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[Pubblicato in XI e XII secolo: l’invenzione della memoria. Atti del seminario internazionale, Montepulciano 27-29
aprile 2006, a cura di S. Allegria e F. Cenni, Montepulciano 2006]
Esporrò in queste pagine alcune libere e non sistematiche riflessioni, partendo dalla
questione generale e ben risaputa: esiste la diplomatica perché è stato necessario, in
ambienti e per motivi che non intendo rievocare, fissare strumenti e parametri di giudizio
adeguati per la critica dei falsi; fondandone così, e proiettandolo nella ricerca erudita e poi
moderna, il tema principale, ciò che per certi aspetti sembra aver costituito e forse tuttora
costituire un problema: e su questo proverei brevemente a ragionare, pur senza volerne
trarre conclusioni forzate. Passerei poi a cenni (assai sommari), circa la fenomenologia
delle imposture documentarie, con particolare riguardo ai secoli XI e XII. Infine, per
meglio aderire all’impostazione tematica di questo seminario, illustrerò due dossier
discretamente enigmatici, che potrebbero essere considerati esemplari se – pur attraverso
qualche necessaria semplificazione – contribuiranno a restituire il senso della complessità
e della pluralità di funzioni che caratterizzano, in determinati contesti, attività e strategie
variamente ‘documentarie’.
«La diplomatica ... si andò svolgendo per venire in aiuto alla storia, che voleva districarsi il
cammino dalle numerose falsificazioni; infatti si propose da prima, come unico scopo, di
discernere il vero dal falso e fu definita: ars secernendi antiqua diplomata vera et falsa. Ed è
q u e s t o o g n o r a l ' o g g e t t o p r i n c i p a l e d e l l e s u e r i c e r c h e ; ma risponde alle esigenze
di un tale lavoro, conforme ai nuovi bisogni dei progrediti studi storici, con una precisione e
con una sottigliezza di indagine da portare a risultati sorprendenti. Distingue la falsificazione
diplomatica dalla storica, poiché anche un diploma uscito da una cancelleria, anche un atto
privato scritto da notaio possono contenere un racconto storicamente falso: così documenti con
testo vero possono avere una falsa veste. Indaga i varii gradi o periodi della fattura del falso,
dimostrando se la falsificazione sia intera o parziale, con quali criteri e a quali mezzi ricorrendo
si sia voluto simulare un documento nuovo; distingue le interpolazioni, le aggiunte e le
modificazioni varie apportate al testo primitivo da più mani e in tempi diversi. Il falso ci
appare così sotto una duplice luce, poiché si mettono a confronto due periodi storici diversi,
l'antico cui vorrebbe riferirsi la falsificazione, e il nuovo della data del falso. Il falso conserva
non di rado un valore storico, almeno per l'età in cui è stato fabbricato; quindi in tutto questo
studio critico, mentre si distrugge, talora si ricostruisce».
Molto spesso, com’è noto, l’ambito di ideazione e confezione di documenti che il vaglio
critico degli specialisti cataloga fra i non genuini, e dunque integralmente o parzialmente
da rigettare quanto ai contenuti giuridici che portano, è identificato in determinate,
specifiche circostanze contenziose per lo più di natura patrimoniale o territoriale (sebbene,
come giustamente avverte Guyotjeannin, «les mobiles précis des falsifications sont quasi
aussi nombreux que les falsifications elles-mêmes»). Falsi documentari ‘onesti’ o
utilitaristici, si ritiene di norma, hanno senso specie se fabbricati in funzione di una
contesa ‘concreta’ (e impiegati nella contesa o comunque nel suo contesto), come mezzo (di
prova o di pressione sulla controparte) per ricercare il superamento del conflitto a
vantaggio di chi li produce.
D’altra parte, quando si è fortunati, a mettere su questa strada concorre proprio la
documentazione giudiziaria sopravvissuta. Soprattutto quella, articolata in ampi dossier,
che ci arriva a partire dai decenni finali del XII secolo, esito peraltro di significativi
mutamenti nelle stesse procedure giudiziarie. Verbali di sentenza e di deposizioni
testimoniali, talora integrati da libelli, positiones, allegazioni giuridiche e inventari
patrimoniali, costituiscono fonti più che sufficienti per individuare e circoscrivere le reali
circostanze delle contese e le strategie delle parti in lite. E consentono la tessitura dei
collegamenti e dei ragionamenti che portano all’individuazione del falso – o del falsificato,
o dell’interpolato –, alla sua comprensione e decostruzione logico-formale; anche quando
le carte truccate, per ragioni che non sfuggono all’analisi, sono andate perdute. Talvolta,
poi, gli spuria vengono nei tribunali sottoposti al vaglio dei giudici o dei periti di parte,
dibattuti e smascherati: ma da questo punto di vista, i famosi processi santambrosiani e
bergamaschi, che contrapponevano rispettivamente monaci e canonici di S. Ambrogio,
canonici di S. Vincenzo e di S. Alessandro, costituiscono un’eccezione. Casi famosi, fra
l’altro, anche per l’evidente competenza diplomatistica messa in campo, in quelle
occasioni, dagli estensori delle allegationes prodotte da monaci e da canonici. Nondimeno,
va aggiunto, vi sono casi in cui possediamo nuclei (più o meno consistenti) di carte
posticce (o solo leggermente interpolate), ma nessuna traccia – diretta o indiretta – di un
contrasto e di un processo.
A ogni modo, fra XI e XII secolo, l’urgenza – da parte della ‘fazione’ che disputava il
controllo del monastero al ‘partito’ filo-vescovile – di definire nel senso dell’autonomia i
propri rapporti con l’episcopio, poteva trovare un sostegno nel recupero di una memoria
delle origini che – si badi bene – nessun diploma (fra quelli certamente genuini) e nessuna
carta notarile di età successive aveva sentito o sentirà mai il bisogno di rievocare. E che fra
l’altro, nel corso del XII secolo, si rifletterà nei nomi di due badesse che esplicitamente
rimandano alla famiglia del fondatore: Sinelinda e Liceria. Una memoria che all’inizio del
XII secolo – quando i quadri ecclesiastici diocesani si riorganizzano intorno al vescovo,
quando si ricompongono gli assetti pubblici cittadini, e quando inizia a ridimensionarsi il
ruolo degli antichi monasteri benedettini – si viene precisando anche mediante
l’invenzione di un legame antico e speciale con la sede apostolica. Una strategia affatto
isolata, intrapresa anche dal potentissimo monastero di S. Pietro in Ciel d’Oro, come ora
vedremo.
Per disporre di un quadro più vivido, va aggiunto un particolare, non del tutto
secondario. Riguarda la questione del salvataggio e − soprattutto − della traslazione a
Pavia delle reliquie di sant’Agostino. Com’è noto, il racconto (succinto: «Liudbrandus
audiens quod Sarraceni depopulata Sardinia etiam loca fedarent illa, ubi ossa sancti
Augustini episcopi propter vastationem barbarorum olim translata et honorifice fuerant
condita, misit et dato magno praetio accepit et transtulit ea in Ticinis ibique cum debito
tanto patri honore recondidit») è tramandato da Beda a gran parte delle fonti alto-
medievali: viene ripreso, con un calco sostanzialmente letterale, anche da Paolo Diacono.
Ma il De temporum ratione e l’Historia Langobardorum non fanno alcun cenno a un’elezione
di S. Pietro in Ciel d’Oro quale luogo per il riparo delle reliquie; notizia che peraltro
compare (forse per la prima volta) nel Chronicon composto da Adone, vescovo di Vienne,
in tarda età carolingia − che a sua volta da Beda (fonte principale dell’opera)
evidentemente dipende −, in forma di semplice aggiunta al racconto standardizzato della
traslazione. Se ne ricava che il nesso tra S. Pietro in Ciel d’Oro e reliquie agostiniane è in
alcuni testi certamente già stretto nel IX secolo; verrà ripreso e sviluppato più avanti: nel
pieno XII secolo e probabilmente rielaborando fonti di provenienza locale, Filippo di
Harvengt (premonstratense) stabilisce una relazione ancora più significativa tra la
fondazione della basilica e il recupero del corpo di sant’Agostino, il cui arrivo a Pavia è
caratterizzato come evento di forte impatto popolare.
Ma nella documentazione monastica, cenni alla prestigiosa custodia delle reliquie
filtrano proprio tra la fine dell’XI e l’inizio del XII secolo. Il diploma regio (genuino) più
antico che possediamo (di re Ugo, 929 marzo 12) si limita difatti a rievocare la fondazione
liutprandea («etiam confirmamus omnes res et possessiones quascumque idem
monasterium longo tempore dinoscitur possedisse a Liutprando rege, ipsius monasterii
funditore, concesse»), richiamo che fa capolino anche in alcune auctoritates ottoniane e di
epoca successiva; mentre il ricordo della deposizione delle reliquie viene incastrato, dopo
la sezione dispositiva, nel primo dei due falsi intestati proprio a Liutprando: «hec omnia,
ut supra diximus, donamus et iudicamus venerabili monasterio Sancti Petri in Celo Aureo,
in quo sanctum ac venerabilem Augustinum atduximus et condivimus». Si tratta tuttavia
di uno spurium costruito nei decenni finali del XII secolo, utilizzando diplomi di Corrado
II, Enrico III e Federico I; nell’altro praeceptum intitolato a Liutprando, che sembra aver
impiegato modelli genuini, quel riferimento manca. La memoria di quel ‘dono’ affiora per
la prima volta proprio nel privilegio (genuino) di Pasquale II del 1102, immediatamente di
seguito alla sanzione della tutela apostolica offerta al monastero, il cui abate – Anselmo –
vi era stato istituito («inpositione manuum») proprio da quel pontefice: «ob honorem
videlicet ipsius apostolorum principis Petri et sanctissimi confessoris ac doctoris
preclarissimi Augustini, cuius pretiosum corpus in eodem cenobio a Lioprando, quondam
rege, dignoscitur honorifice reconditum». Ma qui arriva direttamente, sembrerebbe −
sebbene diversamente collocato nel testo − dai falsi (o perlomeno dal più ‘antico’ dei due)
rispettivamente intitolati a Giovanni XV e Alessandro II (che dall’altro dipende). Con un
calco quasi letterale: «ad honorem Dei et sancti Petri necnon sanctissimi Augustini, cuius
sacratissimum corpus in vestra ecclesia digno reconditum est honore, eo videlicet modo
quo fuit temporibus Liuprandi regis, ipsius loci servatoris, qui sacrum corpus eiusdem
Augustini detullit ad eamdem ecclesiam et recondidit illic». Peraltro il documento del 1102
richiama esplicitamente (e immediatamente di seguito al passaggio riportato) i vestigia dei
predecessori («sanctorum igitur predecessorum nostrorum, sedis apostolicę
pontificum, vestigiis insistentes, presentis decreti auctoritate statuimus ut …»:
che o non esistevano (com’è probabile), o coincidevano con i due falsi (o almeno con il più
‘antico’ dei due) cui si è accennato. Inoltre − ma non si tratta certo di un dettaglio −
Pasquale II concedeva all’abate Anselmo (e ai suoi successori) i simboli del rango vescovile
(«ad hec dalmaticae, sandaliorum necnon cirothecarum usum tibi tuisque legitimis
successoribus iuxta predecessorum nostrorum statuta concedimus»); formula che è
naturalmente inserita anche nei privilegia di Giovanni XV (del tutto anacronisticamente) e
Alessandro II.
La questione – sia rispetto ai falsi, sia rispetto al racconto della traslazione delle reliquie e
della sua vicenda e tradizione di testi – è complessa, e qui l’abbiamo affrontata per minimi
cenni. Importa sottolineare una coincidenza: tra fine XI e inizio XII secolo è attuale (per
recupero o per elaborazione mirata) una narrazione del passato di S. Pietro in Ciel d’Oro
che integra, facendole sostanzialmente coincidere, fondazione liutprandea e deposito delle
reliquie di sant’Agostino, esenzione, prerogative vescovili e rapporti con Roma. Le
manipolazioni documentarie sembrano voler esaltare la coincidenza, e la incrementano
retrodatando la concessione degli episcopalia al capo del monastero, affinché «soli sancte
Romane et apostolice Ecclesie subditum habeatur».
È chiara la volontà di competere con l’episcopio, giocando tutte le carte disponibili,
compreso il prestigio − calato anche nella dimensione e nella rappresentazione
documentaria − derivante dalla custodia delle spoglie agostiniane, potente strumento di
concorrenza con la chiesa cattedrale nella definizione di spazi e riferimenti dell’identità
cittadina. Una carta forse giocata anche (ma, come si è visto, a questo riguardo disponiamo
di indizi meno consistenti, seppure riconoscibili) dal monastero di Senatore,
probabilmente su presupposti più deboli, e senza particolare successo: perché da un lato,
certamente sbiadito è il prestigio di Aureliano al cospetto di un Agostino (o di un Siro);
dall’altro, la fusione tra il ‘mito’ della fondazione e la traslazione delle reliquie ci è arrivata
in forma non compiuta e allusiva, sebbene comunque affidata (come per S. Pietro in Ciel
d’Oro) a un falso privilegio apostolico.
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