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Film: Ritratto di famiglia con tempesta, di Hirokazu Kore’eda (2016)

Ryoto si mostra, all’aspetto, come un uomo tranquillo dai modi gentili ma in realtà la
sua vita è alquanto incasinata. Dopo un esordio folgorante come scrittore (ha vinto un
premio prestigioso) non è più riuscito a portare avanti un secondo lavoro. Ha il vizio
del gioco e appena guadagna qualcosa, lo spende in fallimentari scommesse. Ha
trovato un lavoro alternativo come detective privato che per lui diventa l’occasione
per spillare soldi ai suoi clienti con l’arma del ricatto. La sua incostanza ha decretato
il fallimento anche della sua vita familiare. Nella sua condizione di divorziato con un
figlio (Shingo), rischia di perdere l’opportunità di passare un giorno al mese con il
bambino, perché non corrisponde all’ex-moglie, Kyoko, gli alimenti pattuiti. Solo la
sua vecchia madre (Yoshiko) spera ancora in un suo profondo cambiamento....

La vera protagonista del film è la nonna paterna, Yoshiko (mirabilmente interpretata


da Kirin Kiki). L’arrrivo di un tifone è per lei una stupenda occasione per riunire a
casa sua il figlio Ryoto, la ex moglie Kyoko e il piccolo Shingo. Si dirige allegra
verso la cucina per preparare quei piatti che, per esperienza, sa che piacciono tanto al
figlio e al nipote; va ad accendere l’acqua calda per chi di loro voglia rilassarsi con
una doccia; prepara, nella stanza dov’è cresciuto Ryoto, un letto matrimoniale con tre
cuscini, dove il bambino dormirà nel mezzo; unica, modesta copertura al suo
sfacciato tentativo di riavvicinare i due. All’alba, lei è già sveglia ma lo è anche
Ryoto. E’ l’occasione per un colloquio a cuore aperto, dove lei sente la morte
imminente, non in modo angoscioso ma come realtà ineluttabile; lui si domanda se
può ancora cercare di essere felice. La conversazione è stata melanconica ma
profonda e la nonna non perde neanche questa occasione: invita il figlio ad appuntarsi
tutto ciò che si sono appena detti, perché potrà essere un ottimo spunto per il suo
prossimo libro. In mattinata, padre e figlio fanno una passeggiata; suocera e nuora
sono ora sole e la nonna, con una dolce impudenza tutta femminile, le chiede se sente
ancora qualcosa per Ryoto. Yoshiko è quella madre che se potesse, si sostituirebbe al
figlio per coprire le sue innegabili debolezze ma ovviamente non può e si limita a
consigliare con discrezione, proporre, incoraggiare.

Come nel precedente Father and son, dello stesso regista Kore’eda Hirokazu, i
protagonisti trovano nella famiglia le ragioni del loro stesso esistere anche se la vita
può avere risvolti complessi, come lo scambio di due bambini in culla (in Father and
son) o l’incapacità cronica di un uomo di esser coerente con i suoi impegni di marito
e di padre. Kore’eda non ha una risposta pronta alle situazioni che imbastisce, non c’è
mai un netto lieto fine, perché i protagonisti debbono cercare (sembra dirci il regista)
il miglior modo di vivere attraverso l’ascolto degli altri, coltivare momenti di
riflessione autentica e ascoltare i moti più intimi e sinceri del loro cuore. Così come
in Father e son, non c’è una vera risposta al dilemma se sia più importante un figlio
genetico rispetto a quello che ti è stato accanto fino a quel momento, né c’è una vera
soluzione alternativa, in quest’ultimo film (anche se Ryoto ha recuperato
completamente il suo orgoglio di padre e in fondo non ha mai tradito la moglie) al
gestire la separazione nel migliore dei modi possibili.

Il regista si avvicina molto al grande Yasujiro Ozu nel porre la famiglia la centro dei
suoi valori e nel cercare di cogliere, con la sua narrazione tranquilla, anche le più
piccole sfumature d’animo. Mancano, rispetto a Ozu, la contemplazione dei paesaggi,
le armonie ordinate degli interni ma soprattutto quel modo così esclusivo di ricavare
dai colloqui domestici e ordinari dei protagonisti, risonanze universali. Kore’eda
propende per una riflessione più parlata, una meditazione sul senso della vita alla
ricerca di ciò che si desidera veramente.

C’è un altro aspetto che si può cogliere e che accomuna i racconti dei due registi
giapponesi: la presenza, anche in situazioni difficili, di parenti e amici pronti a
mostrare solidarietà e a prendersi a cuore i problemi del protagonista (basterebbe
ricordare Tardo autunno di Ozu). Lo stesso Ryoto, un uomo debole che non disdegna
di recuperare soldi con l’imbroglio, non viene allontanato né emarginato. La sua ex
moglie, giustamente adirata con lui perché non è in grado di corrispondere gli
alimenti pattuiti, non se la sente di dare un taglio netto, ma continua a confermargli,
mese dopo mese, il diritto di rivedere il figlio.

Non ci sono mai, in questi film, situazioni di solitudine angosciosa. In questo, noi
occidentali, abbiamo qualcosa da imparare da questa antica cultura

Autore: Franco Olearo

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