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ROBERTO MARRAS

CORSO ABILITANTE - CLASSE A052


GENNAIO 2002

LA CONCEZIONE DELLA MORTE IN LUCREZIO, SENECA,


PLATONE E MARCO AURELIO

ISTITUTO D’ISTRUZIONE SUPERIORE


I.S. COMMERCIALE “ VITTORIO EMANUELE II - RUFFINI “

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IMPOSTAZIONI DELL’UNITÀ DIDATTICA

Titolo
La concezione della morte in Lucrezio, Seneca, Platone e
Marco Aurelio

Obiettivo educativo
Riflettere sul diverso approccio nei confronti del problema
della morte di quattro grandi pensatori dell’antichità di
diversa epoca, condizione socio-politica e cultura e
confrontarlo con il proprio e quello della propria epoca e
cultura

Obiettivi metodologici
1. acquisire l'abilità di ricerca di fonti e documenti
2. potenziare le capacità di leggere ed interpretare
criticamente i documenti
3. sviluppare la capacità di stabilire relazioni ed inferenze fra
fonti diverse
4. acquisire la consapevolezza dello spessore culturale del
problema della morte affrontato a vari liveli (etnologico,
filosofico, teologico, letterario, ecc.)

Obiettivi cognitivi disciplinari


1. potenziare le capacità di traduzione

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2. acquisire l'abilità di interpretare e collegare criticamente i
testi
3. acquisire l'abilità di confrontare le diverse strutture e i
diversi registri linguistici
4. approfondire la conoscenza di alcuni dei momenti cruciali
del pensiero sul rapporto fra l'individuo e/o la collettività e
l’inevitabilità della morte

Proposte di lavoro
1. Contestualizzazione dei documenti da parte dei gruppi di
lavoro
2. Individuazione negli stessi dei seguenti spunti:
a. La morte come concetto correlativo rispetto alla vita
(morte/vita)
b. La morte come consolazione rispetto alla vita
(intesa quest’ultima come carcere, privazione, dolore,
sofferenza)
c. La morte come liberazione rispetto alla vita (quindi
la morte come vera vita)
3. Traduzione dei passi scelti

Destinatari
Alunni di III Liceo Classico

Fonti e strumenti

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Fonti in edizione critica, documenti specifici di vario tipo (libri
di testo, enciclopedie, saggi, riviste, repertori bibliografici,
cataloghi cartacei o informatizzati)

Reperimento
Biblioteche
Internet

Metodologia di lavoro
Lezione frontale
Lavori di gruppo

Tempi
Cinque ore di lezione, una dedicata a una lezione frontale
introduttiva da parte del docente, le altre quattro
all’esposizione orale dei lavori di gruppo degli alunni (4 gruppi
per ciascun autore oggetto di studio)

Verifiche
In itinere, durante lo svolgimento del lavoro

Possibilità di raccordi interdisciplinari


Letteratura, Filosofia, Storia dell’arte
a. La meditatio mortis come tappa fondamentale del
pensiero di tutti i tempi: esempi a scelta: Omero,
Mimnermo, Anacreonte, Sofocle, Euripide, Virgilio, Antico

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e Nuovo Testamento, Luciano, Foscolo, Leopardi,
Manzoni
b. Il corpo tomba dell'anima dall’Orfismo e dal Pitagorismo
a Platone. Confronto con il De contemptu mundi di
Giovanni Lotario De’ Segni (papa Innocenzo III)
c. L’influenza dei più recenti studi antropologici sugli studi
della morte nella cultura occidentale (cfr. i lavori di
Morin, Fuchs, Thomas, Baudrillard, Ariès)
d. Il dibattito sull’eutanasia
e. Esempi di immagini della peste nella tradizione letteraria
occidentale: Lucrezio, Boccaccio, Manzoni, Camus
f. La Consolatio philosophiae da Platone a Severino Boezio
g. L’arte come trasfigurazione della morte: esempi a scelta

Fonti e documenti
LUCREZIO CARO, TITO, De rerum natura
SENECA, LUCIO ANNEO, Epistulae ad Lucilium
PLATONE, 
MARCO AURELIO, 
OMERO, Iliade, Odissea, versione di Rosa Calzecchi Onesti
VIRGILIO, Eneide, versione di Rosa Calzecchi Onesti
Enciclopedia Garzanti di filosofia, Milano 19932.
Enciclopedia multimediale Rizzoli Larousse
PERROTTA, GENTILI, Polinnia
CANFORA, Storia della letteratura greca
FERRONI, Storia della letteratura italiana

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www.geocities.com/diego_fusaro_2000/filos.html
www.epicuro.org
plato-dialogues.org/plato.htm
www.emsf.rai.it

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INTRODUZIONE

Il confronto tra questi quattro grandi del passato in relazione


alla concezione della morte si rivela particolarmente fertile nel
momento in cui offre spunti tali di riflessione che possiamo
classificare in questo senso.
a) La morte come concetto correlativo rispetto alla vita
(morte/vita)
b) La morte come consolazione rispetto alla vita (intesa
quest’ultima come carcere, privazione, dolore, sofferenza)
c) La morte come liberazione rispetto alla vita (quindi la
morte come vera vita)
Comune denominatore della concezione dei quattro autori è
sicuramente il superamento della paura della morte, atavico
terrore da sconfiggere con l’aiuto della ragione, ovvero con il
“muro inespugnabile” della filosofia, leggasi la capacità
appresa con lo studio, la pratica e la meditazione, di “saper
vivere bene per bene morire”.
Allora, addirittura, la morte può, in tempi e in circostanze di
vita sgradevoli e inaccettabili, essere sentita e auspicata
come consolazione e come liberazione, laddove
probabilmente Lucrezio e sicuramente Seneca (senza
dimenticare il coevo Petronio) furono anche esempi concreti di
ciò.
Erano certo cambiati i tempi, sul piano antropologico, da
quando Omero (Odissea, XI, cfr. Virgilio, Eneide VI, specie

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riguardo al più triste destino delle anime dei morti insepolti)
descriveva nell’Erebo “le anime travolte da morte”: non
importa se in vita erano state di esseri umani malvagi o buoni,
laggiù soffrivano la pena più orrenda, che vendicavano sui
vivi, se non placate col sangue dei sacrifici. Dice ad Odisseo
l’anima di Achille:




Vorrei esser bifolco, servire un padrone, / un diseredato, che
non avesse ricchezza, / piuttosto che dominare su tutte
l’ombre consunte
(Odissea, XI 489-91, trad. Rosa Calzecchi Onesti).
Altrettanta bruciante nostalgia della vita, esaltata nell’età
giovanile, è vivida in Mimnermo, nella famosa elegia del
paragone degli uomini con le foglie, di derivazione omerica
peraltro (cfr. Il. 6, 146 sgg.), senonché in Mimnermo è usato a
caratterizzare l’umana esistenza, piuttosto che il succedersi
ininterrotto delle generazioni degli uomini.
Impressionante l’immagine delle
 (v. 5), anch’essa di
ascendenza omerica (cfr. Il. 11, 332), nere in antitesi ai raggi
luminosi del sole; significativo poi il riferimento alla mancanza
di figli o eredi che potrebbero, con il loro aiuto, rendere meno
gravosa la vecchiaia (cfr. Euripide, Alc. 662 sgg.): l’estinguersi

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della stirpe, del seme, come tuttora in tante società “altre”,
era una grande calamità, una vera e propria maledizione.
Rivoluzionario invece il richiamo alla malattia
 in quanto carattere della vecchiaia, per
cui è meglio morire che vivere, una volta superata l’età della
giovinezza (cfr. Leopardi, L’ultimo canto di Saffo: ogni più lieto
/ giorno di nostra età primo s’invola, / sottentra il morbo, e la
vecchiezza e l’ombra / della gelida morte): è un distacco dalla
tradizione e dalla religiosità omerica auspicare la pur “nera
morte” piutosto che vivere la tenebrosa vecchiaia. Per questo
si attirerà la protesta di Solone (cfr. Diog. Laert. 1, 60 vv.1-4
et alii), che con serena saggezza pensava che anche dopo
l’età dell’amore la vita poteva offrire all’uomo le sue gioie e la
vecchiaia e la morte erano ineluttabili necessità della natura
umana. Sofocle (O. C. 1235 sgg.), invece, non diversamente
da Mimnermo, giudicò sventura suprema la vecchiaia perché
priva d’amore e colma di mali.
Concezione di nuovo “omerica” rispetto ai precedenti esprime
Anacreonte (cfr. Stob.  IV 51, 12), che
rimpiange la giovinezza perduta, lamenta il suo decadimento
fisico di vecchio, tuttavia non desidera la morte come
liberazione dai mali della vecchiaia, anzi la morte gli fa paura
e può solo accettarla come un episodio naturale senza
rimedio. Il suo amore per la vita, permeato dal dionisismo
della società del suo tempo, la vitale società dei tiranni, era

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troppo forte per non dare un senso all’esistenza umana: il
potere dell’amore e dell’arte.
Il tema della morte, anche se con soluzioni ideali diverse
conformi alle diverse situazioni sociali e storiche, fu quindi
comune alla cultura della Grecia arcaica, la quale pose al
centro dei suoi interessi il problema dell’uomo, il senso della
vita e il piacere di viverla, secondo i principi della religiosità
tradizionale, che trova ancora tante somiglianze nelle società
cosiddette “primitive”.
Saranno i sofisti e principalmente Socrate a scardinare tali
principi e ad introdurre prepotentemente la ragione come
valore sovvertitore delle tradizioni religiose, della mentalità e
delle superstizioni del passato, anche in relazione alla morte.
Fu la porta aperta verso Platone (e più tardi i neoplatonici),
Epicuro e l’epicureismo, Aristotele, lo stoicismo, il
neopitagorismo, infine il cristianesimo.
Già nel libro deuterocanonico della Sapienza, scritto in greco
da un ignoto ebreo di Alessandria fra il 120 e l'80 a.C., si
tratta del destino ultraterreno dell'umanità che consiste, per i
giusti, nella partecipazione alla sapienza, all'immortalità e alla
giustizia divina e, per gli empi, nei castighi, presentando
quindi con sicurezza già cristiana il problema dell'aldilà, tant’è
vero che è considerato l'ultimo libro dell'Antico Testamento
scritto prima di Gesù Cristo.
Nel Nuovo Testamento sarà ancora meglio delineata la
concezione di “passaggio” ad altra vita, il Paradiso per le

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anime beate, l’Inferno per quelle dannate (è noto che il
Purgatorio è articolo di fede solo della Chiesa cattolica e solo a
partire dal II concilio di Lione del 1274), laddove nel Medioevo
si giunse a concezioni estremiste e, oggi diremmo,
fondamentaliste, come quella del De contemptu mundi di
Giovanni Lotario De’ Segni (più tardi papa Innocenzo III),
secondo cui la vera vita è dopo la morte, presso Dio, mentre
la vita terrena è una transizione nelle tenebre del peccato, da
superare con penitenze e seguendo ferreamente i principi
dell’unica verità, quella della Chiesa, naturalmente. È da
notare l’affinità di questo tipo di concezione con quelle del
manicheismo più estremo e delle religioni da esso derivate,
come il catarismo, contro cui, curiosamente, proprio
Innocenzo III bandì una feroce crociata, nonché con quella
degli odierni tristi martiri musulmani, che, in nome di Allah,
sacrificano la propria vita in tremendi atti terroristici.
Non può non venire alla mente nemmeno il richiamo alla tesi
del corpo tomba dell'anima dell’Orfismo e del Pitagorismo,
discussa da Platone (cfr. infra), la quale è tra i sicuri antenati
di questa visione estrema.
Nel corso dei secoli la concezione cristiana della morte ha
naturalmente vissuto varie interpretazioni e negazioni, di cui
ci sembrano interessanti alcune.
Nel carme Dei Sepolcri di Foscolo, che, per suggestione
goethiana, nell’Ortis, aveva esaltato il suicidio, troviamo l’idea
tra il neoclassico e il romantico di un culto delle tombe,

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“illusione” per i vivi di una “corrispondenza di amorosi sensi”
con i defunti, in cui si riconoscerebbe la virtù autentica, che
distingue gli spiriti superiori da quelli volgari e indegni. Questa
soluzione di compromesso tra una sincera concezione
materialista del nulla dopo la morte con quella cristiana
voleva servire al poeta per donare all’Italia un mito, secondo
l’insegnamento vichiano, funzionale all’inaugurazione della
civiltà e della società italiana grazie alla salvaguardia della
continuità storica, raccordo tra il presente e il passato glorioso
e quindi annuncio di un futuro.
Manzoni, nell’Adelchi, sovrappone ai dati storici più intensi
elementi morali e “patetici” di sapore cristiano, come la
sconfitta degli eroi “puri” Ermengarda e Adelchi. Per la prima,
la morte è rappresentata come “provvida / sventura” che la
colloca tra gli “oppressi”, riscattandola dalla colpa non sua di
appartenere alla stirpe degli oppressori. Il sevondo è descritto
addirittura come novello Cristo tradito da Giuda (i duchi
longobardi sobillati da Svarto).
È degli ultimi decenni una serie di studi sul problema della
morte nella cultura occidentale soprattutto di studiosi francesi
influenzati dall’antropologia, i quali, una volta superata (sia
pure in parte) la concezione cristiana di un “passaggio” ad
altra vita, hanno piuttosto messo in luce aspetti di rimozione e
allontanamento o, al contrario, motivi di speranza in una
rianimazione futura grazie alle conquiste della scienza, come
è il caso dell’ibernazione già praticata negli Stati Uniti. Si

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possono citare, tra gli altri, Edgar Morin (L’uomo e la morte,
1951), W. Fuchs (le immagini della morte nella società
moderna, 1969), L.V. Thomas (Antropologia della morte,
1975), Jean Baudrillard (Lo scambio simbolico e la morte,
1976), P. Ariès (L’uomo davanti alla morte, 1977).
Hans Georg Gadamer, in un intervista rilasciata nel 1991, ha
sostenuto che tutte le religioni sono una risposta dell'uomo
all'angoscia della morte e dell'umana finitezza: per questo la
filosofia non può ignorare questo tema. In tal senso Sisifo,
interpretato non tanto come l'eroe dell'attivismo e
dell'iniziativa, ma come colui che tenta di aggirare la morte,
secondo Gadamer, rappresenta la temerarietà della cultura
odierna che prolunga artificiosamente la vita e il suo
innaturale tormento e tenta di esorcizzare la morte con
simbologie e riti nuovi e soprattutto con una sorta di
ottimismo pragmatico che "sterilizza" il morire, che, al
contrario, secondo Gadamer e secondo l’insegnamento della
filosofia antica, deve essere sopportato e interpretato come
un compito della vita. A proposito dei moderni metodi
terapeutici che si accaniscono nel prolungare il corso
dell'esistenza, Gadamer rivendica un diritto alla morte,
accanto al diritto alla vita. Se sono legittime delle etiche
speciali o delle etiche professionali, secondo il filosofo
tedesco, è difficile immaginare un'etica generale, la quale
esige una coscienza etica universale oggi inconcepibile di
fronte alle diverse culture e ai diversi gruppi di interesse. Tale

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rifessione rimanda decisamente all’attualissimo dibattito
sull’eutanasia, già “affrontato” da Lucrezio e e Seneca.
Hugo Tristram von Engelhardt jr., nel suo Manuale di bioetica,
ha affermato che se la vita non è sempre meglio della morte,
può essere benefico anticipare la morte, invece di lasciare che
“la natura faccia il suo corso”. Ciò sarebbe vero anche quando
la morte non è una libera scelta, fatta personalmente o
mediante una direttiva anticipata dell'individuo che sta
morendo. Se non vi è differenza di principio fra volere
intenzionalmente la morte di qualcuno e limitarsi a
permetterla, non vi sarà alcun impedimento morale assoluto
contro l'anticipazione della morte, una volta che si sia deciso
che il prolungamento della vita sarebbe dannoso. Ma,
considerato il diffuso rifiuto del suicidio assistito e
dell'eutanasia nella nostra cultura, l'onere della prova di
dimostrare tale consenso ipotetico è davvero assai pesante.
Ronald Dworkin, ne ll dominio della vita. Aborto, eutanasia e
libertà individuale, nota come, se sia nel migliore interesse dei
singoli che la vita si concluda in un modo anziché in un altro,
ciò dipende in modo stretto dalle particolarità di quei singoli,
per cui nessuna decisione collettiva uniforme potrà mai
sperare di promuovere adeguatamente gli interessi di una
persona. Lo Stato, quindi, non deve imporre alcuna
concezione generale attraverso la sovranità della legge, ma
piuttosto incoraggiare le persone a dare esse stesse
disposizioni meglio che possono per la loro assistenza futura,

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e perché, in assenza di queste disposizioni, la legge, nei limiti
del possibile, lasci la decisione nelle mani dei loro familiari o di
altre persone intime, il cui senso del loro migliore interesse è
probabilmente molto più corretto di un giudizio teorico e
astratto concepito nelle stanze segrete, tra manovre di
interesse e transazioni politiche.
Il dibattito sull’eutanasia, a cui ci ha introdotto la riflessione
sulla concezione della morte in quattro grandi antichi, è stato
recentemente rilanciato con gran clamore in Italia da Indro
Montanelli, poco prima di morire nel luglio scorso. È
interessante notare come il progresso tecnologico della nostra
società ci abbia ricondotto, in fondo, a questioni di oltre
duemila anni orsono, il tempo dell’affermazione della
concezione cristiana.

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LUCREZIO

Vita e opere
Ben poco sappiamo della vita di Lucrezio, se non che visse
nella prima metà del I secolo a.C. (la data di la nascita oscilla
fra il 98 e il 94 e quella di morte tra il 54 e il 50).
Secondo la Cronaca di San Girolamo si suicidò a
quarantaquattro anni. Non conosciamo né il suo luogo di
nascita (Pompei?) né la condizione sociale né sappiamo quale
sia stata la sua formazione culturale né se abbia partecipato
direttamente o no alle vicende contemporanee.
La notizia (riportata sempre da San Girolamo) che fosse
impazzito per un filtro d'amore è considerata indegna di fede
dagli studiosi. Secondo la stessa notizia avrebbe composto
parte della sua unica opera, il De rerum natura (Il mondo della
natura), nei momenti di lucidità mentale.
Solo dal poema possiamo ricavare elementi certi che ci
illuminino sulla sua figura. Tra questi, il rapporto con Caio
Memmio, giovane patrizio, genero di Silla, del quale sappiamo
che come tribuno della plebe nel 66 a.C. si oppose alla
concessione del trionfo a Lucullo e come pretore nel 58
osteggiò Cesare. L'anno successivo, recatosi in qualità di
propretore in Bitinia, ebbe al suo seguito Catullo ed Elvio
Cinna. Fu coinvolto nei torbidi elettorali del 54-53 e si ritirò in
esilio ad Atene, rientrando in Italia nel 49. Fu anche
apprezzato oratore e poeta, appartenente alla scuola dei
poetae novi. A lui è dedicato il poema. Il tono rispettoso con

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cui il poeta gli si rivolge non fa però capire se era un'amicizia
fra pari, o se Lucrezio si trovava in una condizione di
inferiorità e Memmio era il suo patrono.
Cicerone lesse il poema di Lucrezio, composto, probabilmente,
tra il 60 e il 55 a.C. senza che l'autore potesse darvi l'ultima
mano, e ne diede, in una lettera al fratello del febbraio 54
a.C., un giudizio positivo; secondo alcune testimonianze ne fu
addirittura l'editore.
Virgilio, Orazio e Ovidio mostrano nella propria opera di
conoscerlo e apprezzarlo, ma sono tutti troppo giovani per
averlo conosciuto di persona. Peraltro solo Ovidio, fra i tre, lo
nomina direttamente profetizzando fama eterna alla sua
poesia (“I carmi del sublime Lucrezio periranno solo quando la
terra stessa perirà”, Amores, I 15,23-24).
Il De rerum natura, che rientra nel genere didascalico per il
contenuto filosofico, è un poema in sei libri in cui è esposta la
dottrina materialistica di Epicuro sulla natura del mondo e
degli uomini (la sua fonte principale deve essere stata proprio
la più importante opera, perduta, del filosofo greco, i 37 libri
 , di cui ci dà notizia Diogene Laerzio).
L'opera, il cui proemio si apre con una splendida quanto
controversa invocazione a Venere Genitrice e con
l'appassionato impegno di liberare gli animi umani dalle
superstizioni ataviche, nella visione razionale del vero,
dimostra come nulla in natura nasce dal nulla (nihil ex nihilo)
e che i corpi tutti si formano e si dissolvono per un processo di

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aggregazione e di disgregazione di atomi moventisi nel vuoto.
Nell'infinità della materia e dello spazio opera, come principio
determinante di vita e di morte, un ferreo meccanicismo,
temperato da una spontanea deviazione (clinamen,
traduzione latina della parola greca  )
delle particelle primordiali dalla linea verticale di caduta, che
permette il libero arbitrio (libri I -II). Nell'uomo esiste un
animus, o mente, che ha sede nel petto con funzione
egemonica, e un'anima, forza vitale, diffusa per ogni dove nel
corpo. Entrambi sono mortali e non soggetti a una
sopravvivenza ultraterrena. Ogni conoscenza avviene per via
di sensazioni che, suscitate da sottilissime membrane
(simulacra rerum, in greco ) emanate dalle
cose, vengono trasmesse all'intelletto (libri III -IV). La
creazione del mondo non è opera degli dei, che vivono sereni
negli intermundia nel completo disinteresse delle vicende
umane, ma delle innumerevoli combinazioni di atomi
raggruppantisi secondo forma e peso, e si è compiuta per
lenta e progressiva evoluzione; così pure l'origine delle
comunità civili e del loro graduale sviluppo non è dovuta a
una provvidenza divina, ma al principio dell'utilità e
dell'esperienza, suggerita dalla pratica quotidiana. I
cataclismi, non diversamente dai fenomeni cosmici, accadono
per legge naturale e non per intervento degli dei e tanto meno
costituiscono un loro terribile mezzo per punire i mortali. Di
siffatta origine fu anche la memorabile peste di Atene del 430-

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429 a.C., la cui descrizione chiude il poema con una
sconsolata visione di orrore e di morte (libri V –VI; cfr. la
letterarietà dell’immagine di morte provocata dalla peste in
altri posteriori autori famosi quali Boccaccio, Manzoni e
Camus).
Pur senza elementi dottrinali originali, il poema è fortemente
segnato dalla personalità umana e poetica dell’autore: filtrato
attraverso la psicologia lucreziana, il pensiero di Epicuro,
celebrato come colui che ha liberato gli uomini dal timore
degli dei, della vita futura e della morte, assume accenti in cui
l’ansia di liberazione si fonde con l’angoscia per la condizione
umana e con note di drammatico pessimismo.
Nel proemio Lucrezio esprime l'augurio di un periodo di pace
per Roma, perché in un patriai tempore iniquo non sarebbe in
animo di comporre il suo poema.
Questa osservazione denuncia l'esperienza della crisi della
repubblica romana nella prima metà del I secolo a.C.: non
c'erano più potenze nemiche esterne, la cui minaccia aveva
soffocato precedentemente i contrasti interni, perciò le
contraddizioni erano esplose. Prima la guerra civile fra Mario e
Silla, poi la rivolta dei gladiatori capeggiata da Spartaco, che
si trasformò in una guerra di schiavi che infiammò l'Italia
meridionale, mentre in Spagna si ribellava Sertorio e in
Oriente la durezza del dominio romano favoriva l’annosa
sollevazione del re del Ponto Mitridate.

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Inoltre, il malessere di Roma, in cui la ricchezza portava
corruzione da una parte e impoverimento dall'altra, si
manifestò con la congiura di Catilina prima e con la guerra fra
partiti poi, mentre Cesare era in Gallia e Pompeo al massimo
della potenza.
Lucrezio era un ragazzo al tempo della guerra fra Mario e Silla
e morì prima della guerra civile fra Cesare e Pompeo, ma ebbe
tempo di sperimentare il clima di incertezza e di crisi dei valori
tradizionali, che avrebbe portato alla fine della repubblica e
alla formazione dell'Impero.
In questo clima, col venir meno dei punti di riferimento
istituzionali, si cercava rifugio, a seconda dei casi, nella
filosofia, nelle religioni misteriche, nella superstizione.
Lucrezio scelse la filosofia e, prima che Cicerone
programmasse di trattare in lingua latina i problemi filosofici
discussi da Greci, cercò nella dottrina epicurea lo strumento
per liberare l'anima dell'uomo dalle paure e dai turbamenti
fisici e morali. Tale acuta sollecitudine via via si allargò fino
all'angosciata considerazione della misera sorte dell'umanità,
che ha, come conseguenza immediata, un vero e proprio
ardore messianico, in un intento pratico schiettamente
romano, di dare ai suoi concittadini, non meno che ai mortali
tutti, la possibilità di riscattarsi da quanto opprime la loro
esistenza e di renderla tranquilla e serena. Mezzo miracoloso
quindi appare all'autore la dottrina epicurea, che offre una
spiegazione razionale della natura del mondo e degli uomini,

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ad eliminare appunto il timore degli dei, della morte e ogni
sorta di credenze superstiziose sull'aldilà.
Strumento persuasivo della sua missione gli si presenta la
poesia: superando la patrii sermonis egestas, creò nell'ambito
di uno scrupoloso purismo il linguaggio vivo ed espressivo per
una materia arida e pregna di termini tecnici e a essa infuse
tutta la sua sensibilità, ricca di passioni e sostenuta da una
fantasia eccezionale, dandole vita, grandezza e splendore. E
questa mirabile capacità creativa si manifesta non solo nelle
digressioni e negli episodi, ma anche nella trattazione di
motivi strettamente scientifici o filosofici, meravigliosamente
illuminata da notazioni sentimentali e umane.
Con la forte suggestione dell'arte della parola congiunta al
rigore dialettico, induce negli animi la fede ottimistica in
Epicuro: Ille deus fuit ... genus humanum ingenio superavit, et
omnis restinxit, stellas exortus ut aetherius sol. Celebra il suo
Verbo che, sostenuto dalle conquiste del materialismo,
razionalmente presume di superare con dogmi risolutivi il
male di una realtà soggettivamente sentita con desolante
pessimismo come intessuta di dolore e di colpe in fatale
dissoluzione.
Conclusione quanto mai significativa sembra il suicidio: i suoi
concittadini piuttosto che al piacere calcolato e al “vivi
nascosto” ( ) di Epicuro si stavano
orientando verso una ricerca affannosa del piacere e del
protagonismo: “vivi l’istante”, il carpe diem oraziano.

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Il De rerum natura è una delle opere più ricche di pensiero e
di arte, non solo della letteratura romana, ma di ogni tempo.
La notevole fortuna che ebbe subito dopo la pubblicazione si
prolungò fino al VI sec. d.C., per cessare all'avvento del
medioevo. Riprese, quindi, durante l'Umanesimo, quando
Poggio Bracciolini ne scoprì, forse a Fulda, un codice nel 1417.
Poi, seguire l’influenza di Lucrezio dal ‘500 in poi,
significherebbe toccare molta parte della più grande cultura
europea: fonte essenziale per la conoscenza dell’epicureismo,
influì sulla concezione della natura in Giordano Bruno
(pluralità e infinità dei mondi), fu alla base dell’atomismo da
Pierre Gassendi in poi, ispirò, pur senza una funzione centrale,
il materialismo del ‘700 e della seconda metà dell’’800. Una
fortuna notevole ebbe il quadro dell’umanità ferina tracciato
da Lucrezio nel libro V del poema: esso suscitò forti reazioni
nei difensori della tradizione biblica, ma se la sua incidenza
non è chiara in Hobbes, è evidente in Giambattista Vico.
Infine, Lucrezio è stato sentito, in varie epoche, come
difensore della libertà della ragione contro il fanatismo
religioso, per esempio da Voltaire.
La morte in Lucrezio

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

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

Il più terrorizzante dei mali, dunque, la morte, non è nulla per
noi, perché quando ci siamo noi la morte non c'é, quando c'è
la morte non ci siamo noi.
Lettera a Meneceo, 125
Come appare chiaro da questo famoso passo di Epicuro,
Lucrezio, appassionato assertore della sua dottrina, non
poteva stravolgerne il messaggio, come dimostrano i versi: nil
igitur mors est ad nos neque pertinet hilum, / quandoquidem
natura animi mortalis habetur (“Nulla dunque la morte è per
noi, né ci riguarda punto, dal momento che la natura
dell'animo è conosciuta mortale”, III 830-1).
Certo la personalità dell’autore latino, rispetto al maestro
greco, ci pare decisamente differente. La sua opera ne mostra
un temperamento solitario e malinconico, sdegnoso nei
confronti della politica e della vita mondana, portando agli
estremi il  del maestro, tant’è vero che
la sua opera è postuma. Se poi la sua morte sia stata
conseguenza delle patite delusioni amorose e dello stato
pietoso della sua salute, come vuole la tradizione, oppure se
egli, che in tutto il poema condannò il timore della morte,
abbia voluto dimostrare che parlava sul serio, o, ancora, se
abbia ceduto alla disperazione per non essere riuscito ad
affermare tra i contemporanei la filosofia epicurea o non sia
riuscito a trovare in essa la serenità e il conforto che tanto

23
affannosamente vi aveva cercato, non lo potremo mai
affermare con certezza.
È stata da tempo operato un confronto tra la sua personalità e
quella del Leopardi: per Carducci, per esempio, "Leopardi è il
Lucrezio del pensiero italiano". Ci sembra interessante darne
un’interpretazione.
Anche Leopardi, pensò di comporre un'opera sulla natura delle
cose (in una lettera del 1829, egli promette a Pietro Colletta di
esporgli l'elenco dei suoi intenti: "Il trattato della natura degli
uomini e delle cose conterrebbe le questioni delle materie
astratte, dalle origini della ragione, dei destini dell'uomo, della
felicità e simili"). Abbiamo tracce ed elementi di una sintesi
compiuta del mondo materiale e morale nello Zibaldone,
corpus di osservazioni erudite e filosofiche.
Secondo i due, è la natura che ci tiene in pugno, disponendo
delle nostre vite. Rivolgersi alla natura significa, per l'uomo,
cercare di scoprire le regole del ludus che determinano il suo
destino.
A questo proposito, Leopardi, in Sopra un basso rilievo antico
sepolcrale dove una giovane morta è rappresentata in atto di
partire, accomiatandosi dai suoi, scrive:
Come, ahi come, o natura, il cor ti soffre
Di strappar dalle braccia
All’amico l’amico,
Al fratello il fratello,
La prole al genitore,

24
All’amante l’amore: e l’uno estinto,
L’altro in vita serbar? Come potesti
Far necessario in noi
Tanto dolor, che sopravviva amando
Al mortale il mortal?

Della natura Leopardi e Lucrezio hanno la stessa doppia


visione di essa, una che si ferma alla superficie e l'altra che va
più a fondo: quando vedono la natura coi soli occhi, nelle sue
attrattive esterne, se ne innamorano, ma poi ne scoprono le
nefandezze nascoste, e se ne sdegnano.
In Alla primavera o delle favole antiche Leopardi si richiama
evidentemente all'inno a Venus genetrix del I libro di Lucrezio.
In questi passi la natura è personificata, quasi a voler cercare
in essa un'entità dal quale ricevere le risposte alle eterne
domande.
Quando ne investigano a fondo i segreti paurosi, rivolgono
frequenti rimproveri alla natura matrigna: basti pensare alla
terribile requisitoria contro di essa nel Dialogo della Natura e
di un Islandese; anche in Lucrezio sono presenti questi
tormenti:
nequaquam nobis divinitus esse creatam
naturam mundi: tanta stat praedita culpa
"la natura del mondo non è stata per nulla creata dal volere
divino per noi: di così grande difetto essa è dotata" (II libro).

25
E ancora:
Quare mors immatura vagatur? "Perché immatura aleggia
intorno la morte?" (V libro).
Angoscia echeggiata in Leopardi, che ebbe impressione
dolorosissima della morte dei giovani: "Mio dolore in veder
morire i giovini come a vedere bastonare una vite carica di
uva immatura" (da: "Appunti e ricordi" - 1819 - in "Scritti
Vari").
Lucrezio insiste sull'ostilità della natura nei confronti
dell'uomo, con toni pessimistici che sembrano estranei
all'ottimismo razionalistico di Epicuro. Un’immagine del
neonato (cfr. V 195-234), che arriva alla vita nudo e indifeso
come un naufrago, sarà ripresa ancora da Leopardi.
Per i due poeti è quindi improbabile che l'uomo, dalla natura,
riesca a ricavare quelle risposte di cui ha bisogno (e questo
per incapacità degli esseri umani, che non sanno comunicare
con la natura, che invece è disposta a parlare con noi).
D'altronde, quando Leopardi arresta lo sguardo alle "amene
sembianze", si appaga del rapimento estetico della natura:
nella lettera del 6 Marzo 1820 a Pietro Giordani racconta
come, affacciatosi a contemplare una serena notte stellata,
domanda perdono alla natura, gridando e piangendo.
In un passo del "Tramonto della luna", Leopardi scrive:
Voi, collinette e piagge,
caduto lo splendor che all'occidente
in argento va della notte il velo,

26
orfane ancor gran tempo
non resterete, che dall'altra parte
tosto vedrete il cielo
imbiancar nuovamente, e sorger l'alba:
alla qual poscia, seguitando il sole,
e folgorando intorno
con sue fiamme possenti,
di lucidi torrenti
inonderà con voi gli eterei campi

Anche in tal caso il richiamo è a Lucrezio: quam subito soleat


sol ortus tempore tali / convestire sua perfundens omnia luce,
/ omnibus in promptu manifestumque esse videmus ("come
subitamente soglia il sole, sorto in quel momento, inondare e
vestire della sua luce tutte le cose, vediamo che a tutti è
prontamente percepibile e manifesto.", II 147-149), anche se
non manca un riferimento a Virgilio: Sol, qui terrarum flammis
opera omnia lustras ("O Sole, che con le tue fiamme tutte
l’opere illumini", Eneide, IV 607).
Un metodo adeguato di comunicazione con la natura Lucrezio
spera di averlo trovato nell'epicureismo: nilhi dulcius est bene
quam munita tenere / edita doctrina sapientium templa
serena ("nulla è più piacevole che star saldo sulle serene
regioni elevate, ben fortificate dalla dottrina dei sapienti,", II
libro, vv.23-24), ma alla fine prevale la morte, il suicidio.
In Leopardi nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia
la conclusione appare la medesima:

27
Se la vita è sventura,
Perché da noi si dura?
Lucrezio e Leopardi si può dire, dunque, che,
paradossalmente, hanno trovato nella morte un modo per
conoscere i segreti della vita, essendo morte e vita condizione
e ragione l'una dell'altra, nella loro perpetua alternanza.

SENECA

Vita e opere
Lucio Anneo Seneca nacque a Corduba, capitale della
provincia romana dell'Hispania Baetica, negli ultimi anni del I
sec. a.C. (tradizionalmente il 4 a.C.); la gens Annaea era di
rango equestre e il padre, Seneca il Retore, viene ricordato
nella storia letteraria come autore di controversiae e
suasoriae. Compì studi di retorica e filosofia a Roma: i suoi
maestri, per esempio il neopitagorico Sozione e gli stoici
Papirio e Attalo, lo orientarono ad un austero ideale ascetico,
di progressiva conquista di una piena libertà spirituale; tra di
essi gli fu particolarmente caro Attalo, frequentemente
ricordato nell'epistolario.
Fin da giovane non dovette godere di buona salute, tanto che,
terminati gli studi, si recò in Egitto per curare in un clima più
adatto un grave male da cui era affetto; sulla natura di questa
malattia c'è ancora incertezza tra gli studiosi. Nel 31 d.C.,
all'indomani della caduta di Seiano, crudele prefetto del

28
pretorio di Tiberio, tornò a Roma, deciso a dedicarsi alla
carriera forense e ad intraprendere la strada della politica: nel
38, quando era imperatore Caligola, ottenne la questura,
primo gradino del cursus honorum; in seguito ebbe accesso
alla corte imperiale ed ottenne grandi successi grazie alle sue
brillanti capacità oratorie, ma nel 39 - forse a causa di un
discorso inopportuno pronunciato alla presenza del princeps -
corse il rischio di essere condannato alla pena capitale:
Caligola lo risparmiò solo nella convinzione, suggeritagli da
una sua favorita, che sarebbe morto presto di consunzione.
Nel 41, dopo la presa di potere di Claudio, fu coinvolto nei
complessi intrighi di corte intessuti dall'imperatrice Messalina
(un'accusa di adulterio contro Giulia Livilla, sorella di Caligola,
in seguito fatta uccidere dallo zio Claudio) e relegato in
Corsica. Il forzato soggiorno in quella terra semideserta, senza
la speranza di un immediato ritorno, lo avviò definitivamente
alla riflessione filosofica: negli otto anni di permanenza in
quell'isola selvaggia si avvicinò allo stoicismo, ma effettuò
anche diversi tentativi per poter rientrare a Roma, tra i quali
l'invio di un'adulatoria consolatio al potentissimo Polibio,
liberto di Claudio, a cui era morto il fratello.
Soltanto dopo la condanna a morte di Messalina, implicata in
una congiura contro il consorte, Seneca venne richiamato
dall'esilio: la nuova imperatrice, Agrippina minore, vide in lui
l'ideale precettore del figlio di primo letto Domizio, il futuro
imperatore Nerone, che, adottato da Claudio, era destinato

29
alla successione per ragioni di maggiore età rispetto a
Britannico, figlio dello stesso Claudio e di Messalina.
Impegnatosi a fondo nell’insegnamento, Seneca si illuse di
poter educare il suo allievo ai valori dell'humanitas e della
tolleranza, indicandogli la figura di Augusto come modello di
equilibrio e rispetto delle tradizioni, e, nello stesso tempo,
indirizzandolo alle arti, care al mondo ellenico, del canto, della
musica, della ginnastica. Quando Nerone prese il potere, nel
54, a soli diciassette anni di età, Seneca, pur mantenendosi in
una posizione defilata, continuò ad influenzare il giovane
princeps, ispirando alcuni atti significativi della sua politica,
come i provvedimenti per migliorare la condizione degli
schiavi e il progetto di riforma fiscale, e riuscendo nello stesso
tempo ad equilibrare i rapporti tra l'imperatore e il Senato. Al
termine di questo lungo periodo di serenità - il cosiddetto
"quinquennio felice", dal 54 al 59 - la prepotente affermazione
della personalità dell'imperatore, deciso tra l'altro a ripudiare
la moglie Ottavia per legarsi a Poppea Sabina, accentuò gravi
contrasti con la madre, che, in concorrenza con lo stesso
Seneca e con il prefetto del pretorio Afranio Burro, tentava di
esercitare una decisa influenza sul giovane. Alle forti pressioni
di Agrippina, che minacciava di promuovere la salita al trono
del fratellastro Britannico, Nerone non esitò a rispondere con
una reazione violentissima: dapprima fece uccidere il rivale,
poi, a breve distanza di tempo, ordinò la morte della stessa
madre; è difficile valutare quale sia stato l'atteggiamento di

30
Seneca in questa vicenda: sembra comunque che non rimase
estraneo all'organizzazione del matricidio o quantomeno -
secondo lo storico Tacito - non fece nulla per impedirlo.
Nel 62, dopo la morte di Burro, forse avvelenato, e di Ottavia,
esiliata e poi uccisa per ordine dell'imperatore, Seneca decise
di ritirarsi dalla vita politica; Nerone, sempre piú isolato, lo
avrebbe voluto ancora al suo fianco, ma il suo antico
precettore fu irremovibile, manifestando un forte desiderio di
tornare alla meditazione filosofica e adducendo anche motivi
di salute. In questo periodo egli si dedicò ad opere di grande
impegno, spingendosi anche nel campo della poesia tragica.
Nel 65 venne scoperta la congiura antineroniana "dei Pisoni"
(dal nome del suo principale promotore, il nobile Gaio
Calpurnio Pisone); ad essa aderì Lucano, nipote del filosofo.
Anche Seneca fu accusato di averla sostenuta; corse persino
voce che alcuni dei congiurati avessero deciso di elevare al
trono imperiale non Pisone, ma lo stesso Seneca. Inviatogli da
Nerone l'ordine di uccidersi, lo accolse serenamente e morì
alla maniera di Socrate, mentre conversava di filosofia con gli
amici (aprile 65).
Della sua molteplice attività letteraria, svolta nei generi più
disparati, andate perdute parecchie opere minori, è giunta,
pressoché completa, la produzione di contenuto filosofico-
morale, insieme con quella drammatica, una sorta di
menippea, nota con il titolo di Apocolocynthosis
(Zucchificazione), sulla sorte di Claudio dopo la morte, e una

31
raccolta di epigrammi di dubbia autenticità. La produzione
filosofica comprende:
a) Dialogorum libri (Dialoghi) contenenti sette trattati, sulla
provvidenza (De providentia, sulla fermezza del saggio
(De constantia sapientis), sull'ira (De ira), sulla vera
felicità (De vita beata), sulla tranquillità dell'animo (De
tranquillitate animi), sulla vita contemplativa (De otio),
sulla brevità della vita (De brevitate vitae), e tre
Consolazioni, l'una a Marcia, l'altra al liberto Polibio e
l'ultima alla madre Elvia;
b) due trattati staccati dai precedenti, l'uno sulla clemenza
(De clementia), l'altro sulla natura del beneficare (De
beneficiis);
c) Lettere a Lucilio (Ad Lucilium epistolarum moralium libri);
d) Problemi della natura in sette libri (Naturalium
Quaestionum L. VII). Dell'attività di drammaturgo sono
tramandate nove coturnate, composte forse più per
pubbliche recitazioni che per la scena e di valore molto
discusso: Hercules furens (Ercole furente), Troades (Le
Troiane), Phoenissae (Le Fenicie), Medea (Medea),
Phaedra (Fedra), Oedipus (Edipo), Agamennon
(Agamennone), Thyestes (Tieste), Hercules Oetaeus
(Ercole Eteo). La tradizione vi aggiunge pure una
praetexta, l'Ottavia, in realtà di età posteriore.
Complessa e discussa, la personalità di Seneca è certamente
una delle più vive, più interessanti e più vicine allo spirito

32
moderno. Non mancò di difetti e di contraddizioni, perché
propugnò la superiorità del vivere secondo natura e si gettò
nel bel mezzo della società mondana, lodò la virtù, bastevole
a se stessa, e si imbrattò di adulazioni per tornare dall'esilio,
vantò la povertà e si godette, sia pure senza eccessi, il
beneficio di un patrimonio di 300.000.000 di sesterzi; ma
merito inestimabile, nella concreta esplicazione di una
spiritualità fino allora sconosciuta, fissò i nuovi rapporti
dell'uomo con sé stesso, con il prossimo, con Dio e affrontò il
coraggioso tentativo di inserire nel reggimento dello Stato i
principi di un'etica superiore. Non fu un filosofo originale né
sistematico e di logica e di metafisica si occupò poco, ma
portò la filosofia dalla rigidezza teorica nella realtà pulsante
della vita e, accogliendo nello stoicismo voci di altre dottrine,
fornì agli uomini la spiegazione dei loro mali e i rimedi
confacenti e pose nell'acquisto della virtù lo scopo del sapere
e il mezzo per conseguire la felicità vera, pari a quella divina.
Come scrittore può essere discutibile per il periodare
spezzettato, l'eccesso delle preziosità, le ripetizioni
stucchevoli; ma di fatto egli ha dato vita a uno stile nuovo,
personale, che nella concisione nervosa, nelle antitesi
penetranti, nelle felici e sorprendenti metafore e nei passaggi
rapidi e spesso sconcertanti da una parte ben si adegua al suo
pensiero, dall'altra corrisponde pienamente alle esigenze di
una prosa moderna (non pochi critici l’hanno avvicinato in
particolare agli autori del Barocco).

33
Seneca, per l'elevatezza della morale e talune affinità del
pensiero stoico con la dottrina cristiana, riscosse ammirazione
e stima in ogni tempo, ma soprattutto dai padri della Chiesa e
dai dotti del medioevo, che videro in lui un'anima per natura
(naturaliter) cristiana e prestarono fede alla credenza che egli
avesse tenuto corrispondenza con San Paolo, come ricorda
anche Sant’Agostino. In realtà la “patria comune” di tutti gli
uomini cui Seneca si riferisce rimane la terra e l’amore e la
socievolezza sono concepiti come una forza razionale e
naturale, senza reali analogie con il concetto di divinità
giudaico-cristiano.
Piuttosto, la sua originalità consiste nel concepire la virtù
stoica, non scevra di influenze neopitagoriche e
neoplatoniche, secondo l’ideale della humanitas, cioè non solo
come autonomia spirituale che rifugge aristocraticamente dai
costumi e dalle opinioni del volgo e che preferisce il suicidio
pur di non condividere l’ingiustizia pubblica e privata, ma
anche come attiva partecipazione sociale e concreta
sollecitudine e amicizia per tutti gli uomini, in uno sforzo
comune di liberazione dai mali fisici e morali.
Dante lo pose fra gli “spiriti magni” dell'antichità (Inf., IV,
141).
La morte in Seneca
La sua meditatio mortis affiora per esempio in relazione al
problema dell'anima: si ritrova in lui quella svalutazione del
corpo e delle cure ad esso rivolte e, più in generale, quella

34
dicotomia tra la componente sensoriale e quella razionale
dell'uomo e della realtà, che affonda le sue radici
nell'idealismo platonico e che solo temporaneamente era
stata risolta da Aristotele.
La sopravvivenza dell’anima dopo la morte non è certa, ma la
morte non va temuta perché compimento necessario ed
inevitabile: è liberazione ed estremo atto di libertà, dal
momento che qui mori didicit, servire dedidicit "chi ha
imparato a morire ha disimparato ad essere schiavo"
(Epistulae ad Lucilium 26, 10); "non è mai sventurato colui per
il quale è facile il morire" (Hercules Oeteus, v. 111); paratus
exire sum "sono pronto ad andarmene” (Epistulae ad Lucilium
61, 2), vixi ... quantum satis erat; mortem plenus expecto “ho
vissuto quanto bastava, aspetto la morte appagato" (Epistulae
ad Lucilium 61, 4).
Che cos’è la morte? O la fine o il passaggio e io non temo di
finire (è lo stesso che non aver cominciato) e nemmeno di
passare; in nessun luogo avrò confini così ristretti.
Mors quid est? Aut finis aut transitus. Nec desinere timeo
(idem est enim quod non coepisse), nec transire, quia
nusquam tam anguste ero (Epistulae ad Lucilium 65, 24).
Si tratta di una concezione che, per vie e in modi diversi, si
ripresenta più volte nella storia del pensiero, a partire dalla
forma estrema del manicheismo, religione a cui aderì per
nove anni come catecumeno Sant’Agostino. Basterà qui
ricordare ancora il pensiero di Tertulliano sull'anima, il

35
pauperismo e le correnti eretiche del XII e del XIII secolo, ma
anche il Petrarca del Secretum, scisso tra l'aspirazione ad una
vita religiosa e santa e l'amore per Laura.
La dialettica tra spirito e materia o meglio tra idea e forma
riceve poi originale e chiara definizione nella filosofia
postkantiana ed in particolare nell'idealismo di Hegel, per
giungere alle correnti filosofiche, letterarie e artistiche che ne
derivano.
Anche Luciano di Samosata, nel dialogo tra Menippo e Ermes
(per [il cranio di Elena] migliaia di navi sono salpate da tutta
quanta la Gracia e tanti caddero tra Greci e Brabari e tante
città furono distrutte?), come più tardi Giacomo Leopardi, ne
La ginestra (Con lieve moto in / un momento annulla / In
parte, e può con moti / Poco men lievi ancor subitamente /
Annichilare in tutto), stigmatizzarono la vanità delle ambizioni
umane di fronte alla morte (cfr. dello stessso Leopardi Il canto
notturno di un pastore errante dell'Asia, e Guido Gozzano, ne
La signorina Felicita).
Particolarmente meditato in Seneca è poi il senso del tempo:
Non abbiamo poco tempo, ma ne abbiamo sprecato molto.
Una vita abbastanza lunga ci è stata concessa per compiere
grandi azioni, se la impiegassimo tutta adeguatamente.
Non exiguum temporis habemus, sed multum perdidimus.
Satis longa vita et in maximarum rerum consummationem
large data est, si tota bene collocaretur (De brevitate vitae 1,
3).

36
Moriamo ogni giorno, ogni giorno infatti ci viene sottratta una
parte della vita e anche quando cresciamo la vita decresce ...
questo stesso giorno che stiamo vivendo lo dividiamo con la
morte.
Cotidie morimur; cotidie enim demitur aliqua pars vitae, et
tunc quoque cum crescimus vita decrescit ... hunc ipsum
quem agimus diem cum morte dividimus (Epistulae ad
Lucilium 24, 20).
La vita ci appare breve e sta a noi saperla vivere
proficuamente fino in fondo; la colpa è nostra se non
impieghiamo bene quanto ci è stato concesso, se dissipiamo
come cattivi padroni una ricchezza che un abile
amministratore farebbe fruttare. La riflessione sul tempo è
sempre una meditazione sulla fugacità della vita e sulla
morte: come non è l’ultimo granello che esaurisce la clessidra,
ma tutta la sabbia che è defluita, così non è l’ultima ora che
mette fine alla nostra vita ma solamente la compie.
Ma la meditazione sull’esperienza della morte in Seneca non
poté prescindere dal riferimento alla realtà viva e concreta dei
suoi tempi.
Dal momento che, per Seneca, la vera libertà è quella
dell’anima e non quella del corpo, destinato alla morte, ecco
che emerge il sopra citato concetto di humanitas: tutti gli
uomini sono liberi al di là delle loro condizioni sociali. Anche
uno schiavo può essere libero interiormente perché a pieno
diritto partecipa della condizione umana. Di qui una maggiore

37
considerazione degli schiavi e l’esortazione a trattarli con
familiarità: Non ministeriis illos aestimabo, sed moribus: sibi
quisque dat mores, ministeria casus adsignat "Non giudicherò
gli uomini in base al loro mestiere, ma in base alla loro
condotta; della propria condotta ciascuno è responsabile, il
mestiere invece lo assegna il caso" (Epistulae ad Lucilium 47,
15); istum, quem servum tuum vocas, ex isdem seminibus
ortum eodem frui caelo, aeque spirare, aeque vivere, aeque
mori! Tam tu illum videre ingenuum potes, quam ille te
servum "Questo che chiami tuo schiavo è nato dallo stesso
seme, sta sotto lo stesso cielo, respira la stessa aria, vive e
muore allo stesso modo; tu puoi vedere in lui un uomo libero
come quello può vedere in te uno schiavo" (Epistulae ad
Lucilium 47, 10); cum inferiore vivas, quemadmodum tecum
superiorem velis vivere "Comportati con il tuo inferiore come
vorresti che il tuo superiore agisse con te" (Epistulae ad
Lucilium 47, 11). Non meraviglia come a lungo si sia pensato a
un Seneca cristiano.
E ancora: la sapienza e il potere presso i Greci, soprattutto a
partire da Platone, erano considerati fondamenti della “città
ideale” e Seneca, come tutti gli autori latini, ha alle sue spalle
questa formazione specifica. Ma anche altri motivi lo
ispiravano: in primo luogo il carattere della sua filosofia, che si
nutre di immagini e non può concepire alcuna proposizione
senza un modello concreto. Inoltre, il carattere della sua

38
epoca, in cui si viveva di ideali caduti con l’ultima stagione
della repubblica.
Catone l’Uticense, quindi, fu il suo modello più vivo di virtù
politica. Tutti i dialoghi di Seneca sono dominati da questa
figura. Ma le Epistulae ad Lucilium sono percorse da una
esaltazione di Catone tutta particolare (emblematica la 82).
Filosofia è, per Seneca, il saper ben vivere, ma anche il saper
ben morire. E Platone ha dato di Socrate, soprattutto nel
Fedone, la più compiuta immagine del filosofo in atto di
esercitare questa virtù. Perciò l’exemplum Socratis è, per
Seneca, vivissimo. Non fa meraviglia di vedere Catone, l’uomo
politico virtuoso per eccellenza, accostato a Socrate più volte
in questa capacità di accogliere serenamente la morte e di
fare di una bella morte la ragione stessa e il compendio finale
della sua bella vita.
Così, se Catone è lodato nei Dialoghi soprattutto per il suo
senso della libertas, nelle Epistulae ad Lucilium il suo nome
viene spesso accostato a quello di Socrate. La cicuta è per
Socrate ciò che per Catone è il gladius. Il calix venenatus ha
fatto grande Socrate così come la ferita inferta a sé stesso ha
dato l’ultimo raggio di grandezza a Catone. I due nomi sono
spesso accostati come una prova di ciò che una mors honesta
può essere a conclusione di una vita honesta. Anche l’uomo
politico, come il filosofo, è caratterizzato dalla sua capacità di
saper saggiamente contribuire, con la morte, all’importanza
della sua dottrina o della sua vita.

39
E Seneca, filosofo e politico al contempo, ha finito per
realizzare coerentemente la sua mors honesta, sapendo
costruire con la philosophia ... il suo inexpugnabilis murus,
quem fortuna multis machinis lacessitum non transit (cfr.
Epistulae ad Lucilium 82, 5).

40
PLATONE

Biografia succinta
Platone nacque ad Atene da famiglia aristocratica nel 428 a.C.
Secondo Aristotele, ebbe tra i suoi maestri Cratilo, seguace di
Eraclito. A vent'anni cominciò a frequentare Socrate, e ripudiò
la sua precedente vocazione poetica, dando alle fiamme i suoi
versi. Secondo quello che egli stesso dice nella Lettera VII
(che è di fondamentale importanza per la sua biografia e per
l'interpretazione della sua stessa personalità), avrebbe voluto
dedicarsi alla vita politica. La morte di Socrate lo dissuase dal
fare politica in patria, ma non per questo rinunciò a perseguire
l'ideale di un reggimento filosofico della città. «Io vidi, egli
dice, che il genere umano non sarebbe mai stato liberato dal
male, se prima non fossero giunti al potere i veri filosofi o se i
reggitori di Stato non fossero, per divina sorte, diventati
veramente filosofi». Negli anni seguenti, si recò a Megara
presso Euclide, poi in Egitto e a Cirene. Nulla sappiamo
intorno a questi viaggi, dei quali egli non parla. Parla invece
del viaggio che fece nell'Italia meridionale, a Taranto, dove
venne a contatto con la comunità pitagorica di Archita, e a
Siracusa dove strinse amicizia con Dione, parente e
consigliere del tiranno Dionisio il Vecchio. Entrato in conflitto
con Dionisio, fu venduto come schiavo sul mercato di Egina.
Riscattato da Anniceride di Cirene, ritornò ad Atene, dove
fondò nel 387 l'Accademia. La scuola di Platone, che si chiamò
così perché fiorita nel ginnasio fondato da Accademo, fu

41
organizzata sul modello delle comunità pitagoriche come
un'associazione religiosa, un tìaso. Alla morte di Dionisio,
Platone fu richiamato a Siracusa da Dione alla corte del nuovo
tiranno Dionisio il Giovane, per guidarlo nella riforma dello
Stato in conformità con il suo ideale politico. Ma l'urto fra
Dionisio e Dione, che fu esiliato, rese sterile ogni tentativo di
Platone. Alcuni anni dopo, Dionisio stesso lo chiamò
insistentemente alla sua corte e Platone vi si recò nel 361,
spinto anche dal desiderio di aiutare Dione, che era rimasto in
esilio. Ma nessun accordo fu raggiunto e Platone, dopo essere
stato trattenuto per un certo tempo, quasi come prigioniero,
grazie all'intervento di Archita, lasciò Siracusa e ritornò ad
Atene. Qui egli trascorse il resto della sua vita, dedito solo
all'insegnamento. Morì a 81 anni, nel 347. Il corpus delle
opere di Platone è composto dall'Apologia di Socrate, da 34
dialoghi e da 13 lettere, complessivamente 36 titoli ordinati in
9 tetralogie dal grammatico Trasillo (I sec. d. C.).
La morte secondo Platone
La posizione di Platone nei confronti della morte riflette la sua
concezione della idee ed è, a dir poco, rivoluzionaria, per
quanto, probabilmente, non completamente originale, in
quanto, almeno in parte, mutuata dai pitagorici e dall’orfismo.
L'anima, per Platone, preesiste al corpo, e non è distrutta alla
morte di esso; vi alberga una memoria (reminiscenza o
) delle idee (viste nei periodi di distacco
dal corpo durante la trasmigrazione,

42
 , e di contemplazione del mondo
intelligibile), e un desiderio () di esse, memoria e
desiderio accesi dalle cose, che delle idee sono imitazione
() e partecipazione ( ).
Nel  dimostra l'immortalità dell'anima, in base a
quattro argomenti:
1. dei contrari;
2. della reminiscenza (non potremmo ricordare le Idee se
non le avessimo viste, e non le avremmo potute vedere se
non in una vita distaccata dal corpo, che suppone un'anima
immortale);
3. della somiglianza (l'anima è imparentata con
l'intelligibile, che è immutabile, dunque lei pure deve essere
immutabile, quindi immortale);
4. della vitalità (l'anima partecipa della vita: un corpo è vivo
o morto a seconda che abbia o meno l’anima. Così come il 2
partecipa all’idea del pari e non può partecipare a quella del
dispari, l’anima partecipa all’idea di immortale e non a quella
di mortale).
Come è già stato atto notare spesso, si tratta di una
concezione che ricorda la dottrina del samsaram hindu e
buddhista, oggi nuovamente diffusa anche in occidente.
Ma se l’anima è immortale, Platone aveva necessità di
tratteggiare un rapporto corpo/anima. Sempre su influsso
orfico e pitagorico arriva a sostenere che il corpo è la tomba
dell'anima e compito dell'uomo è liberarsi da una simile

43
prigione. Nel Gorgia, citando i versi di una perduta tragedia di
Euripide, Platone fa dire a Socrate:
non mi stupirei se Euripide fosse nel vero nei versi in cui dice:
chi sa se il vivere non è morire
E il morire vivere?
Anche noi forse in realtà siamo morti. Ho già sentito dire dai
sapienti che noi ora siamo morti, che il nostro corpo
() è una tomba () (Platone, Gorgia, 493 a).
Sfruttando il gioco di parole - ("corpo-
tomba") e il doppio significato di  ("tomba-segno"),
nel Crátilo, citando gli orfici, mostra il complesso nodo di
rapporti che si viene ad instaurare tra il corpo e l'anima:
alcuni [il corpo] lo dicono  (tomba) dell'anima, in
quanto nella vita presente essa vi è sepolta; d'altra parte,
poiché per mezzo di esso l'anima significa ciò che vuole
significare, anche sotto questo aspetto è chiamato
correttamente  (segno). Mi pare, tuttavia, che gli
Orfici soprattutto abbiano posto questo nome, convinti che
l'anima sconti la pena delle colpe per le quali espia ed abbia
questo involucro, immagine di una prigione, affinché si salvi:
esso, dunque, come dice il nome stesso, è  (custodia)
dell'anima, finché essa non abbia scontato i suoi debiti
(Platone, Cratilo, 400 b-c).
Questa concezione di origine orfica dell’anima che deve
scontare pene è meglio esemplificata dal mito di Er nel libro X
della Repubblica. Er è un guerriero della Panfilia morto in

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battaglia, il cui corpo viene raccolto e portato sul rogo
secondo l'usanza: proprio prima che gli diano fuoco si risveglia
e racconta ciò che ha visto nell'aldilà, affermando che gli dei
gli hanno concesso di ritornare sulla terra per raccontare agli
altri uomini ciò che ha visto. Ebbene, ciò che egli ha visto non
appena l'anima si è separata dal corpo (chiara ancora
l'influenza orfica) è la visione di un prato in cui alla presenza
di giudici le anime vengono separate a seconda che esse
siano riconosciute buone o cattive. Le prime salgono verso
l'alto, le seconde, invece, scendono verso il basso.
Contemporaneamente, altre anime salgono su dal basso e
scendono dall'alto, si riuniscono in mezzo al prato e
vicendevolmente si raccontano ciò che ciascuna di esse ha
visto e vissuto durante il suo soggiorno: quelle dal basso mali
e sofferenze, quelle dall'alto delizie e visioni di straordinaria
bellezza. I giusti ricevono premi per 1000 anni, i malvagi
soffrono. Dopo questi 1000 anni le anime buone e quelle
cattive si devono reincarnare. Esse si recano al cospetto delle
3 Moire che devono stabilire il loro destino. Le anime vengono
radunate da una specie di araldo che distribuisce a caso dei
numeri, li getta per aria ed ogni anima prende quello che le è
caduto più vicino (questo a sottolineare come nella nostra vita
ci sia comunque una componente di casualità). Il numero
serve per dare un ordine alle anime che devono scegliere in
chi reincarnarsi; chiaramente chi ha il numero 1 è
avvantaggiato, ma deve comunque saper scegliere bene.

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Il distacco dell'anima dal corpo va preparato moralmente:
bisogna liberarsi dalle passioni legate al corpo purificandosi
(di nuovo emerge l’insegnamento pitagorico e orfico). Si tratta
dell'esercizio di morte (). Il
modello è naturalmente Socrate nei suoi ultimi istanti in
carcere, assistito e compianto dai suoi amici. Che Socrate
avvii un dialogo sull'immortalità dell'anima proprio nel
momento in cui egli sta per morire non è per nulla senza
significato. Si tratta, precisamente, dell'equazione filosofia =
esercizio di morte, poiché la filosofia è ricerca della verità
ideale e la morte è il passaggio verso questa verità: e questo
è nient'altro che filosofare rettamente ed esercitarsi a morire
senza difficoltà (Platone, Fedone, 80 e).
Ne consegue la polemica nei confronti della vanità e
dell’ignoranza umana, stigmatizzata in particolare
nell’Apologia di Socrate: cfr. XVI-XVII “[…] Forse qualcuno
potrebbe dire: "Non ti vergogni, Socrate, di aver esercitato
un’occupazione, per cui oggi rischi di morire?" [...] Temere la
morte, infatti, non è altro, cittadini, che credere di essere
sapiente senza esserlo: è credere di sapere ciò che non si sa,
perché nessuno sa se la morte non sia il maggiore di tutti i
beni per l’uomo, ma tutti la temono come se sapessero con
certezza che è il maggiore di tutti i mali. E non è ignoranza
questa, anzi la più biasimevole, credere di sapere ciò che non
si sa? In questo forse, cittadini, sono differente dalla maggior
parte degli uomini; [...] So invece che commettere ingiustizia

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e disobbedire a chi è migliore di noi, dio o uomo, è cosa brutta
e cattiva. Perciò davanti ai mali che so essere mali non
temerò e non fuggirò mai quelli che non so se siano anche
beni.”
E XXXII: “Ma facciamo anche un'altra considerazione da cui io
traggo molta speranza che tutto questo sia un bene. La morte,
infatti, o è assenza totale di sensazioni, e quindi è il nulla o,
come si dice, è un passaggio, un mutar di dimora dell'anima
da un luogo a un altro. Se la morte è assenza totale di
sensazioni, come se si dormisse un sonno senza sogni, oh,
essa sarebbe un guadagno meraviglioso. Proviamo, infatti, a
pensare a una notte in cui abbiamo dormito senza far sogni e
confrontiamola, poi, con tutte le altre notti e gli altri giorni
della vita; se dovessimo dire, dopo aver riflettuto
attentamente, quanti sono stati i giorni e le notti in cui meglio
abbiamo vissuto, rispetto a quella, oh, io credo che non solo
l'uomo qualunque, ma anche il re dei re, ne avrebbe molto
poche da contare. Se tale è la morte, io la considero un gran
guadagno perché tutto il tempo infinito non sarà che una sola,
lunghissima notte. Se, poi, invece, la morte è come un viaggio
da questo luogo a un altro e ciò che si dice è vero, cioè che
nell'aldilà si radunano tutti quelli che sono morti, vi potrebbe
essere, allora, o giudici, un bene più grande? Si giunge -
pensate - nell'aldilà, liberi alfine da costoro che si fingono
giudici e si trovano quelli veri, coloro che laggiù, si dice,
amministrano veramente la giustizia, Minosse, Radamante,

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Eaco, Trittolemo e quanti, tra i semidei, furono giusti nella loro
vita. Che, forse, questo viaggio sarebbe poco bello? E chi di
voi non pagherebbe chissà che cosa pur di trovarsi con Orfeo
e Museo, con Esiodo ed Omero? Ah, io, personalmente, vorrei
morire mille volte se questo fosse vero. E che luogo
meraviglioso sarebbe per me se laggiù potessi incontrarmi
con Palamede, con Aiace Telamonio o con qualche altro
antico, anch'egli ingiustamente ucciso; penso che non
sarebbe affatto spiacevole paragonare la sorte che m'è
toccata alla loro. E sarebbe un gran piacere trascorrere il
tempo esaminando e interrogando quelli di là, come facevo
qui, con i vivi, per conoscere chi di loro è sapiente e chi crede,
invece, di esserlo soltanto e non è. E cosa pagherebbe, poi, o
giudici, uno che potesse interrogare colui che guidò a Troia il
grande esercito o Ulisse o Sisifo, e infiniti altri, uomini e
donne, che si potrebbero elencare? Conversare, indugiarsi con
loro, interrogarli, sarebbe una felicità immensa. E, oltretutto,
costoro non mettono mica a morte nessuno per questi motivi
e sono, tra l'altro, di gran lunga più felici di noi perché, per
giunta, immortali, se quel che si dice è vero.
La filosofia, quindi, esercizio di morte e latrice della vera
saggezza: non possiamo fare a meno di sottolineare tali
caratteri a fondamento dell’opera di Severino Boezio, il De
consolatione philosophiae, scritto in carcere, prima di morire
per ordine di Teodorico, fra il 523 e il 524 d.C., in cinque libri e
nella forma mista di prosa e poesia propria della menippea. La

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Filosofia, apparsa all'infelice autore sotto forma di donna, lo
illumina sul valore dell'avversa fortuna che, distaccando dai
beni terrestri l'anima umana, contribuisce a elevarla alla
considerazione e all'amore della verità, della virtù e di Dio che
è suprema verità e sommo bene. Gli dimostra anche
l'inesistenza dell'apparente ingiustizia nella distribuzione del
bene e del male, e dell'intervento del caso nelle vicende
umane. Dio tutto sa e prevede e remunera secondo i meriti.
Né la prescienza divina distrugge il libero arbitrio umano;
essa, infatti, non è conoscenza anteriore, ma visione in un
eterno presente.
Così, sul pensiero specialmente platonico (oltre che stoico e
neoplatonico), si innesta, anche se l'autore non lo esplicita, la
concezione cristiana della Provvidenza.
L'opera di Boezio ebbe larghissima fama per tutto il medioevo,
esercitando un notevole influsso non solo su tutta la filosofia
cristiana occidentale, ma anche sulla letteratura, come è ben
chiaro in Dante.

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MARCO AURELIO
Alcuni anni dopo la morte di Epitteto lo stoicismo ha un ultimo
sussulto di vita in un personaggio che si trova all'estremo
opposto della scala sociale, l'imperatore Marco Aurelio, un
vero e proprio filosofo sul trono. Nato a Roma nel 121 da una
famiglia originaria della Spagna, ricevette un'educazione
accurata dai migliori maestri del tempo, tra cui Erode Attico e
Frontone, il quale ultimo tentò invano di tenerlo lontano dalla
filosofia. Fu imperatore dal 161 al 180: previsto come un
periodo di tranquillità e di prosperità come per il passato e in
conformità alla sua indole di uomo amante della pace e degli
studi, il suo regno si svolse tra continue guerre e i primi
burrascosi segni della decadenza. Egli assolse però i compiti
che il momento gli imponeva con ferma decisione e volontà
tenace, sopperendo anche alle deficienze degli intimi
collaboratori, del fratello adottivo associato al trono Lucio
Vero (morto nel 169) e del figlio Commodo, associato al
potere nel 166 con il titolo di cesare e nel 177 con quello di
augusto. Morì durante l’ennesima guerra contro i Marcomanni
e i Quadi presso Vindobona (od. Vienna) o, secondo altri, a
Sirmio (nell’od. Serbia), lasciando con timore il potere al figlio
Commodo, di cui conosceva le pericolose tendenze.
È autore di un'opera fatta di brevi pensieri, diretti a sé stesso,
scritta in greco e intitolata ,
noto nella tradizione italiana con il titolo di Ricordi o Pensieri.

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Per un imperatore la distinzione tra ciò che dipende e ciò che
non dipende da noi è molto meno drammatica che per l'ex
schiavo Epitteto o per i senatori in conflitto con un potere che
li sovrasta. Per lui il termine di riferimento verso l'alto diventa
il cosmo intero nella sua eterna vicenda, di fronte al quale il
piccolo mondo umano appare inconsistente e futile. Da un
autore che gli è caro, Eraclito, Marco Aurelio attinge una
concezione del mondo come perenne fluire. Ogni realtà fa
parte dell’unico organismo divino ordinato e armonico.
Nel cosmo, secondo Marco aurelio, l’uomo occupa una
posizione centrale: composto di tre principi (corpo, anima,
intelletto o mente), nel suo agire egli è diretto dal più alto,
l’intelletto, considerato particella divina presente in ciascun
individuo. Il riconoscimento di appartenenza al divino deve
ricondurre l’uomo costantemente alla propria interiorità, in
quanto solo in sé stesso può ritrovare la pace assoluta,
conseguentemente disporlo a sentirsi partecipe di una
condizione di solidarietà e di amore universale, secondo
l'insegnamento stoico. Non di rado Marco Aurelio lascia
affiorare il senso di solitudine che l'imperatore avverte nella
sua corte: sa di potervi trovare non amicizia, ma soltanto
dissimulazione. Di fronte a questa triste constatazione, può
evitare di isolarsi completamente proprio grazie a questa
convinzione: ciascuno è parte di quella totalità organica che è
l'universo, nell'ordinamento cosmico ognuno ha un posto
assegnato, con doveri specifici. Per Marco Aurelio è quello di

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romano e di imperatore, ma ciò non significa "sperare nella
repubblica di Platone", ossia in un capovolgimento radicale
dello stesso ordinamento politico. Il vero punto di raccordo
con l'universalità cosmica è ritrovato nel proprio interno, nella
consapevolezza di farne parte. All'io ipertrofico e trionfalistico
dell'antico sapiente stoico, Marco Aurelio oppone l'io
infinatamente piccolo, che con la morte torna a integrarsi,
anche fisicamente, nella totalità, in cui si annulla l’anima
individuale. L'arroganza umana nasce, a suo avviso, dalla
presunzione di essere immortali, il cui risultato è un radicale
ridimensionamento di sé e del mondo circostante. Da qui la
sua presa di posizione contro la vanità delle illusioni umane
(cfr. II 11-12, 17, III 3: “Ti sei imbarcato, hai navigato, sei
approdato: sbarca. Se la tua destinazione è un'altra vita, nulla
è privo di dèi, anche là; se invece la meta è l'insensibilità,
cesserai di resistere a dolori e piaceri e di far da schiavo a un
recipiente tanto più vile della parte che lo serve”, III 5, IV 44,
46, 48: “Pensa continuamente quanti medici sono morti, dopo
aver tante volte aggrottato le sopracciglia sui loro pazienti;
quanti astrologi, dopo aver predetto la morte di altri con l'aria
di emettere un'importante previsione; quanti filosofi, dopo
mille estenuanti dispute sulla morte o sull'immortalità; quanti
eroi, dopo aver ucciso tanti uomini; quanti tiranni, dopo aver
esercitato il potere di vita e di morte con terribile superbia,
quasi fossero immortali; e quante intere città sono, per così
dire, morte: Elice, Pompei, Ercolano e innumerevoli altre.

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Passa in rassegna anche tutti quelli che conosci, uno dopo
l'altro: questo ha seppellito quello, poi è stato disteso sul letto
di morte, quest'altro ha fatto lo stesso con quell'altro, e così
via: e tutto in breve tempo. Insomma, guarda sempre la realtà
umana come effimera e vile - ieri un po' di muco, domani
mummia o cenere. Questo infinitesimale frammento di tempo,
quindi, trascorrilo secondo natura e concludilo in serenità,
come l'oliva che, ormai matura, cadesse lodando la terra che
l'ha prodotta e ringraziando l'albero che l'ha generata”, 50, VI
28, VII 32, 35: “«A chi dunque ha una mente magnanima e
l'attitudine ad abbracciare col pensiero la totalità del tempo e
dell'essere, davvero tu credi che la vita umana possa
sembrare una cosa molto importante? - Impossibile - disse
quello. - E quindi un uomo di questo genere giudicherà forse
la morte qualcosa di terribile? - No, affatto»”, VIII 58 “Chi
teme la morte, teme o l'insensibilità o una diversa sensibilità.
Ma se non avrai più sensibilità, non sentirai neppure alcun
male; se avrai una sensibilità diversa, sarai un essere diverso
e non cesserai di vivere.”, IX 1, 3, 21, X 8, 29, 36, XII 3, 7,
31, 34-35: “Se per un uomo è bene solo quel che cade al
momento opportuno, se per lui ha lo stesso valore compiere
un numero maggiore o minore di azioni conformi alla retta
ragione, se per lui è indifferente osservare l'universo per più o
meno tempo, a costui neppure la morte fa paura”).

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