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In Costiera vi sono alcune opere del pittore Marco Pino da Siena, ma tra queste, una

che gode della maggior certezza dell’attribuzione, da parte dei critici d’arte, benché non
firmata né documentata, riproducente la “Crocifissione”, è nella chiesa dell’omonima
frazione di Maiori, Santa Maria delle Grazie (foto) che fa pendant con quella presente su
capo altare della Basilica di Minori.
Marco Pino pittore, architetto e letterato, (Siena 1521- Napoli 1583), fu allievo di
Domenico Beccafumi e collaboratore di Perin Del Vaga, allievo di Raffaello, e di Daniele
da Volterra, allievo di Michelangelo Buonarroti.
Con lo studio delle opere dei citati maestri ed, in particolare, di quest’ultimo, il pittore
senese ebbe modo di identificare le sue opere con la “grazia e furia” che i personaggi
dipinti mostravano… di moversi, il che chiamano i pittori, furia della figura. E per
rappresentare questo moto non vi è forma più accomodata che quella de la fiamma
de foco, la quale, secondo che dicono Aristotele e tutti i filosofi è l’elemento più
attivo di tutti”.E questo moto caratterizza la sua pittura.
Nel 1557 il senese si stabilì a Napoli dove, maggiormente e fino alla sua morte, condusse,
anche con l’apporto della sua bottega, l’ attività pittorica che esplicò in riproduzioni di
opere relative alla vita di Gesù, e, successivamente, dal 1570 dopo un temporaneo
soggiorno di qualche anno a Roma, con una serie di “Crocifissione” nelle quali il livello
della commozione e del dolore diventano, assolutamente, evidenti trasparendo dalla
delicatezza dei visi e dall’atteggiarsi “furioso” delle figure, raggiungendo un equilibrio che
concretizza la devozione pietosa, mai finendo in disperazione, proprio nel rispetto delle
norme della Controriforma, a seguito del Concilio di Trento (1545-1562). Chi osserva deve
tendere verso il divino lasciandosi suggestionare dalla suddetta “furia” delle figure,
ottenuta dalle torsioni della Vergine e del Cristo, figure allungate, e dalla contorsione della
Maddalena, ripiegata su se stessa, che nell’insieme crea un movimento ascendente
vorticoso accentuato, oltretutto, dal cangiantismo dei colori.
Mutevolezza cromatica che osserviamo nelle vesti che, pur con le pieghe, non hanno
movimento ma, ampie, mostrano la figura piramidale e serpentinata che deve rispondere
agli insegnamenti ricevuti dal maestro Michelangelo e ai canoni imposti all’arte dalla
Chiesa.
L’ opera, oggetto della nostra osservazione, quasi certamente, fu commissionata al
maestro senese dalla nobile famiglia De Ponte, che in Napoli aveva eretto la chiesa di s.
Maria Maggiore e che, secondo lo storico maiorese Luigi Staibano, era titolare di una
cappella all’interno della chiesa di s. Maria delle Grazie, in Maiori, difatti nell’opera
“Raccolta di memorie storiche di Maiori- 1853” riporta che il nobile Roberto de Ponte nel
1562 legava all’altare del Ss. Crocifisso, altare di famiglia, tarì 6 per messe.
Ma si vuole considerare l’ opera per quello che rappresenta, per cui, oltre al Cristo morto,
deducibile dalla ferita provocata dalla lancia visibile al fianco dx del Cristo, riportato nel
vangelo secondo Giovanni c. 19 vv. 33-35 , si osserva l’affiliazione dell’umanità intera alla
Madre di Dio, evento avutosi sul Golgota, detto cranio, e descritto, succintamente, nello
stesso passo del Vangelo ai vv. 25-27.
Osservando i dolenti posti alla base della Croce, la Madonna con san Giovanni e santa
Maddalena, ci accorgiamo che ad accettare l’affiliazione è il “figlio” Giovanni, che accoglie
Maria come madre, mentre la Madonna col viso poggiante sulla mano aperta è in
angoscia, in dolorosa attesa…della Resurrezione(?).
Il Crocifisso, sia per l’ immagine sia per la postura, è uguale in tutte le redazioni, proprio
come se fosse stato utilizzato un medesimo cartone con contorni e tinti di nero: corpo
atletico e vigoroso, con anatomia elegante e giovanile, morto però, per cui il Cristo,
rappresentato contemporaneamente come Dio-Uomo, col capo reclinante alla sua dx, le
dita rattrappite, il sangue a stella, particolarmente, sul piede dx e il velo trasparente che,
raddoppiato, copre le intimità, accentua il pathos e la sofferenza che si riverbera
nell’osservatore che dalla scena deve trarre il sentimento di devozione e l’insegnamento.
Vi è una raffigurazione a forma di calice composto dal Cristo e i dolenti, con interscambio
visivo a triangolo lasciando, comunque il personaggio, la Madonna, oggetto
dell’argomento dei versetti, all’esterno dell’evento.
Maria Maddalena, abbigliata con indumenti più ricercati rispetto alle altre figure, col viso
tondo, labbra dischiuse e capelli lunghi con riccioli biondi e scarmigliati, rappresenta
l’umanità che, peccatrice, si redime nella sofferenza, esteriorizzata dall’abbraccio della
croce, sottomissione in un cordoglio nel quale riconosciamo il rito mediterraneo del pianto
funebre, mitigato dall’ elevazione a Dio mediante lo sguardo rivolto al Cristo morto, e
questa “furia” è strumento per il pieno affrancamento dal peccato.
E la santa, dopo il 1569, avrà lo stesso viso in tutte le opere del Senese, ovunque essa
fosse rappresentata, tanto da poter fantasticare con il rimembrar la “Maddalena” del
Tiziano, opera che è nel Museo di Capodimonte in Napoli e che Marco Pino avrà visto,
osservato e studiato nel secondo soggiorno romano (1568-70) presso la casa del
cardinale Alessandro Farnese, al quale il pittore veneto l’aveva inviata nel 1567, benché
fosse stata dipinta nel 1550.
La presenza degli angeli, recuperati da vecchie iconografie gotiche, tratta a modello da
un’opera del Michelangelo, serve a completare la forma del calice, simbolo della
Redenzione, e a colmare un vuoto scenografico, non voluto, composto con le striature
delle nuvole tenebrose squarciate nell’infinito, in fondo al paesaggio, appena accennato in
un’architettura fiamminga, da una luce rosea, elemento della natura che avvicina il creato
alla grazia e alla natura del divino.
Gli angeli, al contrario degli adolescenti presenti nella stessa opera di S. Giovanni ai
fiorentini, in Napoli, sono rappresentati come puttini classici, asessuati con ali e veli
svolazzanti bicolori (rosa-azzurro) e in una posa di adorazione e preghiera e poco inclini al
dialogo cogli osservatori.
Chi osserva deve tendere verso il divino lasciandosi suggestionare dalla suddetta “furia”
delle figure, ottenuta dalle torsioni della Vergine e del Cristo, figure allungate, e dalla
contorsione della Maddalena, ripiegata su se stessa, che nell’insieme crea un movimento
ascendente vorticoso accentuato, oltretutto, dal cangiantismo dei colori.
Mutevolezza cromatica che osserviamo nelle vesti che, pur con le pieghe, non hanno
movimento ma, ampie, mostrano la figura piramidale e serpentinata che deve rispondere
agli insegnamenti ricevuti dal maestro Michelangelo e ai canoni imposti all’arte dalla
Chiesa.
Quest’ opera, secondo la critica, ha avuto l’apporto della bottega e a conferma di ciò si
prende atto della malformazione, la podagra, che nell’ultimo decennio di vita attanagliò il
nostro,limitandone i movimenti, delle troppe richieste di commissioni ricevute e della
riproposizione del repertorio delle sue formule figurative anche con l’utilizzo del
consolidato uso dei cartoni, standardizzando le composizioni soggette a poche varianti.
Ma questa collaborazione che sicuramente avrà portato a corpi più rinsecchiti, ad una
maggior approssimazione delle figure e all’utilizzo di accorgimenti a coprire lacune
artistiche, non depaupera l’ opera che, comunque, è da considerare patrimonio della
nostra tradizione religiosa e pittorica ed in quanto tale necessaria di maggiore
valorizzazione e tutela se non anche di un novello restauro.
Enzo Mammato

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