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¡Venga tu Reino!

Contenido
Beata colei che ha creduto....................................................................................................................................................2
L’anima mia magnifica il Signore...........................................................................................................................................7
Si compirono per lei i giorni del parto.................................................................................................................................14
Che c’e tra me e te, o donna? La kenosi de la madre di Dio................................................................................................20
Presso la croce di Gesù stava Maria sua madre..................................................................................................................25
Donna ecco tuo figlio. Maria madre dei credenti................................................................................................................30
Beata colei che ha creduto

Ogni anno la liturgia ci prepara al Natale con tre grandi guide: Isaia, Giovanni Battista e Maria; il profeta, il
precursore, la madre. Il primo lo annunciò da lontano, il secondo lo additò presente al mondo, la madre lo portò
in grembo. Per questo Avvento 2019 ho pensato di affidarci interamente alla Madre. Nessuno meglio di lei ci
può predisporre a celebrare spiritualmente la nascita del Redentore.
Lei non ha celebrato l’Avvento, lo ha vissuto nella sua carne; come ogni donna incinta, Maria sa cosa significa
essere “in attesa” e può aiutare anche noi ad attendere, in senso forte ed esistenziale, la venuta del nostro
Redentore. Contempleremo la Madre di Dio nei tre momenti nei quali la stessa Scrittura ce la presenta al centro
degli avvenimenti : l’Annunciazione, la Visitazione e il Natale.

“ Eccomi, sono la serva del Signore… “


Iniziamo dall’Annunciazione. Quando Maria giunse da Elisabetta, questa l’accolse con grande gioia e, “piena di
Spirito Santo”, esclamò: Beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore (Lc l, 45).
L’evangelista san Luca si serve dell’episodio della Visitazione come di un mezzo per portare alla luce ciò che si
era compiuto nel segreto di Nazareth e che solo nel dialogo con un’interlocutrice poteva essere manifestato e
assumere un carattere oggettivo e pubblico.
La cosa grande che è avvenuta a Nazareth, dopo il saluto del¬l’angelo, è che Maria “ha creduto “ ed è diventata
così “ Madre del Signore “. Non c’è dubbio che questo aver creduto si riferisce alla risposta di Maria all’angelo:
Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto (Lc 1, 38). Con queste poche e semplici
parole si è consumato il più grande e decisivo atto di fede nella storia del mondo. Questa parola di Maria
rappresenta il vertice di ogni comportamento religioso davanti a Dio. Con questa sua risposta – scrive Origene –
è come se Maria dicesse a Dio: “Eccomi, sono una tavoletta da scrivere: lo Scrittore scriva ciò che vuole, faccia
di me ciò che vuole il Signore di tutto” . Egli paragona Maria alla tavoletta cerata che si usava, al suo tempo,
per scrivere. Maria, diremmo noi oggi, si offre a Dio come una pagina bianca, sulla quale egli può scrivere tutto
ciò che vuole.
“In un istante che non tramonta mai più e che resta valido per tutta l’eternità, la parola di Maria fu la parola
dell’umanità e il suo “sì”, l’amen di tutta la creazione al “sì” di Dio “ (K. Rahner). In lei è come se Dio
interpellasse di nuovo la libertà creata, offrendole una possibilità di riscatto. È questo il senso profondo del
parallelismo: Eva – Maria, caro ai Padri e a tutta la tra-dizione. “Ciò che Eva aveva legato con la sua
incredulità, Maria l’ha sciolto con la sua fede “ .
Dalle parole di Elisabetta: “Beata colei che ha creduto”, si vede come già nel Vangelo, la maternità divina di
Maria non è intesa soltanto come maternità fisica, ma come ma¬ternità anche spirituale, fondata sulla fede. Su
ciò si basa sant’Agostino quando scrive: “La Vergine Maria partorì credendo, quel che aveva concepito
credendo… Dopo che l’angelo ebbe parlato, ella, piena di fede (fide plena), concependo Cristo prima nel cuore
che nel grembo, rispose: Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me secondo la tua parola “ 6. Alla
pienezza di grazia da parte di Dio, corrisponde la pienezza della fede da parte di Maria; al “gratia plena“, il
“fide plena“.

Sola con Dio


A prima vista, quello di Maria fu un atto di fede facile e perfino scontato. Diventare madre di un re che avrebbe
regnato in eterno sulla casa di Giacobbe, madre del Messia! Non era quello che ogni fanciulla ebrea sognava di
essere? Ma questo è un modo di ragionare assai umano e carnale. La vera fede non è mai un privilegio o un
onore, ma è sempre un po’ un morire, e così fu soprattutto la fede di Maria in questo momento. Anzitutto, Dio
non inganna mai, non strappa mai alle creature dei consensi surrettiziamente, nascondendo loro le conseguenze,
ciò cui andranno incontro.
Lo vediamo in tutte le grandi chiamate di Dio. A Geremia preannuncia: Ti muoveranno guerra (Ger l, 19) e di
Saulo, dice ad Anania: Io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome (At 9, 16). Solo con Maria, per una
missione come la sua, avrebbe agito diversamente? Nella luce dello Spirito Santo, che accompagna la chiamata
di Dio, ella ha certamente intravisto che anche il suo cammino non sarebbe stato diverso da quello di tutti gli
altri chiamati. Del resto, Simeone, ben presto, darà espressione a questo presentimento, quando le dirà che una
spada le avrebbe trapassato l’anima.
Ma già sul piano semplicemente umano, Maria viene a trovarsi in una totale solitudine. A chi può spiegare ciò
che è avvenuto in lei? Chi le crederà quando dirà che il bimbo che porta nel grembo è “opera dello Spirito
Santo“? Questa cosa non è avvenuta mai prima di lei e non avverrà mai dopo di lei. Maria conosceva
certamente ciò che era scritto nella legge di Mosè, e cioè che la fanciulla che al momento delle nozze non fosse
stata trovata in stato di verginità, doveva essere fatta uscire all’ingresso della casa del padre e lapidata dalla
gente del villaggio (cfr. Dt 22, 20 s).
Noi parliamo volentieri oggigiorno del rischio della fede, intendendo, in genere, con ciò, il rischio intellettuale;
ma per Maria si trattò di un rischio reale! Carlo Carretto, nel suo li¬bretto sulla Madonna, intitolato Beata te che
hai creduto (Ed. Paoline 1986), narra come giunse a scoprire la fede di Maria. Quando viveva nel deserto, aveva
saputo da alcuni suoi amici Tuareg che una ragazza dell’accampamento era stata promessa sposa a un giovane,
ma che non era andata ad abitare con lui, essendo troppo giovane. Aveva collegato questo fatto con quello che
Luca dice di Maria. Perciò ripassando, dopo due anni, in quello stesso accampamento, chiese notizie della
ragazza. Notò un certo imbarazzo tra i suoi interlocutori e più tardi uno di loro, avvicinandosi con grande
segretezza, fece un segno: passò una mano sulla gola con il gesto caratteristico degli arabi quando vogliono
dire: “E stata sgozzata “. Si era scoperta incinta prima del matrimonio e l’onore della famiglia esigeva quella
fine. Allora ripensò a Maria, agli sguardi impietosi della gente di Nazareth, agli ammiccamenti, capì la
solitudine di Maria, e quella notte stessa la scelse come compagna di viaggio e maestra della sua fede .
Maria è l’unica ad aver creduto “in situazione di contemporaneità”, cioè mentre la cosa accadeva, prima di ogni
conferma e di ogni convalida da parte degli eventi e della storia . Ha creduto in totale solitudine. Gesù disse a
Tommaso: Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno! (Gv 20, 29):
Maria è la prima di coloro che hanno creduto senza aver ancora visto.
Di Abramo, in una situazione simile, quando anche a lui fu promesso un figlio benché in tarda età, la Scrittura
dice, quasi con aria di trionfo e di stupore: Abramo ebbe fede in Dio e ciò gli fu accreditato come giustizia (Gn
15, 6). Oh, quanto ciò ora si dice più trionfalmente, presso di noi, di Maria! Maria ebbe fede in Dio e ciò le fu
accreditato come giustizia. Il più grande atto di giustizia mai compiuto sulla terra da un essere umano, dopo
quello di Gesù, che però è anche Dio.
San Paolo dice che Dio ama chi dona con gioia (2 Cor 9, 7) e Maria ha detto a Dio il suo “ sì “ con gioia. Il
verbo con cui Maria esprime il suo consenso, e che è tradotto con “ fiat “ o con “ si faccia “, nell’originale, è
all’ottativo (génoito); esso non esprime una semplice rassegnata accettazione, ma vivo desiderio. Come se
dicesse: “ Desidero anch’io, con tutto il mio essere, quello che Dio desidera; si compia presto ciò che egli vuole
“. Davvero, come diceva sant’Agostino, prima ancora che nel suo corpo ella concepì Cristo nel suo cuore.
Ma Maria non disse “fiat” che è parola latina; non disse neppure “ génoito “ che è parola greca. Che cosa disse
allora? Qual è la parola che, nella lingua parlata da Maria, corrisponde più ‘ da vicino a questa espressione?
Cosa diceva un ebreo quando voleva dire “ così sia “? Diceva “ amen! “ Se è lecito cercare di risalire, con pia
riflessione, all’ipsissima vox, alla parola esatta uscita dalla bocca di Maria – o almeno alla parola che c’era, a
questo punto, nella fonte giudaica usata da Luca -, questa deve essere stata proprio la parola “ amen “. Amen –
parola ebraica, la cui radice significa solidità, certezza – era usata nella liturgia come risposta di fede alla parola
di Dio. Ogni volta che, al termine di certi Salmi, nella Volgata si legge “ fiat, fiat “ (nella versione dei Settanta:
génoito, génoito), l’originale ebraico, cono¬sciuto da Maria, porta: Amen, amen!
Con l’Amen si riconosce quel che è stato detto come parola ferma, stabile, valida e vincolante. La sua
traduzione esatta, quando è risposta alla parola di Dio, è questa: “Così è e così sia“. Indica fede e obbedienza
insieme; riconosce che quel che Dio dice è vero e vi si sottomette. E dire “ sì “ a Dio. In questo senso lo
troviamo sulla bocca stessa di Gesù: “ Sì, amen, Padre, perché così è piaciuto a te… “ (cf Mt 11, 26). Egli anzi è
l’Amen personificato: Così parla l’Amen… (Ap 3, 14) ed è per mezzo di lui che ogni altro “ amen “
pronunciato sulla terra sale ormai a Dio (cf 2 Cor l, 20). Come il “ fiat “ di Maria precorre quello di Gesù nel
Getsemani, così il suo “amen” precorre quello del Figlio. Anche Maria è un “ amen” personificato a Dio.

Nella scia di Maria


Come la scia di un bel vascello va allargandosi fino a sparire e a perdersi all’orizzonte, ma comincia con una
punta, che è la punta stessa del vascello, così è dell’immensa scia dei credenti che formano la Chiesa. Essa
comincia con una punta e questa punta è la fede di Maria, il suo “ fiat “. La fede, unitamente alla sua sorella, la
speranza, è l’unica co¬sa che non comincia con Cristo, ma con la Chiesa e perciò con Maria, che ne è il primo
membro, in ordine di tempo e in ordine di importanza. Gesú non può essere il soggetto della fede cristiana
perché ne è l’oggetto. La lettera agli Ebrei ci dà una lista di colo¬ro che hanno avuto fede: Per fede Abele… Per
fede, Abramo… Per fede, Mosè… (Eb 11, 4 ss). Ma questa lista non include Gesù. Gesù è chiamato “autore e
perfezionatore della fede” (Eb 12, 2), non uno dei credenti, sia pure il primo.
Per il solo fatto di credere, noi ci troviamo dunque nella scia di Maria e vogliamo ora approfondire cosa
significa seguire davvero la sua scia. Nel leggere ciò che riguarda la Madonna nella Bibbia, la Chiesa ha
seguito, fin dal tempo dei Padri, un criterio che si può esprimere così: “Maria, vel Ecclesia, vel anima “, Maria,
ossia la Chiesa, ossia l’anima. Il senso è che quello che nella Scrittura si dice specialmente di Maria, va inteso
universalmente della Chiesa e ciò che si dice universalmente della Chiesa va inteso singolarmente per ogni
anima credente.
Attenendoci anche noi a questo principio, vediamo ora ciò che la fede di Maria ha da dire prima alla Chiesa nel
suo insieme e poi a ciascuno di noi, cioè a ogni singola anima. Mettiamo in luce prima le implicazioni ecclesiali
o teologiche della fede di Maria e poi quelle personali o ascetiche. In questo modo, la vita della Madonna non
serve solo ad accrescere la nostra privata devozione, ma anche la no¬stra comprensione profonda della Parola di
Dio e dei problemi della Chiesa.
Anzitutto Maria ci parla dell’importanza della fede. Non c’è suono, né musica là dove non c’è un orecchio
capace di ascolta¬re, per quanto risuonino nell’aria melodie e accordi sublimi. Non c’è grazia, o almeno la
grazia non può operare, se non trova la fede ad accoglierla. Come la pioggia non può far germogliare nulla
finché non trova una terra che l’accoglie, così la grazia se non trova la fede. È per la fede che noi siamo “
sensibili “ alla grazia. La fede è la base di tutto; è la prima e la più “buona” delle opere da compiere. Opera di
Dio è questa, dice Gesù: che crediate (cf Gv 6, 29). La fede è così importante perché è l’unica che mantiene alla
grazia la sua gratuità. Non cerca di invertire le parti, facendo di Dio un debitore e dell’uomo un creditore. Per
questo essa è tanto cara a Dio che fa dipendere dalla fede praticamente tutto, nei suoi rapporti con l’uomo.
Grazia e fede: sono posti, in tal modo, i due pilastri della salvezza; sono dati all’uomo i due piedi per
camminare o le due ali per volare. Non si tratta però di due cose parallele, quasi che da Dio venisse la grazia e
da noi la fede, e la salvezza dipendesse così, in parti eguali, da Dio e da noi, dalla grazia e dalla libertà. Guai se
uno pensasse: la grazia dipende da Dio, ma la fede dipende da me; insieme, io e Dio facciamo la salvezza!
Avremmo fatto di nuovo, di Dio, un debitore, uno che dipende in qualche modo da noi, e che deve condividere
con noi il merito e la gloria. San Paolo toglie ogni dubbio quando dice: Per grazia siete salvi mediante la fede e
ciò (cioè il credere, o, più globalmente, l’essere salvi per grazia mediante la fede, che è la stessa cosa) non viene
da voi, ma è dono di Dio perché nessuno possa vantarsene (Ef 2, 8 s). Anche in Maria l’atto di fede fu suscitato
dalla grazia dello Spirito Santo.
Quello che ora ci interessa è mettere in luce alcuni aspetti della fede di Maria che possono aiutare la Chiesa di
oggi a credere più pienamente. L’atto di fede di Maria è quanto mai per-sonale, unico e irrepetibile. È un fidarsi
di Dio e un affidarsi completamente a Dio. E un rapporto da persona a persona. Questo si chiama fede
soggettiva. L’accento è qui sul fatto di credere, più che sulle cose credute. Ma la fede di Maria è anche quanto
mai oggettiva, comunitaria. Ella non crede in un Dio soggettivo, personale, avulso da tutto, e che si rivela solo a
lei nel segreto. Crede invece al Dio dei Padri, al Dio del suo popolo. Riconosce nel Dio che le si rivela, il Dio
delle promesse, il Dio di Abramo e della sua discendenza.
Ella si inserisce umilmente nella schiera dei credenti, diventa la prima credente della nuova alleanza, come
Abramo era stato il primo credente del¬l’antica alleanza. Il Magnificat è tutto pieno di questa fede basa¬ta sulle
Scritture e di riferimenti alla storia del suo popolo. Il Dio di Maria è un Dio dai tratti squisitamente biblici:
Signore, Potente, Santo, Salvatore. Maria non avrebbe creduto all’angelo, se le avesse rivelato un Dio diverso,
che ella non avesse potuto riconoscere come il Dio del suo popolo Israele. Anche esternamente, Maria si adegua
a questa fede. Si assoggetta infatti a tutte le prescrizioni della legge; fa circoncidere il Bambino, lo presenta al
tempio, si sottopone lei stessa al rito della purificazione, sale a Gerusalemme per la Pasqua.
Ora tutto questo è per noi di grande insegnamento. Anche la fede, come la grazia, è andata soggetta, lungo i
secoli, a un fenomeno di analisi e di frantumazione, per cui si hanno innumerevoli specie e sottospecie di fede. I
fratelli protestanti, per esempio, valorizzano di più quel primo aspetto, soggettivo e personale, della fede. “ Fede
– scrive Lutero – è una fiducia viva e audace nella grazia di Dio “; è una “ ferma fiducia “ 13. In alcune correnti
del protestantesimo, come nel Pietismo, dove questa tendenza è portata all’estremo, i dogmi e le cosiddette
verità di fede non hanno quasi alcuna rilevanza. L’atteggiamento interiore, personale, verso Dio è la cosa più
importante e quasi esclusiva.
Nella tradizione cattolica e ortodossa ha avuto invece, fin dall’antichità, un’importanza grandissima il problema
della retta fede o dell’ortodossia. Il problema delle cose da credere prese, ben presto, il sopravvento sull’aspetto
soggettivo e personale del credere, cioè sull’atto di fede. I trattati dei Padri, intitolati “ Sulla fede “ (De fide)
non accennano nemmeno alla fede come atto soggettivo, come fiducia e abbandono, ma si preoccupano di
stabilire quali sono le verità da credere in comunione con tutta la Chiesa, in polemica contro gli eretici. In
seguito alla Riforma, in reazione all’accentuazione unilaterale della fede-fiducia, questa tendenza si è
accentuata nella Chiesa cattolica. Credere significa principalmente aderire al credo della Chiesa. San Paolo
diceva che “ con il cuore si crede e con la bocca si fa la professione di fede “ (cf Rm 10, 10): la “professione “
della retta fede ha preso spesso il sopravvento sul “ credere con il cuore “.
Maria ci spinge a ritrovare, anche in questo campo, “ l’intero “ che è tanto più ricco e più bello di ogni singola
parte. Non basta avere una fede solo soggettiva, una fede che sia un abbandonarsi a Dio nell’intimo della
propria coscienza. È tanto facile, per questa strada, rimpicciolire Dio alla propria misura. Questo avviene
quando ci si fa una propria idea di Dio, basata su una propria interpretazione personale della Bibbia, o su
l’interpretazione del proprio ristretto gruppo, e poi si aderisce ad essa con tutte le forze, magari anche con
fanatismo, senza accorgersi che ormai si sta credendo in se stessi più che in Dio e che tutta quella incrollabile
fiducia in Dio, altro non è che una incrollabile fiducia in se stessi.
Non basta però neppure una fede solo oggettiva e dommatica, se questa non realizza l’intimo, personale
contatto, da io a tu, con Dio. Essa diventa facilmente una fede morta, un credere per interposta persona o per
interposta istituzione, che crolla non appena entra in crisi, per qualsiasi ragione, il proprio rap¬porto con
l’istituzione che è la Chiesa. È facile, in questo modo, che un cristiano arrivi alla fine della vita, senza aver mai
fatto un atto di fede libero e personale, che è l’unico che giustifichi il nome di “ credente “.
Bisogna dunque credere personalmente, ma nella Chiesa; credere nella Chiesa, ma personalmente. La fede
dommatica della Chiesa non mortifica l’atto personale e la spontaneità del credere, ma anzi lo preserva e
permette di conoscere e abbracciare un Dio immensamente più grande di quello della mia povera esperienza.
Nessuna creatura infatti è capace di abbracciare, con il suo atto di fede, tutto quello che, di Dio, si può
conoscere. La fede della Chiesa è come il grande angolare che permette di cogliere e fotografare, di un
panorama, una porzione molto più vasta del semplice obiettivo. Nell’unirmi alla fede della Chiesa, io faccio mia
la fede di tutti quelli che mi hanno preceduto: degli apostoli, dei martiri, dei dottori. I Santi, non potendo portare
con sé in cielo la fede – dove essa non serve più -, l’hanno lasciata in eredità alla Chiesa.
C’è una potenza incredibile racchiusa in quelle parole: “Io credo in Dio Padre Onnipotente..”. Il mio piccolo “
io “, unito e fuso con quello grande di tutto il corpo mistico di Cristo, passato e presente, forma un grido più
potente del fragore del mare che fa tremare dalle fondamenta il regno delle tenebre.

Crediamo anche noi!


Passiamo ora a considerare le implicazioni personali e ascetiche che scaturiscono dalla fede di Maria.
Sant’Agostino, dopo aver affermato, nel testo citato sopra, che Maria “ piena di fede, partorì credendo quel che
aveva concepito credendo “, trae da questo un’applicazione pratica dicendo: “ Maria credette e in lei quel che
credette si avverò. Crediamo anche noi, perché quel che si avverò in lei possa giovare anche a noi” .
Crediamo anche noi! La contemplazione della fede di Maria ci spinge a rinnovare anzitutto il nostro personale
atto di fede e di abbandono in Dio. Di qui l’importanza decisiva di dire a Dio, una volta nella vita, un “ si faccia,
fiat “, come quello di Maria. Quando questo avviene, esso è un atto avvolto nel mistero perché coinvolge
insieme grazia e libertà; è una specie di concepimento. La creatura non può farlo da sola; Dio perciò l’aiuta
senza toglierle la sua libertà.
Che si deve dunque fare? E’ semplice: dopo averci pregato, perché non sia una cosa superficiale, dire a Dio con
le parole stesse di Maria: “Eccomi, sono il servo, o la serva, del Signore: si faccia di me secondo la tua parola!
“. Dico amen, sì, mio Dio, a tutto il tuo progetto, ti cedo me stesso!
Dobbiamo però ricordarci che Maria disse il suo “ fiat “ all’ottativo, con desiderio e gioia. Quante volte noi
ripetiamo quelle parole in uno stato d’animo di mal celata rassegnazione, come chi, chinando la testa, dice a
denti stretti: “ Se proprio non si può farne a meno, ebbene si faccia la tua volontà! “. Maria ci insegna a dirlo
diversamente. Sapendo che la volontà di Dio a nostro riguardo è infinitamente più bella e più ricca di promesse,
di ogni nostro progetto; sapendo che Dio è amore infinito e che nutre per noi “ progetti di pace e non di
afflizione” (cf Ger 29, 11), noi diciamo, pieni di desiderio e quasi con impazienza, come Maria: “ Si compia
presto su di me, o Dio, la tua volontà di amore e di pace! “.
Con ciò si realizza il senso della vita umana e la sua più grande dignità. Dire “ sì “, “ amen “, a Dio non umilia
la dignità dell’uomo, come pensa talvolta l’uomo d’oggi, ma la esalta. Del resto, qual è l’alternativa a questo “
amen “ detto a Dio? Proprio il pensiero contemporaneo che ha fatto dell’analisi dell’esistenza il suo oggetto
primario, ha dimostrato chiaramente che dire “ amen “ bisogna e se non si dice a Dio che è amore, lo si deve
dire a qualcos’altro che è solo fredda e paralizzante necessità: al destino, al fato.

“ Il mio giusto vivrà di fede “


Tutti devono e possono imitare Maria nella sua fede, ma in modo particolare deve farlo il sacerdote e chiunque
è chiamato, in qualche modo, a trasmettere ad altri la fede e la Parola. “Il mio giusto – dice Dio – vivrà di fede “
(cf Ab 2, 4; Rm 1, 17): questo vale, a un titolo speciale, per il sacerdote: Il mio sacerdote – dice Dio – vivrà di
fede. Egli è l’uomo della fede. Il peso specifico di un sacerdote è dato dalla sua fede. Egli inciderà nelle anime
nella misura della sua fede. I1 compito del sacerdote o del pastore in mezzo al popolo, non è solo quello di
distributore di sacramenti e di servizi, ma anche quello di suscitatore e testimone della fede. Egli sarà veramente
uno che guida, che trascina, nella misura con cui crederà e avrà ceduto la sua libertà a Dio, come Maria.
Il grande essenziale segno, ciò che i fedeli colgono immediatamente in un sacerdote e in un pastore, è se “ ci
crede “: se crede in ciò che dice e in ciò che celebra. Chi dal sacerdote cerca anzitutto Dio, se ne accorge subito;
chi non cerca da lui Dio, può essere facilmente tratto in inganno e indurre in inganno lo stesso sacerdote,
facendolo sentire importante, brillante, al passo coi tempi, mentre, in realtà, è anche lui, come si diceva nel
capitolo precedente, un uomo “ vuoto “. Perfino il non credente che si accosta al sacerdote in uno spirito di
ricerca, capisce subito la differenza. Quello che lo provocherà e che potrà metterlo salutarmente in crisi, non
sono in genere le più dotte discussioni della fede, ma la semplice fede. La fede è contagiosa. Come non si
contrae contagio, sentendo solo parlare di un virus o studiandolo, ma venendone a contatto, così è con la fede.
La forza di un servitore di Dio è proporzionata alla forza del¬la sua fede. A volte si soffre e magari ci si lamenta
in preghiera con Dio, perché la gente abbandona la Chiesa, non lascia il peccato, perché parliamo parliamo, e
non succede niente. Un giorno gli apostoli tentarono di cacciare il demonio da un povero ragazzo ma senza
riuscirvi. Dopo che Gesù ebbe cacciato, lui, lo spirito cattivo dal ragazzo, si accostarono a Gesù in di¬sparte e
gli chiesero: Perché noi non abbiamo potuto scacciarlo? E Gesù rispose: Per la vostra poca fede (Mi 17, 19-20).
Il mondo, abbiamo detto, è solcato, come il mare, dalla scia di un bel vascello, che è la scia di fede aperta da
Maria. Entriamo in questa scia. Crediamo anche noi perché quel che si avverò in lei si avveri anche in noi.
Invochiamo la Madonna con il dolce titolo di Virgo fidelis: Vergine credente, prega per noi!

1.Origene, Commento al vangelo di Luca, framm. 18 (GCS, 49, p. 227).


2.S. Ireneo, Adv. Haer III,22,4.
3.S. Agostino, Discorsi, 215,4 (PL 38,1074).
L’anima mia magnifica il Signore.

In questa meditazione saliamo con Maria “verso la montagna” ed entriamo nella casa di Elisabetta. La Madre di
Dio ci parlerà in prima persona con il suo cantico di lode che è il Magnificat. Oggi tutta la Chiesa si stringe
intorno al successore di Pietro che celebra il suo 50° di sacerdozio e il cantico della Vergine è la preghiera che
più spontaneamente sale dal cuore in circostanze come questa. Una meditazione su di esso è un nostro piccolo
modo di partecipare anche in questo momento a tale ricorrenza.
Per comprendere il posto e lo scopo che il cantico della Vergine ha nel vangelo di Luca, è necessario premettere
qualche cenno sui cantici evangelici in genere. Gli inni disseminati nei vangeli dell’infanzia – Benedictus,
Magnificat, Nunc dimittis – hanno la funzione di spiegare poeticamente il senso spirituale degli eventi narrati
-Annunciazione, Visitazione, Natale -, conferendo a essi la forma di una confessione di fede e di lode.
Come tali, essi sono parte integrante della narrazione storica. Non sono degli intermezzi o dei brani staccati,
perché ogni evento storico è costituito da due elementi: dal fatto e dal significato del fatto. I cantici inseriscono
già la liturgia nella storia. “La liturgia cristiana – è stato scritto – ha i suoi inizi negli inni della storia
dell’infanzia” . Noi abbiamo, in altre parole, in questi cantici, un embrione della liturgia natalizia. Essi
realizzano l’elemento essenziale della liturgia che è di essere celebrazione festosa e credente dell’evento di
salvezza.
Molti problemi rimangono insoluti circa questi cantici, secondo gli studiosi: gli autori reali, le fonti, la struttura
interna… Noi possiamo prescindere, fortunatamente, da tutti questi problemi critici e lasciare che essi
continuino a essere studiati con frutto da quelli che si occupano di questo genere di problemi. Non dobbiamo
attendere che siano risolti tutti questi punti oscuri, per poterci già edificare con questi cantici. Non perché tali
problemi non siano importanti, ma perché esiste una certezza che relativizza tutte quelle incertezze: Luca ha
accolto questi cantici nel suo vangelo e la Chiesa ha accolto il Vangelo di Luca nel suo canone.
Questi cantici sono “parola di Dio”, ispirata dallo Spirito Santo. Il Magnificat è di Maria perché a essa lo ha
“attribuito” lo Spirito Santo e questo fa sì che esso sia più “suo” che se lo avesse scritto materialmente di suo
pugno! Infatti a noi non interessa tanto sapere se il Magnificat l’ha composto Maria, quanto sapere se l’ha
composto per ispirazione dello Spirito Santo. Se anche fossimo certissimi che esso fu composto direttamente da
Maria, esso non ci interesserebbe per questo, ma perché in esso parla lo Spirito Santo.
Il cantico di Maria contiene uno sguardo nuovo su Dio e sul mondo; nella prima parte, che abbraccia i versetti
46-50, lo sguardo di Maria si porta su Dio; nella seconda parte, che abbraccia i restanti versetti, il suo sguardo si
porta sul mondo e la storia.

Un nuovo sguardo su Dio


Il primo movimento del Magnificat è verso Dio; Dio ha il primato assoluto su tutto. Maria non si attarda a
rispondere al saluto di Elisabetta; non entra in dialogo con gli uomini, ma con Dio. Ella raccoglie la sua anima e
la inabissa nell’infinito che è Dio. Nel Magnificat è stata “fissata” per sempre un’esperienza di Dio senza
precedenti e senza paragoni nella storia. È l’esempio più sublime del linguaggio cosiddetto numinoso. È stato
osservato che l’affacciarsi della realtà divina all’orizzonte di una creatura produce, di solito, due sentimenti
contrapposti: uno di timore e uno di amore. Dio si presenta come “il mistero tremendo e affascinante”,
tremendo per la sua maestà, affascinante per la sua bontà. Quando la luce di Dio, per la prima volta, brillò
nell’anima di Agostino, egli confessa che “tremò di amore e di terrore” e che anche in seguito il contatto con
Dio lo faceva “rabbrividire e ardere” insieme .
Troviamo qualcosa di simile nel cantico di Maria, espresso in modo biblico, attraverso i titoli. Dio è visto come
“Adonai” (che dice molto di più del nostro “Signore” con cui viene tradotto), come “Dio”, come “Potente” e
soprattutto come Qadosh, “Santo”: Santo è il suo nome! Nello stesso tempo, però, questo Dio santo e potente, è
visto, con infinita fiducia, come “mio Salvatore”, come realtà benevola, amabile, come “proprio” Dio, come un
Dio per la creatura. Ma è soprattutto l’insistenza di Maria sulla misericordia che mette in luce questo aspetto
benevolo e “affascinante” della realtà divina. “La sua misericordia si stende di generazione in generazione”:
queste parole suggeriscono l’idea di un fiume maestoso che sgorga dal cuore di Dio e attraversa tutta la storia
umana. Ora questo fiume è giunto a una “chiusa” e riparte a un livello superiore. “Si è ricordato della sua
misericordia”: la promessa ad Abramo e ai Padri si è compiuta.
La conoscenza di Dio provoca, per reazione e contrasto, una nuova percezione o conoscenza di sé e del proprio
essere, che è quella vera. L’io non si coglie che di fronte a Dio, “coram Deo. In presenza di Dio, la creatura,
dunque, conosce finalmente se stessa nella verità. E così vediamo che avviene anche nel Magnificat. Maria si
sente “guardata” da Dio, entra ella stessa in quello sguardo, si vede come la vede Dio. E come vede se stessa in
questa luce divina? Come “piccola” (“umiltà” qui significa reale piccolezza e bassezza, non la virtù
dell’umiltà!) e come “serva”. Si percepisce come un piccolo nulla che Dio si è degnato di guardare. Maria non
attribuisce l’elezione divina alla sua virtù dell’umiltà, ma al favore divino, alla grazia. Pensare diversamente
(come hanno fatto certi autori famosi) significa distruggere di colpo l’umiltà di Maria. L’umiltà ha uno statuto
tutto speciale: ce l’ha chi non crede di averla; non ce l’ha chi crede di averla.
Da questo riconoscimento di Dio, di sé e della verità, si sprigiona la gioia e l’esultanza: “Il mio spirito
esulta…”. Gioia prorompente della verità, gioia per l’agire divino, gioia della lode pura e gratuita. Maria
magnifica Dio per se stesso, anche se lo magnifica per ciò che ha fatto in lei, cioè a partire dalla propria
esperienza, come fanno tutti i grandi oranti della Bibbia. Il giubilo di Maria è il giubilo escatologico per l’agire
definitivo di Dio ed è il giubilo creaturale di sentirsi creatura amata dal Creatore, al servizio del Santo,
dell’amore, della bellezza, dell’eternità. È la pienezza della gioia. San Bonaventura, che aveva esperienza
diretta degli effetti trasformanti della visita di Dio all’anima, parla della venuta dello Spirito Santo in Maria, al
momento dell’Annunciazione, come di un fuoco che la infiamma tutta:
Sopravvenne in lei – scrive – lo Spirito Santo come fuoco divino che infiammò la sua mente e santificò la sua
carne conferendole una perfettissima purità [...]. Oh, se tu fossi capace di sentire, in qualche misura, quale e
quanto grande fu l’incendio disceso dal cielo, quale refrigerio recato [...]. Se potessi udire il canto giubilante
della Vergine!
Anche l’esegesi scientifica più esigente e rigorosa si rende conto che qui ci troviamo davanti a parole che non si
possono capire con i normali mezzi di analisi filologica e confessa: “Chi legge queste righe è chiamato a
condividere il giubilo; solo la comunità concelebrante dei credenti in Cristo e dei suoi fedeli è all’altezza di
questi testi” . È un parlare “nello Spirito” che non si può capire se non nello Spirito.

Un nuovo sguardo sul mondo


Il Magnificat si compone di due parti. Quello che cambia, nel passaggio dalla prima alla seconda parte, non è né
il mezzo espressivo né il tono; da questo punto di vista, il cantico è un flusso continuo che non presenta cesure;
continua la serie dei verbi al passato che narrano ciò che Dio ha fatto, o meglio ha “cominciato a fare”. Quello
che cambia è solo l’ambito dell’agire di Dio: dalle cose che ha fatto “in lei”, si passa a osservare le cose che ha
fatto nel mondo e nella storia. Si considerano gli effetti del definitivo manifestarsi di Dio, i suoi riflessi
sull’umanità e sulla storia. Qui osserviamo una seconda caratteristica della sapienza evangelica che consiste
nell’unire all’ebbrezza del contatto con Dio la sobrietà nel guardare il mondo, nel conciliare tra loro il più
grande trasporto e abbandono nei confronti di Dio al più grande realismo critico nei confronti della storia e degli
uomini.
Con una serie di potenti verbi all’aoristo, Maria descrive, a partire dal versetto 51, un rovesciamento e un
radicale mutamento delle parti tra gli uomini: “Ha rovesciato – ha innalzato; ha ricolmato – ha rimandato a mani
vuote”. Una svolta improvvisa e irreversibile, perché opera di Dio che non cambia e non torna indietro, come
invece fanno gli uomini nelle loro cose. In questo mutamento emergono due categorie di persone: da una parte
la categoria dei superbi-potenti-ricchi, dall’altra la categoria degli umili-affamati.
È importante che noi comprendiamo in che consiste un tale rovesciamento e dove si produce, perché
diversamente c’è il rischio di fraintendere tutto il cantico e con esso le beatitudini evangeliche che sono qui
anticipate quasi con le stesse parole. Guardiamo alla storia: che cosa è accaduto, di fatto, quando ha preso a
realizzarsi l’avvenimento cantato da Maria? C’è forse stata una rivoluzione sociale ed esterna, per cui i ricchi
sono, di colpo, impoveriti e gli affamati sono stati saziati di cibo? C’è stata forse una più giusta distribuzione
dei beni tra le classi? No. Forse che i potenti sono stati rovesciati materialmente dai troni e gli umili innalzati?
No; Erode ha continuato a essere chiamato “il Grande” e Maria e Giuseppe sono dovuti fuggire in Egitto a
causa sua.
Se dunque quello che ci si aspettava era un cambiamento sociale e visibile, c’è stata una smentita totale da parte
della storia. Allora dove è accaduto quel rovesciamento? (Perché esso è accaduto!). È accaduto nella fede! Si è
manifestato il regno di Dio e questa cosa ha provocato una silenziosa, ma radicale rivoluzione. Come se si fosse
scoperto un bene che, di colpo, ha svalutato la moneta corrente. Il ricco appare come un uomo che ha messo da
parte un’ingente somma di denaro, ma nella notte c’è stata una svalutazione del cento per cento e al mattino si è
alzato che era un povero miserabile. I poveri e gli affamati, al contrario, sono avvantaggiati, perché sono più
pronti ad accogliere la nuova realtà, non temono il cambiamento; hanno il cuore pronto. Il rovesciamento
cantato da Maria è dello stesso tipo – dicevo – di quello proclamato da Gesù con le beatitudini e con la parabola
del ricco epulone.
Maria parla di ricchezza e povertà a partire da Dio; ancora una volta, parla “coram Deo”, prende come misura
Dio, non l’uomo. Stabilisce il criterio “definitivo”, escatologico. Dire dunque che si tratta di un rovesciamento
avvenuto “nella fede”, non significa dire che esso è meno reale e radicale, meno serio, ma che lo è infinitamente
di più. Questo non è un disegno creato dall’onda sulla sabbia del mare che l’onda successiva cancella. Si tratta
di una ricchezza eterna e di una povertà ugualmente eterna.

Il Magnificat sulla bocca della Chiesa


Sant’Ireneo, commentando l’Annunciazione, dice che “Maria, piena di esultanza, gridò profeticamente in nome
della Chiesa: “L’anima mia magnifica il Signore” . Maria è come la voce solista che intona per prima un’aria
che deve essere poi ripetuta dal coro. È questa una pacifica convinzione della Tradizione. Anche Origene la fa
sua: “È per costoro (cioè per quelli che credono) che Maria magnifica il Signore”15. Anche lui parla di una
“profezia di Maria”, a proposito del Magnificat16. Questo vuol dire l’espressione “Maria figura della Chiesa”
(typus Ecclesiae), usata dai Padri e accolta dal concilio Vaticano II (cf LG 63). Dire che Maria è “figura della
Chiesa” significa dire che ne è la personificazione, la rappresentazione in forma sensibile di una realtà
spirituale; significa dire che è modello della Chiesa. Ella è figura della Chiesa anche nel senso che nella sua
persona si realizza, fin dall’inizio e in maniera perfetta, l’idea di Chiesa; che ella ne costituisce, sotto il capo che
è Cristo, il membro principale, e la primizia.
Ma cosa vuol dire qui “Chiesa” e al posto di quale Chiesa Ireneo dice che Maria intona il Magnificat? Non al
posto della Chiesa nominale, ma della Chiesa reale, cioè non della Chiesa in astratto, ma della Chiesa concreta,
delle persone e delle anime che compongono la Chiesa. Il Magnificat non è solo da recitare, ma da vivere, da far
proprio da ciascuno di noi; è il “nostro” cantico. Quando diciamo: “L’anima mia magnifica il Signore”, quel
“mia” è da prendere in senso diretto, non riportato.
Sia in ciascuno – scrive sant’Ambrogio – l’anima di Maria per magnificare il Signore, sia in ciascuno lo spirito
di Maria per esultare in Dio [...]. Se infatti secondo la carne una sola è la madre di Cristo, secondo la fede tutte
le anime generano Cristo; ognuna infatti accoglie in sé il Verbo di Dio .
Alla luce di questi princìpi, proviamo ora ad applicare a noi – alla Chiesa e all’anima – il cantico di Maria, e
vedere cosa dobbiamo fare per “somigliare” a Maria non solo nelle parole, ma anche nei fatti.

Una scuola di conversione evangelica


Là dove Maria proclama il rovesciamento dei potenti e dei superbi, il Magnificat ricorda alla Chiesa qual è
l’annuncio essenziale che deve proclamare al mondo. Le insegna a essere anch’essa “profetica”. La Chiesa vive
e attua il cantico della Vergine quando ripete con Maria: “Ha rovesciato i potenti, ha rimandato i ricchi a mani
vuote!”, e lo ripete con fede, distinguendo questo annuncio da tutti gli altri pronunciamenti che pure ha diritto di
fare, in materia di giustizia, di pace, di ordine sociale, in quanto interprete qualificata della legge naturale e
custode del comandamento di Cristo dell’amore fraterno.
Se le due prospettive sono distinte, non sono però separate e senza alcun influsso reciproco. Al contrario,
l’annuncio di fede di ciò che Dio ha fatto nella storia della salvezza (che è la prospettiva in cui si colloca il
Magnificat) diventa la migliore indicazione di ciò che l’uomo deve fare, a sua volta, nella propria storia umana
e, anzi, di ciò che la Chiesa stessa ha il compito di fare, in forza della carità che deve avere anche per il ricco, in
vista della sua salvezza. Più che “un incitamento a rovesciare i potenti dai troni per innalzare gli umili”, il
Magnificat è un salutare ammonimento rivolto ai ricchi e ai potenti circa il tremendo pericolo che corrono,
esattamente come sarà, nelle intenzioni di Gesù, la parabola del ricco epulone.
Quello del Magnificat non è dunque l’unico modo di affrontare il problema, oggi così sentito, di ricchezza e
povertà, fame e sazietà; ce ne sono altri anch’essi legittimi che partono dalla storia, e non dalla fede, e ai quali
giustamente i cristiani danno il loro appoggio e la Chiesa il suo discernimento. Ma questo modo evangelico è
quello che la Chiesa deve proclamare sempre e a tutti come suo mandato specifico e con il quale deve sostenere
lo sforzo comune di tutti gli uomini di buona volontà. Esso è universalmente valido e sempre attuale. Se per
ipotesi (ahimè, remota!) ci fossero un tempo e un luogo in cui non ci fossero più ingiustizie e disuguaglianze
sociali tra gli uomini, ma tutti fossero ricchi e sazi, non per questo la Chiesa dovrebbe cessare di proclamare lì,
con Maria, che Dio rimanda i ricchi a mani vuote. Anzi, lì dovrebbe proclamarlo con ancora maggiore forza. Il
Magnificat è attuale nei paesi ricchi, non meno che nei paesi del terzo mondo.
Ci sono piani e aspetti della realtà che non si colgono a occhio nudo, ma solo con l’ausilio di una luce speciale:
o con i raggi infrarossi, o con i raggi ultravioletti. L’immagine ottenuta con questa luce speciale è molto diversa
e sorprendente per chi è abituato a vedere quello stesso panorama alla luce naturale. La Chiesa possiede, grazie
alla parola di Dio, un’immagine diversa della realtà del mondo, l’unica definitiva, perché ottenuta con la luce di
Dio e perché è quella stessa che ha Dio. Essa non può occultare tale immagine. Deve anzi diffonderla, senza
mai stancarsi, renderla nota agli uomini, perché ne va del loro destino eterno. È l’immagine che alla fine resterà
quando sarà passato “lo schema di questo mondo”. Renderla nota, a volte, con parole semplici, dirette e
profetiche, come quelle di Maria, come si dicono le cose di cui si è intimamente e tranquillamente persuasi. E
questo anche a costo di sembrare ingenua e fuori dal mondo, di fronte all’opinione dominante e allo spirito del
tempo.
L’Apocalisse ci dà un esempio di questo linguaggio profetico, diretto e coraggioso, in cui, all’opinione umana,
viene contrapposta la verità divina: “Tu dici [e questo “tu” può essere la singola persona, come può essere
un’intera società]: “Sono ricco, mi sono arricchito; non ho bisogno di nulla!”, ma non sai di essere un infelice,
un miserabile, un povero, cieco e nudo” (Ap 3, 17).
In una celebre favola di Andersen, si parla di un re a cui è stato fatto credere, da lestofanti, che esiste una stoffa
meravigliosa che ha la prerogativa di essere invisibile agli sciocchi e inetti e visibile solo ai savi. Egli, per
primo, naturalmente, non la vede, ma ha paura di dirlo, per tema di passare per uno degli sciocchi, e così fan
tutti i suoi ministri e tutto il popolo. Il re sfila per le strade senza nulla addosso, ma tutti, per non tradirsi,
fingono di ammirare il bellissimo vestito, finché si ode la vocina di un bambino che grida tra la folla: “Ma il re è
nudo!”, rompendo l’incantesimo, e tutti finalmente hanno il coraggio di ammettere che quel famoso vestito non
esiste.
La Chiesa deve essere come la vocina di quel bambino, la quale, a un certo mondo tutto infatuato delle proprie
ricchezze e che induce a ritenere pazzo e sciocco chi mostra di non credere in esse, ripete, con le parole
dell’Apocalisse: “Tu non sai di essere nudo!”. Qui si vede come davvero Maria, nel Magnificat, “parla
profeticamente per la Chiesa”: ella, per prima, partendo da Dio, ha messo a nudo la grande povertà della
ricchezza di questo mondo. Il Magnificat, da solo, giustifica il titolo di “Stella dell’evangelizzazione” che san
Paolo VI ha attribuito a Maria nella sua “Evangelii nuntiandi”.

Il Magnificat, richiamo alla conversione


Sarebbe fraintendere completamente questa parte del Magnificat che parla dei superbi e degli umili, dei ricchi e
degli affamati, se la confinassimo solo nell’ambito delle cose che la Chiesa e il credente devono predicare al
mondo. Qui non si tratta di qualcosa che si deve solo predicare, ma di qualcosa che si deve anzitutto praticare.
Maria può proclamare la beatitudine degli umili e dei poveri perché è lei stessa tra gli umili e i poveri. Il
rovesciamento da lei prospettato deve avvenire anzitutto nell’intimo di chi ripete il Magnificat e prega con esso.
Dio – dice Maria – ha rovesciato i superbi “nei pensieri del loro cuore”.
Di colpo, il discorso è portato da fuori a dentro, dalle discussioni teologiche, in cui tutti hanno ragione, ai
pensieri del cuore, in cui tutti abbiamo torto. L’uomo che vive “per se stesso”, il cui Dio non è il Signore, ma il
proprio “io”, è un uomo che si è costruito un trono e vi siede sopra dettando legge agli altri. Ora Dio – dice
Maria – rovescia questi tali dal loro trono; mette a nudo la loro non-verità e ingiustizia. C’è un mondo interiore,
fatto di pensieri, volontà, desideri e passioni, dal quale – dice san Giacomo – provengono le guerre e le liti, le
ingiustizie e i soprusi che sono in mezzo a noi (cf Gc 4, 1) e finché nessuno comincia con il risanare questa
radice, nulla cambia veramente nel mondo e se qualcosa cambia è per riprodurre, di lì a poco, la stessa
situazione di prima.
Come ci raggiunge da vicino il cantico di Maria, come ci scruta a fondo e come mette davvero “la scure alla
radice”! Che stoltezza e incoerenza sarebbe mai la mia, se ogni giorno, ai Vespri, ripetessi, con Maria, che Dio
“ha rovesciato i potenti dai troni” e intanto continuassi a bramare il potere, un posto più alto, una promozione
umana, un avanzamento di carriera e perdessi la pace se esso tarda ad arrivare; se ogni giorno proclamassi, con
Maria, che Dio “ha rimandato i ricchi a mani vuote” e intanto bramassi senza posa di arricchire e di possedere
sempre più cose e cose sempre più raffinate; se preferissi essere a mani vuote davanti a Dio, anziché a mani
vuote davanti al mondo, vuote dei beni di Dio, piuttosto che vuote dei beni di questo mondo. Che stoltezza
sarebbe la mia se continuassi a ripetere, con Maria, che Dio “guarda verso gli umili”, che si accosta a loro,
mentre tiene a distanza i superbi e i ricchi di tutto, e poi fossi di quelli che fanno esattamente il contrario.
Tutti i giorni – ha scritto Lutero commentando il Magnificat – dobbiamo constatare che ognuno si sforza di
elevarsi al di sopra di sé, a una posizione d’onore, di potenza, di ricchezza, di dominio, a una vita agiata e a
tutto ciò che è grande e superbo. E ognuno vuole stare con tali persone, corre loro dietro, le serve volentieri,
ognuno vuol partecipare alla loro grandezza [...]. Nessuno vuole guardare in basso, dove c’è povertà, vituperio,
bisogno, afflizione e angoscia, anzi tutti distolgono lo sguardo da una tale condizione. Ognuno sfugge le
persone così provate, le scansa, le lascia sole, nessuno pensa di aiutarle, di assisterle e di far sì che esse pure
divengano qualche cosa: devono rimanere in basso ed essere disprezzate .
Dio – ci ricorda Maria – fa l’opposto di questo: tiene a distanza i superbi e innalza fino a sé gli umili e i piccoli;
sta più volentieri con i bisognosi e gli affamati che lo tempestano di suppliche e di richieste, che non con i ricchi
e i sazi che non hanno bisogno di lui e non gli chiedono nulla. Così facendo, Maria ci esorta, con dolcezza
materna, a imitare Dio, a far nostra la sua scelta. Ci insegna le vie di Dio. Il Magnificat è davvero una
meravigliosa scuola di sapienza evangelica. Una scuola di conversione continua.
Come tutta la Scrittura, esso è uno specchio (cf Gc 1, 23) e sappiamo che dello specchio si possono fare due usi
molto diversi. Lo si può usare rivolto verso l’esterno, verso gli altri, come specchio ustorio, proiettando la luce
del sole verso un punto lontano fino a incendiarlo, come fece Archimede con le navi romane, oppure lo si può
usare tenendolo rivolto verso di sé, per vedere in esso il proprio volto e correggerne i difetti e le brutture. San
Giacomo ci esorta a usarlo soprattutto in questo secondo modo, per mettere “a fuoco” noi stessi, prima che gli
altri.
“La Scrittura – diceva san Gregorio Magno – cresce a forza di essere letta” . Lo stesso avviene del Magnificat,
le sue parole sono arricchite, non consunte, dall’uso. Prima di noi schiere di santi o di semplici credenti hanno
pregato con queste parole, ne hanno assaporato la verità, messo in pratica il contenuto. Per la comunione dei
santi nel corpo mistico, tutto questo immenso patrimonio aderisce ora al Magnificat. È bene pregarlo così, in
coro, con tutti gli oranti della Chiesa. Dio lo ascolta così.
Per entrare in questo coro che attraversa i secoli, basta che noi intendiamo ripresentare a Dio i sentimenti e il
trasporto di Maria che per prima lo intonò “in nome della Chiesa”, dei dottori che lo commentarono, degli artisti
che lo musicarono con fede, dei pii e degli umili di cuore che lo vissero. Grazie a questo meraviglioso cantico,
Maria continua a magnificare il Signore per tutte le generazioni; la sua voce, come quella di una corifea,
sostiene e trascina quella della Chiesa.
Un orante del salterio invita tutti a unirsi a lui, dicendo: “Magnificate il Signore con me” (Sal 34, 4). Maria
ripete ai suoi figli le stesse parole. Se posso osare interpretare il suo pensiero, il Santo Padre, nel giorno del suo
Giubileo sacerdotale, rivolge a tutti noi lo stesso invito: “Magnificate il Signore con me”. E noi, Santità,
promettiamo di farlo.

1 H. Schürmann, Il Vangelo di Luca, I, Paideia, Brescia 1983, p. 251.


2. Cf S. Agostino, Confessioni, VII, 16; XI, 9.
3.S. Bonaventura, Lignum vitae, I, 3.
4.H. Schürmann, Il Vangelo di Luca, cit., p. 172.
5.S. Ireneo, Contro le eresie, III, 10, 2 (SCh 211, p. 118).
6.S. Ambrogio, Commento al Vangelo di Luca, II, 26 (CC 14, p. 42).
7.Ed. Weimar, 7, p. 547.
8.S. Gregorio Magno, Moralia, 20, 1 (PL 76, 135).
Si compirono per lei i giorni del parto

In questa meditazione saliamo con Maria “verso la montagna” ed entriamo nella casa di Elisabetta. La Madre di
Dio ci parlerà in prima persona con il suo cantico di lode che è il Magnificat. Oggi tutta la Chiesa si stringe
intorno al successore di Pietro che celebra il suo 50° di sacerdozio e il cantico della Vergine è la preghiera che
più spontaneamente sale dal cuore in circostanze come questa. Una meditazione su di esso è un nostro piccolo
modo di partecipare anche in questo momento a tale ricorrenza.
Per comprendere il posto e lo scopo che il cantico della Vergine ha nel vangelo di Luca, è necessario premettere
qualche cenno sui cantici evangelici in genere. Gli inni disseminati nei vangeli dell’infanzia – Benedictus,
Magnificat, Nunc dimittis – hanno la funzione di spiegare poeticamente il senso spirituale degli eventi narrati
-Annunciazione, Visitazione, Natale -, conferendo a essi la forma di una confessione di fede e di lode.
Come tali, essi sono parte integrante della narrazione storica. Non sono degli intermezzi o dei brani staccati,
perché ogni evento storico è costituito da due elementi: dal fatto e dal significato del fatto. I cantici inseriscono
già la liturgia nella storia. “La liturgia cristiana – è stato scritto – ha i suoi inizi negli inni della storia
dell’infanzia” . Noi abbiamo, in altre parole, in questi cantici, un embrione della liturgia natalizia. Essi
realizzano l’elemento essenziale della liturgia che è di essere celebrazione festosa e credente dell’evento di
salvezza.
Molti problemi rimangono insoluti circa questi cantici, secondo gli studiosi: gli autori reali, le fonti, la struttura
interna… Noi possiamo prescindere, fortunatamente, da tutti questi problemi critici e lasciare che essi
continuino a essere studiati con frutto da quelli che si occupano di questo genere di problemi. Non dobbiamo
attendere che siano risolti tutti questi punti oscuri, per poterci già edificare con questi cantici. Non perché tali
problemi non siano importanti, ma perché esiste una certezza che relativizza tutte quelle incertezze: Luca ha
accolto questi cantici nel suo vangelo e la Chiesa ha accolto il Vangelo di Luca nel suo canone.
Questi cantici sono “parola di Dio”, ispirata dallo Spirito Santo. Il Magnificat è di Maria perché a essa lo ha
“attribuito” lo Spirito Santo e questo fa sì che esso sia più “suo” che se lo avesse scritto materialmente di suo
pugno! Infatti a noi non interessa tanto sapere se il Magnificat l’ha composto Maria, quanto sapere se l’ha
composto per ispirazione dello Spirito Santo. Se anche fossimo certissimi che esso fu composto direttamente da
Maria, esso non ci interesserebbe per questo, ma perché in esso parla lo Spirito Santo.
Il cantico di Maria contiene uno sguardo nuovo su Dio e sul mondo; nella prima parte, che abbraccia i versetti
46-50, lo sguardo di Maria si porta su Dio; nella seconda parte, che abbraccia i restanti versetti, il suo sguardo si
porta sul mondo e la storia.

Un nuovo sguardo su Dio


Il primo movimento del Magnificat è verso Dio; Dio ha il primato assoluto su tutto. Maria non si attarda a
rispondere al saluto di Elisabetta; non entra in dialogo con gli uomini, ma con Dio. Ella raccoglie la sua anima e
la inabissa nell’infinito che è Dio. Nel Magnificat è stata “fissata” per sempre un’esperienza di Dio senza
precedenti e senza paragoni nella storia. È l’esempio più sublime del linguaggio cosiddetto numinoso. È stato
osservato che l’affacciarsi della realtà divina all’orizzonte di una creatura produce, di solito, due sentimenti
contrapposti: uno di timore e uno di amore. Dio si presenta come “il mistero tremendo e affascinante”,
tremendo per la sua maestà, affascinante per la sua bontà. Quando la luce di Dio, per la prima volta, brillò
nell’anima di Agostino, egli confessa che “tremò di amore e di terrore” e che anche in seguito il contatto con
Dio lo faceva “rabbrividire e ardere” insieme .
Troviamo qualcosa di simile nel cantico di Maria, espresso in modo biblico, attraverso i titoli. Dio è visto come
“Adonai” (che dice molto di più del nostro “Signore” con cui viene tradotto), come “Dio”, come “Potente” e
soprattutto come Qadosh, “Santo”: Santo è il suo nome! Nello stesso tempo, però, questo Dio santo e potente, è
visto, con infinita fiducia, come “mio Salvatore”, come realtà benevola, amabile, come “proprio” Dio, come un
Dio per la creatura. Ma è soprattutto l’insistenza di Maria sulla misericordia che mette in luce questo aspetto
benevolo e “affascinante” della realtà divina. “La sua misericordia si stende di generazione in generazione”:
queste parole suggeriscono l’idea di un fiume maestoso che sgorga dal cuore di Dio e attraversa tutta la storia
umana. Ora questo fiume è giunto a una “chiusa” e riparte a un livello superiore. “Si è ricordato della sua
misericordia”: la promessa ad Abramo e ai Padri si è compiuta.
La conoscenza di Dio provoca, per reazione e contrasto, una nuova percezione o conoscenza di sé e del proprio
essere, che è quella vera. L’io non si coglie che di fronte a Dio, “coram Deo. In presenza di Dio, la creatura,
dunque, conosce finalmente se stessa nella verità. E così vediamo che avviene anche nel Magnificat. Maria si
sente “guardata” da Dio, entra ella stessa in quello sguardo, si vede come la vede Dio. E come vede se stessa in
questa luce divina? Come “piccola” (“umiltà” qui significa reale piccolezza e bassezza, non la virtù
dell’umiltà!) e come “serva”. Si percepisce come un piccolo nulla che Dio si è degnato di guardare. Maria non
attribuisce l’elezione divina alla sua virtù dell’umiltà, ma al favore divino, alla grazia. Pensare diversamente
(come hanno fatto certi autori famosi) significa distruggere di colpo l’umiltà di Maria. L’umiltà ha uno statuto
tutto speciale: ce l’ha chi non crede di averla; non ce l’ha chi crede di averla.
Da questo riconoscimento di Dio, di sé e della verità, si sprigiona la gioia e l’esultanza: “Il mio spirito
esulta…”. Gioia prorompente della verità, gioia per l’agire divino, gioia della lode pura e gratuita. Maria
magnifica Dio per se stesso, anche se lo magnifica per ciò che ha fatto in lei, cioè a partire dalla propria
esperienza, come fanno tutti i grandi oranti della Bibbia. Il giubilo di Maria è il giubilo escatologico per l’agire
definitivo di Dio ed è il giubilo creaturale di sentirsi creatura amata dal Creatore, al servizio del Santo,
dell’amore, della bellezza, dell’eternità. È la pienezza della gioia. San Bonaventura, che aveva esperienza
diretta degli effetti trasformanti della visita di Dio all’anima, parla della venuta dello Spirito Santo in Maria, al
momento dell’Annunciazione, come di un fuoco che la infiamma tutta:
Sopravvenne in lei – scrive – lo Spirito Santo come fuoco divino che infiammò la sua mente e santificò la sua
carne conferendole una perfettissima purità [...]. Oh, se tu fossi capace di sentire, in qualche misura, quale e
quanto grande fu l’incendio disceso dal cielo, quale refrigerio recato [...]. Se potessi udire il canto giubilante
della Vergine!
Anche l’esegesi scientifica più esigente e rigorosa si rende conto che qui ci troviamo davanti a parole che non si
possono capire con i normali mezzi di analisi filologica e confessa: “Chi legge queste righe è chiamato a
condividere il giubilo; solo la comunità concelebrante dei credenti in Cristo e dei suoi fedeli è all’altezza di
questi testi” . È un parlare “nello Spirito” che non si può capire se non nello Spirito.
Un nuovo sguardo sul mondo
Il Magnificat si compone di due parti. Quello che cambia, nel passaggio dalla prima alla seconda parte, non è né
il mezzo espressivo né il tono; da questo punto di vista, il cantico è un flusso continuo che non presenta cesure;
continua la serie dei verbi al passato che narrano ciò che Dio ha fatto, o meglio ha “cominciato a fare”. Quello
che cambia è solo l’ambito dell’agire di Dio: dalle cose che ha fatto “in lei”, si passa a osservare le cose che ha
fatto nel mondo e nella storia. Si considerano gli effetti del definitivo manifestarsi di Dio, i suoi riflessi
sull’umanità e sulla storia. Qui osserviamo una seconda caratteristica della sapienza evangelica che consiste
nell’unire all’ebbrezza del contatto con Dio la sobrietà nel guardare il mondo, nel conciliare tra loro il più
grande trasporto e abbandono nei confronti di Dio al più grande realismo critico nei confronti della storia e degli
uomini.
Con una serie di potenti verbi all’aoristo, Maria descrive, a partire dal versetto 51, un rovesciamento e un
radicale mutamento delle parti tra gli uomini: “Ha rovesciato – ha innalzato; ha ricolmato – ha rimandato a mani
vuote”. Una svolta improvvisa e irreversibile, perché opera di Dio che non cambia e non torna indietro, come
invece fanno gli uomini nelle loro cose. In questo mutamento emergono due categorie di persone: da una parte
la categoria dei superbi-potenti-ricchi, dall’altra la categoria degli umili-affamati.
È importante che noi comprendiamo in che consiste un tale rovesciamento e dove si produce, perché
diversamente c’è il rischio di fraintendere tutto il cantico e con esso le beatitudini evangeliche che sono qui
anticipate quasi con le stesse parole. Guardiamo alla storia: che cosa è accaduto, di fatto, quando ha preso a
realizzarsi l’avvenimento cantato da Maria? C’è forse stata una rivoluzione sociale ed esterna, per cui i ricchi
sono, di colpo, impoveriti e gli affamati sono stati saziati di cibo? C’è stata forse una più giusta distribuzione
dei beni tra le classi? No. Forse che i potenti sono stati rovesciati materialmente dai troni e gli umili innalzati?
No; Erode ha continuato a essere chiamato “il Grande” e Maria e Giuseppe sono dovuti fuggire in Egitto a
causa sua.
Se dunque quello che ci si aspettava era un cambiamento sociale e visibile, c’è stata una smentita totale da parte
della storia. Allora dove è accaduto quel rovesciamento? (Perché esso è accaduto!). È accaduto nella fede! Si è
manifestato il regno di Dio e questa cosa ha provocato una silenziosa, ma radicale rivoluzione. Come se si fosse
scoperto un bene che, di colpo, ha svalutato la moneta corrente. Il ricco appare come un uomo che ha messo da
parte un’ingente somma di denaro, ma nella notte c’è stata una svalutazione del cento per cento e al mattino si è
alzato che era un povero miserabile. I poveri e gli affamati, al contrario, sono avvantaggiati, perché sono più
pronti ad accogliere la nuova realtà, non temono il cambiamento; hanno il cuore pronto. Il rovesciamento
cantato da Maria è dello stesso tipo – dicevo – di quello proclamato da Gesù con le beatitudini e con la parabola
del ricco epulone.
Maria parla di ricchezza e povertà a partire da Dio; ancora una volta, parla “coram Deo”, prende come misura
Dio, non l’uomo. Stabilisce il criterio “definitivo”, escatologico. Dire dunque che si tratta di un rovesciamento
avvenuto “nella fede”, non significa dire che esso è meno reale e radicale, meno serio, ma che lo è infinitamente
di più. Questo non è un disegno creato dall’onda sulla sabbia del mare che l’onda successiva cancella. Si tratta
di una ricchezza eterna e di una povertà ugualmente eterna.

Il Magnificat sulla bocca della Chiesa


Sant’Ireneo, commentando l’Annunciazione, dice che “Maria, piena di esultanza, gridò profeticamente in nome
della Chiesa: “L’anima mia magnifica il Signore” . Maria è come la voce solista che intona per prima un’aria
che deve essere poi ripetuta dal coro. È questa una pacifica convinzione della Tradizione. Anche Origene la fa
sua: “È per costoro (cioè per quelli che credono) che Maria magnifica il Signore”15. Anche lui parla di una
“profezia di Maria”, a proposito del Magnificat16. Questo vuol dire l’espressione “Maria figura della Chiesa”
(typus Ecclesiae), usata dai Padri e accolta dal concilio Vaticano II (cf LG 63). Dire che Maria è “figura della
Chiesa” significa dire che ne è la personificazione, la rappresentazione in forma sensibile di una realtà
spirituale; significa dire che è modello della Chiesa. Ella è figura della Chiesa anche nel senso che nella sua
persona si realizza, fin dall’inizio e in maniera perfetta, l’idea di Chiesa; che ella ne costituisce, sotto il capo che
è Cristo, il membro principale, e la primizia.
Ma cosa vuol dire qui “Chiesa” e al posto di quale Chiesa Ireneo dice che Maria intona il Magnificat? Non al
posto della Chiesa nominale, ma della Chiesa reale, cioè non della Chiesa in astratto, ma della Chiesa concreta,
delle persone e delle anime che compongono la Chiesa. Il Magnificat non è solo da recitare, ma da vivere, da far
proprio da ciascuno di noi; è il “nostro” cantico. Quando diciamo: “L’anima mia magnifica il Signore”, quel
“mia” è da prendere in senso diretto, non riportato.
Sia in ciascuno – scrive sant’Ambrogio – l’anima di Maria per magnificare il Signore, sia in ciascuno lo spirito
di Maria per esultare in Dio [...]. Se infatti secondo la carne una sola è la madre di Cristo, secondo la fede tutte
le anime generano Cristo; ognuna infatti accoglie in sé il Verbo di Dio .
Alla luce di questi princìpi, proviamo ora ad applicare a noi – alla Chiesa e all’anima – il cantico di Maria, e
vedere cosa dobbiamo fare per “somigliare” a Maria non solo nelle parole, ma anche nei fatti.

Una scuola di conversione evangelica


Là dove Maria proclama il rovesciamento dei potenti e dei superbi, il Magnificat ricorda alla Chiesa qual è
l’annuncio essenziale che deve proclamare al mondo. Le insegna a essere anch’essa “profetica”. La Chiesa vive
e attua il cantico della Vergine quando ripete con Maria: “Ha rovesciato i potenti, ha rimandato i ricchi a mani
vuote!”, e lo ripete con fede, distinguendo questo annuncio da tutti gli altri pronunciamenti che pure ha diritto di
fare, in materia di giustizia, di pace, di ordine sociale, in quanto interprete qualificata della legge naturale e
custode del comandamento di Cristo dell’amore fraterno.
Se le due prospettive sono distinte, non sono però separate e senza alcun influsso reciproco. Al contrario,
l’annuncio di fede di ciò che Dio ha fatto nella storia della salvezza (che è la prospettiva in cui si colloca il
Magnificat) diventa la migliore indicazione di ciò che l’uomo deve fare, a sua volta, nella propria storia umana
e, anzi, di ciò che la Chiesa stessa ha il compito di fare, in forza della carità che deve avere anche per il ricco, in
vista della sua salvezza. Più che “un incitamento a rovesciare i potenti dai troni per innalzare gli umili”, il
Magnificat è un salutare ammonimento rivolto ai ricchi e ai potenti circa il tremendo pericolo che corrono,
esattamente come sarà, nelle intenzioni di Gesù, la parabola del ricco epulone.
Quello del Magnificat non è dunque l’unico modo di affrontare il problema, oggi così sentito, di ricchezza e
povertà, fame e sazietà; ce ne sono altri anch’essi legittimi che partono dalla storia, e non dalla fede, e ai quali
giustamente i cristiani danno il loro appoggio e la Chiesa il suo discernimento. Ma questo modo evangelico è
quello che la Chiesa deve proclamare sempre e a tutti come suo mandato specifico e con il quale deve sostenere
lo sforzo comune di tutti gli uomini di buona volontà. Esso è universalmente valido e sempre attuale. Se per
ipotesi (ahimè, remota!) ci fossero un tempo e un luogo in cui non ci fossero più ingiustizie e disuguaglianze
sociali tra gli uomini, ma tutti fossero ricchi e sazi, non per questo la Chiesa dovrebbe cessare di proclamare lì,
con Maria, che Dio rimanda i ricchi a mani vuote. Anzi, lì dovrebbe proclamarlo con ancora maggiore forza. Il
Magnificat è attuale nei paesi ricchi, non meno che nei paesi del terzo mondo.
Ci sono piani e aspetti della realtà che non si colgono a occhio nudo, ma solo con l’ausilio di una luce speciale:
o con i raggi infrarossi, o con i raggi ultravioletti. L’immagine ottenuta con questa luce speciale è molto diversa
e sorprendente per chi è abituato a vedere quello stesso panorama alla luce naturale. La Chiesa possiede, grazie
alla parola di Dio, un’immagine diversa della realtà del mondo, l’unica definitiva, perché ottenuta con la luce di
Dio e perché è quella stessa che ha Dio. Essa non può occultare tale immagine. Deve anzi diffonderla, senza
mai stancarsi, renderla nota agli uomini, perché ne va del loro destino eterno. È l’immagine che alla fine resterà
quando sarà passato “lo schema di questo mondo”. Renderla nota, a volte, con parole semplici, dirette e
profetiche, come quelle di Maria, come si dicono le cose di cui si è intimamente e tranquillamente persuasi. E
questo anche a costo di sembrare ingenua e fuori dal mondo, di fronte all’opinione dominante e allo spirito del
tempo.
L’Apocalisse ci dà un esempio di questo linguaggio profetico, diretto e coraggioso, in cui, all’opinione umana,
viene contrapposta la verità divina: “Tu dici [e questo “tu” può essere la singola persona, come può essere
un’intera società]: “Sono ricco, mi sono arricchito; non ho bisogno di nulla!”, ma non sai di essere un infelice,
un miserabile, un povero, cieco e nudo” (Ap 3, 17).
In una celebre favola di Andersen, si parla di un re a cui è stato fatto credere, da lestofanti, che esiste una stoffa
meravigliosa che ha la prerogativa di essere invisibile agli sciocchi e inetti e visibile solo ai savi. Egli, per
primo, naturalmente, non la vede, ma ha paura di dirlo, per tema di passare per uno degli sciocchi, e così fan
tutti i suoi ministri e tutto il popolo. Il re sfila per le strade senza nulla addosso, ma tutti, per non tradirsi,
fingono di ammirare il bellissimo vestito, finché si ode la vocina di un bambino che grida tra la folla: “Ma il re è
nudo!”, rompendo l’incantesimo, e tutti finalmente hanno il coraggio di ammettere che quel famoso vestito non
esiste.
La Chiesa deve essere come la vocina di quel bambino, la quale, a un certo mondo tutto infatuato delle proprie
ricchezze e che induce a ritenere pazzo e sciocco chi mostra di non credere in esse, ripete, con le parole
dell’Apocalisse: “Tu non sai di essere nudo!”. Qui si vede come davvero Maria, nel Magnificat, “parla
profeticamente per la Chiesa”: ella, per prima, partendo da Dio, ha messo a nudo la grande povertà della
ricchezza di questo mondo. Il Magnificat, da solo, giustifica il titolo di “Stella dell’evangelizzazione” che san
Paolo VI ha attribuito a Maria nella sua “Evangelii nuntiandi”.

Il Magnificat, richiamo alla conversione


Sarebbe fraintendere completamente questa parte del Magnificat che parla dei superbi e degli umili, dei ricchi e
degli affamati, se la confinassimo solo nell’ambito delle cose che la Chiesa e il credente devono predicare al
mondo. Qui non si tratta di qualcosa che si deve solo predicare, ma di qualcosa che si deve anzitutto praticare.
Maria può proclamare la beatitudine degli umili e dei poveri perché è lei stessa tra gli umili e i poveri. Il
rovesciamento da lei prospettato deve avvenire anzitutto nell’intimo di chi ripete il Magnificat e prega con esso.
Dio – dice Maria – ha rovesciato i superbi “nei pensieri del loro cuore”.
Di colpo, il discorso è portato da fuori a dentro, dalle discussioni teologiche, in cui tutti hanno ragione, ai
pensieri del cuore, in cui tutti abbiamo torto. L’uomo che vive “per se stesso”, il cui Dio non è il Signore, ma il
proprio “io”, è un uomo che si è costruito un trono e vi siede sopra dettando legge agli altri. Ora Dio – dice
Maria – rovescia questi tali dal loro trono; mette a nudo la loro non-verità e ingiustizia. C’è un mondo interiore,
fatto di pensieri, volontà, desideri e passioni, dal quale – dice san Giacomo – provengono le guerre e le liti, le
ingiustizie e i soprusi che sono in mezzo a noi (cf Gc 4, 1) e finché nessuno comincia con il risanare questa
radice, nulla cambia veramente nel mondo e se qualcosa cambia è per riprodurre, di lì a poco, la stessa
situazione di prima.
Come ci raggiunge da vicino il cantico di Maria, come ci scruta a fondo e come mette davvero “la scure alla
radice”! Che stoltezza e incoerenza sarebbe mai la mia, se ogni giorno, ai Vespri, ripetessi, con Maria, che Dio
“ha rovesciato i potenti dai troni” e intanto continuassi a bramare il potere, un posto più alto, una promozione
umana, un avanzamento di carriera e perdessi la pace se esso tarda ad arrivare; se ogni giorno proclamassi, con
Maria, che Dio “ha rimandato i ricchi a mani vuote” e intanto bramassi senza posa di arricchire e di possedere
sempre più cose e cose sempre più raffinate; se preferissi essere a mani vuote davanti a Dio, anziché a mani
vuote davanti al mondo, vuote dei beni di Dio, piuttosto che vuote dei beni di questo mondo. Che stoltezza
sarebbe la mia se continuassi a ripetere, con Maria, che Dio “guarda verso gli umili”, che si accosta a loro,
mentre tiene a distanza i superbi e i ricchi di tutto, e poi fossi di quelli che fanno esattamente il contrario.
Tutti i giorni – ha scritto Lutero commentando il Magnificat – dobbiamo constatare che ognuno si sforza di
elevarsi al di sopra di sé, a una posizione d’onore, di potenza, di ricchezza, di dominio, a una vita agiata e a
tutto ciò che è grande e superbo. E ognuno vuole stare con tali persone, corre loro dietro, le serve volentieri,
ognuno vuol partecipare alla loro grandezza [...]. Nessuno vuole guardare in basso, dove c’è povertà, vituperio,
bisogno, afflizione e angoscia, anzi tutti distolgono lo sguardo da una tale condizione. Ognuno sfugge le
persone così provate, le scansa, le lascia sole, nessuno pensa di aiutarle, di assisterle e di far sì che esse pure
divengano qualche cosa: devono rimanere in basso ed essere disprezzate .
Dio – ci ricorda Maria – fa l’opposto di questo: tiene a distanza i superbi e innalza fino a sé gli umili e i piccoli;
sta più volentieri con i bisognosi e gli affamati che lo tempestano di suppliche e di richieste, che non con i ricchi
e i sazi che non hanno bisogno di lui e non gli chiedono nulla. Così facendo, Maria ci esorta, con dolcezza
materna, a imitare Dio, a far nostra la sua scelta. Ci insegna le vie di Dio. Il Magnificat è davvero una
meravigliosa scuola di sapienza evangelica. Una scuola di conversione continua.
Come tutta la Scrittura, esso è uno specchio (cf Gc 1, 23) e sappiamo che dello specchio si possono fare due usi
molto diversi. Lo si può usare rivolto verso l’esterno, verso gli altri, come specchio ustorio, proiettando la luce
del sole verso un punto lontano fino a incendiarlo, come fece Archimede con le navi romane, oppure lo si può
usare tenendolo rivolto verso di sé, per vedere in esso il proprio volto e correggerne i difetti e le brutture. San
Giacomo ci esorta a usarlo soprattutto in questo secondo modo, per mettere “a fuoco” noi stessi, prima che gli
altri.
“La Scrittura – diceva san Gregorio Magno – cresce a forza di essere letta” . Lo stesso avviene del Magnificat,
le sue parole sono arricchite, non consunte, dall’uso. Prima di noi schiere di santi o di semplici credenti hanno
pregato con queste parole, ne hanno assaporato la verità, messo in pratica il contenuto. Per la comunione dei
santi nel corpo mistico, tutto questo immenso patrimonio aderisce ora al Magnificat. È bene pregarlo così, in
coro, con tutti gli oranti della Chiesa. Dio lo ascolta così.
Per entrare in questo coro che attraversa i secoli, basta che noi intendiamo ripresentare a Dio i sentimenti e il
trasporto di Maria che per prima lo intonò “in nome della Chiesa”, dei dottori che lo commentarono, degli artisti
che lo musicarono con fede, dei pii e degli umili di cuore che lo vissero. Grazie a questo meraviglioso cantico,
Maria continua a magnificare il Signore per tutte le generazioni; la sua voce, come quella di una corifea,
sostiene e trascina quella della Chiesa.
Un orante del salterio invita tutti a unirsi a lui, dicendo: “Magnificate il Signore con me” (Sal 34, 4). Maria
ripete ai suoi figli le stesse parole. Se posso osare interpretare il suo pensiero, il Santo Padre, nel giorno del suo
Giubileo sacerdotale, rivolge a tutti noi lo stesso invito: “Magnificate il Signore con me”. E noi, Santità,
promettiamo di farlo.

1 H. Schürmann, Il Vangelo di Luca, I, Paideia, Brescia 1983, p. 251.


2. Cf S. Agostino, Confessioni, VII, 16; XI, 9.
3.S. Bonaventura, Lignum vitae, I, 3.
4.H. Schürmann, Il Vangelo di Luca, cit., p. 172.
5.S. Ireneo, Contro le eresie, III, 10, 2 (SCh 211, p. 118).
6.S. Ambrogio, Commento al Vangelo di Luca, II, 26 (CC 14, p. 42).
7.Ed. Weimar, 7, p. 547.
8.S. Gregorio Magno, Moralia, 20, 1 (PL 76, 135).

Che c’e tra me e te, o donna? La kenosi de la madre di Dio.

Nelle meditazioni di questa Quaresima, proseguiamo il cammino sulle orme della Madre di Dio iniziato nello
scorso Avvento. Sarà un modo anche questo per metterci sotto la protezione della Vergine in un momento di
così dura prova per l’intera umanità.
Dobbiamo riconoscere che di Maria non si parla moltissimo nel Nuovo Testamento, almeno non così spesso
quanto ci aspetteremmo, tenendo conto dello sviluppo che ha avuto nella Chiesa la devozione alla Madre di
Dio. Tuttavia, se facciamo bene attenzione, ci accorgiamo di una cosa: che Maria non è as¬sente in nessuno dei
tre momenti costitutivi del mistero della salvezza. Esistono infatti tre momenti ben precisi che, insieme,
formano il grande mistero della Redenzione. Essi sono: l’Incar¬nazione del Verbo, il Mistero pasquale e la
Pentecoste.
Ora, riflettendo, ci accorgiamo – dicevo – che Maria non è assente in nessuno di questi tre momenti
fondamentali. Ella non è certo assente nell’Incarnazione come abbiamo visto nelle meditazioni dell’Avvento.
Non è assente dal Mistero pasquale, perché è scritto che «presso la croce di Gesù stava sua madre » (cf Gv 19,
25). Non è assente infine dalla Pentecoste, perché è scritto che lo Spirito Santo venne sugli apostoli mentre «
erano assidui e concordi nella preghiera con Maria, la madre di Gesù » (cf At 1, 14). Queste tre presenze di
Maria nei momenti-chiave della nostra salvezza non possono essere un caso. Esse le assicurano un po¬sto unico
accanto a Gesù, nell’opera della redenzione. Maria è stata la sola fra tutte le creature a essere testimone e
partecipe di tutti e tre questi avvenimenti.
Seguiamo dunque Maria nel Mistero pasquale, lasciandoci guidare da lei alla comprensione profonda della
Pasqua e alla partecipazione alle sofferenze di Cristo. Maria ci prende per mano e ci incoraggia a seguirla su
questa strada, dicendoci come una madre ai propri figli riuniti: “Andiamo anche noi a morire con lui!” (Gv 11,
16). Nel Vangelo, è l’apostolo Tommaso che pronuncia queste parole, ma è Maria che le mette in pratica.

Imparò l’obbedienza dalle cose che patì


Il Mistero pasquale non comincia, nella vita di Gesù, con la cattura nell’orto e non dura solo la settimana santa.
Tutta la sua vita, da quando Giovanni Battista lo salutò come l’Agnello di Dio, è una preparazione alla sua
Pasqua. Secondo il Vangelo di Luca, la vita pubblica di Gesù fu tutta una lenta e inarrestabile «salita verso
Gerusalemme», dove avrebbe consumato il suo esodo (cf Lc 9, 31).
Parallelo a questo cammino del nuovo Adamo obbediente, si svolge il cammino della nuova Eva. Anche per
Maria il Mistero pasquale cominciò assai per tempo. Già le parole di Simeone sul segno di contraddizione e
sulla spada che le avrebbe trapas¬sato l’anima contenevano un presagio che Maria conservava nel suo cuore,
insieme con tutte le altre parole. Lo scopo di questa meditazione è proprio quello di seguire Ma¬ria durante la
vita pubblica di Gesù e vedere di che cosa ella è figura e modello in questo tempo.
Che cosa avviene di solito in un cammino di santità dopo che un’anima è stata ricolmata di grazia, dopo che ha
risposto generosamente con il suo «sì» di fede e si è messa volentero-samente a compiere opere buone e a
coltivare le virtù? Viene il tempo della purificazione e della spoliazione. Viene la notte della fede. E vedremo
infatti che Maria, in questo periodo della sua vita, ci è di guida e di modello proprio in questo: di come
comportarci quando viene nella vita «il tempo della potatura».
San Giovanni Paolo II, nella sua enciclica « Redemptoris Mater», applica giustamente alla vita della Madonna
la grande categoria della kenosi, con cui san Paolo ha spiegato la vicenda terrena di Gesù: “Cristo Gesù, pur
essendo di natura divi¬na non considerò un tesoro geloso, la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò (ekénosen) se
stesso” (Fil 2, 6-7). « Mediante la fede – scrive il Papa – Maria è perfettamente unita a Cristo nella sua
spoliazione… Ai piedi della croce Maria partecipa mediante la fede allo sconvolgente mistero di questa
spoliazione» , Questa spoliazione si consumò sotto la croce, ma cominciò ben prima. Anche a Nazareth e
soprattutto durante la vita pubblica di Gesù, ella avanzava nella peregrinazione della fede. Non è difficile
no¬tare già allora « una particolare fatica del cuore, unita a una sor¬ta di notte della fede» .
Tutto questo rende la vicenda di Maria straordinariamente significativa per noi; restituisce Maria alla Chiesa e
all’umanità. Dobbiamo prendere atto con gioia di un grande progresso che si è realizzato nella devozione alla
Madonna, nella Chiesa catto¬lica, e di cui chi ha vissuto a cavallo del Concilio Vaticano II può rendersi
facilmente conto. Prima, la categoria fondamentale con la quale si spiegava la grandezza della Madonna era
quella del «privilegio» o dell’esenzione.
Si pensava che Maria fosse stata esentata non solo dal peccato originale e dalla corruzione (che sono privilegi
definiti dalla Chiesa con i dogmi dell’Imma¬colata e dell’Assunzione), ma su questa linea, si andava tanto oltre
da pensare che Maria fosse stata esentata dai dolori del parto, dalla fatica, dal dubbio, dalla tentazione,
dall’ignoranza e infine la cosa più grave, anche dalla morte. Per alcuni infatti Maria sarebbe stata assunta in
cielo senza aver dovuto passare per la morte.
Queste cose – si pensava – sono conseguenze del peccato, ma Maria non aveva peccato. Non ci si rendeva conto
che, in questo modo, anziché « associare » Maria a Gesù, la si dissociava completamente da lui, che, pur
essendo senza peccato, volle sperimentare a nostro vantaggio tutte queste cose e cioè: fatica, dolore, angoscia,
tentazioni e morte.
Ora la categoria fondamentale con la quale, dietro il Concilio Vaticano II, cerchiamo di spiegarci la santità
unica di Maria non è più tanto quella del privilegio, quanto quella della fede. Maria ha camminato, anzi ha
«progredito» nella fede . Questo non diminuisce, ma accresce a dismisura la grandezza di Maria. La grandezza
spirituale di una creatura davanti a Dio, in questa vi¬ta, non si misura infatti tanto da ciò che Dio le dà, quanto
da ciò che Dio le chiede. E vedremo che a Maria Dio ha chiesto tanto, più che a ogni altra creatura, più che allo
stesso Abramo.
Maria nella vita pubblica di Gesù

Vi sono, nei Vangeli, menzioni della Madonna che in passato, nel clima dominato dall’idea di privilegio,
creavano un certo di¬sagio tra i credenti e che ora invece ci appaiono pietre miliari in questo cammino di fede
di Maria. Non abbiamo perciò alcun motivo di accantonarle in fretta o smussarle con spiegazioni di comodo.
Passiamo brevemente in rassegna questi testi.
Partiamo dall’episodio dello smarrimento di Gesù nel tempio (cf Lc 2, 41 ss). Questo fu l’i¬nizio del mistero
pasquale di spoliazione per la Madre. Cosa si sentì dire infatti, dopo averlo ritrovato? “Perché mi cercavate?
Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?” “Perché mi cercavate?” Queste parole
mettevano tra Gesù e lei una volontà diversa, infinitamente più importante, che faceva passare in secondo
ordine ogni altro rapporto, anche il rapporto filiale con lei.
Ma andiamo avanti. Troviamo una menzione di Maria a Cana di Galilea, giusto nel momento in cui Gesù sta
iniziando il suo ministero pubblico. Sappiamo i fatti. Cosa si sentì rispondere Maria da Gesù, alla sua discreta
richiesta di intervento? “Che c’e tra me e te, o donna?” (Gv 2, 4). Comunque si vogliano spiegare queste parole,
esse hanno un suono duro, mortificante; sem-brano di nuovo porre una distanza tra Gesù e sua Madre.
Tutti e tre i Sinottici ci riferiscono questo altro episodio av¬venuto durante la vita pubblica di Gesù. Un giorno,
mentre Gesù era intento a predicare, giunsero sua Madre e alcuni pa¬renti per parlargli. Forse la Madre si
preoccupava, com’è natura¬lissimo in una mamma, della sua salute, perché poco prima è scritto che Gesù non
poteva neppure prendere cibo a causa della folla (cf Mc 3, 20). Notiamo un dettaglio. Maria, la Madre, deve
mendicare perfino il diritto di poter vedere il Figlio e par¬largli. Ella non si fa largo tra la folla, facendo valere
il fatto che era la madre. Restò invece fuori in attesa e altri andarono da Gesù a riferirgli: « Fuori c’è tua madre
che ti vuole parlare ». Ma la cosa importante anche qui è la parola di Gesù che è ancora e sempre nella stessa
linea: “Chi è mia madre e chi sono i miei fra¬telli?” (Mc 3, 33).
Conosciamo già il seguito della risposta. Proviamo a metterci al posto di Maria e intuiremo l’umiliazione e la
sofferenza che c’erano per lei in quelle parole. Noi sappiamo oggi che in quelle parole è contenuto un elogio, e
non un rim¬provero, per la madre; ma ella non lo sapeva, almeno in quel momento. In quel momento, c’era solo
l’amarezza di un rifiuto. Non si dice che Gesù uscisse fuori poi a parlarle; probabilmen¬te Maria dovette
allontanarsi, senza aver potuto vedere il figlio e parlargli.
Un altro giorno – narra san Luca – una donna, tra la folla, uscì in un’esclamazione di entusiasmo verso Gesù:
“Beato il ventre che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte!” Era uno di quei complimenti che bastano da
soli a far felice una mamma; ma Maria, se era presente o se venne a saperlo, non poté soffermarsi a lungo su
questa parola e goderne, perché Gesù si affrettò subito a correggere: “Beati piuttosto coloro che ascoltano la
parola di Dio e la osservano” (Lc 11, 27-28).
Un ultimo dettaglio in questa linea. San Luca parla, in un cer¬to punto del suo Vangelo, del « seguito femminile
di Gesù », cioè di un certo numero di pie donne – di cui dà anche il nome – che erano state beneficate da lui e
che lo « assistevano con i loro beni» (cf Lc 8, 2-3), cioè accudivano ai bisogni materiali suoi e degli apostoli,
come preparare un pasto, lavare o ram-mendáre un vestito. Dov’è qui la cosa che riguarda Maria? È che tra
queste donne non figura la madre e tutti sanno quanto una madre desidererebbe essere lei a prendersi cura
di,questi piccoli servizi del figlio, specie se consacrato al Signore. E il sa¬crificio totale del cuore.
Cosa significa tutto questo? Una serie di fatti e parole così precisi e coerenti non può essere un caso. Maria ha
dovuto pas¬sare anche lei attraverso la sua kenosi. La kenosi di Gesù consi¬stette nel fatto che, anziché far
valere i suoi diritti e le sue pre¬rogative divine, se ne spogliò, assumendo lo stato di servo e apparendo
all’esterno un uomo come gli altri. La kenosi di Maria consistette nel fatto che, anziché far valere i suoi diritti
come madre del Messia, se ne lasciò spogliare, apparendo dinanzi a tutti una donna come le altre.
La maternità divina di Maria era anche, e prima di tutto, una maternità umana; aveva un aspetto anche « carnale
», nel senso positivo di questo termine. Quel Figlio era suo figlio “carnale”, era l’unica sua ricchezza, l’unico
suo appoggio nella vita. Ma ella dovette rinunciare a tutto ciò che c’era di umanamente esaltante nella sua
vocazione. Fu messa dal Figlio stesso in condizione da non poter trarre dalla sua ma¬ternità alcun vantaggio
terreno. Seguiva Gesù « come se non fosse » la madre. Una volta iniziato il suo mini¬stero e lasciata Nazareth,
Gesù non ebbe dove posare il capo. E Maria non ebbe dove posare il cuore!
Alla sua povertà materiale, che era già tanto grande, Maria aggiunse anche la povertà spirituale, nel suo grado
più alto. Tale povertà di spirito consiste nel lasciarsi spogliare di tutti i privile¬gi, nel non poter far leva su
niente, né del passato né del futuro: né di rivelazioni, né di promesse, come se non le appartenessero e non
avessero mai avuto luogo. Si tratta di una specie di « notte oscura della memoria ». Essa consiste nel
dimenticarsi – o meglio, nel non potersi ricordare, neppure vo¬lendolo – del passato, ed essere protesi
unicamente verso Dio, vivendo in pura speranza. È la vera e radicale povertà di spirito che è ricca solo di Dio e,
anche questo, solo in speranza.
Gesù si è comportato con la Madre come un direttore spiri¬tuale lucido ed esigente che, avendo intravisto
un’anima d’ecce¬zione, non le fa perdere tempo, non la fa indugiare in basso, tra sentimenti e consolazioni
naturali; ma la spinge in una corsa senza tregua verso la totale spoliazione, in vista dell’unione con Dio. Ha
insegnato a Maria il rinnegamento di sé. Gesù dirige tutti i suoi seguaci di tutti i secoli, con il suo Vangelo, ma
la Madre la diresse a viva voce, di persona.
Egli con una mano si lasciava condurre dal Padre, mediante lo Spiri¬to, dove voleva: nel deserto per essere
tentato, sul monte per essere trasfigurato, nel Getsemani per sudare sangue. “Io faccio sempre – diceva – le cose
che gli sono gradite” (Gv 8, 29). Con l’al¬tra mano, Gesù conduce la Madre nella stessa corsa a fare la volontà
del Padre.

Maria discepola di Cristo

Come reagì Maria a questa condotta di Dio stesso nei suoi riguardi? Proviamo a rileggere i testi ricor¬dati.
Costateremo una cosa: mai il benché minimo accenno di contrasto di volon¬tà, di replica o di auto-
giustificazione da parte di Maria; mai un tentativo di far cambiare decisione a Gesù! Docilità assoluta.
Qui appare la santità personale unica della Madre di Dio, la meraviglia più alta della grazia. Basta, per
rendersene conto, fare qualche confronto. Per esempio, con san Pietro. Quando Gesù fece capire a Pietro che a
Gerusalemme l’aspettavano ri¬fiuto, passione e morte, egli «protestò» e disse: No, Signore, questo non può
accadere, non deve accadere! (cf Mt 16, 22). Si preoccupava per Gesù, ma anche per sé. Maria no.
Maria taceva. La sua risposta a tutto era il silenzio. Non un silenzio di ripiegamento e di tristezza. Quello di
Maria fu un silenzio buono. Si vede a Cana di Galilea, dove, anziché mostrarsi offesa, capisce, nella fede, e
forse dallo sguardo di Gesù, che può farlo e dice dunque ai servi: “Fate quello che vi dirà” (Gv 2, 5). Anche
quando – dopo quella dura parola di Gesù ri¬trovato nel tempio – si dice che Maria non capiva, è scritto che ella
taceva e “serbava tutte queste cose nel suo cuor” (Lc 2, 51).
Il fatto che tace non significa che per Maria è tutto facile, che non deve superare lotte, fatiche e tenebre. Ella fu
esente dal peccato, non dalla lotta e da quella che san Giovanni Paolo II chiama la «fatica del credere». Se, nel
Getsemani, Gesù dovette lottare e sudare sangue, per portare la sua volontà umana al punto di aderire
pienamente alla volontà del Padre, è forse sorprendente che abbia dovuto « agonizzare » anche la Madre? Una
cosa tuttavia è certa: Maria non avrebbe voluto, per nulla al mondo, tornare indietro. Quando si chiede a certe
ani-me, condotte da Dio per vie simili, se vogliono che si preghi perché tutto finisca e torni ad essere come un
tempo, anche se sconvolte e a volte sull’orlo dell’apparente disperazione, subi¬to si affrettano a rispondere: no!
”Dopo aver contemplato, in Avvento, la Madre di Cristo, contempliamo dunque, ora, la discepola di Cristo. A
proposito della parola di Gesù: “Chi è mia madre?…Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella
e ma¬dre” (Mc 3, 33-35), sant’Agostino commenta:
Non fece forse la volontà del Padre la Vergine Maria, la quale per la fede credet¬te, per la fede concepì, fu
scelta perché da lei la salvezza nasces¬se per noi tra gli uomini, e fu creata da Cristo prima che Cristo fosse
creato nel suo seno? Santa Maria fece la volontà del Pa¬dre e la fece interamente; e perciò vale di più per Maria
essere stata discepola di Cristo, anziché Madre di Cristo. Vale di più, è una prerogativa più felice, essere stata
discepola anziché Madre di Cristo. Maria era felice, poiché, prima di dare alla luce il Fi-glio, portò nel ventre il
Maestro… E per questo dunque che an¬che Maria fu beata, poiché ascoltò la Parola di Dio e la mise in pratica .
Corporalmente, Maria è dunque soltanto madre di Cristo, ma spiritualmente gli è sorella e madre » .
Dobbiamo allora pensare che la vita di Maria fu una vita fat¬ta di continua afflizione, una vita tetra? Al
contrario. Giudican¬do, per analogia, da ciò che avviene nei santi, dobbiamo dire che in questo cammino di
spoliazione Maria scopriva di giorno in giorno una gioia di tipo nuovo, rispetto alle gioie materne di Betlemme
o di Nazareth, quando si stringeva Gesù al seno e Gesù si stringeva al suo collo. Gioia di non fare la propria
volontà. Gioia di credere. Gioia di dare a Dio la cosa per lui più prezio¬sa, dal momento che, anche nei
confronti di Dio, c’è più gioia nel dare che nel ricevere. Gioia di scoprire un Dio, le cui vie so¬no inaccessibili e
i cui pensieri non sono i nostri pensieri, ma che proprio in questo si dà a conoscere per quello che è: Dio tre
volte Santo.
Una grande mistica, santa Angela da Foligno, che aveva fatto esperienze analoghe, par¬la di una gioia speciale,
al limite delle possibilità umane di com¬prensione, che chiama la «gioia dell’incomprensibilità» (gau¬dium
incomprebensibilitatis). Essa consiste nel capire che non si può capire, ma che un Dio capito non sarebbe più
Dio. Questa incomprensibilità, anziché tristezza, genera gioia, perché fa ve¬dere che Dio è ancora più ricco e
più grande di quanto tu riesca a comprendere e che è il « tuo » Dio! Questa è la gioia che i Santi hanno in cielo e
che la Santa Vergine, dice santa Angela, ebbe, in certi momenti, fin da questa vita .
Dalla nostra meditazione su Maria nella vita pubblica di Gesú riportiamo una consolante certezza: Non abbiamo
una Madre che non sappia compatire le nostre infermità, essendo stata provata, lei stessa, in ogni cosa, a
somiglianza nostra, eccetto il peccato. Ora che è glorificata in cielo ac¬canto al Figlio, Maria può stendere a noi
la sua mano materna e condurre anche noi dietro di sé, dicendo, ben più a ragione dell’Apostolo: “Fatevi miei
imitatori, come io lo sono di Cristo” (1 Cor 11, 1). Rivolgiamoci dunque a lei in questo tempo di grande prova,
con l’antica e bella preghiera del Sub tuum praesidium:
Sotto la tua protezione
cerchiamo rifugio,
santa Madre di Dio:
non disprezzare le suppliche
di noi che siamo nella prova,
ma liberaci da ogni pericolo,
o Vergine gloriosa e benedetta.
1.S. Giovanni Paolo II, Enc. Redemptoris Mater, 18
2.Ib. nr. 17.
3.Lumen gentium, 58.
4.S. Agostino, Discorsi, 72 A, 7
5.S. Agostino, La santa verginità, 5-6 (PL 40, 399).

Presso la croce di Gesù stava Maria sua madre.

Maria sul Calvario


La parola di Dio che ci accompagna nella presente meditazione è quella che si legge nel vangelo di Giovanni:
Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Cleofa e Maria di Magdala. Gesù
allora, vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: « Donna, ecco il tuo
figlio! ». Poi disse al discepolo: «Ecco la tua madre!». E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa
(Gv 19, 25-27).
Di questo testo, così denso, consideriamo in questa meditazione solo la prima parte, quella narrativa, lasciando
alla prossima volta il resto del brano evangelico che contiene il detto di Gesù.
Se sul Calvario, presso la croce di Gesù, c’era Maria sua Madre, vuol dire che ella era a Gerusalemme in quei
giorni e, se era a Gerusalemme, allora ha visto tutto, ha assistito a tutto. Ha assi¬stito alle grida: « Barabba, non
costui! »; ha assistito all’Ecce ho¬mo, ha visto la carne della sua carne flagellata, sanguinante, co¬ronata di
spine, seminuda davanti alla folla, sussultare, scossa da brividi di morte, sulla croce. Ha udito il rumore dei
colpi di martello e gli insulti: « Se sei il Figlio di Dio… ». Ha visto i solda¬ti dividersi le sue vesti e la tunica
che lei stessa aveva forse ¬tessuto.
« Stavano – si legge – presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Cleofa e Maria di
Magdala ». Maria non era dunque sola; era una delle donne. Sì, ma lei era lì come « sua madre » e questo pone
Maria in una situazione del tutto diversa dalle altre. Ripenso al funerale di un ragazzo di 18 anni. Seguivano il
feretro varie donne. Tutte erano vestite di nero, tutte piangevano. Sembravano tutte uguali. Ma tra esse ce n’era
una diversa, una alla quale tutti i presenti pensavano, che tutti, senza voltarsi, guardavano di soppiatto: la madre.
Era vedova e aveva quel figlio solo. Lei guardava la bara, si vedeva che le sue labbra ripetevano senza posa il
nome del figlio. Quando i fedeli, al momento del Sanctus, si misero a proclama¬re: « Santo, Santo, Santo, è il
Signore Dio dell’universo », anche lei, senza rendersene forse nemmeno conto, si mise a mormora¬re: Santo,
Santo, Santo… In quel momento ho pensato a Maria ai piedi della croce.
Ma a lei fu chiesto qualcosa di molto più difficile: perdonare. Quando sentì il Figlio che diceva: “Padre,
perdonali, perché non sanno quello che fanno” (Lc 23, 34), ella ca¬pì cosa il Padre celeste si aspettava da lei:
che dicesse con il cuore le stesse parole: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno ». E lei le disse.
Perdonò.
Se Maria poté essere tentata, come lo fu anche Gesù nel de¬serto, questo avvenne soprattutto sotto la croce. E
fu una ten¬tazione profondissima e dolorosissima, perché aveva per motivo proprio Gesù. Lei credeva alle
promesse, credeva che Gesù era il Messia, il Figlio di Dio; sapeva che, se Gesù avesse pregato, il Padre gli
avrebbe mandato « più di dodici legioni di angeli » (cf Mt 26, 53). Ma vede che Gesù non fa nulla. Liberando se
stes¬so dalla croce, libererebbe anche lei dal suo tremendo dolore, ma non lo fa. Maria però non grida: « Scendi
dalla croce; salva te stesso e me! », o: « Hai salvato tanti altri, perché non salvi ora anche te stesso, figlio mio?
», anche se è facile intuire quanto un simile pensiero e desiderio dovesse affacciarsi spontaneamente al cuore di
una madre. Maria tace.
Umanamente parlando, ci sarebbero stati tutti i motivi, per Maria, di gridare a Dio: « Mi hai ingannata! », o,
come gridò un giorno il profeta Geremia: «Mi hai sedotta e io mi sono lasciata sedurre! » (cf Ger 19, 7), e
scappare giù per il Calvario. Invece ella non scappò, ma rimase « in piedi », in silenzio, e così facen¬do è
divenuta, in modo tutto speciale, martire della fede, testi-mone suprema della fiducia in Dio, dietro il Figlio.
Questa visione di Maria che si unisce al sacrificio del Figlio ha trovato un’espressione sobria e solenne in un
testo del Con¬cilio Vaticano II:
Anche la Beata Vergine ha avanzato nel cammino della fede e ha conservato fedelmente la sua unione con il
Figlio sino alla croce, dove, non senza un disegno divino, se ne stette ritta, soffrì profondamente col suo Figlio
unigenito e si associò con animo materno al sacrificio di lui, amorosamen¬te consenziente all’immolazione
della vittima da lei stessa gene¬rata .
Maria non stava dunque « presso la croce di Gesù », vicino a lui, solo in senso fisico e geografico, ma anche in
senso spiritua¬le. Era unita alla croce di Gesù; era dentro la stessa sofferenza. Soffriva nel suo cuore quello che
il Figlio soffriva nella sua carne. E chi potrebbe pensare diversamente, se appena sa cosa vuol dire essere
madre?
Gesù era anche uomo; come uomo, egli non è, in questo momento, agli occhi di tutti, che un figlio giustiziato
alla presen¬za di sua madre. Gesù non dice più, come a Cana: “Che c’è tra me e te, o donna? Non è ancora
giunta l’ora mia” (Gv 2, 4). Adesso che la sua « ora » è giunta, c’è, tra lui e sua madre, una grande cosa in
comune: la stessa soffe¬renza. In quei momenti estremi, in cui anche il Padre si è miste¬riosamente sottratto al
suo sguardo di uomo, è rimasto a Gesù solo lo sguardo della madre, in cui cercare rifugio e conforto.
Disdegnerà questa presenza e questo conforto materno, colui che nel Getsemani pregò i tre discepoli dicendo:
“Restate qui e vegliate con me” (Mt 26, 38)?

Stare presso la croce di Gesù


Ora, seguendo come sempre il nostro principio-guida se¬condo cui Maria è figura e specchio della Chiesa, sua
primizia e modello, ci dobbiamo porre la domanda: Che cosa ha voluto dire alla Chiesa lo Spirito Santo,
disponendo che nella Scrittura fosse registrata questa presenza di Maria accanto alla croce di Cristo?
Anche questa volta, è la Parola stessa di Dio che, implicita¬mente, traccia il passaggio da Maria alla Chiesa e
dice cosa de¬ve fare ogni credente per imitarla: « Presso la croce di Gesù – è scritto – stava Maria sua Madre e
accanto a lei il discepolo che egli amava ». Nella notizia c’è contenuta la parenesi. Quello che avvenne quel
giorno, indica quello che deve avvenire ogni gior¬no: bisogna stare accanto a Maria presso la croce di Gesù,
co¬me ci stette il discepolo che egli amava.
Ci sono due cose nascoste in questa frase: primo, che biso¬gna stare «accanto alla croce » e, secondo, che
bisogna stare ac¬canto alla croce « di Gesù ». Vedremo che si tratta di due cose differenti, anche se inseparabili.
Stare presso la croce « di Gesù ». Queste parole ci dicono che la prima cosa da fare – la più importante di tutte –
non è stare presso la croce in genere, ma stare presso la croce «di Gesù». Che non basta stare presso la croce,
cioè nella sofferenza, starci anche in silenzio. Questo sembra già da solo una cosa eroica, eppure non è la cosa
più importante. Può essere anzi niente. La cosa decisiva è stare presso la croce « di Gesù ». Ciò che conta non è
la propria croce, ma quella di Cristo. Non è il soffrire, ma il credere e così appropriarsi della sofferenza di
Cristo. La prima cosa è la fede. La cosa più grande di Maria sotto la croce fu la sua fede, più grande ancora che
la sua soffe¬renza. San Paolo dice che il Vangelo è potenza di Dio « per tutti coloro che credono » (cf Rm 1,
16). Per tutti coloro che credono, non per tutti coloro che soffrono, anche se, ve¬dremo, le due cose sono di
solito unite tra di loro.
È qui la fonte di tutta la forza e la fecondità della Chiesa. La forza della Chiesa viene dal predicare la croce di
Gesú, cioè da qualcosa che agli occhi del mondo è il simbolo stesso della stoltezza e della debolezza. Ciò
comporta la rinuncia a ogni possibilità o volontà di affrontare il mondo incredulo e spensie¬rato con i suoi stessi
mezzi che sono la sapienza delle parole, la forza delle argomentazioni, l’ironia, il ridicolo, il sarcasmo e tutte le
altre « cose forti del mondo » (cf 1 Cor 1, 27). Bisogna rinun¬ciare a una superiorità umana, perché possa
venire alla luce e agire la forza divina racchiusa nella croce di Cristo. Bisogna in¬sistere su questo primo punto
perché ce n’è ancora bisogno. La maggioranza dei credenti non è stata mai aiutata a entrare in questo mistero
che è il cuore del Nuovo Testamento, il centro del kerigma e che cambia la vita.
«Stare presso la croce». Ma qual è il segno e la prova che si crede realmente nella croce di Cristo, che « la
parola della cro¬ce » non è, appunto, solo una parola, cioè un principio astratto, una bella teologia o ideologia,
ma che è veramente croce? Il se¬gno e la prova è prendere la propria croce e andare dietro a Gesù (cf Mc 8, 34).
Il segno è partecipare alle sue sofferenze (Fil 3, 10; Rm 8, 17), essere crocifissi con lui (Gal 2, 20), com¬pletare,
mediante le proprie sofferenze, ciò che manca alla pas¬sione di Cristo (Col 1, 24). La vita intera del cristiano
deve es¬sere un sacrificio vivente, come quella di Cristo (cf Rm 12, 1). Non si tratta solo di sofferenza accettata
passivamente, ma an¬che di sofferenza attiva, vissuta in unione con Cristo: “Castigo il mio corpo e lo ridu¬co
in servitù” (1 Cor 9, 27). “Tutta la vita di Cristo fu croce e martirio e tu cerchi per te riposo e gioia?”,
ammonisce l’autore dell’”Imitazione di Cristo”.
Sono esistiti nella Chiesa due modi diversi di porsi davan¬ti alla croce di Cristo: uno, più caratteristico della
teologia protestante, basato sulla fede e l’appropriazione, che fa leva sulla croce di Cristo e uno – coltivato,
almeno in passato, di prefe¬renza dalla spiritualità cattolica – che insiste sul soffrire con Cristo, sul condividere
la passione di lui e, come nel caso di certi santi, nel rivivere addirittura in sé la passione di Cristo, fino a vedere
riprodotte in sé le sue stimmate. L’ecumenismo ci spinge a ricostruire la sintesi di ciò che nella Chiesa ha finito,
a poco a poco, per essere contrapposto.
Non si tratta, evidentemente, di mettere sullo stes¬so piano l’operato di Cristo e quello nostro, ma di accogliere
la parola della Scrittura. Essa ci dice che ognuna delle due cose – sia la fede, sia le opere -, senza l’altra, è morta
(cf Gc 2, 14 ss). È la fede stessa nella croce di Cristo che ha bisogno di passare at¬traverso la sofferenza per
essere autentica. La prima lettera di Pietro dice che la sofferenza è il « crogiuolo » della fede, che la fede ha
bisogno della sofferenza per essere purificata, come l’o¬ro nel fuoco (cf 1 Pt 1, 6-7).
La nostra croce non è in se stessa salvezza, non è né potenza né sapienza. Per se stessa è pura opera umana, o
addirittura castigo. Diviene po¬tenza e sapienza di Dio in quanto – accompagnata dalla fede e per disposizione
di Dio stesso – ci unisce alla croce di Cristo. “Soffrire –scriveva san Giovanni Paolo II dal suo letto di ospedale
dopo l’attentato – significa diventare particolarmente suscettibili, partico¬larmente aperti all’opera delle forze
salvifiche di Dio, offerte al¬l’umanità in Cristo» . Soffrire unisce alla croce di Cristo in modo non solo
intellettuale, ma esistenziale e concreto; è una specie di canale, di via di accesso, alla croce di Cristo, non
paral¬lela alla fede, ma facente un tutt’uno con essa.

« Sperò contro ogni speranza »


Ma dobbiamo, ormai, allargare il nostro orizzonte. Per l’evangelista Giovanni che riferisce l’episodio, la croce
di Cristo non è solo il momento della morte di Cristo, ma anche quello della sua “glorificazione” e del trionfo.
La risurrezione vi è già operante nel segno dello Spirito che si effonde (cf. Gv 7, 37-39; 19, 34). Sul Calvario
Maria dunque ha condiviso con il Figlio non solo la morte, ma anche le primizie della risurrezione. Una
immagine di Maria ai piedi della croce, in cui ella appare solo « triste, afflitta, piangente », come canta lo Stabat
Mater, cioè solo l’Addolorata, non sarebbe comple¬ta. Sul Calvario, ella non è solo la « Madre dei dolori », ma
anche la Madre della speranza, « Mater spei », come la invoca la Chiesa in un suo inno.
Di Abramo, san Paolo afferma che “ebbe fede sperando contro ogni speranza” (Rm 4, 18). La stessa cosa si
deve dire, con più ragione, di Maria sotto la croce. Ella credette, sperando contro ogni speranza, cioè in una
situazione in cui, umanamente parlando, non c’è più alcuna ragione per sperare. In qualche modo che non
possiamo spiegare (e che forse neppure lei era in grado di spiegare a se stessa), Maria, come Abramo, ha
creduto che Dio era capace di far risuscitare il suo Figlio «anche dai morti » (cf Ebr 11, 19).
Un testo del Concilio Vaticano II menziona questa speranza di Maria sotto la croce come un elemento
determinante della sua vocazione materna. Dice che sotto la croce, « ella ha coope-rato in modo tutto speciale
all’opera del Salvatore, con l’obbe¬dienza, la fede, la speranza e l’ardente carità » .
Veniamo ora alla Chiesa, cioè a noi. Delle tre cose che la Chiesa commemora nel triduo pasquale –
crocifissione, sepoltura e ri¬surrezione del Signore -, «noi, – ha scritto sant’Agostino – nella vita presente
realizziamo ciò che significa la crocifissione, mentre teniamo per fede e spe-ranza ciò che significano la
sepoltura e la risurrezione » . An¬che la Chiesa, come Maria, vive la risurrezione « in speranza». Anche per
essa, la croce è oggetto di esperienza, mentre la ri-surrezione è oggetto di speranza.
Come Maria fu presso il Figlio crocifisso, così la Chiesa è chiamata a stare presso i crocifissi di oggi: i poveri, i
sofferenti, gli umiliati e gli offesi. Starci con speranza. Non basta compatire le loro pene o an¬che cercare di
alleviarle. È troppo poco. Questo possono farlo tutti, anche chi non conosce la risurrezione. La Chiesa deve
da¬re speranza, proclamando che la sofferenza non è assurda, ma ha un senso, perché ci sarà una risurrezione
da morte. La Chiesa de¬ve «dare ragione della speranza che è in lei » (cf 1 Pt 3, 15).
Gli uomini hanno bisogno di speranza per vivere, come del¬l’ossigeno per respirare. Anche la Chiesa ha
bisogno di speranza per proseguire il suo cammino nella storia e non sentirsi schiacciata dalle avversità.
Nell’udienza generale dell’11 Marzo –l’ultima pubblica prima della sospensione per il Coronavirus – papa
Francesco ci ha esortato a vivere questo tempo di prova “con fortezza, responsabilità e con speranza”. Vorrei
raccogliere soprattutto il suo appello alla speranza.
La speranza è stata per molto tempo, ed è tutt’ora, tra le virtù teologali, la sorella minore, la parente povera. Il
poeta Charles Péguy ha un’immagine bellissima al riguardo. Dice che le tre virtù teologali –fede, speranza e
carità – sono come tre sorelle: due grandi e una ancora bambina. Camminano insieme per strada tenendosi per
mano, le due grandi ai lati e la bambina al centro. La bambina è naturalmente la Speranza. Tutti al vederle
dicono: “Certamente sono le due grandi che trascinano la bambina al centro!”. Si sbagliano: è la bambina
Speranza che trascina le due sorelle, perché se si ferma la speranza si ferma tutto .
Dobbiamo – come suggerisce lo stesso poeta – diventare « complici della bambina speranza ». Hai sperato
ardentemen¬te una cosa, un intervento di Dio, e non è successo niente? Sei tornato a sperare di nuovo la volta
successiva, e ancora niente? Tutto è andato avanti come prima, nonostante tante suppliche, tante lacrime, e forse
anche tanti segni che questa volta saresti stato esaudito? Tu continua a sperare, spera ancora un’altra vol¬ta,
spera sempre, fino alla fine. Diventa complice della speranza!
Diventare complici della speranza significa permettere a Dio di deluderti, di ingannarti quaggiù tutte le volte
che vuole. Di più: significa essere in fondo contenti, in qualche parte remota del proprio cuore, che Dio non ti
abbia ascoltato la prima e la se¬conda volta e che continui a non ascoltarti, perché così ti ha permesso di dargli
una prova in più, di fare un atto di speranza in più e ogni volta più difficile. Ti ha fatto una grazia ben più
grande di quella che chiedevi: la grazia di sperare in lui. Lui ha l’eternità per farsi perdonare del ritardo!
Ma bisogna fare attenzione a una cosa. La speranza non è so¬lo una bella e poetica disposizione interiore,
difficile quanto si vuole, ma che lascia, per il resto, inoperosi e senza compiti con-creti, e perciò, alla fine,
sterile. Al contrario, sperare significa proprio scoprire che c’è ancora qualcosa che si può fare, un compito da
assolvere e che non si è, perciò, lasciati in balìa del vuoto e di una paralizzante inattività.
Quand’anche non ci fosse nulla più da fare da parte nostra per cambiare una certa situazione difficile, resterebbe
pur sempre un grande compito da assolvere, tale da tenerci ab¬bastanza impegnati e tenere lontana la
disperazione: quello di sopportare con pazienza fino alla fine. Questo fu il grande « compito » che Maria portò a
compimento, sperando, sotto la croce, e in questo ella è pronta ora ad aiutare anche noi.
Nella Bibbia assistiamo a dei veri e propri sussulti di speranza. Uno di essi si trova nella terza Lamentazione di
Geremia. Essa è il canto dell’anima nella prova più desolante e può essere ap-plicato quasi alla lettera a Maria ai
piedi della croce:
Io sono la persona che ha provato la miseria e la pena. Dio mi ha fatto camminare nelle tenebre, non nella luce;
mi ha costruito un muro tutt’intorno perché non potessi più uscire. Se grido e invoco aiuto egli soffoca la mia
preghiera. Ho detto: “È sparita la mia gloria, la speranza che mi veniva dal Signore”.
Ma ecco il sussulto di speranza che capovolge tutto. A un certo punto, l’o¬rante dice a se stesso: «Ma le
misericordie del Signore non so¬no finite; dunque in lui voglio sperare! Il Signore non rigetta mai, ma se
affligge avrà anche pietà. Forse c’è ancora speranza » (cf Lam 3, 1-29). Dal momento che il profeta decide di
tornare a sperare, il tono cambia: la lamentazione si trasforma in fiduciosa attesa dell’intervento di Dio.
Volgiamo lo sguardo, ancora una volta, a colei che ha saputo stare presso la croce sperando contro ogni
speranza. Invochiamo Maria come madre della speranza con le parole di un antico inno della Chiesa:
Salve Mater misericordiae,
Mater Dei, et mater veniae,
Mater Spei, et mater gratiae,
Mater plena sanctae laetitiae,
O MARIA!

Salve , o Madre di misericordia,


Madre di Dio e Madre di perdono
Madre di Speranza e Madre di grazia,
Madre ricolma di santa allegrezza,
O MARIA!

1.Lumen gentium, 58.


2.Imitazione di Cristo, II, 12,3.
3.S. Giovanni Paolo II, Lettera “Salvifici doloris”, 23 (AAS 76, 1984, p.231).
4.Lumen gentiun, 61.
5.S. Agostino, Lettere, 535,2,3; 14, 24.
6.Charles Péguy, Le porche du mystère de la deuxième vertu, in Œuvres poétiques complètes, Parigi 1975, p.
655 s.

Donna ecco tuo figlio. Maria madre dei credenti.

“Tutti là sono nati!”


Continuiamo e terminiamo la nostra contemplazione di Maria nel mistero pasquale. Oggetto della nostra
riflessione odierna è la parola che Gesú rivolge dalla croce a sua madre e al discepolo che egli amava:
Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna, ecco il
tuo figlio!». Poi disse al discepolo: «Ecco la tua madre!». E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa
(Gv 19, 26-27).
Al termine delle nostre considerazioni su Maria nel mistero dell’Incarnazione, nell’Avvento scorso, abbiamo
contemplato Maria come Madre di Dio; ora, al termine delle nostre riflessioni su Maria nel Mistero pasquale, la
contempliamo come Madre dei cristiani, come Madre nostra.
Dobbiamo subito precisare che non si tratta di due titoli e di due verità da porre sullo stesso piano. « Madre di
Dio » è un titolo definito solennemente; si basa su una maternità reale, non solo spirituale; ha un rapporto
strettissimo con la verità centrale della nostra fede, che Gesù è Dio e uomo nella stessa persona; ed è, infine, un
titolo universalmente accolto nella Chiesa. «Madre dei credenti», o « Madre nostra » indica una maternità
spirituale; ha un rapporto meno stretto con la verità centrale del credo; non si può dire che sia stato tenuto nel
cristianesimo « ovunque, sempre e da tutti », ma riflette la dottrina e la pietà di alcune Chiese, in particolare
della Chiesa cattolica, anche se non solo di essa.
Sant’Agostino ci aiuta a cogliere subito la somiglianza e la differenza tra le due maternità di Maria. Scrive:
« Maria, corporalmente, è madre solo di Cristo, mentre spiritualmente, in quanto fa la volontà di Dio, gli è
sorella e madre. Madre nello spirito, ella non lo fu del Capo che è lo stesso Salvatore, dal quale piuttosto
spiritualmente è nata, ma lo è certamente delle membra che siamo noi, perché cooperò, con la sua carità, alla
nascita nella Chiesa dei fedeli, che di quel Capo sono le membra » .
Il nostro scopo, in questa meditazione, vorrebbe essere quello di vedere tutta la ricchezza che c’è dietro questo
titolo e il dono di Cristo che esso contie¬ne, in modo da servircene, non solo per onorare Maria con un titolo in
più, ma per edificarci nella fede e crescere nell’imitazione di Cristo.
Anche la maternità spirituale di Maria nei nostri confronti, analogamente a quella fisica nei confronti di Gesù, si
realizza attraverso due momenti e due atti: concepire e partorire. Maria è passata attraverso questi due momenti:
ci ha spiritualmente concepiti e partoriti. Ci ha concepiti, cioè alla lettera “presi insieme” con Gesú, e accolti in
sé. Lo ha fatto quando, nel momento stesso dell’Annunciazione e poi in seguito a mano a mano che Gesù
avanzava nella sua missione, è venuta scoprendo che quel suo figlio non era un figlio come gli altri, una persona
privata, ma che era il Messia atteso, intorno al quale si sarebbe formata una comunità.
Questo fu il tempo del concepimento, del «sì » del cuore. Ora, sotto la croce, è il momento del travaglio del
parto. Gesù, in questo momento, si rivolge alla madre, chiamandola « Donna ». Conoscendo l’abitudine
dell’evangelista Giovanni di parlare per allusioni, simboli e rimandi, questa parola fa pensare a ciò che Gesù
aveva detto: “La donna, quando partorisce, è afflitta, perché è giunta la sua ora” (Gv 16, 21) e a ciò che si legge
nell’Apocalisse, della « Donna incinta che gridava per le doglie del parto » (cf Ap 12, 1 s.).
Anche se questa Donna è, in prima linea, la Chiesa, la comunità della nuova alleanza che dà alla luce l’uomo
nuovo e il mondo nuovo, Maria vi è coinvolta egualmente in prima persona, come l’inizio e la rappresentante di
quella comunità credente. Questo accostamento tra Maria e la figura della Donna è stato, ad ogni modo, recepito
presto dalla Chiesa. Sant’Ireneo (discepolo di san Policarpo, discepolo a sua volta di Giovanni!) vede in Maria
la nuova Eva, la nuova « madre di tutti i viventi » .
Ma volgiamoci ormai al testo di Giovanni, per vedere se esso contiene già qualcosa di questo che andiamo
dicendo. Le parole di Gesù a Maria: « Donna, ecco tuo figlio » e a Giovanni: « Ecco, la tua madre », hanno
certamente un significato anzitutto immediato e concreto. Gesù affida Maria a Giovanni e Giovanni a Maria.
Ma questo non esaurisce il significato della scena. L’esegesi moderna, avendo fatto enormi progressi nella
conoscenza del linguaggio e dei modi espressivi del Quarto Vangelo, ne è ancora più convinta che al tempo dei
Padri.
Se si legge il brano di Giovanni unicamente in una chiave spicciola, quasi di ultime disposizioni testamentarie,
esso risulta – è stato detto – «un pesce fuor d’acqua» e anzi una dissonanza nel contesto in cui si trova. Per
Giovanni, il momento della morte è il momento della glorificazione di Gesù, del compimento definitivo delle
Scritture e di tutte le cose. Ogni frase e ogni parola in quel contesto ha un significato anche simbolico e allude al
compimento delle Scritture.
Dato questo contesto, è più una forzatura del testo il non vedervi che un significato privato e personale, che il
vedervi, con l’esegesi tradizionale, anche un significato più universale ed ecclesiale, legato, in qualche modo,
alla figura della « donna » di Genesi 3, 15 e di Apocalisse 12. Questo significato ecclesiale è che il discepolo
non rappresenta qui solo Giovanni, ma il discepolo di Gesù in quanto tale, cioè tutti i discepoli. Essi sono dati a
Maria da Gesù morente come suoi figli, allo stesso modo che Maria è data ad essi come loro madre.
Le parole di Gesù a volte descrivono qualcosa che è già presente, cioè rivelano ciò che esiste; a volte invece
creano e fanno esistere ciò che esprimono. A questo secondo ordine appartengono le parole di Gesù morente a
Maria e a Giovanni. Dicendo: “Questo è il mio corpo”, Gesù rendeva il pane suo corpo; così – fatte le debite
proporzioni – dicendo: “Ecco tua madre”, ed “Ecco tuo figlio”, Gesù costituisce Maria madre di Giovanni e
Giovanni figlio di Maria. Gesù non si è limitato a proclamare la nuova maternità di Maria, ma l’ha istituita. Essa
dunque non viene da Maria, ma dalla Parola di Dio; non si basa sul merito, ma sulla grazia.
Sotto la croce, Maria ci appare dunque come la figlia di Sion che, dopo il lutto e la perdita dei suoi figli, riceve
da Dio una nuova figliolanza, più numerosa di prima, non secondo la carne, ma secondo lo Spirito. Un Salmo,
che la liturgia applica a Maria, dice: “Ecco, Palestina, Tiro ed Etiopia: tutti là sono nati. Si dirà di Sion: « L’uno
e l’altro è nato in essa… ». Il Signore scriverà nel libro dei popoli: « Là costui è nato » (Sal 87, 2 s). È vero:
tutti là siamo nati! Si dirà anche di Maria, la nuova Sion: l’uno e l’altro è nato in essa. Di me, di te, di ognuno,
anche di chi non lo sa ancora, nel libro di Dio, è scritto : « Là costui è nato ».
Ma non siamo stati noi « rigenerati dalla Parola di Dio viva ed eterna » (cf 1 Pt 1, 23)?; non siamo « nati da Dio
» (Gv 1, 13) e rinati « dall’acqua e dallo Spirito » (Gv 3, 5)? È verissimo, ma ciò non toglie che, in un senso
diverso, subordinato e strumentale, siamo nati anche dalla fede e dalla sofferenza di Maria. Se Paolo, che è un
servo e un apostolo di Cristo, può dire ai suoi fedeli: “Sono io che vi ho generato in Cristo, mediante il
Vangelo” (1 Cor 4, 15), quanto più può dirlo Maria, che ne è la madre! Chi più di lei può far sue le parole
dell’Apostolo: “Figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore” (Gal 4, 19)? Ella ci partorisce « di nuovo »
sotto la croce, perché ci ha già partorito una prima volta, non nel dolore, ma nella gioia, quando ha dato al
mondo proprio quella « Parola viva ed eterna », che è Cristo, nella quale siamo rigenerati.

La sintesi mariana del Concilio Vaticano II


La dottrina tradizionale cattolica di Maria Madre dei cristiani ha ricevuto una nuova formulazione nella
costituzione sulla Chiesa del Concilio Vaticano II. Nella Lumen gentium leggiamo:
Concependo Cristo, generandolo, nutrendolo, presentandolo al Padre nel tempio, soffrendo col Figlio suo
morente in croce, ella cooperò in modo tutto speciale all’opera del Salvatore, con l’obbedienza, la fede, la
speranza e l’ardente carità, per restaurare la vita soprannaturale delle anime. Per questo ella è diventata per noi
madre nell’ordine della grazia .
Il Concilio stesso si preoccupa di precisare il senso di questa maternità di Maria. Dice:
La funzione materna di Maria verso gli uomini in nessun modo oscura o diminuisce quest’unica mediazione di
Cristo, ma ne mostra l’efficacia. Ogni salutare influsso della beata Vergine verso gli uomini non nasce da una
necessità oggettiva, ma da una disposizione puramente gratuita di Dio, e sgorga dalla sovrabbondanza dei meriti
di Cristo; pertanto si fonda sulla mediazione di questi, da essa assolutamente dipende e attinge tutta la sua
efficacia, e non impedisce minimamente l’unione immediata dei credenti con Cristo, anzi la facilita .
La novità più grande di questa trattazione sulla Madonna consiste, come si sa, proprio nel posto in cui essa è
inserita, e cioè nella trattazione sulla Chiesa. Con ciò il Concilio – non senza sofferenze e lacerazioni, attuava
un profondo rinnovamento della mariologia, rispetto a quella degli ultimi secoli. Il discorso su Maria non è più a
se stante, come se ella occupasse una posizione intermedia tra Cri¬sto e la Chiesa, ma ricondotto nell’ambito
della Chiesa, come era stato all’epoca dei Pa¬dri.
Maria è vista, come diceva sant’Agostino, come il membro più eccellente della Chiesa, ma un membro di essa,
non al di fuori o al di sopra di essa:
Santa è Maria, beata è Maria, ma più importante è la Chiesa che non la Vergine Maria. Perché? Perché Maria è
una parte della Chiesa, un membro santo, eccellente, superiore a tutti gli altri, ma tuttavia un membro di tutto il
corpo. Se è un membro di tutto il corpo senza dubbio più importante d’un membro è il corpo .
Questo è il caso teologico più evidente della verità dell’assioma, caro a papa Francesco, che “il tutto è superiore
alla parte”. Questo assioma non si realizza nella Trinità perché in essa, grazie alla pericoresi, in ogni parte, o
persona, c’è già il tutto. Si realizza invece nella Chiesa.
Subito dopo il Concilio, Paolo VI sviluppò ulteriormente l’idea della maternità di Maria verso i credenti,
attribuendo a lei, esplicitamente e solennemente, il titolo di “Madre della Chiesa”:
A gloria dunque della Vergine e a nostro conforto, Noi proclamiamo Maria Santissima “Madre della Chiesa”,
cioè di tutto il popolo di Dio, tanto dei fedeli come dei Pastori, che la chiamano Madre amorosissima; e
vogliamo che con tale titolo soavissimo d’ora innanzi la Vergine venga ancor più onorata ed invocata da tutto il
popolo cristiano .

« E da quel momento il discepolo la prese con sé »


È giunto però il momento di passare dalla contemplazione di un titolo di Maria alla sua imitazione pratica; di
considerare, cioè, Maria nel suo aspetto di figura e specchio della Chiesa. L’applicazione è semplice: dobbiamo
imitare Giovanni, pren¬dendo Maria con noi nella nostra vita spirituale. Tutto qui.
«E il discepolo la prese con sé (eis ta ídia)». Si pensa troppo poco a ciò che questa breve frase contiene. Dietro
di essa c’è una notizia di portata enorme e storicamente sicura, perché data dalla persona stessa interessata.
Maria passò gli ultimi anni della vita con Giovanni. Ciò che si legge nel Quarto Vangelo, a proposito di Maria a
Cana di Galilea e sotto la croce, fu scritto da uno che viveva sotto lo stesso tetto con Maria, poiché è
impossibile non ammettere un rapporto stretto, se non l’identità, tra «il discepolo che Gesù amava» e l’autore
del Quarto Vangelo. La frase: « E il Verbo si fece carne », fu scritta da uno che viveva sotto lo stesso tetto con
colei, nel cui seno questo miracolo si era compiuto, o almeno da uno che l’aveva conosciuta e frequentata.
Chi può dire cosa significò, per il discepolo che Gesù amava, avere con sé, in casa, giorno e notte, Maria?
Pregare con lei, con lei consumare i pasti, averla davanti come ascoltatrice quando parlava ai suoi fedeli,
celebrare con lei il mistero del Signore? È pensabile che Maria sia vissuta nella cerchia del discepolo che Gesù
amava, senza che abbia avuto alcun influsso nel lento lavorio di riflessione e di approfondimento che portò alla
redazione del Quarto Vangelo? Nell’antichità Origene ha intuito il segreto che c’è sotto questo fatto, al quale gli
studiosi e i critici del Quarto Vangelo e i ricercatori delle sue fonti non prestano, di solito, alcuna attenzione.
Egli scrive:
Primizia dei Vangeli è quello di Giovanni, il cui senso profondo non può cogliere chi non abbia poggiato il capo
sul petto di Gesù e non abbia ricevuto da lui Maria, come sua propria madre .
Ora ci domandiamo: cosa può significare concretamente per noi prendere Maria nella nostra casa? Qui, credo, si
inserisce il nucleo sobrio e sano della spiritualità Monfortana dell’affidamento a Maria, caro, tra gli altri, a san
Giovanni Paolo II che da esso trasse il motto del suo stemma “Totus tuus”. Esso consiste nel « fare tutte le
proprie azioni per mezzo di Maria, con Maria, in Maria e per Maria, per poterle compiere in maniera più
perfetta per mezzo di Gesù, con Gesù, in Gesù e per Gesù ». Scrive san Luigi Grignon de Monfort:
«Dobbiamo abbandonarci allo spirito di Maria per essere mossi e guidati secondo il suo volere. Dobbiamo
metterci e restare fra le sue mani verginali come uno strumento tra le mani di un operaio, come un liuto tra le
mani di un abile suonatore. Dobbiamo perderci e abbandonarci in lei come una pietra che si getta nel mare. È
possibile fare tutto ciò semplicemente e in un istante, con una sola occhiata interiore o un lieve movimento della
volontà, o anche con qualche breve parola » .
Qualcuno ha obiettato che in questo modo si usurpa il posto dello Spirito Santo nella vita cristiana, dal
momento che è dallo Spirito Santo che ci dobbiamo « lasciare condurre » (cf Gal 5, 18), lui che dobbiamo
lasciare operare e pregare in noi (cf Rm 8, 26 s), per assimilarci a Cristo. Non è scritto forse che il cristiano
deve fare ogni cosa «nello Spirito Santo »? L’inconveniente di attribuire, almeno di fatto, tacitamente, a Maria
le funzioni proprie dello Spirito Santo nella vita cristiana è stato riconosciuto come presente in certe forme di
devozione mariana anteriori al Concilio . Esso era dovuto alla mancanza di una chiara e operante coscienza del
posto dello Spirito Santo nella Chiesa.
Lo svilupparsi di un forte senso della Pneumatologia non porta però minimamente alla necessità di ri¬fiutare
questa spiritualità dell’affidamento a Maria, ma solo ne chiarisce la natura. Maria è precisamente uno dei mezzi
privilegiati attraverso cui lo Spirito Santo può guidare le anime e condurle alla somiglianza con Cristo, proprio
perché Maria fa parte della Parola di Dio ed è essa stessa una parola di Dio in azione. In questo Grignion de
Monfort anticipa i tempi quando scrive:
Lo Spirito Santo, che è sterile in Dio, cioè non da origine ad un altra persona divina, è divenuto fecondo per
mezzo di Maria da lui sposata. Con lei, in lei e da lei egli ha realizzato il suo capolavoro, che è un Dio fatto
uomo, e tutti i giorni, sino alla fine del mondo, dà vita ai predestinati e ai membri del corpo di questo Capo
adorabile. Perciò, quanto più lo Spirito Santo trova Maria, sua cara e indissolubile Sposa, in un’anima, tanto più
diviene operoso e potente per formare Gesù Cristo in quest’anima e quest’anima in Gesù Cristo
La frase « ad Jesum per Mariam », a Gesù attraverso Maria, è accettabile solo se intesa nel senso che lo Spirito
Santo ci guida a Gesù servendosi di Maria. La mediazione creata di Maria, tra noi e Gesù, ritrova tutta la sua
validità, se compresa quale mezzo della mediazione increata che è lo Spirito Santo.
Ricorriamo, per capire, a una analogia, per così dire, dal basso. Paolo esorta i suoi fedeli a guardare ciò che fa
lui e a fare anch’essi come vedono fare lui: “Ciò che avete imparato, ricevuto, ascoltato e veduto in me, è quello
che dovete fare” (Fil 4, 9). Ora è certo che Paolo non intende mettersi al posto dello Spirito Santo.
Semplicemente pensa che imitarlo significa assecondare lo Spirito, dal momento che pensa di avere anche lui lo
Spirito di Dio (cf 1 Cor 7, 40). Questo vale a fortiori per Maria e spiega il senso del programma di « fare tutto
con Maria e come Maria ». Ella può dire davvero come Paolo e più di Paolo: “Fatevi miei imitatori, come io lo
sono di Cristo” (1 Cor 11, 1). Ella è nostro modello e maestra proprio per¬ché perfetta discepola e imitatrice di
Cristo.
Questo significa, in senso spirituale, prendere Maria con sé: prenderla come compagna e consigliera, sapendo
che essa co¬nosce, meglio di noi, quali sono i desideri di Dio a nostro riguardo. Se si impara a consultare ed
ascoltare in ogni cosa Maria, essa diventa davvero, per noi, la maestra impareggiabile nelle vie di Dio, che
insegna dentro, senza strepito di parole. Non si tratta di un’astratta possibilità, ma di una realtà di fatto,
sperimentata, oggi come in passato, da innumerevoli anime

« Il coraggio che hai avuto… »


Prima di concludere la nostra contemplazione di Maria nel mistero pasquale, presso la croce, vorrei che
dedicassimo ancora un pensiero a lei come modello di fede e di speranza. Viene un’ora nella vita, in cui ci
occorre una fede e una speranza come quella di Maria. È quando Dio sembra non ascoltare più le nostre
preghiere, quando si direbbe che smentisca se stesso e le sue promesse, quando ci fa passare di sconfitta in
sconfitta e le potenze delle tenebre sembrano trionfare su tutti i fronti intorno a noi; quando si fa buio dentro di
noi, come si fece buio, quel giorno, « su tutta la terra » (Mt 27, 45). Quando arriva per te quest’ora, ricordati
della fede di Maria e grida anche tu, come hanno fatto altri: « Padre mio, non ti comprendo più, ma mi fido di
te! ».
Forse Dio ci sta chiedendo proprio ora di sacrificargli, come Abramo, il nostro « Isacco », cioè la persona, o la
cosa, il proget¬to, la fondazione, o l’ufficio, che ci è caro, che Dio stesso un giorno ci ha affidato, e per il quale
abbiamo lavorato tutta la vi¬ta. Questa è l’occasione che Dio ci offre per mostrargli che egli ci è più caro di
tutto, anche dei suoi doni, anche del lavoro che facciamo per lui.
Ad Abramo Dio disse: “Diventerai padre di una moltitudine di nazioni” (Gen 17, 5). E dopo il sacrificio di
Isacco: “Perché tu hai fatto questo e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo figlio,il tuo unigenito, io ti colmerò di
benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza…Si diranno benedette nella tua discendenza tutte le
nazioni della terra perché tu hai obbedito alla mia voce”(Gen 22,16-18) Lo stesso, e molto di più, dice ora a
Maria. “Madre di molti popoli ti renderò, madre della mia Chiesa! Nel tuo nome saranno benedette tutte le stirpi
della terra. Tutte le generazioni ti chiameranno beata”
Uno dei padri della Riforma, Calvino, commentando Genesi 12,3, dice che “Abramo non sarà soltanto esempio
e patrono, ma causa di benedizione” . Questo potrebbe rendere comprensibile a accettabile da tutti i cristiani
l’affermazione di sant’Ireneo: “Come Eva, disobbedendo, divenne causa di morte per sé e per tutto il genere
umano, così Maria, obbedendo, divenne causa di salvezza (causa salutis) per sé e per tutto il genere umano” .
Come Abramo, Maria non è soltanto esempio, ma anche causa di salvezza, anche se, s’intende, di natura
strumentale, frutto della grazia, non del merito.
È scritto che quando Giuditta tornò tra i suoi, dopo aver messo a repentaglio la propria vita per il suo popolo, gli
abitanti della città le corsero incontro e il sommo sacerdote la benedisse dicendo: “Benedetta tu, figlia, davanti
al Dio altissimo più di tutte le donne che vivono sulla terra… Il coraggio che hai avuto non cadrà dal cuore
degli uomini” (Gdt 13, 18 s). Le stesse parole noi rivolgiamo a Maria: “Benedetta tu fra le donne! Il coraggio
che hai avuto non cadrà mai dal cuore e dal ricordo della Chiesa!”
Riassumiamo tutta la partecipazione di Maria al mistero pasquale, applicando a lei, con le dovute differenze, le
parole con le quali san Paolo ha riassunto il mistero pasquale di Cri¬sto:
Maria, pur essendo la Madre di Dio, non considerò un tesoro geloso
questo suo rapporto unico con Dio,
ma spogliò se stessa di ogni pretesa, assumendo il nome di serva
e apparendo all’esterno simile a ogni altra donna.
Visse nell’umiltà e nel nascondimento,
obbedendo a Dio, fino ad accettare la morte del Figlio,
e la morte di croce.
Per questo Dio l’ha esaltata e le ha dato il nome
che, dopo quello di Gesù,
è al di sopra di ogni altro nome,
perché nel nome di Maria ogni capo si chini,
nel cielo, sulla terra e sottoterra,
e ogni lingua proclami
che Maria è la Madre del Signore,
a gloria di Dio Padre. Amen!

1.S. Agostino, La santa verginità, 5-6 (PL 40, 399).


2.S. Ireneo, Adversus haereses, III, 22, 4.
3.Lumen gentium, 61.
4.Ib. 60.
5.S. Agostino, Discorsi, 72 A, 7 (Miscellanea Agostiniana, I, p. 163).
6.S. Paolo VI, Discorso di chiusura del terzo periodo del Concilio (AAS, 56, 1964, p. 1016).
7.Origene, Commento al vangelo di Giovanni, I,6,23 (SCh 120, pp. 70-72).
8.S. L. Grignion de Montfort, Trattato della vera devozione a Maria, nr. 257-259 (in Oeuvres complètes, Parigi
1966, pp. 660 s.)
9.Cf. H. Mühlen Una mystica persona, trad. ital. Città Nuova, Roma 1968, pp.575 ss.
10.Trattato, cit. nr. 20.
11.Calvino, Le livre de la Génèse, I, Ginevra 1961, p. 195 ; cf. anche G. von Rad, Genesi, Paideia, Brescia
1978, p. 204.
12.S. Ireneo, Adversus Haereses, III, 22,4 (SCh 211, p. 441).

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