensità luminosa (fig. (5.3.1)).

Se le due sorgenti sono poste alla stessa distanza dal foglio ed hanno la stessa intensità,
la macchia sparirà alla vista; ma se ad esempio poniamo la seconda sorgente ad una
distanza dal foglio di carta doppia rispetto alla prima, si osserverà che la macchia
scomparirà solo se l'intensità luminosa della seconda sorgente è M volte maggiore della
prima.
Questo suggerisce che l'intensità di illuminazione sul foglio dipende dalla distanza della
sorgente, e varia in ragione del quadrato della distanza, cioè se tale distanza raddoppia
l'intensità diventa 1/4; se triplica diventa 1/9, etc. Cioè se K è l'intensità prodotta alla

distanza unitaria, alla distanza d si avrà l'intensità .


Se , sono rispettivamente le intensità luminose delle sorgenti e se
sono le distanze di dal foglio di carta, vale allora la seguente legge:

da cui si ottiene:

Se è nota, si può così facilmente ottenere il valore di .


Una spiegazione di tale fenomeno sperimentale può essere data partendo dalla
propagazione rettilinea della luce.
Sia S una sorgente che possiede una intensità luminosa I e sia A una qualsiasi superficie
posta a distanza d da S.
La luce che passa attraverso A, passerà anche attraverso una superficie B posta a
distanza 2d da S e costruita in modo che risulti essere la base del cono che si ottiene
considerando le rette spiccate da S e tangenti al contorno di A (fig. (5.3.3)).

Ma la superficie di B è, per come è costruita, quattro volte maggiore rispetto a quella di A,


pertanto l'intensità d'illuminazione su A sarà I/A, mentre su B sarà I/B e poichè B=4A, ne
segue che su B l'intensità è

la legge di Weber-Fechner, secondo la quale l’intensità di una sensazione fisiologica è proporzionale al logaritmo dello
stimolo per cui quando la pressione sonora si decuplica, il livello di pressio
LEZIONE 3

L’OCCHIO ED IL SISTEMA DI
VISIONE
I meccanismo della visione
Il

Anatomia e fisiologia dell'occhio


chio umano

L'occhio ci garantisce la visione trasformando la


luce che lo colpisce in informazioni
oni che, sotto
forma di impulsi elettrici, arrivano
no al cervello. La
visione da sola rappresenta circa a il 70% delle
percezioni che l'uomo riceve dal mondo esterno.
Quando fissiamo un oggetto, la luce che da esso
proviene entra nei nostri occhi, attraversa una
serie di lenti naturali, che sono in
n sequenza la
cornea, il cristallino ed il corpopo vitreo che
corrispondono alle lenti dell'obiettivo
ttivo di una
macchina fotografica, e va ad "impressionare"
mpressionare" la
retina (la pellicola). La retina eccitata
ccitata dalla luce
che la colpisce trasmette informazioni
azioni al cervello
inviando impulsi elettrici attraverso
rso un cavo
biologico: il nervo ottico. Il cervello
vello studia e
sfrutta le informazioni visive, avva
valendosi di esse
per decidere il comportamento e le reazioni
dell'intero organismo.

Riassunto delle principali funzioni


unzioni di
ciascuna componente dell'apparato
pparato visivo

Cornea: devia la luce facendola ola convergere


sulla retina
Pupilla: controlla variando il suo diametro la
quantità di luce che entra nell'occhio
'occhio
Cristallino: devia la luce facendola
endola convergere
sulla retina, grazie ala sua elasticità
asticità consente
di mettere a fuoco gli oggetti posti per vicino
Corpo Vitreo: sostanza trasparente
parente che viene
attraversata dalla luce diretta alla retina
Retina: trasforma gli impulsi luminosi
in impulsi elettrici
Nervo Ottico: Trasmette gli impulsi elettrici
dalla retina alla corteccia cerebrale
ebrale

Cornea
È la prima lente naturale
ale che la luce incontra, misura circa 0.5 mm di spessore, è
trasparente e di forma a sferica. Esistono difetti di curvatura della sua superficie
che sono responsabili dell'astigmatismo. Poiché la cornea non è vascolarizzata
respira per lo più l'ossigeno
sigeno atmosferico, tale funzione è resa meno eno agevole dalle
1 lenti a contatto che vengono
engono posizionate proprio sulla superficie corneale. La
cornea è l'organo con la maggiore densità di fibre nervose per unità nità di superficie
del nostro corpo, per questo
q motivo anche il più piccolo trauma determina dolore
violento.
Pupilla e iride
La pupilla è letteralmente
ente un foro al centro dell'iride, è cioè un diaframma
iaframma
naturale di diametro variabile, simile a quello contenuto in una qualsiasi macchina
fotografica, il cui compito
pito è quello di modulare la quantità di luce e che va a colpire
2 la retina. Al buio si dilata,
ata, in condizioni di elevata luminosità si restringe.
estringe. L'iride è
responsabile del colore e degli occhi
occhi, che dipende dalla pigmentazioneone naturale più
o meno intensa a cui corrispondono rispettivamente gli occhi scuri uri o chiari che
abbiamo geneticamente te ereditato.

Cristallino
È la seconda lente naturale
turale ch
che la luce incontra, dopo la cornea, prima di
raggiungere la retina. È una lente elastica, può cioè variare il suo o spessore ed il
suo potere convergente te consentendo la visione per vicino. Con il passare degli
anni il cristallino perde
e elasticità irrigidendosi,
irrigidendo diventano allora indispensabili
ndispensabili gli
3 occhiali correttivi per la visione da vicino: il paziente in questa condizione
ondizione si
definisce presbite e la patologia di cui é affetto prende il nome dii presbiopia. A
causa di una degenerazione
azione spesso legata all'età, caratterizzata
c da meccanismi
non ancora del tutto noti, il cristallino in alcuni casi perde la sua normale
trasparenza: parliamo o in questo caso di cataratta.

Corpo vitreo
Si tratta di una sostanza
nza gelatinosa, trasparente che occupa la cavità
avità oculare
compresa tra il cristallino
lino e la retina. é trasparente e aderisce perfettamente
erfettamente alla
4 retina, al suo interno possono formarsi, con il passare degli anni,, piccole opacità
puntiformi o filiformi che prendono il nome di corpi mobili vitrealii e sono spesso
responsabili della visione
one di "mosche volanti" spesso riferite dai pazienti.

Retina
La retina è una sottile membrana formata da cellule nervose, adagiata agiata sul fondo
dell'occhio, il cui ruolo
o è quello di trasformare gli impulsi luminosisi che riceve un
impulsi elettrici, che attraverso
ttraverso il nervo o
ottico vengo trasmessi all cervello. La
porzione centrale della a retina prende il nome di macula ed è caratterizzata
atterizzata da una
densità cellulare decisamente
samente più elevata, e dalla presenza di 2 tipi di cellule (i
5 coni e i bastoncelli). Laa macula consente la visione
vision distinta, la lettura
ttura e la
percezione netta dei colori ma per funzionare correttamente richiede iede una discreta
quantità di luce. La restante
stante porzione periferica di retina, inadatta
ta a garantire la
visione per vicino, permette
rmette al paziente di orientarsi e di m
muoversirsi discretamente
nello spazio, garantendogli
dogli la percezione periferica del campo visivo
sivo e la visione
in scarse condizioni di luminosità.

Nervo ottico
Il bulbo oculare è "tappezzato"
ppezzato" al suo interno da una membrana sensibile alla
luce: la retina. La retina
na è costituita da singole cellule ciascuna delle quali è
connessa ad una fibra nervosa filiforme che trasmette impulsi elettrici
ettrici
6 all'encefalo. L'insieme di tali fibre fascicolate in un unico "cavo biologico"
iologico" formano
il nervo ottico. Una suaa qualsiasi interruzione (traumi accidentali,, tumori,
emorragie ecc..) porta a alla perdita completa della capacità di vedere
dere attraverso
un occhio, come se tagliassimo
gliassimo il filo che collega una telecamera ad un video.
Il sistema
tema di visione umana occhio-cervello
occhio

Cerchiamo di illustrare, sia pur sommariamente, il complesso meccanismo


o della visione umana.
In esso distinguiamo tre parti:

un sistema ottico che forma


rma e proietta le immagini su una superficie
e sensibile,
una superficie sensibile che raccoglie le immagini e le trasmette
un elaboratore dei datii raccolti da quest'ultima che li elabora,, li vaglia e "forma"
l'immagine definitiva: la visione umana.

L'occhio umano, semplificando o al massimo, può per certi versi essere e paragonato ad una
macchina fotografica, se non n altro perché dispone di un obiettivo (il cristallino), con
regolazione dell'apertura (iride e pupilla) e di una superficie sensibile alla luce su cui vie
viene
messa a fuoco l'immagine (la retina). L'occhio, inoltre, è una vera e propria
ropria camera oscura
formata da un bulbo annerito all'interno in modo che tutti i raggi parassiti
ti vengano assorbiti e
non influenzino negativamente la ricezione della retina.

La superficie sensibile dell'occhio


hio è, abbiamo detto, la retina, costituita da miliardi di ricettori
sensibili (i bastoncelli ed i coni),
ni), il cui compito è quello di analizzare quantitativamente e
qualitativamente la luce da cui sono colpiti e di inviare al cerv
cervello, tramite il nervo

ottico, i dati ottenuti.


Nella retina i recettori luminosi sono di due tipi, i coni e i bastoncelli, distribuiti in modo non
uniforme: il 90% dei coni sono raccolti nella zona intorno alla fovea centrale, dove vengono
messi a fuoco tutti gli oggetti che esaminiamo con attenzione. I bastoncelli hanno un picco di
sensibilità intorno a 510 nm, mentre esistono tre tipi di coni con sensibilità diversa: massimo
di sensibilità a 430nm (blu), a 530 nm (verde) e a 560 nm (rosso). Ogni cono è collegato a
una propria fibra del nervo ottico, che si diparte dalla zona posteriore del globo oculare,
mentre nella zona periferica della retina, dove sono in grande quantità, i bastoncelli fanno capo
a un’unica fibra. I due tipi di collegamenti nervosi permettono due funzioni distinte: i coni sono
specializzati per la visione dei colori nell’intensità della luce del giorno, i bastoncelli per la
visione crepuscolare in bianco e nero. La sensibilità alla luce della fovea è circa 1000 volte
inferiore a quella della retina periferica. Se vogliamo quindi vedere un oggetto poco luminoso,
come una stella molto lontana, dobbiamo guardarlo con la coda dell'occhio. Il vantaggio di
avere una fovea, cioè di possedere un'area estremamente ridotta e specializzata per la
registrazione di particolari anche minimi lo paghiamo con una ridotta sensibilità alla luce.

Possiamo facilmente capire come nella zona del nervo ottico non ci possano essere bastoncelli.
Il diametro della zona è di circa 1,6 mm, otto volte quello della fovea. Questo luogo della
retina è detto macula caeca (macchia cieca), essa non giace sull'asse ottico dell'occhio ma a
20° dalla fovea. Come risultato della presenza di tale zona dovremmo vedere un "buco nero"
dentro il nostro campo visivo. Sappiamo che ciò non succede perché grazie ad un fenomeno
detto di "riempimento" il materiale visivo circostante all'area invisibile viene riversato in essa e
sistemato in modo appropriato.
La retina potrebbe in un certo senso essere paragonata alla pellicola fotografica,
tografica, ma c'è una
prima enorme e per noi importantissima
antissima differenza.

Nella retina non si ha una distribuzione


ribuzione omogenea della capacità di "vedere"
ere" come invece per
la pellicola, ma una differenziazione
zione di compiti.

Le parti più periferiche della retina


etina non distinguono né la forma, né i colori
lori degli oggetti, ma
quando un oggetto entra nel campoampo visivo dell'occhio determinano il movimento
vimento istintivo della
testa e dell'occhio stesso al fine
e di portare l'immagine nella zona centrale della retina, ove si ha
la massima capacità di "vedere". ". Man mano che ci si sposta verso la zonaa centrale della retina
si ha una visione sempre più nitida,
itida, sino a raggiungere il massimo nella fovea, al centro della
macchia lutea.
Se la visione totale dell'occhio fermo abbraccia un campo di 140° in sensoo orizzontale e di circa
120° in senso verticale, la visione
ne della macchia lutea abbraccia un campo
o rispettivamente di 8
e 6 gradi, mentre quello della fovea
ovea poco più di 1 grado.
Possiamo fare un piccolo esperimento
rimento per rendercene conto. Osservate un punto qualsiasi del
vostro foglio di carta, una delle
lle lettere che vi stanno davanti; vi accorgerete
orgerete subito che il
campo abbracciato dall'occhio è piuttosto piccolo. Infatti non riuscite a leggere, fissando un
punto, più di una lettera o due.
e. Accanto al punto in cui "vedete" in modo o chiaro sta un vasto
campo dove le immagini si vedono
ono ma non si leggono, o meglio esse si leggono
ggono solo spostando
l'occhio.

Questo è un concetto fondamentale:


ntale: noi vediamo per punti, che il nostro o occh
occhio analizza uno
per uno per formare, grazie all'elaboratore
'elaboratore dei dati che è il cervello, le immagini.
mmagini. Un pò come
fa uno scanner per digitalizzare le immagini.

Per di più non bisogna credere e che la retina sia semplicemente una superficie perficie sensibile che
raccoglie imparziabilmente i dati
ti e li invia al cervello tramite il nervo ottico.
o. Essa è attualmente
considerata come una parte stessa
ssa del cervello. I dati che essa invia al "cervellone
ervellone centrale"

sono dunque già filtrati, in un certo


erto qual modo "pensati".

Dunque l'occhio umano vede ciò iò che vuole vedere, e la sua visione è condizionata
ondizionata anche dal
vissuto e dalla cultura della persona. I dati che arrivano al cervello attraverso il sistema
occhio-retina-nervo ottico vengono
ono infatti confrontati nel cervello stesso co
on le informazioni in

esso contenute, con il risultatoo che di fronte allo stesso panorama ogni
ni persona avrà una
"visione" differente, mentre due
ue macchine fotografiche diverse ma conn due obiettivi uguali
produrranno la stessa, identica immagine.
La percezione
one dei colori
Un oggetto di un certo colore viene
iene percepito in modo diverso a seconda dello sfondo nel quale
è inserito. Ogni colore è percepito
pito dall'occhio ma non com'è ma come appare in relazione ai
colori vicini, perciò un cerchietto
tto circondato da uuno sfondo più scuro risulta più chiaro. Un
colore inoltre risulta più luminoso
so se è circondato da un altro ad esso complementare
plementare

Il meccanismo che accresce il contrasto ai bordi di un oggetto viene denominato inibizione


laterale, perché ogni bastoncello
llo ttende ad inibire la risposta di quello che gli sta vicino, in
questo modo ciò che è chiaro appare
ppare più chiaro e viceversa ciò che è scuro.
o.

L'inibizione laterale vale anche per i coni: quando i coni di una certa regione della retina
vengono stimolati, succede
e che quelli delle regioni vicine diventino meno sensibili a quel
colore, quindi ad esempio l’azzurro di un quadratino su sfondo blu sembra più chiaro, su
sfondo giallo invece il colore non cambia perché il giallo non contiene il blu.
LEZIONE 4

L’ILLUMINOTECNICA
Temperatura di colore

La temperatura di colore, espressa in Kelvin (K), è un parametro utilizzato per individuare e


catalogare, in modo oggettivo, il colore della luce di una sorgente luminosa confrontata con la
sorgente campione: il corpo nero. La scelta del corpo nero è dovuta alla sua proprietà di emettere
in tutte le zone dello spettro il massimo dell’energia raggiante e di assorbire completamente
l’energia raggiante che lo colpisce. Dire che una lampada ha una temperatura di colore pari a 3000
K, significa che il corpo nero, a questa temperatura,

emette luce della stessa tonalità.

Le sorgenti luminose sono

suddivise in tre gruppi, a seconda della temperatura di colore:

-da 3000 a 3500 K : colore bianco caldo;

-da 4000 a 5000 K : colore bianco neutro;

-da 5500 a 7000 K : colore bianco freddo.

La temperatura di colore non deve essere confusa con l’indice di resa dei colori, in quanto la prima
indica il colore della luce emessa, ma non ci dice nulla riguardo la sua capacità di rendere i colori.
La temperatura assoluta è basata sul Kelvin. La temperatura di fusione del ghiaccio (valore di
273,2 K) corrisponde a 0 gradi centigradi.

Consideriamo le temperature di colore delle sorgenti luminose naturali:

-Luna 4100K

-Sole a mezzo giorno (estate) 5300 / 5800K

-Cielo coperto 6400 / 6900K

-Cielo sereno blu intenso 10000 / 25000K

Le grandezze fotometriche
Queste sono le grandezze della luce fondamentali:

a) flusso luminoso;

b) intensità luminosa;

c) illuminamento;

d) luminanza;

e) efficienza luminosa.
a) Flusso luminoso

Simbolo: ö Unità di misura: lumen


men (lm) (cd . sr)

Questa grandezza indica la quantità


ntità di energia luminosa emessa nell’unità dii tempo (1secondo) da
una sorgente.

Per energia luminosa si intende, per convenzione, quella emessa nell’intervallo


llo da 380 a 780 nm.

Il flusso luminoso, normalmente identificato con il simbolo f, viene misurato in lumen (lm). Il lumen
è definito come il flusso luminososo emesso nell'angolo solido
sol unitario da una
a sorgente puntiforme
posta al centro di una sfera di intensità
tensità luminosa pari a 1 cd

in tutte le direzioni.

Nel Sistema Internazionale (S.I.) l'unità di misura dell'angolo solido è lo steradiante


adiante (sr): 1 lm =1 cd
x sr.

Poiché il flusso luminoso si riferisce


isce ad una quantità di luce emessa da unaa sorgente nell’unità di
tempo corrisponde dimensionalmente
mente ad una potenza (energia/unità di tempo).
o).

Per le lampade la normativa IEC C prevede che la misurazione del flusso luminoso
minoso emesso venga
effettuata dopo 100 ore di funzionamento.
namento.

L’unità di misura del flusso luminoso


noso è il LUMEN (lm) che corrisponde al flussousso luminoso emesso
da una sorgente di luce puntiforme
orme di intensità (l) pari ad una candela (cd) d) ed uscente da una
superficie di 1 metro quadrato, intercettata
ntercettata su una sferica di raggio pari a 1 metro (1 steradiante).

L’equivalente idraulico del flusso luminoso è dato dalla quantità di acqua emessa
essa da un

ugello sprinkler nell’unità di tempo


po ed è misurata in litri per minuto.

Il flusso luminoso Ö è l'unità fotometrica


ometrica equivalente alla potenza in watt misurata
urata però in base alla
"sensazione" che la radiazione produce
roduce sulla vista.

Affinché ciò possa essere ottenuta,


uta, è necessario pesare la potenza radiantee mediante la curva di
sensibilità dell'occhio (in una tale
le pesatura la luce giallo-verde
giallo riceve il massimo
assimo peso poiché è
quella che stimola maggiormente e l'occhio dell'osservatore umano).
Una pesatura di questo tipo, funzione
nzione della lunghezza d'onda, dà luogo all'unità
unità fotometrica detta
lumen (lm).

In particolare, il peso ricevuto dalla lunghezza d'onda di 555 nm è tale che e la radiazione di 1W
emessa a tale ë da una sorgente e produca una risposta sullo strumento di misura
sura pari a 683 lumen.
Per molti tipi di lampada, il flusso
o luminoso emesso è dipendente

dall'invecchiamento
'invecchiamento subito dalla lampada in conseguenza al suo utilizzo; lo stesso flusso è
anche sensibile alle variazioni (fluttuazioni) che può accidentalmente subire la tensione di
alimentazione. Per questo motivo vengono considerati altri due parametri funzionali
fu della
sorgente - la stabilità del flusso luminoso con l'invecchiamento della lampada (esprimibile,
ad esempio,in unità percentuali del valore dichiarato per cento ore di invecchiamento) - e
la sensibilità dello stesso flusso alle variazioni della tensione di alimentazione (esprimibile
ad esempio in unità percentuali del valore dichiarato per volt di variazione entro un certo
range).

Alcuni ordini di grandezza:

-Lampada per bicicletta 2W ¨18lm


m

-Lampada ad incandescenza 40W


W ¨350lm

-Lampada a vapore di mercurio 400W ¨23000lm

b) Intensità luminosa

Simbolo: I Unità di misura: candela


dela (cd = lm / sr)

Indica la quantità di flusso luminoso


oso emessa da una

sorgente all’interno dell’angolo solido


olido unitario

(steradiante) in una direzione data.


ta.

L’intensità luminosa si può calcolare


lare con la seguente formula: l = dF / dw
dove dF è il flusso luminoso in una direzione, emesso dalla sorgente luminoso all’interno di un
piccolo cono e dw è l’angolo solido del cono stesso.

In pratica l’intensità luminosa non è altro che la densità di flusso in una certa direzione Una
sorgente luminosa puntiforme emette radiazioni della stessa intensità in tutte le direzioni, quindi il
suo flusso luminoso si propaga uniformemente come generato dal centro di una sfera.

L’analogia idraulica è data dalla quantità d’acqua emessa da un ugello sprinkler, in un cono
angolare di dimensioni note. Le sorgenti luminose artificiali non emettono luce in modo uniforme in
tutte le direzioni dello spazio, quindi a seconda della direzione considerata si può avere una
intensità diversa. Un sistema pratico per visualizzare la distribuzione della luce emessa da una
sorgente nello spazio consiste nel rappresentare le intensità luminose come vettori applicati nel
medesimo punto, come raggi uscenti dal centro di una sfera.

L’unità di misura dell’intensità luminosa è la CANDELA (cd) e corrisponde all’intensità

luminosa emessa da un corpo nero ad una temperatura di 1.766° centigradi in direzione

perpendicolare ad un foro d’uscita con un’area pari a 1/600.000 metri quadrati sotto la

pressione di 101,325 Pascal. 1 Pascal = 1 Newton / metro quadrato

Per semplicità la formula dell’intensità luminosa di cui sopra si può definire l’intensità

luminosa media sferica (sfera di raggio pari ad un metro) lm di una sorgente ideale

emettente lo stesso flusso della sorgente considerata, con una intensità identica in tutte le direzioni
(isotropa):

lm = F / 4 ð

Infatti la superficie di una sfera è data dalla formula 4 ð R 2 , da cui si può desumere che se lm è
pari ad 1 candela, il flusso luminoso emesso è pari a 12,56lm.

L’intensità luminosa è importante in quanto costituisce la parte più importante della curva
fotometrica.

I cataloghi degli apparecchi di illuminazione riportano spesso le curve fotometriche ossia le sezioni
del solido fotometrico sui due piani principali, ortogonali tra loro, intersecati per l’asse di simmetria
e rotazione.

La conoscenza della curva fotometrica è molto importante in quanto in base ad essa è

possibile verificare che l’apparecchio di illuminazione scelto distribuisca la luce nel modo richiesto.

Alcuni ordini di grandezza:


-Lampada per bicicletta 1cd

-Lanterna di un faro 2.000.00cd

-Lampada ad incandescenza 100W 110cd


c) Illuminamento

Simbolo: E Unità di misura: luxx (lx = lm / m²)

L’illuminamento è pari al rapporto


o fra il flusso luminoso incidente ortogonalmente
ente su una

superficie e l’area della superficie


e che riceve il flusso, quindi una densità di flusso:
usso:

L = dF / dA

L’unità di misura dell’illuminamento


nto è il LUX (lm/mq). Il lux è definito come il flusso
lusso

luminoso emesso da una sorgente


te luminosa (situata al centro della sfera) con
n un’intensità

luminosa di 1 candela che illumina


na una superficie di 1 mq.

L’illuminamento varia con l’inversorso del quadrato della distanza dalla sorgente
ente lu
luminosa. In altre
parole indica la quantità di luce che colpisce un’unità di superficie.

Volendo operare un paragone idraulico,


draulico, basta pensare ad una certa quantità
à d’acqua sparsa su di
una superficie:

l’illuminamento corrisponde alla quantità d’acqua per unità di superficie.

L’unità di misura dell’illuminamento


nto è il lux che dimensionalmente si esprime in lm/m2.

Dalla definizione di illuminamento


o si ricavano due importanti corollari di natura
a

geometrica che risultano molto utili


tili per comprendere la distribuzione
distribuz della luce
ce nello

spazio:

- nel caso di una sorgente puntiforme


untiforme la diminuzione del livello di illuminamento
minamento su di una
superficie varia in relazione al quadrato
uadrato della distanza dalla fonte: raddoppiando
ando la distanza dalla
fonte il livello di illuminamento sulla
ulla superficie diviene quindi 1/4;
- il livello d’illuminamento su di una
na superficie è massimo quando i raggi luminosi
nosi

giungono perpendicolari ad essa


sa e diminuisce proporzionalmente al loro
ro angolo d’incidenza
secondo la relazione:

L = Ln x cos a

dove L = Livello d’illuminamento sulla superficie, Ln illuminamento normale, a angolo

d’incidenza tra raggi luminosi e la


a normale alla superficie.

Alcuni ordini di grandezza:

-Uffici e scuole 300-500lx

-Soggiorno 150-200lx

-Camera da letto 70-100lx

c) Luminanza

Simbolo: L Unità di misura: candela


ndela / m² (cd / m²)

È il rapporto tra l’intensità luminosa


osa emessa da una superficie in una data direzione
ezione e l’area

apparente di tale superficie. L’area


rea apparente è la proiezione della superficie
e su un piano normale
alla direzione considerata. In pratica indica la sensazione di luminosità che si riceve da una
sorgente luminosa primaria o secondaria.
condaria.

(Si dice sorgente primaria un n corpo che emette direttamente radiazioni;oni; si dice sorgente
secondaria un corpo che riflette le
e radiazioni emesse da una sorgente primaria).
ria).

L’entità d’acqua che rimbalza dipende


pende dalla capacità di assorbimento della superficie.
uperficie.
L’equivalente idraulico è dato dalla quantità d’acqua che rimbalza su di una superficie nella
direzione dell’osservatore.

La luminanza si esprime in cd/m2. La luminanza si misura in cd/mq; 1 stilb equivale al

flusso luminoso emesso per unità di angolo solido (intensità luminosa di 1 candela) entro un’area
unitaria perpendicolare alla direzione del flusso luminoso.

La luminanza è importante in quanto se supera certi valori per ciascuna lampada abbaglia l’occhio
umano.

È importante avere ben chiara la differenza esistente tra illuminamento e luminanza.

Se la prima grandezza indica la quantità di luce, emessa da una sorgente, che colpisce la
superficie considerata, la seconda indica la sensazione di luminosità che riceviamo da questa
superficie; ciò vuol dire che su due superfici, una bianca e l’altra nera, possiamo avere lo stesso
valore di illuminamento, ad esempio 500 lux, ma la sensazione di luminosità ricevuta, e quindi la
luminanza, sarà completamente differente, in quanto quelle due superfici riflettono la luce in modo
diverso Nella progettazione illuminotecnica è necessario conoscere adeguatamente le une come le
altre. L’efficacia di un progetto di illuminazione è il risultato ottenuto dallo sviluppo di due differenti
analisi:

-quantitativa, data dalla determinazione del numero di sorgenti luminose e loro

posizionamento;

-qualitativa, data dalla scelta del tipo di luce più adatto a svolgere una determinata attività e dalla
sua distribuzione nello spazio.

Alcuni ordini di grandezza:

-Oggetti: con ottima illuminazione 100-1000 cd/m 2

con debole illuminazione 2-20 cd/m 2

-Carta o superficie verniciata a 400lux:

bianca 100 cd/m 2

nera 15 cd/m 2

d) Efficienza luminosa

Simbolo: Þ Unità di misura: Lumen / Watt (lm/W)

Un importantissimo parametro che caratterizza ogni sorgente di luce è l'efficienza

luminosa.

Esprime il rendimento di un apparecchio di illuminazione. Quindi tanto maggiore è

l’efficienza luminosa tanto più economico sarà l’esercizio della sorgente luminosa.

È dato dal rapporto tra il flusso emesso espresso in lumen e la potenza elettrica assorbita.
Tale parametro costituisce un ponte tra le caratteristiche fotometriche e quelle elettriche

della sorgente.

Questa può essere infatti vista come un trasduttore di energia dalla forma elettrica

(associata alla potenza in watt assorbita dalla rete di alimentazione) alla forma luminosa

(associata al flusso emesso).

Come ogni trasduttore, anche la nostra sorgente avrà delle perdite di convenzione ed è utile
definirne un rendimento in termini di lumen resi per ogni watt di potenza dissipata.

L'efficienza luminosa di una sorgente è definita come rapporto tra flusso luminoso in lumen e
potenza assorbita in watt.

Essa è dunque un indice della quantità di energia necessaria ad una data sorgente per

produrre il voluto flusso luminoso e va quindi tenuta in considerazione in sede di

dimensionamento energetico dell'impianto.

L’efficienza luminosa può essere comparata all’apporto tra la quantità d’acqua che esce da una
determinata prevalenza e la potenza elettrica necessaria per farla funzionare.

L’efficienza luminosa esprime il rapporto fra il flusso luminoso (lm) emesso da una

sergente luminosa (come definita sopra) e la potenza elettrica assorbita (Watt W):

E=F/P

L’efficienza luminosa come appunto dice anche la parola esprime l’efficienza di una

lampada, si misura in lm/W ed è una funzione variabile con il tipo di lampada.

- Per lampade ad incandescenza è pari a circa 15 lm/W

- Per lampade a mercurio 40 – 60 lm/W

- Per lampade agli alogenuri 60-100 lm/W

- Per lampade al sodio ad alta pressione 70 – 150 lm/W

Il fattore di utilizzazione di un apparecchio per illuminazione è un coefficiente che viene

fornito dalle case costruttrici mediante apposite tabelle. Esso viene ricavato per via

sperimentale e indica il rapporto tra il flusso luminoso che giunge sulla superficie da

illuminare (flusso luminoso utile) ed il flusso emesso dall’apparecchio.

Il fattore di manutenzione è il rapporto tra l’illuminamento prodotto da un apparecchio

dopo un certo periodo e quello dello stesso apparecchio nuovo. Esso tiene conto della

perdita di flusso luminoso che si verifica a causa dell’invecchiamento delle lampade e


dell’insudiciamento dell’apparecchio
cchio e viene di norma fornito dalle ditte costruttrici. Anche la
riduzione della capacità di riflessione
ione delle pareti influisce sul fattore di manutenzione.
tenzione.
LEZIONE 5

LA TEMPERATURA DI
COLORE
La temperatura di colore

Dal punto di vista teorico la definizione di temperatura di colore è valida solo quando si ha
a che fare con una sorgente detta corpo nero, cioè un corpo che è in grado di assorbire
tutta la radiazione che riceve senza rifletterne alcuna parte. Si può dimostrare che
l'emissione di radiazione da parte di un corpo nero dipende dalla temperatura del corpo
stesso.

Al crescere della temperatura del corpo nero l'emissione luminosa si sposta via via verso
le lunghezze d'onda più corte. Ne segue così che un corpo nero a 1000° K ha
un'emissione tutta nell'infrarosso. Anche se le sorgenti luminose non possono essere
completamente assimilate ad un corpo nero si definisce temperatura di colore la
temperatura di un corpo nero il cui spettro d’emissione si avvicina a quello della sorgente
considerata. Una lampadina al tungsteno ha così, ad esempio, una temperatura di colore
di circa 2854° K.

Quando lo spettro di emissione di una lampada è molto diverso da quello di corpo nero e
la somiglianza risulta quindi parziale (in particolare per ciò che riguarda le lampade a
scarica e i tubi fluorescenti) si preferisce parlare di temperatura prossimale di colore.

Dalla definizione data segue che al crescere della temperatura di colore l'emissione si
sposta verso le zone blu e viola del visibile. Le sorgenti che, con una definizione di tipo
psicologico, vengono dette "calde" (come ad esempio le lampadine ad incandescenza)
hanno una bassa temperatura di colore, mentre le sorgenti considerate "fredde" (come i
tubi fluorescenti) hanno un'alta temperatura di colore. Quest’apparente contraddizione
genera talvolta una certa confusione.
onfusione. Nella tabella sottostante sono
ono riportate alcune
temperature di colore

La tonalità di luce più vicina alla


lla colorazione
colora prevalente o alla colorazione
one che caratterizza
il contenuto artistico dell'opera
ra è quella in grado di esaltarne il contenuto
tenuto cromatico. E'
stato anche formulato un metodoetodo di calcolo in grado di analizzare strumentalmente gli
aspetti cromatici di un quadro[COV93].
[COV93]. Con tale metodo si separa l'opera
pera pittorica in molti
pixel, ognuno così piccolo da contenere un solo colore. Ognuno di questi uesti colori viene poi
scomposto nei tre colori primarimari CIE Rosso, Verde e Blu, ottenendo ndo così tre diverse
immagini. La predominanza a di una delle tre componenti permette rmette di scegliere
un'illuminazione in grado di esaltare certi effetti cromatici, dando luogo go ad effetti talvolta
considerati più "suggestivi". In generale, per oggetti in cui prevalgano ano le tonalità calde
(colorazioni corrispondenti allee lunghezze d'onda superiori a =565nm: m: giallo, arancione,
rosso) si potranno prediligere luci con temperatura prossimale fra i 2500 500 K e 3300 K. Per
oggetti in cui non vi sia una netta prevalenza delle tonalità calde o di quelle fredde,
fredd ci si
orienterà su lampade con temperature
mperature prossimali comprese tra 3400 e 5300 K. Quando gli
oggetti presentino una prevalenza di tonalità fredde, con colori quali verde, blu e viola, si
sceglieranno temperature prossimali comprese tra 5300 e 6000 K.
LEZIONE 6

LA RESA DEL COLORE


La resa di colore

Il colore di un oggetto non dipende


ipende solo dall'oggetto stesso ma anche he dalla luce che lo
illumina, infatti l'oggetto non può
uò riflettere radiazioni che non gli sono inviate
nviate dalla sorgente
(nell'esempio sottostante l'oggetto
getto viene visto magenta se illuminato da una sorgente di
luce bianca, mentre appare gialloiallo se alla sorgente tagliamo il blu, facendola
endola diventare una
sorgente di luce gialla).

Una sorgente quasi monocromatica


matica non sarà quindi in grado di restituire
tuire correttamente il
colore di un oggetto, che sarà invece riprodotto in maniera fedele da una
na lampada in grado
di emettere su varie lunghezzee d'onda.

Per quantificare queste considerazioni


onsiderazioni la CIE (Commissione Internazionale per
l'Illuminamento) ha introdotto un parametro detto indice di resa cromaticamatica Ra (o indice di
resa del colore). Per ottenere ere tale parametro bisogna, in linea teorica, valutare le
differenze di colore che certi oggetti test (le otto piastrelle colorate di Munsell) presentano
sotto la sorgente che stiamo valutando rispetto a una sorgente
sorg test di riferimento.

L'applicazione pratica di questo


esto principio presenta alcune difficoltà.tà. Le lampade ad
incandescenza, dotate di uno o spettro continuo, hanno un indice di resa
esa del colore assai
vicino al valore massimo teorico
orico di 100. Alcune lampade a scarica ca invece, a causa
dell'emissione limitata a poche
he lunghezze d'onda, hanno una scarsa a resa di colore che
può impedire una corretta percezione degli oggetti. In questo tipo ipo di lampade un
incremento nella resa del colore
ore va spesso a scapito dell'efficienza
dell'effici luminosa.
minosa.
L'indice di resa del colore, proprio
oprio a causa dell'utilizzo di un numero limitato di campioni,
fornisce un valore medio; ne segue che lampade aventi valori simili o addirittura uguali di
Ra possono riprodurre i colori in maniera assai diversa.
divers

L'indice di resa del colore di alcune


lcune lampade è riportato nella tabella sottostante
ottostante

La necessità di una buona resa sa del colore della lampada è estremamente


mente importante. Ad
esempio, nell'ambito dei beni culturali, per l’esposizione museale (la normati
normativa attuale è
riportata di seguito), si dovranno
no adottare le seguenti prescrizioni

:
Gamma dell'indice di resa Sorgenti luminose disponibili Campi d’applicazione
del colore
Ra>90 • Luce naturale Dipinti, arazzi, affreschi,
• Lampade ad alogeni tappeti
• Lampade ad
incandescenza
• Lampade fluorescenti
• A cinque bande

80<Ra<90 • Lampade fluorescenti a Mosaici, intarsi lapidei e


tre bande marmorei, vetri policromi.
• Lampade ad alogenuri Oggetti monocromatici o ad
con Ra>80 essi assimilabili, statue.
• Lampade al sodio del
tipo a luce bianca

Un’ottima resa del colore sarà utilizzata in caso di oggetti dipinti con più colori, mentre
avrà minore importanza nel caso di oggetti monocromatici e in cui il colore non abbia
particolare rilevanza. Anche in queste situazioni, però, è consigliabile l'impiego di sorgenti
luminose di buona resa cromatica, allo scopo di ottenere un accettabile riconoscimento dei
colori naturali dell'oggetto. Non si deve comunque dimenticare che, come è stato prima
descritto, l'indice di resa cromatica è una grandezza che nasce da una media sulle
risposte di una limitata serie di campioni, e che dunque tale parametro esprime in modo
globale l'attitudine d'una sorgente a riprodurre i colori naturali di un oggetto e non la
rispondenza ad alcune particolari tinte da cui un'opera potrebbe essere fortemente
caratterizzata.
LEZIONE 7

MISURA DELLE PROPRIETA’


DELLA LUCE
Celle fotovoltaiche

Dispositivo che sfrutta l’effetto fotoelettrico interno per convertire direttamente l’irraggiamento
solare in energia elettrica.

La cella costituisce il dispositivo elementare alla base di ogni sistema fotovoltaico per la
produzione di elettricità. Una cella fotovoltaica è sostanzialmente un diodo di grande superficie;
esposta alla radiazione solare converte la radiazione solare in elettricità. Si comporta come una
minuscola batteria, producendo, nelle condizioni di soleggiamento tipiche italiane, una corrente di
circa 3 A (Ampere) con una tensione di circa 0.5 V (Volt), quindi una potenza intorno a 1.5 W
(Watt). Le celle fotovoltaiche hanno solitamente una colorazione blu scuro, derivante da un
rivestimento antiriflettente (ossido di titanio), importante per ottimizzare la captazione
dell'irraggiamento solare. Le due principali tecnologie oggi disponibili per la produzione
commerciale di celle fotovoltaiche sono quella basata sul silicio cristallino e quella delle celle a film
sottile. Nella prima, le celle sono ottenute attraverso il taglio di un lingotto di un singolo cristallo
(monocristallino) o di più cristalli (policristallino) di silicio. Nella seconda, uno strato di silicio amorfo
(o di altri materiali sensibili all'effetto fotoelettrico) è deposto su una lastra di vetro o metallo sottile
che agisce da supporto. Il flusso di elettroni è ordinato e orientato da un campo elettrico creato,
all'interno della cella, con la sovrapposizione di due strati di silicio, in ognuno dei quali si introduce
un altro particolare elemento chimico (operazione di drogaggio), fosforo o boro, in rapporto di un
atomo per ogni milione di atomi di silicio. Di tutta l'energia che investe la cella solare sotto forma di
radiazione luminosa, solo una parte è convertita in energia elettrica. L'efficienza di conversione per
celle commerciali al silicio cristallino è in genere compresa tra il 10% e il 14%.

TRASDUTTORI FOTOELETTRICI
Trasformano una variazione d’intensità luminosa in un segnale elettrico.

Si distinguono in

o cellule fotoelettriche
o celle fotovoltaiche
o elementi fotoconduttori (fotoresistenze, fotodiodi e fototransistori)

cellule fotoelettriche
Sono basate sull'effetto fotoelettrico. Se un fotone incide su un metallo
a basso lavoro d’estrazione, è in grado di strappare alcuni elettroni
periferici al metallo ionizzandolo. Le cellule fotoelettriche sono allora
costituite da un catodo metallico posto in un’ampolla di vetro sotto
vuoto. Quando il catodo è colpito dalla radiazione luminosa libera
elettroni che vengono raccolti da un anodo fornendo una corrente.
Sono utilizzati solo in alcune situazioni particolari: scegliendo
opportunamente il materiale del catodo si possono ottenere sensibilità
elevate verso alcune lunghezze d'onda.
In figura il trasduttore fotosensibile è stato indicato con un simbolo che
indica la lunghezza d'onda della luce. Al buio la resistenza del
fotoconduttore è molto maggiore di 2.7 K perciò l'ingresso della porta
(NOT triggherata) è a zero logico. Ne segue che al buio si avrà
all'uscita del circuito un uno logico.
Viceversa in piena luce il fotoconduttore avrà una resistenza di
qualche centinaio di ohm, per cui l'ingresso della porta è ad uno logico
e la sua uscita si porta allo zero logico.
Con una porta di tipo 74LS14 la soglia dovrebbe essere attorno ai 25
lux (si tenga presente che una lampada da 100w ad un metro di
distanza fornisce circa 100 lux).
fotodiodi
In una giunzione PN polarizzata inversamente la radiazione genera
coppie elettrone lacuna che aumentano la conducibilità.
Nelle celle fotovoltaiche si sfrutta la generazione di coppie per estrarre
energia dalla cella. Nei fotodiodi si sfrutta la variazione di resistenza
per ottenere un sensore all’intensità luminosa.
I fotodiodi sono molto veloci (frequenze di taglio attorno al Mhz, anche
se nei diodi valanga le frequenze di taglio possono essere molto
maggiori) tanto da essere utilizzati come fotorivelatori in sistemi di
trasmissione dati su fibra ottica.
La frequenza di taglio può essere aumentata aumentando la tensione
inversa applicata al diodo, perché ciò riduce la capacità di giunzione
(la larghezza della zona di svuotamento aumenta, la capacità
diminuisce). I fotodiodi al Ge sono più sensibili all'infrarosso.

La figura a indica come si può utilizzare un fotodiodo come ricevitore


di luce modulata. Si noti la polarizzazione inversa del fotodiodo. Al
variare dell’intensità luminosa varia la resistenza del diodo e quindi il
potenziale del punto A. Le variazioni di VA vengono amplificate
dall'amplificatore ad operazionale.
La figura b indica come si può costruire un semplice luxometro.
Utilizzando un BPW34, il quale presenta una corrente inversa di
cortocircuito IL=0.6 A/lux si ottiene all'uscita dell'operazionale 0.6
Volt/lux.
fototransistori
Rappresentano un miglioramento rispetto al fotodiodo: sono costituiti
da un transistore in cui il morsetto di base è aperto e la cui seconda
giunzione (base collettore) è esposta alla luce.
In questo modo alla corrente inversa IL proporzionale all'illuminazione,
si aggiunge la corrente inversa ICB0 propria del transistore.
Si ottiene una corrente di collettore:
Ic=( +1)(IL+ICB0)
Tale corrente è elevata, consentendo di ottenere un'ottima sensibilità
e un rumore inferiore a quello dei fotodiodi. Si usano in sensori di
posizione come encoders, lettori di schede e di nastri perforati (con
sorgenti luminose concentrate e vicine possono comandare
direttamente dispositivi logici).
LEZIONE 8

ACUTEZZA VISIVA
ACUTEZZA VISIVA

E' l'unità di misura della capacità visiva.

In Italia si misura in decimi e viene considerata normale un'acutezza visiva di 10/10.

In realtà è piuttosto facile trovare valori di acutezza visiva superiori, spesso intorno ai 12/10 ed
anche ai 15/10.

MISURAZIONE DELLA VISTA

In Italia è l'ottotipo che rappresenta il test con un insieme di lettere, simboli, numeri o disegni a
grandezza angolare decrescente che vengono solitamente proiettati ad una distanza di 5 o 6 metri.
Nei paesi anglosassoni l'acutezza visiva viene misurata in sesti, mentre negli Stati Uniti in piedi.

DECIMI E DIOTTRIE

I DECIMI

Il decimo è l’unità di misura dell’acutezza visiva usata in Italia. L’acutezza visiva è un valore che
indica quanto piccole possono essere le immagini affinché siano correttamente visibili, ovvero
indica la riga di lettere e/o numeri più piccola che un soggetto, sottoposto all’esame della vista, è in
grado di leggere sull’ottotipo (è la tavola usata per determinare l’acutezza visiva, sulla quale sono
riportati simboli o lettere di diversa grandezza).

LE DIOTTRIE

La diottria è l’unità di misura utilizzata per esprimere il potere delle lenti ed indica la loro capacità di
modificare il percorso della luce.
Le lenti possono essere negative, positive ed astigmatiche e vengono usate per quantificare e
compensare le ametropie.
Spesso, nel linguaggio comune, il termine gradi viene impropriamente usato al posto di diottrie.
TEST DI VALUTAZIONE DELL'ACUITA' VISIVA
Questo test permette di effettuare la valutazione dell'acuità visiva per lontano e di
evidenziare la presenza di eventuali problemi visivi. Naturalmente quest’esame non
sostituisce la visita oculistica e, pertanto, sarà necessario consultare lo specialista in
presenza di qualsiasi problema visivo.

ISTRUZIONI
Per eseguire il test ci si deve posizionare dinanzi allo schermo, alla distanza indicata dalla
tabella sottostante ( n°1), diversa a seconda delle sue delle sue dimensioni ed
impostazioni. Per iniziare si deve occludere l'occhio sinistro con la mano sinistra. Se già si
usano occhiali, si può tenere un foglio di carta davanti alla lente sinistra. A questo punto si
possono iniziare a leggere i numeri sulle righe. Se si riesce a leggere fino all'ultima riga
l'acuità visiva è di 10/10, in caso contrario si può valutare il risultato facendo riferimento
alla tabella n°2. Per esaminare l'occhio sinistro bisogna ripetere, al contrario, la medesima
procedura.
Table 1

SIZE -------RES 640x480 800x600

14'' MONITOR 5.5 meters 4 meters

15" MONITOR 6.0 meters 4.5 meters


Table 2

VISUAL ACUITA'
LINE
ACUITY VISIVA

831
20/200 1/10
26534 20/100 2/10

987521 20/70 3/10

325401 20/50 4/10

476032 20/40 5/10

895406 20/30 6/10

732843 20/20 10/10

Se la sua acuità visiva è inferiore


eriore a 10/10 probabilmente ha bisognono di lenti correttive
oppure le sue lenti attuali nonn sono precise. In ogni caso è consigliabile
bile effettuare al più
presto una visita specialistica.
LEZIONE 9

STRUMENTAZIONE DI
MISURA
Lenti d’ingrandimento
La lente d'ingrandimento è definito come "corpo di materiale trasparente, generalmente delimitato
da due superfici curve e dotato di potere rifrangente". Grazie alle sue caratteristiche ottiche, questo
strumento permette l'ingrandimento dell'immagine e può essere applicato a vari scopi: lettura,
contafili, per hobby o anche per lavoro.

Le lenti utilizzate per l'ingrandimento e per la lettura sono quelle convesse, quelle cioè in cui la
curvatura di almeno una delle due facce corrisponde alla curvatura di una sfera. Tali lenti sono
anche dette lenti sferiche. La lente convessa, cioè incurvata verso l'esterno, ha il potere di
concentrare la luce ed è quindi detta anche lente convergente. Le lenti incurvate verso l'interno
sono definite lenti divergenti ed hanno un potere riducente (lente di riduzione).

biconvessa piano-convessa asferica biconcava piano-


concava aplanatica acromatica tripletto

Negli ultimi anni, alla ricerca di ingrandimenti sempre più elevati, è andato aumentando l'impiego di
lenti asferiche, lenti che con la superficie della sfera non hanno più niente a che fare. Grazie a
queste lenti oggi è possibile ottenere ingrandimenti da 2x a 12,5x. Nell'utilizzarle si dovrebbe
sempre tenere presente però che, per produrre il suo massimo effetto (campo visivo e mancanza
di distorsione), una lente asferica è calcolata per una determinata distanza tra l'occhio e l'oggetto.
Di conseguenza, per ottenere la migliore qualità d'immagine, la lente da lettura dovrebbe essere
tenuta alla prescritta distanza dall'occhio. Sulle lenti da lettura viene indicata, accanto
all'ingrandimento, anche la distanza calcolata dall'occhio in mm, ad esempio: 4/180. Solo
mantenendo l'occhio alla distanza prescritta la lente renderà al massimo delle sue possibilità.

Microscopi

Il microscopio consente di osservare oggetti o campioni molto piccoli o invisibili all'occhio umano. Il
microscopio biologico consente l'osservazione a forte ingrandimento di preparati trasparenti o
soggetti molto piccoli; il microscopio stereoscopico è invece indicato per la visione di oggetti
opachi a minore ingrandimento.

• Ingrandimenti: sono dati dalla moltiplicazione della focale dell'oculare per la focale
dell'obiettivo.
• Illuminazione: può essere costituita da uno specchio orientabile che concentra una luce
esterna o da un dispositivo inserito nel microscopio con lampada a filamento o alogena.
• Condensatore: lente attraverso cui passa la luce ottenendo concentrazione e uniformità di
illuminazione.
RADIOMETRO

Nel 1873, mentre stava svolgendo


lgendo alcune ricerche, il grande sperimentatore
rimentatore Sir
William Crookes sviluppò un n particolare tipo di radiometro, uno strumento
trumento per
misurare l’energia radiante della luce.

Lo strumento consiste di unaa piccola elica a 4 pale; ogni pala ha una superficie
annerita e una bianchissima.
a. Le 4 pale sono collegate a un mozzo o centrale che può
ruotare sopra la punta di un ago, con un attrito davvero piccolissim
piccolissimo.

Tutto il meccanismo è rinchiuso


iuso in un bulbo di vetro dal quale è stata
tata estratta l’aria,
ma non tanto da creare un vuoto perfetto.

Quando la luce colpisce il radiometro,


adiometro, l’elica inizia a girare nel senso
nso in cui
avanzano le superfici chiaree delle palette
palette, come se si manifestasse se una spinta
maggiore sulle facce scure.

Lo strumento, la cui costruzione


zione è tutto sommato semplice, nasconde
onde bene il suo
principio di funzionamento.

L’inventore stesso dello strumento


umento credette che fosse la “pressione
ne della luce” ad
azionare la girante, e il grande
nde James Clerk Maxwell fece sua questa
esta spiegazione,
che si adattava benissimo alle teoria del campo elettromagnetico che lui stesso
stava sviluppando in quegli anni. Ma, ripensandoci, se fosse stataa la pressione
della luce a far muovere le pale, queste avrebbero dovuto muoversiersi con la parte
annerita in avanti, quindi al contrario di quello che si osserva.

Si pensò quindi che fossero o le molecole del gas rarefatto all’interno


no del bulbo a far
muovere le pale. Essendo ill gas più caldo in prossimità delle faccece nere, le
molecole urtano queste facce ce più energicamente rispetto alle faccece bianche, e
l’effetto dovrebbe essere il movimento dell’elica.

Ma la risposta non era così semplice.


Fu Osborne Reynolds a sottoporre alla Royal Society un manoscritto in cui veniva
data una spiegazione del fenomeno in termini di flusso di gas dalle zone calde alle
zone fredde.

La spinta del gas che passa dalla zona calda (lato nero) a quella fredda (lato
bianco) si genera al bordo della pala (e non su tutta la superficie della stessa),
quando le molecole “scavalcano” il bordo stesso.

La spiegazione del fenomeno non è né intuitiva né semplice.

Il grande Maxwell, rimasto per così dire “scottato” dalla prima frettolosa
interpretazione, esaminò il lavoro di Reynolds, riconoscendo che l’intuizione di
partenza era giusta ma la trattazione matematica del tutto inadeguata (!), e scrisse
un articolo che fu pubblicato nel 1879, poco prima della sua morte.

Il lavoro di Reynolds non era stato ancora pubblicato, e lui si arrabbiò moltissimo
per la pesante critica a un suo lavoro che non era ancora stato divulgato, e pretese
che la Royal Society gli pubblicasse delle scuse.

Ma intanto Maxwell morì e non venne ritenuto opportuno, per rispetto dei defunti,
rivangare ancora la questione.

Comunque esistono altre false spiegazioni del movimento del radiometro, e la


stessa Enciclopedia Britannica pare ne riporti una falsa.

FOTOMETRO
SPETTROFOTOMETRO

SPETTRORADIOMETRO

Modello: SpectraScan PR701S

Marca: Photo Research

Accessori
Dotazione:
cavo RS-232 per connettere lo strumento
ento con un pc ( ASCII ) e Obiettivo a fuoco variabile
ile MS 55 per misura la
radianza spettrale, luminanza ed altri valori computabili CIE da 0,04 a 27400 cd/mq.
Opzionali:
* Sonda a fibre ottice FP-55 per la misura
sura la radianza spettrale, luminanza ed altri valori
ri computabili CIE da 0,06
a 41000 cd/mq
* ricettore corretto al coseno CR 55 per
er la misura dell'irradiamento e
dell'illuminamento da 0.52 a 344000 lux
* sfera integratrice IS-700 per la misura
ra del flusso, radiante e
luminoso, di piccole sorgenti di luce (LED)
* Ricettore LED LR55 per la misura l'intensità
ntensità assiale, radiante e luminosa e il colore deii LED

Grandezza Fotometrica Luminanza: intensità luminosa emessa in una determinata


eterminata direzione da
una superficie luminosa o illuminata. Esprime l'effetto
fetto di luminosità che
una superficie produce sull'occhio umano.
Illuminamento: è la "densità di flusso, ossia il flusso
lusso (F) che incide su
ogni metro quadrato di superficie S.
Intesità luminosa: parte del flusso luminoso emesso
messo in una determinata
direzione da una sorgente luminosa per l'angolo solido che la contiene.

Unità di misura luminanza: cd/mq


illuminamento: lux o footcandles ( 1fc = 10,76 lux o 1 lux = 0,929 fc)
intesità luminosa: cd o mcd (millicandela)
LEZIONE 10

OTTICA GEOMETRICA E
OTTICA FISICA
OTTICA GEOMETRICA
La luce che colpisce il nostro occhio può provenire da sorgenti luminose o da corpi
illuminati che rimandano verso l’osservatore una parte della luce che ricevono. Rispetto
alla luce incidente i corpi si possono suddividere in "trasparenti" e "opachi". Nel primo caso
essi lasciano passare tutta la luce che ricevono, nel secondo invece assorbono la maggior
parte della radiazione luminosa e tale assorbimento varia con la frequenza della
radiazione stessa. Esistono poi alcuni corpi che vengono detti "neri"; essi assorbono tutta
la luce che ricevono.
La luce ha una propagazione sempre rettilinea attraverso lo spazio; questo concetto è
piuttosto intuitivo e ci proviene dall’esperienza quotidiana la quale ci prova che se sul
segmento di retta congiungente l’occhio con un punto di un oggetto si interpone un corpo
opaco, la vista di quel punto ci è impedita.
Nasce da ciò la nozione, anch’essa di piuttosto facile intuizione, di raggio luminoso, cioè
di retta lungo la quale si propaga la luce. Non è però mai possibile isolare un singolo
raggio; si può al più ottenere mediante una stretta fenditura un fascio molto sottile che
prende il nome di pennello luminoso. Possiamo quindi definire il raggio luminoso come
caso limite di un fascio estremamente sottile.
La conseguenza più immediata della propagazione rettilinea della luce è l’esistenza delle
ombre. Un’altra conseguenza e la formazione delle immagini in camera oscura.

Riflessione
Quando un fascio luminoso incontra la superficie di un corpo si possono riscontrare
fenomeni di riflessione.
La riflessione avviene tutte le volte che il raggio incontra una superficie levigata e valgono
le seguenti leggi:
1) il raggio riflesso giace nel piano individuato dal raggio incidente e dalla normale alla
superficie;
2) l’angolo che il raggio incidente forma con la normale è uguale all’angolo che con essa
forma il raggio riflesso.
Queste leggi valgono sia per le superfici piane che per quelle curve; in quest’ultimo caso la
normale alla superficie è quella condotta nel punto d’incidenza.
L’intensità del fascio riflesso è proporzionale a quella del fascio incidente, minore o al più
usuale ad essa.
Oltre che dalla natura della superficie l’intensità dipende anche dall’angolo d’incidenza
dallo stato di polarizzazione della luce e dal suo colore. Si definisce pertanto potere
riflettente per una data superficie, il rapporto tra l’intensità del fascio riflesso e quella del
fascio incidente per incidenza normale.

Rifrazione
La rifrazione è la deviazione che subisce un raggio di luce quando passa da un mezzo a
un altro, queste sono le leggi della rifrazione:
1) il raggio incidente la normale alla superficie di separazione dei due mezzi nel punto
d’incidenza, determinano un piano nel quale giace il raggio rifratto;
2) l’angolo di rifrazione r e quello d’incidenza i sono legati dalla relazione: sen i / sen r = n,
dove n è una costante che dipende solo dalla natura dei due mezzi (indice di rifrazione
relativo dei due mezzi).

OTTICA FISICA

Interferenza
Quando due fasci luminosi concorrono in un punto sotto particolari condizioni può aver
luogo il fenomeno dell’interferenza, che si può esprimere semplicemente dicendo che: luce
aggiunta a luce produce oscurità.
Quando si fanno interferire due sorgenti, i due raggi si compongono secondo le regole di
composizione dei moti armonici. L’intensità d’illuminazione è proporzionale al quadrato
dell’ampiezza e quindi raddoppiando questa, l’intensità diventa quadrupla. Il fatto che in
realtà due sorgenti uguali non diano una illuminazione quadrupla si spiega considerando
che le ampiezze delle due vibrazioni si sommano se sono in concordanza di fase e si
sottraggono se sono in opposizione di fase.

Diffrazione
Il fenomeno della diffrazione è dovuto alla deviazione della propagazione rettilinea della
luce.
Se infatti poniamo davanti ad una sorgente uno schermo con un forellino si dovrebbe in tal
modo isolare un sottilissimo pennello luminoso, mentre tutti gli altri punti dovrebbero
rimanere al buio. L’occhio posto in un punto qualunque lontano dalla retta individuata dal
pennello luminoso vede invece il forellino brillare di viva luce. Ciò significa che dal forellino
la luce si sparpaglia in tutte le direzioni.

Polarizzazione
Un fascio di luce può presentare diverse proprietà nelle diverse direzioni perpendicolari
alla sua direzione di propagazione. Esso allora si dice polarizzato rettilineamente e il suo
stato di polarizzazione può individuarsi assegnando la posizione di un particolare piano
passante per il raggio che si dice piano di polarizzazione.
Infatti quando un fascio di luce ha subito una riflessione o una rifrazione la sua capacità di
riflettersi o di rifrangersi di nuovo è modificata.
Un raggio di luce venga ad esempio ad incidere su una superficie speculare e la
riflessione avvenga in un piano verticale; il raggio riflesso viene fatto incidere sopra un
secondo specchio e si osserva che la luce riflessa in un piano orizzontale è assai scarsa o
addirittura manca del tutto, mentre in un piano verticale la riflessione avviene
normalmente. Facendo variare con continuità il piano in cui si vuole che avvenga la
seconda riflessione si nota che l’intensità della luce riflessa varia in modo continuo da un
valore minimo o nullo a un valore massimo. Il piano nel quale la riflessione avviene con la
massima intensità si dice piano di polarizzazione e quello passante per il raggio e
perpendicolare al piano di polarizzazione cioè quello in cui la riflessione avviene con la
minima intensità si chiama piano di vibrazione.
La luce riflessa dal primo specchio si dice allora polarizzata e lo specchio prende il nome
di polarizzatore; il secondo specchio che permette di identificare se la luce è polarizzata o
meno si chiama analizzatore.

Luce laser
È una sorgente monocromatica, cioè produce una luce con una sola lunghezza d’onda
senza la sovrapposizione di lunghezze d’onda diverse.
Essa è quindi di un solo colore e molto intensa pur trattandosi di un fascio di luce molto
stretto (del diametro dell’ordine del mm).
Il concetto di laser consiste nello sfruttare una certa quantità di atomi che hanno tutti la
stessa proprietà- e cioè quella di emettere energia nello stesso momento in modo da
creare un’unica onda con la stessa frequenza, la stessa lunghezza e molto potente. In
questo modo si ottiene un fascio di luce molto concentrato che diverge poco.
Grazie al laser si possono ottenere immagini tridimensionali (olografia); questa
tridimensionalità è legata alla fase dell’onda. Per realizzare un ologramma occorre
appunto un laser e per la maggior parte delle applicazioni può servire un laser a impulsi.
Esso emette un fascio di radiazione diviso in due per mezzo di uno speciale prisma. I due
fasci vengono fatti convergere sulla lastra fotografica e siccome provengono dalla stessa
sorgente si trovano sempre in fase perfetta. Perciò possono dar luogo a frange
d’interferenza la quale annerisce l’emulsione della lastra a frange rettilinee e parallele. La
lastra impressionata si comporta già come un semplice ologramma.
LE LENTI
Una lente è un sistema ottico
o costituito da un mezzo omogeneo trasparente,
sparente, il vetro ad
esempio, limitato da due superfici
perfici curve. Esistono due tipi di lenti: le
e lenti divergenti e
quelle convergenti. Le prime danno immagini virtuali, le seconde immagini
agini reali.
rea

Potere diottrico di una lente


La distanza focale, per una data
ata lunghezza d’onda dipende sia dall’indicedice di rifrazione, sia
dai raggi di curvatura R1 ed R2 delle superfici che delimitano la lente. te. Vale la seguente
relazione:
1/f = (n-1) (1/R1 + 1/R2)
Si chiama potere diottrico D dii una lente l’inverso della sua distanza focale:
cale: D = 1/f.
LEZIONE 11

NORMATIVE DI
RIFERIMENTO
UNI EN 13018:2002 Prove non distruttive - Esame visivo - Principi generali

UNI EN 970:1997 Controllo non distruttivo di saldature per fusione. Esame visivo

UNI EN ISO 5817:2004 Saldatura - Giunti saldati per fusione di acciaio, nichel, titanio e loro leghe
(esclusa la saldatura a fascio di energia) - Livelli di qualitÓ delle imperfezioni

UNI EN ISO 6520-1:2001 Saldatura e procedimenti connessi - Classificazione delle imperfezioni


geometriche neimateriali metallici - Saldatura per fusione

UNI EN 1330-10:2004 Prove non distruttive - Terminologia - Parte 10: Termini utilizzati negli esami visivi

UNI EN ISO 13920:2000 Saldatura - Tolleranze generali per le costruzioni saldate - Dimensioni lineari
e
angolari -Forma e posizione

EN 13927:2003 Non-destructive testing - Visual testing - Equipment

UNI EN 30042:1997 Giunti in alluminio e sue leghe saldabili, saldati ad arco.Guida dei livelli di
qualitˆ
delle imperfezioni.
LEZIONE 12

METALLOGRAFIA DEL
FERRO E DEGLI ACCIAI
METALLOGRAFIA
LOGRAFIA DEL FERRO E DEGLI ACCIAI.

Le principali leghe del ferro sono


o gli acciai e le ghise: gli acciai sono soprattutto
tto

leghe da lavorazione plastica, cioè


oè la forma dei semilavorati o degli oggetti finali
nali viene

ottenuta attraverso lavorazioni di deformazione plastica, a caldo o a freddo: laminazione,


aminazione,

forgiatura, stampaggio, ecc. Le ghise sono invece leghe da fonderia: cioè gli oggetti nelle

loro forme finali sono ottenuti direttamente


rettamente dalla lega liquida, che viene colata
ta e solidifica in forme
che riproducono, in negativo, la forma dell'oggetto.

Sia le ghise che gli acciai sono essenzialmente delle leghe ferro-carbonio.
ferro I vari

tipi di cristalli che costituiscono


o queste leghe, al variare della temperatura
ra e del contenuto di
carbonio sono indicati graficamentente nel diagramma di stato Fe-C:
Fe

come tutti i diagrammi di stato, an


nche questo indica i campi

temperatura/composizione di esistenza
sistenza (di stabilità) delle varie fasi cristalline,
alline, in condizioni di
equilibrio termodinamico. Naturalmente
lmente anche nelle leghe ferro
ferro-carbonio si possono
ossono

formare anche altre fasi (cioè altri


ri tipi di cr
cristalli) in condizioni di non equilibrio,
o, che nella

pratica industriale possono essere


re ottenute con opportuni trattamenti termo
termo-m
meccanici.

Tutte le caratteristiche fisiche e tecnologiche


ecnologiche delle leghe dipendono dal tipo e dalle

caratteristiche delle fasi (cristalli) costituenti. La loro conoscenza e caratterizzazione


zazione sono
quindi essenziali per stabilire le proprietà e le possibilità di impiego pratico delle leghe: è

questo il compito della metallografia.

Nelle leghe Fe-C la formazione delle varie fasi è condizionata da alcuni fatti

fondamentali:

- dalla possibilità del ferro di assumere due forme cristalline: "Ferro alfa" cubico a

corpo centrato (ccc) a bassa temperatura, cioè fino a 910°C, e "ferro gamma" cubico a

facce centrate (cfc) a temperature superiori;

- dalla diversa solubilità del carbonio nelle due forme cristalline del ferro. Si tratta

in ogni caso di soluzioni solide interstiziali: però la solubilità arriva fino al 2% nel ferro

gamma (cfc), formando la soluzione solida detta austenite, mentre è estremamente bassa

nel ferro alfa (ccc), formando la cosiddetta ferrite;

- ferro e carbonio possono però interagire anche formando un "composto

intermetallico" con una sua propria struttura cristallina, il carburo di ferro Fe3C, detto

cementite. Tuttavia, in opportune condizioni di raffreddamento, soprattutto nelle ghise, il

carbonio può cristallizzare anche come fase a sè stante, formando cristalli di grafite.

Di conseguenza, nella maggior parte dei casi, le fasi presenti:

- negli acciai sono: ferrite e carburi;

- nelle ghise sono: ferrite, grafite ed eventualmente anche carburi.

Fra le fasi di non equilibrio, certamente la più importante è la martensite che si

può ottenere col ben noto trattamento di tempra: cioè col raffreddamento rapido dell'

austenite. Con questo trattamento si fa avvenire la trasformazione del reticolo del ferro da

cfc a ccc con estrema rapidità, tanto da impedire al carbonio presente in soluzione solida

interstiziale nell' austenite di diffondere ed andare a formare il carburo di ferro, come

previsto dal diagramma di stato. Gli atomi di carbonio rimangono quindi "intrappolati" nel

reticolo tipo ccc, come quello del ferro alfa, nel quale sono praticamente insolubili. Si forma quindi
una nuova soluzione solida interstiziale, non di equilibrio, metastabile, la martensite, caratterizzata
da una durezza molto elevata.

Con particolari cicli di trattamento termico è possibile modificare la forma e le

dimensioni dei cristalli presenti nelle strutture degli acciai, dando luogo alla formazione di

microstrutture formate da due o più tipi di cristalli, che assumono forme tipiche e
particolari, facilmente riconoscibili all' esame micrografico. Ad esempio i carburi possono

assumere forma lamellare, come nella perlite, formata da cristalli lamellari alternati di

carburi e ferrite, che si forma negli acciai al carbonio, per raffreddamenti abbastanza lenti

dell' austenite. In altri casi i carburi assumono forme più tondeggianti, come nella sorbite,

microstruttura ottenuta per riscaldamento della martensite.

Negli acciai legati, oltre al carbonio sono presenti altri elementi, come Cr, Ni,

Mo, V, W, ecc. che modificano sia i campi di esistenza (cioè gli intervalli di composizione e

temperatura) delle varie fasi, sia ovviamente la loro composizione. Si possono così

ottenere sostanziali modificazioni delle fasi e delle strutture degli acciai, allo scopo di

ottenere leghe con particolari caratteristiche meccaniche e tecnologiche. Ad esempio il

nichel amplia notevolmente l' intervallo di temperatura di stabilità dell' austenite,

consentendo di ottenere acciai con struttura austenitica anche a temperatura ambiente:

come per gli acciai inossidabili più comuni che sono appunto austenitici.

L' industria produce molte decine di diversi tipi di acciai che, almeno per quanto

riguarda il contenuto di carbonio. che rimane il principale elemento in lega, differiscono di

pochissimo. La gran parte degli acciai ha carbonio inferiore a 0,4-0,5%: in pratica solo gli

acciai per utensili hanno carbonio più elevato. Però con opportuni trattamenti termici o

termo-meccanici è possibile modificarne notevolmente la microstruttura, cioè il tipo, la

quantità relativa e la morfologia delle fasi presenti, in modo da conferire alla lega le

caratteristiche più adatte ai vari impieghi. E' proprio la possibilità di assumere varie

microstrutture, a parità di composizione, che rende gli acciai delle leghe molto versatili, cioè adatte
ad impieghi anche molto diversificati.

Nelle ghise, leghe del ferro con contenuti di carbonio più elevati degli acciai, circa

2,8-3,8%, sono presenti, naturalmente in proporzioni diverse, praticamente le stesse fasi

degli acciai. Però nelle ghise più comuni, le cosidette "ghise grigie", la maggior parte del

carbonio cristallizza in forma di grafite, che ovviamente non è una "fase metallica", ed

avendo una scarsa resistenza meccanica, costituisce la fase debole della struttura. In pratica le
caratteristiche meccaniche delle ghise grigie sono fortemente condizionate dalla forma e
distribuzione dei cristalli deboli di grafite. Nelle ghise comuni i cristalli di grafite hanno la

forma di lamelle sottili, che riducono fortemente la resistenza a trazione della lega. Le ghise
nodulari, dove con particolari trattamenti si ottengono cristalli di grafite con forma

tondeggiante, hanno invece caratteristiche meccaniche migliori e più simili a quelle degli

acciai.

Per il riconoscimento dei vari tipi di microstrutture degli acciai e delle ghise è

generalmente sufficiente l' esame al microscopio ottico a riflessione (100-1000

ingrandimenti). Per il riconoscimento di fasi con cristalli più fini, ad esempio di carburi o di

altri "precipitati" si può ricorre al SEM, che raggiunge maggiori ingrandimenti e dispone

della microsonda per analisi locali. Per esami più approfonditi sulla costituzione, tipo di

reticolo, presenza di difetti reticolari, sono disponibili altre tecniche come TEM, la

diffrazione X, ecc.

Per gli esami metallografici i campioni vengono prima lucidati fino a rendere la

superficie speculare, poi con opportuni reattivi chimici si evidenziano le varie fasi, dando ad esse
una colorazione differenziata, o creando effetti di rilievo sulla superficie
LEZIONE 13

PRODUZIONE E
LAVORAZIONE DEI
PRODOTTI SIDERURGICI
PRODUZIONE
E E LAVORAZIONE DEI PRODOTTI SIDERURGICI
GICI

Diagramma Ferro-Carbonio
FORGIATURA
LAMINAZIONE
TRAFILATURA
LEZIONE 14

METALLOGRAFIA E OTTICA
Metallografia ottica (analisi metallografiche).

Eseguendo una sezione del campione e preparandola opportunamente, è possibile


osservare la struttura interna di un materiale metallico o ceramico. In questo caso possono
essere evidenziati difetti, aspetti microstrutturali ed eventuali caratteristiche anomale. Le
analisi, condotte mediante il microscopio ottico metallografico, possono avere diversi
obiettivi: determinare la conformità delle microstrutture alle specifiche, individuare difetti e
comprenderne la genesi, verificare la correttezza di trattamenti termici subiti, studiare
cause e presenza di fenomeni di degrado (corrosione).

L'immagine al microscopio ottico metallografico mette in evidenza le fasi ed i costituenti


strutturali di questo acciaio al carbonio (diversi colori e morfologie). La metallografia ottica
permette di studiare la distribuzione di questi costituenti, le loro dimensioni e percentuali
volumetriche. E' così possibile evidenziare eventuali anomalie che possono causare
problemi durante l'impiego del materiale.
La micrografia ottica mostra l'aspetto di una filettatura realizzata in superlega a base
nichel. E' visibile l'effetto sul materiale della lavorazione meccanica eseguita per ottenere il
filetto. La freccia indica una cricca che si è aperta, durante l'impiego, sul fondo del filetto.
La sua modalità di propagazione lungo i bordi dei grani cristallini è utile per comprendere
le cause della rottura. In questo caso l'analisi metallografica viene applicata allo studio
delle cause di rottura del materiale.
La sezione metallografica di questo ottone mostra un tipico degrado per corrosione. La
corrosione si manifesta come una perdita di zinco dalla lega. Le zone degradate
rimangono arricchite in rame (aree rossastre). L'analisi metallografica è applicata allo
studio del degrado del materiale durante l'esercizio. Abbinando queste osservazioni ad
altre eseguite mediante la microanalisi elettronica, è possibile completare il quadro della
fenomenologia di corrosione in atto.

Sezione metallografica di una barra in acciaio temprata in superficie per induzione. L'analisi
metallografica consente di verificare gli spessori di tempra e di individuare eventuali anomalie. La
zona temprata è quella più scura. Le frecce mettono in evidenza una cricca di tempra.
Il degrado dei materiali metallici può essere studiato grazie alla metallografia ottica.
Nell'esempio è riportata una micrografia relativa ad un acciaio inossidabile degradato per
corrosione da cloruri. L'immagine rende possibile lo studio della corrosione e, in
abbinamento con la microanalisi elettronica, la determinazione delle cause del
danneggiamento.
LEZIONE 15

LA CORROSIONE
CORROSIONE

Si definisce Corrosione di un metallo, il fenomeno di natura chimico-fisica che provoca il


graduale decadimento delle caratteristiche del materiale con il concorso dell’ambiente che
lo circonda, esso è inoltre definibile come il fenomeno che porta il metallo nella forma
termodinamicamente più stabile di un composto, infatti, sappiamo bene che in natura i metalli sono
in genere presenti sotto forma di ossidi, solfuri, carbonati, ecc….

Così tutti i metalli manifestano una particolare tendenza a combinarsi con l’ossigeno, lo zolfo,
l’anidrite carbonica, ecc…, formano uno strato superficiale di protezione generando prodotti di
corrosione superficiale, altrimenti sostituita da una protezione passiva quale la verniciatura.

La corrosione dei metalli si può dividere in umida e secca, come si può intuire la differenza è nella
presenza o meno di acqua a contatto con le superfici metalliche.

La corrosione è un tipico fenomeno elettrochimico di riduzione, quindi le reazioni anodiche e


catodiche devono essere contemporaneamente attive affinché si attui un processo corrosivo.

Il metallo avvolte per sua natura riesce ad autoproteggersi dalla corrosione attraverso il fenomeno
della passivazione.

In particolare alcuni acciai, modificano il loro stato superficiale, appunto passivandosi, formando
uno strato protettivo impermeabile agli attacchi esterni di altre sostanze, un esempio sono gli acciai
inossidabili che attraverso una presenza di cromo non inferiore al 12% riesce a passivarsi.

Altri materiali, tra i più diffusi, auto-passivanti sono l’alluminio che genera l’allumina ed il piombo.

La corrosione può essere limitata e/o contrastata attraverso azioni forzate di bilanciamento elettro-
dinamico. Un esempio per tutti può essere la protezione catodica, che ti realizza applicando
direttamente su un materiale metallico da proteggere, un altro materiale meno nobile (es. pani di
Zinco, nel caso del Sistema ad Anodo sacrificale) in modo da rendere catodico il metallo base
rispetto all’ambiente che lo circonda, attraverso una forza elettromotrice imposta dall’esterno
(effetto pila).

In tal modo la corrosione risulta praticamente nulla.

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