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Nel corso dei giorni immediatamente successivi al 13 ottobre del 54 a.

C, all’interno della corte del defunto


imperatore Claudio i membri a lui più vicini iniziarono da un lato a mettere in mostra un alibi festoso volto
ad allontanare ogni sospetto da sé rispetto a un proprio coinvolgimento nell’avvelenamento del sovrano e
dall’altro, Agrippina in primis, a ostentare atteggiamenti di mestizia o tristezza fasulla in pubblico. In
contemporanea, tuttavia, le fonti ci parlano, nella cerchia dei più stretti e intimi dell’imperatore, di un clima
beffardo e ridanciano al quale si sottrassero in pochi, all’insegna dello sberleffo per il morto. Di questa
circostanza ci danno conto ben tre fonti. La prima è quella di Tacito, che fa riferimento in primis ai fasti delle
esequie funebri concepite per l’imperatore: la concessione di due fasci littori (ricordiamo che i fasci littori
erano gli strumenti simbolo del potere penale imperiale, costituite da dei bastoni legate insieme e tenuti fermi
con una scure: simbolo della capacità di infliggere punizioni corporali e dunque la morte) oltre al
flamenonium claudiale, con cioè la consacrazione di un culto alla figura dell’imperatore morto e Agrippina
che fu investita sacerdotessa del culto, insieme al funerale di stato e naturalmente alla consacratio, ossia la
divinizzazione dell’imperatore. Una lunga schiera di onori, quindi, con uno splendido discorso letto dal suo
successore Nerone in occasione dei funerali (scritto naturalmente da Seneca, giacchè sin da piccolo Nerone
aveva avuto più interesse per i cavalli che per la scrittura): dentro c’era tutto, dai nobili natali, alle gesta
militari e alla grandiosità della sua stirpe e dei suoi avi. Sennonchè, quando Seneca (o Nerone) passò ad
elencare le doti di saggezza dell’imperatore defunto, nessuno seppe trattenere il riso”… Un’altra fonte,
stavolta proveniente dal Panegirico di Plinio il Giovane, ci parla di un elemento importante: ovvero come le
divinizzazioni in realtà non fossero mai veramente volte ad assicurare la gloria imperitura al defunto.
Tiberio divinizzo Augusto solo per avere qualcuno da accusare di lesa maestà, mentre Nerone divinizzò
Claudio solo per prendersi gioco di lui, e Tito divinizzò Vespasiano, mentre DOMIZIANO divinizzò Tito,
solo per poter dire di essere l’uno figlio e l’altro fratello di un dio” .
Una terza fonte, forse la più vivace, proviene invece da Dione Cassio e benchè con ogni probabilità
condivida le fonti delle prime due, ci dice qualcosa in più rispetto al clima estremamente ridanciano che
seguì la morte dell’imperatore ed è anche l’unica che dia notizia effettivamente dell’opera
dell’Apokolokintosis.
Dione Cassio menziona di due battute molto spassose: la prima appartenente a Gallione, fratello di Seneca,
che disse come Claudio fosse salito al cielo con un uncino, in riferimento a una pratica molto diffusa nella
roma imperiale per i prigionieri morti in carcere, che venivano trascinati con un uncino sino al Foro e poi
gettati nel Tevere. Un’altra battuta spassosa fu pronunciata da Nerone stesso, che asserì come Claudio fosse
diventato dio con un fungo, e come i funghi fossero il cibo degli dei. Nello stesso passo, Dione fa riferimento
all’Apokolokintosis, una “sorta di immortalamento” dell’imperatore Claudio.
Partiamo dalla questione relativa al genere. In primo luogo, è evidente come dal punto di vista formale
l’opera sia una satira menippea. Si tratta di un genere inventato da Menippo di Gadara, autore del II secolo
a.C: benchè spesso ripreso, lo stile si contraddistingue per l’alternanza di versi e prosa e fu riutilizzato anche
da Varrone ,sebbene in una schiera di frammenti giuntici per mano dei grammatici e non un’opera unica, e
Petronio nel Styricon Invece, per la velocità, lo scorrimento, l’alternarsi frequente del linguaggio diretto e
dello stile colloquiale con uno più alto, presenta elementi propri del mimo e della diatriba di matrice cinico
storica, in particolare da quella di Luciano di Samosata),cui Leopardi si ispirò per le sue Operette Morali.
Non è dunque inquadrabile in un solo stile, ma presenta elementi propri di generi diversiUna questione assai
interessante è quella relativa alla datazione. Dunque: normalmente si è concordi nel definire l’opera, il
pamphlet in questo caso, databile a pochissimo tempo, al massimo alcune settimane, dopo la morte di
Claudio. È nella natura stessa del pamphlet la sua pubblicazione nei tempi in cui l’argomento è ancora
“caldo” e inoltre è difficile immaginare Seneca serbare ancora tanto livore a distanza di anni dalla morte
dell’imperatore, tanto da gettarsi nella scrittura di un libello del genere. Tuttavia nel tempo alcuni studiosi
hanno avanzato idee differenti. Secondo Ernst Bickel, l’opera fu scritta nel 59, o comunque pochi anni dopo
la morte di Claudio. Bickel desumerebbe questa sua credenza da due differenti passi, entrambi di Svetonio. Il
primo della vita Claudi, che parla di come il culto di Claudio fosse stato abolito da Nerone e poi ripristinato
da Vespasiano, e il secondo della vita Vespasiani, in cui riferisce che il tempio di claudio fosse stato distrutto
da Nerone ma poi ricostruito da Vespasiano. In questo senso, Bickel confonde l’abolizione dell’apoteosi con
la sospensione del culto: solo la seconda, infatti, ha base storica. Infatti ancora nel 69, in Sardegna stessa, si
leggono alcune iscrizioni che portano la dicitura “Divii Claudii”… in effetti sarebbe stato ben più complicato
abolire l’apoteosi, cioè la divinizzazione di un imperatore, che non semplicemente abolirne il culto. Le
iscrizioni sono il segno che ancora nel 69 Claudio poteva vantare il titolo di Divus.
Invece Roncali ritiene che addirittura l’opera sia stata scritta tra il 59 e il 62, ma ancora una volta confonde
l’abolizione dell’apoteosi con la sospensione del culto. Questo accade in quanto, secondo Roncali,
l’avvenimento viene ritratto da Seneca come di una cosa troppo grande per poter essere stata
dimenticato,dunque un pensiero del genere denuncia che non fosse ancora avvenuto. Ma la motivazione è
molto debole
Toybee, invece, parla di una data precisa: il 60, in occasione dell’istituzione dei Neronia- giochi ginnici,
musicali, canori.Argomento: la derisione dell’apoteosi, appena decretata dal Senato, per umiliare l’assemblea
e Agrippina che l’aveva fortemente voluta.
Parlando invece del titolo, la questione è estremamente interessante, in quanto ancora oggi esso è oscuro. Il
titolo Apokolokyntosis venne identificato per la prima volta nel 1604 dall’umanista Iunius Adrianus,
NELLA SUA OPERA MISCELLANEA CHIAMATA ANIMADVERSA, OSSIA OSSERVAZIONI
CRITICHE SUI TESTI LATINI che semplicemente ricondusse il passo di Cassio Dione (o meglio,
dell’epitomatore Xifilino), unico a citare il titolo, al manoscritto che noi oggi conosciamo. Nessun
manoscritto, infatti, riporta il titolo che si ritrova in Cassio Dione. Il codice potiore, ovvero il più autorevole,
il SanGallensis, reca come iscrizione DIVII CLAUDI APOTHEOSIS ANNEI SENECAE PER SATIRAM.
Mentre tutti gli altri codici trovano nomi diversi, tra i quali “Ludus”, ad esempio. A questo proposito si sono
scatenate, naturalmente, le supposizioni, ma una delle più accreditate appartiene All’ipotesi della glossa di
Sedlmayer, che concorda con Iunius Adrianus nell’identificazione del manoscritto con quello citato da
Cassio Dione e sostiene che in origine il titolo fosse quello, ma poi, essendo tanto complicato quanto oscuro,
sia stato messo a margine e sostituito da una glossa, apotheosis per satyram, sino alla sua scomparsa. In
effetti questa spiegazione si accorderebbe anche con il titolo di “Ludus”; che riprenderebbe la tradizione dei
“ludus de aliqua re”, assai diffusi in età medievale. Inoltre nello stesso documento si fa anche riferimento al
fatto che l’opera circolasse anonima, in quanto il nome dell’autore, interposto maldestramente fu
probabilmente inserito in un tempo successivo.
Importante a questo punto parlare del titolo: Apokolokyntosis. Alla base di questo termine potrebbero esserci
diverse cose, ma in primis la base è KOLOKYNTHE, zucca
potrebbe significare diverse cose: inzuccamento, forse, ossia trasformazione in zucca, dal momento che-
come Iunius Adrianus stesso tenta di dire- il fungo dalle proprietà medicamentose che uccise Claudio gli fu
somministrato in una specie di purga, una zuppa a base di zucca selvatica (agrestem cucurbitam). Quindi,
letteralmente, trasformazione in zucca. Oppure potrebbe trattarsi di una “DEIFICAZIONE di uno zuccone”.
O ancora, potrebbe far riferimento al fritillus, ossia il bussolotto dei dadi, che è fatto di zucca secca, visto che
alla fine dell’opera Claudio dovrà lanciare i sassi per l’eternità da un bussolotto bucato, o ancora secondo
Roncali potrebbe trattarsi di un riferimento al fatto che al posto di apokolokentosis ci fosse apokolokentosis,
quindi una sorta di uncinamento del Divo Claudio. Kentew ad ato più kentosis, dal verbo kentew, ossia
appendere, vale a dire rispetto alla frase di Gallione, ma Kentew è più vicino a fustigare che non a uncinare,
e quindi è più macchinosa, o ancora potrebbe basarsi sul verbo rafainous, ossia la pena adottata per gli
adulteri, o ancora potrebbe trattarsi della fustigazione di uno zuccone,ossia sempre apoxolokentosis, quindi
con la x, ossia apò più kolos, ossia zoppo, kentew, qui nel senso di fustigare precisamente. Perché come ci
dice Svetonio Claudio era claudicante a causa di una poliomelite avuta da bambino.
Sulla paternità, l’opera viene tradizionalmente attribuita a Seneca, letterato più in vista a corte e
probabilmente colui che avrebbe avuto maggiori motivi di risentimento nei confronti dell’imperatore, visto
che Claudio l’aveva mandato in Corsica per il sospetto di una tresca a corte, ma tuttavia era probabile che già
al tempo fosse una voce di corridoio l’attribuzione dell’opera a Seneca. Probabilmente circolava anonima,
anche per il contenuto di forte critica non tanto a Claudio, quanto all’istituzione del principato e a un decreto
del semato: questa è la TESI DI BARWICK. L’opera quindi probabilmente al principio circolava in
anonimato e solo qualche decennio dopo le persone l’hanno attribuita a lui perché avrebbe potuto
effettivamente esservi legato in qualche modo, avendo motivo di essere risentito verso Claudio.
Parlando della tradizione scritta, sappiamo che a tradire l’Apokolokyntosis sono ben 47 codici, ma i tre più
importanti sono certamente:
il SanGallensis, o codice potiore, il più autorevole, databile tra l’ottavo e il nono secolo. È composto da sette
parti, sei di vite di santi e la settima che presenta l’apokolokyntosis, tra trattati medicamentosi, di morale, di
rigore morale, di astronomia e così via, insieme a un’altra ossia la liber de principio saeculi dello pseudo
metodio. Aggiungiamo poi il Valentiniensis, il quale fu redatto tra l’880 e il 930 nel monastero di Saint
Amat, comprensibo per lo più di CARMI etc etc
oppure il Londiniensis, il quale si ritrova alla British Museum, che fu scritto tra l’undicesimo e il 12 secolo.
Quindi altri 44 codici. È importante però sapere che nessun manoscrittto dell’apokolokyntosis è collezionato
insieme ad altre oepre di Seneca, ma in ogni manoscritto si trova frammisto a tante altre opere: anche questo
è certamente un segno bizzarro. Sul rapporto tra i diversi testimoni, un’importanza fondamentale ce l’ha la
lacuna al capitolo 7, in quanto è presente in tutti i manoscritti e questo manifesta il fatto che c’è sicuramente
una fonte comune. Aggiungiamo che quindi c’è un archetipo comune, dal quale derivano i San Gallensis e il
Vlaendinisis e il Londoniensis, ma se vogliamo possiamo a causa di alcuni errori separativi riscontrare che
tra l’archetipo e i due ci sia un sub archetipo, che chiameremo gamma.

CAPITOLO 1

Voglio consegnare alla memoria ciò che è accaduto in cielo il 13 ottobre del nuovo anno, inizio di un’era
felicissima. Non sarà dato nulla né all’offesa né all’accondiscenza. Questa verità così (queste cose, così
come io le racconto, sono vere). Se qualcuno avrà domandato da dove io ne sia venuto a conoscenza, in
primo luogo, se non vorrò, non risponderò. Chi mi costringerebbe? Io so di essere diventato libero, dal
quanto restituì il suo giorno colui che aveva fatto vero il proverbio secondo il quale bisognerebbe nascere o
re o stolto. Se sarà gradito rispondere, dirò ciò che mi viene alla bocca. Chi mai esigette da uno storico dei
garanti? Se comunque sarà necessario produrre dei testimoni, chiedi a colui che vide Drusilla (andante) salire
o ascendere al cielo: lui stesso ti dirà di aver visto Claudio fare il viaggio, a passi non uguali. Voglia o non
voglia, è necessario che lui veda tutte le cose che si svolgono in cielo: è il curatore della via appia, per la
quale, tu sai,sia il divo augusto che Tibero Cesare sono saliti agli dei. Se glielo chiederai, a te solo lo dirà:
davanti a un gruppo di più persone non ne farà parola. Infatti da quando giurò in Senato di aver visto Drusilla
salire in cielo, e per quella notizia tanto buona che aveva proncunciato con parole tanto solenni nessuno gli
credette, affermò che non avrebbe più parlato, neanche se avesse visto un uomo ucciso in mezzo al foto. Le
cose che ho udito da lui io riporto chiare e tonde, possa averlo in buona salute e felice!
Innanzitutto notiamo come il primo capitolo rappresenti un prologo a tutti gli effetti dell’opera. Si tratta di
una parodia, in particolare dei prologhi delle opere classiche e più precisamente dei prologhi delle opere
storiografiche, delle quali riprende, come già detto in chiave parodica, la struttura tradizionale:
dall’argomento di cui si intende parlare, dichiarato con una mirabolante solennità, sino alla dichiarazione di
obiettività e trasparenza, veridicità per finire con l’elencazione delle fonti alle quali si è attinto per la
realizzazione dell’opera. In primo luogo, notiamo l’utilizzo del verbo agere nella sua forma passiva, che
assume il significato di “accadere, avvenire”, non diversamente dal verbo latino gignestai. Lund fa notare
anche come, in questo contesto, il verbo agere racchiuda il significato di “sbrigare gli affari politici in
Senato”, e quindi che si intenda riprodurre il Concilio degli Dei, sorta di parodia del Senato, come sarà
evidente nei capitoli successivi.
In cielo specifica il fatto che gli eventi che rappresentano l’argomento fondamentale della narrazione non
sono parte di questa terra ma fanno parte di una dimensione altra: e qui il ricordo è strettamente connesso a
quello dell’autore Luciano di Samosata, noto per l’arguzia e la vena satirica delle sue tante opere, e per i voli
pindarici della sua fantasia, con i frequenti viaggi (parodia del genere della letteratura di viaggio) che
leggiamo nelle sue opere. Fu autore anche di un trattato sulla stereografia, in cui invitava gli storici a
maggiore obiettività e meno deferenza nei confronti dei potenti, e per i suoi celebri Dialoghi, che ispirarono
Giacomo Leopardi per le sue Operette Morali. Anche Luciano di Samosata apprezzava, inoltre, la
versificazione mista alla prosa e fu un illustre esponente della diatriba di matrice cinico- stoica.
Ante diem etc etc: in riferimento a questo, notiamo come il calendario dei latini fosse profondamente diverso
dal nostro, in quanto improntato a una concezione meccanicistica del tempo e al meccanismo della
palinogenesi, ovvero della rigenerazione dell’universo, che distrugge e rigenera ciò che ha. Anche il
calendario era orientato a tale concezione e più specificatamente era diviso in: le calende, giorno
dell’assemblea popolare in età imperiale, da kalew: chiamare, che a loro volta erano il primo giorno di ogni
mese, quindi le nove, sempre il 5, ma cadenti il 7 nei mesi di marzo, maggio, luglio e ottobre, e le idi, che
cadevano normalmente il 13, ma che cadevano il 15 nei mesi di marzo, maggio, luglio e ottobre.
Anno novo, inizio seculi felicissimi: è espressione tipica della propaganda imperiale. Una lettura dei 12
panegyrici latini ci permetterebbe di osservare una letteratura di questo tipo, con espressioni tipiche come
questa. Seculi non indica, come in italiano, un periodo di cento anni, quanto piuttosto un’era, una
generazione umana. Notiamo che la radice di seculum sia “se”, la stessa del verbo serere, che significa
seminare, e di semen, che significa sementi, in questo contesto del genere umano. Un termine, dunque, con
un’origine legato all’agricoltura. Anche felicissimi, del resto. Felix infatti deriva da una radice indoeuropea
che indica “l’allattamento” che in latino è diventa fe, dal greco The. La stessa risultanza fonetica che è
avvenuta tra thumos, e fumus, latino. Femina, non è altro che un antico participio passivo, come luomene in
greco, che significa dunque letteralmente “colei che allatta”: in questo senso ci riconduciamo a felix, che
significa letteralmente “ben pasciuto”.
Volo memoria tradere: qui abbiamo volo più infinito. Si tratta di una costruzione che divide gli sutdiosi:
secondo alcuni è infatti un tratto del sermo cotidianus che sostituisce il futuro. Invece secondo altri ha
piuttosto valore volitivo ed è paragonabile a un “audeo”, oso, in quanto si legge piuttosto la volontà di
dissacrare la consecratio, parodiare un’istituto come quello del principato e trattare dell’inzuccamento
dell’imperatore Claudio. Inoltre memoria tradere è espressione propria del linguaggio alto, quindi risulta
difficile comprendere questa mescolanza.
Nec: Lund riporta anche la presenza di “Om”. Normalmente in latino una doppia negazione forma
un’affermazione, ma in questo caso nec è correlato al nec successivo, quindi traducibile con né né
Haec ita vera è espressione brachiologica, compendiaria. Proprio per la sua brevità ed incisività ha fatto
storcere il naso a numerosi studiosi, che continuano a interpretarlo come se si trattasse del complemento
oggetto della frase successiva, cambiando l’interpunzione.
Unde sciam rappresenta un tratto tipico del linguaggio parlato; con la sostituzione di un pronome relativo
con un avverbio di luogo. Infatti quel “dove” sostituisce un “chi” e si tratta di un elemento tipico del
linguaggio parlato.
Coacturus est: notiamo qui l’utilizzo della perifrastica attiva in sostituzione del futuro. Infatti solitamente il
latino utilizza la perifrastica attiva per esprimere una certezza, mentre il futuro è utilizzato per parlare
dell’eventualità, della speranza, del desiderio: come facciamo anche noi in italiano, “sarà il vento”. In questo
caso, invece, la sostituzione è tipica dell’avvento del linguaggio parlato.
Ego: notiamo qui il pronome relativo in funzione pleonastica. Si tratta di un elemnto importante, in quanto
solitamente in latino il pronome non viene mai esplicitato, specie ad inizio frase, in quanto basta la desinenza
del verbo a indicarci il soggetto. Invece questa posizione in principio di periodo è volta a conferire incisività
alla frase ed è tipica anche essa del sermo cotidianus
Buccam: si tratta di un punto estremamente interessante. In latino classico bucca significa guancia, mentre os
oris è il corrispettivo latino di bocca. Tuttavia, con l’avvento del latino volgare, il termine os oris è stato
sostituito. Secondo gli studiosi, è accaduto sia per la facile confuzione che poteva derivare con os, ossis, sia
in quanto le parole dotate di esiguità fonetica tendono a sopperire, soppiantate da quelle più corpose, sia per
la sua più facile confusione, specie nei casi flessi, con auris, oro, come è dimostrato anche nella Appendix
Probi, uno dei più importanti documenti che testimoniano il passaggio dal latino classico a quello volgare. In
età neroniana, qual è la situazione? In Petronio il termine “bucca” è utilizzato circa 4 volte: indica una volta
boccone, una bocca e due guancia. Segno che aveva ancora in sé il significato originale, ma che si stava
aprendo verso il significato più recente.
Exegit: in quanto lectior difficilior; riportata nel codice potiore, ossia il perfetto gnomico (perfetto
atemporale e acronico, che indica comandi sempre validi nel tempo, massime generali o sentenze ) è dal
preferirsi all’alternativa di exigit-
Tamen in inizio di frase è chiaro elemto tipico del linguaggio parlato
Quaerito: è un imperativo FUTURO, è molto interessante riconoscere la desinenza to di questo imperativo,
che era in origine un avverbio di luogo poi inglobato e assunto al rango di desinenza. Esattamente come il
“to”, articolo greco che funge anche da pronome personale, la desinenza indica “da questo momento, da ora
in poi” e non ha dunque funzione retroattiva.
Necesse è assai interessante: sul dizionario è un aggettivo neutro indeclinabile, è formato da ne negazione
più un antico infinito perfetto dal verbo cedere, nel senso di allontare. Quindi è necessario ciò che non si può
allontanare e dunque va affrontato.
Auctorem producere è espressione tipica della giurisprudenza.
Drusilla è la sorella di Caligola e quindi nipote di Claudio, amante di Claudio, cui furono tributati gli onori
divini. La storia vuole che Livio Geminio, senatore, cavaliere romano, fu corrotto con 250mila denari
sesterzi per affermare in Senato di aver visto Drusilla salire in cielo e ottenere così la sua consacratio. Il
senato naturalmente gli rise dietro. L’utilizzo di questo testimone così inattendibile è volto a farci
comprendere quanto inaffidabile sia la fonte e anche questo aspetto è proprio del ritmo e del contenuto
satirico e buffonesco dell’opera.
Idem: è riconducibile a Livio Geminio, non come Russo sostiene, al viaggio: innanzitutto per il forte iperbato
e poi perché il focus è sul testimone inattendibile.
Non passibus equis è una citazione al secondo libro dell’Iliade, e ai passi del piccolo Iunius, figlio di Enea, il
quale fuggendo da Troia in fiamme con suo padre e il nonno Anchise faticava a stare dietro al passo svelto
del padre. Qui l’espressione è utilizzata nei confronti di Claudio per prendere in giro la sua menomazione.
Velit nolit: espressione asindetica e brachiologica, già riscontrabile in PETRONIO ( russo dice paratattico
con valore condizionale), che derivano da originarie interrogative doppie delle quali successivamente è stata
soppressa della risposta alla prima interrogativa.

Curatore della via Appia: che portava da Capua a Brindisi, detta anche Porta dell’Oriente, per la quale sia
Tiberio, che morì a Miseno, che Augusto, che morì a Nola, furono riportati a Roma. Qui troviamo una
piccola imprecisione storica: infatti Tiberio non fu divinizzato, mentre Augusto sì.
Interrogaveris: VARIATIO, prima utilizzava il verbo quarere, ora interrogare
narrabit qui non assume la funzione del narrare, ma diviene quasi un verbum dicendi, simile a rivelare.

Ex quo tempore: tic espressivo dell’autore, ossia espressione ricorrente in più parti dell’apokolokyntosis,
iurarat: qui Lund suggerisce la sostituzione di iurarat con le forme di video presenti nei codici, perché
l’espressione “verbis conceptis”, espressione solenne, regge solitamente solo iurare e pertanto opta per
questa sostituzione, ritenendo che ci sia stata una sostituzione. Ipotesi è geniale, ma meglio attenersi
all’originale.
Indicaturumu: utilizzo della perifrastica
Certa clara: qui Lund pone una interpunzioe che in realtà non dovrebbe sussistere in quanto certa clara è
espressione che troviamo anche rpesso autori differenti. Asindeto bimembre del linguaggio familiare, si
legge nel Russo: letteralmente “precisamente e chiaramente”, molto antico, utilizzato nelle forme di
deposizionu e giuramenti.
Habeam: congiuntivo ottativo , forma di scongiuro. Simile forme di scongiuro (nello specifico, sembrano
andare in contrapposizione al giuramento fasullo di Livio Geminio) sono molto diffuse sin dalla commedia

Capitolo Secondo: Già Febo aveva abbreviato per via più corta il sorgere della luce e crescevano le ore del
Sonno Oscuro, e già Cinzia vincitrice accresceva il suo regno e il brutto Inverno coglieva i graditi frutti del
ricco Autunno e fatto invecchiare il vino, coglieva il tardivo vendemmiatore i rari grappoli d’uva.
Ritengo che si capisca meglio se avrò detto: era il mese di ottobre, il terzo giorno delle idi di ottobre. Non
posso dirti l’ora certa: è più facile che si convenga tra filosofi che tra orologi. Era tra la sesta e la settiman
ora. Che banale! A tal punto si accordano tutti i poeti, non paghi di descrivere albe e tramonti, da scomodare
anche il mezziogiorno: così tu tralasci un’ora tanto buona?Già Febo sul suo carro aveva diviso il cerchio nel
mezzo e più vicino alla notte scuoteva le stanche redini condicendo per via obliqua la luce declinante.
Se il primo capitolo si era caratterizzato per la parodia dei prologhi delle opere storiografiche, delle quali
venivano bonariamente derise e imitate le dichiarazioni programmatiche, il secondo capitolo si apre
all’insegna della parodia di un genere, evidentemente diffuso in età neroniana, dei descrittori di stagioni,
paesaggi e momenti. L’enfasi e l’assenza di originalità nella scrittura di quelli che l’autore riteneva
evidentemente dei versificatori sono più che evidenti qui: in merito all’attribuzione dell’opera a Seneca, è
stato inoltre evidenziato come in una lettera a Lucilio egli abbia deriso un tale, Giulio Montano, che si
macchiava di comporre in questo stile prolisso e banale. L’intero capitolo è giocato sull’antitesi, sulla
ripetizione e sulle personificazioni, come è evidente già dagli esametri iniziali (non dimentichiamo che si
tratta di una satira menippea, formalmente, e quindi frammista di versi e prosa). Nei primi versi notiamo già
due ripetizioni: iam e carpebat. Se d auna parte queste ripetizioni non dovevano necessariamente dare tanto
fastidio agli antichi, potrebbero rappresentare anche una presa in giro rispetto alla tendenza di questi
versificatori di rimacinare sempre gli stessi concetti, in assenza di vocabolario adeguato. Primo verso:
troviamo ortum, che Lund pone tra cruces desperationis: scelta non necessaria, perché comunque la
costruzione regge. In alternativa a ortum, che tra l’altro è leggibile in tutti i manoscritti, Fromond propone
orbem, ossia “circolo”, mentre un’altra proposta converte su acutum, intesa come “aumento della luce”. È
un’ipotesi che non convince, affascinante anche la proposta di arcum lucis. Tuttavia ortum, derivante da
orior, essendo attestato è certamente corretto.
Febus è il Sole, Cinzia è la luna, così chiamata in quanto venerata sul monte Cinto, sull’isola di Delo. Questo
riferimento alla luna vincitrice per alcuni versi riecheggia un passo di Ambrogio da Milano in cui si faceva
riferimento a come gli antichi temessero le notti di luna nuova e gridassero al cielo “vinci, luna!”, col senso
di sconfiggere le tenebre. Non dimentichiamoci dell’importanza di ciclo lunare per gli antichi. Il calendario
effettivamente è più legato alla luna che non al sole e la stessa parola mese deriva dalla stessa radice
dell’inglese moon e del gotico mena. Qui è assai interessante notare il deformis, che non traduciamo con
Deforme per un semplice motivo: “la bellezza per i latini era la forma, bello era formosus. Nel senso,
naturalmente, della bellezza fisica. La bellezza interiore era invece la venustas e per gli uomini la dignitas,
parola che ha origine deik del verbo deiknumi, che cioè mostrare, notare. E in effetti la dignitas è quel
complesso di qualità che possono essere apprezzate dagli altri (naturalmente di tipo morale) e che rendono
attraente l’uomo che le possiede. Hiemps è una forma tarda di hiems, più comune, con la p che funge da
vocale d’appoggio tra la labiale e la sonante. Iussoque senescere è naturalmente un ablativo assoluto,
notiamo questa costruzione di iubeo più infinito: particolare, perché ci porta a parlare dei verbi causativi. Il
latino ha sempre avuto difficoltà con la formazione di questi verbi, a differenza di altre lingue che presentano
delle desinenze appositive (le lingue semitiche, ad esempio, o il greco, in cui la desinenza in izo indica
sempre un verbo causativo). Per indicare “fatto andare”, pertanto, dovremmo dire iubeo ire, che significa
faccio andare, non ordirnare. Anche in questo caso emerge questa caratteristica della lingua latina.
Vindemitor: è una forma originaria, vindemiator, che presenta l’elisione della a per una ragione di metrica.
Quest’ultima, infatti, a volte può modificare la morfolofia delle parole. Il vendemmiatore è serus, tardivo,
perché negli ultimi due versi si sta passando da una rappresentazione autunnale a una preinvernale
Notiamo qui il fraseologico “posse”, che tuttavia non necessariamente. Inoltre Russo sostiene che al posto di
intelligi ci sarebbe dovuto essere “intellectum iri”, ma questo pensiero viene meno nel momento in cui è
evidente che si tratta più di un’elucubrazione dei grammatici che non di qualcosa che trova le sue basi reali,
trattandosi in questo caso dell’infinito futuro passivo già di una scelta che non avrebbe mai potuto essere in
uso presso i latini. Notiamo l’inserimento di questa frase, che ricorda come di fatto (o fa velatamente
allusione) all’uccisione di Cladio, che probabilmente avvenne di prima mattina ma fu nascosta sinchè a
mezzogiorno non fu pronta la proclamazione del nuovo imperatore Nerone. La notte invece era divisa tra
tempestiva e intempestiva. L’allusione alla difficoltà di stabilire un’ora certa è un altro dei motivi per cui
certamente il pamplet doveva circolare anonimo. Segue un proverbio, che Kant provvederà a ribaltare:
aggiungiamo quanto fosse particolare che un filosofo si burlasse di altri filosofi. Perfettamente in linea che lo
spirito della satira.
Nimis rustice! Questa esclamazione ci riporta a un contesto determinante dell’apokolokyntosis, ovvero la
diatriba di matrice cinico stoica, con l’inserimento di questo interlocutore misterioso come espediente
narrativo. Più discusso è certamente l’”adquiescunt” successivo: si tratta di uno dei punti più difficoltosi
dell’opera rispetto al quale molti studiosi hanno prestato il proprio contributo. Roncali aggiungerebbe un
“adeo non”, mentre Russo un “adeo his” e invece Mariotti addirittura un adeo is non. Integrazioni,
ovviamente. Altre vie consistono nella sostituzione di adquiescunt con adquiescis o con inquis, inquit o aid,
addirittura. Insomma, le supposizioni si sprecano, ma ciò su cui si è concordi è la sua antinomia con
inquietent. Lo traduciamo pertanto con “hanno l’agio di” o “si permettono di”. Notiamo anche il Tu, in
posizione enfatica, quindi il transibis qui utilizzato come verbo transitivo, secondo un uso post augusteo, in
luogo di trasmitto. L’ora è tanto buona sia perché normalmente il mezziogiorno è fausto, sia perché è
avvenuta la morte di Claudio, sia in quanto dà luogo e modo ai poeti di versificare tanto.
Fessas: enallage dell’aggettivo, che grammaticalmente èdovrebbe essere riferito a Febo e invece è spostato
sul sostantivo vicino, nonostante la qualità che indica sia da attribursi a un sostantivo diverso da quello a cui
si riferisce.
CAPITOLO II
Già Febo aveva ridotto il sorgere della lice per via più breve e crescevano le ore del sonno oscuro, e già
Cinzia vincitrice accresceva il suo regno e lo sgraziato inverno coglieva i frutti gratti del ricco autunno e
fatto invecchiare il vino il tardivo vendemmiatore coglieva i rari frutti. Io penso che si capirà meglio )di più)
se dirò: era il mese di ottobre, il terzo giorno delle idii di ottobre. Non posso dirti l’ora certa: è più facile che
si convenga tra filosofi che tra orologi. Era tuttavia tra la sesta e la settima ora. Che rustico” A tal punto si
accontentano tutti i poeti, non paghi di descrivere albe e tramonti, da scomodare anche il mezzogiorno:
favvero tu lascerai (tralascerai) un’ora così bella? Già Febo sul cocchio aveva diviso nel mezzo il cerchio e
più vicino alla notte scuoteva le redini stanche conducendo per via obliqua la luce declinante.
Mentre nel primo capitolo sono state parodiate, anche se sottilmente, le affermazioni degli storici e i loro
prologhi dalla natura programmatica, in questo secondo la vena satirica e ironica dell’autore si rivolge ai
versificatori che abbondano nelle descrizioni prolisse e attingono a un patrimonio stantio in mancanza di idee
proprie e originali. In particolare in una lettera a Lucilio Seneca criticherà questo andazzo, prendendo di mira
un tale, Giulio Montano. Così ironicamente gareggia con loro in questa descrizione di stagioni, che attinge
come vedremo alle conoscenze in ambito mitico e mitologico, a perifrasi che allungano il brodo senza
riversare nulla di nuovo nel contenuto.
Inizia così la descrizione della stagione. Febo è il sole, Cinzia è la luna, in quanto Diana era venerata sul
monte Cinto, nell’isola di Delo. Nulla di nuovo, nell’affastellamento di motivi mitologici, nei contenuti, con
la doppia ripetizione di “iam” e “carpebat”. Questa ripetizione può essere un riferimento al fatto che i poeti
macinano sempre gli stessi motivi.

Ortum: Lund lo pone tra cruces desperationes, ma in effetti non è necessario perché reggerebbe comunque.
Propone quindi anche l’ipotesi di Fromond, “orbem”, nel senso di parabola del sole, o anche un “auctum”,
nel senso di “aumento della luce”. C’è anche arcum lucis, ma è conveniente lasciarlo così.
Vinctrix è interessante e riporta un passo di Ambrogio di Milano in cui racconta che i pagani dei suoi tempi
erano terrorizzati, quando la luna non appariva in cielo e urlavano vinci luna, trionfa sulle tenebe. Sarebbe
quindi da collegare con l’usanza di invocare la luna vincitrice sul buio della notte. Gli antichi utilizzavano il
ciclo della luna, tanto è vero che la terminologia di computo del tempo è basata su questa conoscenza. Il
mese ha la stessa radice dell’inglese moon, di mena dal gotico, che è luna.
Himps è una forma più tarda del comune Hiems, con la p tcon funzione di appoggio tra la labiale e la
sonante. L’inverbo è deforme, sgraziato, non brutto: in quanto in latino la forma era la bellezza fisica, mentre
quella non fisica viene chiamata venustas, perché venustas è la bellezza che Cicerone definitiva femminile,
mentre la dignitas è maschile. Dignitas ha la radice deik, stessa del verbo greco deiknumi, che significa “far
conoscere, mostrare, rendere noto. La dignitas in effetti ce l’ha qualcuno che si fa notare specie per le sue
doti morali. Per questo traducuamo formosus, aggettivo, come bello e defornmis, con il de privativo, non
come deforme ma brutto. Il brutto inverno.

Antinomia, antitesi e ripetizioni: le ripetizioni, comunque, come sappiamo, non spaventavano gli antichi.
Isso seneschere bacco è un ablativo assoluto. Immagine molto barocca, far maturare l’uva sui tralci fa
nascere un vino più dolce e languido. Iubeo più infinito. Apriamo qui una parentesi sui verbi causativi, come
sappiamo il latino storico non è in grado di formarne e ha sempre avuto difficoltà per esprimere il causativo,
a differenza di altre lingue come quelle semitiche in cui Se vogliamo dire “faccio andare”, dovviamo dire
“iubeo ire”, che significa semplicemente “faccio andare”, ma iubeo ire vuol dire letterlamente quello, non
ordinare. Questo problema non c’è in greco, perché i verbo in izo sono sempre causativa.
Il vindemitor viene detto serus perché in questi ultimi tre versi sembra che si passi da una rappresentazione
autunnale a una preinvernale. Inoltre vindemitor è una forma contratta per vindemiator, con elisione della a
per resa del metro, che spesso domina e può modificare la morfologia delle parole.
Lund integra un fraseologico, posse, ma potrebbe anche non essere necessario. Anche il Russo sbaglia e
sostiene che, essendoci dixero, ci sarebbe potuta essere al posto di intellegi “intellectum iri”, cioè l’infinito
futuro passivo, ma è più una elucubrazione dei grammatici che nella lingua si usa pochissimo, essendo una
strana costruzione per i latini. “Ritengo che si capisca meglio se avrò detto: era il 13 ottobre”.
Horam: Secondo le fonti, Claudio fu avvelenato da Agrippina la mattina presto, ma la notizia si seppe
soltanto verso mozzogiorno, quando era già stata predisposta la successione di Nerone. Anche per questo non
si sapeva. L’autore correva dei rischi a dire questo e anche per questo motivo si pensa che l’opera circolasse
anonima. Il proverbio è molto comune e la canzonatura dei filosofi da parte di un filosofo rientra bene nel
carattere della satira e per la nota antipatia dei Romani per i philosophari.

Qui abbiamo un’indicazione sul funzionamento dell’orologio per i latini: la giornata era divisa dall’alba al
tramonto, mentre le ore della notte erano molto generali, con la notte tempestiva o intemprestiva. La prima è
quella in cui si può ancora lavorare, mentre la seconda è il cuore della notte. Nello specifico, per quanto
rigurarda la mattina, la sesta ora corrisponde a mezzogiorno e la la settima alle tre, dunque claudio morì in
questo intervallo di tempo.
NIMICE RUSTICE: non dimentichiamoci che siamo all’interno della diatriba di matrice cinico storica,
quindi ogni tanto c’è qualcuno che interviene e a cui si deve rispondere. Questo nimice rustice, con
l’espediente di introdurre un personaggio fittizio, deve essere preso come un’esclamazione, un’intervento.
Assai più discusso è adquiescunt: è naturale che vada mantenuto, perché va in contrapposizione con
inquietent, ma sull’interpretazione ci si è diretti verso tre posizioni principali. La Roncali integra
adquiescunt con “adeo non”, invece Russo con “adeo his”, Mariotti con “adeo his non”. Oppure, correggere
adquiescunt in adquiescis, oppure correggerlo integralmente in inquies, inquis, ait qui In questo modo, puoi
dare al verbo due accezioni: o essere d’accordo, oppure avere l’agio di.
Troviamo inoltre un’antitesi tra omnes poetae e tu. Il pronome personale ha il suo perché; è in posizione
enfatica percè è un NESSO QUASI AVVERSATIVO E SERVE PER RIMARCARE LA DISTANZA.
L’ora è tanto buona perché offre lo spunto a belle perifrasi, e anche perché era quella della morte di Claudio,
e perché il mezzogiorno è già di per sé ora fausta.
Transibis: utilizzato in forma transitiva, come frequentamente nella prosa post auguste , usato col valore di
praetermitto.
Fessas: lasciamo fessas. Perché è una figura retorica e precisamente un’enallage dell’aggettivo, in quanto
sebbene riferito a un sostantivo diverso da quello a cui il suo significato lo dovrebbe legae.
Terzo Capitolo:
La scena muta improvvisamente, con un cambio dall’esametro al verso. Claudio sta tentando di buttar fuori
l’anima; come un animale che sia intrappolato nella propria stalla, ma anche come una flatulenza. Tutto si
gioca su questo contrasto; in particolare nella parola exitum, intensa come l’uscita, ma anche come “la fine”,
nel senso del termine della vita. Ricordiamo che per gli antichi anima e animo sono due elementi differenti il
primo è legato alla razionalità, il secondo al sentire. A venire in suo soccorso è Mercurio: dio dell’astuzia,
dell’abilità (intellettuale e motoria), della rapidità e dell’agilità di pensiero. L’opposto di Claudio, insomma.
La chiave torna a essere quindi fortemente ironica.
Delectatus esset: ci troviamo davanti a una proposizione relativa impropria di valore causale che possiamo
tradurre o come una finale, quindi poiché si era sempre dilettato, oppure con la sfumatura dubitativa ed
eventuale del congiuntivo, modo della soggettività, con il “che si sarebbe sempre dilettato”. Ingenium ha la
stessa radice di “gigno”, ossia qualcosa di connaturato nei geni.
Seducit: se- ducere: si tratta di un preverbio che indica “staccare” da qualcosa, tirare da parte.
Viene qui nominata la prima parca: si tratta di Cloto, la tessitrice, colei che tesse il filo della vita. Quindi
Lachesi, da Lagkano, avere in sorte, decide la lunghezza del filo in questione, mentre Atropo l’inesorabile
taglia il filo della vita mettendo fine agli uomini. L’azione della parca crudelissima che non dà fede
all’avversario si svolge secondo un rituale noto dalle tabelle defixionum, con morti invocate, lunghissime e
dolorosissime. Le tabelle defixionum erano testi di contenuto magico, spesso maledizioni, scritti su tavolette.
L’anima viene descritta come una bestia che non riesce ad uscire dalla stalla, in quanto agere significa
letteralmente “spingere fuori. L’aurea è percepita come un soffio vitale ma anche come riferimento a una
flatulenza. I latini facevano distinzione tra snimus e anima: animus è la facoltà attraverso cui ragioniamo, la
razionalità, alla maniera di Aristotele, mentre l’anima sarebbe quella fisiologica attraverso il quale sentiamo,
viviamo.
Luned pone “exeat”, che traduciamo come un congiuntivo limitativo, eppure la lezione dei codici ci
tramanda “esset”, come un imperfetto congiuntivo del verbo sum. I primi commentatori, sin da Adrianus
Iunius, propongono l’integrazione di una c, “cesset”, dunque- cesset cruciatus come participio predicativo.
Nell’apparato delle note, Brum accetta exeat. Quindi abbiamo o un esset che diventa cesset o
Annus: i latini davano sempre un anno in più- Sta lottando perché noi sappiamo che Claduio è sempre stato
di salute assai cagionevole. Probabilmente morì a 63 anni, ma i Latini erano soliti computare nel calcolo
anche l’anno non ancora compiuto.
Quid… invides: qui invides da invideo, nel senso originario di male videre. Il termine invideo, formato dalla
particella in più il verbo videre, secondo alcuni in questi in: non e videre, “non lo posso vedere”. Come in
sardo, d’altra parte, perché l’individioso distoglie lo sguardo dalla felicità altrui che gli fa male, m a anche in
slavo dove l’odio è NIENA VITIDI: non poter vedere.
Patere efferentu: qui c’è un attacco preciso a un provvedimento di Claudio, che aveva bandito tutti gli
astrologi e i maghi dai confoni dell’impero, che erano prezzolati per mettere in giro voci sulla prossima
caduta dell’imperatore. Questa incertezza indeboliva l’impero e metteva in pratica i meccanismi di
successione: essendo così destabilizzante, sia Tiberio che Claudio bandirono maghi e astrologhi.
Patere è un imperativo da pateo
Effertun èn termine tecnico che significa seppellire, portar fuori, in riferimento all’antichissima legge già
citata nelle XII tavole relativa al fatto che occorre seppelire i morti fuori dal pomerio, dalle mura delle città.
Una legge ripristinata poi con Napoleone Bonaparte, e che spiega la posizione periferica dei nostri cimiteri

CAPITOLO TERZO:
Claudio cominciò a spingere l’anima e non aveva potuto (era riuscito) a trovare l’uscita. Allora Mercurio,
che sempre si sarebbe compiaciuto del suo ingegno, prende da parte una delle parche e dice: perché, donna
spietata, lasci che il miseruomo venga tormentato? Ne mai uscirà dalla vita, dopo aver tanto sofferto? Sono
64 anni da quanto lotta con l’anima. Perché odi lui e lo stato? Lascia che gli astrologi una volta tanto dicano
il vero, loro che, da quando fu fatto principe, lo seppelliscono ogni anno ogni mese. E tuttavia non è strano,
se sbagliano e nessuno conosce la sua ora: nessuno infatti sapeva che lui fosse nato. Fa ciò che va fatto.
Lascia che muoia. Lascia che uno migliore regni nella reggia vuota. Ma Cloto: per Ergole, disse, volevo
cconcedergli un altro pezzetto di tempo, affinchè graziasse con la cittadinanza (quindi concedesse la
cittadinanza) anche a coloro che sono rimasti- aveva infatti deciso di volter vedere togati tutti i greci, i galli,
gli ispanici e i britannici, ma piuchè sembra che alcuni pellegini debbano essere lasciati in semenza e tu
ordini che così sia fatto, sia fatto!
Notiamo come la scena riprenda con una brusca interruzione dopo l’andamento degli esametri e colga
Claudio impegnato a cercare di far fuoriuscire l’anima, rappresentata allo stesso tempo come una bestia che
tenta di uscire dalla stalla in cui è imprigionata, saia come una sorta di flatulenza. L’intera espressione è
votata al doppiosenso: non dimentichiamoci inoltre del duplice valore dell’anima presso i romani. L’animo,
legato alla razionalità, e l’anima legato agli elementi più fisiologici, al soffio vitale dunque, ai sentimenti e
alla mortalità. Fondamentale è il duplice significato di “exitum”, che secondo alcuni è tradotto con fine,
inteso come “claudio non riusciva a trovare la fine”, quindi a morire, in quanto la sua agonia sarebbe durata
al lungo, secondo una corrente più considerata, invece, sarebbe semplicemente “l’uscita”. Notiamo qui la
presa in carico di Mercurio: naturalmente un’altra staffilata rispetto alla fama di persona poco sveglia di cui
godeva il povero Claduio, essendo Mercurio il dio votato all’agilità (cladio era zoppo), sia mentale che fisica,
alla furbizia, alla scaltrezza. Notiamo questa espressione: si tratta di una relativa impropria con valore
causale, che presenta infatti il congiuntivo: possiamo tradurla come una finale “ poiché si era sempre
dilettato del suo ingegno”, oppure attribuirle quella sfumatura eventuale/dubitativa con “che si sarebbe
sempre dilettato del suo ingegno”, con “ingegnio” che condivide la stessa origine di gigno; e quindi è
qualcosa connaturato, legato al Dna. Qui notiamo come vengano introdotte le Parche, o Moire in greco:
Atropo, Cloto, Lachesi. Cloto, quella interpellata, è colei che tesse il filo della vita degli uomini, Lachesi
colei che misura la lunghezza della vita (dal verbo greco lagkano) e Atropo è colei che lo recide. Seducit: la
particella “se” indica allontanare da qualcosa. Interessabte qyesto “exeat. Accettato da Brum, in realtà tutti i
codici riportano “esset”, ossia l’imperfetto congiuntivo del verbo sum. Tuttavia già Adrianus Iunius propone
l’integrazione di cesset, secondo una procedura poi diffusa tra i commentatori, che regge il cruciatus, inteso
quindi come participio predicativo.
Sul conteggio degli anni, ricordiamo che i Latini erano soliti conteggiare anche l’anno in corso. Ex quo:
ricorre il solito tic espressivo. Su invides; nell’antico senso di “male videre”, secondo un’ulteriore etimologia
di invideo per cui il preverbio in indicherebbe non e video notare. Come in sardo, ma anche come in slavo,
dove nini videa indica l’odio. Patere è imperativo di pateo, mathematicos: l’intera espressione di riferisce al
bando da parte di Claudio degli astrologi e degli indovini, prezzolati per diffondere false notizie sulla morte
o la caduta dell’imperatore, rendendo fragile l’impero. L’HORAM EIUS NEMO NOVIT può essere un
riferimento al fatto che nessuno la conosceva, per l’assenza di strumenti idonei a misurare l’ora, ma anche
perché Agrippina lo insabbiò. Fa quod faciendum est: perifrastica passiva; quindi il bellissimo esametro
delle Georgiche di Virgilio, che si riferisce all’uccisione del fuco, quindi al mondo delle api, per far spazio a
un esemplare più forte. In questo caso invece il motto, che probabilmente circolava già a corte sotto Claudio,
viene adottato per l’imperatore. Sine non è l’avverbio ma l’imperativo di sinere. Eho Mechles, la contrazione
di hercules me iuvet. Si tratta di una esclamazione maschile, in quanto le donne erano più solite dire
MECASTOR(?), già riscontrabile in petronio e in bocca a un’eterea nella commedia plautina, eppure questo
è volto a rendere la musa più mascolina e a dare all’intero quadro, anche grazie all’utilizzo dei diminutivi
pusillum e paucoloso, vezzeggiativi, tipici del linguaggio colloquiale in suo tra le deu divinitoà, che sono a
tutti gli effetti fratellastri in quanto figli di Zeus, e poi spia del linguaggio colloquiale è l’utilizzo in eccesso
di ego, quindi il falso condizionale “volebam”, con l’utilizzo dell’imperfetto per esprimere il condizionale
“Volevo un gelato ma ho preferito una crepe”; i un rango del tutto inferiore a quello degli esametri virgiliani.
L’intera espressione costituisce una critica al volere di Claudio di vedere togati, ossai concedere la
cittadinanza agli stranieri: un vento non ammissibile per i cittadini nati romani. Ricordiamo che Seneca
nacque a Cordova, quindi
Placet è un verbo impersonale, in uso presso il linguaggio protocollare, modo elegante per imporre la loro
volontà: “piace che”, potremmo tradurlo. Sul semen, qui si immagina che l’immagine è tratta dal mondo
agricolo, si parla di generazione come una semina. Il modo di dire ricorda il mito di Deucalione e Pirra, che
dopo l’alluvione che pose fine al mondo furono invitati da zeus a lanciare pietre alle loro spalle,
“seminando” così uomini e donne. In semen: complemento predicativo grecizzante, orientalizzante
L’espediente della capsulam, molto originale: in merito a questi tre proprietari dei fusi racchiusi nel cassetto
di Cloto, si è molto discusso. Alcuni ritengono si tratti di altre persone decedute nello stesso anno di
Claudio,oppure a una seconda edizione riaggiornata e rivista con la morte di Augurino e Baba. Poi è stato
notato che in effetti l’ordine è alfabetico e dal punto di vista della metrica si sta scimiottando le filastrocche
imaprate dai bambini per apprendere l’alfabeto con nomi comici e inventati. Questa teoria sarebbe avvalorata
dalla metrica tipica delle filistracche, caratterizzata da una lunga, una breve e una lunga . Secondo qualcun
altro potrebbe rappresentare tre lati stessi di Claudio: essere un augure, ma di scarso valore e nessun conto,
quindi un augurino, essere baba, bioè babbeo, ma anche balbuziente, e claudio, ossia claudicante, Un modo
come un altro per fare una caricatura, una macchietta dell’imperatore. Non bisogna dunque ritenerli
personaggi reali. SECONDO ALBERT DIETERICH è l’alfabeto degli siocchi: Augurinus
Mori iubebo: vediamo qui la particolare costruzione causata dall’impossibilità del latino di fare uso di verbi
causativi e determinata con la costruzione di iubeo più infinito: in questo modo iubeo perde il suo valore di
“ordinare” e significa semplicemente “fare”.
Nec illum incomitatum: alcuni dei 44 deteriores riportan “ne”, il che la renderebbe una proposizione negativa
finale. Incomitatum è composto da in, che svolge il valore dell’alfa privativo, quindi troviamo la LITOTE:
NON SENZA COMPAGNIA
TOT TOT anafora, milia è una iperbole, quindi abbiamo particamente abbiamo due participi presenti:
sequentia e precedentia e un participio perfetto, VARIATIO. Ricerca di uno stile solenne a fini umoristici.
Subito è un avverbio di marca popolareggiante che resiste nelle lingue romanze, mentre convictor è un
termine molto elevato, si tratta del compagno con cui uno condivide degli ideali poetici e politici.
L’etimologia di convictor è cum insieme al participio di vivere, victus, quindile persone che vivono insieme,
nel senso di accomunate dagli stessi ideali di vita. Qui invee questo termine viene deformato e assme una
connotazione negativa, come “combriccola”; i compagni di merenda, svuotato di quella altisonanza e
solennità.
Convictor: si tratta di un termine assai in voga in età augustea e indica qualcuno con cui si condivide un
ideale politico o poetico. Un temine elevato, quindi, composto da cum più victus, participio di vivere, cio+
qualcuno in compagnia di cui si vive. Un termine che tuttavia assume qui un significato diverso,
peggiorativo, quasi una combriccola” che depaupera di tutto il tono solenne della tradizione letteraria.

Capitolo Quarto:
Questo disse e avvolgendo i filamenti intorno all’orribile fuso mozzò i momenti regali di una vita stolta. Ma
Lachesi, raccolte le chiome, ornati i capelli, inghirlandando il crine e la fronte con alloro piero, colse fili
candidi dalla lana bianca come la neve da governare con mano prospera, i queli assunsero nuovo colore dopo
essere stati filati. Le sorelle ammiravano il filato: la lana di scarso valore si musa in prezioso metallo, stirpi
d’oro discendono dal bel filo. Non c’è modo per quelle: filano prospere matasse e gioiscono del riempirsene
le mani: sono dolci i lavori. Il lavoro procede di sua sponte e con nessuna fatica i morbidi filamenti
discendono dal filo che gira. Superano gli anni di Titone e quelli di Nestore. Febo attende e con il canto aiuta
e gioisce del futuo e ora muove lieto il plettro, ora porge i filati: con il canto le tiene intente e alleggerisce il
lavoro. Mentre lodanom spesso la cetra e i canti fraterni, le mani tessono più del solito e il lavoro apprezzato
supera i destini umani. Non fermatevi, Parche, dice Febo, vinca i tempi (i confini) della fita mortale colui
simile a me nel volto e nell’avvenenza né minore nel canto e nella voce. Darà tempi felici agli stanchi
mortali e romperà il silenzio delle leggi. Come Lucifero che sbaraglia gli astri che fuggono, come Espero
sorge con gli altri che ritorno, come, quando Aurora dissolte le tenebre conduce il sole rosseggiante, il Sole
guarda la terra lucida e invita a movere i primi passi fuori dai cancelli.
Terminato il discorso diretto, cominciano le cosidette Laudes Neronis, in esametri, che insieme alle Laudes
Claudi, in anapesti, costituiscono i più lunghi pezzi poetici dell’opera. In esametri dattilici, le Laudes Neronis
sono formalmente perfette, con ritmo piacevole, ma vuoti. Infatti non dimentichiamo come in età neroniana
la versificazione avesse raggiunto già il suo apice, dal punto di vista formale, con Ovidio, che era in grado di
comporre con tanta facilità da far parlare di prosa versificata. Con Virgilio poi, più che alla corretteza
formale, si guardava alla straordinaria humanitas dei suoi componimenti. Quindi benchè perfetti, tuttavia, le
Laude sono vuoti: ridonandanti di figure retoriche (dall’enallage, zeppe metriche che fanno utilizzo di
espressioni volte da puro riempitivo del verso con parole tipiche del linguaggio alto sino a chiasmi, anafore e
ripetizioni ad effetto. Tuttavia il contenuto è estremamente banale e pesante ).
Notiamo “ sappena terminato il discorso diretto, cominciano le cosidette Laudes Neronis, che insieme alle
Laudes Claudii costituiscono i più lunghi versi dell’intera opera. Composte in esametri dattilici, notiamo
come siano formalmente perfetti è il loro ritmo piacevole: certo, al tempo di Seneca e petronio l’esame aveva
raggiunto il massimo della sua perfezione formale prima con Ovidio, che aveva una capacità di versificare
tale ch da avere naturalezza nel composizione da far parlare di prosa versificata, quindi quella tecnica era
ormai acquisita . Tuttavia i versi sono vuoti:, con una sovrabbondanza di espedienti espressivi come
l’Enallage, utilizzata per riempire il verso come zeppa metrica chiasme, anafore e ripetizioninad effetto.
Iniziamo, quindi, dall’Haec it, tipica del linguaggio poetico, tipico dei discorsi diretti, che troviamo anche in
Virgilio. Inizia quindi un lungo riferimento al mondo della filatura, con la ripetizione di elementi propri del
linguaggio tecnico. Turpi è il filo, cosidetto perché turpe è l’esistenza di Claudio, mentre notiamo qui
l’utilizzo di un’enallage, ovvero regalia, naturalmente legata grammaticalmente a tempora ma logicamente
da riferisci alla vita “stolida” del re. Notiamo qui l’utilizzo del temine stolidus, utilizzato (forse prima
testimonianza) con riferimento a una cosa astratta. L’intera espressione è incredibilmente barocca e
rindodante. Notiamo come, da prassi, Cloto in realtà avrebbe dovuto soltanto filare il filo, non mozzarlo
anche (compito che piuttosto spetterebbe ad Atropo). Redimittus: è un aggettivo poetico arcaico che
troviamo anche in prosa, ad esempio nel Somnium Scipionis di Ccicerone, in cui lui utilizza un linguaggio
arcaico e quasi sacrale.
Comas e capillos, crinem e frontem sono degli accusativi alla greca o accusativi di relazione. Si tratta di una
costruzione caratteristica della lingua greca con un accusativo retto da un participio o un semplice aggettivo,
in cui l’accusativa indica in relazione a cosa va l’enunciato. Qui: redimita comas, con un participio perfetto
passivo di redimio, Come è possibile che un costrutto tipicamente greco entri a far parte di un sistema
linguistico diverso? La risposta è semplice: ssono dei complementi oggetto. Perché in principo il participio
perfetto non era volto al passivo e poteva tuttavia regger eil complemento oggetto. Il costrutto è rimasto
anche quando il aprticipio perfetto si è specializzato al passivo. Versi ricchi di variazio: comas, capillos e
crinem: la chioma degli alberi, poi temine recente e di poco valore, quindi termine di antica tradizione
relativo sia ai capelli femminili che maschile. Variatio caratterizzata da una sovrabbondanza di sinonimo.
Torna la variatio anche nei participi: perfetti redimita e ornata, coronans al presente. Non parliamo poi delle
ripetizioni di ducere nel senso di filare o di sumo
Tornano felix, prosperle
Vellere è l’ablativo di vellus, il gomitolo di lana non ancora filata e subetemona è un termine raro e intidca la
trama su cui viene tessuto un tappeto. Deriva da subtemica, sub texere, canovaccio su cui viene fatta passare
la spola per creare le decorazioni. Viene usato impropriamente, perché c’è bisogno di un termine che sia
aulio, ma anche adatto al metro, con questa scansione. D’altra parte il poeta è a sua volta un tessistore, una
persona che fa poesia.
Moderanda: gerundivo significa
Assumpsere: perfetto di istantaneità o di constatazione, quando si vuole esprimere un’azione che si realizza
all’improvviso e quasi inaspettata. La desinenza in ere è molto frequente perché in poesia, si presta bene con
questa finale trocaica a entrare nell’esametro ed è una desinenza alternativa sovrabbondante alla terza
persona plurale. Cosa significa pensum? È iltanto di filato che una schiava doveva eseguire in un giorno.
Mutatur: DIERESI BUCOLICHE.
Vilis pretioso, lana metallo: qui c’è chiaramente un’antitesi. Nel primo emistichio gli aggettivi, nel secondo i
sostantivi: questa tecnica era stata inaugurata forse da Teocritico, e propria della lirica alessandrina.
Un’ulteriore antitesi contrappone formoso filo a turpi fuso, rispetto quindi all’esistenza turpe di Claudio c’è
quella piena di promesse di Nerone.
Nullo laboro e sua sponto: uguale, perché nell’età dell’oro le cose si fanno senza fatica.

Capitolo IV
Il quarto capitolo si apre con gli esametri dattilici delle Laudes Neronis, che costituiscono insieme alle
Laudes Claudii, in anapesti il più alto numero di versi all’interno dell’opera. Notiamo come, per quanto
ritmicamente piacevoli e almeno formalmente perfetti, si tratti di versi vuoti. Cosa intendiamo dire con
questo? All’epoca neroniana la produzione di esametri aveva già raggiunto il suo apice sotto Ovidio,
versificatore in posa, quindi all’interno delle scuole l’insegnamento della ritmica, ormai consolidato, diede
voce a una lunga serie di poeti collaudati in questo senso. Tuttavia, i versi sono “vuoti”: barocchi, ridondanti,
con un eccesso di sinonimie, chiasmi, anafore, enallagi e zeppe metrice, utilizzate come “riempimento” del
verso, laddove non quadrasse, attraverso l’impiego di parole alte, tipiche della poesia solenne. I versi
salutano la morte di Claudio e inaugurano la venuta di Nerone, iniziatore dell’età d’oro, attraverso un
complesso riferimento al mondo della filatura e delle Moire. Innanzitutto, notiamo come gli esametri eroici
inizino con un “haec ait et”, tipico della poesia alta per fare spazio al discorso diretto e che ritroviamo in
Virgilio. Turpis fuso: turpe è la vita, l’esistenza stessa di Claudio. Questa espressione forma la prima di tante
antitesi che troveremo successivamente.con il morbido filo contorto, che gira, di Nerone, che davanti a sé ha
ancora tanti anni. Distinzione tra il fatto che è Cloto a occuparsi del taglio del filo, mentre – Scrive Roncali-
di questo si sarebbe dovuto occupare Atropo e di come la vita di Claudio fosse già stata filata, mentre quella
di Nerone Apollo chiede alle Parche di filare “olre i confini”. Stamina è il primo di numerosi termini tecnici
propri del mondo della filatura, quindi notiamo stolidae, forse prima testimonianza dell’utilizzo di questo
aggettivo per qualcosa di astratto come la vita. Evidente anche l’enallage, ovvero il riferimento grammaticale
che logicamente dovrebbe trovarsi su un sostantivo e invece si riferisce a un altro. In questo vaso è “regalia”
che dovrebbe riferirsi a vita e invece è legato a tempo. Qui troviamo alcuni cosidetti accusativi alla greca,
detti anche accusativi di relazione: sono redimita comas, ornata capillos: si tratta di cosidessi accusativi alla
greca o accusativi di relazione, tipici della poesia, formati da un accusativo retto o da un participio perfetto o
da un aggettivo. Notiamo come l’accusativo di relazione, che quindi indica in relazione a cosa vale
l’enunciato, è parte della lingua greca ed è entrato all’interno di un sistema linguistico totalmente differente
perché in origine il participio non volgeva al passivo e gli accusativi fungevano quindi semplicemente da
complementi oggetto. Quando poi il participio è volto anche al passivo, il costrutto è comunque rimasto.
Notiamo la varatio sia verbale che eccesso di sinonimia: crinem, termine piuttosto comune del linguaggio,
comas, che in origine indicava le chiome degli alberi, e capillos, termine alto. Naturalmente tutto insiste
sempre sulle stessi concetto. Le Parche sono descritte come fanciullette e per Nerone nulla hanno
dell’inquietudine e della parsimonia che le contraffistingue. SUbtemina è ulteriore termine tecnico, che
indica la trama che viene battuta, il carnovaccio sul quale passare la spola al telaio. Vllere deriva da vellus,
potremo chiamarlo il pennacchio, il gomitolo insomma. La mano è felice in questo gerundivo sia perché
operosa, sia perché sta filando il destino di un grande imperatore. Abbiamo wui ducta che viene utilizzato
come per la prima volta nel senso di filare, poi assumpsere: è un perfetto di istantaneità, utilizzato per
indicare avvenimenti introdotti all’improvviso, istantanei, con una forma alternativa e sovrabbondante della
desinenza della terza persona plurarele, perfetta per la sua e finale trocaica, che si adatta bene all’esametro
istantaneità con una desinenza alternativa sovrabbondante della perza persona plurale, che viene utilizzata a
causa della finale trocaica perfetta per entrare nell’esametro. Naturalmente dal blando bianco si passa all’oro:
è iniziata l’età dell’oro. Pensa è il profotto della giornata di lavoro. Qui abbiamo la prima antitesi, notiamo
inolrre come in un espediente già caro a Esiodo il primo emistichio conservi gli aggettivi e i secondi i
metalli. Il formoso filo, attenente al mondo dell’estetica, si contrappone al turpe fuso sponte sua e nulloque
labore perché è tutto facile nell’età dell’oro. Il fuso è “contorto”; da torqyeo, derivante dalla radice
indoeuropea terkw trewk, da cui deriva il rco trepw e il latico torqueo che significa “girare volgere” e
trattandosi di un antico verbo causativo, far girare. Titone era un bel giovanotto che si era innamorata di Eos
ma dimenticandosi di chiedere l’eterna giovinezza, ma solo la vita eterna, mentre Nestore è il più anziano
eroe che partì per la guerra di troia. Compare Febus: detinet intentas cantu è un elemento piuttosto discusso,
in quanto Lund ci propone intentus, ma in realtà le Parche lavorano, lui no, quindi è possibile che si tratti di
un iperbato e cantu sia da associare a fallit.
Nevere: anche in questo caso troviamo una desinenxa alternativa del perfetto dell’impertto di neo, anche qui
variante per motivazioni metriche,
ne demite, parcae: forrma grecizzante, formata da ne e dall’imperativo positivo, che a roma iniziava a essere
utilizzata nel parlato. Noli nolite e infinito, ne più congiuntivo imperfetto. Sono costruzioni scomode,
trattandosi di perifrasti
ille è un dimosstrativo con funzione idealizzante del personaggio, come ne verso 50 di Catullo,
vultu: differente da facies, in quanto il vultus indica l’espressione di un volto, decoro la bellezza. Spesso di
parla dell’attrattività del volto di Nerone, della sua venustas e regolarità dei tratti, che tuttavia non aveva
alcun piglio; sguardo vacquo, con occhi celesti annaquati e le gambe molto corte, ma biondo- come si
immaginava fosse Febo. Questo paragone è una costanza della propaganda imperiale neronianna. Silentia è
al plurare per pure ragioni metrice: ruppe il silenzio perché sotto Claudio, trattandosi di un despota, aveva
evitato le leci. Nec nec anafora, ma anche litote, e anafora al verso sopra. Cantu è qui una sorta di endidadi
seguono le similitudini bipolari quasi virgiliane, che cioè sono non tanto legate da non risultare indipendenti
come le semplici, ma creano nuovi scorci, sono indipendenti e espressivi in maniera autonoma,
RUBICONDA tenta di riprodurre l’Autrora dalle dita di rosa rododattylos. A carcere, il cancello: questa è
un’immagine sportiva estremamente cara ai romani: il lancio del cocchio in carso. AXES è una sinnedoche

Talis e talem: notiamo il poliptoto, ossia la ripresa della stessa parola modificata soltanto per caso, genere o
numero. Neronem viene finalmente nominato per la prima volta: torta in riferimento, più che frequente, alla
sua bellezza fisica, alla sua formositas, attraverso gli ablativi assoluti che descrivono splendore del volto e i
bei capelli che noi sappiamo essere biondi sciolti. At Lachesis viene considerato comunemente una
espressione relativa impropria di valore causale, ma potrebbe anche essere tradotta come una finale. Plena
manu è espressione colloquiale e illud è riferito e sottointende il “suo lavoro” quello della Parca, cioò. Molto
interessante questo “de suo”, che secondo l’opinione corrente indicherebbe gli anni suoi, ossia di Lachesi,
che se ne toglierebbe da immortale per aggiungerli a quelli del mortale nerone. Ma non regge granchè:
poittosto de suo potrebbe riferirsi al suo fuso, quindi secondo il suo, le sue capacità e competenze di poter
fare un atto come questo. Multos annos è espressione augurale tipica degli imperatori. Omnes: chi potrebbero
essere? Gli dei, quindi Febo e le parche, opiuttosto gli esseri umani? La frase precede il trimetro giambico
tratto da un’opera perduta da Euripide, un chiaro riferimento della passione di Claudio per i classici greci,
che era solito sciorinare con citazioni e riferimenti, ma che stavolta vengono utilizzati contro di lui.Su questi
omnes, è difficile capire a chi si possano riferire perché l’espressione greca, chiaramente riadattata al
contesto, in realtà sarebbe potuta essere al nominativo con un iper correttivismo che ci ha lascita xairontais
eufemonuntais, una sorta di dativo, probabilmente risultante da un ipercorrettismo che lo porterebbe al
nominativo.Ma essendo i manoscritti stati adattati dai copisti di epoca bizantina, la tradizione manoscritta ci
spinge a pensare che in realtà la lezione originale possa essere al nominativo
Ebullit: svaporò, con riferimento anche alla flatulengza: termine che troviamo già due volte in Petronio. Qui
riferimento molto interessante a Svetonio, fonte che voleva che dopo la morte di Claudio, fossero stati
chiamati dei commedianti per fingere che lui li avesse chiamati per distrarli. Ora, se Seneca avesse scritto
qualcosa del genere contro Agrippina, difficilmente avrebbe potuto riportarlo. Qui, sull’esempio delle ultime
parole dei grandi uomini romani, c’è una pesantissima critica di Claudio e anche un ulteriore riferimento
storico al fatto che, in virtù della somministrazione del veleno, avrebbe evacquato, ma anche a un’editto con
coi Claudio aveva permesso che si potesse liberamente esprimere nel corso dei banchetti, senza poter essere
tacciati per questo di essere volgari. Un’azione piuttosto comune, tra l’altro, fra le persone che passano a
miglior vita in maniera viol enta. Vae me più dativo esprime commiserazione, vae più accusativo minaccia.
C qa

Talis talis è un polipotopo, 9n quanto viene utilizzata la stessa espressione ma con un diverso caso, genere o
numero. Viene inoltre finalmente fatto il nome di Nerone. Notiamo successivamente tutti i riferimenti alla
sua bellezza fisica attraverso questi ablativi assoluti, che ci ricordano il costante paragone con Febo Apollo,
un evergeen della propaganda imperiale neroniana, ma anche della avvenenza di Nerone, delle sue belle
fattezze e dei suoi capelli d’oro, che comunque non lo salvavano dalla fama di possedere un fascino un po’
sciapido.
Notiamo qui l’intervento di Lachesi, qui l’intera espressione viene concepita come una relativa impropria
con valore causale, come Russo stesso dice, ma in realtà potremmo interpretarla anche cone una relativa
impropria con valore finale. Illud si riferisce naturalmente al lavoro da compiere, che la parca compì- con
utilizzo di un’espressione assai colloquiale- a piene mani. Ci troviamo qui dinanzi a “de suo”. A questo
proposito le interpretazioni si sprecano perché secondo alcuni significherebbe “sei suoi anni”, in quanto
immortali, oppure dal suo fuso, o ancora come è probabile “de suo”, di sua sponte, di sua competenza.
Omnes: questo altro è un caso particolare: chi sono gli omnes? Russo indica le dività (quindi Febo e le
Parche, gli dei concordi nell’allontanare Claudio) prima del trimetro giambico tratto e riadattato da uno
scritto perduto di Euripide, il Cresfonte. Il verso è l’ultimo di un gruppo di quattro versi tramandati in modo
non costante da una variegata tradizione indiretta che va da Strabone a Plutarco a Sesto Empirico a Eliodoro.
Sono tradotti nelle Tuscolane di Cicerone, unico a fonirci il titolo della tragedia da cui sono natu. In questa
sede hanno un contesto irrisorio perché sappiamo quanto Claudio, che era erudito, amasse far sfoggio della
sua cultura dei classici greci tanto da citarli spesso. Tuttavia, dando un’occhiata alle note di Lund, notiamo
come l’espressione sia in accusativo e non in nominativo. Potrebbe trattarsi di un riadattamento, oppure di un
ipercorrettismo derivante dalla trascrizione dei manoscritti in età bizantina che segnalano una sorta di dativo:
ais ais, derivante dalla trascrizione del suono “e” con il dittongo ai e che avrebbe portato alla transizione di
caso da un originario nominativo. Ebullit è nuovamente un temrine appartenente in larga parte alla sfera
colloquiale: “svaporò”, insomma, come una sorta di flatulenza. Lo troviamo ben due volte in petronio.
Troviamo poi qui un interessante riferimento a Svetonio, primo di tanti, che ci racconta come per nascondere
la sua morte in un primo momento avrebbero chiamato dei commedianti: davvero Seneca, essendo al fianco
di Agrippina, avrebbe potuto scrivere questi elementi? Inizia quindi la parodia delle ultime parole: il
maiorem sonitum è certamente un riferimento all’editto di Claudio che aveva detto che ai banchetti ci si
sarebbe potuti lasciar andare liberamente senza temere a eccessi. Vae me: costruzione aprticolare di vae più
accusativo, che esprime commiserazione, invece che dativo, che esprime invece minaccia. Concavi è
ulteriore spia linguistica assai presente in petronio. L’intero riferimento inoltre riecheggia sino all’ultima riga
il racconto di Svetono delle ultime ore dell’imperatore, cui il veleno sarebbe stato somministrato più volte,
provocandogli scompigli intestinali, prima di portarlo alla morte. L’ultima parte è un riferimento alle aszioni
compiute da Claudio.
Ci troviamo quindi al quinto capitolo, che rappresenta sin dal principio un secondo prologo. Dopo l’azione
grottesca e inquietante che ha condotto teatralmente alla morte di Claudio, si ritorna in cielo. Sono ripresi per
questo le stesse espressioni del primo capitolo, la stessa vena parodica della storiografia trafizionale, con
l’utilizzo del verbo agere nella sua forma passiva, il riferimento all’intento di memoria tradere, il fatto che la
soddisfazione non sia più solo privata, ma di tutti, e infine l’appello alle responsabilità dello storico. Notiamo
sin dal principio l’excidant, ossia “cadano nel dimenticatoio”, da excedo, utilizzato in senso assoluto: da
questo punto di vista,la costruzione è la stessa dei verba timendi, che all’interno di subordinate completive
esprimono il timore che qualcosa si compia o non si compia con ne (nel caso in cui il timore è che si compia)
o ut/ ne non (nel caso il cui il timore è che non si compia), insieme al congiuntivo. Excidant proviene da ex
più cado, con apofonia della vocale breve, la a, che tende a chiudersi in e. Ci ricorda in realtà non poco il
verbo sardo scarescirisi, dimenticarsi, da ex cadescere. Sentenza (gr. γνώμη), espressione brevemente
concettosa di una norma morale, caratteristica della letteratura greca in genere e propria. Fides erit etc è una
frase stereotipata che troviamo all’interno di numerosi storici, da Livio a Sallustio, propria anche dell’ampito
goiuridico. Notiamo in nuntiat: i manistritti riportano nuntiatur, ma Lund non ce lo dice e aggiunge piuttosto
is. Accettimao piuttosto la lezione di Russo e Roncali. Quendam vuole ribattere ancora una volta come difatti
non fosse chissà che, un tipo qualunque, colui che si trovava qui favanti. Allora: partiamo dal dire che
l’arrivo in Cielo segue le convenzione della letteratura del genere. Luciano di Samosata nel suo
IcaroMenippo ci racconta di come Nenippo fosse giunto in Cielo, accolto da Mercurio, e come tremanete e
impaurito fosse stato presentato a Zeus che gli rivolge le parole “chi sei, da dove vieni” etc. Qui però è la
divinità a temere l’uomo, per il suo orrido aspetto. Bene canum è espressione ancora ritrovabile in alcuni
dialetti del nord, e bene in particolare serve a rafforzare il concetto Il ritratto è veritierio: effettivamente il
povero Claudio faceva davvero fatica a camminare e le ginocchia a reggerlo, trascinava il piede destro e
spesso sbavava e farfugliava. Uno studio dei suoi sintomi ha portato a credere che soffrisse di qualche
patologia legata al suo parto prematuro. Nel complesso è il ritratto di un parletico, come indicherebbe una
parola ormai caduta in disuso. Notiamo come il tutto sia nella forma del dialogo indiretto e utilizzi un
linguaggio estremamente colloquiale. Entra dunque in scena Ercole, la cui funzione in generale nella
commedia è sempre stata quella della personificazione della forza bruta e violenta, non certo dell’arguzia e
dell’intelligenza. Un eroe, sì, ma non troppo sveglio. Anche qui Ercoles è costretto dal fato a fare ciò che non
vorrebbe. La sua natura è un poù ambigua: eroe e giullare. Notare l’espressione solenne aulica. Ire et
explorare è una forma colloquiale di due periodi uniti dall’et, causativo
Monstra: non traducibile in “Mostri” nel senso corrente del termine, ma piuttosto di cose meravigliose,
singolari e oridnarie di chi per compiere le sue celebri imprese. Timuerit: affrontare.
VIDIT… VOCEM: ABBIAMO UNO ZEUGMA OVVERO UN ACCOSTAMENTO FORZOSO DI UN
VERBO CON UN COMPLEMENTO CUI NON SPETTA.
Dativo di possesso per le bestie marine

Capitolo 6
e l’avrebbe fatta a Ercole, per nulla sveglio, non fosse stata lì la Febbre, la quale lasciato il suo tempio era
venuta sola con lui. Aveva lasciato tutti gli altri dei a Roma. Quelli- disse- racconta pure menzogne. Te lo
dico io, che vissi con lui tanti anni: è nato a Lugudune, vedi un cittadino di Arar. Ciò che dico, è che è nato al
sedicesimo pietra miliare da Vienne, è un Gallo Germano. E aveva fatto ciò che è opportuno un Gallo fa,
prese Roma. Pra io ti assicuro che è nato a Lugudini, dove Licinuo regnoà per molti anni. Tu, che calpestasti
più posti di quanto qualsiasi mulattiere di professione di Lione, devi sapere che ci sono molte miglia tra
xanto e il rodano. Claudio a quel punto va in escandescente ed esplode in ira con il maggiore mormorio che
può. Nessuno capiva ciò che diceva. Egli inoltre ordinava che Febri fosse uccisa con quel gesto solito della
mano, ferma abbastanza soltanto per quello, con il quale era solito far decapitare gli uomini. ORDINAVA
CHE TAGLIASSERO il collo. Avresti creduto che tutti fossero i suoi liberti, tanto nessuno si curava di lui.
Imposuerat: si tratta di un verbo ovviamente popolare, che dignifica “darla a bere a qualcuno”; prendere in
giro qualcuno. Il russo mette in evidenza che da questa accezzione di impono derivano l’italiano impostore,
nomen agentis di imponere. Si tratta quindi di una continuazione romanza molto particolare. Abbiamo un
periodo opotettico del terzo tipo, dell’irrealtà: nell’apodoti abbiamo un indicativo, , e la protasi ha un
congiutivo piucheoerfetto del terzo tipo Febbre perché era la vera causa della morte di claudio, e quindi è lei
che lo accompagna sull’olimpo, sia perché febre aveva un tempio accanto alla reggia e quindi era una . vici
na di casa che l’aveva seguito, mentre le altre diviinità no. Aggiungo una cosa: ovvero che Seneca si era
fermato alla tradizione più comune che assegnava a Febbre un unico tempio sul Palatino, mentre Valerio,
Massimo ci parla di tre temp tra Esquilino, Palatino e Quirinale.
Fano è il tempio, espressione più tecnica di templi, cui si legano espressioni come profano, fuori dal tempio,
o fanatico, vale a dire il fanatico.

Il quinto capitolo consiste in un secondo prologo, nuovamente: si torna nuovamente in Cielo, dopo essere
stati sulla terra. Si riprendono i motivi del primo capitolo: la tradizione della memoria, le cose che sono
accadute (con l’utilizzo della forma passiva di agere col significato di “accadere”) e la responsabilità dei
testimoni. L’arrivo in cielo dello straniero avviene secondo le tappe consuete del genere letterario: il rinvio
classico è all’Icaromenippo ICAROMENIPPO di Luciano di Samosata: Menippo arriva alla porta, il
portinaio Ermes lo riferisce a Zeus, mentre l’arrivaot ha paura e Xeus pone l’omerica domanda di rito.
L’interrogato risponde. NELLA SATIRA DI SENECA LE PARTI SI INVERTONO: è LA DIVINITà A
SPAVENTARSI, NON IL
Abbiamo un periodo ipotettMOSTRO QUASI UOMO CHE GLI SI PARA DAVANTI. Il ritratto di Claudio
è veritiero: era alto, ma quando camminava le gambe non gli reggevano e la testa gli tremava sempre.
Notiamo come in cielo sia riprodotto l’amniente del palazzo reale, con il portinaio di cui non si conosce
l’identità. Ermes è già fuori gioco in quanto patronus di claudio, mentre in altri brani di Aristofane e Luciano
fungeva da portinaio celeste.

Voglio consegnare alla memoria ciò che è accaduto in cielo il terzo giorno delle Idi di ottobre del nuovo
anno, inizio di un’era felissima. Nulla sarà dato né all’offesa né all’accondiscendenza. Questa verità così )
cioè, queste cose che dico sono vere, se qualcuno avrà chiesto come io ne sia a conoscenza, in primo luogo,
se non vorrò, non risponderò. Chi mi costringe? Io so di essere diventato libero, da quando temrinò il suo
giorno colui che aveva fatto vero il proverbio secondo il quale bisognerebbe nascere o re o stolto. Se sarà
gradito rispondere (se mi andrà di rispondere), dirò ciò che mi sarà venuto alla bocca. Chi pretese mai garanti
da uno storico? Se tuttavia fosse necessario produrre un testimone, chiedi a colui che vide Drusilla che slaiva
in cielo: allo stesso modo dirà di aver visto lui stesso Claudio fare il tragitto, a passi non uguali. Voglia o non
voglia, è necessario cche lui veda tutte le cose che si svolgono in cielo. È il curatore della via Appia, per la
quale tu sai che sia il divo Augusto che Tiberio Cesare sono saliti agli dei. Se interrogherai costui, a te solo
racconter-: non farà parola davanti a un gruppo di più persone. Infatti da quando giurò in Senato dia ver visto
Drusilla salire in cielo e per quella così buona notizia che aveva pronunciato con parole solennissime
nessuno gli credette, affermò che non avrebbe più parlato, neanche se avesse visto un uomo ucciso in mezzo
al foto. Io riporto chiare e tonle le cose che udii da lui: che possa tenersi sano e in buona salute!

Nella prima parte del prologo, un proposito dichiarato in maniera umoristica, si delinea la volontà di voler
narrare “le cose che sono accadute in cielo”. Tutto il primo capitolo rappresenta un prologo dell’opera e
anche una evidente parodia dei prologhi delle opere classiche, in particolare storiografiche, delle quali segue
la struttura fondamentale: la dichiarazione dell’argomento da trattare, quindi la dichiarazione di veridicità e
obiettività, e infine il riepilogo delle fonti a disposizione. Notiamo come non venga fatto riferimento
all’accaduto, o per meglio dire, all’oggetto dei fatti avvenuti il 13 ottobre del 54: segno che si trattasse di una
data conosciuta. L’assenza di questa indicazione ha portato a ritenere che sul fatto che effettivamente il
pampleth sia stato scritto poco dopo (alcuni giorni o alcune settimane al massimo) dopo la morte di Claudio.
Notiamo l’utilizzo del verbo “agere” al passivo; che assume così la forma dell’equivalente del greco
yiynestai, ossia “avvenire, accadere”. È stato anche fatto notare tuttavia che agere alla forma possiva
potrebbe indicare il prendere parte agli affari pubblici o di stato in Senato, ma “IN CIELO”: E in questo
senso Lund ritiene che si voglia mettere in evidenza il concilio degli dei, che vedremmo nei prossimi
capitoli, come se fosse una avremmo una parodia del Senato. È una cosa possibile, perché le ambiguità
linguistiche sono un topos della letteratura classica.
In cielo: indica che le cose di cui si tratta non appartengono a questo mondo. Questa dicitura ci riporta a
Luciano di Samosata, anche lui apprezzato autore per la natura arguta e irriverente dei suoi scritti satirici, tra
i cui numerosi scritti troviamo trattato sull’esortazione a una storiografia gondata sull’obiettiva e londana
dall’adulazione dei potenti, ma è noto specie per i suoi dialoghi. Perché ci ricorda in cielo? Per i suoi viaggi
tra i mondi, autentici voli pindalici della fantasia. Anche Luciano di Samosata apprezzava la commistione di
prosa e verso. I suoi Dialoghi diedero ispirazione al leopardi delle Operette Morali.
Sappiamo che i latini avevano una concezione meccanicistica del tempo, assai diversa dalla nostra, incentrata
sulla palinogenesi ossia sull’ eterna distruzione e rigenerazione del cosmo. In questo senso anche la struttura
del loro calendario era assai particolare: ogni mese, il primo, era segnato dalle calendae,giorno
dell’assemblea popolar ein età pre imperiale, dal greco “kalew”, chiamata. Quindi, il 5, c’erano le none, che
tuttavia cadevano il 7 a marzo, maggio, luglio, ottobre e novembre, quindi le ide, sempre il 13, ma il 15 a
marzo, maggio, lugluo, ottobre. I nomi dei mesi in latino sono sempre aggettivi e sono nel latino tardo
medievale diventano dei sostantivi e vengono messi in genitivi.
Ante diem è espressione idiomatica, cioè tipica di una lingua e non interpretabile letteralmente.
Anno novo, inizio seculi felicissimi: siamo al principio di una nuova era felicissima: tipico del linguaggio
della letteratura di propaganda; come una sorta di pubblicità per l’imperatore in ingresso. Espressioni come
questa sono rintracciabili all’interno dei 12 panegirici latini come tipiche della propaganda imperiale.
Saeculum è parola che indica non, come in italiano, un periodo di cento anni ma piuttosto una generazione
umana, e deriva dalla radice “sa”, spargere, seminare, da cui deriva il latino semen, e il verno serere, che
significa seminare, in rigerimenti propro

Saeculum è parola che non significa “periodo di cent’anni come in italiano”, ma piuttosto indica una
generazione degli uomini. La sua radice originaria, sa, indica appunto la semina, ed è la stessa di “semen”,
intesa come sementa degli uomini, e da cui deriva il verbo “serere”, seminare. Anche il termine felicissimi,
da felix, era originariamente legato al’agricoltura: infatti in Orazio le messi sono felici, cioè feconde. La
radice di felix è la stessa, indoeurope, di femina: indica l’allattare e la ritroviamo in molte lingue. In greco il
fonema si tramuta in the, in latino in fu: basti pensare a thumos e fumus. Femina in latino è un’antico
participio passivo come luomene, indica cioè colei che allatta. Felix ha la stessa radice, indica qualcosa di
fecondo, ben pasciuto.

Volo memoria tradere: troviamo qui la costruzione di volo è infinito. Un costrutto che divide la critica perché
secondo alcuni si tratterebbe di un’espressione tipica del sermo cotidianus paragonabile quasi a un futuro,
mentre potrebbe trattarsi anche di un’espressione con forte carica volitiva. Quasi un “audeo”: ossia, ho
“l’ardire di criticare, banalizzare, satirizzare una consacratio e parlare dell’inzuccamento dell’imperatore.
Dissacrante verso un fatto ufficiale”. Memoria tradere, invece, è espressione tipica del linguaggio alto. Non
si comprende, quindi, questa mescolanza del genere alto, elevato e basso, risalente al sermo cotidianus.
Nihil nec offensa né dabitur è operazione di imparzialità.
Nec: è dato nel SanGallensi. In latino, solitamente, se ci sono due negazioni si elimina la seconda. Ma
essendoci qui una correlazione (nec nec) allora il Sangallensis potrebbe avere ragione.
Et ita vera: espressione brachiologica, compendiaria. A molti è apparsa ardita e per questo si è scelto di
cambiare l’inserpunzione, per cui “haec ita vera” diventasse complemento oggetto della rase che segue.
Grammaticalmente regge, ma modifica molto il testo. Noi accettiamo la brachilogia.
Unde sciam: esptressione tipica del sermo cotidianus perché unde “ che significa da dove” in realtà equivale
a “a quo”, cioè da chi. Usare un avverbio di luogo per sostituire un relativo è un fenomeno tipico del parlato
che troviamo in Plauto.
Quis coacturus est: con l’utilizzo della perifrastica attiva per esprimere un’eventualità invece che una
certezza, abbiamo una sostituzione del futuro con la perifrastica. Infatti in latino la perifrastica attiva si usa
normalmente per esprimere certezza in merito a un avvenimento futuro, mentre il futuro viene utilizzato per
esprimere accettazione, desiderio, speranza… come facciamo anche noi, del resto (sarà il vento).. questo è un
tratto tipico del sermo cotidianus presente anche in Petronio, in ben quattro passi.
Ego: altro colloquialismo, ma con funzione enfatica: l’uso del pronome personal soggetto in maniera
pleonastica: solitamente in latino non è messo il pronome personale soggetto perché la desindenza del verbo
già ci indica il soggetto. Invece il suo utilizzo è tipico del linguaggio parlato perché ripete, rafforza e rimarca
alcune espressioni, Anche ex quo diem è un’espressione quotidiana.
Verum invece ha gunzione predicativa:
Bucca è molto interessante, in quanto nel latino classico il termine indicava “guancia” e solo nel latino
volgare passa a designare la bocca, che veniva in precedenza indicata con “os orsi”. Perché la sostituisce? In
primo luogo, per la possibilità di confusione di os oris con os ossis, in secondo liogo per esiguità fonetica, e
in terzo luogo perché os oris soprattutto nei casi flessi poteva essere confuso con Autis appendix probi. Ma in
età neroniana? In petronio il termine significa due volte guancia, una volta bocca e una boccone: quindi
all’epoca di nerose il termine si stava aprendo al significato del tardo latino e del romanzo.
Exigit è un perfetto gnomico, scegliamo la nota difficilior in quanto il prsente exigit è del Londiniensis. Il
perfetto gnomico esprime un’azione fuori dal tempo, acronica, utilizzata per riferire massime generali o
sentenze frutto dell’esperienza.
Tamen come ego
Necesse: aggettivo neutro indeclinabile sul dizionario. Formato da ne più cesse, antico infinito perfetto del
verbo cedere, nel senso di allontanre, quindi indica qualcosa che non possiamo allontare ma che dobbiamo
affrontare.
Acutorem: termine giuridico, come producere, tipico del linguaggio tecnico.
Quaerito è un imperativo futuro e indica un omcomando,ma senza valore retroattivo. Come a dire “da questo

momento in poi”. Vediamo l’origine di questa desinenza in “to” dell’imperativo futuro. Ha la stessa radice

dell’articolo greco to, che vale anche come dimostrativo. Quindi anticamente voleva dire “da questo

momento in poi. Nasce come avverbio di luogo poi utilizzato e inglobato come desinenza e difatti

l’imperativo futuro è tipico delle leggi, che indicano un comando che dovrà essere compiuto nel tempo. Ha

un mood arcaico, quindi ironico.

Drusilla era la sorella di Caligola, nipote di Claudio. Dione Cassio ci dice che Livio Geminio, senatore,

aveva giurato sulla sua testa e su quella dei figli di aver visto Drusilla salire in cielo a fronte di un lauto

pagamento: un milione di sesterzi. In senato la cosa aveva fatto scatenare l’ilarità. L’utilizzo di un simile

testimone, per nulla attendibile, è in chiave parodica.

Idem: si riferisce a Iter? Secondo alcuni commentatori sì, tuttavia c’è un forte iperbato, in quanto “idem” e

“iter” sono molto staccati, e al contempo il focus sembra essere piuttosto sul testimone inattendibile, lo

stesso che ha visto Drusilla.

Non passibus equis è una citazione dal secondo libro dell’eneide di virgilio, in cui il piccolo IULIO nel

fuggire da roma non sta dietro al passo del padre. Ma qui è buffo perché Claudio ha un passo più lungo

dell’altro, essendo claudicante.

Velit o nolit: è ascrivibile alle forme brachiologiche e asindetiche tipiche del discorso parlato, perché

rpesenta anche un velo di sarcasmo.

La via Appia portava da Capua a Brindisi ed entrambi gli imperatori furono riportati a Roma tramite quella.

Augusto morì a Nola e Tiberio nella villa appartenuta a Lucullo, a Miseno. C’è anzi una piccola

imprecisione storica, in questo: Augusto venne divinizzato, mentre Tiberio no.

In soli c’è l’ellissi del pronome personale.


Narrare non è raccontare, come in italiano, ma diventa quasi un verbum dicendi, come dicere: è un tratto

sicuramente popolare

EX QUO TEMPORE: AUTOMATISMO LINGUISTICO, TIC ESPRESSIVO DELL’AUTORE CHE SI

RITROVA Più VOLTE

Iurarat: forma abbreviata per iuraverat, perfetto. Tuttavia i codici riportano diversamente, ma Lund sostiene

che sia così in quanto verbis conceptis è espressione tenica che viene retta soltanto con iurare. Quod viderit

sarebbe quindi una deformazione di iurare.

Lund mette la virgola tra certa e clara, Russo dopo audivi. È meglio Russo, perché certa clara si trova come

forma stereotipata in certi autori quindi perché separarla?

Habeam è congiuntivo ottativo.

: utilizzo di volo e infinito qui discusso: secondo aluni rappresenta un tratto del verbo cotidianus che esprime
un futuro. Potrebbe indicare anche “oso”, quindi esprimere anche intenzione e carica volitiva. Perché l’autore
è conscio del fatto che il pampleth che sta scrivendo è quasi rivoluzionario e il volo rappresenta quasi un
“audeo”, “ ho l’ardire£ di tramandare un fatto dissacrante per il principato, ossia l’inzuccamento di Claudio e
di essere blasfemo e dissacrante.
Memoria tradere è invece costruzione tipica di linguaggio elevato: solenne, quindi una strana mescolanza.

Sabato 29 con il ventesimo raduno zonale Carnevalinas in cui i Cambas de Linna apriranno il ricco corteo
seguiti dai carri allegorici realizzati dai maestri cartapestai provenienti da tutto il Campidano
Dalle 17 in via Anna Frank, sale verso viale di Vittorio, via Gramsci, si sfila davanti alla piazza, coreografie
sui gradini della chiesa, via Santa Maria, viale Libertà, via Roma, per risalire alla rotonda sino e ritrovo in
via Anna Frank si incoreranno i vincitori del Carnevalinas. In palio.
Coreografia,
ELVIO TUVERI
2607 figuranti solo iscritti, cui si aggiungono i portoghesi, migliaia
Attesi spettatori da tutto il circondario e oltre.

Non prendete impegni per sabato sera: Guspini vi


Vietato prendere impegni per sabato sera: l’unico impegno è la sosta al Carnevalinas

non prendete impegni: vietato perdersi il C


Nel corso dei giorni immediatamente successivi il 13 ottobre del 54 a.c, data della morte dell’imperatore
Claudio, tra i membri della corte dell’ex imperatore iniziarono da una parte a pales

Nel corso dei giorni immediatamente successivi al 13 ottobre del 54 d.C, tra le più eminenti personalità della
corte romana iniziò la corsa per la messa in scena di un alibi convincente rispetto al delitto commesso (non
dimentichiamo che Claudio era stato ucciso da Agrippina, sua moglie, che voleva fare imperatore il figlio
Nerone) e dall’altro a ostentare nelle cerimonio pubbliche mestizia e dolore, mentre nel circolo dei più intimi
del defunto imperatore, invece, serpeggiavano non di rado il dileggio e il satireggiamento nei confronti del
morto, a dispetto delle grandi cerimonie funebri occorse in suo favore. Di questo clima beffardo e ridanciano
che seguì alla morte dell’imperatore ci è dato riscontro in tre diverse fonti:
Tacito, negli Annales, racconta delle pompose esequie che videro concessi dal Senato per Agrippina due
littori (i littori portavano il fascio littorio, un fascio di bastone in legno legato attorno a una scure, strumenti
del diritto penale, sorta di memento del potere imperiale (bastonare e decapitare), ed ella stessa fu eletta
sacerdotessa del culto dell’imperatore, il “flamonium claudiale”, che oltre al funerale di Stato ottenne come
Augusto e Cesare la divinizzazione o consacratio. Il giorno del funerale, Nerone pronunciò la laudatio
funebris scritta da Seneca, perché Nerone sin da piccolo si era occupato più di canto, pittura e cavalli che non
di lettere. Una splendida orazione, che non ci è però conservata, in qui oltre alla nobilità della stirpe, i trionfi
degli avi, il regime di pace, il degno scritto accennò anche alla saggezza dell’imperatore e a questo punto
“nemo risui temperare”, nessuno seppe trattenere il riso. Oltre a questa fonte, ricordiamo quella-
fondamentale- di Plinio che nel Panegirico ricorda come le diverse divinizzazioni degli

Tiberio divinizzò Agusuto per avere motivi di accusare qualcuno di lesa maestà. Nerone fece la
divinizzazione di Claudio per prendersi gioco di lui, Tito (figlio di Vespasiano) divinizzò il padre e
Domiziano divinizzò Tito (suo fratello) perché uno sembrasse figlio di un dio e l’altro fratello di un dio:
quindi sempre per motivazioni personali.
Altra fonte- forse, in questo contesto, la più rilevante- è Dione Cassio che nella sua Historia Romana ci
racconta una battuta di Gallione, il fratello di Seneca, che disse che Claudio era stato tirato su in cielo con un
uncino, come si fa con i delinquenti morti in carcere che vengono trascinati con un uncino nel foro dai sicari
e poi gettati nel Tevere. Nerone disse che i funghi sono il cibo degli dei e che Claudio con un fungo era
diventato dio. Seneca, poi, compose uno scritto chiamandolo Apokolojyntosis, come se si trattasse di una
sorta di “immortalamento” , ma anche “deificazione” come vedremo successivamente in merito
all’interpretazione del titolo– athanatosis- . Nella fonte, certamente, non è molto chiara quale fosse la
relazione tra Gallione e Seneca e la battuta beffarda.
Sul genere dell’Apokolokyntosis,che si richiama alla produzione satirica in voga nella roma contemporanea
inquadriamo subito da un punto di vista formale quello della “satira menippea”. Inventore di questo genere
sarebbe stato Menippo di Gadara, uno scrittore piuttosto oscuro che visse forse intorno al II secolo e che
forgiò questo genere caratterizzato da una mescolanza di prosa e versi, di cui uno degli interpreti fu Luciano
di Samosata, ai cui Dialoghi Leopardi si sarebbe poi ispirato per le sue Operette Morali . Autori latini che
hanno trattato il genere sono Varrone, sebbene ci rimangono solo frammenti traditi dai grammatici ma non
un testo unico, e poi Petronio nel Satyricon. In questo prosimetro, si possono anche rilevare tuttavia dei tratti
buffoneschi propri del “mimo”. L’andamento concitato e l’inserzione frequente del discorso diretto, invece,
è propria della diatriba satirica di matrice cinico- storica. QUINDI L’APOKOLOKYNTOSIS NON SI Può
INQUADRARE IN UN UNICO GENERE (DAL PUNTO DI VISTA FORMALE è SATIRA MENIPPEA E
PROSIMETRO, CON ELEMENTI DEL MIMO (andamenti e sbalz, MENTRE PER L’ANDAMENTO
CONCITATO E PER L’INSERZIONE DI DISCORSI DIRETTI è LA DIATRIBA SATIRICA DI
MATRICE CINICO- STOICA) ma contiene elementi di diversi generi, è quindi un’opera molto particolare.
Eppure non possiamo dire che ebbe Menippo come modello visto che di Menippo non abbiamo nulla.Nel
corso dei giorni immediatamente successivi al 13 ottobre del 54 a. C, all’interno della corte romana le
personalità più eminenti e Agrippina in prima luogo si affrettarono da una parte a cercare un alibi
convincente per il delitto commesso e dall’altro a ostentare mestizia e dolore nel corso delle pompose
esequie funebri concepite per l’imperatore. D’altro canto, nella cerchia dei più intimi di Claudio,
serpeggiavano le battute di spirito e un certo umore di diletto e satireggiamento del defunto. Espressione di
questo sbeffeggio è ben riportata nell’opera di Tacito: negli Annales, ci descrive le fastose cerimonie che
seguirono la morte dell’imperatore, onorato con ben due littori (ossia due portatori di littorio, che erano i
bastoni legati a una scure con due fasci, simbolo della capacità dell’imperatore di torturare e uccidere e
quindi, per estensione, del potere imperiale e del diritto penale) , mentre Agrippina fu investista della carica
di sacerdotessa del culto dell’imperatore defunto (il flamonium claudiale), per il quale si preparavano i
funerali di stato e, ben presto, la divinizzazione o consacratio. Tacito ricorda di come, durante l’elogio
funebre pronunciato da Nerone e scritto da Seneca, nulla mancava: l’esaltazione dei nobili natali
dell’imperatore, le vittorie dei suoi antenati, il mantenimento della pace…ma quando si passò a esaltare la
saggezza del defunto, nemo risui temperare. Un altro a riportare la reale importanza dell’apoteosi all’interno
delle corti è Plinio, che nel Panegirico ricorda come Tiberio avesse divinizzato Augusto per avere qualcuno
da incolpare di lesa maestà, Vespasiano avesse divinizzato Tito e Domiziano avesse divinizzato Vespasiano
solo per dire l’uno che era figlio e l’altro fratello di un dio, mentre Nerone aveva divinizzato Nerone solo per
prendersi gioco di lui. Eppure la fonte più importante ci proviene senza dubbio da Cassio Dione, il quale
racconta nella sua Historia Romana due importanti annedoti: Gallione, il fratello di Seneca, dopo la morte di
Claudio aveva detto che Claudio era salito al cielo appeso per un uncino: un moto di spirito riferito
all’usanza dei sicari di trascinare al foro i morti in carcere per un uncino, per poi buttarli nel Tevere. Seneca
poi avrebbe scritto l’Apokolokyntosis, una sorta di divinizzazione o immortalamento (anathatesis) del
sovrano. E Nerone aveva detto che il fungo è il cibo degli dei e che tramite un fungo Claudio (ucciso da
Agrippina) era diventato un dio. Non è chiaro quale fosse per la fonte il legame tra la battuta di Gallione e il
riferimento all’apokolokyntosis, eppure questa costituisce la più importante fonte di cui disponiamo in
merito in quanto viene direttamente citata l’opera. Sul genere, sappiamo che l’apokolokyntosis è, dal punto
di vista formale, una satira menippea. Il genere è così chiamato perché si ritiene inventato da Menippo di
Gadara, vissuto nel II secolo, e si caratterizza per la compresenza di prosa e versi e che fu largamente
utilizzata da Luciano di Samosata, autore dai cui Dialoghi Leopardi prese spunto per le sue Operette Morali.
Si tratta di un prosimetro, insomma. Il genere nella letteratura latina trova attuazione in esponenti come
Varrone, sebbene di suo non ci siano pervenute che frammenti traditi dai grammatici, e naturalmente
Petronio nel Satyricon. Tuttavia, per le scene buffonesche, il libello presenta anche elementi del mimo e per
l’energia nell’andamento concitato e la frequente introduzione del discorso diretto ha elementi relativi alla
diatriba satirica di matrice cinico- stoica. Quindi non è riconducibile a un solo genere, ma piuttosto si
presenza: dal punto di vista formale, una satira menippea, con elementi del mimo per le scene buffonesche e
in virtù dall’andamento concitato e la frequente inserzione del discorso diretto del genere della diatriba
satiresca di matrice cinico- stoica.
Voglio consegnare alla memoria ciò che accadde in cielo il giorno 13 di ottobre del nuovo anno, inizi di
un’era felicissima. Non sarà dato nulla né all’offesa, né a favore. Tutte le cose che dico sono vere. Se
qualcuno mi chiederà da dove io le abbia sapute, in primo luogo, se non vorrò, non risponderò. Chi mi
costringe? Io so di essere diventato libero, quando egli ha preso la sua strada e fece vero il detto per cui
bisogna nascere o re o stolti. Se mi andrà di rispondere, dirò ciò che mi verrà alla bocca. Chi esige da uno
storico testimoni giurati? Se ad ogni modo fosse necessario produtte testimoni, chiedete a colui che ha visto
Drusilla salire in cielo: lui stesso dirà di aver visto Claudio fare quel viaggio in cielo, a passi non eguali.
Vogli o non voglia, bisogna che lui vedaè PER LUI INEVITABILE VEDERE tutte le cose che accadono in
cielo: è il curatore della via Appia, attraverso la quale Augusto e Tiberio sono diventati dei. Se glielo
chiederai, a te solo lo dirà: davanti a un gruppo non ne farà parola. Infatti da quando giurò in senato di aver
visto Drusilla salire al cielo e nessuno lo credette per QUELLA NOTIZIA COSI BELLA notizia che
pronunciò con parole solennissime, affermò che non avrebbe mai più parlato, anche se avesse visto un uomo
ucciso nel goto. Tutte le cose che ho udito da lui io riporto chiare e tonte, e così possa averlo in buona salute
e prosperità.

In questa prima parte abbiamo un proposito mirabolante dichiarato con umoristica solennità. Tuttp il primo
capitolo rappresenta un proemio in cui lo scrittore, con intento parodistico, riprende i proemi degli storici, in
cui l’autore delinea in primis l’argomento trattato, per poi dare dichiarazione di imparzialità, obiettività e
indicare la propria fonte: quattro punti principali della storiografia tradizionale e dschema dei proemi degli
storici con intento parodico .

Notiamo in primo luogo che non viene data indicazione in merito all’anno, semplicemente perché tutti lo
sapevano trattandosi di una data memorabile. Anche questo fatto parrebbe essere una spia del fatto che
Seneca avrebbe scritto subito dopo (pochi giorni o settimane) dopo l
Vindemitor è una forma contratta per vindemiator: manca insomma la a, in quanto non ci stava nel metro e
quindi ha dovuto eliminarlo. Viene definito serus in quanto negli ultimi tre versi sembra che si passi da una
rappresentazione autunnale a preinvernale:
Il Russo sbaglia e dice che al posto di intellegi ci sarebbe dovuto essere intellectum iri, ossia l’infinuto
futuro passivo in accordo con dixero. Ma si tratta di uancosturzione assurda, strana per i latini, che nella
lingua si usa pocho.
Horam: non può dire l
Sul puto, Lund ha integrato un fraseologico “posse”.

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