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CLAUDIO IOPPOLO

GALVANO DELLA VOLPE

LETTORE DI HEGEL

Tel. 06/8813210

Cell. 0338/4681692

E-mail c.ioppolo@tiscalinet.it
INDICE

Introduzione ........................................................……….…p. 4

Le origini e la formazione della dialettica hegeliana.


I. Hegel romantico e mistico (1793-1800) ..............……..p. 9
L’utopia della “Volksreligion”................………………..p. 12
Vita di Gesù .............................................................……...p. 28

“La positività della religione cristiana”.


Hegel storiografo .....................................................……..p. 37

La fase di transizione.
Le fonti dello Spirito del cristianesimo ....................…...p. 48

“Lo spirito del cristianesimo”.


L’etica dell’amor e e del destino ...............................…....p. 53

La crisi del misticismo hegeliano


e le origini della dialettica hegeliana .........................…p. 60

Critica della logica hegeliana ....................................…...p. 66

Il principio di identità tautoeterologica


e la dialettica scientifica .............................................….p. 103

La logica come scienza storica ................................…....p. 115

Conclusione ...............................................................…...p. 128

Bibliografia ...............................................................…....p. 133


“La grandezza di un pensatore si misura non meno da
quel che di negativo è nell’opera sua, che da quel che c’è
di positivo, di vitale. Le lacune, i problemi aperti ch’egli
lascia, sono almeno tanto interessanti e importanti
quanto le soluzioni operate. E non è, infine, un
paradosso dire che la funzione dei grandi pensatori,
nella storia delle idee, risplende, forse, meglio per i
nuovi, originali, problemi ch’essi lasciano alle
generazioni, che non per i punti acquisiti, per le verità da
essi fermate per sempre.”
[Della Volpe (1924), 1972: 6]
Introduzione

Il tempo trascorso dalla morte di Galvano Della Volpe (luglio

1968), non ha fatto che accrescere la “necessità di trovare un

terreno critico, saldamente ragionato e motivato su cui costruire

un'interpretazione e una valutazione della sua opera che nel

momento stesso che ne determini e ne precisi la collocazione

storica, la sottragga anche a quella disparità di giudizi che è stata

così evidente soprattutto nel periodo di tempo che, grosso

modo, coincide con l'ultimo decennio della sua vita e che oggi

possiamo cominciare a considerare con più pacato intento” . È 1

opportuno, quindi, valutare l'opera di D.V. così ricca, complessa

e per vari aspetti anche difficile resistendo “alla facile tentazione

di proporre subito un senso complessivo, un conclusivo

insegnamento che sbrigativamente pretendano di liquidare in una

formula il significato della presenza e dell'incidenza di essa nella

cultura e nella filosofia del nostro tempo. Ed anzi tutto per la

ragione di principio che questi sensi complessivi concordano fin

troppo con l'odierna ricerca delle selezioni, dei riassunti,

dell'informazione attenta con il minimo sforzo...E in secondo

luogo, perché una caratteristica costante del lavoro di lui fu quello

di una rigorosa ed incessante autorevisione” . 2

Sulla linea di una ricostruzione e comprensione storica del

lavoro dellavolpiano si è mosso Ignazio Ambrogio che nel 1972

pubblicò, presso gli Editori Riuniti, tutte le opere dell'autore

1 Giannantoni, 1976: 9.
2 Rossi, 1968: 165-166.

4
secondo un ordine cronologico, e non sistematico, degli scritti.

Nell'Avvertenza del curatore si legge che “secondo il progetto di

massima, approvato dall'autore, si era previsto di riunire e

ordinare i testi più significativi nei seguenti quattro volumi:

I. Logica e Metodologia (Critica dei princìpi logici, Logica

come scienza positiva, Saggio sulla dialettica, Chiave della

dialettica storica);

II. Economia, morale e politica (La teoria marxista

dell'emancipazione umana, La libertà comunista, Per la teoria

di un umanismo positivo, Rousseau e Marx);

III. Estetica (Crisi critica dell'estetica romantica, Il verosimile

filmico, Poetica del Cinquecento, Critica del gusto);

IV. Storia della filosofia (Hegel romantico e mistico, La filosofia

dell'esperienza di David Hume, Eckhart o della filosofia

mistica)” .3

Tuttavia, l'opera di D.V. apparendo “quasi come la continua

elaborazione e il continuo rifacimento di tre libri dedicati ai tre

argomenti nei quali, secondo un'ispirazione innegabilmente

classica [...], si articolava, naturalmente per lui, la ricerca

filosofica, e cioè la logica, l'etica e l'estetica, in una stretta

compenetrazione di ricognizione storica e costruzione teorica” , si 4

ritenne opportuno di abbandonare la convenzionale

quadripartizione per discipline e di disporre invece i testi in sei

volumi, seguendo un criterio cronologico rigoroso che consente

di cogliere, nei suoi molteplici sviluppi, l’ iter completo del

pensiero dellavolpiano.

3 Della Volpe 1929/1972, I: VII.


4 Giannantoni, 1976: 10.

5
Volendo circoscrivere lo studio del pensiero dellavolpiano

alla sola lettura della filosofia hegeliana, mi limiterò ad individuare

le problematiche, i dubbi, le prospettive di analisi che Hegel

affronta nei suoi scritti, secondo l'interpretazione che D.V. ne

offre a cominciare dal 1929.

Il lavoro storiografico sul giovane Hegel, che D.V. pubblica in

quell’anno con il titolo Le origini e la formazione della

dialettica hegeliana. I: Hegel romantico e mistico (1793-1800 ),

si presenta come un tentativo di ampliare il campo di ricerca

sull'origine e sulle influenze culturali che autori come Kant,

Hölderlin, Schleiermacher,Von Haller, F.Schlegel, Novalis,

Schelling, Goethe hanno esercitato sul sistema filosofico

hegeliano. Infatti, osserva D.V., dopo aver citato Dilthey e

Rosenzweig, “chi scrive crede giustificate le pagine seguenti

soprattutto per queste due ragioni: che il primo degli studiosi

succitati, il Dilthey, non potè vagliare nella sua fondamentale

Storia della gioventù di Hegel tutto il materiale, mancando

allora, nel 1905 l'edizione critica e integrale di esso, fornita poi dal

Nohl nel 1907: e che il secondo, il Rosenzweig, cui fu possibile

tenere dinanzi l'edizione suddetta, studiò, nel suo Hegel e lo

Stato, la gioventù di Hegel da un punto di vista prevalentemente

biografico e preoccupandosi, in principal modo, dello sviluppo

delle dottrine politiche del giovane Hegel. Noi abbiamo tentato,

invece, di abbracciare nella sua interezza e complessità lo

sviluppo mentale dello Hegel giovanile dal 1793 al 1800, badando

soprattutto a segnare la linea di progresso speculativo che si

palesa attraverso le prime esperienze di pensiero del nostro

autore [...] . Dall'assieme della nostra ricerca è scaturito un Hegel

6
giovane diverso da quello un po' ipotetico della letteratura

tradizionale, ma fedele, crediamo, ai documenti da lui lasciateci“ . 5

Ciò che accomuna questo scritto del 1929 con i lavori

successivi di D.V. dedicati alla critica della filosofia hegeliana, è il

tentativo di dimostrare come nello “sviluppo mentale” di Hegel

tra la fase iniziale illuministica - che si esaurisce alle soglie dello

Spirito del Cristianesimo - e quella sistematica della filosofia

dialettica, vi è anche una fase “romantica e mistica”.

Se nel 1929 D.V. sottolinea l’influenza che il panteismo

estetico di Hölderlin e il panteismo mistico di Eckhart

esercitarono sulla formazione filosofica del giovane Hegel, dal

1942, con il saggio Critica dei princìpi logici, ampliato e

ristampato nel 1956 con il titolo Logica come scienza positiva, al

1967, con lo scritto Critica dell’ideologia contemporanea.

Saggi di teoria dialettica, la critica di D.V. è rivolta a

denunciare il persistente platonismo e implicito misticismo che

connota l’intera filosofia speculativa moderna e contemporanea,

con particolare attenzione alla filosofia di Hegel. Infatti, dal 1942

in poi, D.V. esprime il suo radicale rifiuto della dialettica

idealistica, della sua concezione negativa del sentimento o

molteplice concreto, inteso, secondo il modulo del razionalismo,

come un momento inferiore ed indistinto del processo della verità,

che solo la ragione illumina e cui conferisce consapevolezza. La

surrettizia introduzione della realtà empirica compiuta dalla

filosofia idealistica di Hegel, la sua ipostasi, il suo apriorismo,

secondo D.V., possono venir superati e demistificati grazie al

metodo ipotetico-deduttivo che tiene conto del presente storico

5 Della Volpe 1929/1972, I: 41.

7
in quanto prodotto della reciproca funzionalità di pensiero e

processo reale.

8
Le origini e la formazione della dialettica hegeliana.

I: Hegel romantico e mistico (1793-1800)

L'opera di Hegel si colloca in un'epoca della storia europea

caratterizzata da un fitto intreccio di sviluppi politico-sociali e da

un continuo mutamento culturale. È il periodo della Rivoluzione

Francese, dell'Impero Napoleonico, della formazione di

movimenti nazionali e della Restaurazione, dell'avvento del

Romanticismo e della riscoperta del Classicismo o, come spesso

viene detto, è “l'età di Goethe”, per riassumere in una figura

irriducibile a qualsiasi contesto socio-culturale limitato un quadro

così complesso e ricco di avvenimenti in cui la filosofia hegeliana

si pone come riflessione e sintesi, come giudizio e comprensione

concettuale.

Nato a Stoccarda nel 1770 Georg Wilhelm Friedrich Hegel,

proveniente da una famiglia piccolo borghese, si forma nel

seminario protestante di Tubinga,studiandovi filosofia e teologia

insieme a Hölderlin ed a Schelling, con i quali condivide anche

l'entusiasmo per la Rivoluzione Francese ai suoi albori. Si nutre di

cultura settecentesca (legge Rousseau, Lessing, Herder) e

partecipa alla riscoperta neoumanistica dell’ antichità greca; ma al

centro della sua riflessione si trova la filosofia morale e religiosa di

Kant. Addottoratosi nel 1793, si impiega come precettore privato

a Berna e, dal 1797 al 1800, a Francoforte. Gli scritti di questi anni,

per lo più frammentari, verranno pubblicati solo nel 1907 con il

titolo Scritti teologici giovanili. L' interesse che Hegel manifesta

9
nei primi di quegli scritti è soprattutto di carattere storico.

Affronta problemi come il tramonto delle religioni classiche, greca

e romana, l'avvento di quella cristiana, la sua propagazione nel

mondo antico, lo sviluppo del giudaismo, temi che sembrano

strettamente connessi con la posizione assunta da Hegel nei

confronti del suo tempo, inserendosi in un suo disegno che

potremmo definire di pedagogia civile, il quale ha illustri

precedenti nell'Illuminismo tedesco. V'è il progetto, per esempio,

di una religione nazionale (Volksreligion), un progetto che è

politico-religioso come è politico-religioso il dispotismo che ha

defraudato i popoli della libertà e del senso dell'onore, contro il

quale il giovane Hegel intende reagire.

Lo stesso titolo proposto dal Nohl per questi scritti, però, si

mostra inadeguato: il metodo che viene adottato negli Scritti

teologici giovanili sembra tutt'altro che teologico, anzi, come

spesso qualche critico ha ravvisato, con alcuni vivaci spunti

polemici contro la teologia tradizionale.

È necessario, anzitutto, ricordare la scelta metodologica

operata da Hegel nel portare l'attenzione su quelle nascoste

rivoluzioni dello spirito dell'epoca che hanno preceduto le grandi

rivoluzioni avvenute nella realtà storica, politica e spirituale.

Diventa evidente, quindi, che i veri problemi religiosi, quali il

significato dell'ebraismo, i caratteri e le conseguenze

dell'insegnamento di Cristo, i rapporti con il cristianesimo ed il

confronto ideale con la civiltà classica, non vengano considerati

da Hegel dal punto di vista usuale della critica storico-filosofica

(interessata soprattutto alla ricerca di fonti, all'autenticità dei testi,

al confronto delle loro diverse edizioni), ma piuttosto in relazione

10
ai grandi problemi storico-filosofici dello sviluppo dello spirito dei

diversi popoli. In altri termini il cristianesimo, l'ebraismo, la figura

di Cristo, più che come fatti storicamente determinati, vengono

studiati ed analizzati come specifici momenti del rapporto della

coscienza umana con la divinità, in una complessa dialettica che

va dalla contrapposizione e scissione alla nostalgia della ri-

conciliazione.

11
L'utopia della “Volksreligion”

Nel primo frammento degli Scritti teologici giovanili,

intitolato Religione nazionale [Volksreligion] e cristianesimo,

Hegel, dopo aver ricordato l'importanza che la religione ha nella

vita quotidiana dell'uomo, dichiara apertamente come questa si

innesti “su un bisogno naturale [morale] dello spirito umano” . 6

“Non spaventiamoci dunque se dobbiamo credere di trovare che

la sensibilità è l'elemento principale in ogni azione e sforzo umano

[...]. Quanto più rigorosamente in un sistema di morale la pura

moralità è in abstracto separata dalla sensibilità, tanto più questa

ultima è svalutata rispetto a quella; tanto più noi, nella

considerazione dell'uomo in generale e della sua vita, dobbiamo

dare particolare considerazione alla sua sensibilità, alla sua

dipendenza dalla natura esterna ed interna, da ciò che lo circonda

e da ciò in cui vive, dalle inclinazioni sensibili e dall'istinto cieco” .


7

Il tentativo di Kant, quindi, di definire “la religione entro i limiti

della sola ragione” si mostra ormai inadeguato. Cade, come

impensabile ed ipocrita, l' illusione che la religione, privata di tutti

gli elementi positivi, possa ancora identificarsi con il cristianesimo.

Diventa una mera utopia il ritenere che un comando universale,

solo perché imposto dalla ragione, si possa spogliare del suo

carattere positivo; infatti la stessa obbedienza all'imperativo

categorico viene considerata non più come realizzazione

dell'autonomia del singolo, ma come una eteronomia nella quale

l'uno diventa schiavo di un intrinseco padrone.

6 Hegel, 1989: 57.


7 Hegel, 1989: 58.

12
L'analisi filosofica di Hegel, tuttavia, non è focalizzata

sull'esclusione delle facoltà razionali dall'ambito dell'agire umano

ma sul loro accordo con esso. La ragione conserva nell'uomo

concreto il suo pieno valore proprio perché le idee della ragione

animano moralmente l'intero tessuto delle sensazioni dando ad

ogni inclinazione ed impulso uno specifico colorito. Per questo

motivo l'aspra polemica che Hegel conduce contro il razionalismo

morale kantiano non avviene in nome di un “empirismo” del quale

viene esplicitamente affermato che “non è in grado di porre

principi”, ma è intenta a sottolineare come ogni forma di

razionalizzazione integrale della religione, sia essa illuministica o

kantiana o teologica, si mostri inadeguata a soddisfare l'esigenza

di unità tra sensibilità e ragione . Di qui la definizione hegeliana di


8

una religione che deve riguardare il cuore, capace di influire sui

nostri sentimenti e sulle determinazioni della nostra volontà, non

più riconducibile agli astratti principi dogmatici dell'intelletto. La

religione, dunque, non deve essere una pura scienza di Dio e dei

suoi attributi, nè una sola conoscenza storica e intellettuale; ma, al

contrario, deve prendere in considerazione le necessità proprie

della sensibilità umana, senza sacrificarle in nome di una astratta

morale intellettualistica poiché, osserva D.V., “gli impulsi religiosi

alla moralità debbono essere necessariamente sensibili, per

poter agire sui sensi” . 9

Secondo lo Haering, questa connessione di sensibilità e

ragione ha sempre perseguito un'unica tematica del pensiero

8 Secondo Della Volpe, l'esigenza di unità della ragione e della sensibilità


Hegel la ricaverebbe dalla lettura dell'opera di Schiller, Grazia e Dignità
(1793), in cui viene affermato che "il dovere può accordarsi con
l'inclinazione e che da questo accordo risulta una grazia morale che è lo
stesso dovere divenuto inclinazione" [Della Volpe 1929/1972, I: 56].
9Hegel, 1989: 57.

13
hegeliano: il ristabilimento dell'unità (ragione-sensibilità) di contro

alla scissione (kantiana-intellettualistica). Scrive, appunto, lo

Haering nella sua opera Hegel, sein Wollen und sein Werk:

“Hegel, apparentemente in piena unità su questo punto con

Schiller, si volge contro la dualistica lacerazione che Kant ha

operato dell'uomo come peculiare caratteristica, secondo loro,

della sua etica. E ciò dimostra ancora una volta l' unilateralità

del pensiero fondamentale di Hegel da noi già messa in luce: [...]

religione e moralità sono per lui manifestazioni istintivamente

separabili dell'unica vita vivente di un popolo e dell'unica natura

umana intesa come una totalità” . In questa prospettiva


10

totalizzante, non ancora scandita dal ritmo dialettico-speculativo , 11

Hegel affronta la tradizionale questione illuministica del rapporto

tra religione positiva e religione naturale.

È opportuno ricordare che quando si parla di religione

positiva si fa riferimento ad una religione anti-naturale o

soprannaturale le cui conoscenze trascendono il nostro intelletto e

la nostra ragione e richiedono sentimenti ed azioni che non

sorgerebbero spontanei dall'uomo. La religione diventa così la

fides qua creditur, un insieme di “formule morte” che si

possono “ordinare in paragrafi, ridurre a sistema, esporre in un

libro, presentare agli altri mediante discorsi” e che nulla sanno


12

dire al credente che vi si rivolge. È necessaria, allora, una

religione “vivente”, in grado di parlare al cuore degli uomini solo

con sentimenti ed azioni; una religione che non si esprima

Haering, 1929: 357.


10

11Anche se questo antintellettualismo di Hegel rientra nel quadro delle


reazioni protoromantiche all'illuminismo, osserva Mario Rossi, ciò che
distinguerà Hegel dai romantici sarà proprio il suo nuovo metodo dialettico
che, in questi frammenti bernesi, ancora non è nato [Rossi, 1970: 98].
Hegel, 1989: 60.
12

14
attraverso una ortodossia dogmatica-dottrinale, ma che penetri

nell'interiorità umana al fine di ridurre quel rapporto di lontananza

che si è venuto a creare tra l'uomo e la divinità. Per Hegel, in

sintonia con la posizione luterana, non ha importanza che l'uomo

conosca bene la sua religione, ma è importante che egli senta in

se stesso l'opera e la prossimità di Dio.

In un suo saggio del 1987, apparso in Martin Lutero,

Prefazioni alla Bibbia, Marco Vannini scrive: “L'affermazione di

Lutero che, senza fede, tutto è morte e peccato, va dunque

intesa non nel senso per cui la fede è una credenza di tipo

gnostico, ma nel senso per cui è conoscenza dello spirito nello

spirito, esperienza di luce e di verità che può essere propria

dell'uomo in ogni tempo e in ogni luogo [...], giacché non è un

contenuto dogmatico, ma un soggetto, uno spirito” . Così la13

religione soggettiva, non confondibile con la “teologia”

tradizionale che disputa intorno ai dogmi e offre astratte soluzioni

metafisiche, si sviluppa su un insieme di princìpi religiosi e di

sentimenti che, riversandosi nella condotta generale, elevano e

nobilitano lo spirito di una nazione: ecco apparire, in forma

approssimativa, il concetto hegeliano di religione nazionale.

Con la nozione della Volksreligion Hegel vuole riabilitare tutti

quei princìpi teologici che sono stati “raffreddati” dall'analisi

intellettualistica (come i concetti di Dio e di immortalità

dell'anima), e inserirli in un nuovo concetto di religione che tenga

conto dell'intero ambito delle inclinazioni umane.

D.V. a questo punto fa notare, in linea con il Rosenzweig, che

un lettore del Kant della Religion si potrebbe legittimamente

13 Vannini, 1987: XXII. I corsivi sono miei.

15
domandare se la religione nazionale di Hegel, in quanto religione

pubblica, si debba necessariamente allontanare dalla pura

religione razionale e cadere nel vuoto feticismo. In realtà, il

pericolo in Hegel è solo apparente. Egli vuole sottolineare che

solo mediante un'adeguata dottrina religiosa si può rispondere a

tutte le esigenze della vita dell'uomo in generale. È proprio per la

realizzazione di questo scopo che la religione deve divenire

realmente soggettiva e assecondare anzitutto “lo sviluppo della

libertà e dell'innocenza”. Tale religione soggettiva, però, non deve

essere considerata in un'ottica individualistica, la quale

allontanerebbe la religione da ogni esigenza di moralità, ma deve

risvegliare i “pii sentimenti umani” ed accordarli con le istanze

etiche della ragione. In questo modo “il solito quesito dei rapporti

della religione naturale colla religione positiva”, secondo

l'interpretazione dellavolpiana, Hegel lo risolverebbe ”nel

concetto storico-politico della Volksreligion, mediatrice della

religione positiva di un popolo e della religione nazionale, in virtù

della congiunzione da essa operata delle convinzioni religiose

moralizzatrici di tutto un popolo con tutti i viventi motivi del suo

agire” . 14

Kant, separando sensibilità e ragione, aveva ricondotto il

fenomeno religioso alle esigenze morali della ragione pratica;

Schleiermacher, invece, nei suoi Discorsi sulla religione (1799) e

nei successivi Monologhi (1800) aveva descritto l'esperienza

religiosa come una intuizione immediata dell'infinito, riducendola

al solo ambito relativistico dei sentimenti. Anche Fichte che nel

1792 scrive il Saggio di una critica di ogni rivelazione, pur

14 Della Volpe 1929/1972, I: 66.

16
riconoscendo che non si dà in concreto nessuna religione pura di

elementi sensibili, in quanto gli uomini sono governati dalla legge

morale e dalle leggi naturali, spiegava la religione e la rivelazione

in chiave di ragion pratica. L'attenzione di Hegel, invece, è rivolta

alla elaborazione di un nuovo parametro storico-filosofico in

grado di mostrare come nell'esperienza religiosa possano venire

unificate sensibilità e ragione. In questa prospettiva di analisi la

Volksreligion si pone in netto contrasto con la raziocinante

morale eudemonistica, utilitaristica dell'illuminismo (se si eccettua

l'illuminismo superiore di Lessing e Kant), la quale rimane solo

una chiara conoscenza dei doveri e un illuminamento di verità

pratiche; ma nessuna “morale stampata” e nessun illuminamento

della ragione possono fornire agli uomini una moralità. Coloro che

sprecano un numero considerevole di parole, conclude Hegel,

solo per dimostrare l'inconcepibile stupidità degli uomini e dei loro

pregiudizi, servendosi dei soliti termini, Aufklärung, conoscenza

dell'uomo, felicità, perfezione, non sono altro che ciarlatani

illuministi che, cibandosi l'un l'altro di nude parole, trascurano il

sacro tessuto dei sentimenti umani.

Ma, allora, come deve essere costituita la Volksreligion?

Essa deve articolarsi intorno ad un principio di carattere

empirico in grado di risvegliare le buone inclinazioni dell'uomo e

di operare, in analogia con la ragione, il passaggio alla legge

morale: l'amore. Infatti, su questa terra non è certo probabile che

l'umanità o il singolo manchino di ogni impulso morale. E meritano

certo rispetto tutti quei sentimenti che, pur non essendo ancora

morali, servono ad ostacolare le cattive inclinazioni e a

promuovere quel “meglio” che vi è in ogni uomo. Sotto questo

17
carattere empirico, che è circoscritto al campo delle inclinazioni,

rientra anche il sentimento morale. Il principio fondamentale del

carattere empirico è l'amore che ha qualche analogia con la

ragione, “poiché l'amore ritrova se stesso negli altri, [...] così

come la ragione, quale principio di leggi universali, riconosce se

stessa in ogni essere razionale” . L'amore, quindi, pur rimanendo


15

un principio patologico (come lo definisce Kant), perde il

carattere egoistico e si manifesta come un sentimento

disinteressato. Esso dunque si distingue nettamente dal principio

del “raffinato amor di sé”, da quel calcolo utilitaristico della virtù

illuministica che ha come scopo ultimo il soddisfacimento delle

passioni dell'Io e diventa, nella nuova formulazione hegeliana, il

principio fondamentale della Volksreligion . 16

Rossi intravedrà in queste pagine di Hegel una lontanissima

anticipazione del concetto francofortese dell'amore come totalità

“a parte di non esagerare la portata ed attendere il diverso clima

spirituale in cui questa concezione maturerà” . D.V., invece, mise


17

in evidenza l'aspetto sociale, comunitario che la concezione

hegeliana dà dell'uomo; infatti l'amore e la ragione proprio perché

non permettono all'uomo l'isolamento, lo fanno sentire parte di un

tutto più grande di lui: la nazione. Date queste premesse, Hegel

si pone due domande:

1) Come deve essere costituita una religione nazionale, onde

avviare sempre di più gli uomini ad accostarsi alla religione

Hegel, 1989: 73.


15

16Della Volpe fa notare come nel frammento, Religione nazionale e


cristianesimo, il concetto dell'amore, per la sua caratteristica empirica, non
assume né il significato estetico-cosmico riscontrabile nelle grandi liriche
dello Schiller e negli inni di Hölderlin, né la connotazione metafisica che
verrà sviluppata nei frammenti successivi [Della Volpe 1929/1972, I: 61].
Rossi, 1970: 98.
17

18
razionale ed a rimuovere la fede superstiziosa, tenendo conto

che è impossibile fondare una religione pubblica che elimini

completamente ogni forma di superstizione?

2) Una religione nazionale che “dia il minor numero possibile di

occasioni di dipendenza dalla lettera e dalle usanze” , rimane


18

ancora accessibile per il popolo?

È necessaria una religione che non sia né una pura religione

morale, né mera teologia, né una religione privata che riguarda

l'educazione dell'uomo in quanto singolo individuo, né una

semplice fede, ma che ricomprenda in sé, conciliandole, le

esigenze della sensibilità, della ragione, dell'intelletto, della

fantasia, del sentimento.

Dopo aver individuato nelle “dottrine”, nelle “pratiche

essenziali” e nelle “cerimonie” i tre elementi costitutivi di ogni

religione, Hegel affronta il problema di come questi debbano

venire considerati all'interno della Volksreligion. Anzitutto le

dottrine di essa devono essere fondate sulla ragione universale.

Poi devono essere semplici e umane. Semplici non solo perché

sono verità della ragione e non hanno quindi bisogno né di un

apparato di erudizione, né di dimostrazioni artificiose ed intricate,

ma soprattutto perché facilitano la formazione di uno spirito

nazionale (eines Volksgeistes). Umane, nel senso che esse

devono essere commisurate all'incivilimento spirituale e al grado

di moralità in cui si trova il popolo, la nazione. L'efficacia di

queste dottrine sullo spirito della nazione deve esprimersi soltanto

a grandi linee, esse non debbono concernere l'esercizio della

giustizia civile, né dar luogo a dispute, per la loro semplicità; e,

18 Hegel, 1989: 72.

19
dato il loro esiguo contenuto positivo, debbono anche limitare

l'avidità di potere dei sacerdoti. Ma, inoltre - continua D.V. - “la

religione nazionale, deve, necessariamente, interessare il

cuore e la fantasia e il suo culto e le sue cerimonie debbono

scaturire dallo spirito stesso della nazione; altrimenti la loro

pratica è fredda, senza vita e forza e di nessun effetto morale” . 19

Infine, la struttura della Volksreligion deve essere tale da

includere tutti i bisogni della vita della nazione e le pubbliche

azioni dello Stato. Spirito della nazione, storia, religione, grado

della libertà politica non possono essere considerati

separatamente poiché si intrecciano in una sola unità.

Il problema filosofico-religioso che Hegel aveva cominciato

ad affrontare sotto l'influenza di Lessing, Kant e Fichte, si viene

configurando come problema politico-religioso. “Formare la

moralità dei singoli uomini”, si legge in questo primo frammento

bernese, “è affare di una religione privata, [...] formare lo spirito

della nazione è invece per un verso cosa della religione nazionale,

per un altro dei rapporti politici” . Sicuramente il concetto


20

hegeliano del Volksgeist porta con sé le tracce culturali di tutto il

secolo XVIII; D.V., in sintonia con l'interpretazione del

Rosenzweig, riscontra delle similitudini tra il Volksgeist e l'esprit

général di Montesquieu, pur riconoscendo che in Hegel lo spirito

nazionale non è solo un prodotto o risultato di una società, ma

addirittura la totalità visibile di una civiltà nazionale . Lo 21

spirito nazionale viene formato (gebildet), prodotto (erzeugt),

19Hegel, 1989: 73.


Hegel, 1989: 83.
20

21Della Volpe 1929/1972, I: 63. Il Volksgeist ricomparirà nel XIX secolo con
la scuola storica, sotto forma di un oscuro principio unitario e creativo
della vivente totalità di un popolo, ma verrà assumendo una connotazione
tipicamente romantica e non più illuministica.

20
educato (erzogen) dal contesto etico-politico del quale è, nello

stesso tempo, immagine e principio creativo. È un Volksgeist

che ha trovato la sua massima espressione nei lontani giorni del

passato, nella “bella individualità” del mondo greco, della

“nazione libera”, dove la città (la polis) appariva come un'opera

consapevole di sé, uno Spirito universale individualizzato e

concreto. L'immagine della Grecia la cui religione era cosa di

fantasia e sentimenti e come tale capace di pervadere tutta la vita

di un popolo, diventerà un tema ricorrente negli scritti hegeliani.

Nel sesto capitolo della Fenomenologia dello Spirito (1807)

ritroviamo lo Spirito etico della Grecia, il suo popolo descritto

come figlio della natura (Hölderlin) dove il singolo cittadino non

si riconosce ancora come individuo, ma si intuisce come parte di

un Totum finito. Si direbbe, come suggerisce Hyppolite, che qui

“la natura sia immediatamente l'espressione adeguata del sé

spirituale, mentre il sé non si è ancora astratto dalla sua

sostanza” . Non è da sottovalutare il fatto che Hegel dalla difesa


22

del sensibile trapassi sempre ad una dimensione superindividuale,

altruistica e, se vogliamo, antindividualiustica ed antiegoistica. La

religione interessa il giovane filosofo non tanto perché essa anima

l'intera vita umana individuale, quanto perché questa vita umana

individuale è parte integrante di un organismo vivente, la vita di un

popolo. “Non conosco nessun pensatore”, scrive Haering, “(non

certo Kant o Fichte) per il quale la religione rappresenti subito

inizialmente una comunità religiosa, empiricamente autovissuta” , 23

per il quale insomma la religione sia sin dall'inizio un fenomeno

comunitario. Come più tardi aggiungerà Lacorte, la Volksreligion

22 Hyppolite, 1989: 676.


23 Haering, 1929: 77.

21
“costituisce per Hegel il mezzo più concreto ed efficace per

rendere pratici i princìpi, per attuare nella realtà effettuale gli

ideali della filosofia, per servire come strumento valido ad

educare gli uomini secondo la loro vera natura e secondo le

esigenze imposte dalla situazione in cui essi vivono

storicamente” . 24

A Hegel interessa ricordare le repubbliche cittadine della

Grecia antica come modello di comunità armoniche, caratterizzate

dallo spirito patriottico e dall'unione di genio nazionale, religione e

libertà politica; un'armonia che, però, viene presto incrinata

dall'Impero Romano e dal prevalere dell'individualismo. Ridotto

alla sua privatezza, senza più ideali patriottici e libertà politica,

l'uomo ha cercato una ricompensa nell'aldilà, trovando rifugio nel

cristianesimo. Lo spirito cristiano, però. si mostra completamente

diverso dallo spirito greco. Mentre Socrate, che viveva in uno

Stato repubblicano, lasciò i suoi scolari liberi di continuare la

propria vita civile senza che diventassero eroi del dolore e del

martirio, Gesù, che volle tutto il contrario, sarebbe stato tra i

greci oggetto di riso. “Uno stato che volesse oggi introdurre nella

sua legislazione i comandi di Cristo [...] si dissolverebbe ben

presto” poiché, conclude Hegel, “risulta chiaro che le dottrine e i

principi di Gesù erano propriamente adatti solo alla formazione di

persone singole ed erano a ciò rivolti” . La religione cristiana


25

nasce,originariamente, come religione privata (Privatreligion)

e di conseguenza non potrà mai conciliarsi con la Volksreligion.

Mi sembra importante sottolineare un aspetto caratteristico, e

forse meno evidente, del rapporto tra la religione cristiana e gli

24 Lacorte, 1959: 307.


25 Hegel, 1989: 95-96.

22
uomini. Se il rapporto religione cristiana/uomini si fonda sul

presupposto che tutto ciò che vi è di nobile, di bello, di buono in

essi è un qualcosa di divino, nel senso che deriva da Dio o dal

procedere del Suo Spirito, se si premette l'impossibile

mediazione tra la natura umana e quella divina (eccetto che per il

Cristo) e quindi si preclude all'uomo ogni possibilità di

conoscenza del Bene e del divino sine auxilio fidei, la religione

cristiana diventa necessariamente positività. Per questo motivo lo

stesso insegnamento di Gesù, in mano al popolo ebraico, si

trasforma in qualcosa di positivo, poiché dai suoi discorsi e

precetti morali viene dedotto un nuovo e rigido sistema etico che

sostituisce alla libera imitazione del Messia il culto servile per il

Maestro. Nel momento stesso in cui Gesù cerca di avviare il suo

popolo verso una religione di amore e carità per tutti gli uomini,

nel momento in cui si propone di convertire il mondo al Regno di

Dio, egli assiste al proprio fallimento.

Se per un verso le prime comunità cristiane non riuscirono a

realizzare il loro vero obiettivo, cioè l'universale amore degli

uomini, proprio perché si rinchiusero in loro stesse contro il

mondo, per un altro i riformatori protestanti, sottomettendo il

cristianesimo al potere temporale (vedi Calvino), smarrirono la

radicale distinzione “fra le istituzioni necessarie in una religione

nazionale dominante presso un popolo e le leggi private di una

società parziale, di un club” . Ciò che preme a Hegel è di


26

dimostrare come il cristianesimo sia incompatibile con ogni forma

di vita politica e, in generale, con lo Stato.

26 Hegel, 1989: 97.

23
In due punti Hegel mostra una profonda ammirazione nei
27

confronti di Cristo e nella fede che in lui diventa fede in un ideale

personificato: “l'aggiunta del divino” eleva Gesù al di sopra

dell'umanità e nello stesso tempo rende gli uomini più vicini a tutti

quegli ideali che essi considerano sovrumani e irraggiungibili.

Nella figura di Cristo la natura umana trova una mediazione, un

punto di contatto con la divinità. Non ci troviamo più nella

condizione della “coscienza infelice” in cui la separatezza e la

lontananza tra l'uomo e Dio era incolmabile. Il genere umano si è

cristificato attraverso la vita e l'opera di Gesù e Dio;

“individualizzandosi” nel corpo di Cristo, si è riconciliato con il

mondo. Per questo motivo Cristo può essere ritenuto un maestro

di virtù superiore a Socrate anche se, in fondo, il suo carattere

divino e la sua fede rimangono circoscritti all'ambito di una

Privatreligion. Persino l'immagine della morte che si tramanda

nel popolo cristiano e in quello greco assume un diverso colorito:

per il primo la morte viene simbolicamente rappresentata dallo

scheletro come indizio di terrore e disperazione, per il secondo,

invece, la morte viene addolcita dalle parafrasi degli oratori e dei

predicatori che sono mirate a sottolineare il godimento della vita

(vedi lo Schiller degli Dei della Grecia). Insomma la religione

greca della fantasia e del cuore, che riusciva a conciliare nel suo

spirito mondano la vita civile con quella religiosa, diventa un

ideale completamente irrealizzabile nella positiva e

extramondana religione cristiana.

Se è vero che Hegel non è cristiano nel senso ortodosso della

parola, se è vero che Hegel non è illuminista nel senso che tale

27 Hegel, 1989: 112-113.

24
termine aveva nell'epoca in cui studiava a Tubinga, se è vero,

invece, come è stato ampiamente discusso, che lo interessa

soprattutto l' uomo nella sua interezza, nella sua completa

natura fatta di ragione e di intelletto, di sensazione e di memoria,

di fantasia e di cuore, se è vero, come risulta dall'analisi di questa

prima serie di frammenti, che l'uomo non è per lui l'umanità

astratta né la particolarità transeunte, ma l'uomo integrato nella

società, nella realtà spazio-temporale di un popolo, ebbene anche

la religione è per lui un fatto vero e autentico e il suo Dio è un Dio

nuovo, non ancora trovato, solo ricercato al quale mira l'uomo

concreto, l'uomo sociale che è al centro della sua attenzione. La

religione, infatti, viene considerata in questi primi frammenti come

la primitiva manifestazione della società umana. E la religione non

è teologia, né scienza di Dio, ma è vita con Dio, è, per usare una

terminologia cara alla Scolastica, ricerca di Dio da parte della

collettività nazionale. Già da queste premesse si intravede

quell'unità di Volksreligion e Volksgeist, ispirata all'armonia

politico-religiosa della polis greca, che in seguito Hegel

denominerà Sittlichkeit, e che, precisa D.V., “è la concreta vita

morale palpitante solo nella totalità politica, nello Stato” .


28

Queste considerazioni non devono far credere che Hegel si

fosse liberato dell' illuminismo alla prima esperienza. Proprio

nell'approfondimento della filosofia illuministica, che aveva

trovato la sua massima espressione nel razionalismo critico

kantiano, il giovane teologo inizierà a costruire il suo sistema

filosofico e a progredire oltre lo stesso Kant (come vedremo nel

frammento francofortese Lo spirito del cristianesimo).

28 Della Volpe 1929/1972, I: 68.

25
Vita di Gesù

La seconda opera della fase illuministica di Hegel è una Vita

di Gesù, da lui composta dal 9 maggio al 24 luglio 1795, a Berna,

ove si era recato, dopo la licenza teologica, quale precettore

della famiglia Steiger. Per orientarci sui motivi che spinsero il

giovane teologo ad occuparsi della figura di Gesù e di

problematiche apparentemente lontane e diverse da quelle che

abbiamo fin qui avuto occasione di conoscere, è opportuno

scorrere l'epistolario tra lui e Schelling che, retrospettivamente,

fornisce anche dei chiarimenti sul precedente periodo di Tubinga.

A Tubinga la filosofia di Kant regnava sovrana. Tutti i dogmi

possibili ed impossibili erano stati dedotti a partire dai postulati

della ragion pratica e laddove le prove teoretico-storiche non si

mostravano più sufficienti, il ricorso alla “ragion pratica”

spazzava via ogni difficoltà. Schelling e Hegel avvertono la

necessità di colmare e di riunificare le fratture teoretiche aperte e

lasciate irrisolte dalla filosofia kantiana (vedi le antinomie), e

l'esigenza di introdurre una nuova definizione di filosofia che

possa ricomprendere, in una visione totalizzante, tutti i vari aspetti

del reale. Verso la fine del gennaio 1795, Hegel scrive a Schelling:

“Ho ripreso da qualche tempo lo studio della filosofia di Kant,

con l'intento di applicare i suoi importanti risultati ad alcune idee

che continuano a circolare tra noi ed elaborare queste secondo

quei risultati” .
29

Questa lettera e le successive sono riprodotte in Briefe von und an


29

Hegel, herausgegeben von Johannes Hoffmeister. Band.I, 1785-1812, Felix


Meiner Verlag, Hamburg, 1952. La lettera in questione si trova a p.15.
D’ora in poi citerò l’opera solo come Briefe.

26
Ricordiamo che sono di quegli anni gli scritti fichtiani Sul

concetto di dottrina della scienza o della cosiddetta filosofia

(1794), Fondamenti dell'intera dottrina della scienza (1794),

Compendio di ciò che è proprio della dottrina della scienza

(1795); i primi scritti schellinghiani di sapore fichtiano, Sulla

possibilità della forma di una filosofia in generale (1794), e

Sull'Io come principio della filosofia (1795), e le Lettere

sull'educazione estetica di Schiller (1795). Fichte, come è noto,

cercava quel principio fondamentale certo e indimostrabile che

rendesse possibile non solo la forma (Kant), ma anche il

contenuto della scienza a cui le proposizioni di tutte le altre

scienze dovevano fare riferimento, e lo trovò nell'Io. Schelling,

nello scritto del 1794, riproponeva alcune tematiche fichtiane e

metteva in evidenza la necessità di un principio unitario e

incondizionato sotto cui raggruppare le proposizioni scientifiche.

E nel saggio del 1795 presentava un rinnovato spinozismo

ricavato dall'Io puro di Fichte inteso come un'assoluta identità di

soggettivo e oggettivo. Schiller nelle Lettere portava a

compimento la teoria dell'anima bella, già accennata nello scritto

Grazia e dignità del 1793, in cui viene realizzandosi quell'armonia

tra ragione e sensibilità, inclinazione e dovere che nel concetto di

arte come libero giuoco delle facoltà (Kant) trovava la sua

massima espressione. In questa atmosfera culturale Hegel inizia la

sua corrispondenza con Schelling e matura la sua Vita di Gesù.

Secondo Hegel, Fichte e Schelling hanno avuto il grande merito

di avere introdotto un nuovo modo di fare filosofia e scienza; è

lodevole il tentativo di individuare nell'Io o nell'Assoluto un

principio unificatore e unitario del reale, ma, per quanto riguarda

27
l'ambito della religione, Fichte nella sua Critica di ogni

rivelazione (1792), affermando a priori la santità di Dio,

“rintroduceva nella dogmatica il vecchio genere di prove” , 30

mentre Schelling riproponeva con la sua idea dell'Assoluto una

filosofia “esoterica” che non teneva conto delle particolarità. Ma

se questo è il retroterra culturale sul quale si formano le prime

idee speculative del giovane Hegel, ben diversa è l'atmosfera e il

contenuto di due importanti lettere (24 dicembre 1794 - gennaio

1795) che egli invia a Schelling. In esse si parla del Kant della

Ragion pratica e della Religione e del tentativo di salvare e di

difendere l'invisibile Chiesa kantiana dal nuovo assalto che il

teologo Storr e la scuola di Tubinga le stava rivolgendo . 31

Schelling, nel frattempo, aveva usato parole dure nei confronti dei

kantiani, rimproverandoli per non essersi liberati della “vecchia

superstizione” appartenente tanto alla religione positiva quanto a

quella naturale, e per aver definito il Dio cristiano un deus ex

machina. Sia Hegel che Schelling sentivano, come scrive

Asveld , l'evoluzione che si operava a partire da Kant. Vedevano


32

in questa evoluzione, in questo progresso, un processo di

liberazione, la fine di quella condizione di alienazione nella quale

l'umanità era vissuta sino ad allora e, di conseguenza, la nascita di

una nuova metafisica. Occorreva insomma “distruggere il

formicaio teologico (di Tubinga) e mettere a nudo questi teologi

che si illudono di potersi servire delle armi della critica per

30ibidem.
Nel tardo Settecento la scuola di Tubinga fu caratterizzata dal confronto
31

tra la dogmatica luterana e il pensiero critico dell'illuminismo e di Kant. Il


dogmatico G.C.Storr fu dal 1777 al 1797 il principale rappresentante di
questo indirizzo il cui fine era quello di dare una giustificazione razionale
della realtà soprannaturale; tra i suoi allievi vi furono Hegel, Schelling e
Hölderlin.
32Asveld, 1953: 93.

28
rafforzare il loro tempio gotico. E [Hegel] ammette che a questo

scandaloso abuso ha, incontestabilmente, aperto le porte il Fichte

col suo Versuch; benché egli abbia fatto un uso moderato del

suo metodo.

E conclude che se lui, lo Hegel, avesse tempo cercherebbe di

determinare meglio fino a che punto si possa, per il

consolidamento della fede morale, trasferire la in sé legittima idea

di Dio dalla etico-teologia (vedi i postulati kantiani e la Religion )

alla fisico-teologia, come aveva fatto appunto il Fichte” . 33

Nella lettera del 30 agosto 1795 , forse la più importante della


34

sua corrispondenza con Schelling, Hegel comincia a delineare i

tratti del suo nascente metodo speculativo. Inizialmente egli

sembra condividere la concezione schellinghiana di Dio come Io

assoluto e la relativa critica agli attributi divini. Ma si rifà

esplicitamente ad una particolare pagina dell'opera di Schelling in

cui si afferma il concetto di Assoluto come Totalità. Mi sembra

quindi ragionevole l'osservazione di Rossi quando sostiene che è

attraverso la lettura delle varie opere di Schelling, attraverso

l'idealismo, dapprima soggettivistico o fichtiano, che Hegel stesso

giunge a poco a poco al concetto di totalità, all'assoluto, non

accettando in toto il punto di vista dell'amico Schelling . Pur non


35

trovandoci ancora di fronte al vero e proprio metodo dialettico-

speculativo, è rilevante sottolineare come l'assoluto per Hegel sia

già al di sopra di ogni separazione o correlazione e si manifesti

subito come totalità. Da queste premesse risulterà più chiara la

comprensione della nuova fase illuministica di Hegel che si

33 Della Volpe 1929/1972, I: 71.


34 Briefe, 1952: 29.
35 Rossi, 1970: 165.

29
inaugura con la Vita di Gesù, che egli termina di scrivere poche

settimane dopo la sua lettera del 30 agosto 1795.

Secondo D.V., in quest'opera Hegel svolgerebbe la sua

esposizione seguendo la linea interpretativa di Kant ovvero il

tentativo di spiegare la Scrittura come una pura “religione

razionale”. Infatti, scriveva Kant nella Religion: “si richiederà

allora una scienza della Scrittura per mantenere nel suo

prestigio una chiesa fondata sulla Sacra Scrittura, ma non una

religione (perché la religione, per essere universale, deve

necessariamente fondarsi sempre sulla sola ragione); benché

questa scienza non stabilisca nulla più di questo: che la Scrittura,

originariamente, non contiene in sè nulla che renda impossibile il

suo accoglimento come una rivelazione divina immediata; ciò che

sarebbe sufficiente per non essere di impedimento a coloro, i

quali credono di trovare in questa idea un particolare

rafforzamento della loro fede morale, e che, per questo motivo,

l'accettano volentieri. [...] Così la religione razionale e la scienza

scritturale sono le competenti interpreti e depositarie di un

documento sacro” . E poiché il fine di ogni religione razionale è il


36

miglioramento morale degli uomini, così questa sarà depositaria

del supremo criterio per l'interpretazione della Scrittura.

Prima di cominciare la narrazione, Hegel premette alcune

considerazioni generali che introducono il tema. “La ragion pura

incapace di ogni limite è la divinità stessa. È secondo la ragione,

dunque, che è ordinato in generale il piano del mondo; è la

ragione che indica all'uomo la sua destinazione, l'incondizionato

scopo della sua vita. Spesso essa è bensì oscurata, ma mai è

36 Kant, 1985: 122.

30
stata del tutto spenta: anche nell'oscuramento si è sempre

conservato un debole barlume di essa“ . Tra gli ebrei fu Giovanni


37

che rese di nuovo attenti gli uomini a questa dignità che dà loro la

ragione. Ma i maggiori meriti li ebbe Gesù per aver purificato,

attraverso il puro culto di Dio, gli uomini dai corrotti princìpi e,

soprattutto, per averli avvicinati alla autentica moralità. E inizia il

racconto: il luogo ove egli nacque era un villaggio della Giudea,

Betelemme; i suoi genitori erano Giuseppe e Maria, il primo dei

quali discendeva dalla stirpe di David, e così di seguito. La

narrazione, come fa notare D.V., “procede semplice e realistica,

sui quattro evangeli; non vi fa alcun paragone esegetico degli

evangeli, ed è assente l'erudizione. Sono i punti salienti della vita e

della attività di Gesù che Hegel coglie con lo stesso spirito che se

si trattasse di un Socrate” . A Hegel non interessano i miracoli, le


38

azioni che hanno deformato l'immagine di Gesù circondandola di

un alone di misticismo e di mistero ma, al contrario, egli è

intenzionato a descrivere il travaglio che Gesù ha subìto, come

uomo, per portare a compimento il suo progetto. Il centro di

questa Vita è segnato dalla drammatica lotta tra la religione

razionale di Gesù, una religione dell'interiorità, kantianamente

intesa come legge, dovere, e la religione chiesastica, esteriore,

fatta di formule morte e vuoti feticismi.

D.V. si sofferma sul passo che lui definisce il più “strano”, il

più “pittoresco e curioso” della vita di Gesù, vale a dire la

scena della tentazione nel deserto, in cui accanto all'eco kantiana

risuona quella del Faust goethiano: “nelle ore della sua solitaria

meditazione” Gesù si domandò un giorno “se non valesse la pena

37 Hegel, 1989: 141.


38 Della Volpe 1929/1972, I: 72-73.

31
di tentar di trasformare, con lo studio della natura [la fisica] e

forse anche con l'aiuto di spiriti superiori, delle materie prive di

valore in materie più nobili immediatamente utilizzabili dagli

uomini, come le pietre in pane, oppure di rendersi indipendente

dalla natura; ma egli scacciò questi pensieri con la considerazione

dei limiti che la natura ha imposto al dominio dell'uomo su di essa,

con la considerazione che è indegno della dignità umana aspirare

ad un tale potere, poiché possiede in sé una forza superiore alla

natura la cui elevazione e il cui sviluppo è il vero destino della sua

vita“ . Un'altra volta balenò nella fantasia di Gesù la visione di ciò


39

che viene ritenuto grande tra gli uomini: il dominio e la supremazia

su milioni di altri uomini e il relativo vanto di attirare le parole

della metà del mondo; ma egli respinse anche questo pensiero,

dettato dal proprio egoismo, per rimanere fedele a quella eterna

legge etica che stava, come una scritta indelebile, nel suo cuore.

Tutto il Vangelo con le sue parabole, le sue esortazioni, le sue

leggende, i suoi paradossi è ridotto, come sostiene Peperzak, “a

un interminabile discorso sulla vita e sulla autonomia morale”,

privo completamente di spunti poetici . 40

Ma, allora, come deve essere giudicata questa Vita di Gesù?

Sicuramente la drammatica e tragica vicenda di Gesù,

conclusasi con la sua crocifissione e sepoltura nel sepolcro di

famiglia, rappresenta l'epilogo della difficile compatibilità tra la

legge etica interiore e la sottomissione farisaica, esterna e

autoritaria, alla legge divina. Tuttavia, come spiega Vannini nel

suo saggio su Lutero, potremmo dire che anche per Hegel Gesù

deve servire a qualcosa: “deve servire a confermare un

39 Hegel, 1989: 143.


40 Peperzak, 1969: 66.

32
contenuto, eventualmente negandone altri, se v'è polemica nella

stessa religione. [...] Come la luce della ragione soltanto distrugge

l’io psicologico e lo fa rinascere come spirito, così ci si libera

dalla servitù nei confronti del testo [sacro] solo grazie alla

comprensione razionale, ovvero sgombrando il campo da quel

preteso soprannaturale che sta per le nostre paure e censure

psicologiche. Solo a queste condizioni appare lo spirito, il Dio

vero, non quello determinato nei modi e nei contenuti, ma il Deus

sine modis, e alle stesse condizioni il libro sacro, da oggetto di

superstizione e di idolatria, diviene veramente luogo e occasione

dello spirito”, e ancora “quello cui qui accenniamo, è

magistralmente spiegato nelle pagine di Hegel sulla lotta

dell'illuminismo con la superstizione; una fede ridotta a

superstizione, priva cioè della ragione, e una ragione dimidiata a

intellettualismo, priva cioè di quel rapporto con l'Assoluto che è

la fede, combattono per il testo, per il dato, per la lettera, per le

virgole o gli iota spostati, dai quali fanno dipendere tutto. La

ragione e la fede così intese sembrano farsi guerra, ma sono

in realtà la stessa cosa: la stessa finitezza, la stessa

dipendenza psicologica” . 41

Un altro aspetto di notevole importanza, e D.V. fu attento a

rilevarlo, è l'esclusione, da parte di Hegel nella Vita, di quel

concetto di amore che a Tubinga aveva occupato la maggior

parte dei suoi frammenti. È evidente come in questo periodo

bernese la morale “metempirica” e razionale di Kant lo domini

completamente e gli trasmetta quel profondo astio nei confronti di

ogni religione statuaria e dogmatica.

41 Vannini, 1987: XVI-XVII. I corsivi sono miei.

33
“La positività della religione cristiana”. Hegel storiografo

Nella lettera di Hegel a Schelling del 30 agosto 1795 si trovano

verso la fine queste parole: “Non vale la pena parlare dei miei

lavori. Forse ti spedirò tra qualche tempo il piano di qualcosa che

io penso di svolgere, su cui vorrei chiederti il tuo amichevole aiuto

per ciò che riguarda in particolare la storia ecclesiastica nella

quale io sono molto debole e sulla quale tu puoi darmi i migliori

consigli” . Molto probabilmente si tratta degli studi sulla


42

Positività della religione cristiana che Hegel terminò di

scrivere a Berna tra il 2 novembre 1795 e il 29 aprile 1796.

Lo spirito con il quale Hegel compone questo nuovo lavoro

rimane ancora quello degli Aufklärer: Kant, Lessing, Rousseau e

Mendelssohn con la sua famosa Gerusalemme, o del potere

religioso e del giudaismo (1783), sono ancora al centro della sua

riflessione filosofica. Ma ciò non deve trarre in inganno. Infatti le

ultime pagine ci mostreranno un Hegel non solo critico nei

confronti della storiografia dell'Aufklärung, ma anche intento

all'elaborazione di una nuova storiografia dialettica.

Se è vero che Hegel in questo nuovo scritto rimane fedele

all'esigenza illuministica di spiegare la religione in termini di ragion

pratica, è altresì vero che ora una seconda tendenza emerge in

modo evidente: la necessità di studiare accuratamente la storia

religiosa e politica di un popolo comprendendone tutte le sue

particolari manifestazioni .
43

Briefe, 1952: 33.


42

43“È una tendenza che già Hegel aveva manifestato a Tubinga quando nel
frammento maggiore sottolineava l’importanza di Chronos. A quell’epoca

34
Il nucleo concettuale - ed è questo che collega lo scritto

attuale con quello precedente sulla vita di Gesù - rimane la

identificazione, da parte di Hegel, della religione con la morale e

la virtù: “qui è stato posto a fondamento di ogni giudizio sullo

spirito e sulle varie forme e modificazioni della religione cristiana il

principio che il fine e l' essenza di ogni vera religione - ed anche

perciò della nostra - è la moralità [degli uomini]” . 44

Nella Vita Hegel aveva descritto Gesù come la virtù

personificata, il supremo Maestro di moralità.

Ma in che modo avviene ora il passaggio dall'annunziatore

alla affermazione del contenuto dell'annunzio? O meglio, come

scrive D.V., “che cosa potè dare origine, nella dottrina e nella

vita di Gesù al decadere della sua pura religione morale in

religione positiva?” . La risposta a questa domanda è la chiave


45

per spiegare, suggerisce Rohrmoser, in che modo il cristianesimo

sia divenuto una religione oggettiva, positiva . Ci troviamo, 46

dunque, nella sfera dell'influenza lessinghiana e kantiana, nella

querelle illuministica tra religione naturale e religione positiva.

Hegel, osserva D.V., pur scrivendo la Positività nel clima

della grande tradizione dell'Aufklärung tedesca, propone una

diversa prospettiva di analisi: “infatti, quella funzione mediatrice

fra Vernunftreligion e religione positiva che ebbe, come

notammo, il concetto storico-politico di Volksreligion, la esercita

qui la trattazione storiografica del decadimento della

Vernunftreligion di Gesù in religione positiva: i due termini

egli parlava molto dello spirito delle differenti nazioni” [Peperzak, 1969: 78-
nota n. 3].
Hegel, 1989: 258.
44

Della Volpe 1929/1972, I: 78.


45

Rohrmoser, 1961: 30.


46

35
dell'antitesi vengono avvicinati e, in certo senso, mediati col

mostrare come l' uno scaturisca dall' altro. E se si riflette che,

almeno in questo, l'indagine è condotta dallo Hegel in modo da

staccarsi dalla consueta storia illuministica della Chiesa; che egli

coglie in Gesù stesso e nel cristianesimo primitivo i germi della

trasformazione positiva, invece di mostrare un originario puro

cristianesimo di Gesù corrotto e trasformato dall'esterno; se si

riflette a questo, non si potrà non concludere che lo Hegel

raggiunge tutta quella concretezza che poteva essere raggiunta in

una questione di quel genere” . Il suo scopo diventa quello di


47

scoprire, in parte nella stessa figura positiva di Gesù e in parte

nello spirito dei tempi, i motivi che hanno trasformato la religione

cristiana come religione della virtù (Tugendreligion) dapprima in

una setta e successivamente in una fede positiva.

Dopo aver fatto un breve riferimento al Nathan lessinghiano,

Hegel abbandona la dissertatio storica sulla religione cristiana e

comincia una lunga trattazione di filosofia giuridica sopra il

concetto di Chiesa e il suo rapporto con quello di Stato. Questa

parte del lavoro, osserva D.V., è sotto l' immediata influenza del

pensiero contrattualista. Che la Chiesa cattolica e quella

protestante siano uno Stato (anche se quest’ultima ne rifiuta il

nome) risulta dal fatto che la Chiesa rappresenta un contratto di

uno con tutti e di tutti con uno e protegge ogni membro della

società che abbia una determinata fede ed una determinata

opinione religiosa. Come i diritti delle persone e delle cose

appartengono al contratto civile, così la fede comune è l’oggetto

del contratto religioso. In questa società concili e sinodi

47 Della Volpe 1929/1972, I: 79.

36
esercitano il potere legislativo, vescovi e concistori quello

esecutivo. Lo Stato religioso è quindi una sorgente di diritti e di

doveri del tutto indipendenti da quello civile. Nulla vi sarebbe da

obiettare contro un diritto ecclesiastico puro che non sia in

contraddizione con il diritto naturale dei singoli. Ma la Chiesa non

è soddisfatta di questo solo diritto, si incorpora nello Stato, lo

abbraccia e dà origine ad un diritto ecclesiastico misto che, nella

maggior parte degli Stati, contamina il puro diritto civile. In

questo modo, i diritti dello Stato e quelli della Chiesa entrano in

collisione, ed è sempre lo Stato, sia esso cattolico o protestante,

a sacrificare i propri diritti.

Secondo D.V. questa disamina hegeliana risente di una forte

eco mendelssohniana; infatti D.V. osserva che per Hegel la


48

distinzione fra Chiesa e Stato si fonda, oltre che sulla distinzione

vista, or ora, di società coattiva e libera, di cui un accenno era già

in Mendelssohn, anche sull'argomento, tipicamente

mendelssohniano, che le cose interne e spirituali della fede non

possono essere oggetto di un vero contratto. In altre parole, gli

imperfetti diritti, secondo l'espressione di Mendelssohn, che

derivano dagli arbitrari doveri che posso avere assunto, e gli

istituti che li tutelano, come la Chiesa, non hanno un valore

paritetico a quei perfetti diritti dello Stato. “I diritti che io posso

concedere ad una società - continua D.V. - nella quale sono

entrato a mio arbitrio non possono essere diritti politici, ché,

altrimenti, verrei a riconoscere nello Stato un altro potere da lui

distinto che avrebbe gli stessi diritti ch'esso ha” . 49

48Della Volpe 1929/1972, I: 82.


49Della Volpe 1929/1972, I: 82-83.

37
In realtà, fa notare D.V., Hegel in alcune affermazioni

tratteggia il suo rapporto ideale di Stato e Chiesa, di quello

“Stato russoiano inteso col massimo rigore: tanto lontano dal

romanticismo quanto dal Montesquieu (ganz unromantisch e

ganz montesquieufern, come lo definisce il Rosenzweig). Uno

Stato nemico di tutte le forze che possono intromettersi fra la

libertà dei singoli contraenti il patto sociale e l’onnipotenza dello

Stato sorto da quel patto“, uno Stato che trae la propria forza e

legittimità dai diritti naturali degli individui: “è, dunque, - scrive

D.V. - lo Stato della rivoluzione, con in più gli echi di quella che il

Rosenzweig chiama felicemente l’anima tedesca della

rivoluzione: gli echi di Kant, di Fichte, di Schiller, riassunti nel

principio solenne della dignità umana, Würde des Menschen.

Naturalmente questo Stato hegeliano ha, dello Stato russoiano,

anche il difetto. Questo difetto è la preesistenza delle parti al

tutto, e, quindi, l’atomismo: ci sono gli individui con tutti i loro

diritti, ci sono i singoli valori individuali, ma manca il valore

dell’unità, dello Stato” . D.V., quindi, riconosce che Hegel in


50

queste pagine compie un passo innanzi su quell'embrione di

filosofia politica che è contenuto nei frammenti di Tubinga. Ma,

mentre a Tubinga egli si era occupato principalmente dei rapporti

tra il Volksgeist e gli individui, riservando poco spazio al

rapporto tra lo Stato ed i singoli, qui affronta quest'ultimo

problema essenziale, risolvendolo alla maniera di Rousseau. “Le

pagine precedenti, sui rapporti di Stato e Chiesa - conclude D.V.

- possono, dunque, considerarsi come il primo saggio di filosofia

politica dello Hegel” . 51

50 Della Volpe 1929/1972, I: 85. I corsivi sono miei.


51 Della Volpe 1929/1972, I: 86.

38
Nelle pagine che seguono immediatamente alla Positività, e

che Hegel aggiunse probabilmente, come dice il Nohl, per

servirsene poi per una continuazione di quella, ritornano alcune

tematiche già affrontate a Tubinga: il concetto di Volksreligion e

un suo confronto con il cristianesimo. L’argomentazione

principale mira infatti a mettere in luce che il cristianesimo non

può essere una religione nazionale, e in particolar modo non può

essere una religione nazionale tedesca.

Grazie a Rosenkranz, sappiamo che Hegel aveva

profondamente studiato il Gibbon e lo Hume . Nella sua celebre


52

opera, Storia della decadenza e rovina dell'impero romano

(pubblicata a Londra tra il 1776 e il 1778), Gibbon affronta il

problema della decadenza della religione pagana e del successivo

trionfo del cristianesimo, elencandone (c. XV ) cinque cause

naturali:

1) L'inflessibile intollerante zelo dei cristiani.

2) La dottrina di una vita futura.

3) Il potere dei miracoli, attribuito alla Chiesa primitiva.

4) La pura austera morale cristiana.

5) L' avere i cristiani formato uno status in imperio.

“Più profondo, lo Hegel abbandona la storiografia

pragmatica, col suo estrinseco nesso causale, del Gibbon - scrive

D.V. - e ricerca la ragione di quella rivoluzione, come la chiama,

nel mutamento che dovette avvenire nello stesso spirito di quella

età, nella sua profonda costituzione interiore. È la totalità di

una cultura, di una civiltà che egli abbraccia e illumina, penetrando

52 Rosenkranz, 1966: 60.

39
i rapporti dell’organizzazione politica antica con la vita morale e

religiosa, spirituale dell’uomo antico” . 53

Tutte le motivazioni di critica religiosa che già conosciamo nel

giovane Hegel sembrano acquistare in questi ultimi scritti

maggiore forza e vigore da un confronto con il mondo greco-

romano, considerato non staticamente ma dinamicamente, in

relazione al suo sviluppo, al suo divenire, alle sue vicissitudini

storiche. Il motivo neoclassicista e organicista, qui indubbiamente

dominante, trova riscontro nella attenta lettura, compiuta da

Hegel, delle Lettere sull’educazione estetica di Schiller, in

particolar modo della VI, in cui vengono chiarite le condizioni per

le quali il greco si qualifica rappresentante del suo tempo

contrariamente all’uomo moderno: “il greco si informò dalla

natura che tutto unisce; il moderno dall’intelligenza [cioè:

l’intelletto] che tutto separa” . Anche D.V. ricorda l'influenza


54

delle Lettere schilleriane su Hegel, precisando che mentre

Schiller con il concetto di anima bella intende un unità estetico-

morale, Hegel ora la considera come unità etico-politica . 55

La religione greco-romana era, scrive Hegel, una religione

per popoli liberi: l’ideale greco-romano era ed è ancora la libertà,

quella libertà che il popolo tedesco ha perduto. Tuttavia ciò che

particolarmente affascina Hegel, secondo l’interpretazione che ne

dà D.V., è che questo ideale ha una colorazione non

Della Volpe 1929/1972, I: 87-88.


53

Schiller, 1882: 34.


54

55Vi si aggiungerebbe qui, secondo Lukács, che nelle citazioni relative al


capitolo di Berna mostra la sua chiara preferenza per questi testi, un
“radicalismo democratico“ che dominerebbe il quadro e ne
contrassegnerebbe lo svolgimento; con la mediazione di studi economici,
oggi perduti, Hegel porrebbe le premesse per la sua dialettica . Ma Lukács
osserva forse il tutto con lenti speciali che ingrandiscono solo in una
determinata direzione [Lukács, 1975: 104].

40
individualista, rivolta al particolare, ma comunitaria, inserita nella

dimensione sociale della vita di un popolo. In questa condizione,

“in uno Stato in cui non c’era più gioia e di cui il cittadino sentiva

solo il peso - commenta D.V. - si presentò all’uomo antico la

nuova religione, la cristiana, che gli mostrò in Dio quell’assoluto

che egli possedeva prima nello Stato repubblicano, prodotto

della sua volontà; e senza del quale assoluto la ragione umana non

può stare. [...] Questa la fine del mondo antico: la perdita della

libertà lo ha costretto a porre il suo assoluto in Dio” . 56

Secondo Asveld, in questo frammento Hegel continuerebbe a

muoversi nel clima ideologico e letterario della alienazione

metafisica : quando il cristianesimo ha sopraffatto e soppiantato


57

il mondo greco-romano in rovina, l’uomo è diventato un non-Io e

Dio ha cessato completamente di essere soggettivo, diventando

così un altro non-Io, un puro oggetto, infinitamente distante e

posto fuori dei limiti delle forze umane. Asveld spiega che

“bisogna evidentemente scartare l’interpretazione teocentrica

che consiste nell’identificare semplicemente l’opposizione tra il

Dio concepito come Io o soggetto e il Dio che sarebbe il Non Io

o oggetto, con l’opposizione tra il Dio morale ed il Dio natura” . 58

Certamente, aveva osservato D.V., l'intima dialettica, in virtù

della quale nasce la coscienza infelice, qui è come sepolta nel

fatto storico della dissoluzione della moralità e religiosità antica, ed

è lo Hegel storiografo che è qui in primo piano. “Lo storico

rivela dunque il filosofo a se stesso; e questi rivela lo storico,

poiché la mentalità dello Hegel - bisogna dirlo - era fin da ora

56 Della Volpe 1929/1972, I: 90.


57 Asveld, 1953: 104.
58 ibidem.

41
quella di un grande storico. Concludendo, quest’ultima parte del

manoscritto ci appare singolarmente ricca di intuizioni storiche e

filosofiche originali, che cominciano a mostrarci la caratteristica

mentale dello Hegel, che possiamo determinare fino ad ora come

una esigenza di organicità, di concretezza” . 59

Fermiamoci per un momento su questa doppia anima di

Hegel, filosofo e storico, che D.V. mette in luce. Hegel sta

cercando, attraverso l’esperienza storica, un modulo filosofico in

grado di unificare i diversi e molteplici aspetti della realtà politica,

etica, religiosa di un popolo.

L’istanza di tutto l’ Idealismo tedesco è quella di trovare un

parametro che consenta di cogliere le leggi unitarie dello svolgersi

del reale, un modulo di pensiero capace di mettere ordine nei

particolari storici. Insomma, il rapporto tra filosofia e storia era al

centro della speculazione idealistica tedesca: Fichte, Schelling,

Hegel offrono, ognuno a suo modo, una loro soluzione.

Probabilmente, negli anni della sua formazione giovanile, a

Hegel già balenava l’idea che l’evoluzione storica della filosofia

avesse una sua necessità immanente: l’idea imparentata con il

modo in cui il razionale compenetra la realtà. Compito della

filosofia, dunque, sarebbe diventato quello di rintracciare in ogni

operazione teoretico-pratica le relazioni sussistenti tra le varie

componenti culturali dell’uomo (es. la storia, i costumi,

l’ambiente, ecc.). A Jena, nel 1805-6, Hegel affermerà che fare

storia della filosofia significa trovare un punto di incontro tra una

idea della filosofia presentata come idea assoluta, metastorica e

lo svolgimento storico del pensiero, cioè il modo in cui gli uomini

59 Della Volpe 1929/1972, I: 91-92.

42
prendono contatto con la realtà esterna. In questo modo, la

storiografia filososofica non solo acquisterà un carattere unitario,

ma si potrà avvalere di un modello filosofico-concettuale (che

Hegel chiamerà metodo dialettico) in grado di analizzare ogni

fenomeno culturale, presente o passato, nelle sue infinite relazioni

storiche.

Nell’elaborazione giovanile di Hegel l’idea di una storia della

filosofia non ha ancora raggiunto quella solidità sistematica e

teoretica che verrà sviluppata negli scritti della maturità. Tuttavia,

“se noi abbracciamo nel complesso i risultati essenziali di questa

seconda ed ultima fase del periodo di Berna - conclude D.V. -

possiamo ritenere che essa segna un netto progresso sulla prima:

al superamento della storiografia dell’Aufklärung e all’inizio della

storiografia dialettica, propria dello Hegel, va unito un iniziale

abbandono delle unilateralità e limitazioni della filosofia religiosa e

morale di Kant. Il ventiseienne Hegel non ha perso tempo. La sua

esperienza illuministica si chiude con alti presagi” .


60

60 Della Volpe 1929/1972, I: 97.

43
La fase di transizione.

Le fonti dello Spirito del cristianesimo.

Crisi: questa è la parola ricorrente con cui la critica più accreditata si

riferisce al periodo francofortese di Hegel. E alla parola crisi si è

generalmente accompagnata la qualificazione mistica che allude, oltreché

ad un atteggiamento fondamentalmente irrazionalistico ed

intuizionistico, ad un riavvicinamento di Hegel a quella religione

cristiana che a Berna aveva aspramente attaccato.

In realtà, come fa notare D.V., Hegel è giunto ad una svolta

importante della sua vita: esaurita l’esperienza illuministica, egli si

avvia al panteismo mistico dello Spirito del cristianesimo, che costituirà lo

scritto più importante e rappresentativo della sua gioventù . “È a questo

punto - osserva D.V. - che il problema dei rapporti di Hegel con

l’ambiente storico diventa estremamente delicato e difficile. Innanzi

tutto, le correnti panteistiche sono più d’una in questo periodo, ed è più

facile coglierne i punti di somiglianza che di differenza: a quale di esse

si riallaccia immediatamente il panteismo hegeliano?“ . 61

Hegel probabilmente riprende da Schiller l’impostazione metodica,

ovvero la possibilità di unificare tutti quegli aspetti antinomici e

conflittuali dell’etica kantiana attraverso un nuovo strumento

concettuale che non è più il sentimento estetico (come era per Schiller),

ma un principio dialettico-speculativo in grado di risolvere ogni

opposizione (empirica o concettuale) all’interno di una totalizzante

61 Della Volpe 1929/1972, I: 98.

44
unità . Se il monismo naturalistico di Herder ed il panteismo di Goethe
62

possono considerarsi come i precedenti necessari ed innegabili del

panteismo giovanile di Hegel, non si possono tuttavia ritenere né le sue

fonti dirette né l’unica chiave di lettura per poterlo spiegare. Con

Herder Hegel condivide la concezione di un universo come un tutto

spirituale organico e vivente, ma manca nel panteismo hegeliano

quell’interesse per la natura fisica e la conseguente metafisica sviluppata

da Herder nella concezione dell’umanità e della natura come due

manifestazioni della stessa infinita forza divina immanente nel cosmo. Con il

panteismo goethiano, invece, quello di Hegel ha in comune la visione

dell’universo come un tutto vivente ed armonioso sorretto dall’amore;

“ma manca nello Hegel - fa notare D.V. - l’agnosticismo del Goethe, per

cui questi proclamò sempre che l’universo è inscrutabile. [...] Il panteismo

hegeliano, invece, sorto da una profonda esigenza obiettiva, teorica,

doveva rifiutare ogni [forma di] agnosticismo e additare, come

vedremo, un organo metafisico dell’assoluto” . 63

Certamente il panteismo mistico-estetico di Hegel ha invece la sua

fonte filosofica diretta nel panteismo estetico-poetico di Hölderlin.

Infatti la concezione hölderliniana dell’assoluto come natura o vita, dell’

uno-tutto della natura inteso come una infinita armonia di forze, l’idea di

una natura identificantesi con una totalità vivente che si determina e si

riconosce attraverso infinite individualizzazioni, sono i presupposti

teorici dello Spirito del cristianesimo. Se la lettura degli scritti di Hölderlin

62 Della Volpe, infatti, cita una lettera che Schiller inviò a Goethe il 17 agosto 1795, nella quale ci sono dei

riferimenti espliciti al cristianesimo e all’etica kantiana: “Se si guarda al tratto caratteristico del cristianesimo,

per cui esso si distingue dalle altre religioni monoteistiche, esso è niente altro che la negazione della legge o

dell’imperativo kantiano, al cui posto il cristianesimo ha voluto mettere una libera inclinazione. Il cristianesimo

è così, nella sua essenza, espressione di una bella, armoniosa, eticità, o di un umanizzamento del sacro, e in

questo senso è l’unica religione estetica “. Anche se Hegel non verrà mai a conoscenza di questa lettera privata

di Schiller, l’etica hegeliana contenuta nello Spirito del cristianesimo sembra ispirata proprio da queste

tematiche [Della Volpe 1929/1972, I: 106].


63 Della Volpe 1929/1972, I: 107.

45
svolge un ruolo importantissimo nell’elaborazione francofortese,

l’influenza di Schelling sullo Spirito del cristianesimo, osserva D.V., sembra

essere nulla.

Questi “ispiratori” e “guide” Hegel li trova, oltre che in Schiller e in

Hölderlin, anche nel misticismo tedesco e, in particolar modo, nelle

teorie del maestro Eckhart e del suo discepolo Tauler. Ma quel che

interessa D.V., è mettere in rilievo l’evidente parentela tra la polemica

di Hegel contro la concezione delle persone divine come sostanze, che

troveremo nello Spirito del cristianesimo, e la profonda dottrina eckhartiana

della trinità . 64

Il pensiero di Meister Eckhart ha creato e continua a creare agli

storici un certo imbarazzo, poiché sembra impossibile rinchiuderlo in

una formula, oppure designarlo con un nome: “alcuni vi vedono - scrive

Gilson - innanzitutto una mistica, altri una dialettica platonica e

plotiniana e, probabilmente, hanno ragione tutti. Mistica e dialettica

sono ben lontane dall’escludersi” . Lo stesso commento 65 sembra

condividere D.V. nei confronti di Hegel.

Documento emblematico del periodo francofortese di Hegel è un

frammento sull’Amore (databile intorno al 1797), che è da ritenere come

uno degli studi preparatori allo Spirito del cristianesimo. Già nei frammenti

di Tubinga Hegel aveva fatto riferimento al principio dell’amore, come

il corrispettivo empirico della Vernunft kantiana. Nelle poche righe del

64 Secondo la riflessione eckhartiana, infatti, la trinità viene considerata come un processo di

automanifestazione dell’essere divino, che esce da sé per rientrare in sé, nella quale l’unità del processo
trinitario è più fortemente accentuata rispetto alle distinzioni personali. Eckhart, infatti, non si limita ad usare

espressioni tipicamente scolastiche, ma enuncia addirittura il principio, che “Dio è uno in tutti i modi e sotto

qualunque aspetto lo si guardi, di guisa che in lui non si può trovare traccia di pluralità sia reale sia

semplicemente di ragione“ e che “chi vede una dualità o una distinzione non vede Dio, essendo Dio, in

effetti, uno, al di fuori e al di sopra del numero e non entrando Egli in alcuna composizione numerica, onde in

Dio non può essere né può concepirsi alcuna distinzione (Nulla igitur in ipso deo distinctio esse potest aut

intelligi )”. E afferma, infine, che “non vi ha differenza né nella natura divina né nelle persone, data l’unità
di natura” [Della Volpe 1952/1972, I: 353-354].
65Gilson, 1993: 838.

46
frammento, sia pure in modo non ancora completamente preciso e

limpido, è già formulata tutta la dialettica hegeliana. Si trova qui la

dialettica dell’unificazione degli opposti come momento della totalità.

L’idea di totalità che Hegel aveva sviluppato a Tubinga nella

formulazione della Volksreligion e del Volksgeist, ora diventa uno

strumento filosofico utile per smascherare e superare quel

procedimento riflessivo, tipico del cattivo intelletto, che contrappone il

finito all’infinito, la materia allo spirito, il corpo all’anima, la necessità

alla libertà, irrigidendone le contraddizioni.

Il Leben hegeliano è quella totalità spirituale, concepita come

immedesimazione organica di universale e particolare, sintesi armonica e

concreta di entrambi: “questa totalità spirituale - scrive D.V. - è, infine, una

totalità di sentimento, non di ragione, o meglio la sua razionalità è lo stesso

sentimento pieno e concreto che la costituisce: l’amore è, infatti, la legge

del Leben, l’amore definito, una volta, dallo Hegel, sentimento del tutto

(Empfindung des Ganzen )“ . Quindi l’amore non ha niente in comune con


66

l’intelletto (Verstand ), i cui nessi non unificano mai il molteplice poiché

sono essi stessi molteplici ed opposti; ma neanche si confonde con

quella specie di ragione (Vernunft) che oppone semplicemente la sua

attività determinante ad ogni determinazione; l’amore non è nulla di

determinante, di determinato, di finito. Esso è un sentimento nel quale

il senziente ed il sentito non sono affatto distinti e opposti; è un

sentimento che nel soggetto manifesta la vita; l’Aufhebung esercitata

dall’amore non è solo negazione, ma conservazione dell’opposto negato

nella nuova unità compiuta.

D.V. a questo punto richiama lo scritto antifichtiano pubblicato da

Hegel nel 1801 con il titolo Differenza fra il sistema filosofico di Fichte e quello di

66 Della Volpe 1929/1972, I: 132.

47
Schelling , in cui verranno riprese la tematica e l’impostazione

metodologica di questo frammento sull’amore. Nella Differenza, scrive

D.V., “Hegel afferma che la filosofia ha il compito di ristabilire

l’armonia dello spirito, del reale, rotta dall’intelletto, che contrappone il

finito all’infinito, la materia allo spirito, il corpo all’anima, la necessità

alla libertà e irrigidisce i contrasti; mentre l’unico interesse della

ragione è di negare queste rigide opposizioni “ . 67

“Lo Spirito del cristianesimo”

L’etica dell’amore e del destino

Lo Spirito del cristianesimo e il suo destino, composto presumibilmente tra

l’autunno 1798 ed il 1799, è lo scritto più incisivo del periodo francofortese

di Hegel. La religione è al centro del suo interesse, in primo piano,

come lo è la metafisica: l’una e l’altra, suggerisce D.V., si intersecano e si

intrecciano reciprocamente, si sovrappongono, mescolano i loro

interessi, sino a farli coincidere.

Nelle pagine introduttive, che diventano una premessa storico-

filosofica per collocare all’interno del giudaismo la figura e la dottrina

di Gesù, Hegel, come aveva già fatto Schelling (sia pur diversamente)

con il suo Io assoluto, vuole reagire contro una concezione nella quale

non si tiene alcun conto dell’immanenza di Dio nel creato e della

partecipazione del finito all’infinito. La trascendenza divina era per i

giudei e per i cristiani del tempo di Hegel costruita sopra una estrinsecità

assoluta della divinità ed uno svilimento completo ed ingiustificato della

creatura. Hegel, ora, vuole rivendicare per il finito una partecipazione,

67 Della Volpe 1929/1972, I: 134-135.

48
nel senso forte della parola, all’infinito, senza quell’abisso che separa

Dio dal mondo e dall’uomo. Questo tentativo di unificazione che Hegel

vuole realizzare nell’ambito religioso, trova terreno fertile anche nella

sua concezione etico-politica. Infatti il pensiero filosofico-politico di

Hegel, suggerisce D.V., è ancora dominato da quell’ideale di libertà dei

cittadini che deve essere il requisito fondamentale di ogni costituzione;

ancora, per Hegel, “le leggi politiche coincidono con leggi di libertà e

ancora la repubblica è il suo Stato ideale“ . Lo Stato non esisteva per i


68

giudei: non avrebbe avuto senso scatenare guerre per difendere la

proprietà, sacrificare la vita stessa in nome dell’idea di Patria o di Stato.

L’unico sacrificio nobile poteva avvenire solo in nome di qualcosa di

più alto, di eterno (für etwas Ewiges). Risulta evidente come la filosofia

hegeliana, anche in questo frammento, rivendica con tutte le sue forze la

necessità di una visione e di una impostazione unitaria della realtà

tanto sul versante religioso quanto sul versante politico.

Già da queste pagine, secondo D.V., la concezione del destino del

popolo giudaico incarnato da Abramo ha una funzione di principio unitario

determinante l’intera storia di un popolo, al di sopra dei tempi, e serve a

dare, in certo senso, “continuità e organicità alla storia giudaica: pur

senza che il concetto di destino assuma qui quel profondo significato

etico-metafisico che assumerà nelle indagini seguenti“ . 69

La parte dedicata allo “spirito del giudaismo” termina con la

presentazione di Gesù e della rivoluzione etica da lui operata. Secondo

molti interpreti, la critica al giudaismo, che Hegel compie attraverso la

figura di Gesù, è di fatto una critica alla morale kantiana. “Si ricorderà

che nella Vita di Gesù - scrive D.V. - lo Hegel aveva contrapposto alla

68 Della Volpe 1929/1972, I: 143. In una nota a p. 140 Della Volpe osserva che questi passi hegeliani hanno un
precedente fuggevole nell’opera di Herder, Ideen zur Philosophie der Geschichte (1784-91).
69 Della Volpe 1929/1972, I: 142.

49
legge statuaria, positiva, dei giudei la legge interiore kantiana,

incarnata in Gesù. Ora, invece, lo Hegel assume quella netta posizione

antikantiana, [...] che lo porta a combattere qualunque morale della

legge, la kantiana come la giudaica, e ad affermare, in nome di Gesù, che

lo Hegel adombra qui tacitamente nella schilleriana anima bella, una sua

originale etica dell’amore“ . 70

D.V. mette in luce tre aspetti della critica hegeliana alla morale di

Kant:

1) Il modo in cui Hegel denuncia l’opposizione kantiana tra universale

e particolare.

2) Il percorso fenomenologico intrapreso dalla coscienza etico-religiosa

attraverso i tre gradi dell’eticità (moralità, amore, religione).

3) I primi riferimenti hegeliani a quell’interpretazione panteistica del

cristianesimo.

Procediamo con ordine.

Hegel si oppone nettamente al carattere universale e formale delle

leggi kantiane. È avversario spietato di ogni morale prestabilita che

indichi il modo in cui ogni uomo deve agire in ogni circostanza

possibile, riducendo così l’umanità intera ad un grande ordine

monastico. Non vuole saperne di un codice morale che indichi la virtù,

quelle massime che sono da mettere in opera in ogni possibile caso e

condizione e che provocano una scissione (dovere\inclinazione)

all’interno dell’uomo. Egli rivendica soprattutto la necessità di

restaurare l’uomo nella sua totalità (vedi Schiller), di renderlo libero

dalle stesse idee di legge e di dovere, perché soltanto così potrà

diventare, per usare un termine della maturità, un universale concreto.

70 Della Volpe 1929/1972, I: 143.

50
“Nel testo del Grundkonzept che stiamo esaminando” commenta D.V.,

“segue, poi, una specie di disegno fenomenologico dei vari gradi della

moralità; disegno che scompare dal testo definitivo, ma che è molto

interessante conoscere, non solo per seguire la strada percorsa dallo

Hegel prima di giungere alla redazione ultima di quest’etica, e per

cogliere, alle sue origini, quel confluire dell’etica nella religione, [...] ma

anche per il suo carattere intrinseco, che fa di esso il primo germe di

ricerca fenomenologica dello Hegel“ . I tre momenti dell’eticità ( moralità,


71

amore, religione) che descrivono lo svolgimento della coscienza etico-

religiosa, sono inseriti da Hegel all’interno di un oscura dialettica,

ancora in fase embrionale, orientata verso la conciliazione suprema,

cioè verso quella coscienza dell’assoluto in cui si attua l’armonia del

singolo, del particolare, con l’universale ed il necessario. Ciò che Hegel

sta ricercando è proprio un’unità che concili le diversità, che le sopprima

e le mantenga nello stesso tempo come momento necessario

nell’articolazione della totalità: l’amore.

Queste pagine, secondo D.V., già annunciano quella interpretazione

panteistica del cristianesimo che sarà delineata ampiamente nella

stesura definitiva dell’opera e che diventerà il nucleo originario della

futura Filosofia della religione (1821-31). Ed è qui, prosegue D.V, “nel

Grundkonzept, che appaiono le prime tracce del panteismo mistico dello

Eckhart, di cui dicemmo”. Nella “metafisica religiosa” di Hegel

“l’amore è additato come principio unificatore dell’uomo e di Dio, del

particolare e dell’universale; e la religione di Gesù, in quanto religione

dell’amore, rappresenta la consapevole unità dello spirito umano con

quello divino”. Ovvero “il dogma cristiano è fin d’ora inteso dallo

Hegel come espressione simbolica dell’unità del divino e dell’umano, ed è già

71 Della Volpe 1929/1972, I: 145.

51
preparata quella interpretazione della trinità, nella quale l’assoluto è

concepito come il processo in cui esso si distingue da se stesso e supera

questa distinzione; e questo immanente rapporto in Dio vien definito ora

come amore: eterno mistero per i sensi e per l’intelletto“ . 72

Il frammento successivo, intitolato da Nohl Legge e pena, destino, amore

e riconciliazione, offre le pagine speculative senza dubbio più geniali che

Hegel scrisse in gioventù. Abbandonato l’atteggiamento critico e

negativo, egli si accinge al compimento dell’etica concreta che deve

sostituire e superare l’arida moralità giudaica e kantiana. Le categorie

etico-metafisiche di cui si serve sono: la vita, l’amore ed il destino. “Col

concetto della vita - osserva D.V. - o Hegel mira ad una

immedesimazione di quell’universale e particolare ch’erano stati scissi

da Kant; e col concetto del destino, che è - ripetiamo - come il palpito e il

ritmo della vita, egli vuole additare la natura inquieta e contraddittoria

dell’unità della vita, poiché il destino è da lui concepito come la

reazione della totalità spirituale, ch’è la vita, ad ogni scissione o

violazione di essa, onde poi si ricostituisce in eterno, mediante l’amore -

ch’è sentimento del tutto - l’unità originaria della vita. E la teoria finale,

che il destino va oltre la moralità ed è illimitato, e che c’è anche una

colpa dell’innocenza, compie la portata metafisica di quel concetto,

volendo essa significare, se non erriamo, la reazione del tutto a ogni

azione particolare e quindi l’illimitata assoluta circolarità e organicità

del reale; onde nulla di ciò che è vivo e reale sta intatto e immoto, cioè

sfugge alla contraddizione concreta, al destino; ma tutto si muove e

attinge la sua qualità di reale e vivente appunto dalla perenne

contraddizione e dolore dal destino. Crediamo che si possa per ciò

72 Della Volpe 1929/1972, I: 147-148. I corsivi sono miei.

52
concludere che questo destino è come il primo germe della futura Vernunft

concreta dello Hegel“ . 73

Ancora una volta, sembra suggerire D.V., Hegel vuole difendere la

struttura unitaria del reale. La categoria della totalità, che inizialmente

abbiamo incontrato nel concetto etico-politico di Volksgeist , poi nel

sentimento patologico dell’amore ed infine nella categoria

gnoseologico-metafisica della vita, viene sviluppata da Hegel con


74

evidenti riferimenti al panteismo mistico tedesco. I termini unità,

unificazione, riconciliazione, organicità, totalità spirituale, sembrano configurarsi

come dei postulati dai quali Hegel trae e articola la sua struttura

dialettica della realtà. Se gli opposti, e quindi ogni forma di alterità,

vengono considerati soltanto come dei momenti necessari di un’unica

(immanente) totalità, se le Aufhebungen (i superamenti) volta a volta

raggiunte sono tali solo relativamente ai momenti precedenti e

divengono esse stesse sempre il punto di partenza per ulteriori

Entfremdungen (alienazioni), allora nel sistema hegeliano il risultato si

salderà nel cominciamento ed il processo dell’intero, della totalità,

apparirà come un circolo di circoli, come una spirale essa stessa circolare: tutto si

svolge all’interno di una assiomatica unità dialettica.

73 Della Volpe 1929/1972, I: 159-160.


74Della Volpe mette in evidenza come Hegel dal Grundkonzept incominci a tradurre la realtà in un puro
ritmo categoriale , abbandonando il metodo della psicologia trascendentale, promossa da Kant e culminata da
Fichte. Ovviamente, continua Della Volpe, le categorie hegeliane sono, almeno per ora, gnoseologico-
metafisiche e non logico-metafisiche. [Della Volpe 1929/1972, I: 106].

53
La crisi del misticismo hegeliano

e le origini della dialettica hegeliana

La dottrina metafisica racchiusa nello Spirito del cristianesimo (pp.436-459)

ha il suo immediato punto di riferimento nel vangelo di Giovanni e in

particolar modo nelle formule fondamentali del prologo. Espressioni

come “Dio era il Logos ” e “Logos era Dio” e simili hanno, dice Hegel, solo

l’apparenza, ingannatrice, di giudizi, giacché i supposti predicati non

sono, in tal caso, concetti o universali, come nei giudizi ordinari della

riflessione, ma sono anch’essi, come il soggetto (Dio), qualcosa di reale,

di vivente: e infatti soggetto e predicato formano una unità vivente reale. Ed

è contraddittorio esprimersi nei riguardi di Dio, o della vita, nei termini

della riflessione (in Form der Reflexion).

Nella Prefazione alla Fenomenologia, avverte D.V., “Hegel critica la

riduzione di Dio ad un astratto giudizio, nel quale il predicato venga

aggiunto esteriormente al soggetto, concepito come un punto fisso e

conclude che Dio è unità dinamica di soggetto e predicato, è cioè

Selbstbewegung , Subject , concetto; e qui, affermata l’inadeguatezza ed

esteriorità dell’universale, dell’astratto, alla vita, Hegel conclude

parimente che soggetto e predicato fanno uno, e costituiscono

precisamente un’unità vivente. Qui come là Hegel combatte l’unità

astratta, esteriore, della riflessione intellettuale, qui come là mira ad una

unità concreta; solo che i mezzi di cui dispone nei due casi sono diversi e

di diverso valore: qui la conoscenza intuitiva, ch’egli propugna contro la

discorsività dell’intelletto, gli offre soltanto l’unità immediata del

vivente, della vita, là il metodo dialettico gli offre l’unità mediata, e però

veramente concreta, della Selbstbewegung , del Subject . Ma l’esigenza è la

54
stessa: l’unità piena e concreta” . La medesima esigenza, secondo D.V.,
75

Hegel la ripropone nella descrizione del rapporto tra Gesù e Dio. Il

rapporto tra Padre (Dio) e figlio (Gesù), spiega Hegel, non è un concetto,

una unità come quelle dell’opinione, un’unità astratta dal vivente, ma è

un rapporto di vivente a vivente, di omogeneità della vita. Padre e

figlio sono semplici modificazioni della stessa vita. Figlio di Dio

significa quindi modificazione del divino e nello stesso tempo unione mistica

dell’uomo con Dio. “Il compimento della fede, il ritorno alla divinità da cui

l’uomo è nato, conclude il ciclo del suo sviluppo. Tutto vive nella

divinità, tutti gli esseri viventi sono suoi figli. Ma il figlio porta in sé,

intatte ma non sviluppate, l’unità, la connessione, la consonanza con

l’intera armonia: egli incomincia con la fede negli dèi fuori di sé, con la

paura, finché coll’agire ha sempre più separato se stesso; ma allora

ritorna nelle sue unificazioni, all’unità originaria che è ora sviluppata,

autoprodotta, sentita come tale” . Il movimento si svolge tutto


76

all’interno dell’Intero; Hegel infatti insiste sull’unità di chi ha fede, di chi

crede, dei singoli con Dio, sulla partecipazione reale, organica, vivente

dei singoli all’Intero.

È chiaro però, osserva D.V., che l’unità mistica di cui parla Hegel

non è negativa, ma al contrario ha un significato eminentemente

positivo. Infatti la negazione del finito, del particolare, la negazione del

mutamento, propria di ogni mistica, che lascia sussistere il puro uno

immutabile (vedi il “neti, neti” delle Upanischad o il “nescio, nescio” di

Bernardo di Cluny), manca qui in modo evidente. La categoria

75 Della Volpe 1929/1972, I: 166-167.


76 Hegel, 1989: 452-453. In questo passo, secondo Rossi, sono presenti in modo esplicito i tre momenti della
dialettica propria del sistema, cioè della dialettica definitiva. Vi troviamo infatti l’immediatezza quale primo
momento, l’estraneazione e cioè la fede negli Dei fuori di sé quale secondo momento e il ritorno all’unità
originaria, cioè la riappropriazione dell’alienazione, quale terzo momento, quest’ultima espressa con tipicissime
parole del linguaggio hegeliano. [Rossi 1970: 391].

55
fondamentale rimane sempre la vita, intesa come immedesimazione di

universale e particolare e rapporto attuale delle parti con il tutto.

Motivo ispiratore di questo panteismo mistico di Hegel, secondo

D.V., è il suo già noto antintellettualismo e propriamente la sua

ripugnanza alla riflessione di Kant e di Fichte: “ripugnanza che lo ha

spinto, in etica e in metafisica, ad esperienze mistico-romantiche, in

largo senso, onde lo Schiller e lo Hölderlin si sono uniti nella sua anima

allo Eckhart” . Contrariamente a Dilthey, D.V. esculde l’ipotesi che


77

questa esperienza mistico-romantica di Hegel possa far pensare,

anzitutto, ad una sua effettiva esperienza personale, soggettiva. Hegel

ricorre al misticismo e al romanticismo solo per trovare una risoluzione

al problema della realtà concreta, molteplice ed una a un tempo, che

sfuggiva alle categorie della riflessione kantiana e fichtiana.

Sicuramente la mistica hegeliana è una mistica sui generis, ma deriva da

una esigenza obiettiva, concreta, teoretica . 78

La serrata polemica che egli ha condotto, dalle prime pagine dello

Spirito del cristianesimo in poi, contro la riflessione, intellettuale o razionale,

sembra attenuarsi nel Frammento di sistema del 14 settembre 1800. Hegel

comincia ad attribuire alla filosofia, cioè alla riflessione, compiti

importanti: il ruolo della filosofia diventa quello di svelare in ogni essere

finito la sua finitezza, di esigere con l’aiuto della ragione il

completamento del finito. Deve soprattutto prendere coscienza del

disprezzo al quale l’espone il proprio concetto di infinito e deve

pertanto riconoscere che il posto del vero infinito è al di fuori del proprio

campo d’azione. Per questo motivo la filosofia deve far posto alla

religione, in quanto il suo infinito non è il vero infinito. Per la filosofia

elevarsi all’infinito consiste in definitiva in un movimento infinito (o

77 Della Volpe 1929/1972, I: 171.


78 ibidem.

56
meglio indefinito), cioè senza limiti, senza fine. In tale movimento, al

limite si aggiunge in continuità ciò che lo limita, per riconoscere ben

presto in quest’ultimo termine una grandezza posta dalla riflessione e

quindi essa stessa finita, limitata, e ripartire poi di nuovo alla ricerca di

ciò che ha limite. La religione, invece, trascende in modo diverso il carattere

limitato del finito. Essa è vita ed il vivente può superare la sua limitatezza

elevandosi sino alla vita infinita che Hegel chiama anche spirito.

È la prima volta, fa notare D.V., che Hegel afferma con un

significato tecnico il concetto cardinale della sua speculazione: la

concezione dello spirito come unità immanente del molteplice, come

“legge vivificante in unione con il molteplice che ne è vivificato” . In 79

realtà, come ricorda Dilthey, il termine Geist comparve varie volte nello

Spirito del cristianesimo, specialmente in quella parte che più si appoggia al

vangelo giovanneo tuttavia, sostiene D.V., “nello Spirito del cristianesimo il


80

termine Geist ha per lo più un significato etico, quando non ha un

significato metafisico cristiano come l’opposto del corpo; ma raramente esso

ha un significato metafisico originale: l’ordine metafisico proprio dello

Hegel è, ivi, espresso quasi sempre col concetto di Leben“ . Ed è da tener


81

presente, continua D.V., che fin da ora Hegel determina l’essenza dello

spirito mediante la categoria della totalità; e da questo germe si

svilupperà, nelle opere successive, il carattere logico dell’universo come

manifestazione dello spirito . 82

Dilthey vede in questa preminenza della religione sulla filosofia un

documento di misticismo, di antilogicismo hegeliano , Haering in 83

relazione alla continuità dello sviluppo hegeliano vi riscontra quella

identità di contenuto tra filosofia e religione che Hegel proclamerà nel

79 Hegel, 1929: 499.


80 Hegel, 1989: 438-440.
81 Della Volpe 1929/1972, I: 189 - nota 1.
82 Della Volpe 1929/1972, I: 189-190.
83 Dilthey, 1968: 138-157.

57
sistema . De Negri ritiene che qui Hegel voglia dire che quella filosofia
84

che “cerca di innalzarsi all’infinito, che coinvolta in un inconcludente

processo all’infinito, deve andare a finire in una specie di religione,

precisamente nella religione fichtiana dell’Io che sarà il bersaglio

dell’ultima parte del frammento“ . 85

Concludendo, osserva D.V., la posizione assunta da Hegel nel

Frammento, con il quale si chiude, effettivamente, la sua speculazione

giovanile, presistematica, è rappresentata da una specie di sintesi

intuitivo-razionale, o da una specie di circolo fra religione e filosofia, onde,

se la filosofia deve finire nella religione, questa a sua volta deve

diventare riflessione, filosofia. “Una filosofia religiosa o una religione

filosofica , come ebbe a dire il Fischer, annunciatore di una verità diversa e

più profonda di ciò che egli pensava. E la soluzione sistematica del

problema, apparentemente insolubile, del circolo filosofia-religione

costituirà veramente quella che è chiamata la filosofia dialettica di Hegel” . 86

84 Haering, 1929: 543.


85 De Negri, 1949: XXXI. Per Rossi questo passo potrebbe dimostrare “come la mistica speculativa francofortese,
sia in generale un surrogato della risoluzione metafisica. Hegel non ha ancora compiuto la completa critica
della filosofia della riflessione e non ha ancora trovato un atteggiamento che sia insieme riflessivo e filosofico.
Questo rinvio alla religione sarebbe parallello ad una insufficiente formulazione del principio dialettico” [Rossi,
1970: 253].
86 Della Volpe 1929/1972, I: 199-200.

58
Critica della Logica hegeliana

“Della Volpe - scrive Fraser - aveva regolato i suoi conti con Hegel,

e quindi anche con la revisione gentiliana di Hegel, fin dal 1929. Dopo

aver studiato Hume, a partire dagli anni 1935-38 si volse ad Aristotele, e,

durante la guerra, mise a confronto le posizioni di Nietzsche e

Heidegger, e più tardi di Rousseau e Kant. Benché non tornasse ad

Heidegger, e fosse alquanto sprezzante verso Nietzsche, il movimento

verso Rousseau, che culminò nel 1943, non comportò un rifiuto puro e

semplice di Kant. Nei primi anni Quaranta Della Volpe aveva criticato

l’aprioristica dialettica diadica di Kant, ma dopo la conversione al

marxismo sarebbe tornato alla problematica kantiana. Il suo interesse

per il Wittgenstein del Tractatus, per il Circolo di Vienna, per Dewey,

Carnap, Quine e Tarski, e, negli ultimissimi anni, per Popper, contribuì

a fargli una fama di dilettante. In verità, egli era acutamente

consapevole della necessità di connettere il marxismo al pensiero

scientifico post-engelsiano” . 87

La nozione, ad un tempo metafisica e speculativa, che la scienza

riflette la struttura del reale, deve, a giudizio di D.V., venir stabilita non

già a priori, ma sperimentalmente. Il passaggio al marxismo, di cui parla

Fraser, contiene allora due elementi importanti per la formazione di

D.V.:

1) Il lavoro svolto sulla critica marxiana di Hegel del 1843, e in genere la

sua lettura del primo Marx, lo convince che il metodo della critica

della dialettica mistificata di Hegel nella sfera dell’ideologia è lo

stesso che poi si ritrova nella Introduzione del ‘57. In entrambi i casi, la

87 Fraser, 1979: 23.

59
critica da un lato della “filosofia del diritto”, e dall’altro

dell’economia politica borghese, incarna il corretto procedimento

scientifico.

2) Rousseau che nello scritto del 1943, Discorso sull’ineguaglianza, sembra

esprimere l’essenza del collettivismo egualitario; due anni più tardi con il

saggio La teoria marxista dell’emancipazione umana. Saggio sulla trasmutazione

marxista dei valori, diventa il rappresentante di una nuova forma di

liberalismo sociale: una concezione derivata cioè dall’astratta persona

cristiana (il cittadino e il supremo egoista) e incapace di formulare

quella libertà che poggia sul riconoscimento del merito individuale,

e perciò della diseguaglianza reale.

Nel 1943, con il Discorso sull’ineguaglianza, D.V. è ormai giunto all’idea,

sia pure alquanto vaga, di una società basata sul lavoro, superiore

all’egualitarismo formale di Rousseau e al liberalismo kantiano.

Elabora la critica della ipostasi hegeliana, dell’apriorismo,

dell’astrazione indeterminata, e della dialettica mistificata (nonché

mistica). Nel 1932 aveva pubblicato il saggio La teoria delle passioni di David

Hume, mentre tra il 1933 ed il 1935 pubblica, rispettivamente, il primo ed il

secondo volume del nuovo lavoro su Hume con il titolo Hume o il genio

dell’empirismo. (La filosofia dell’esperienza di David Hume). Hume gli aveva già

infuso la fiducia nelle facoltà umane e nella possibilità di un uso della

ragione che poggia sulla sensazione e sull’osservazione. Così D.V. mette

in luce la debolezza della dialettica diadica platonica e propone la

compatibilità della logica aristotelica con la logica scientifica

antiplatonica. Nel 1936 con lo scritto Fondamenti di una filosofia dell’espressione,

e nel 1939 con il breve saggio su Il problema dell’ “esistenza” in Aristotele, Hume

e Kant e il suo rapporto con quello estetico , attacca il romanticismo e la

categoria dell’intuitivo-ineffabile nell’opera di Croce e dei suoi precursori,

60
esistenzialisti come romantici. Se è vero che furono gli eventi politici a

condurlo a Marx, è altresì vero che la preesistente affinità con talune

posizioni che egli in seguito incontrerà in Marx e nel marxismo è

impressionante; sicuramente, per poter riavvicinare il metodo marxista

alla logica scientifica, D.V. è costretto non solo a criticare la dialettica

hegeliana, idealistica, triadica, mistica, ma anche la surrettizia empiria

che di tale dialettica forma il contenuto.

L’edizione ultima (postuma, 1969) della Logica reca un titolo

modificato: non più Logica come scienza positiva (come suonava la prima

edizione del 1956), ma Logica come scienza storica . Eppure, nonostante questa

tarda e radicale modificazione (avvenuta su precedenti indicazioni dello

stesso D.V.), nelle sue differenti stesure la Logica è la prosecuzione del

lavoro più rappresentativo del periodo neocriticista di D.V., il libro

pubblicato nel 1942 a Messina con il titolo Critica dei princìpi logici. I

“princìpi” sono quelli del platonismo antico e moderno, rigido nel

concepire la conoscenza del sensibile (o tradizionalmente) non-essere,

come una conoscenza inferiore, di secondo grado. Al contrario di Kant,

che nella sua critica a Leibniz (come mostra D.V. nel primo capitolo), ha

intuíto che il sensibile entra necessariamente nella sintesi intellettuale

come un autonomo co-elemento positivo, Hegel, secondo

l’impostazione dellavolpiana, “non solo regredì al leibnizianismo ma lo

combinò, aggravandolo, con la concezione romantico-mistica del senso

e il disprezzo dell’intelletto” . 88

Si delinea, così, il tema del secondo capitolo ove l’autore per

difendere i diritti del sensibile, adopera sia la critica di Aristotele alla

dialettica idealistica di Platone, critica basata sulla teoria della sostanza

prima o sostrato materiale-esistenziale del giudizio, sia gli spunti che

88 Merker, 1989:13.

61
portarono Platone stesso alla concezione del non-essere non più come nulla

bensì come l’altro dall’essere. In questo modo il problema della dialetticità

della ragione viene descritto in termini di tauto-eterologia (discorso sul

medesimo e sull’altro), ovvero di un discorso che abbia allo stesso

tempo due referenti contrari. Così viene evidenziandosi l’indispensabile

collaborazione tra la sfera del molteplice e quella del concetto, per una

corretta analisi conoscitiva del reale.

Fin dall’inizio il procedimento del pensiero dialettico hegeliano

consiste nel mostrare attraverso l’analisi di un concetto determinato ed

isolato che non ci si può fermare ad esso, che anzi esso stesso deve

superarsi perché, almeno idealmente, in sé contiene l’altro. Tanto a

Francoforte infatti, quanto negli scritti jenesi di logica e poi nella Scienza

della logica del 1812-1816, il determinato è stato considerato da Hegel come

una mera astrazione ogni qualvolta l’intelletto lo avesse concepito come

qualcosa di isolato, per sé sussistente; e Hegel aveva sempre indicato la

necessità, intrinseca in questo elemento isolato, che esso rimandasse il

pensiero a qualcos’altro, cioè ad una relazione con l’altro che gli si

oppone. Finché poi anche questo legame, ancora astratto e opera del

cattivo intelletto, doveva venir concepito come un momento superato della

“vivente unità dialettica e quindi come un determinato vero, un’essenza,

una totalità“ . Proprio perché una provvisoria realizzazione o sintesi di


89

entrambe le determinatezze isolate avverrà poi sempre in un terzo

concetto o momento che “si rivela o come contenente esplicitamente in

un’unità “reale” i due momenti precedenti, o come contenenteli a prima

vista in modo di nuovo implicito ed ideale, ma che ad un’analisi più

circostanziata apparirà invece “reale”” . 90

89 Merker, 1961: 321.


90 Merker, 1961: 324.

62
Il problema che si sono posti gli interpreti critici di Hegel,

compreso D.V., è comunque se il movimento dialettico-speculativo sia

autosufficiente dall’inizio alla fine, dalla “posizione” iniziale del

concetto fino alla sua “realizzazione” (ossia al suo ritorno in sé),

intieramente inscritto nel pensiero puro, privo cioè di ogni influenza di

carattere empirico.

Trendelenburg, per esempio, aveva sostenuto che la contraddizione

di fondo, insita nella dialettica hegeliana, è da rintracciare nel fatto che

essa ricorra in modo surrettizio all’empiria, dopo averla inizialmente

esclusa, facendo di questa intuizione concreta il proprio veicolo. Lo

stesso Marx, nella sua Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico del 1843,

imposta la sua critica sulla denuncia della falsa interpolazione

dell’empirico che avviene nella dialettica speculativa di Hegel.

Ciononostante la critica marxiana rispetto a quella di Trendelenburg è

più matura e feconda poiché pone la premessa per l’elaborazione di una

dialettica scientifica, dello “specifico”, in cui l’attività del pensiero si

articola in forme astratte determinate, sottoposte, per quanto concerne

la loro validità, alla concreta analisi della prassi. Anche D.V. affronta il

problema se gli strumenti adoperati da Hegel risultino sufficienti per

capire il mondo fenomenico, o se invece la dialettica hegeliana, come

aveva già sostenuto Feuerbach, sia solo apparente, mistificata.

Il problema di un irrazionalismo (e connesso misticismo) in Hegel è

molto complesso, se si pensa che nel secolo XIX il filosofo viene accusato,

da più parti, di idealismo platonico e neoplatonico. Alcuni studiosi

interpretarono la Scienza della logica come un mero strumento filosofico

capace di astrarre dai soggetti reali per creare le idee, e dunque con

ripercussioni enormi sul sistema hegeliano. La filosofia avrebbe avuto

così una funzione normativa sulla realtà imprimendole lo stampo delle

63
idee; e l’unica vera realtà ontologicamente valida sarebbe diventata

l’idea, la Ragione, lo Spirito . È indubbio che la Scienza della logica in senso


91

stretto e il potenziamento della logica a metafisica possono definire un

automovimento del reale come pensiero. “La contraddizione inerente in un

esser- uno di opposti - dichiara Hegel già nella logica jenese - nel quale

questi non sono posti come tali e nel quale essi sono però nel contempo

distinti come opposti ideali, tale contraddizione costituisce la dialettica

di questo rapporto che, come riflessione nostra ha da porsi nella sua

realizzazione stessa” in modo che “la nostra riflessione diventerà la

riflessione di questo rapporto stesso” . Nell’ipostatizzare le forme


92

logiche a forme del pensiero assoluto, Hegel precisa il significato del

rapporto che egli instaura fra i termini propri del pensiero: l’universale

ed il particolare. “L’universale non è [...] unità pura, ma unità adempiuta

[...] degli opposti”, mentre “il particolare non è una sostanza, bensì il

diverso è un posto in quanto tolto” quindi l’unità adempiuta è “posta

essa stessa come l’identità del non-essere e dell’essere”. Premesso ciò,

Hegel conclude che “l’universale è, come questa relazione del diverso,

l’idealità ed unità negativa di esso diverso”, poiché l’universale “non è

contrapposto al particolare, ma è immediatamente la forma del

particolare” . In altre parole, Hegel descrive come sia necessaria una


93

conoscenza che non accolga passivamente l’empiria (o la particolarità)

eterogenea, bensì la unifichi sotto criteri e paradigmi universali:

insomma diventa indispensabile un procedimento che costituisce il

particolare immediatamente empirico oggetto di riflessione. In questo

91 In verità Hegel distingue nettamente il senso logico di “ideale” che indica il finito quale è come negato nel
vero infinito, da quello estetico di ideale come meta o modello. In questo senso ogni filosofia è in certa misura
“idealismo” poiché non può non andare oltre il “reale” ed il finito, considerandoli come momenti di una
totalità ideale, superando in tal modo l’astrattezza dell’intelletto e ponendosi sul piano speculativo.
92 Merker, 1961: 384.
93ibidem.

64
modo l’oggettività della conoscenza intellettuale dipende dal

particolare che si invera nell’universale.

La difficoltà maggiore nasce nel momento in cui si confonde il

movimento del pensiero con un processo il quale, oltre a rendere

l’oggetto conosciuto, produca anche l’oggetto stesso. Una illusione di

Hegel, quest’ultima, che può indurre a ritenere legittima, per la

filosofia hegeliana, l’istanza che il concetto nella sua oggettività sia la

cosa stessa che è in sé e per sé; con la relativa accusa, ad es. da parte di

Lenin, che in questo caso si è in presenza di un oggettivismo che è falso,

che è mistica . È nell’aver mostrato il particolare come una manifestazione

inferiore dell’universale che Hegel, commenterà Lenin, “ha mostrato le

orecchie d’asino dell’Idealismo” . 94

Sulla linea interpretativa di chi ha riscontrato nella dialettica

hegeliana un atteggiamento mistico, si svolge l’intera critica di D.V..

Infatti, filo conduttore del secondo capitolo della Critica dei princìpi logici è

l’indagine sul significato di essere e non-essere che la tradizione

filosofica (da Parmenide in poi) ha elaborato. Fin dalla scuola eleatica, la

categoria dell’essere ha sempre avuto un valore ontologico più

dignitoso rispetto a quella del non-essere. Non a caso, infatti, il concetto

di essere rinvia spesso ai concetti di unicità, ragione, contrariamente al

non-essere che fa riferimento alla sfera del molteplice, della materia,

della caduca empiria.

D.V. imposta la sua analisi proprio sul problema se anche la

categoria del non-essere abbia una sua positività, cioè se abbia una sua

validità ontologica tanto da esistere come non-essere. Il secondo

capitolo della Critica si apre con queste parole: “L’impostazione critica di

questo problema dell’essere del non essere, cui si connette

94Lenin, 1958: 224.

65
organicamente quella del problema del principio logico, è costretta, per

determinarsi ulteriormente, ad affrontare la moderna soluzione

“dialettica” hegeliana dello stesso problema, e, attraverso quest’ultima,

a confrontarsi inevitabilmente con le soluzioni proposte dalla dialettica

e dalla logica platonica e aristotelica ” . 95

Cominciamo col prendere in esame il modo in cui la natura del

non-essere (o molteplice) si presenta a Hegel nella dialettica della

certezza sensibile, dove si ha a che fare con l’oggetto empirico “in tutta

la sua pienezza” . Questa forma di certezza che, a prima vista, appare la


96

più ricca e la più vera, in realtà si rivela come la più povera e la più

vuota delle verità. Infatti, come osserva Verra, “se si toglie dai presunti

dati della certezza sensibile tutto quello che deriva già dai processi di

riflessione, che è già pensiero [...] rimane qualcosa di assai povero: un

questo per un questi, ossia una forma di coscienza che si riduce

all’opinione” . In altre parole, alla domanda: che ora è? rispondiamo, ad


97

es., che è la mezzanotte. Ma a mezzogiorno questa certezza sensibile è

svaporata. Ciononostante rimane sempre il concetto di “ora” che si

determina e si conserva come negativo (in quanto adesso indica il giorno

e non la notte). Questi termini, dunque, che sembrano così immediati, già

contengono in sé il carattere di universalità poiché il loro valore non

risiede nell’indicare qualcosa di immediato (il giorno, la notte), ma

nell’indicare ogni cosa che con essi possa essere qualificata. L’universale

di fatto è interno all’esperienza della certezza sensibile come la sua

verità. Tale “ora” che si conserva non è quindi immediato, ma mediato in

quanto l’“ora”, come “ora” che resta e si conserva, si determina per il

95Della Volpe 1942/1972, III: 174.


96La certezza sensibile è la prima figura che si incontra lungo l’ iter fenomenologico della coscienza in cui lo
Spirito si trova ancora “inceppato nell’esteriorità”. Alla Fenomenologia, infatti, spetta il compito di esporre il
cammino mediante il quale lo Spirito che si manifesta, che appare, si libera della sua immediatezza e del suo
vincolo con l’esteriorità, per diventare puro sapere che ha come oggetto le “pure essenzialità” o categorie
trattate nella Scienza della logica .
97Verra, 1991: 43.

66
fatto che qualifica il giorno in opposizione o come negazione della notte

e viceversa. Ma se l’universale è il vero della certezza sensibile, per “la

natura divina del linguaggio”, intrinsecamente universalizzante,

diventerebbe impossibile discorrere di esseri sensibili solo opinati. Si

opina, infatti, questo albero, questa casa, che sono tutt’altro da quell’ albero

o quella casa, ma così facendo si discorre di cose effettivamente reali,

particolari, affermandone solo l’universalità. Il questo allora, attribuito

ad un oggetto esteriore e sensibile lo specifica “come un qui di altri qui, o

ch’è in se stesso un insieme semplice di molti qui, ossia un universale” . In


98

tal modo viene delineandosi una nuova figura della coscienza, la

percezione, ed una nuova forma di sapere che si sviluppa dalle “certezze

sensibili di singole appercezioni e osservazioni che debbono essere

elevate a verità, col venir contemplate nella loro relazione, col riflettere,

sopra di esse” fino a “diventare, secondo categorie determinate,

qualcosa di necessario e universale, esperienze” . 99

Nell’atto di percepire l’opinare è dileguato e il percepire considera

l’oggetto come esso è in sé, ovvero come universale; quell’universale

che nella certezza sensibile risultava il questo, l’”ora”, lungo tutto l’iter

fenomenologico della coscienza viene alienandosi, spogliandosi della

particolarità per affermarsi come vero assoluto. Per D.V., questo modo

di procedere ha portato Hegel ad una intellettualizzazione del sensibile.

Sicuramente, fa notare D.V., il pensiero deve dare una verità al

molteplice, quella verità che è già interna alla cosa empirica, il cui

contenuto deve essere inserito, grazie al ritmo dialettico, in un reticolo

di relazioni. Ma il metodo hegeliano è riuscito davvero a spiegare il

concreto? O, al contrario, intellettualizzando il sensibile, il concreto è

stato ridotto ad un universale indistinto, incomprensibile? Il bilancio

98Della Volpe 1942/1972, III: 175.


99Verra, 1991: 44 - nota 19.

67
tracciato da D.V. è per un lato positivo e per un lato negativo. Hegel

avrebbe avuto il merito di intuire come, una volta portato il sensibile

all’interno del ritmo dialettico, esso si sia rivelato intelligibile e

giustificato. Infatti se vedessimo la realtà come un insieme di particolari

avremmo sempre una conoscenza parziale del mondo. Tuttavia l’errore

capitale di Hegel sarebbe stato quello di aver attribuito l’intera dignità

filosofica del contenuto empirico all’universale. I contenuti empirici, di

fronte a questa dignità superiore, sarebbero scomparsi, si sarebbero

vanificati, annullati. “Ciò che importa - scriverà Hegel nel paragrafo 76

dell’Enciclopedia - è conoscere che il sapere immediato dell’essere delle

cose esterne è illusione ed errore; che nel sensibile come tale non è verità

alcuna; che l’essere di queste cose estrinseche è piuttosto un alcunché di

accidentale, di caduco, un’apparenza” . Da questo punto di vista, la


100

teoria della conoscenza di Hegel sarebbe interessata solo allo sviluppo

dell’autocoscienza e non al senso (o ai “sensi esterni”), e si potrebbe

concludere che soltanto ciò che è vero nel concetto deve essere vero

nella realtà. Impostare tutto il problema gnoseologico in questi termini,

non solo significherebbe regredire al platonismo ed al Neoplatonismo , 101

ma anche rendere l’Idea una specie di macchina capace di produrre i

contenuti concreti dell’empiria. Se tutta la responsabilità venisse

assegnata al versante della ragione, allora non sarebbe più necessario

sottoporre le costruzioni razionali ad una verifica della loro

funzionalità: tutto diventerebbe esatto e il nostro mondo potrebbe

vantarsi di essere “il migliore dei mondi possibili”.

È vero che Hegel affermerà, nella Prefazione ai Lineamenti di filosofia del

diritto, “ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale ”; ma egli

non vuol sostenere, con questo, che qualsiasi oggetto sensibile, azione

100Della Volpe 1942/1972, III: 182.


101La materia, nella concezione neoplatonica, è considerata una “mancanza”, un luogo dove c’è solo oscurità.

68
particolare, evento storico, ecc., possieda una sua estrinseca razionalità.

Lo stesso concetto di razionalità non è un concetto che esiste a priori e

che viene imposto dall’esterno sugli oggetti empirici affinché essi siano

resi comprensibili e veritieri; al contrario, è un concetto che si sviluppa

e si realizza nel divenire storico. Quindi compito del filosofo diventa di

interpretare, e non di produrre, la razionalità dispiegantesi. Il filosofo

diventa un cronista che con i suoi criteri logico-razionali descrive il reale

e non lo crea. Il pericolo, in questo caso, è quello di interpretare i fatti

storici in una sola direzione, ovvero come dovrebbero essere per

collimare con l’idea di filosofia che lo storiografo o il filosofo ha in

mente.

Se per l’idealista e l’Idealismo in genere, la sfera del sensibile, del

concreto non ha una sua autonomia in quanto prodotto dell’Idea, è pur

vero che pensare il mondo sensibile come un insieme di soli universali,

risulterebbe la più insostenibile delle teorie. Infatti, come può

manifestarsi l’universale senza il particolare? Non è proprio attraverso

l’elemento concreto che l’universale si realizza mostrandosi alle nostre

facoltà conoscitive? In realtà, come fa notare D.V., Hegel, avendo l’aria

di rivendicare il reale e presente, il concreto cui mira l’empirismo, vi

sostituisce il suo concreto, il suo concetto del concreto, come unità o

compresenza dialettica . In altri termini, la concezione hegeliana del sensibile

apparterrebbe a quella cultura e filosofia romantica la quale,

spiritualizzando la realtà, considera il sensibile come una

manifestazione della ragione. I contenuti molteplici vengono così

sussunti subito sotto una verità che in essi trasparirebbe: lo spirito

totalizzante che governa l’andamento intero della conoscenza e del nostro rapporto con

il mondo. Per questo motivo, se è vero, come anche Hegel sostiene, che la

filosofia deve il suo svolgimento alle scienze empiriche, essa dà al loro

69
contenuto “la forma essenziale della libertà (dell’apriori) del pensiero”

concludendo che “il fatto diventa rappresentazione [Darstellung ] e

immagine [Nachbildung ] dell’originaria e pienamente indipendente attività del

pensiero” . 102

È inconfutabile che nessuna scienza del molteplice sia possibile

senza un’attività concettuale . Ma questo non vuol dire necessariamente


103

che l’attività del pensiero trascenda totalmente la molteplicità

dell’empiria. Se così fosse si finirebbe con l’arenarsi in una posizione

neoplatonica, ovvero col cadere in quel presunto monstruum che è la

rationelle Mystik di Hegel (come la chiama Feuerbach). Allora sarebbe

pura illusione sostenere che la filosofia debba il suo svolgimento alle

scienze empiriche, poiché l’unità di fenomeno e concetto, che si

dovrebbe raggiungere alla fine del processo conoscitivo, invero viene

presupposta sin dall’inizio della nostra conoscenza come

autodispiegamento del pensiero. La figura di un Hegel mistico, romantico, che

fa dell’esperienza un prodotto concreto, oggettivo dell’Idea, nasce

proprio da queste conclusioni.

Senza alcun dubbio il sistema filosofico di Hegel conferisce un

grande valore alla sfera logico-concettuale. La Fenomenologia, e la Scienza

della logica si concludono con il libero e autonomo sviluppo del concetto

nel suo farsi idea e verità assoluta. Tuttavia, secondo Hegel, compito

della logica è studiare in forma pura quelle medesime strutture

concettuali che si trovano nella realtà (natura e spirito), che di esse

costituiscono lo scheletro razionale, ma nella quale sono rivestite di

tratti empirici, accidentali, sensibili. La logica è scienza proprio perché

considera il suo contenuto non un insieme di “nozioni” tra loro isolate,

102Della Volpe 1942/1972, III: 184.


103Già Kant aveva osservato che “l’intuizione senza il concetto è cieca” così come “il concetto senza l’intuizione
è vuoto” [Kant, 1995: 109].

70
bensì nella loro concatenazione necessaria, la cui legge immanente è la

dialettica: una dialettica, come dichiarerà Hegel nella Logica

dell’Enciclopedia, la quale costituisce il lato intermedio dell’“elemento

logico”, cioè si colloca tra quello “intellettivo” di cui viene superata

l’astrattezza e l’unilateralità, e quello “speculativo”, a cui conduce come

realizzazione concreta della verità assoluta.

In questo modo viene delineandosi uno sviluppo necessario della

razionalità: ogni determinazione concettuale è la soluzione delle

antinomie che si aprono nel seno della precedente, ma nello stesso

tempo dà luogo a nuove antinomie, richiedendo così che queste

vengano risolte in una determinazione volta a volta superiore. Queste

determinazioni del pensiero o categorie non sono da intendere, alla

maniera di Kant, come princìpi del soggetto che si impongano

esternamente alla materia della conoscenza. Per Hegel, infatti, si tratta

di “pensieri oggettivi”, cioè di strutture ideali, indipendenti dal

soggetto riflettente che ha il solo compito di riconoscerle. Di qui la tesi

dell’identità della logica con la metafisica o l’ontologia . 104

Il misticismo hegeliano, dunque, non va considerato come la

concezione neoplatonica che invita a prendere contatto con l’Assoluto (o

Uno) mediante un processo progressivo (l’Aplosi e l’Enosi), in cui si

perdono i vincoli con l’empiria ; ma, piuttosto, è un misticismo inteso


105

come capacità filosofica di innalzarsi al di sopra della semplice

sostanzialità per rintracciare, nel divenire storico, uno scheletro logico-

razionale che ne spieghi lo sviluppo e ne giustifichi, per quanto sia

possibile, il dispiegamento della razionalità. D.V. vede tuttavia

104Spesso si definisce la Scienza della logica una ontologica proprio per lo stretto legame che sussiste tra le
categorie ed il reale. Più di una volta Hegel ricorda come ad ogni figura della Fenomenologia corrisponda una
categoria, con lo scopo di sottolineare come, in entrambe le opere, viene esaminato il medesimo contenuto, ma
ad un diverso livello di astrazione.
105Nel lin guaggio neoplatonico l’Aplosi (=semplificazione) indica il cammino progressivo mediante il quale ci si
purifica dal molteplice per giungere all’Enosi (=unificazione).

71
precipuamente la surrettizia introduzione del sensibile compiuta

dall’Idealismo, le sue ipostasi, il suo apriorismo, e la sua concezione

della negazione. La negazione è di fatto una restaurazione dell’istanza

positiva originaria, ma entro l’istanza sintetica dominante, l’istanza

negativa della mera esistenza, della materia. “Questa concezione del

fatto o esperienza - scrive D.V. - e dei suoi rapporti con la filosofia è quale

ci si poteva attendere dalla concezione (negativa) del senso come

universale in generale o indifferente: e cioè, se si concepisce quel molteplice ch’è

il sensibile in termini di unità (di universalità) indifferente o indistinta, non

si può giungere che a un concetto parimente negativo (o mistico) del

molteplice intelligibile ch’è l’esperienza, il fatto: tale che resta, alla fine,

inspiegabile proprio il carattere che si vuole attribuire, da Hegel, alla

ragione o unità: di essere conservazione (della negazione) del molteplice

intelligibile” . 106

D.V. a questo punto si pone una legittima domanda: perché e come si

conserva il molteplice intelligibile nel momento in cui l’intelletto, che ha la

funzione di conservare e rendere accessibile alla nostra conoscenza il

sensibile (o negativo), può fornire solo una visione frammentaria e

incoerente (rispetto all’istanza unitaria del misticismo) di una unità-

totalità (o universalità) necessariamente presupposta? E, se si vuole

cercare in questo “universale sensibile” la radice del molteplice

intelligibile, additando proprio nella indistinta unità o intelligibilità di tale

universale la ragione delle determinatezze dell’intelletto, in che modo

può servire, secondo l’intenzione di Hegel, la funzione intellettuale

come momento del pensiero speculativo? Il rischio della

contraddizione, avverte D.V., è sempre incombente.

106Della Volpe 1942/1972, III: 184.

72
Dopo aver dimostrato che in Hegel il concetto critico kantiano del

disinteresse estetico, che poneva l’accento sul carattere di soggettività

(=singolarità del bello), viene perduto e travisato nella concezione

(romantica) dell’arte come apparire sensibile dell’idea, cioè dell’unità

presupposta, in cui non vi è alcun segno di particolarità soggettiva, D.V.

affronta da vicino la teoria dell’elemento logico - e cioè dell’intelletto e

della ragione. Se la concezione dell’intelletto si rivelerà, in effetti, negativa

anch’essa (come D.V. ha già dimostrato in relazione alla concezione

negativa del senso), la prova decisiva del romanticismo effettivo di Hegel

sarà raggiunta.

Nella Prefazione alla Fenomenologia si legge: “l’attività del separare è la

forza e il lavoro dell’intelletto, della potenza più mirabile e più grande,

o meglio della potenza assoluta” .


107 La concezione hegeliana

dell’intelletto è ambigua. Se da un lato l’attività intellettuale viene

screditata in virtù della funzione separante e di fissità delle determinatezze

finite, dall’altro viene considerata come momento necessario (e quindi

obbligato) per giungere alla finale sintesi unitaria della ragione.

L’intelletto svolge una funzione dicotomica sui contenuti del molteplice; li

determina e nel determinarli li separa, li cristallizza nella loro finità

impedendone la possibilità di relazione ad altro. Solo dopo l’intervento

della ragione che rende le differenze fluide, che mostra come ogni

definizione astratta di una cosa rinvia al proprio opposto, si ottiene una

corretta forma di conoscenza. Viene privilegiata, ancora una volta, la

funzione unificante della ragione rispetto a quella separante dell’intelletto,

l’unità rispetto al molteplice, la conciliazione degli opposti rispetto agli

opposti stessi. Ciononostante il momento intellettuale che Hegel critica

perché determina e frammenta l’universale conferendogli la forma del

107Hegel, 1990: 25.

73
“fisso sussistere”, viene poi rivalutato come “momento essenziale” per

il cominciamento stesso dell’apparire della ragione. In altre parole, per

D.V. l’intero sistema hegeliano ha un carattere intrinsecamente

processuale e teleologico , al punto da poter affermare che la ragione stessa

è un agire teleologico. Il concreto, l’uno, infatti preesiste alla sua

“divisione”, ne è il solo ed unico criterio di spiegazione in quanto

l’apparente moltiplicarsi dell’unità si rivela, invero, un processo di

autodifferenziazione dell’unità nelle sue molteplici differenze. Insomma

Hegel ogni volta riconferma il suo postulato dell’unità: ovvero l’unità è il

vero presupposto della divisione poiché solo ciò che ora è unito potrà essere diviso,

separato, non il contrario.

Un corollario che è una ulteriore prova di questa teoria

dell’intelletto, ricorda D.V., “l’abbiamo nella critica puramente negativa

del giudizio in quanto proposizione “dualistica”, contenente cioè la

dualità di soggetto e predicato ” . Nella sua struttura il giudizio è


108

composto da due termini che si trovano in una duplice correlazione:

anzitutto, il modo di predicare qualche cosa di un soggetto è

un’operazione che non ha come suo unico protagonista nè il soggetto nè

il predicato in quanto tali. Infatti il soggetto non è un’entità che consente

di dare ad esso infiniti predicati, ma solo quelli adeguati alla sua natura.

E un determinato predicato non esaurisce mai il soggetto perché può

darne solo una connotazione, una definizione, una proprietà. Non esiste,

da un punto di vista conoscitivo, un predicato capace di esaurire la

natura di un soggetto.

Se, ad es., si formula un giudizio del tipo:

“il reale è l’universale”, lo si può accettare in ambito metafisico,

non in ambito conoscitivo. Un giudizio ha una funzione conoscitiva solo

108Della Volpe 1942/1972, III: 195-196.

74
quando i suoi termini sono raffrontabili con l’esperienza. In questo

modo una proposizione si definisce corretta quando l’estensione del

soggetto e del predicato sono del medesimo valore (per es., “tutti i

vertebrati sono animali”). Per Hegel è necessario, allora, rifiutare

qualsiasi forma di riduzione del sapere filosofico ai parametri del

sapere della rappresentazione e dell’intelletto, ossia allo schema della

proposizione, quale semplice attribuzione di un predicato ad un

soggetto, presupposti entrambi come già dotati di un significato

determinato anteriormente e indipendentemente dal rapporto costituito

tra di essi dall’esterno. Questo modo di procedere “raziocinante” viene

messo in crisi e confutato dalla “proposizione speculativa” (per es., “Dio

è Essere”) in cui si stabilisce un rapporto molto più complesso e diverso

da quello di inerenza e di sussunzione dei due termini, poiché il

soggetto passa interamente nel predicato che ne esprime l’essenza,

rinvia necessariamente a quel soggetto che nel frattempo ha perso

l’aspetto di un soggetto fissato.

Secondo D.V. quest’ultimo modo di vedere avviene in Hegel. Egli

avrebbe privilegiato il predicato (o l’universale) rispetto alla natura del

soggetto (il particolare): ritorna l’aspra polemica nei confronti di uno

Hegel che conferisce una maggiore dignità ontologica alle categorie

dell’universalità. Qualora il predicato non sia mero predicato, ma

sostanza che esaurisce il soggetto e quindi lo annulla come soggetto e lo

sostituisce, ne consegue che, una volta annullato il soggetto come

elemento distinto, viene annullata anche la base del giudizio. Con la

relativa conclusione che il giudizio viene ridotto a “quella forma-

contenuto o unità concettuale pura che in quanto sostanza esauriente è

verità esaurita, pacifica: verità teologico-mistica, astratta” .


109

109Della Volpe 1942/1972, III: 197.

75
La struttura diadica del giudizio non permette, secondo Hegel, la

determinata e piena unità del soggetto e del predicato. Si hanno sempre

due entità linguistiche distinte, separate, “autonome”. Emerge la

necessità di trovare un terzo termine (o termine medio) che relazioni i

due elementi del giudizio: è il sillogismo. Tuttavia, non è che si

“progredisce” veramente dal giudizio al sillogismo. Il “progredire” è,

piuttosto, il manifestarsi nel giudizio di quel terzo termine o ricostituita

unità che è il sillogismo. In questo modo si spiega come

l’interpretazione hegeliana delle figure logiche tradizionali sia fondata,

anch’essa, sul criterio speculativo della presupposizione aprioristica della

totalità.

Se la dualità del giudizio viene riconsiderata, nel sillogismo, come

unità concettuale pura, risulta evidente come il principio logico di

distinzione (o legge dianoetica fondamentale) di identità e (non)

contraddizione 110 si trasforma, nella teoria logico-speculativa, in

principio di unità (o legge razionale) pura della contraddizione. Il

famoso principio di identità, come Hegel lo intende, esprime

sicuramente quella medesimezza o identità con sé di una cosa e,

tuttavia, ne indica il suo riferirsi ad altro. Quando alla domanda: “Che

110Com’è noto il principio di identità che Hegel rinomina “principio di identità e di contraddizione” viene
enunciato per la prima volta da Aristotele nel libro IV della Metafisica : “questo principio deve essere il
princip io più noto (infatti, tutti cadono in errore circa le cose che non sono note) e deve essere un principio
non ipotetico, giacché quel principio che di necessità deve possedere colui che voglia conoscere qualsivoglia
cosa non può essere una pura ipotesi, e ciò che necessariamente deve conoscere chi voglia conoscere
qualsivoglia cosa deve già essere posseduto prima che si apprenda qualsiasi cosa. È evidente, dunque, che
questo principio è il più sicuro di tutti.
Dopo quanto si è detto, dobbiamo precisare quale esso sia. È impossibile che la stessa cosa, ad un tempo,
appartenga e non appartenga ad una medesima cosa, secondo lo stesso rispetto (e si aggiungano pure anche
tutte le altre determinazioni che si possono aggiungere, al fine di evitare difficoltà di indole dialettica). È
questo il più sicuro di tutti i princìpi: esso, infatti, possiede quei caratteri sopra precisati. Infatti, è impossibile a
chicchessia di credere che una stessa cosa sia e non sia, come, secondo alcuni, avrebbe detto Eraclìto. In effetti,
non è necessario che uno ammetta veramente tutto ciò che dice. E se non è possibile che i contrari sussistano
insieme in un identico soggetto (e si aggiungano a questa premessa le precisazioni solite), e se un’opinione che è
in contraddizione con un’altra è il contrario di questa, è evidente che è impossibile, ad un tempo, che la stessa
persona ammetta veramente che una stessa cosa esista e, anche, non esista: infatti chi si ingannasse su questo
punto, avrebbe ad un tempo opinioni contraddittorie. Pertanto, tutti coloro che dimostrano qualcosa si rifanno
a questa nozione ultima, perché essa, per sua natura, costituisce il principio di tutti gli assiomi”. [Aristotele,
1968: 298 - 3, 1005b]. Il principio di contraddizione, così formulato da Aristotele, non solo confuta il monismo
parmenideo, negatore del divenire e della pluralità, ma si contrappone direttamente alla metafisica di Eraclìto
e alle negazioni sofistiche del principio stesso. Tuttavia, il vero obiettivo polemico di Aristotele è e rimane
Platone che, nella sua esposizione della diairesi, è rimasto fortemente legato ad una ontologia eracliteo-cratilea.

76
cos’è un libro? ” si risponde “un libro è un libro”, la verità di tale

proposizione non sta nel suo valore tautologico, perché in tal caso non

si direbbe nulla di nuovo, bensì nel significato stesso che Hegel assegna

all’identità, la quale viene presentata come una diversità (A e non-A) di

un’unica relazione o totalità (A). Il principio di identità “contiene

nell’espressione sua non solo la vuota, semplice eguaglianza con sé [...],

ma addirittura la diseguaglianza assoluta, la contraddizione in sé”; e

insomma “questi princìpi [di identità e (non) contraddizione]

contengono più di quello che con essi si intende, contengono cioè questo

contrario, la differenza assoluta” . Quindi, già nell’affermare “un libro


111

è” si prepara a dir qualcosa, a recare innanzi una determinazione

ulteriore. Se tale determinazione ritorna la stessa (“un libro è un libro”),

allora questo modo di argomentare è un dir nulla, è contraddittorio;

invece, superando la vuota tautologia si comprende come gli opposti

non sono mutuamente esclusivi (vedi Aristotele), ma si determinano

reciprocamente. Il momento del negativo (“un libro non è un tavolo”)

diventa l’unico criterio che avvalora un secondo assioma del sistema

hegeliano: ovvero che l’identità senza la differenza è vuota, così come la differenza

senza l’identità è priva di significato.

L’aver trasformato il principio aristotelico anti-parmenideo di (non)

contraddizione in quello di assoluta contraddizione, serve a Hegel, secondo

D.V., per dimostrare come alla base del procedimento logico ci sia una

totalità (o Ragione) aprioristicamente presupposta, la quale è il genere

supremo in cui identità e contraddizione coincidono. Soffermarsi sul

problema se Hegel abbia tradito i princìpi aristotelici, rielaborandoli

secondo i suoi paradigmi logici, non è qui possibile. Al limite ci si può

domandare, come suggerisce D.V., se e quale significato possa avere

111Hegel, 1988: 463.

77
l’istanza di una “coscienza della contraddizione” che Hegel avrebbe

svelato (problema che verrà affrontato nell’ultima parte della nostra

analisi).

Continuiamo l’analisi della struttura diadica del giudizio intrapresa

da D.V. e cerchiamo di capire quale sia il motivo che spinge D.V. a

rivolgersi alla analitica aristotelica fondata sul rifiuto del processo

formale della diairesi platonica. Com’è noto il metodo “diairetico”, o

della divisione è la forma tipica della dialettica nel modo in cui Platone

la presenta negli ultimi dialoghi. I princìpi di questo metodo sono

esposti per la prima volta in Fedro 265c-266a : esso è composto di due

procedimenti, uno consiste nell’abbracciare in uno sguardo di insieme e

ricondurre ad un’unica forma ciò che è molteplice e disseminato; l’altro

nello smembrare l’oggetto in specie, seguendo le nervature naturali e

guardandosi dal lacerarne alcuna parte, ma procedendo sempre dalla

parte sinistra o dalla parte destra. Questa enunciazione è ripresa e

sviluppata in Sofista 252e-254a : occorre un’arte che sappia quali generi si

predicano e quali no, così come la grammatica e la musica conoscono le

regole con cui si uniscono le lettere ed i suoni: quest’arte è la dialettica,

regina delle scienze, e forse identica con la stessa filosofia; essa consiste

nel suddividere per generi e nel non credere che una specie, che è

identica, sia invece diversa o che una specie, che è diversa, sia invece

identica. Ciò significa: distinguere con esattezza una determinata ed

unica nota caratteristica del reale fra molte altre, di cui ciascuna sta come

un’unità separata dalle altre; e poi molte, diverse tra loro, tutte

circondate dal di fuori da una sola; e poi una sola di queste che inerisce

con continuità a molte totalità di esse ed è in sé stessa una unità

continua; e ancora molte, distinte, e assolutamente non collegate tra

loro. Questo metodo della divisione è largamente seguito in tutto il

78
dialogo, soprattutto nella forma della “divisione per due”, come nel

caso della definizione del pescatore con la lenza (Sofista 219a-221c ) o in

quello della definizione del sofista (Sofista 221c-236d ) . 112

La diairesi (o divisione) dei generi o enti si presenta come:

1) una regola fondamentale: quella di dividere ogni genere

partecipante secondo una linea divisoria “bene appropriata”, ossia

secondo quella articolazione “naturale” ch’è la “dualità” originale

del medesimo e dell’altro (i generi partecipati), in quanto la divisione di

un genere è esauriente solo mediante una bipartizione di esso in

segmenti logicamente equivalenti e però “contraddittori” (senza

alcuna mediazione tra le due differenze); il che comporta l’opposizione

delle differenze del genere (partecipante) e che l’opposizione in cui

queste si trovano non può derivare che dalla loro partecipazione ai

“generi sommi” della medesimezza e alterità, costituenti la dualità-unità

o dialettica, in cui i generi sommi del medesimo e dell’altro, suoi

termini, “si compenetrano mutuamente” (Sofista, 259a ecc.);

2) un meccanismo logico di dicotomia formale, secondo cui una delle

differenze contenute in un genere deve essere scartata, mentre l’altra

si pone e afferma, per scindersi a sua volta in due nuove differenze

anch’esse mutuamente escludentesi, e così fino alla forma (specie)

irriducibile o atomon eidos (scopo della diairesi), nel cui seno si

raccolgono o “combinano” le differenze perseguite diaireticamente,

onde è possibile una sorta di giudizio definitorio in quanto

calssificatorio.

112”Aristote n’ hésitera pas à faire une critique sévère de la division dichotomique. Ce genre de division serait
pour lui un mauvais syllogisme, un syllogisme illégitime, puisqu’un moyen terme manquerait toujours. Cette
méthode qui opérerait des sectionnements là où il ne faut pas serait purement formelle, approximative et
inachevée (de part. an. A 2-3. 642b-643b). Il n’en demeure pas moins que la diairesis de Platon est
intéressante parce que fondée ontologiquement. L’intrication de l’être et du non -être que l’on trouve dans la
patrie centrale du Sophiste se trouve déjà mise en oeuvre dans la méthode dichotomique. Platon aurait dès le
début posé le problème de la définition du sophiste en terms ontologiques, ce qui permet de soutenir la thèse
de l’unité de l’oeuvre” [Fattal, 1991: 158-159-nota n. 22].

79
Secondo D.V., il criterio dialettico-speculativo di Hegel affonda le

sue radici proprio nella dialettica platonica. Infatti la divisione,

platonicamente considerata come opposizione, significa un distinguere

meramente apparente in quanto l’opposizione dei “generi sommi” del

medesimo e dell’altro è, in fondo, un “mutuo compenetrarsi”, cioè

un’antinomia dialettica in cui risulta impossibile operare una vera e

propria separazione della specie. Le differenze così vengono solo

supposte e mai realizzate sul piano concreto poiché sono “partecipanti”

dell’unità totalizzante (o comunanza) di medesimezza-alterità.

Aristotele si avvede della debolezza del metodo diaieretico e lo critica

con la sua teoria della “sostanza prima” o “sostrato materiale-

esistenziale” del giudizio.

Nella sua teoria del giudizio Aristotele spiega come l’elemento che

decide il valore del giudizio sia il soggetto considerato dal lato della sua

essenza materiale. In concreto, i “generi sommi” acquistano significato

solo come predicabili di relativi soggetti. Per es., “se c’è qualcosa che ha

l’essenza di uomo, essa non potrà coincidere con quella che non ha tale

essenza, o con quella che ha l’essenza di non-uomo. Costoro [gli

avversari] son costretti a dire che tale concetto non è concetto [essenza =

sostanza seconda] di nulla, ma che tutto è accidentale [...]. Ma, se tutto si

affermasse in via accidentale, non ci sarebbe più niente di primo a far da

soggetto: eppure l’accidente [= predicato] esprime sempre la categoria di

un qualche sostrato. Si andrebbe necessariamente all’infinito: il che è

impossibile”. L’accidente, infatti, continua Aristotele, non può essere

“accidente di un accidente, salvo in quanto entrambi sono accidenti di

uno stesso soggetto” (Metafisica , 1007b 5 sgg.).

In questo modo la proposizione “il bianco è musico” e “il musico è

bianco” ha significato solo se entrambi sono accidenti di “uomo” (=

80
sostanza secondaria). Mentre nella proposizione “Socrate (= sostanza

prima) è musico” la predicazione è circoscritta ad un soggetto tanto

determinato da essere individuale, onde si mostra come non tutto può

essere affermato come accidente, in quanto della sostanza prima (il soggetto =

Socrate) è possibile predicare solo determinati accidenti.

In altre parole, riponendo l’intera valenza del giudizio nel soggetto, i singoli

predicati non hanno più una loro autonomia, ma la loro predicabilità dipende

esclusivamente dalla “sostanza prima”. Il giudizio “Socrate è musico” dipende,

allora, dal soggetto “Socrate”, cioè dalla condizione empirica di Socrate

quale musico. È ovvio che l’attribuzione di predicati ad un singolo

soggetto, per essere corretta, deve avere un riscontro oggettivo nella

realtà sensibile. “Ciò che resta vivo veramente in questa prima

argomentazione - chiarisce D.V. - ci sembra che sia il concetto di

giustificare l’impossibilità della contemporanea predicazione di

accidenti contrari fondandola sul carattere di individualità o singolarità di

ciò che è “significato”, Socrate (musico): ch’è, infatti, sotto l’aspetto

logico, un giudizio attributivo di qualità inessenziali, in cui il soggetto è

l’individuo [...]; ed è, sotto l’aspetto metafisico, una sostanza prima o

specie individuata” . Dunque a fondamento della critica aristotelica


113

della diairesi c’è innanzitutto il bisogno di una nuova dimensione

ontologica : mentre per Platone l’intera validità della conoscenza umana

viene riposta nell’idea (eidòs), nel concetto, ovvero nel predicato della

sostanza (usìa), la logica aristotelica supera l’unità assoluta o

indeterminatezza del concetto fondando sul presupposto della sostanza

prima la sua determinatezza. Per Aristotele è impossibile predicare

contemporaneamente accidenti contrari di un unico soggetto così come

sarebbe impossibile avere, allo stesso tempo, sensazioni opposte (es.

113Della Volpe 1942/1972, III: 222.

81
dolce-amaro). Tanto le sensazioni quanto i soggetti sono strettamente

individuali e la loro più intima natura deve essere ricercata in una sorta

di immutabilità o staticità che non può significare altro che una identità

o medesimezza adialettica: la sostanza prima.

Per D.V. bisogna ammettere che nella sua teoria logico-speculativa

del giudizio Hegel ha effettivamente legato il suo pensiero al più tipico

dogma platonico: ovvero il concetto, l’idea, l’universale, viene inteso

come un’unità preesistente e trascendente la sfera del sensibile (o

particolare), che ripropone mutatis mutandis la concezione dogmatico-

platonica delle idee innate. Ciononostante, il merito che D.V. riconosce

a Hegel è quello di aver intuìto come compito di ogni filosofia fosse di

capire che gli opposti vadano pensati contemporaneamente. Quindi non

si può pensare l’uno senza pensare al contempo i molti e viceversa.

Occorre, però, che gli opposti non vengano esauriti nella loro sintesi,

bensì che rimangano tali: in modo che la contraddizione non risulti più

apparente, fittizia, ma sia effettiva, reale, funzionale. Usare gli strumenti

concettuali al fine di mettere in luce le contraddizioni reali esistenti nei

fatti empirici, significa ragionare in modo scientifico, fare scienza. E la

scienza per D.V. è qui metodologia, non ontologia, né egli si interessa alle

leggi immanenti del reale. D.V. respinge la nozione che scienza sia

oggettivazione, alienazione del pensiero umano nel Gegenstand . La non-

contraddittorietà del pensiero non bandisce dalla considerazione logica

i contrari ed i distinti. E questo perché nel discorso logico il “terzo

termine” non risolve le antinomie nell’ordine del pensiero, ma poggia

sulla eterogeneità del primo termine concreto (il punto di partenza del

metodo ipotetico-induttivo/applicativo-deduttivo) e del secondo

termine (l’istanza ipotetico-concettuale).

82
Perciò, secondo D.V., è necessario procedere in ambito scientifico

con la metodologia adoperata dallo scienziato, il quale lavora sempre

con due referenti:

1) il mondo dei fatti, dell’esperienza;

2) l’ambito delle ipotesi che servono per descrivere i fenomeni.

È attraverso le ipotesi che lo scienziato cerca di dare un significato

al mondo dei fatti; ma tale significato sarà sempre corretto? La

comprensione del mondo empirico sarà sempre giusta? La risposta va

cercata non solo nel puro ragionamento, ma anche nel ragionamento

applicato ai fatti. La reciproca funzionalità dei due ambiti

(esperienza\ipotesi) raggiunge il suo obiettivo solo quando questi

vengono riconosciuti eterogenei (dialettica degli eterogenei) e non

omogenei come accade per la dialettica platonico-hegeliana. È corretto

affermare che gli opposti (uno\molti) vadano pensati insieme, a

condizione però che gli opposti stessi siano reali e non termini di

un’unica natura e quindi omogenei. Hegel, secondo l’interpretazione di

D.V., avrebbe considerato gli opposti omogenei in quanto

oggettivazione dell’Idea, dello Spirito, sottomettendo i fatti, l’empiria, il

molteplice, ad una legge a loro estranea: la legge emanatistica dell’Idea

che riduce il sensibile ad una sua manifestazione esterna. Quindi nella

filosofia hegeliana la totalità metafisica o Spirito Assoluto si presenta

sotto forma della materia come molteplicità empirica, sotto forma

dell’unità come ragione immanente.

Quando Hegel ammonisce che occorre saper togliersi dalle

astrattezze di concetti presi singolarmente senza alcuna relazione

reciproca, poiché ogni concetto dilegua nel suo contrario, non ha torto.

Tuttavia proprio questo dileguare del pensiero come correlazione degli

83
opposti, è una correlazione “debole” in cui il punto di arrivo è già

prefigurato.

Per capire la realtà è necessario eliminare le contraddizioni, ma in

che modo? Uno scienziato proverebbe ad eliminare o trasformare uno

dei due termini della contraddizione e vedere poi cosa accade.

Introdurrebbe dei correttivi nella contraddizione che però, a priori, non si

conoscono. Così l’unico modo per risolvere la contraddizione diventa

quello di analizzare di volta in volta l’intero movimento aporetico al

fine di trovare una soluzione a posteriori. In questo modo nessuna

contraddizione avrebbe un suo esito prefigurato. Nella dialettica di

Hegel, invece, la sintesi viene presupposta fin dall’inizio; anzi, la tesi e

l’antitesi sarebbero costruite in modo tale da favorire la loro

mediazione finale nella sintesi: ecco perché l’intero movimento

dialettico diventa apparente, mistificato.

Ora la posizione di D.V. sembra ricordare quella kantiana in cui sia

il contenuto materiale dell’esperienza sia le forme categoriali che

ordinano tale contenuto, godono di una loro autonomia. Entrambi i

termini hanno funzioni diverse da svolgere, ma solo nella loro

complementarità è possibile ottenere una conoscenza corretta. Mentre

per Hegel il lavoro logico del pensiero finisce sempre con l’esaurire i

diritti dell’empiria. Hegel, scrive D.V., poggia “sul concetto della

dialettica come soggetto, in quanto coscienza della contraddizione [che]

si giustifica come coscienza della coscienza e cioè autocoscienza

essenziale: come un tornare a sé, idest un ricostituirsi istantaneo di una

unità data dal suo moltiplicarsi meramente formale, avente infatti il

proprio criterio puramente nell’unità stessa. Platone, invece, intende

stabilire la positività del non-essere convertendo la opposizione

parmenidea [di essere e non-essere] in una comunanza o unità dialettica

84
(di generi supremi) avente la funzione di fondamento di un molteplice, in

quanto essa è criterio di un processo di divisione o classificazione (delle

specie partecipanti ai generi supremi) [...]. La differenza fra Hegel e

Platone è dunque tutta a svantaggio di Hegel che semplifica la dialettica

in modo da escludervi quel volger le spalle del positivo al negativo di

cui sentì di dover tener conto il Platone autocritico, interessandosi, alla

fine, anche all’empiria; il Platone cui si congiunge Aristotele col

principio di non-contraddizione. Allo svantaggio di Hegel di fronte a

questo Platone è connesso il suo svantaggio, più ovvio, rispetto ad

Aristotele“ . L’errore capitale di Hegel è di aver esasperato la dialettica


114

platonica, come strumento logico-filosofico, nel suo aspetto più

tipicamente eleatico e quindi di averla ricondotta a quell’irriducibilità

dell’essere o dell’uno che comporta la necessaria conversione dell’opposto

negativo o contrario dell’essere nell’eidos di “altro”: con la relativa

supremazia dell’unità rispetto al molteplice, della sintesi apriori, come

sintesi di opposti, rispetto ai suoi elementi.

Con la forte accusa nei confronti di Hegel di essere retrocesso al più

profondo dogma eleatico, D.V. chiudeva il secondo capitolo della Critica

dei princìpi logici. Segue un terzo ed ultimo capitolo nel quale egli affronta

il modo in cui la logica di Hegel è stata “revisionata” e ripresa da Croce

e da Gentile, prima di provare a vedere in quale maniera, ben diversa da

quella di Hegel, sia sensato parlare di una coscienza della

contraddizione. Per avere una risposta esauriente bisogna però aspettare

la Logica come scienza positiva del 1956 e gli studi su Marx, Humboldt,

Saussure, Wittgenstein, che trasferiranno l’analisi di D.V. dal piano

strettamente logico-filosofico a quello epistemologico-linguistico.

114Della Volpe 1942/1972, III: 232. Tanto l’idealismo con la nozione di “idea” quanto il positivismo con la
nozione di “verificazione empirica” risolvevano l’antinomia di ragione ed esperienza “fondendo”
misticamente ipotesi ed esperimento.

85
“In ultima analisi - scrive Fraser - ai fini di Della Volpe è di

importanza centrale che il molteplice positivo e il sentimento trovino

espressione nei concetti empirici in modo tale, che la positività vi sia

logicamente consacrata come non-contraddizione. Va tuttavia notato che

il principio di non-contraddizione scientifico, logico-formale, l’A = A,

non è necessariamente quella medesima positività cui Della Volpe

chiede di salvarlo dall’associazione “idealistica” del reale col non-

essere, l’irrazionale, la negazione logica. In particolare, la nozione di

concetto come logos (parola e segno) caratterizzata da un certo

eclettismo. [...] Ora, nel proporre la necessità di una scienza

dell’esperienza che poggi sulla positività del molteplice e

dell’astrazione determinata, Della Volpe va oltre lo scetticismo

humeano e il dualismo kantiano, il quale è radicato nell’a priori

categoriale ”. E ancora più avanti si legge: “Della Volpe voleva

impiegare la scienza, o più esattamente l’intelletto [...] e individuare una

via intermedia, una via di riconciliazione. Questo potere riconciliante,

risolvente dell’intelletto trovava la sua più chiara espressione nel

simbolo, per usare le sue parole, del circolo concreto-astratto-concreto [c-a-c]

” .115

Scorriamo le pagine della Logica del 1956.

Il secondo capitolo della Critica dei princìpi logici, “Critica della logica

hegeliana”, ora diventa il secondo capitolo della Logica con un titolo

molto più incisivo “Critica della dialettica mistificata platonico-

hegeliana e dell’analitica aristotelica” che viene ampliato da D.V. con

l’analisi di uno scritto di Marx, la Critica della filosofia del diritto pubblico di

Hegel (1843). In questo testo giovanile Marx spiega come la filosofia

115Fraser, 1979: 69-70

86
hegeliana sia il trascendimento dell’empiria nella speculazione . Le 116

caratteristiche reali (il molteplice) dell’oggetto diventano attributi

dell’universale. Il concreto, il materiale, sono solo simboli dell’Uno,

della identità della ragione con se stessa. Nel testo marxiano la critica a

Hegel consiste nel dimostrare come in una parte del suo sistema (la

filosofia del diritto) agisca sempre il metodo della dialettica speculativa,

unico e vero criterio del sistema stesso.

La famiglia, la società civile e lo Stato sono i contenuti specifici

della filosofia del diritto. Secondo Marx, quando Hegel tratta del

passaggio dalla famiglia alla società civile e, infine, allo Stato, non

esprime la realtà così com’è. Egli pecca di idealismo speculativo. Infatti

sia la famiglia sia la società civile vengono considerate come due “sfere”

del concetto di Stato, cioè come sue emanazioni finite. Mentre, osserva

Marx, questi due primi momenti, in realtà, sono le basi concrete sulle

quali (in determinate condizioni storico-sociali) nasce e si sviluppa lo

Stato. “Il passaggio della famiglia e della società civile a Stato - scrive

Marx citato da D.V. - consiste, dunque, in questo: che lo spirito di queste

sfere, che è in sé lo spirito dello Stato, si rapporta ora a sé come loro

interiorità, è reale per sé. Il passaggio non è dunque derivato dall’essere

della famiglia ecc., e dall’essere peculiare dello Stato, ma dagli universali

rapporti di necessità e libertà. È del tutto lo stesso passaggio che, nella

logica, si effettua dalla sfera dell’essere alla sfera del concetto. Lo stesso

passaggio è fatto, nella filosofia della natura, dalla natura inorganica

alla vita. Sono sempre le stesse categorie, che animano ora questa sfera,

ora quella. Ciò che solo importa [a Hegel] è di trovare, per le singole

determinazioni concrete le corrispondenti determinazioni astratte [...].

116Questo tipo di critica nei confronti di Hegel risale a Feuerbach, il quale aveva spiegato come la filosofia di
Hegel fosse una filosofia di predicati talmente astratti ove il reale contenuto non veniva riconosciuto
[Feuerbach, 1984: 3-52].

87
Egli non sviluppa il suo pensiero secondo l’oggetto, bensì sviluppa

l’oggetto secondo un pensiero in sé predisposto [l’apriori]“ . L’idea di


117

Stato in Hegel diventa il soggetto che pone le condizioni di esistenza

tanto per la famiglia quanto per la società civile. I reali soggetti

diventando momenti dell’idea di Stato, perdono la loro realtà in quanto

“significanti altro”. Se l’idea di Stato diventa la condizione necessaria e

sufficiente per il realizzarsi della famiglia e della società civile, allora

queste verrebbero ridotte a semplici “condizionati”. Insomma, Hegel

non avrebbe mai tradito, neanche in sede di filosofia del diritto, la

concezione prioritaria della sua filosofia speculativa. “Il concetto di una

unità data, originaria, ossia che all’origine assoluta delle cose c’è l’uno o

universale, concetto tipico del platonismo antico e moderno, è il criterio

dogmatico basilare del dialettismo hegeliano, in quanto concetto di una

unità ch’è pura unità e però unità formalistica o astratta, da cui non può

procedere che un molteplice formalistico anch’esso, o gratuito molteplice

di ragioni o concetti puri, con quella del tutto apparente e illusoria

negazione-conservazione sua ch’è la negazione della negazione (dell’unità

originaria!)“ . Con la relativa conclusione che tale “unità immobile o


118

verità teologico-mistica ” non è altro che l’ipostatizzazione di un

procedimento astrattivo.

Merito di Hegel è l’aver intuìto la necessità logico-filosofica della

fluidità dei concetti, del pensare in modo tauto-eterologico ; il limite,

secondo D.V., consiste nell’aver creato una gerarchia arbitraria tra i

concetti stessi (che pone i concetti di famiglia e società civile in un posto

inferiore rispetto al più alto [in quanto unifica e ricomprende i due

concetti precedenti] concetto di Stato), privilegiandone la loro

realizzazione in una sintesi fittizia e strumentale.

117Della Volpe 1956/1972, IV: 392.


118Della Volpe 1956/1972, IV: 409.

88
“Alla parte ultima della ricerca - conclude D.V. - spetta ora in specie

di abbracciare nella sua interezza il problema, uno e duplice, dell’essere

del non-essere, o problema complesso, e concreto, del principio logico in

quanto principio non meramente del pensabile o necessario, ma del

pensabile e del sensibile o contingente ad un tempo, o insomma principio

filosofico del conoscere. E spetta, sulla completa verifica storica delle ipotesi -

della identità tautoeterologica - in cui si configura esso problema, di darne la

soluzione” . 119

119Della Volpe 1956/1972, IV: 411.

89
Il principio di identità tautoeterologica

e la dialettica scientifica

La critica dellavolpiana della dialettica idealistica, come abbiamo

visto, prese le mosse da una difesa di Aristotele contro Platone. La

surrettizia interpolazione della realtà empirica compiuta dall’idealismo,

le sue ipostasi, il suo apriorismo, la sua concezione della negazione, la

sua mistificazione della dialettica resa necessaria per salvaguardare

l’istanza predominante dell’unità, furono respinti radicalmente.

Con il secondo capitolo della Logica D.V. aveva fornito un’ulteriore

prova del misticismo hegeliano, ovvero del fatto che Hegel,

contrariamente all’intento, si era dimostrato inadeguato nel risolvere

l’aporia eleatica fondamentale, ovvero il problema - uno e duplice -

dell’“essere del non-essere”, o problema complesso, e concreto, del

“principio logico” in quanto, scrive D.V., “principio non meramente del

pensabile o necessario, ma del pensabile e del sensibile o contingente ad un

tempo, o insomma principio filosofico del conoscere” . In altre parole


120

D.V. lasciava aperto il problema di come fosse possibile una dialettica

che difendesse i diritti del molteplice senza annullarli nel fagocitante

monismo eleatico-hegeliano e che, quindi, trasferisse il principio logico

di (non) contraddizione dal piano strettamente concettuale (come

dialettica di concetti puri) al piano del reale (come dialettica di contraddittori

reali). Il fine, ovviamente, era quello di mostrare, attraverso il metodo

ipotetico-deduttivo della scienza, come la dialettica, per rendere

intelligibile l’ottusa o non intelligibile differenza del diverso o

empirico mediante una differenza essenziale quale la relazione di

120Della Volpe 1956/1972, IV: 411.

90
contrari componibili, doveva costituirsi rispettando l’empirico, cioè nel

pieno rispetto della positività del contenuto-molteplice o materia. Serviva un

metodo che conferisse validità all’identità tautoeterologica dei contrari

all’interno della realtà concreta, dell’empiria; ma prima di proporlo era

necessario compiere un’ulteriore critica della filosofia hegeliana e, in

particolar modo, era necessario che quella caratteristica concezione

preconcetta ed aprioristica del giudizio fosse approfondita con la nuova

teoria materialistica del giudizio suggerita a D.V. dallo studio dei testi

di Marx. D.V., ormai, disponeva di tutto il materiale sufficiente per

concludere in modo definitivo la sua polemica con Hegel: “se il banco di

prova della scienza - osserva Fraser - è logico, allora la verificazione

parrebbe situarsi al livello del linguaggio. Per questa ragione egli

[Della Volpe] studiò Wittgenstein e Russell, ma soprattutto Carnap,

Tarski e Quine. Il neopositivismo mancava però di fare i conti con la

natura della determinatezza storica , e con la connessione di logica e storia;

era inoltre sterile quanto all’intervento pratico dell’ipotesi e dell’esperimento

nel reale. Di conseguenza, il problema del come il pensiero rappresentasse

il terzo termine prodotto dalle contraddizioni reali (assistito

dall’intervento scientifico) esigeva una connessione alla dialettica

triadica ” . 121

Per questo motivo D.V. inizia il quarto capitolo della Logica con un

breve ed esaustivo riferimento alla Aufhebung hegeliana, al suo duplice

significato del negare e del conservare. Il questo, come si è visto nel

precedente capitolo, è stato posto come non-questo ossia come tolto o

superato poiché la singolarità sensibile dilegua nel movimento dialettico della

certezza immediata, e diviene universalità, ma universalità soltanto sensibile.

La stessa procedura avviene per “l’altra forma del questo, cioè del qui. Il

121Fraser, 1979: 48-49. I corsivi sono miei.

91
qui è, ad es., l’albero. Io mi volto, e questa verità è dileguata

convertendosi nell’opposta: il qui non è un albero, ma piuttosto una casa.

Anche il qui [l’universale] come l’ora, non dilegua, ma resta costante nel

dileguare della casa, dell’albero della casa etc. e gli è indifferente di

essere casa o albero [la particolarità]. [...] È vero, in altri termini, che la

certezza sensibile (proprio essa) non sia altro che universale in generale o

universale indifferente o indistinto, come vuole Hegel?“ . È possibile, si


122

chiede D.V., costruire per es. la più comune conoscenza dell’albero

mediante un universale indifferente, cioè che non tenga conto dell’albero

“singolo” o aspetto “sensibile” o materiale dell’albero?

Innanzitutto consideriamo la nozione comune, corrente, universale

di albero: un “individuo vegetale a fusto ligneo eretto terminante in

rami” ecc. Se risolviamo il rapporto tra la parte (“questo albero”) e la specie

(“albero”) con il metodo dialettico-speculativo di Hegel, ogni differenza

viene ricondotta e annullata nell’unità del concetto: assunto il concetto

aprioristicamente come “autocoscienza essenziale” e quindi come

un’unità autoscindentesi nelle sue differenze, il concetto stesso,

l’universale, diventa non solo l’elemento dominante dell’intero

rapporto parte-specie, ma si mostra anche indifferente alla positività del

sensibile o singolare. Ma non è proprio il sensibile, il concreto, la

particolarità sensibile, la materia che rendono l’esperienza varia e diversa?

Il sensibile (l’albero sensibile) non ha la degradante funzione di essere

una delle infinite determinatezze del pensiero, ma anzi è tanto positivo,

nella sua peculiarità, che senza di esso l’universale non potrebbe mai

essere predicabile: un “nome”, o concetto, infatti, se non significa una cosa

determinata, è come se non significhi niente (si ricordi Aristotele). Quindi,

scrive D.V., “l’universalità insomma, lungi dal dover essere intesa come

122Della Volpe 1956/1972, IV: 419.

92
tautoeterologia preconcetta o sintesi formalistica di antinomiche ragioni o

insomma dialettica autosufficiente o mistificata [vedi Hegel], dev’essere

intesa invece come tautoeterologia o dialettica funzionale, nel senso che la

negatività, o relazionalità ch’è sinonimo di dialettica, si costituisce solo in

quanto è discretiva: cioè in riferimento all’istanza positiva della

discretezza o materia; onde l’uni-verso è, sì, come l’essere parmenideo,

l’essere uno e continuo, [...] tale in quanto è pluri-verso: ossia l’unità o è

unità molteplice o non è“ . 123

Illusione di Hegel, dunque, il considerare il reale come il risultato

di un pensiero moventesi da se stesso in se stesso: il metodo di risalire

dall’astratto al concreto, cioè dal concetto universale di albero come

“individuo vegetale a fusto ligneo, ecc...” all’albero singolo, al questo,

viene valutato come il solo modo di pensiero per impadronirsi del reale

o concreto, mentre quest’ultimo, osserva D.V., il soggetto, la

particolarità determinata, “essendo il “presupposto” da cui partiamo è da

tenere sempre presente. Dunque il metodo corretto si raffigura come un

movimento circolare dal concreto all’astratto e da questo al concreto” . 124

Con la formulazione del circolo c-a-c (concreto-astratto-concreto) D.V.

offre il metodo attraverso il quale la dialettica deve procedere per

liberarsi da ogni istanza di immobilità aprioristica o mobilità

mistificata. Un pensiero ch’e dialettico, relazionale, funzionale deve

essere necessariamente aderente alle cose, fecondo di perfetta verità che solo il

metodo sperimentale può verificare ed eventualmente confermare; in

questo modo la necessità del contenuto di un tale pensiero, non avendo

quella fissità parmenidea, metafisica, dell’ipostasi, ma quella

determinazione sua dovuta al discreto-materia, è la necessità contingente,

commenta D.V., “della legge scientifica in genere; legge ch’è dunque

123Della Volpe 1956/1972, IV: 424-425.


124Della Volpe 1956/1972, IV: 458.

93
correggibile [...] o meglio è perfettibile, ma costituzionalmente, e però nella

continuità del pensiero scientifico o reale: onde è, infine, il costituirsi e

perfezionarsi continuo della legge, eminente discorso temporale o

storico, sempre aperto, è questo soltanto il dinamismo vero della dialettica ,

la dialettica reale (ch’è dialettica storica)“ . 125

La logica è allora scienza. Il suo metodo rimane quello del circolo c-a-c

che indica i tre aspetti logico-gnoseologici comuni ad ogni sapere in

quanto scienza:

a) il dato problematico o istanza storico-materiale;

b) l’ipotesi o istanza storico-razionale;

c) l’esperimento che nella pratica convalida, ossia verifica , l’ipotesi

tramutandola in legge (istanza ultima della reciproca funzionalità

concreta di dato e ipotesi, soggetto predicato, materia e ragione,

induzione e deduzione) . 126

Se la logica è scienza in quanto si avvale del metodo ipotetico-

deduttivo e mostra come il sensibile entra necessariamente nella sintesi

intellettuale quale autonomo co-elemento positivo, se i tre aspetti

logico-gnoseologici sopra elencati, come afferma D.V., sono comuni ad

ogni sapere scientifico , allora non ci sarà che un metodo, una scienza, una

logica: “la logica materialistica della scienza sperimentale galileiana o

moderna, fugato quindi quel sottinteso platonismo più o meno

matematizzante ch’è lo sfondo filosofico della scienza di ogni scienziato

borghese, da Galilei a Einstein. Onde, dalla legge fisica alla legge

125Della Volpe 1956/1972, IV: 448. Se la dialettica reale (e quindi storica ) deve essere applicata al concreto, al
particolare e quindi al divenire storico soggetto sempre a numerosi cambiamenti, se la dialettica per essere
funzionale come procedimento scientifico deve aderire alle cose , allora la dialettica stessa dovrà essere
necessariamente dinamica, mobile, perfezionabile , soggetta a correzioni poiché il suo referente primario
rimane sempre l’accidentalità dei fatti empirici. In questo modo, la falsificazione di una teoria scientifica (vedi
K. R. Popper, La logica della scoperta scientifica (1934)) o di una legge , per usare l’espressione di Engels,
non invalida il metodo dialettico come procedimento scientifico. È la stessa direzione dell’indagine scientifica
che si sviluppa lungo due strade parallele: dai fatti alla costruzione delle teorie (procedimento induttivo), dalle
teorie al loro controllo mediante i fatti (metodo ipotetico-deduttivo).
126Per un esame critico del circolo c-a-c formulato da Della Volpe nella Logica come scienza positiva , si
veda Fraser, 1979: 49-110.

94
morale e a quella economica, variano certo le tecniche che le costituiscono

quanto varia l’esperienza e la realtà, [...] ma non varia il metodo, la logica ,

il cui simbolo è il suddetto circolo concreto-astratto-concreto. “La storia

stessa - dice Marx in questo senso nei Manoscritti economico-filosofici, III, 2 - è

una parte reale della storia naturale, della umanizzazione della natura. La

scienza naturale comprenderà un giorno la scienza dell’uomo, come la

scienza dell’uomo comprenderà la scienza naturale [intendi: adotterà il

suo metodo sperimentale: e avrà un metodo storico sperimentale e in tal

senso storico-dialettico, in cui, fra l’altro, l’aspetto logico c) o della pratica

conferma storico-sociale corrisponderà all’esperimento tecnico galileiano]:

non ci sarà che una scienza”” . 127

Ne segue che, se storia e scienza sono la medesima cosa, e la scienza

è storicamente determinata, la scienza è però anche, grazie al metodo

ipotetico, meta-storica : il circolo c-a-c diventa un tentativo di affermare la

capacità potenziale del metodo ipotetico (non-contraddittorio ma non

dogmatico) di comprendere il contraddittorio reale e quindi di renderlo

fluido, intelligibile, funzionale . Il metodo c-a-c diviene l’unica chiave di lettura


128

dell’esperienza sensibile: in questo senso la funzione della scienza è

metastorica , proprio perché adotta il metodo ipotetico-deduttivo come

metodo ermeneutico-interpretativo dei fatti storici.

Anche Hegel aveva teorizzato un metodo unitario capace di

indagare la realtà storica nelle sue varie manifestazioni ma, secondo

D.V., il metodo hegeliano si svolgeva all’interno di un ordine ideale-

astratto o di una preconcetta, aprioristica dialettica (dei sistemi): ogni

sistema storico, per usare l’espressione di Hegel, è sì “determinato

singolarmente”, ma “bisogna aggiungere che destino di queste

determinazioni è di venir messe insieme e ridotte in momenti”, giacché

127Della Volpe 1956/1972, IV: 467-468.


128Fraser, 1979: 88.

95
“all’espansione succede la contrazione, cioè l’unità da cui emersero

primitivamente”: e dunque “il tempo della ragione autocosciente è [...]

l’unico degno della storia della filosofia” . Con le relative conclusioni


129

che:

1) dovendosi “tralasciare la contingenza, appena entrati nella

filosofia”, la sua storia “ha la stessa necessità dello sviluppo dei concetti

e la forza propulsive è data dalla dialettica interna delle forme” ; 130

2) se “ogni filosofia è stata ed è necessaria, nessuna è trapassata, bensì

tutte si sono conservate come nella filosofia quali momenti di un tutto

affermativo”, allora gli stessi “princìpi si sono conservati “, poiché,

“essendo la più recente filosofia il risultato dei princìpi anteriori,

nessuna filosofia venne mai confutata”, bensì “fu confutata soltanto

la sua [astratta] posizione” . 131

3) Nella storia della filosofia non si ha a che fare col passato, ma

soltanto col pensiero, con lo spirito giacché i pensieri, le idee, i

princìpi che abbiamo sono qualcosa di presente nella ragione

autocosciente (e di immanente nel divenire storico) come

determinazioni del nostro spirito. E poiché “lo spirito esiste

essenzialmente come unità, cioè come atomo” , 132 si deve

necessariamente concludere che c’è solo uno spirito, un principio, una

verità eterna, che si imprime su tutte le manifestazioni storico-

culturali (vedi l’arte, la religione, l’etica, la politica, ecc.) di un

popolo.

Fare storia della filosofia per Hegel, e in genere per lo storiografo

“romantico”, significa trovare un punto di incontro tra un’idea della

filosofia presentata come idea assoluta (dal latino absoluta = sciolta da ogni

129Hegel, 1925: 55. I corsivi sono miei.


130Hegel, 1925: 57. I corsivi sono miei.
131ibidem.
132Hegel, 1925: 58.

96
vincolo empirico) e lo svolgimento storico del pensiero, ovvero il modo

in cui i soggetti entrano in contatto con la realtà. In questo modo,

mentre lo svolgimento storico della filosofia ha un suo divenire reale,

l’idea meta-storica della filosofia non lo ha più: l’idea di filosofia non può

mai essere qualcosa di divenuto poiché deve esistere eternamente ab

origine per venire presentata come parametro valutativo della realtà . 133

Questo movimento circolare del pensiero (dall’idea al divenire storico

all’idea), questa inversione degli ordini del circolo c-a-c nel circolo a-c-a

formulato da Hegel, secondo D.V., è dominante tanto nel metodo

quanto nel “sistema” di Hegel. Infatti, scrive D.V., “il concetto mistificato

della dialettica fa tutt’uno con un’astrazione filologica generica , per cui, come si

è visto testé, si “spogliano” o astraggono i concetti fondamentali dei

sistemi da ciò ch’è la loro “applicazione al particolare” o articolazione

storica , concreta”. Sicché “questa filologia generica [...] lungi dal darci

una sintesi e mediazione universale onnicomprensiva della storia della

filosofia e della logica (com’è nell’intento dell’apriorista Hegel), ci dà

invece una pseudo-sintesi storiografica: come risultato di quel processo di

ipostatizzazione del sistema platonico in cui tale filologia propriamente

consiste; [...]. Onde questa suprema ipostasi (filosofico-storiografica) ch’è

il platonismo per Hegel, questa riduzione della pluralità dei sistemi all’

unità fissa preconcetta di un sistema, ci riconferma anche che lo stesso

pensiero “speculativo” del razionalista Hegel non è mai costituito di

133Mentre l’Illuminismo aveva tentato di razionalizzare la storia della filosofia evitando di imprimere sui fatti
filosofici il sigillo di una concezione aprioristica, il Romanticismo considera i vari sistemi filosofici come
filiazioni di un’unica, eterna, originaria filosofia . In questo modo la storia della filosofia percorre un iter
simile a quello vitale: da un’unità originaria (l’idea platonica di filosofia) all’opposizione (alla differenziazione
nei vari sistemi filosofici) alla riconciliazione nella nuova unità (la storia della filosofia). Hegel sembra
condividere pienamente l’istanza romantica di una filosofia che si sviluppa organicamente (e quindi
unitariamente) nel divenire storico.
Se, come si è visto, per D.V. la scienza assume una funzione metastorica in riferimento al metodo ipotetico-
deduttivo, che offre la possibilità di interpretare il dinamismo dei fatti storici partendo dalla storia stessa, per
Hegel, al contrario, la filosofia può dirsi metastorica proprio perché trascende la realtà empirica dei fatti storici
e si pone, di conseguenza, in una dimensione che è oltre la storia, al di là del mondo empirico.

97
concetti vuoti, ma pieni, cioè per lo più viziosamente ed infecondamente

pieni [in quanto] mistificati” . 134

Per D.V., come per Hegel, non c’è che una logica, non c’è che un

metodo, quello della scienza moderna materialisticamente intesa e

giustificata, che non ha nulla a che vedere con quella mistificazione e

decomposizione filosofica dell’empiria compiuta dal metodo dialettico-

speculativo di Hegel. La dialettica, secondo l’interpretazione di D.V.,

dovrà evitare la petizione di principio platonico-hegeliana dell’unità e

al contempo non perdere il duplice insegnamento platonico e hegeliano,

secondo cui è tanto vero che si dialettizza solo dividendo, cioè in concreto, o in

riferimento positivo all’empirico , quanto è vero altresì che prerogativa della

ragione è di rendere intelligibile l’ottusa empiria mediante un

procedimento tautoeterologico che non annulla i contrari in una unità

preconcetta ma che, al contrario, li renda compatibili e componibili nella loro

essenziale differenza; una tale dialettica acquista significato solo se è in

grado di costituirsi nel pieno rispetto della positività del contenuto-

molteplice o elemento materiale.

Qualsiasi dialettica triadica di stampo hegeliano non può che

condividere l’apriorismo logico del suo fondatore, nel cui quadro gli

opposti sono non già realmente irriducibili, eterogenei, ma forme e

contenuti, negazioni negate, dove tutto ciò che è specifico e reale-

empirico viene docilmente sussunto nel generale a priori e nell’Idea. È

necessario, dunque, un metodo nuovo, che tenga conto della identità

tautoeterologica (e quindi della differenza strumentale) dei contrari, un

procedimento scientifico che si avvale dell’esperimento come verifica di

ogni ipotesi concettuale: il circolo c-a-c che indica la reciproca

funzionalità di ragione e materia quale unica garanzia del moderno e

134Della Volpe 1956/1972, IV: 482-483.

98
sperimentale (o galileiano) procedimento scientifico. Con la relativa

avvertenza di non intendere il circolo metodico c-a-c come un

movimento che avviene puramente nel pensiero poiché si

sconfesserebbe quel lato empirico , più volte rimarcato da D.V., del

metodo ipotetico-deduttivo: l’idea che la verità, la legge risiede nella verificazione

o conferma della ragione da parte della materia.

99
La logica come scienza storica

Nel 1967 D.V. pubblica la Critica dell’ideologia contemporanea, che riunisce

tredici fra articoli e saggi di “teoria dialettica”, suddivisi in tre sezioni,

intitolate alla “Logica”, alla “Politica” e alla “Estetica”: cioè gli ambiti di

ricerca che connotano, in un intreccio problematico, l’intera produzione

teorica dellavolpiana. Gli scritti compresi nel volume sono infatti,

avverte D.V. nella Prefazione, l’esposizione di un “criterio dialettico

antihegeliano...[cioè di] uno strumento gnoseologico metodico per

comprendere la storia al fine di mutarla, [...] tenendo presente che la

teoria della dialettica esposta in questi saggi è veramente tale in quanto

essa teoria medesima si è consapevolmente costituita per via di storica

dialetticità: è insomma teoria dialettica nel senso di una logica come scienza

storica . [...] ...la dialettica come sviluppo di storici compromessi: dal

momento che le contraddizioni reali si placano e risolvono soltanto

(vedremo) in un tertium storico che, in quanto realmente ossia

determinatamente negativo e insieme conservativo di elementi di

circostanziate opposizioni, attua un “salto” qualitativo storico , un che di

rivoluzionario che tuttavia non è e non può essere assoluta astratta

novità ossia soluzione della continuità storica” . 135

Nella Chiave della dialettica storica (1964)136, primo dei saggi raccolti, D.V.

polemizza contro le nozioni idealistiche di storia, specialmente quella

(neoplatonico-hegeliana) del pensiero come automoventesi,

rivendicando la necessità di partire, nella ricerca scientifica, sempre da

quel “risultato” (d’un processo storico) ch’è il presente o “concreto” reso

intelligibile dal metodo ipotetico-deduttivo (il circolo c-a-c), o concreto-

135 Della Volpe 1967/1972, VI: 303-304.


136 Della Volpe 1967/1972, VI: 307-331.

100
astratto-concreto, metodo che deve essere dialettico proprio in quanto

logico-storico di astrazioni determinate.

Il metodo storico, dunque, non sarà limitato alla struttura organica

del presente sincronico, ma indagherà la causalità (e non la cronologia,

ch’è irrazionale, meramente caotica). Non ogni antecedente cronologico

è causa logica di quel presente concreto da cui muove il processo del

pensiero astratto e riproducente. I criteri del pensiero sono astrazioni

determinate: concetti, prodotti storici. Questi consentono la costruzione

di criteri-modelli, derivati dall’astrazione determinata e dallo specifico

e dalle sue cause, ossia dalla storia e dalla scienza. Contrariamente a

quelli della scienza naturale, tali modelli non sono però ripetibili. La

storia contemporanea è costituita da criteri-modelli, come astrazioni,

concetti, tipi storici, determinazioni operative e ipotetiche. In questo

modo il presente non solo non esaurisce la dimensione storica, ma

diventa una chiave di lettura per l’esame dei suoi antecedenti logici. Per

il tramite dell’istanza dell’astrazione scientifica, e dunque dell’ipotesi-

esperimento, il presente è il prodotto della reciproca funzionalità di

pensiero e processo reale. In altre parole, il problema essenziale per

D.V. è di natura logica e scientifica: è il problema dell’indagine e della

riproduzione del processo di causalità.

Se l’idealismo professa di vedere l’idea, lo Spirito, come

eternamente presente, D.V. sostiene esattamente il contrario: il presente

è sì conseguenza storica, ma anche conseguenza logica e quindi il punto

di partenza delle ragioni o cause di quel presente concreto. In questo

senso il metodo storico è necessariamente logico-scientifico: “con questo

carattere logico-storico di antecedenti-conseguenti - scrive D.V. - è

spiegato (materialisticamente) il rapporto passato-presente e fondato

veramente il criterio d’un presente storico (idest : non eterno) o “presente

101
come storia” (Lukács-Sweezy)” . Anche Lukács, secondo D.V., ha
137

commesso lo stesso errore di Hegel: nel “ripeterci la sua fede hegeliana

nel trionfo della “mediazione” assoluta, onde il “momento fluido” (idest :

dialettico), ch’è sinonimo di “mediatore” pacifico e sovrano, “fra passato

e avvenire”, finisce, con la sua sovrana universalità ossia genericità, per

assomigliare assai più allo “eterno presente” (dell’autocoscienza), in cui

culmina ogni hegelismo coerente, che non al “presente come storia” che

il materialismo impone al Lukács. Così questi sconta la sua insensibilità

alla critica marxiana materialistica della dialettica “mistificata” e viziosa

ch’è l’hegeliana con le sue astrazioni “indeterminate” in quanto

metafisiche e le sue ipostasi insomma” . 138

Chi conosce Hegel, osserva D.V., non può ignorare questa

fondamentale verità che Hegel avrebbe intravisto: “l’intelletto - egli

afferma - dà bensì loro [alle sue determinazioni], mediante la forma

dell’universalità astratta, per così dire una tal durezza dell’essere che non

hanno nella sfera qualitativa [cioè nella mera empiria] [...]; ma con

questa semplificazione in pari tempo le anima ed avviva e le rende acute

per modo che proprio soltanto in questo culmine acquistano la capacità

di risolversi e trapassare nel loro opposto [= la dialettica]. La più alta

maturità e grado che qualcosa può raggiungere, è là dove comincia il

suo tramonto. [...] È pertanto sotto ogni rapporto da rigettarsi la

separazione dell’intelletto e della ragione così come comunemente vien

fatta [vedi Kant]. Quando si considera il concetto [determinato,

intellettuale] come vuoto di ragione, si deve anzi riguardare come una

incapacità della ragione di non sapervisi riconoscere. Il concetto determinato ed

astratto è la condizione, o meglio un momento essenziale della ragione. È forma

animata, nella quale il finito mediante l’universalità, in cui si riferisce a

137 Della Volpe 1967/1972, VI: 316-nota n. 1.


138 ibidem.

102
sé, si accende in sé, è posto come dialettico ed è con ciò cominciamento

stesso dell’apparire della ragione” . Ma a tale verità, osserva D.V.,


139

Hegel aveva già rinunciato quando ad es. aveva premesso poco prima

( ivi , pp. 690-691) che “ogni concetto determinato è però ad ogni modo vuoto in

quanto non contiene la totalità, ma solo una determinatezza unilaterale.

Anche quando abbia d’altronde un contenuto concreto, p. es. uomo,

Stato, animale etc., rimane un concetto vuoto [...]. Se ora nel concetto

puro questa eternità [cioè: universalità] appartiene alla sua natura, le

astratte determinazioni di quello [dell’intelletto] sarebbero delle

essenzialità [le categorie] eterne solo quanto alla loro forma

[l’universalità]; ma il contenuto [concreto] loro non è adeguato a questa

forma; quindi non sono verità né son nulla di men che caduco. Il

contenuto loro [concreto, storico] non è adeguato a questa forma, perché

non è la determinatezza stessa come universale [concetto puro], ossia

non è come totalità della differenza di concetto o non è esso stesso la

forma intiera; la forma dell’intelletto limitato è appunto l’universalità

imperfetta, vale a dire astratta”.

Dunque, il concreto è l’uno, cioè la totalità intelligibile o

intelligibilità totale. Ma se gli elementi, le parti, destinati a dar durezza

o determinatezza o pienezza all’unità, debbono questa loro durezza (di

arti dialettici) al punto stesso di maturità della “semplificazione” o

unificazione del molteplice, vale a dire al punto di estrema “acuità” o

intelligibilità, come potranno concretamente essere qualcosa se non il

proprio “tramonto” (come elementi molteplici), che “comincia” o

coincide con la loro maturità? Come potranno non dissolversi nella totalità

intelligibile, in quanto solo così diventano totalmente intelligibili? Come

139 Hegel, 1988: 692-693.

103
non svaniranno, infine, lasciando una vuota unità ovvero una unità di

vuoto? Per la intelligibilità totale non si perde, forse, l’intelletto?

“E fin da ora - scriveva D.V. nella Critica del 1942 - si può congetturare

che la concezione sostanzialmente romantica del senso, in cui ci si

ripresenta, [...] la giovanile concezione metafisica [...] della “bella” unità

primitiva indiscriminata (vedi il nostro Hegel romantico e mistico , 1929), è

essa che impedisce a Hegel, e a tutto l’hegelismo, di fondare l’intelletto ( e

con esso un concetto critico integrale della ragione), oscurando essa la

natura del rapporto dell’intelletto col senso o sentimento, col molteplice

[...]. Per ora basti osservare che è proprio perché Hegel parte da un

concetto romantico del senso o del sentimento (concepito sotto la

categoria speculativa dell’unità, come infatti “universale in generale” o

unità indistinta), ch’esso non può non finire in una concezione negativa -

mistica! - dell’intelletto e della ragione come inesplicabili scissione e

reintegrazione dell’unità; concezione insufficiente a render conto sia del

molteplice (il senso e l’intelletto) che dell’uno (la ragione), lasciandoci

essa, alla fine, con una unità che, per quanto si faccia, non sa essere che

vuota immobile unità (falsa unità)” . 140

Insomma il dramma intellettuale di Hegel, almeno secondo D.V.,

consiste nell’essersi accinto paradossalmente alla difesa dell’intelletto, e

quindi nell’essersi opposto (contro Kant e poi contro Schelling) alla sua

separazione dalla ragione, mediante un concetto inadeguato, perché

mistico e quindi denigratorio dell’intelletto stesso. “La ragione pensante -

precisa Hegel nella Scienza della logica , poi acuisce, per così dire, l’ottusa

differenza del diverso, la semplice molteplicità della rappresentazione

fino a farne la differenza essenziale, l’opposizione [di “essere” e di “non-

essere”]” . In altre parole, secondo Hegel, sarebbe colpa del “concetto


141

140 Della Volpe 1942/1972, III: 180-181.


141 Hegel, 1988: 493.

104
determinato” (“ottuso” e “vuoto”) se la ragione non è in grado di

riconoscersi in esso.

Se Hegel ha fallito il suo dignitoso tentativo di cogliere la funzione

razionale dell’intelletto e quindi, in definitiva, di superare l’illuminismo,

dimostrando l’unità organica di ragione e storia, è proprio perché non

ha saputo cogliere la positività dell’intelletto storico , il solo utile alla

ragione per l’indagine del concreto, in quanto condizione sine qua non per

una corretta (analisi) dialettica del reale. Hegel, al contrario, non solo ha

ridotto l’operazione separante dell’intelletto ad una funzione di

passaggio, riassorbita dall’operazione unificante della ragione, ma

soprattutto ha ridotto la dialettica soltanto al momento risolutivo,

concepito come contraddizione “assoluta” di opposti unitari

(=“differenze essenziali”) e omogenei: “contrarietà di contrari-categorie,

genericissimi quindi e statici o solo gratuitamente componibili perché

sia la loro differenza che la loro identità sono differenza e identità di

relata indeterminatissimi e quindi sono anch’esse assunte apriori e

dogmatiche e non consentono né reale, determinata, negazione né reale,

determinata conservazione d’un “contrario” da parte dell’altro: =

ragione astratta, che per propria incapacità non riesce a riconoscersi nel

concetto determinato, ch’è trasceso, infatti, col non tenere conto della

contrarietà problematica , in-composta, costitutiva di ciò ch’è -

determinatamente - contraddittorio idest antinomico” . È necessario, 142

allora, considerare la contraddizione non più come mero strumento di

unificazione astratta (aprioristica) di contraddittori o antinomie, ma

nella sua funzione risolutiva o tautoeterologica , in quanto ogni suo termine

142 Della Volpe 1967/1972, VI: 319-nota n. 1. Secondo Della Volpe, nella letteratura marxista il termine
“contraddizione” viene spesso usato in modo estremamente ambiguo e confuso: cioè senza avvertire quando si
tratti di quella contraddizione problematica, negativa, in -composta, ch’è la contraddizione interna ad un
particolare fenomeno storico (per es. l’antinomia tra il carattere privato del capitale ed il carattere sociale del
lavoro nella produzione capitalistica), e quando invece si tratti di quella contraddizione risolutiva , e positiva,
ch’è la contraddizione costituita di opposti o contrari (e non più di astratti contraddittori) di antinomie
date, o, meglio dei complessivi significati antinomici derivanti.

105
viene negato e conservato (e non annullato come accade in Hegel) nell’unità

concreta (cioè costituita di elementi sensibili, storici) richiesta dalla

ragione per comprendere il reale. Perché questo sia possibile si deve

trasferire il principio dialettico, per usare l’espressione di D.V., dal cielo

in terra, dallo spazio iperuranio e metafisico, platonico-hegeliano, giù

nella storicità come strumento conoscitivo: in quanto l’inesauribile

bisogno della nostra ragione di unità reale nella nostra vita si soddisfa

soltanto nella figura logica di una tautoeterologia od “opposizione

compenetrativa” o dialettica di “medesimezza” e “alterità” (vedi il

Sofista platonico) “in seguito alla violazione del principio di non

contraddizione, continuamente perpetrata dai conflitti del diverso o

molteplice reale, storico : un diverso, cioè non ”transeunte” e illusorio

come il diverso “creato” - nelle teologie antiche e moderne [vedi Hegel]

- dall’uno, o idea, autodegradatosi nel mondano molteplice e recuperante

se stesso nel ciclo - di tipo plotiniano - di discesa-ritorno” . 143

D’altra parte il principio di (non) contraddizione dimostra le sue

grandi doti dialettiche solo quando viene applicato alla conoscenza dei

fenomeni storici: in quanto i contrari reali non sono né ipostatizzati né

indeterminati. La logica storica reale implica la contraddizione storica

reale, la non-logica, ma non un’hegeliana unità degli opposti nell’Idea.

Il concetto antinomico non va individuato nella forma hegeliana A =

non-A. Piuttosto, la risoluzione dell’antinomia dialettica è essa stessa

dialettica. In questo modo la contraddizione antinomica non è affatto

soggetta alla logica formale, non è risolubile attraverso un processo di

conservazione e negazione. Così l’opposto di un concetto

contraddittorio non sarà altro “che quel dialettico tertium proscritto e

143 Della Volpe 1967/1972, VI: 323-324.

106
misconosciuto comprensibilmente (tertium non datur) dall’astrattismo

della logica formale”.

Così - continua D.V. - questa riconciliazione delle due logiche

classiche [...] comporta una nuova figura logica - di un opposto o

contrario (risolvente) di un concetto antinomico - che significa in

definitiva la necessità per la (moderna) ragione di soddisfarsi soltanto in

una unità-che-sia-anche-analisi (=analisi dialettica di contraddizioni):

ossia unità veramente dinamica : [...] donde la rilevanza dell’antinomico (o

trionfante diverso storico) che sollecita la propria soluzione da una

ragione adeguatamente dialettica come quella (moderna) che rifiuta il

diverso o molteplice “transeunte” e illusorio, di cui si occupano le

teologie” . 144

D.V. rielabora l’istanza del dinamismo dialettico (già presente in

Engels) nella nuova definizione di unità tautoeterologica del dato

(logico) storico. È da tenere presente che D.V. arriva alla definizione di

una logica come scienza storica attraverso la critica una-duplice ch’è la

critica aristotelica della platonica diairesi o classificazione

“tautoeterologica”, ossia dialettica-apriori, di generi empirici (già

discussa nella Critica del 1942 e poi ripresa ed ampliata nella Logica del 1956),

e la critica marxiana della dialettica mistificata hegeliana e sue viziose

ipostasi.

Hegel, secondo la critica dellavolpiana, avrebbe sempre

privilegiato l’istanza dell’unità, della relazione, l’”unificazione dei

contrari” rispetto ai contrari stessi. I contrari, una volta svuotati della

loro particolarità, si sono sì riconciliati nell’unità (teleologicamente

predisposta) dell’uno o idea, ma come una vuota unità, un vuoto

universale, privo di ogni elemento sensibile, concreto, storico. “Tutto

144 Della Volpe 1967/1972, VI: 324-325.

107
ciò significa - fa notare D.V. - che la moderna ragione, materialistico-

storica dopo essere stata illuministica e idealistica, intende anch’essa di

razionalizzare la storia e regolarne il movimento: ma, ragione

progressista (che ragione sarebbe altrimenti?) come illuministica, ne evita

tuttavia l’orgoglio utopistico, e rispettosa, a differenza dell’idealistica,

dei fatti storici, sociali, nella loro materialità o concretezza, si limita

all’analisi dinamica valutativa della intima coerenza (a cui non può

rinunciare senza venire meno a se stessa) di ogni fatto storico

(situazione o istituto sociale che sia); analisi il cui unico criterio di

valore è dato, è sottinteso, dagli umani bisogni e problemi specifici del

presente storico ”, ovvero “presente non più sussunto, e quindi annullato,


145

sotto categorie eterne o ipostasi: [...] una analisi, non solo, ma storicamente

discriminativa, di concetti antinomici, perciò superabili nei loro opposti

[determinati, concreti]” . 146

Hegel ha sicuramente avuto il merito di aver intuìto come ogni

filosofia moderna debba avvalersi del metodo tautoeterologico (vera e

propria coscienza della contraddizione) per ottenere una chiara

comprensione della realtà storica; il demerito, secondo l’interpretazione

dellavolpiana, consiste nell’essersi Hegel eccessivamente interessato

alla risoluzione di quelle antinomie intellettuali (che la filosofia

illuministica lasciava insolute), trascurando i contenuti materiali e

concreti delle antinomie stesse, risolvendo, quindi, ogni tipo di

contraddizione (logica o storica che sia) nel principio sintetico astratto

della divina unitaria auto-contraddizione dell’idea. In fondo, avendo

reso i contraddittori reali dei semplici 147 opposti di una unica e

145 La analisi proprio perché è una analisi dialettica di contraddizioni storiche , attinenti cioè agli “umani
bisogni e problemi specifici del presente storico ”, trasforma il materialismo storico in una scienza umana in
quanto sociologia storico-critica [Della Volpe 1967/1972, VI: 329].
146 Della Volpe 1967/1972, VI: 327-328.
147L’aggettivo “semplice”, nella terminologia hegeliana, indica una situazione di astrattezza, di immediatezza.
Gli opposti sono chiamati “semplici” in quanto “non ancora dispiegati” [cioè: mediati] dalla ragione.

108
imminente totalità aprioristica (l’idea, l’uno), avendoli svuotati del loro

contenuto storico-fattuale per facilitarne la loro sintesi (cioè:

riconciliazione) in una nuova (vuota) unità astratta, Hegel non solo non

riuscì a cogliere la verità 148 storica nella sua concretezza, ma trasfigurò la

realtà delle cose sublimandola in un sistema di concetti puri.

Hegel non avrebbe mai considerato il presente o “concreto”,

osserva D.V., come “il “risultato” di un “processo storico” (e non “di un

pensiero che si muove da sé in se stesso”, come egli credeva), [come] un

insieme di “generico”, o in comune ad altre epoche, e [...] di “specifico”

e problematico”. Ciò implica l’impossibilità di “un’analisi determinata

dei suoi problemi e contraddizioni senza risalire alle ragioni o cause di

esso presente, le quali, fuori di ogni metafisica, non possono esser

individuate che in quelle categorie [...] “generiche”, o in comune con

altre epoche, ma in quanto esse non siano semplici precedenti

cronologici [irrazionali] del presente, bensì precedenti “non

accidentali”, cioè essenziali, della problematica di esso e però veri

antecedenti storici perché antecedenti logici del conseguente problematico

presente”. Ne deriva “che l’analisi delle presenti contraddizioni, o

negativo storico, quanto più sarà analisi risolutiva tanto più sarà

produttiva [cioè: operativa ossia adeguata alla prassi] di storia - e non

mera cronaca - futura. [...] Proprio, perché, in altri termini, si tratta di

una prassi il cui scopo è un determinato opposto di un non meno

determinato significato (storico) antinomico . E questo tipo di opposizione

è la sola chiave logica (criticamente concepibile) di una dialettica

storica” . Il metodo storico è perciò logico, poiché si occupa delle


149

148 Si può parlare di verità storica , all’interno della ricerca dellavolpiana, solo come verificazione scientifica ,
come applicazione del circolo c-a-c ai contenuti dell’esperienza. Non esiste una verità ontologicamente intesa,
ipostatizzata, noumenica: il circolo c-a-c in quanto metodo storico è un circolo chiuso di materia (o esperienza)
e ragione, in quanto metodo ipotetico, produttore di leggi, è (ermeneuticamente) aperto . L’esperienza, infatti,
mette alla prova la logica, ma storicamente non la determina.
149 Della Volpe 1967/1972, VI: 336-337-cap. II.

109
ragioni o cause di quel presente concreto ch’è il punto di partenza di

ogni analisi scientifica.

110
Conclusione

La critica dellavolpiana all’impostazione filosofica di Hegel e al suo

metodo dialettico, come abbiamo visto, muove i primi passi nel 1929 con

lo scritto storiografico Hegel romantico e mistico (1793-1800 ). In questo

periodo D.V. non ha ancora familiarità con il pensiero marxista e con la

critica marxiana rivolta alla dialettica mistificata di Hegel . La tesi 150

sostenuta da D.V. è che nello “sviluppo mentale” dello Hegel, tra la fase

iniziale illuministica e quella sistematica della filosofia dialettica, vi è

soprattutto una fase “romantica e mistica ”. Emerge da questo studio la

figura di uno Hegel fortemente “idealista”, fervente sostenitore di una

concezione storico-filosofica che affonda le sue radici nel misticismo

tedesco (vedi Eckhart) e nel neoplatonismo di tipo plotiniano: l’Uno, lo

Spirito (descritto in termini di Volksreligion e Volksgeist ) nel suo autoprodursi

e autodispiegarsi, diventano l’unica chiave di lettura per comprendere non

solo la religione e le diverse manifestazioni culturali di un popolo, ma

l’intero percorso storico dell’Idea, del suo travaglio dialettico che non

poteva non risolversi nella filosofia ipostatizzante e mistificatoria di Hegel.

È durante la sua produzione giovanile (1793-1800) che Hegel, osserva

D.V., ha cominciato a tessere i fili logico-filosofici del suo misticismo: la

categoria dell’unità, prima esposta nei concetti storici di Volksreligion e

Volksgeist , e poi individuata nel tema, più specificamente filosofico,

dell’amore, assume una connotazione sempre più forte e dominante al

punto di diventare il leitmotiv di tutta la filosofia hegeliana.

Così nella Critica dei princìpi logici (1942), seguendo coerentemente la sua

analisi critica dell’intera speculazione hegeliana, D.V. denuncia sia il

150 Della Volpe comincia a studiare il pensiero filosofico-politico di Marx negli anni 1944-45.

111
persistente platonismo e implicito misticismo che connota la filosofia

speculativa moderna e contemporanea, il cui emblema rimane sempre

Hegel, sia “la considerazione negativa, dialettica, del sentimento o

molteplice concreto, inteso, secondo il modulo del razionalismo, come

un momento inferiore ed indistinto del processo della verità, che solo la

ragione illumina e cui conferisce consapevolezza. Nell’intento di

fondare un concetto critico dell’oggettività empirica e, perciò, una

filosofia (logica) del finito [...], secondo la linea di pensiero Aristotele-

Kant, Della Volpe dichiara di voler contestare “agli idealisti la

legittimità del concetto di verità come autocoscienza”” . Nella Critica 151

D.V. offre un’ulteriore prova del neoplatonismo e misticismo teologico

di Hegel, chiamando in causa la critica aristotelica della diairesi

(=divisione per due) platonica: il metodo dialettico-speculativo nella sua

formulazione hegeliana, pur proponendosi come risolutore di ogni

antinomia (e contraddizione) logica, in realtà si mostra come una

conferma della remota ispirazione mistica e romantica di Hegel: se il

divenire storico (ch’è tutt’uno con quello logico e filosofico) viene

considerato come l’autodispiegamento dell’Uno nel mondo sensibile, non solo i

termini di ogni contraddizione vengono riassorbiti e (astrattamente)

riunificati nel fagocitante monismo dell’Uno-Idea, ma l’intero sistema

hegeliano, in questo modo, si sottrae ad ogni tipo di (auto)controllo

empirico-sperimentale, poiché tutto il suo percorso segue una strada obbligata

e prefigurata: dall’unità originaria - alla sua differenziazione nel mondo

sensibile - alla nuova e immutata (perché aprioristicamente concepita)

unità.

Nella Logica come scienza positiva (1956), ch’è un rifacimento ed un

ampliamento della Critica del 1942, D.V. espone, per la prima volta, sia la

151 Violi, 1978: 54.

112
funzionalità del circolo concreto-astratto-concreto come paradigma del

metodo scientifico pratico, sia un’elaborazione del criterio della tauto-

eterogeneità.

Se la filosofia hegeliana privilegia l’unità rispetto al molteplice,

considerato un “ponte” predestinato ad avere il proprio unico sbocco (e

conseguente annullamento) nell’Assoluto o Uno-Idea, l’impostazione

filosofica di D.V. è una continua ed incessante dimostrazione di come il

sensibile entri necessariamente nella sintesi intellettuale quale

autonomo co-elemento positivo.

Nel 1967 D.V. pubblica la Critica dell’ideologia contemporanea (Saggi di teoria

dialettica), che riunisce i due saggi Chiave della dialettica storica (1964) e Lo

Scorcio della dialettica materialistico-storica (1965), ristampato sotto il nuovo

titolo Dialectica in nuce. Vi vengono ampliate e concluse quelle ricerche

teoriche che D.V. aveva cominciato nella Logica del 1956: il metodo

teologico-dialettico di Hegel, ora diventa il metodo logico-storico di

astrazioni determinate, il quale, come abbiamo visto, si occupa del presente,

tramite l’istanza dell’astrazione scientifica, e quindi dell’ipotesi-

sperimento, in quanto prodotto della reciproca funzionalità di pensiero e

processo reale.

È nell’emarginazione dei diritti del discreto o molteplice,

storicamente realizzata dalla “grande mistica filosofica” da Plotino a

Hegel che, secondo D.V., risiede l’insostenibilità epistemica

dell’idealismo; ma per uscire “da quelle secche comportava lavorare sui

princìpi della logica in vista di una funzionale complementarità fra

l’estensibilità o fungibilità generalizzatrice delle astrazioni, e la loro

contemporanea capacità di connotarsi in guisa specifico-concreta” . Le 152

astrazioni, dunque, ottengono connotazioni specifico-concrete

152 Merker, 1978: XI.

113
attraverso l’assunzione del materiale d’esperienza, che “deve essere

vagliato da un tipo di razionalità aperta al “discreto” la quale, in un

circolo di reciprocità (una “dialettica” sì, ma diversa da quella

hegeliana), tragga proprio da quella materialità, e a patto che riesca a

padroneggiarla criticamente, il rimedio alle ipostasi idealistiche e al

loro riempirsi, per ineluttabile contrappasso, di una cattiva empiria

incontrollata che ne è l’effettivo ma greve contenuto surrettizio, “non

digerito”.

L’ineliminabilità, dal discorso razionale, del dato di fatto materiale

in tutti i campi di constatazione (cioè nella realtà sia naturale sia

storica), acquistò così nel Della Volpe marxista la dignità di “principio

critico della materia”: un principio la cui cogenza egli postulò, e contrario,

dai guasti che, a trasgredirlo, colpiscono la ratio e la rendono incapace di

essere strumento di conoscenza (scientifica) del mondo. Fu questa, direi,

la carta teorica di fondo con cui egli ingaggiò tutte le sue partite, in

logica e gnoseologia, in estetica, e sul terreno etico-politico” . 153

153 Merker, 1978: XIII.

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