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Storia

dei Dogmi
Direzione di
BERNARD SESBOUÉ

IV
BERNARD SESBOUÉ
CHRISTOPH THEOBALD

LA PAROLA
DELLA SALVEZZA
XVI~ XX secolo
Dottrina della Parola di Dio}
Rivelazione} Fede}
Scrittura} Tradizione} Magistero

~
~
PI EMME
Titolo originale: Histoire der dogmer, IV: La parole du ralut
© 1996, Desclée, Paris

Tràduzione dal /rancere a cura dei Monaci Benedettini di Germagno (Verbania)

·copertina: Studio Aemme

I Edizione 1998

© 1998 · EDIZIONI PIEMME Spa


15033 Casale Monferrato (AL) - Via del Carmine, 5
Te!. 0142/3361 - Telefax 0142n4223

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Abbreviazioni

AAS Acta Apostolicae Sedis, Romae


AHDLMA Archives d'histoire doctrinale et littéraire du Moyen Àge, Paris.
APhC Anna/es de philosophie chrétfenne, Paris
ARSJ Acta Romana Societatis ]esu, Roma
BA Bibliothèque augustinienne, Deschée de Brouwer, Paris.
BLE Bulletin de Littérature Ecclésiastique, Toulouse.
Budé Éditions Les Belles Lèttres, Association Guillaume Budé, Paris~
CCCM Corpus Christianorum. Continuatio Medievalis, Brepols, Turnhout.
CCSL Corpus Christianorum. Series Latina, Brepols, Turnhout.
CH Irénée de Lyon, Contre !es Hérésies, trad. A. Rousseau, Cerf, Paris 1984.
CIC Codex juris canonici, 1983
COD Conciliorum (Ecumenicorum Decreta, a cura dell'Istituto per le scienze
religiose, Dehoniane, Bologna 1991 (edizione bilingue).
esco Corpus Scriptorum Christianorum Orientalium, Louvain.
CSEL Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum, Vienne.
CTA Conci/ii Tridentini Acta, Gorresgesellschaft, Herder.
DBS Dictionnaire de la Bible. Supplément, Letouzey, Paris.
DC Documentation Catholique, Paris.
DHGE Dictionnaire d'Histoire et de Géographie Ecclésiastique, Letouzey et Ané,
Paris.
DSp Dictionnaire de Spiritualité (Chantilly), Beauchesne, Pai:is,_
DTC Dictionnaire de Théologie Catholique, Letouzey, Paris.
DzS Denzinger-Schonmetzer, Enchiridion Symbolorum, de/initionum et de-
clamationum de rebus /idei et morum, Dehoniane, Bologna 1995.
EBrit Encyclopaedia Britannica, Edinburgh.
EB Enchiridion Biblicum, EDB, Bologna 1993.
EE Enchiridion delle Encicliche, EDB, Bologna 1994.

ABBREVIAZIONI 5
EOE Enchiridion Oecumenicum, a cura di G. Cereti-S. l Voicu, EDB, Bo-
logna.
EphThL Ephemerides Theologicae Lovanienses, Peeters, Louvain.
EV Enchiridion Vaticanum, EDB, Bologna 1981.
FC G. Dumeinge, La Foi Catholique, Orante, Paris 1969, nuova edizio-
ne 1993.
FZPhTh Freiburger Zeitschri/t fur Theologie und Philosophie.
GCS Die Griechischen Chnstlichen Shriftsteller der ersten (drei) ]ahrhunderte,
Leipzig-Berlin.
HE Histoire Ecclésiastique (Eusèbe et autres historiens anciens).
HThG Handbuch theologischer Grundbegrzffe, hg. von V.H. Fries, 2 vol.,
Miinchen, 1962-63.
IPT Initiation à la Pratique de la Théologie, Cerf, Paris 1982-1983.
JBL ]ournal o/ biblica/ literature, Philadelphia.
JQR ]ewish Quarterly Review, London.
JSJ ]ournal /or the Studie o/ ]udaism, Brill, Leiden.
JTs ]ournal o/ Theological Studies, Oxford.
LThK Lexzkon fur Theologie und Kirche, Herder, Freiburg.
LV Lumière et Vie, .Lyon.
Man si Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, Firenze e Vene-
zia 1759-1798 (ristampa anastatica, Graz 1960-1962).
ME Mystèn'um Ecclesiae, Dichiarazione della Congregazione per la dottrina
della fede, 1973.
MGH Monumenta Germaniae Histon'ca, Berlin.
MThZ Munchener Theologische Zeitschrift.
NBA Nuova Biblioteca Agostiniana, a cura di A. Trapé, Città Nuova, Ro-
ma 1965 ...
NRT Nuovelle Revue Théologique, Casterman, Nemur-Torrnai.
NThZ Neue Theologische Zeitschrift, Vienne.
NTS New Testament Studies, Cambridge.
PF Les Pères dans lafoi, coli. diretta da A.G. Hamman, DDB, Paris.
PhJ Philosophical journal Edinburgh.
PG Patrologia Graeca (J.P. Migne), Paris.
PL Patrologia Latina (J.P. Migne), Paris.
RB Revue Biblique, Gabalda, Jérusalem-Paris.
RCF Revue du clergé français, Letouzey & Ané, Paris.
RDC Revue de Droit Canonique, Strasbourg.
REA Revue des Études Augustiniennes, Paris.
RevSR Revue des Sciences Religieuses, Strasbourg.
RGG Die Religion in Geschichte und Gegenwart, Tllbingen.

6 ABBREVIAZIONI
RHE Revue d'Histoire Ecclésiatique, Louvain.
RHLR Revue d'Histoire et de Littérdture Religieuse, Paris.
RHPR Revue d'Histoire et de Philosophie Religieuse, Str~sbourg.
RICP Revue de l'Institut Catholique de Paris, Paris.
RSR Recherches de Sciences Religieuse, Paris.
RSPT Revue des Sciences Philosophiques et Théologiques, Vrin, Paris.
RTAM Recherches de Théologie Ancienne et Médiévale, Abbaye du Mont-
César, Louvain.
RTL Revue de Théologie de Louvain.
se Sources Chrétiennes, Cerf, Lyon~Paris.
STh San Tommaso d'Aquino, Summa theologiae (tr. it. La Somma teologia,
a cura dei Domenicani italiani, Edizione Studio Domenicano, Bolo-
gna 1984).
TD Textes et Documents, coll. diretta da H. Hemmer e P. Lejay, Picard,
Paris 1904-1912.
ThPh Theologie und Philosophie, Freiburg.
ThQ Theologische Quartalschnft, Tiibingen.
TRE Theologische Realenzyclopedie, W. De Gruyter, Berlin-New York.
TU Texte und Untersuchungen zur Geschichte der altchristlichen Literatur,
Leipzig.
ve Vigiliae Christianae, Leiden.
TZ Theologische Zeitschri/t, F. Reinhardt Verlag, Basel.
WA Weimar Ausgabe (des Oeuvres de Luther).
ZKG Zeitschnft /iir Kirchengeschichte, Stuttgart.
ZKTh Zeitschri/t fiir die katholische Theologie, Herder, Wien.
ZNTW Zeitschri/t /i,jr die neutestamentliche Wissenscha/t, De Gruyter, Berlin.
ZRG Zeitschrzft /iir Religions - und Geistesgeschichte, Brill, Koln

Documenti del concilio Vaticano II

AA Apostolicam Actuositatem, Decreto sull'apostolato dei laici.


AG Ad Gentes, Decreto sull'attività missionaria della Chiesa.
CD Chrìstus Dominus, Decreto sull'ufficio pastorale dei vescovi nella
Chiesa. ·
DH Dignitatis Humanae, Dichiarazione sulla libertà religiosa.
DV Dei Verbum, Costituzione dogmatica sulla Divina Rivelazione.
' GE Gravissimum Educationis, Dichiarazione sull'educazione cristiana.
GS Gaudium et Spes, Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo con-
temporaneo.

ABBREVIAZIONI 7
IM Inter Mirifica, Decreto sugli strumenti della comunicazione sociale.
LG Lumen Gentium, Costituzione dogmatica sulla Chiesa.
NA Nostra aetate, Dichiarazione sulle relazioni con le religioni non cri-
stiane.
OE Orientalium Ecclesiarum, Decreto sulle chiese orientali cattoliche.
OT Optatam Totius, Decreto sulla formazione sacerdotale.
PC Perfectae Caritatis, Decreto sul rinnovamento della vita religiosa.
PO Presbyterorum Ordinis, Decreto sul ministero e la vita dei presbiteri.
SC Sacrosanctum Concilium, Costituzione sulla sacra liturgia.
UR Unitatis Redintegratio, Decreto sull'ecumenismo.

8 ABBREVIAZIONI
Presentazione
Bernard Sesboué

I primi tre tomi di quest'opera hanno complessivamente abbracciato il


contenuto della storia dei dogmi. Per il suo completamento vorremmo ora
mettere a fuoco gli elementi dogmatici della teologia fondamentale, vale a
dire quanto concerne la legittimità e la forma del discorso della fede. Nei
tempi moderni sono state poste di fatto alcune questioni del tutto nuove,
in qualche modo preliminari all'esposizione classica della fede. A livello
storico, il centro di gravità di questo volume si situa tra il XVI e il xx seco-
lo. Bisognerà, è chiaro, riprendere più a monte, nella Chiesa dei Padri e
del Medioevo, le prime avvisaglie di queste questioni. Dovremo ritornare,
con una sorta di inclusione, sui presupposti del discorso cristiano della
fede, semplicemente accennato all'inizio del I tomo.
Nei tempi moderni sono soprattutto due i grandi temi all'ordine del
giorno: da una parte quello della giustificazione della fede di fronte alla
ragione e alla storia e, dall'altra, quello della metodologia specifica del
discorso della fede. Formalmente, i due problemi sono differenti, anche
se concretamente restano tra loro sempre collegati. Fin dai tempi antichi,
la necessità di giustificare la fede di fronte a quelli di fuori (ma anche a
quelli di dentro), ha condotto a formalizzare la metodologia stessa della
fede, a esporne i fondamenti e a strutturarne le argomentazioni. È in un
contesto polemico, ad esempio, che da Ireneo fino alla Riforma e all'epo-
ca contemporanea, è stata affrontata e trattata la difficile questione del
rapporto tra Scrittura e Tradizione.
Questi due grandi temi riposano sull'articolazione di sei o sette concet-
ti fondamentali, rimasti tra loro solidali attraverso la storia: conoscenza di
Dio, parola di Dio, rivelazione, fede, Tradizione, Scrittura e magistero.
Tutti questi concetti non si sono sviluppati in modo tra loro indipenden-
te; delimitano infatti uno spazio semantico nel quale lo spostamento del-
l'uno provoca lo spostamento di tutti gli altri.

PRESENTAZIONE 9
Fin dalle origini, il cristianesimo ha dovuto difendersi e giustificarsi,
e questa fu il compito svolto specialmente da quegli scrittori chiamati
Apologisti. Nel corso del tempo, il dibattito tra la fede e la ragione è
andato facendosi via via più serrato. Con la scolastica medievale, la teo-
logia ha conosciuto la prima emergenza di una pretesa «scientifica», nel
senso che questo termine aveva all'epoca. Fu solo però nei tempi mo-
derni che le questioni «fondamentali» si sono fatte più pressanti, al pun-
to da dominare largamente nella riflessione teologica. Questo a causa
anzitutto delle contestazioni mosse dalla Riforma al ruolo della Scrittura
e, di riflesso, alla messa in causa della Tradizione; in secondo luogo in
conseguenza delle istanze della filosofia dei Lumi, la quale proponeva
una rilettura dei dati cristiani «nei limiti della semplice ragione»; infine,
dopo il xrx secolo, a partire dalle scoperte fatte nell'ambito storico. A
motivo della distanza temporale che lo separa dagli avvenimenti fonda-
tori, il credente non si trova più in una continuità immediata con una
storia concreta (la cui memoria viceversa i suoi predecèssori ricevevano
spontaneamente: per essi la prossimità dei fatti non lasciava spazio al
dubbio). Oramai, è attraverso la mediazione di una ricerca storica dalle
pretese scientifiche e che si instaura spesso come giudice rivale della
fede, che l' «essenza» del cristianesimo veniva proposta. Allo stesso
modo, non poteva non venire posta la difficile questione dello sviluppo
del dogma.
Se dunqiie i tre tomi precedenti hanno trattato della storia del conte-
nuto dei grandi dogmi cristiani, questo quarto presenterà quella del ter-
mine stesso di dogma e dell'insieme del vocabolario dogmatico. Vedremo
come questo termine muterà sensibilmente di senso, ad esempio, tra il suo
uso patristico e quello del concilio Vaticano I, che ne fornirà anche una
precisa definizione.
Secondo l'opzione fondamentale abbracciata per l'insieme di que-
st'opera, il movimento storico del pensiero e l'articolazione tematica dei
contenuti saranno trattati di pari passo e presentati in quattro grandi fasi.

Dalle origini' al concilio di Trento


Questa prima fase presenterà una ricapitolazione dei dati più antichi
dell'epoca patristica e del Medioevo per quello che riguarda da una
parte l'apologia della fede di fronte a quelli di fuori o agli eretici, e dal-
l'altra la metodologia del nascente discorso cristiano, che va assumendo
le sue connotazioni dottrinali e istituzionali. Senza dubbio, durante que-
sto lungo periodo, le cose sono state più <<Vissute» che «pensate», tutta-
via sono state fatte delle scelte fondamentali che costituiranno giurispni-

10 PRESENTAZIONE
denza per il tempo succesivo e rimarranno come legittime referenze.
Questa fase si arresterà alle soglie del concilio di Trento, che costituisce
un preciso spartiacque tra un prima e un dopo (capp. I e II).

Da Trento al Vaticano I
È proprio a Trento che si vede emergere per la prima volta il concetto
di dottrina «fondamentale». Questa presa di coscienza entra già nell'ope-
ra dottrinale del concilio con i suoi decreti sulla recezione del Simbolo, e
anche delle Scritture e delle tradizioni. D'altra parte, lo spazio semantico
dei concetti dogmatici utilizzati a Trento costituisce un punto di riferi-
mento essenziale per cogliere la svolta tra il Medioevo - del quale il con-
cilio resta per molti aspetti l'erede - e i tempi moderni, che esso per altri
aspetti annuncia. Questo concilio è infatti anche un punto di partenza: la
svolta compiuta a Trento apre una nuova età della teologia, teologia «tri-
dentina» per eccellenza, ma anche teologia che si confronta con le do-
a
mande filosofiche del secolo dei Lumi e che si sente obbligata mettere
in atto una nuova apologetica.
Il periodo dei tempi moderni è anche quello dell'emergenza del ter-
mine «magistero» nel senso moderno, che corrisponde a un funziona-
mento nuovo dell'autorità dottrinale nella Chiesa. Tra il cohcilio di
Trento e il concilio Vaticano I non viene convocata nessun'altra a_ssem-
blea conciliare. La funzione magisteriale è stata assicurata dal papa.
Nello stesso tempo, nel lavoro della teologia, la referenza al magistero si
fa sempre più grande. Questa evoluzione è contemporanea alle conte-
stazioni venute dalla cultura di fronte alle determinazioni dogmatiche
autoritarie. Il concetto di «magistero ·vivente» è, dall'inizio del XIX seco-
lo, sempre·più frequentemente utilizzato, fino a divenire dominante. Si
assiste allora a una sorta di duplicazione del principio dell'autorità ec-
clesiale (capp. III e IV).

Dal Vaticano I agli anni '50


Questa fase può apparire molto breve rispetto alle precedenti, ma pos-
siede una grande unità ed è dominata dalla celebrazione del concilio Va-
ticano I nel 1869-1870. Le grandi Costituzioni di questo concilio operano
una notevole dogmatizzazione dei principali temi dibattuti in teologia fon-
damentale nel tempo intercorso tra Trento e la fine del XVIII secolo.
L'enunciato dei capitoli della Costituzione Dei Filius rappresenta tutto un
programma di riflessione sui «fondamenti» della fede: Dio e la creazione,
la rivelazione,· la fede, il rapporto tra fede e ragione.

PRESENTAZIONE 11
La Costituzione Pastor aeternus, la cui dimensione propriamente eccle-
siologica è già stata studiata 1 , comporta la definizione dell'infallibilità pon-
tificia, avvenimento considerevole per il funzionamento dell'istituzione
ecclesiale, che ha contribuito a dare un posto sempre più grande nella
riflessione della fede all'esercizio del «magistero vivente», in particolare
pontificio. Questa definizione sarà anche interpretata come l'atto che san-
civa l'inutilità di qualsiasi altro futuro concilio nella Chiesa cattolica. L'im-
portanza di questo punto sotto il profilo della metodologia teologica, ha
spinto a riservare la sua trattazione a questo tomo, benchè esso sia di per
sè un problema ecclesiale, essendo l'insieme del popolo cristiano il primo
luogo di questa infallibilità.
Questo concilio - come del resto tutti i precedenti - non risolverà tutti
i problemi allora in discussione, e in particolare quella nuova forma di
contestazione della fede che non viene più dalla ragione, bensì dalla sto-
ria, allorchè questa disciplina comincia ad acquisire, e in ogni caso ad
aspirare di avere, un livello propriamente scientifico. Esso non potrà in
particolare evitare, nel momento della crisi modernista, il riemergere del-
la questione biblica e dell'interrogativo sul dogma, il cui centro di gravità
si situa proprio a livello del rapporto tra la storia e la fede (capp. V-XI).

Il concilio Vaticano II e il post-concilio


Una considerevole evoluzione della situazione della Chiesa e del
mondo ha segnato il xx secolo, attraverso le prove delle due guerre mon-
diali. Il concilio Vaticano II ne ha preso atto e ha avviato una nuova
svolta nella vita dottrinale della Chiesa: svolta nel suo rapporto col mondo,
nella sua conversione all'ecumenismo (coi suoi evidenti risvolti dottrina-
li), nella riconsiderazione delle questioni dogmatiche conflittuali, e in una
nuova libertà di fronte alla teologia post-tridentina. Uno dei documenti
principali di questo concilio - la costituzione dogmatica Dei Verbum sul-
la rivelazione divina - ha stretta relazione con la dottrina fondamentale.
Dovremo però anche sostare sui decreti riguardanti il rapporto tra la
Chiesa e «quelli di fuori»: i decreti sull'ecumenismo, sulla libertà reli-
giosa e le religioni non cristiane. Dopo il Vaticano II, la storia dei dogmi
continua: non potremo fare però se non brevemente il punto su alcune
prese di posizione più recenti e appartenenti all'ambito della dottrina
fondamentale (capp. XII-XV).
I tre concili dei tempi moderni forniscono dunque le articolazioni por-
tanti di questo tomo, anche se essi non possono essere correttamente in-

1 Cfr. t. III, pp. 437-444.

12 PRESENTAZIONE
terpretati senza evocare alcune elaborazioni teologiche che li hanno pre-
parati, accompagnati e seguiti. Per questo quest'ultimo volume della Sto-
ria dei dogmi, che non ha alcuna pretesa di costituire una storia della teo-
logia, deve mostrare il filo conduttore dell'immensa riflessione dottrinale
ripresa di secolo in secolo e che ha condotto il discorso cristiano dalle sue
origini fino alla nostra attualità.

Al termine di quest'opera sento il dovere di ringraziare una volta an-


còra Pierre Vallin, per le sue pazienti e fedeli riletture dei capitoli di
questo tomo e per i suggerimenti e le correzioni sempre opportune che
ha proposto agli autori. Ringrazio ugualmente Philippe Lécrivain, auto-
re de «la via dell'etica» del II tomo, per le sue riflessioni e i suoi consigli
concernenti il capitolo consacrato al Medioevo.

PRESENTAZIONE 13
FASE PRIMA

DALLE ORIGINI AL CONCILIO


DI TRENTO
Apologia della fede
e metodo del discorso dogmatico
Bernard Sesboué
Capitolo Primo

Apologia della fede e discorso cristiano


nell'epoca patristica

Quando il discorso cristiano nasce, tutte le funzioni chiamate a svilup-


parsi e a specializzarsi nel corso dei secoli sono presenti come nel cuore di
una cellula germinale. Si tratta, per i primi responsabili della Chiesa e per
i teologi, di annunciare la fede e di difenderla di fronte a due principali
gruppi religiosi presenti nell'Impero: i Giudei e i pagani. Con i primi il
dibattito è propriamente religioso, poiché si tratta dell'interpretazione del
ruolo e dell'identità di Gesù di Nazareth nella lunga storia della salvezza,
che affonda la sua origine nelle Alleanze con Abramo e con Mosè. ·
Con i secondi il dibattito è insieme religioso e politico, infatti le accuse
contro i cristiani non vertono soltanto sul loro rapporto con la ragione,
ma, poiché non adorano gli dei della città, il cui culto è il fondamento
della società politica pagan!}, comportano anche il rimprovero di essere
dei «nemici del genere umano», degli atei e degli empi. I cristiani si trova-
no per questo periodicamente minacciati di eliminazione fisica. Questi
conflitti e queste minacce rappresentano un grave pericolo per la vita delle
giovani Chiese, dove l'annuncio kerigmatico e missionario e l'istruzione
delle comunità vanno di pari passo con la difesa e la giustificazione della
fede. È questa dunque la matrice del primo discorso cristiano.
Questo primo discorso deve però fare ben presto spazio anche alle
deviazioni dottrinali che si esprimono all'interno delle Chiese stesse e che
mettono in causa l'autenticità e l'unanimità della fede. Qui ci troviamo di
fronte alla dialettica della mutua determinazione tra l'eresia e l'ortodos-
sia. La nascita dell'una è la nascita dell'altra. In una certa misura è l'errore
dottrinale che ha comportato il concetto di ortodossia. E d'altra parte l'im-
pegno di conservate inviolato il deposito ricevuto dagli apostoli ha con- ·
dotto a formulare il concetto di eresia.
È in mezzo a questi dibattiti e a questi conflitti con gli avversari di fuo-
ri e di dentro che i dati metodologici vengono progressivamente messi a

I - APOLOGIA DELLA FEDE E DISCORSO CRISTIANO NELL'EPOCA PATRISTICA 17


punto, in modo da permettere una fondata esposizione della fede e una
corrispondente riflessione dottrinale. Una concreta dialettica ha in qual-
che modo ribaltato un ordine astrattamente più logico, che vorrebbe che
l'elaborazione della metodologia preceda l'esercizio dell'apologia e della
giustificazione. La storia ci mostra che le cose si sono svolte secondo un
procedimento inverso.
Dobbiamo pertanto ritornare su certi dati già abbozzati all'inizio del
I tomo di quest'opera, anche se da un punto di vista differente 1 • Abbia-
mo già registrato le differenti forme del discorso polemico contro i Giu-
dei, contri i pagani e gli eretici. Si tratta ora di descrivere l'emergenza
del discorso cristiano e della regola di fede che, a partire dalle Scritture
e dalla Tradizione, conduce alla costituzione dei differenti Simboli della
Chiesa e si trova all'origine del dogma. Si tratta oramai, secondo il pun-
to di· vista della teologia fondamentale, di rendere conto della natura e
della forma dell'apologia della fede cristiana e di mostrare come la me-
todologia della sua esposizione dottrinale si è costituita a partire da
questa apologia 2 •
Questo insieme di elementi da prendere in considerazione comande-
rà la struttura stessa di questo capitolo. La prima sezione tratterà del
discorso apologetico secondo le differenti forme che questo ha assunto
prima e dopo il concilio di Nicea. Una seconda sezione affronterà la
metodologia del discorso della fede dalle sue prime attestazioni fino alla
riflessione più elaborata dei secoli IV e V, nel quadro dei grandi conflitti
dottrinali intorno alla Trinità e alla cristologia. Una terza sezione infine
si soffermerà sull'autorità dogmatica dei concili ecumenici - grande
novità della Chiesa costantiniana - che prende un posto decisivo nello
sviluppo del discorso della fede. Non sarà però inutile mostrate anzitut-
to come i differenti aspètti del discorso cristiano e del suo funzionamen-
to si radicano nella testimonianza del Nuovo Testamento sull'insegna-
mento e la regolazione della fede.

La testimonianza del Nuovo Testamento


Nel Nuovo Testamento incontriamo sostanzialmente due termini per
esprimere la parola della fede: proclamare (kerusso) e insegnare (didasko,
didaskalia, didache). Questi termini sono usati a proposito di Gesù e dei
suoi discepoli. Gesù è il maestro (didaskalos) per eccellenza (Girolamo
tradurrà con magister). I discepoli non si fanno chiamare R.abbi, ma co-

1 Cfr. t. I, pp. 36-48.


2 I punti già trattati saranno indicati dai relativi rinvii.

18 BERNARD SESBOÙÉ
munque insegnano a loro volta: Paolo è messaggero e dottore (didaskalos)
delle nazioni. Allo stesso modo, nelle denominazioni attribuite ai ministe-
ri nel Nuovo Testamento, l'aspetto dell'insegnamento è molto sottolinea-
to: apostolo, profeta, dottore, evangelista.
Negli ultimi scritti del Nuovo Testamento si vede nascere la preoccu-
pazione di una «ortodossia»: di fronte agli errori dottrinali insorgenti,
bisogna conservare l'autenticità della fede. Ci sono infatti alcuni che inse-
gnano «dottrine diverse» (heterodidaskaloi, 1 T m 1, 3; 6, 3), o «falsi mae-
stri» (pseudodiskaloi, 2 Pt 2, 1), o «falsi profeti» (1 Gv 4, 1). Ci sono delle
«Sette», delle «fazioni», in greco haireseis, termine che evolverà e assume-
rà il significato di eresia.
I ministri della Chiesa esercitano dunque una missione di vigilanza o
di sorveglianza (episkopè ed episkopos) che ha per scopo mantenere la
comunità nell'unità della fede e della carità, conservandola nella «sana
dottrina» (1Tm1, 10; 2 Tm 4, 3) o nella «sana fede» (cfr. Tt 1, 13). Que-
sta vigilanza si esercita per la conservazione del «deposito» (paratheke, cfr.
1 Tm 6, 20), trasmesso dopo l'evento fondatore.
Abbiamo qui l'esercizio nascente delle funzioni che si attribuiranno più
tardi al «magistero»: lannuncio pastorale della Parola nel nome di Cristo
e la regolazione di questo annuncio, con la verifica della sua autenticità.
Questo secondo compito, implicito quando tutto va bene, si amplifica nei
tempi di crisi e di difficoltà. Fu il caso, ad esempio, di quello che si è soliti
chiamare il «concilio di Gerusalemme» (At 15), il quale prese una deci-
sione impegnativa per l'avvenire della Chiesa: le osservanze giudaiche non
dovevano venire imposte ai_ cristiani provenienti dal mondo pagano. Si
comprende perché questa assemblea fu interpretata successivamente come
il prototipo dei futuri concili.

!. L'APOLOGIA DELLA FEDE

Siate «pronti sempre a rispondere (pros apologian, a fare l'apologia) a


chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo
sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza» (1 Pt 3, 15-16).
Questo testo scritturistico indica in breve quello che sarà il compito del-
1'apologetica -cristiana nel corso dei secoli. Senza dubbio la «dolcezza» e il
«rispetto» non saranno sempre salvaguardati nei periodi in cui la frontie-
ra tra il dibattito, la controversia e la polemica era più virtuale che reale.
I nostri contemporanei sono facilmente scandalizzati davanti alla virulen-
za di certi linguaggi ed hanno insieme ragione e torto: ragione quando lo

I - APOLOGIA DELLA FEDE E DISCORSO CRISTIANO NELL'EPOCA PATRISTICA 19


spirito evangelico, che dovrebbe animare ogni dibattito, sembra davvero
assente; torto quando prendono troppo alla lettera alcune espressioni che
vanno invece inscritte in un ben determinato codice culturale, condiviso
da tutti gli autori di allora, e ben differente dal nostro.

1. La giustificazione della fede nei secoli II e III

I primi avversari del cristianesimo nascente furono anzitutto i Giudei e


i pagani, le due grandi famiglie religiose del mondo mediterraneo dell' epo-
ca. I cristiani erano chianiati una «terza razza» (triton genos, per Aristide
di Atene, tertium genus per Tertulliano}), vale a dire: qualcosa di inclassi-
ficabile nell'universo religioso.

L'apologia scritturistica della fede davanti ai Giudei


Gli autori e i testi: GIUSTINO, Dialogo con Trifone, a cura di G. Visonà, Paoline, Milano
1988; TERTULLIANO, Contro i Giudei, in: Opere scelte, a cura di C. Moreschini, Utet, Torino
1974, pp. 233-287.
Indicazioni bibliografiche: A.B. HULEN, The Dialogues with the Jews as Sources for Early
Jewish Argument against Christianity,JBL, 51 (1932), pp. 58-70; P. PruGENT,]ustin et /'Ancien
Testament. L'argumentation scripturairi! du Traité de ]ustin contre toutes !es hérésies camme
source principale du Dialogue avec Tryphon et de la première Apologie, Gabalda, Paris 1960;
W.A. SHOTWELL, The biblica/Exegesis o/ ]ustin Martyr, S.P.C.K., London 1965; M. SIMON,
Verus lsrael. Études sur /es relations entre chrétiens et ]uzfs dans /'empire romain (135-425), De
Boccard, Paris 1964'; M. SIMON - A. BENOIT, Le ]udaisme et le christianisme antique, PUF,
Paris 1968; G. ()ruNm, Esegesi biblica e storia in Giustino (Dt'al. 63-84), Istit. di lett. crist.
antica, Bari 1979; S. KRAUSS, The ]ews in the Works o/ the Church Fathers, I-III,JQR, 5 (1982-
1983), pp. 122-157; M. FIIDou, La vision de la croix dans /'oeuvre de saint ]ustin, <<Philosophe
et martyr», in «Recherches Augustiniennes», 19 (1984), pp. 29-110; ].C. FREDOUILLE, Bible et
apologétique, in: J. FONTAINE - C. PIÉTRI, Le monde latin antique et la bible, Beauchesne, Paris
1985, pp. 479-497; O. SKARSAUNE, The Proo//rom Prophecy. A Study in ]ustin Martyr's Proof
Text Tradition: Text-Type, Provenence, Theological Pro/ile, Brill, Leiden 1987; E. FERGUSON,
]ustin Martyr on ]ews, Christzans and the Covenant, in: Early Christianity in Context. Monu-
ments and Documents, a cura di F. Manns - E. Alliata, Franciscain Printing Press, Jerusalem
1993, pp. 395-405.

Il dialogo tra i cristiani e i Giudei è rimasto vivo per tutto il II secolo.


Sfortunatamente, a noi è pervenuta una sola opera, il Dialogo con Trifo-
ne di Giustino\ che è testimone insieme di relazioni polemiche e bene-
volenti tra cristiani e giudei liberali. Si conosce l'esistenza di un rabbi

3 TERTULLIANO, Contro le nazioni, I, 8, 1, a cura di].G.Ph. Borleffs (CCSL 1). Brepols, Turnholti 1954,
p. 22.
4 Cfr. t. I, pp. 37-38.

20 BERNARD SESBOÙÉ
Tarfone che insegnava a Lidda «il più celebre israelita dell'epoca», al
dire di Eusebio.
I cristiani hanno sempre rivendicato le Scritture dell'Antico Testamen-
to come bene loro proprio, loro eredità e hanno inteso esserle fedeli. I
Giudei però, prendendo parola su questo punto, hanno accusato i cristia-
ni di radicale infedeltà alla Legge di Mosè. «È invano, dicono in sostanza
ai cristiani, che voi attendete la salvezza da Dio, poiché non osservate i
comandamenti dati a Mosè. La vostra fede è vana, perché i Profeti hanno
annunciato un Messia glorioso e non un Messia sofferente. Voi riponete
la vostra speranza in un uomo e, ciò che è peggio, in un uomo vergogno-
samente giustiziato in nome della Legge». Queste accuse colpivano i cri-
stiani di origine giudaica in un punto nevralgico. La contestazione este-
riore si interiorizza sempre e così, nel momento in cui la giovane Chiesa
deve separarsi sempre più dalle comunità giudaiche, per affermare la sua
originalità, il conflitto si esaspera.
Davanti a queste accuse, Giustino intende elaborare un discorso che
giustifichi la fede cristiana a partire dalle Scritture, cioè in forza dell' An-
tico Testamento, che si presenta come il denominatore comune tra i dia-
loganti. L'argomentazione sarà deliberatamente profetica, e cercherà di
mostrare che l'insieme delle profezie traccia in anticipo le caratteristiche
proprie dell'evento di Gesù di Nazareth: nessun altro personaggio biblico
le ha inverate. Giustino resta ben cosciente che gli annunci profetici sono
oscuri e che non potevano essere compresi prima dell'evento e dell'inse-
gnamento di Gesù. Essi conservano tuttavia tutto il loro valore dimostra-
tivo: una volta che l'evento. si è compiuto, allora si comprende che esso
«era opera della potenza e della volontà del creatore di tutte le cose»'.
Giustino deve anzitutto rispondere ali' obiezione di infedeltà alla Legge
di Mosè da parte dei cristiani. Per far questo, avvia il discorso sul rappor-
to tra le due Alleanze, rilevando che è lo stesso Dio di Abramo, di Isacco
e di Giacobbe che ha annunciato una alleanza più perfetta (cfr. Is 51, 4-5;
55, 3-5; Ger 31, 31-32). Questa nuova alleanza, eterna e definitiva, desti-
nata a tutte le nazioni, «abroga» la prima nello stesso momento in cui la
compie, poiché l'antica conserva tutta la sua interiorità spirituale. ;Essa
spiega pertanto il carattere provvisorio e caduco della bontà delle istitu-
zioni mosaiche, imposte ai Giudei a causa della loro durezza di cuore e
poste in un orizzonte pedagogico orientato all'attesa del Messia 6 •
Giustino intende oramai provare che Gesù di Nazareth è proprio quel-
lo che confessano f cristiani: da una parte il Cristo e il Messia annunciato,

' GIUSTINO, Dialogo con Trifone, 84, 2, a cura di G. Visonà, Paoline, Milano 1988, p. 269.
6 Cfr. ibid., pp. '10·29.

I - APOLOGIA DELLA FEDE E DISCORSO CRISTIANO NELL'EPOCA PATRISTICA 21


dall'altra il Figlio di Dio e Dio stesso. Egli è anche consapevole che, per il
suo interlocutore, c'è un abisso tra la pdma e la seconda affermazione;
perché se i Giudei attendono in effetti un Messia, essi non possono rico-
noscere che Dio abbia un Figlio, perché questo comprometterebbe il
monoteismo. Giustino intende dunque garantire il risultato della dimo-
strazione messianica, nel caso in cui Trifone rifiutasse quella della divinità
e della preesistenzà del Cristo 7 •
Due momenti principali dell'esistenza di Gesù, che rinviano a due
gruppi di profezie, sono pertanto utilizzate da Giustino: quello della sua
nascita verginale e della sua infanzia, e quello della sua passione e risurre-
zione. L'argomentazione sulla nascita verginale di Gesù, annunciata dai
profeti (in particolare Is 7), occupa dei lunghi capitoli e attira a sé altri
testi che consentono a Giustino di «dedurre>> in qualche modo dall' Anti-
co Testamento i racconti evangelici dell'infanzia di Gesù, l'adorazione dei
magi e l'eccidio degli innocenti. Giustino mantiene l'affermazione della
nascita verginale contro tutte le derisioni dei Giudei o dei pagani 8 •
Ciò che concerne la passione di Gesù, costituisce I' oggetto di un'altra
obiezione di Trifone. Oltre al carattere ignominioso di una morte in cro-
ce, che non si potrebbe presentare come un evento di salvezza, Trifone
sottolinea che le Scritture annunciano un Messia glorioso e non sofferen-
te. La risposta di Giustino consiste.nell'operare un discernimento nelle
Scritture. Queste annunciano infatti due «venute» (parusie) del Cristo, la
prima nella forma di un Messia sofferente, e la seconda in quella di un
Messia glorioso, che i cristiani attendono ancora. Egli mette allora in ri-
salto i canti del Servo sofferente (in particolare Is 53) e i Salmi che evoca-
no la passione del giusto (Sal 21) come altrettante profezie della croce. La
risurrezione gloriosa di Gesù, anch'essa annunciata dalle Scritture, è una
anticipazione della seconda parusia (cfr. Dn 7).
La seconda dimostrazione, concernente la preesistenza e la divinità di
Gesù, viene fondata sulle teofanie dell'Antico Testamento che attestano
che non è un «altro Dio», ma un «Dio altro» colui che si manifesta e si
rivolge ai patriarchi 9 • La Scrittura diviene cosl materiale per la dimostra-
zione dèlla fede 10 • All'inizio del .III secolo Tertulliano si ispirerà all'opera
di Giustino per il suo trattato Contro i Giudei 11 • •

1 Cfr. ibid., p. 54.


s Cfr. ibid., p. 67.
9 Cfr. t. I, pp. 140-141.
10 Cfr. t. I, pp. 126-127.
11 Inutile insistere sull'attualità di questo dibattito sulle Scritture. Il dialogo tra Giudei e cristiani ri-
trova il medesimo terreno. I Giudei, come una volta Trifone, ritengono intollerabile che i cristiani si ap-
proprino delle loro Scritture pretendendo che queste abbiano un senso profetico, vale a dire non siano
sufficienti in se stessse e che abbiano bisogno del Cristo per trovare la loro pienezza. D'altra parte, chie·

22 BERNARD SESBOÙÉ
L'apologia razionale della fede davanti ai pagani
Gli autori e i testi: A Diogneto, in: I Padri Apostolici, a cura di A. Quacquarelli (CTP 5),
Città Nuova, Roma, pp. 347-363; ARNomo, Adverrus nationes libri septem, a cura di C. Mar-
chesi, Paravia, Torino 1953'; ATENAGORA, Supplica per i cristiani, in: Gli Apolegeti Greci, a cura
di C. Burini (CTP 59), Città Nuova, Roma 1986, pp. 249-305; ID., La risurrezione dei morti, in:
Gli Apolegeti Greci, a cura di C. Burini (CTP 59), Città Nuova, Roma 1986, pp. 307-346;
CLEMENTE ALESSANDRJNO, Il Protrettico, a cura di M.G. Bianco, UTET, Torino 1971, pp. 69-
190; CIPRJANO, A Demetriano, in: Opere, a cura di G. Toso, UTET, Torino 1980, pp. 245-267;
GIUSTINO, Apologie, in: Gli Apolegeti Greci, a cura di C. Burini (CTP 59), Città Nuova, Roma
1986, pp. 83-167; MINUCIO FELICE, Octavius, a cura di M. Pellegrino, Paravia, Torino 1963';
0RJGENE, Contro Celso, a cura di A. Colonna, UTET, Torino 1971; TAZIANO, Discorso aiG~eci,
in: Gli Apolegeti Greci, a cura di C. Burini (CTP 59), Città Nuova, Roma 1986, pp. 183-231;
TERTULLIANO, Apologetico, a cura di A. Resta Barrile, Mondadori, Milano 1994; ID. Contro le
nazioni, a cura diJ.G.Ph. Borleffs (CCSL 1), Brepols, Turnholti 1954, pp. 9-75; ID., Il primo
libro Ad nationes, ed. fr. a cura di A. Schneider, lnst. Suisse di Roma, Neuchatel 1968; ID., La
testimonianza dell'anima, a cura di J.G.Ph. Borleffs .(CCSL 1), Brepols, Turnholti 1954, pp.
173-183; TEOFILO DI ANTIOCHIA, AdAutolico, in: GliApolegeti Greci, a cura di C. Burini (CTP
59), Città Nuova, Roma 1986, pp. 363-462.
Indicazioni bibliografiche: A PUECH, Les apologirtes grecs du If siècle de notre ère, Hachet-
te, Paris 1912; M. PELLEGRJNO, Studi sull'antica apologetica, Anonima Veritas edit., Roma 1947;
J.C.M. VAN WINDEN, Le chrirtianisme et la philosophie. Le commencement du dialogue entre la
foi et la raison, in: Kyriakon. Festschr1ft Johannes Quasten, Aschendorff, Miinster 1970; ].C.
FREDOUILLE, Tertullien et la conversion de la culture antique, Études august., Paris 1972; R.
]oLY, Christianisme et philosophie. Études sur Justin et !es apologistes grecs du deuxième siècle,
Univ. libre, Bruxelles 1973; R.M. GRANT, Greek Apologists of the Second Century, SCM Press,
London 1988; M. Ftmou, Christianirme et religions pai'ennes dans le «Contre Celre» d'Ongène,
Beauchesne, Paris 1988; M. RIZZI, Ideologia e retorica negli «exordia» apologetici. Il problema
dell'altro (II-III ree.), Vita e Pensiero, Milano 1993.

Il discorso ai Giudei terminava con una esortazione alla conversione al


cristianesimo. La Chiesa vuole riconciliare con sé il popolo eletto, porta-
tore della «storia della salvezza», della sua propria storia. I cristiani devo-
no però anche volgersi, conformemente alla loro vocazione universale,
verso i pagani. La Chiesa si fa premura di evangelizzarli, poiché essi sono
il suo avvenire. Nell'immediato i pagani rappresentano la minaccia supre-
ma, in parte motivata da una contestazione radicale proveniente dalla
coscienza ellenistica. I pagani si sentono i portatori della saggezza filoso-
fica, quella della ragione, frutto di un lavoro millenario dei filosofi greci e
latini. Questa razionalità, che demitologizza le storie degli dei, trova i rac-
conti cristiani sul Cristo - in particolare la nascita verginale - grossolana-
mente mitologici. La morte di Gesù in croce è follia agli occhi dei greci,

dono con insistenza che i cristiani riconoscano che essi godono sempre del beneficio della.Legge mosaica
e che dunque non c'è motivo di annunciare loro Gesù Cristo. La formula di Giovanni Paolo II: «L'Antica
Alleanza non è mai stata revocata» ha provocato tutto un dibattito attorno alla sua interpretazione (cfr.
DC, 77 [1980), p. 1148; DC, 78 [1981), p. 427).

I - APOLOGIA DELLA FEDE E DISCORSO CRISTIANO NELL'EPOCA PATRISTICA 23


diceva già Paolo (1Cor1, 23); quanto alla risurrezione dei morti, si sa ciò
che ne pensava l'Areopago di Atene (At 17, 32).
Su questo terreno, il richiamo alle Scritture non è più efficace, o perlo-
meno non è più sufficiente. Il discorso cristiano deve farsi riconoscere
come un messaggio razionale. Gli tocca perciò denunciare le accuse in-
giuriose e calunniatrici sul cristianesimo (l'eucaristia assimilata a un sacri-
ficio di bambini, immoralità, ecc.) e mostrare che la razionalità del cristia-
nesimo è non solo comparabile con quella delle religioni pagane, ma an-
che la oltrepassa.
L'apologia della fede cristiana nei confronti della ragione pagana è sta-
ta oggetto di una vasta letteratura nel corso del II e del III secolo, tanto in
Oriente quanto in Occidente; fino alla conversione dell'Impero al cristia-
nesimo. L'iniziativa doveva venire pazientemente ripresa di decennio in
decennio. Nel quadro di questa Storia dei dogmi, sono possibili solo alcu-
ni accenni 12 •
Queste opere si distinguono per il modo con cui considerano l' «altro»,
cioè il pagano. Il rapporto instaurato tra l'apologeta e i suoi destinatari
può andare dalla cortesia quanto mai benevolente alla più violenta diatri-
ba. L'alterità tra cristianesimo e paganesimo è percepita comunque da
entrambe le parti come radicale. Su quale base pertanto e secondo quale
strategia comunicare? Se questo resta un compito imprescrittibile per il
cristiano, gli esordi degli apologeti sono animati da questa doppio inter-
rogativo, sul punto di partenza del dibattito e sulla natura. dell' «altro» 13 •
1. Giustino, Atenagora e Tertulliano, nel suo Apologetico, si indirizza-
no ad autorità costituite come a dei giudici, e fanno appello alla giustizia
che essi devono rendere. Perché è ingiusto condannare i cristiani sotto
pretesto del loro nome. La giustizia deve essere al servizio della verità e
costituire con essa le basi del dialogo riconosciute da tutti. Su questo fon-
damento, i differenti temi retorici si sviluppano fino ali' appello del giudi-
zio dell' «altro» al giudizio di Dio.
È così che Giustino si rivolge con grande solennità agli imperatori, al
Senato e a tutto il popolo romano, davanti ai quali egli si erge come un
rappresentante degli uomini vittime della persecuzione, il portaparola e il
difensore dei suoi fratelli 14 • Con sottile abilità però egli si presenta anche
come un filosofo che si indirizza a dei filosofi e che vuole argomentare
con loro a livello razionale, sul fondamento comune di questo denomina-

12Cfr. t. I, pp. 37·39.


13Per la tipologia della letteratura apologetica, mi ispiro a: M. Rizzi, Ideologia e retorica negli «exor-
dia» apologetici. Il problema dell'altro (rr-III sec), Vita e Pensiero, Milano 1993.
14 Cfr. GIUSTINO, Prima Apologia, 1, in: Gli Apolegeti Greci, a cura di C. Burini (CTP 59), Città Nuo·
va, Roma 1986, p. 83.

24 BERNARD SESBOOÉ
tore comune che unisce i dialoganti. Il richiamo alla verità resterà lungo il
discorso in primo piano.
Su questa base, Giustino si difenqe anzitutto presentando il contenuto
del Credo tripartito nel modo più «ragionevole» possibile: i cristiani ado-
rano un Dio unico, come insegnano gli stessi filosofi. Adorano il Cristo,
ma non come un uomo ordinario, perché si tratta del Verbo (Logos) nato
da una Vergine e da Dio. Ora, i filosofi conoscono anch'essi il Logos e
raccontano parimenti storie di nascita che mettono in causa un dio (Per-
seo nato da Zeus e dalla vergine Danae). I dogmi cristiani non sono dun-
que né empi né ridicoli. Infine i cristiani adorano lo Spirito profetico, cosa.
questa che dà a Giustino l'occasione di riprendere davanti ai pagani alcu-
ni argomenti della sua argomentazione profetica. Giustino intende dun-
que mostrare l'accordo tra filosofia e cristianesimo, che è per lui la vera
filosofia, scoperta dopo un doloroso periplo attraverso le differenti scuo-
le. L'apologia si è fatta catechesi ai pagani. Poi Giustino difende i costumi
dei cristiani, in nome dei comandamenti di Dio e del Cristo. Egli espone
quindi i riti cristiani del battesimo e dell'eucaristia.
Poi Giustino contrattacca: i pagani raccontano delle storie di dei dai
co.stumi infami, dando fede a favole ridicole. I filosofi si contraddicono
tra loro. La società pagana mette in mostra i suoi vizi nei ginnasi, negli
spettacoli e nei giochi del circo.
Egli propone infine una conciliazione. La prova della verità del cristia-
nesimo sta da una parte nelle profezie delle Scritture che si sono realizza-
te nel Cristo, ma sta anche nei semi di verità, nei semi del Verbo, presenti
tra i pagani, tra i poeti e i filosofi e che sono naturalmente in accordo con
le verità cristiane, anche se queste verità sono sfigurate dai demoni. I filo-
sofi greci, come Platone, essendo anteriori ai profeti, hanno fatto a questi
dei prestiti. Benché storicamente insostenibile, questa tesi fu cara agli
apologeti cristiani: essa consentiva infatti di sviluppare un certo paralleli-
smo tra il ruolo dei filosofi tra i Greci e quello dei profeti tra i cristiani. Il
discorso cerca delle connivenze con la sapienza di quelli di fuori. «Affer-
miamo qualcosa in modo simile ai poeti da voi onorati e ai filosofi» 1'.
Dietro questa apologia si intravvede il progetto di una «evangelizzazione
della cultura».
Se Giustino si indirizza a filosofi facendo appello alla verità, Tertullia-
no, facendo appello alla giustizia, si presenta come un avvocato di fronte
ai giudici di un tripunale simbolico. Con tutte le risorse della retorica e
del diritto, egli scrive il suo Apologetico come una vigorosa ·e argomentata
arringa. Una legge dell'Impero proscrive il nome stesso di cristiano, ba-

1' Ibid., 20, 3, p. 101.

I - APOLOGIA DELLA FEDE E DISCORSO CRISTIANO NELL'EPOCA PATRISTICA 25


stando questo semplice nome per essere accusati di tutti i crimini ed esse-
re passibili di morte. Ora, questa legge è ingiusta, perché dispensa la giu-
stizia dal dare la prova dei crimini imputati. Tertulliano intende dunque
scagionare i cristiani da tutte le accuse che gravano su di essi: crimini se-
greti, sacrilegi (empietà e apostasia dal culto degli dei), lesa maestà (rifiu-
to del culto dell'imperatore). I cristiani sono, al contrario, uomini reli-
giosi che intendono adorare il vero Dio; sono dei buoni cittadini, leali
verso l'imperatore, per il quale pregano e versei la società, alla quale si
rendono utili. Tertulliano interviene poi sul terreno della fede-: molto
più rapidamente di Giustino - per giustificare certi dogmi cristiani, ridi-
colizzati dai pagani, in particolare l'ultimo giudizio e la risurrezione dei
corpi. La sua perorazione è una sfida provocatrice. Invece di richiedere
la giustizia per l'innocenza, incita i giudici a perseguire la crudele perse-
cuzione dei cristiani: così facendo essi donano loro l'accesso alla vera
gloria e servono il progresso del cristianesimo, poiché, secondo una for-
mula destinata a divenire celebre «è seme il sangue dei cristiani (semen est
sanguis christianorum)» 16 •
2. Con il Discorso ai Greci di Taziano, e i trattati Contro le nazioni di
Tertulliano e di Arnobio, si ha di mira l'uditore pagano universale 17 : l'esor-
dio si fa più stringato e il tono è in partenza particolarmente polemico e
negativo. Così Tertulliano, con maggior asprezza che non nell'Apologeti-
co, se la prende a proposito delle ingiustizie alle quali sono sottoposti i
cristiani nel corso dèlle procedure giudiziarie intentate contro di loro e
contro l'accecamento volontario dei giudici, che si rifiutano di informarsi
a loro riguardo, non rispettando la correttezza delle procedure. Non solo
egli respinge le accuse dei pagani contro i cristiani, ma le rivolge contro di
loro, in un lungo processo di ritorsione: sono loro che abbandonano le
loro tradizioni ancestrali, disprezzano gli dei, praticano crimini rituali e si
abbandonano all'immoralità. L'ignoranza e l'iniquità, la follia e la loro
pretesa di sapere vengono stigmatizzate. Le posizioni dell'altro sono giu-
dicate, per quanto riguarda la verità, senza consistenza. In breve, l'altro è
definito per via negativa. I termini stessi di genti o di nazioni ricevono una
sfumatura peggiorativa. L'opposizione tra cristiani e pagani assume una
valenza di rottura.
3. Altre opere vengono indirizzate a un destinatario conosciuto ed espli-
citamente nominato: ad Autolico da parte di Teofilo di Antiochia, a Dio-

16 TERTULLIANO, Apologetico, 50, 13, a cura di A.R Barrile, Mondadori, Milano 1994, p. 179.
17 Su questo trattato di Tertulliano, cfr. l'analisi cli J.C. FREDOUILLE, Tertullien et la conversion de la
culture antique, Études august., Paris 1972, pp. 68-88, che corregge le valutazioni di A. ScHNEIDER, Le
premier livre Ad nationes, lnst. Suisse di Roma, Neuchatel 1968.

26 BERNARD SESBOÙÉ
gneto dall'autore a noi sconosciuto della Lettera che gli è indirizzata, a
Demetriano da Cipriano. Questo rivolgersi a qna determinata persona
suppone una relazione già avviata tra l'autore e il destinatario, relazione
d'amicizia per i primi due, relazione di competizione religiosa per il terzo.
Così Diogneto viene lodato per lo zelo che lo spinge a istruirsi sulla reli-
gione dei cristiani. La polemica contro i pagani e contro i Giudei è conte-
nuta; il ruolo dei cristiani nel mondo è presentato con entusiasmo: essi
sono l'anima del mondo 18 • L'opera si apre a una breve catechesi e l'esor-
tazione finale contiene un pressante appello alla conversione: «Se anche
tu desideri questa fede per prima otterrai la conoscenza del Padre» 19 •
Di simile ispirazione è il dialogo posto sotto il segno dell'amicizia da
Minucio Felice, l'Octavius. L'opera, che prende la forma di una disputa
tra le due parti, è introdotta calorosamente dal tema dell'amicizia, che si
ispira a Cicerone. Essa si snoda in un clima di cordialità e culmina nella
gioia per il fatto che l'amicizia sia stata posta al servizio della vittoria della
verità, valore supremo.
4. Con il Protrettico di Clemente Alessandrino e il Contro Celso di.Ori-
gene, noi ci imbattiamo, secondo quanto ritiene M. Rizzi, nella fine del-
1' apologetica. In Clemente l'antica retorica viene cristianizzata e diventa
un bene proprio della Chiesa. Nel suo impiego della lalia, genere lettera-
rio che cerca di compiacere e la cui caratteristica è la dolcezza, Clemente
sembra dipendere da Menandro, mentre Origene segnerebbe la fine del-
1' apologetica iintica nella misura in cui non si indirizza più a un interlocu-
tore vivente, ma si impegna~ risponde a un libro già antico e perfino a un
libro morto. In questo caso non ci sarebbe più spazio per l'altro e il vero
destinatario sarebbe diventato il cristiano debole nella sua fede. Il discor-
so ad extra sarebbe ricondotto a un discorso interno alla Chiesa. Queste
riflessioni di M. Rizzi 20 sono interessanti dal punto di vista della storia
delle forme, ma non devono essere radiealizzate: non solo il Contro Celso
di Origene mostra che i dati religiosi del paganesimo sono sempre presen-
ti nel suo tempo, ma anche che il discorso apologetico antico proseguirà
nel IV secolo.
Per l'importanza attribuita alla giustificazione razionale della fede, que-
sto primo discorso apologetico contiene un insegnamento gravido di av-
venire. Al di là dei limiti propri di questi autori, sia per ciò che concerne
la fondatezza degli argomenti, sia per la forma dei discorsi (si può provare

18 Cfr. t. I, p. 39.
19 A Diogneto, X, 1, in: I Padri Apostolici, a cura di A. Quacquarelli (CTP 5), Città Nuova, Roma,
p. 361.
20 M. Rizzi, Ideologia e retorica negli «exordia» apologetici... , cit., pp. 171-202.

I - APOLOGIA DELLA FEDE E DISCORSO CRISTIANO NELL'EPOCA PATRISTICA 27


qualche rammarico davanti a certi eccessi della polemica, talvolta più de-
siderosa di sopprimere l'altro in quanto altro che di trovare una riconci-
liazione con lui), restano definitivamente acquisiti due punti. Il primo
punto è che la fede cristiana non può vivere in autarchia né sviluppare la
sua dottrina senza tener conto del suo contesto culturale, ma deve con-
frontarsi con la ragione comune e rendere veramente conto di se stessa.
Essa sostiene anche, con Giustino, che la sua filosofia sia «l'unica filosofia
certa e proficua» 21 e non può prendere perciò sottogamba le contestazio-
ni della sua propria razionalità. La svolta allora intrapresa è irreversibile:
nella sua espressione, la dottrina della fede si farà sempre più razionale e
di secolo in secolo riprenderà incessantemente il dibattito con le successi-
ve contestazioni che emergeranno dalla ragione culturale.
L'altro punto è l'interiorizzazione da parte dello stesso cristiano, sot-
to forma di interrogativo, della negazione o della contestazione che gli
viene dal di fuori. Indirizzandosi a quelli di fuori, il credente parla an-
che a se stesso, poiché egli stesso vive in comunione culturale· con gli
uomini del suo tempo. Questo spiega come le apologie destinate a quelli
di fuori siano anche servite come apologie a quelli di dentro. Non si
tratta di una fortuità storica, bensì di una necessità di fondo. L'apologia
finisce in tal modo per condizionare l'esposizione dottrinale .che la fede
indirizza ai suoi.
L'evoluzione razionale del pensiero cristiano nel II e nel III secolo, che
condurrà alla dogmatizzazione della fede, solleverà più tardi la questione
della ellenizzazione del cristianesiino 21 • È incontestabile che il linguaggio
della fede, attraverso tutti questi dibattiti condotti nel mondo culturale
pagano, si è ellenizzato e si è servito sempre di più delle categorie della
filosofia greca. Che ne è del contenuto? Certi accostamenti proposti dagli
Apologeti, nell'intento di mostrare alla razionalità pagana quella del cri-
stianesiino, sono contrassegnati qui o là dalla tentazione di «concordi-
smo». Quando Giustino paragona con una certa iinmediatezza il Logos
della filosofia greca con il Verbo del cristianesiino, non prende sufficien-
temente in considerazione la differenza tra un Verbo uguale al Padre, cosa
che l'ellenismo non può che rifiutare, e il Logos inferiore all'Uno di Plato-
ne o di Plotino. Questi tentativi erano tuttavia frenati dall'opposizione
massiccia tra due mondi spinti mutualmente a rigettarsi. Più le cose avan-
zeranno, in particolare con i dibattiti contro gli eretici, e più dovranno
essere fatte le necessarie chiarificazioni. In definitiva, si può dire che l'el-

21 GIUSTINO, Dialogo con Trifone, 8, 1, cit., p. 105.


22 Cfr. infra, p. 344. Cfr. A. GRILLMEIER, Hellenisierung - Judai'sierung alr Deuteprinzipien der
lei'chlichen Dogmar, in: Mit ihm und in ihm, Herder, Freiburg, pp. 423-488.

28 BERNARD SESBOÙÉ
lenizzazione del linguaggio è stata messa al servizio della de-ellenizzazio-
ne del contenuto, secondo quanto si verificherà al momento di Nicea 23 • In
realtà la questione della ellenizzazione del cristianesimo si riconduce a
quella della sua necessaria inculturazione. Questo fenomeno però richia-
ma l'inevitabile distanza che rimane tra i dati fondamentali della fede e il
discorso organizzato che essa dà di se stessa nel corso della storia;

La prova della fede davanti agli eretici


Gli autori e i testi: IPPOLITO DI ROMA, Contra Noetum, Heytrop College, London 1977;
ed. fr. a cura di P. Nautin, Cerf, Paris 1949; IRENEO DI LIONE, Contro le eresie, in: Contro le
eresie e altri scn'tti, a cura di E. Bellini, J aca Book, Milano 1981; CLEMENTE ALESSANDRINO,
Estratti da Teodoto, ed. fr. a cura di F. Segnard (SC 23) 1970; TERTULLIANO, Sulla prescri:t.io·
ne contro gli eretici,.in: Opere scelte, a cura di C. Moreschini, UTET, Torino 1974, pp. 119-170;
Io., Contro i Valentiniani, in: Opere scelte, a cura di C. Moreschini, UTET, Torino 1974,
pp. 889-940; Io., Contro Ermogene, in: Opere scelte, a cura di C. Moreschini, UTET, Torino
1974, pp. 173-232; Io., Contro Marciane, in: Opere scelte, a cura di C. Moreschini, UTET,
Torino 1974, pp. 291-718; ID., Contro Prassea, in: Opere scelte, a cura di C. Moreschini,
UTET, Torino.1974, pp. 943-1022.
/nJicazioni bibliografiche: D. VAN DEN EYNDE, Les normes del' einseignement chrétien dans
la littérature patnstique des troz's premiers siècles, Duculot-Gabalda, Gembloux-Paris 1933; W.
BAUER, Rechtgliiubigkez't und Ket:t.erei im iiltesten Chn'stentum, Mohr, Tiibingen 1934; D. M1-
CHAELIDES, Foi, Écniure et tradition, ou les «praescriptiones» che:t. Tertullien, Aubier, Paris 1969;
A. LE BoULLUEC, La notin d'hérésie dans la littérature grecque, 1r-11r siècles, t. I: De ]ustin à
Irénée; t. II: Clément d'Alexandn'e et Orig,ène, Études Augustiniennes, Paris 1985; Orthodoxie
et hérésie dans l'Église ancienne. Perspectives nouvelles, a cura di H.-D. Altendorf - E. Junod -
J.-P. Mahé - W. Rordorf - G. Strecke, (Cahiers de la revue de théologie et de philosophie 17),
Genève-Lausanne-Neuchatel 1993.

Nello stesso momento in cui la giovane Chiesa è entrata nel dibattito


con i Giudei e i pagani, deve anche far fronte agli avversari interni, cioè a
quei cristiani che ignorano una regola di fede (senza dubbio in divenire)
e che utilizzano le Scritture con una assoluta libertà, sia per quanto con-
cerne la scelta dei testi che fanno entrare nel loro «canone», sia per le loro
esegesi sorprendenti. La ricerca della razionalità della fede, destinata alla
sua giustificazione di fronte al mondo esterno, può, abbiamo visto, svi-
luppare un equivoco, così che il discorso cristiano rischia di lasciarsi svuo-
tare da una razionalità estranea. È questa la tentazione del sincretismo, da
cui si genera ciò che sarà chiamata <<l'eresia».
La prima forma di eresia cristiana fu lo gnosticismo 2\ movimento dua-
lista e doceta, che si infiltrò nelle comunità cristiane e vi gettò lo scompi-
glio, a causa della ricostruzione della rivelazione scritturistica alla quale si

2i Cfr. t. I, p. 229.
24 Cfr. t. I, pp. 30·35.

I . APOLOGIA DELLA FEDE E DISCORSO CRISTIANO NELL'EPOCA PATRISTICA 29


affidava. Già le epistole pastorali e gli scritti giovannei indicano alcune
difficoltà incontrate con ambienti di tipo gnostico.
A questa prima generazione di eresie dovette far fronte un nuovo tipo
di discorso anti-eretico 25 • Giustino - ancora lui - scrive così un Libro con-
tro tutte le eresie e un Contro Marciane, oggi perduti. Ireneo però se ne è
servito, ed egli resta per noi il vero campione della lotta contro la gnosi,
con la sua grande opera Ricerca e rovesciamento della pretesa, ma falsa
gnosi, più sovente chiamata Contro le eresie. Ben inteso, si tratta di un
discorso molto polemico 26, le cui linee di forza sono le seguenti.
. Ireneo intende confutate gli gnostici in tre momenti: i primi due si si-
tuano al livello della ragione, il terzo a quello delle Scritture e della regola
di fede. Il primo momento consiste in una lunga esposizione delle dottri-
ne gnostiche: il pleroma valentiniano di Tolomeo, gli altri sistemi valenti-
niani e le genealogie della gnosi a partire da Simon Mago. La motivazione
del vescovo di Lione è duplice: anzitutto, bisogna strappare queste dottr~­
ne dal segreto di cui si circondano per assicurare il loro prestigio. Il primo
impegno è smascherarle, mostrare le loro contraddizioni e la loro inconsi-
stenza razionale: «la vittoria contro costoro <:onsiste nella manifestazione
delle loro dottrine» 27 • La seconda motivazione è la necessità di ben cono-
scere una dottrina per poterla confutare:
Chi vuole convertirli deve conoscere esattamente i loro sistemi. Non si possono,
infatti, curare i malati se non si conosce la malattia di quelli che non sono sani.
Per questo i nostri predecessori, sebbene molto superiori a noi, non potevano
opporsi adeguatamente ai discepoli di Valentino: non conoscevano il loro siste-
ma, che noi ti abbiamo presentato con molta precisione nel primo libro 28 •

Ireneo è molto moderno per la cura posta nel voler conoscere con pre-
cisione il pensiero dei suoi avversari. La sua documentazione è seria e
onesta, anche se non è benevolente. Essa darà impulso alle sue successive
dimostrazioni (Libro I).
Il secondo momento consiste in una confutazione mediante la ragione,
«ricorrendo alla loro argomentazione per confutarli ancora una volta con
le loro stesse dottrine» 29 • L'argomentazione è anzitutto dialettica: impiega
il dilemma («delle due cose l'una ... ») per dire che entrambe le ipotesi,

21 Cfr. t. I, pp. 40-41.


26 La letteratura ami-eretica è molto polemica. Questo tratto dispiace ai moderni, che la giudicano
con severità. L'equità richiede di situarla nell'orizzonte culturale dell'epoca, in cui era moneta corrente in
tutti. Quanto all'accusa di «esclusione», si deve tener conto dd legame dialettico èhe unisce l'onodossia
e l'eresia e il fatto che l'una si determina attraverso l'altra. Cfr. t. I, p. 44.
21 IRENEO DI LIONE, Contro le eresie, I, 31, 3, in: Contro le eresie e altri scritti, a cura di E. Bellini, Jaca
Book, Milano 1981, p. 117.
2e Ibid., IV, prefaz. 2, p. 303.
29 Ibid., II, 30, 2, p. 195.

30 BERNARD SESBOOÉ
quella della risalita all'infinito e quella deila contraddizione interna tra le
tesi, sono impensabili; fustiga le esegesi aberranti delle Scritture, l'abuso
della simbolica dei numeri, le pratiche immorali (Libro II).
Una confutazione però di tipo solo razionale non è sufficente. Gli gno-
stici abusano delle Scritture: bisogna dunque rispondere loro su questo
stesso terreno. Sarà questo il terzo momento _della confutazione. Ireneo
intraprende dunque una lunga dimostrazione «per mezzo delle Scritture»
(Libri III-V). All'inizio però di questa fase si pone un problema di meto-
do. Con gli gnostici tutto è motivo di contestazione: il contenuto delle
Scritture, la concezione stessa della tradizione, alla quale oppongono la
loro propria tradizione, segreta e superiore. Ireneo risponde dunque ela-
borando la sua dottrina della tradizionel 0: questa risale all'ordine dato dal
Signore agli apostoli di annunciare il Vangelo, ordine eseguito anzitutto
oralmente e quindi per iscritto. Questo insegnamento, o tradizione degli
apostoli, ha per oggetto ciò che è trasmesso in brevi formule, attestazioni
privilegiate della regola di fede, che è stata conservata fedelmente nelle
Chiese attraverso la successione dei vescovi dopo gli apostoli. Questa pri-
ma dottrina elaborata del rapporto tra Scrittura e Tradizione avrà una
influenza decisiva nella Chiesa antica (Libro III, 1-5).
Su questa chiara base epi~temologica è allora possibile l'argomentazio-
ne scritturistica. Ireneo intende riconciliare non solo l'Antico e il Nuovo
Testamento, opposti tra loro in modo arbitrario dagli gnostici, ma anche
fondare tutta la sua argomentazione sulla corrispondenza e l'accordo tra
le testimonianze dei profeti, degli apostoli e le parole del Signore. Poiché
però questa argomentazion~ a tre termini è troppo difficile da mettere
sistematicamente in opera, ne farà due coppie: i profeti e gli apostoli (Li-
bro III, a partire dagli Atti degli apostoli) e i profeti e il Signore (Libro IV,
le sue <<parole chiare» e le sue parabole). Il Libro V apporterà dei comple-
tamenti, sempre secondo lo stesso metodo, a partire da Paolo, da qualche
scena della vita di Cristo e, da ultimo, dall'Apocalisse.
Questo lungo discorso sugli accordi e le «armonie» tra i due Testa-
menti prolunga l'argomento profetico utilizzato con i Giudei, tuttavia
secondo un movimento inverso: davanti a Trifone Giustino si fondava
sull'Antico Testamento per legittimare il Nuovo, Ireneo parte dalNuo-
vo per mostrare che l'Antico è in accordo con lui. Il Nuovo esplicita
l'Antico. Dall'uno all'altro, c'è una economia di salvezza, una continuità
nella differenza, portata dalla venuta di Gesù. Il cristianesimo si pone
allora come la «veta gnosi».
Questo passaggio alle Scritture è anche un passaggio all'esposizione

JO Cfr. t. I, pp. 47-53.

I - APOLOGIA DELLA FEDE E DISCORSO CRISTIANO NELL'EPOCA PATRISTICA 31


della fede nel rispetto delia sua regola tradizionale, riassunta nella forma
di un Credo composto di due membri: «un solo Dio, un solo Cristo». La
dimensione apologetica resta sempre presente, poiché bisogna rispondere
agli gnostici, ma si apre sempre di più a un'ampia esposizione del rappor-
to tra i due Testamenti e all'elaborazione di una teologia della storia della
salvezza che manifesta la razionalità della rivelazione. Questa teologia sarà
incentrata sulla ricapitolazione di tutte le cose in Cristo. All'inizio della
riflessione teologica constatiamo dunque una comunicazione spontanea
tra l'apologia e l'esposizione dottrinale.
L'apologia contro la gnosi resterà loggetto di un considerevole sforzo
da parte di autori cristiani fino alla metà del III secolo, con Clemente Ales-
sandrino, Origene, Ippolito di Roma e Tertulliano. In questo sforzo, Ter-
tulliano si mostrerà un campione temibile, mettendo al servizio dell'apo-
logia tutte le risorse della dialettica giuridica e della retorica, delle quali è
specialista. Nel suo trattato La prescrizione contro gli eretici, si sente l'in-
fluenza della teologia della tradizione e della successione apostolica di
Ireneo. Come il suo predecessore, Tertulliano oppone fermamente la re-
gola di fede, sotto forma di Credo trinitario, ai suoi avversari. Egli ritiene
che questa regola, istituita dal Cristo, conserva una priorità assoluta su
ogni altra considerazione. Prima però di avviare il dibattito a proposito
delle Scritture, egli pone una questione preliminare; in termini giuridici
egli presenta una «prescrizione», cioè una dichiarazione di irricevibilità,
che impedisce di entrare nel contenuto del dibattito. Tertulliano ritiene
infatti che gli eretici siano gli interroganti ed egli l'interrogato: essi pre-
tendono argomentare a partire dalle Scritture, lui intende loro sbarrare la
strada. Fare loro questa concessione, è già riconoscerli come partners con
uguali diritti, cosa che invece non è. Per provare questa irricevibilità,
Tertulliano mostra che solo le Chiese cristiane risalgono agli apostoli,
mentre le eresie sono giunte posteriormente. L'anteriorità della verità sul-
l'errore è evidente: essa «domina» dunque nel senso giuridico del termi-
ne. Già Ireneo faceva valere l'anteriorità della fede in rapporto al caratte-
re più recente delle eresie, ma in Tertulliano il dibattito metodologico si
apre sulla stessa argomentazione. Tertulliano intende «prescriverla», per
lo meno in quest'opera.
Il discorso diretto contro le eresie non è che all'inizio e si svilupperà con
il succedersi di nuove generazioni eretiche. Oramai le eresie accettano for-
malmente la regola di fede, ma ne daranno una interpretazione che verrà
giudicata nefasta. Le prime verteranno sulla Trinità, a partire dal momento
in cui il problema dell'unità e del numero in Dio si porrà per se stesso 31 •

Jt Cfr. t. I, pp. 162-184.

32 BERNARD SESBOOÉ
Questa prima epoca situa già i tre elementi costanti di ogni discorso
di giustificazione della fede attraverso le età: ci sono le altre religioni,
qui rappresentate dal giudaismo; c'è la ragione umana, nelle sue diverse
espressioni culturali, allora rappresentata dalla sapienza pagana; c'è in-
fine la corruzione della fede, che diviene «eresia», attraverso l'interio-
rizzazione erronea di questioni poste dall'esterno. Quest'ultimo dibatti-
to è delicato, perché la tentazione di tacciare troppo presto di eresia ciò
che costituisce l'oggetto di un dissenso è molto grande, così come quella
di non recepire l'elemento di verità nascosto dietro una contestazione·
unilaterale.
Questo triplice dibattito non si arresta sulla soglia delle questioni di
fede propriamente dette. Già il dibattito con i Giudei conduceva a porre
un principio dottrinale decisivo, quello dell'unità e della corrispondenza
tra i due Testamenti. Il dibattito con i pagani provocava una prima rifles-
sione sulla razionalità della fede. Il dibattito con gli eretici vi aggiunge la
prima formalizzazione di una metodologia dell'esposizione, che mette in
luce il rapporto tra Scrittura e tradizione.

2. La giustificazione della fede


nella Chiesa costantiniana

La situazione della Chiesa nel mondo ha visto un cambiamento


sostanziale: ora la Chiesa si trova in posizione dominante. Non solo
non teme più le persecuzionL poiché l'Impero è ufficialmente «conver-
tito», ma essa influisce sempre di più sulla società. Il rapporto con quel-
li di fuori richiede sempre un impegno, ma questo è divenuto meno vi-
tale. Di contro, la Chiesa si scontra in modo crescente con il problema
interno delle eresie. È su questo sfondo che il discorso apologetico si
trasforma progressivamente, per forza di cose, in discorso propriamente
dottrinale.

La persistenza del discorso apologetico ad extra


Gli autori e i testi: LATIANZIO, Istituzioni divine, ed. fr. a cura di P. Monat, I (SC 326)
1986, II (SC 337) 1987, IV (SC 377) 1992, V (SC 204-205) 1973; EUSEBIO DI CESAREA, Prepa-
razione evangelica; ed. fr. a cura di E. des Places, I (SC 206) 1974; II-III (SC 228) 1976, IV-V,
17 (SC 262) 1979, V, 18-VI (266) 1980, VII (SC 215) 1975, VIII-X (SC 369) 1991, XI (SC
292) 1982; XII-XIII (SC 3.07) 1983, XIV-XV (SC 338) 1987; Io., Dimostrazione evangelica, in
PG 22, 13-794; EPIFANIO DI SALAMINA, Panarion, in PG 41-42.
Indicazioni bibliografiche: J.R. LAURIN, Orientations maitresses des apologistes chrétiens de
270 à 361, P.U.G., Roma 1954; A. PoURKIER, L'hérésiologie chez Épiphane deSalamine, Beau-

I - APOLOGIA DELLA FEDE E DISCQRSO CRISTIANO NELL'EPOCA PATRISTICA 33


chesne, Paris 1992; A.-M. MALINGREY, LA controverse antzjudai"que dans l'oeuvre de ]ean Chry-
sostome d'aprir les discours Adversus Judaeos, in: De l'antijudai"sme classique à. l'antisémitisme
moderne, Presses Univ., Lille III 1979.

Lattanzio visse a cavallo tra il III e il IV secolo e conobbe le ultime per-


secuzioni dei cristiani sotto Diocleziano. Nelle sue Istituzioni divine egli
confuta dapprima il politeismo della religione pagana e quindi la filosofia,
se.conda sorgente di ogni errore. Propone poi una piccola summa della
vera religione rivelata dal Cristo, Figlio di Dio. Egli ne sottolinea anzitut-
to il valore morale, poiché essa· ha portato sulla terra la vera giustizia.
Lattanzio è l'ultimo testimone del discorso apologetico di una Chiesa
perseguitata.
Eusebio di Cesarea, il più grande storico della Chiesa antica, scrive
invece dopo che le persecuzioni sono terminate. Quest'autore instancabi-
le sente anche il bisogno di impegnarsi nel discorso apologetico. In parti-
colare si fa autore di due importanti opere: la Preparazione evangelica e la
Dimostrazione evangelica. La prima si rivolge ai pagani e intende respin-
gere il politeismo, mostrando la superiorità della religione giudaica, servi-
ta da preparazione al Vangelo. L'interesse degli scritti di Eusebio viene
dal suo sforzo di citare quanto più possibile le testimonianze non cristia-
ne, facendo parlare cioè gli stessi pagani. Per la sua erudizione e il suo
retroterra, la sua opera ha un autentico valore scientifico ed è anche mol-
to più serena delle precedenti apologie.
La Dimostrazione risponde poi alle classiche accuse dei Giudei, che
rimproveravano i cristiani di far proprie le promesse fatte al popolo eletto
senza però assumersi gli obblighi d~a Legge. Eusebio si fonda allora non
solo sulla Bibbia, ma anche su Flavio Giuseppe, per mostrare che il cri-
stianesimo è, al contrario, lo sbocco legittimo del giudaismo. Eusebio pone
in dialettica le obiezioni dei pagani e dei Giudei, servendosi dei secondi
per confutare i primi. Le due opere hanno di mira anche il trattato di
Porfirio, Contro i cristiani, al quale Eusebio si riferisce spesso.
L'opera anti-eretica più importante del IV secolo è il Panarion o Casset-
ta di medicazione, autentica summa redatta tra il 374 e il 377 da Epifanio
di Salamina. Epifanio intende proporre un antidoto a coloro che sono sta-
ti già, o che rischiano di esserlo, morsi dal serpente dell'eresia. Egli recen-
sisce, espone e confuta, anzitutto con la ragione e quindi in nome della
tradizione della fede e della Scrittura, un vero catalogo di ottanta eresie,
di cui le prime venti concernono il periodo pre-cristiano, dato che la sua
preoccupazione enciclopedica ricerca l'eresia risalendo fino ad Adamo. Il
suo concetto d'eresia è dunque inglobante: si hanno di mira i Greci, i
Giudei, i Barbari e gli Sciti (secondo Col 3, 11). Epifanio si serve di Ip-

34 BERNARD SESBOOÉ
polito di Roma e di Ireneo, da cui riprende la confutazione dei sistemi
gnostici. Affronta in seguito le eresie del III secolo, tra le quali enumera
quella di Origene. Tratta allo stesso modo le eresie a lui contemporanee,
come l'arianesimo, eresia contro la quale lotterà personalmente. L'opera
si conclude con una esposizione della fede che riassume l'insegnamento
degli apostoli.
Epifanio è un uomo ben informato e dispone di numerose fonti, di
fronte alle quali resta sostanzialmente fedele. Ha per noi il vantaggio di
citare ampiamente i documenti che utilizza, ma obbedisce anche agli sche-
mi classici dell'eresiologia nel suo modo di invocare una «successione»
(diadokhè) di pensi~ro tra gli eretici, di sottolineare la diversità delle ere-
sie contro l'unica fede della Chiesa, di proporre ritratti particolarmente
cupi degli eretici, in particolare a proposito delle intenzioni delle loro idee.
Pratica a loro riguardo il procedimento dell' «induzione arbitraria», pre-
supposto che porta, a partire da una dottrina o da una pratica, all'adesio-
ne a un pensiero che essi non hanno, e quello dell' «assimilazione» degli
eretici tra di loro' 2 • Le deformazioni polemiche dell'eresiologo sono evi-
denti. La motivazione però di Epifanio è anche il frutto di un'esperienza·
personale: egli ha incontrato eretici di differenti obbedienze e ritiene che
l'eresia costituisca un grave pericolo per la fede della Chiesa. Questa sum-
ma di eresie, dall'intenzione un po' archeologica, risponde, nel suo pen-
siero, a un bisogno del suo tempo.
L'evoluzione di questo genere letterario attraverso il IV secolo è di
ampie proporzione e diviene sempre di più storico ed erudito, prende una
certa distanza ed entrando in una tradizione che intende fare il punto su
tutto ciò che ha potuto minacciare la fede cristiana''.

I Padri greci: .
dall'apologia all'interpretazione della fede a partire da se stessa
La giustificazione della fede cristiana assume ormai la forma di un di-
battito attorno alle grandi eresie trinitarie e cristologiche. Quello che è in
causa è la specificità del Dio cristiano, rivelato in tre persone per mezzo
dell'invio del suo Figlio nella nostra carne. Si tratta di rendere ragione di

l 2 Mi ispiro, pe~ questi dati critici, a A. PoURK!ER, L'hérésiologie chez Épiphane de Salamine, Beauche-
sne, Paris 1992, pp. 486-497,
JJ Si citano spesso le otto omelie contro i Giudei di Giovanni Crisostomo come es.empio tipico di
«antisemitismo» cristiano. Il termine sembra qui anacronistico: si tratta di un «antigiudaismo» religioso,
certamente polemico e violento nella sua espressione oratoria, che mira a scongiurare una concreta com-
petizione tra la Chiesa e la Sinagoga, che alcuni cristiani si erano messi a frequentare. Cfr. A.-M. MALIN-.
GREY, La controverse antijudaique dans l'oeuvre de Jean Chrysostome d'après /es discours Adversus Judaeos,
in: De l'antijudai'sme classique à l'antisémitisme moderne, Presses Univ., Lille III 1979.

I - APOLOGIA DELLA FEDE E DISCORSO CRISTIANO NELL'EPOCA PATRISTICA 35


questi due punti chiave della fede, che comandano la composizione del
Credo e che fanno violenza alla ragione. In un primo tempo queste eresie
si appoggiano sulla Scrittura e respingono la trasposizione del linguaggio
scritturistico in linguaggio greco, che intendeva togliere le ambiguità in
cui si scivolava nell'interpretazione della fede. In un secondo momento
però esse procedono nel modo più razionale possibile. Anche il discorso
anti-eretico diviene sempre di pili una ermeneutica che la fede compie di
se stessa, scavandone il senso e mettendo in luce le conseguenze delle sue
affermazioni tradizionali. Torneremo più avanti sulla metodologia di que-
sto discorso che, sotto la pressione della contestazione eretica, cerca sem-
pre più di rendere conto della fede nei confronti di se stessa. Questo con-
sente di capire l'affermazione di H. Bouillard secondo il quale nell'epoca
patristica e nel Medioevo «ciò che costituiva la teologia fondamentale non
era una dottrina della rivelazione, ma una dottrina di Dio» 34 •
Notiamo solamente che i difensori della fede considerano le dottrine
eretiche come altrettante invasioni del campo cristiano da parte di estra-
nei. Basilio di Cesarea, ad esempio, pensa che, a riguardo della Trinità,
deve battersi su due fronti eretici, di cui ciascuno rappresenta un avversa-
rio esterno. Il modalismo di Sabellio viene dal giudaismo, mentre I' ariane-
simo degli anomei rimanda al politeismo paganoi5 • Si tratta sempre del
fenomeno di interiorizzazione nella Chiesa delle questioni venute dal di
e
fuori. Poiché Basilio stato formato alle stesse scuole di Eunomio, è an-
ch'egli sensibile alla pertinenza delle obiezioni contro la Trinità provenien-
ti dalla ragione filosofica.

Agostino e La città di Dio


L'opera:La città di Dio, a cura di D. Gentili (NBA V/1-3), Città Nuova, Roma 1978, 1988,
1991.
Indicazioni hihliografiche: G. COMBÈS, La doctrine politique de saint Augustin, Plon, Paris
1927; E. GILSON, Les métamorpboses de la Cité de Dieu, V rin, Louvain/Paris 1952; ].C. GuY,
Unité et structure logique de la <<Cité de Dieu» de saint Augustin, Études august., Paris 1961;
M. FÉDOU, Augustin, in: Dict. des oeuvres politiques, PUF, Paris 1986, pp. 31-40.

Agostino è l'autore di una grande opera apologetica: La città di Dio. La


presa di Roma da parte di Alarico, il 24 agosto 410, fu loccasione per una
importante domanda culturale sul cristianesimo. Già all'epoca dei martiri
si rimproverava a quest'ultimo di essere il responsabile di tutti i mali del-
l'Impero romano. Per comprendere questo fenomeno di «capro espiato-

34 H. BoUIL!.ARD, Verilrf du christianisme, DDB, Paris 1989, p. 156.


3' BASILIO DI CESAREA, Lettere, 210, 3-5, ed. fr. a cura di Y. Courtonne, (Budé) 1961, pp. 192·196.

36 BERNARD SESBOÙÉ
rio», dobbiamo pensare al modo con cui il cristianesimo ha maltrattato il
popolo giudaico durante lunghi secoli. A sua volta il giudaismo è stato
considerato come un elemento insieme marginale e contestare della socie-
tà e accusato d'essere la causa delle sue proprie crisi.
La disfatta e il sacco di Roma da parte dei barbari erano percepiti
come castighi divini e riproponevano la questione: l'Impero non ha avu~
to il torto di abbandonare i suoi dei e di passare al cristianesimo? Il bi-
lancio storico di questo passaggio non è uno scacco? Per Agostino si
trattava dunque di difendere i cristiani dall'accusa che la loro religione
aveva concorso al disastro dell'Impero. Lo stesso Girolamo vedeva nel
disastro della città di Romolo il simbolo della fine di un impero e di una
civiltà ;6 •
Per rispondere a queste accuse, Agostino si apre a una riflessione teo-
logica sulla storia politica di Roma. «Il De Civitate Dei si presenta così
come l'esposizione di un percorso che, prendendo spunto dalla recente
crisi del 410, vuol condurre il mondo romano a rileggere la sua storia
politica (come sua storia culturale, dottrinale, filosofica), a scoprire la
vanità della sua "teologia civile", a confessare il suo bisogno di un me-
diatore tra Dio e gli uomini - mediatore che Agostino identifica nella
persona di Cristo (I-X). La città terrestre si va aprendo a questo cammi-
no di salvezza?» 37 •
Poiché la questione è posta a livello della civitas, non solo la città di
Roma, ma anche la res publica, divenuta l'Impero e lo Stato, sono le città
che Agostino confronta con «la gloriosissima città di Dio di cui la Bibbia
gli rivela le origini, lo sviluppo e la fine» 38 • Riflessione politica e riflessione
teologica saranno strettamente connesse l'una con l'altra, poiché la storia
politica di Roma è letta con un presupposto teologico e perché, al contra-
rio, il linguaggio politico invade il discorso sulla città di Dio. Questo por-
ta alla famosa definizione delle due città:
Due amori dunque diedero origine a due città, alla terrena l'amor di sé fino all'in-
differenza per Iddio, alla celeste l'amore a Dio fino all'indifferenza per sé. Quella
si gloria in sé, questa nel Signore. [... ] In quella domina la passione del dominio
nei suoi capi e nei popoli che assoggetta, in questa si scambiano servizi nella cari-
tà i capi col deliberare e i sudditi con l'obbedire 39 •

Ci sono Gerusalemme e Babilonia. Alla città di Dio appartengono tutti


i buoni, alla città del diavolo tutti i malvagi in questo mondo e nell'altro.

J6 Cfr. M. FÉDOu, Augustin, in: Dici. des oeuvres politiques, PUF, Paris 1986, p. 32.
H Ibid., p. 33.
is Ibid.
J9 AGOSTINO, La città di Dio, a cura di D. Gentili (NBA V/2), Città Nuova, Roma 1988, p. 361.

I . APOLOGIA DELLA FEDE E DISCORSO CRISTIANO NELL'EPOCA PATRISTICA 37


In questo confronto però Agostino si guarda bene dall'identificare in
modo immediato le due città con le istituzioni politiche o religiose visibili.
Queste simbolizzano due società spirituali, quelle dei giusti e degli empi,
che sono il segreto di Dio. Durante il corso terreno della storia, i due
imperi non sono separati, ma si compenetrano: in particolare, la città di
Dio non deve essere identificata con la Chiesa visibile, non più di quanto
la città terrena coincida con uno Stato qualunque. Agostino non dimenti-
ca però che queste due città spirituali, benché non coincidano con le isti-
tuzioni terrene, si oppongano tuttavia quaggiù attraverso di esse. La sepa-
razione definitiva dei due imperi non avrà luogo che alla fine dei tempi
col giudizio generale. In quest'ottica l'autore discerne ciò che è avvenuto
tra la Chiesa e l'Impero dopo Cristo.
Agostino allarga allora il campo della sua considerazione, elaborando
una vasta teologia della storia, che avrà un'influenza immensa sul Me-
dioevo e fino a Bossuet. Il percorso è diviso in sei età, che riproducono
simbolicamente i sei giorni della creazione: da Adamo al diluvio; dal
diluvio ad Abramo; da Abramo a Davide; da Davide alla deportazione
in Babilonia; da questa deportazione alla nascita del Cristo; dal Cristo
alla fine dei tempi, che sarà l'avvento del settimo giorno. Con la sua
morte redentrice, il Cristo «dona alle città terrene di convertirsi alla cit-
tà di Dio» 40 •
In questa ampia apologia, Agostino riprende alcuni metodi (la ritorsio-
ne e l'accusa) e alcuni argomenti (anteriorità delle Scritture sui testi greci;
compimento delle profezie; spiegazione del culto pagano per l'azione dei
demoni) che provengono da Tertulliano e anche da Giustino 41 • Come
molti suoi predecessori, il vescovo di Ippona struttura la sua opera secon-
do due grandi parti: la confutazione del paganesimo (libri I-X) e la pre-
sentazione del cristianesimo (libri XI-XXIII). Agostino però «non si pre-
occµpa tanto di criticare i pagani, ma piuttosto mostrare il compimento
delle loro aspirazioni nella religione cristiana» 42 • Questo lavoro apologeti-
co di grande ampiezza difende, a partire da una precisa congiuntura, la
fede cristiana, proponendo una teologia della storia della salvezza che
abbraccia concretamente anche la storia umana.
Questi sviluppi dell'apologetica cristiana nei secoli rv e v ci conducono
spontaneamente all'esposizione delle regole e della metodologia della fede,
poiché è in questo contesto di lotte di difesa e di giustificazione che que-
ste ultime sono state elaborate.

40 M. Hoou, Augurtin, art. cit., p. J8.


41 Cfr. I. BOCHET, Introduction, in: La Cité de Dieu, I-X, ed. fr. a cura di G. Combès - G. Madec, Paris
1993, pp. 15-17.
42 Ibid., pp. 24-25.

38 BERNARD SF.SBOÙÉ
Il. REGOLE E METODOLOGIA
DELLA DIMOSTRAZIONE DELLA FEDE

Indicazioni bibliografiche: D. VAN DEN EYNDE, Les normes de l'einseignement chrétien dans
la /illérature patristique des trois premiers siècles, Duculot-Gabalda, Gembloux-Paris 1933; H.
MAROT, Conci/es anténicéens et conciles.oecuméniques, in: Le conci/e et !es conci/es, Cerf, Che-
vetogne/Paris 1960; H.J. SrEBEN, Die Konzilsidee des Alten Kirche, Schoningh, Paderborn 1979;
B. SESBOO~, La notion de magistère dans l'histoire de l'Église et de la théologie, in «L'année
canonique», 31 (1988), pp. 55-94.; Y.-M. BLANCHARD, Aux sources du canon, le témoignage
d'Irénée, Cerf, Paris 1993.

Attraverso l'insieme di questi conflitti, quei primi dottori della fede che
furono i Padri della Chiesa stabilirono progressivamente una metodologia
della prova della fede e del suo rapporto con la Scrittura. Il discorso cri-
stiano si organizza attorno a dei punti di riferimento fondamentali. Esso
prende nello stesso tempo coscienza delle istanze responsabili della sua
regolazione e del suo mantenimento nel quadro della regola della «sana
fede», secondo il modo di esprimere l'ortossia all'epoca.

1. I tre primi secoli prima di Nicea

L'essenziale di quanto concerne la regola della fede, la tradizione e la


successione apostolica, la fissazione del canone delle Scritture e la genesi
dei Simboli, è già stato trattato nel I volume di quest'opera 4' e completato
dai dati dell'ecclesiologia nascente, presentati nel tomo Ill 44 • Basterà dun-
que ricapitolare qui questi punti essenziali secondo la prospettiva dell'ela-
borazione del discorso cristiano e dei sui riferimenti normativi.

La fede cattolica rz'cevuta daglz' apostoli


La convinzione dei primi Padri fino a Ireneo, Tertulliano e Origene è
la seguente: la Chiesa vive della fede e della dottrina ereditata dagli apo-
stoli. «Questo insegnamento si alimenta a tre fonti: alla rivelazione del
Cristo, alle predicazioni dei profeti dell'Antico Testamento, alla predica-
zione apostolica» 4'. Il vocabolario dominante è allora la «fede» (pz"stz's), la
«Parola», l'insegnamento (didache), la «verità», la «tradizione», questi
ultimi due termini .spesso collegati all'espressione «canone» (canon): la

4J Cfr. t. I, pp. 41-121.


44 Cfr. t. lll, pp. 322-330.
4' D. VAN DEN EYNDE, Les normes de /'einseignement chrétien dans la lillérature patristique des trois
premiers siècles, Duculot-Gabalda, Gembloux-Paris 1933, p. 101.

I - APOLOGIA DELLA FEDE E DISCORSO CRISTIANO NELL'EPOCA PATRISTICA 39


«regola di verità» (regula veritatis), o l' «ordine della tradizione» (ardo tra-
ditionis ), espressioni queste care a Ireneo 46 •
La tradizione è, in effetti, un'espressione inglobante in rapporto alla
Scrittura: gli apostoli, prima di scrivere, hanno predicato e la fissazione
del canone dei libri è l'opera della tradizione. In questo senso «la Scrittu-
ra è subordinata alla tradizione viva» 47 • In un primo tempo il legame con
l'evento del Cristo si compie attraverso la tradizione orale; in un secondo
momento gli scritti apostolici assumono il valore di nuove Scritture. La
vera tradizione e il numero integrale delle Scritture possono essere rinve-
nute nelle Chiese fondate dagli Apostoli. La maggiore concretizzazione
della regola di fede tradizionale è il Credo, le cui formule, dapprima in
piena gestazione, funzionano poi rapidamente come riferimenti fonda-
mentali.
Ireneo è il primo ad aver posto chiaramente questa metodologia
teologica articolando il rapporto tra la tradizione e la Scrittura 48 • Uomo
di tradizione lui stesso però, formalizza una pratica in principio. Sarà
seguito da Tertulliano e questa dottrina farà giurisprudenza nella Chie-
sa. Nel primo trattato sistematico di teologia cristiana, il trattato I Prin-
cìpi, Origene si inscrive nella stessa metodologia. Egli si riferisce fin dal-
l'inizio, nella sua prefazione, alla regola di fede trinitaria. Allo stesso
modo fa riferimento all'«insegnamento della Chiesa tramandato dagli
apostoli per ordine di successione e tuttora nelle Chiese conservato» e
afferma che «pertanto quella sola bisogna tenere per verità, che in
nessun punto si discosti dalla tradizione ecclesiastica ed apostolica» 49 •
Questa regola di fede, sostenuta dalla tradizione e fondata nella Scrit-
tura, ricapitola l'insegnamento apostolico. È su questo fondamento
che egli si aprirà ai commenti e alla ricerca, necessari per chiarire un
certo numero di punti lasciati dagli apostoli all'investigazione dei futuri
amici della sapienza.
Ciò che prevale in quest'epoca è l'autorità del contenuto della fede, la
regola della fede, cioè «la regola che è la fede» (genitivo soggettivo) - co-
me dirà Y. Congar -, e non il principio formale d'autorità che dice la
regola per la fede (genitivo oggettivo). L'idea di sottomissione alla tradi-
zione della fede è prima in rapporto a quella dell'autorità ecclesiale. Il peso
della Scrittura e della tradizione è maggiore rispetto a quello di un «magi-
stero» ancora molto discreto.

46 IRENEO, Contro le eresie, cit., I, 9, 4; II, 27, 1; III, 2, 1; 11, 1; 12, 6; 15, 1; IV, 45, 4.
47 D. VAN DEN EYNDE, Les nonnes de l'einseignement .. ., cit., p. 315.
48 Cfr. supra, pp. 30-31.
49 ORIGENE, I Principi, Prefazione 2, a cura di M. Simonetti, U1ET, Torino 1968, p. 120.

40 BERNARP SESBOUÉ
La regolazione episcopale
La seconda convinzione dei Padri anteniceni è che ci sono nella Chiesa
degli uomini incaricati della funzione ufficiale dell'insegnamento. Questi
uomini, i vescovi, ricevono la loro autorità dal fatto che appartengono a
una successione legittima che risale a coloro ai quali gli apostoli hanno
affidato le Chiese. La loro successione è una garanzia dell'autenticità della
tradizione ricevuta e insegnata. Questa convinzione risale a Clemente di
Roma, sarà l'oggetto della verifica di Egesippo e sarà immessa nella teolo-
gia da Ireneo e Tertulliano. Da parte sua, Ignazio di Antiochia attribuiva
già al vescovo la cura di vegliare sull'unità e sull'autenticità della fede.
L'autorità episcopale si concretizzerà nella concezione della sede episco-
pale, o cathedra, considerata anche come la garanzia della regola della verità
e dell'ordine della tradizione. La chiesa cattedrale è quella in cui il vescovo
ha la sua sede e insegna. «La cathedra, commenta Y. Congar, è la funzione
episcopale, è la sua continuità, la successione, è la doctrina, [... ] Cathedra è
il termine che corrisponde a quello che noi chiamiamo "magistero"» 50 •
Questa concezione della cathedra sarà messa in risalto da Cipriano 51 • Per il
vescovo di Cartagine p{'.rò l'episcopato è una realtà solidale ed unica, dun-
que collegiale, nella comunione con la sede di Pietro (Petri cathedra), Chie-
sa principale' 2 • A quest'epoca, la responsabilità della trasmissione della
fede, del suo insegnamento e della sua regolazione è dunque compito dei
vescovi. Questi però sono sempre considerati nell'unità che formano con
il loro popolo per costituire una Chiesa: la Chiesa è il popolo che circon-
da il suo vescovo. Non stupisce dunque che un gran numero di documen-
ti che ereditiamo da questi tempi provengano da vescovi. Questo non
toglie nulla all'importante ruolo che assumono i «dottori», quali un Ter-
tulliano in Occidente e un Origene in Oriente, nell'elaborazione della
conoscenza (gnosis) della fede. Esistono uguahnente delle «scuole» cate-
chetiche e teologiche, come ad esempio quella di Giustino a Roma, o
quella di Alessandria, in cui spiccano Clemente e Origene.

Dalla collegialità episcopale ai sinodi locali


Ben prima che Cipriano formalizzi la solidarietà collegiale che unisce i
vescovi, l'esperienza aveva mostrato che ogni vescovo non poteva eserci-
tare da solo la sua doppia missione di insegnamento e di regolazione della
'o Y. CoNGAR, Bref hiftorique des Jormes du "magistère" et des ses relations avec !es docteurs, RSPT, 60
(1976), pp. 100-101.
'1 Il termine cathedra è già presente in ERMA, Il Pastore, 2, 2; 4, 3; 18, 3; 19, 2, 4; 43, 1, ma studi più
recenti ritengono che il termine non rinvia ancora, per questo autore, a una funzione episcopale con suc-
cessione. Cfr. A. BRENT, Hippolytus and the Roman Church in the Third Century, Brill, Leiden 1995.
J2 Cfr. t. III, pp. 336-337.

I - APOLOGIA .DELLA FEDE E DISCORSO CRISTIANO NELL'EPOCA PATRISTICA 41


fede. Così si è sviluppata presto nella Chiesa una vita sinodale, con la riu-
nione di concili (o sinodi) regionali o locali. Questi appaiono dalla fine
del II secolo e diventano, in' diversi distretti, regolari. Hanno per scopo
mantenere la comunione tra le Chiese, ogniqualvolta si pone un problema
dottrinale o disciplinare. La riunfone dei concili locali o regionali induce
già la legge dell'unanimità delle decisioni prese e la pratica di inviare delle
Lettere sinodali ai vescovi della regione che erano stati assenti, perché
anch'essi potessero sottoscrivere le decisionPJ. Talvolta, queste lettere si-
nodali saranno inviate oltre la regione, in una prospettiva più ecumeni-
ca '4. L'autorità di questi primi concili era ampiamente recepita, al punto
che non solo i vescovi si sentivano legati dalle loro decisioni, ma che un
nuovo sinodo non osava cambiarle. «Fin dalla fine del II secolo il vescovo
di Roma era diventato un partecipante alla vita sinodale della Chiesa. Egli
stesso è il promulgatore della convocazione di diversi sinodi regionali»''.
È nel cuore di queste relazioni di comunione tra Chiese che la Chiesa
di Roma gioca il ruolo proprio di colei che «presiede alla carità» e «inse-
gna agli altri» (Ignazio di Antiochia'6 ). Clemente era intervenuto nei con-
flitti di Corinto. Ireneo riconosce la preminenza di Roma, poiché fondata
su Pietro e Paolo'7• Concretamente, questa Chiesa interviene in casi d'ur-
genza, di necessità o di appello. È in questo modo che è nata nella Chiesa
l'attività conciliare. La sua importanza mostra che la riunione del primo
concilio ecumenico di Nicea nel325 sarà una novità meno radicale di quan-
to non si sia potuto pensare. Essa si inscriverà in una tradizione sinodale già
consolidata, che ha già condotto a decisioni propriamente dottrinali.

2. Logica e metodo del discorso della fede


nel IV se~olo in Oriente
Nel IV secolo il discorso della fede si organizza. Si tratta ormai di con-
fermare le grandi affermazioni dottrinali del cristianesimo davanti alla
doppia contestazione, l'una provenknte da una erronea lettura delle
Scritture e l'altra da una riflessione razionale che interpreta i punti più
difficili delle affermazioni cristiane (Trinità e cristologia) alla luce im-

'J Questa visione delle cose, ispirata dalla testimonianza di Eusebio di Cesarea, è rimessa in questione
da A. Hippolytus and the Roman Church ... , cit.
BRENT,
Cfr. H. MAllOT, Conczles anténicéens et conci/es oecuméniques, in: Le conci/e et /es conci/es, Cerf,
54
Chevetogne-Paris 1960, pp. 39-41; H.J. SIEBEN, Die Konzilsidee des Alten Kirche, Schiiningh, Pader-
born 1979.
" GRUPPO DI DOMBES, Il ministero di comunione nella Chiesa universale, 21, in: EOE 2, p. 441.
56 IGNAZIO DI ANTIOCHIA, Ai Romani, Saluto e 3, !, in: I Padri Apostolici, a cura di A. Quacquarelli
(CTP 5), Città Nuova, Roma 198tl, pp. 121-122.
'7 Cfr. t. III, pp. 328-330.

42 BERNARD SESBOÙÉ
mediata delle categorie della ragione culturale. Il discorso resta poh:~mi­
co e ha di mira gli eretici. Il suo centro di gravità però si sposta: non si
tratta più solamente di mostrare l'errore, ma piuttosto di dimostrare la
coerenza e la razionalità della fede. Questo spostamento, l'abbiamo vi-
sto, conduce l'esposizione della fede a trovare i suoi connotati a partire
dal dibattito con le eresie 18 •
Se si opera una «riduzione» logica a partire dalla diversità delle com-
posizioni letterarie, il disegno compiuto del cammino dottrinale seguito
dai Padri può essere ricondotto a un certo numero di passi principali che
ne costituiscono la struttura di base. Questi differenti passi saranno qui
descritti a partire da quei previlegiati documenti costituiti dai dibattiti
trinitari svolti da Atanasio di Alessandria e da Basilio di Cesarea. Uno stu-
dio dei dibattiti cristologici del V secolo offrirà risultati analoghi.

Il punto di partenza e l'occasione:


la contestazione della fede nella Chiesa
La fede cristiana è continuamente sottoposta alla riflessione. Il Credo
non può essere l'oggetto di una ripetizione meccanica: per essere trasmes-
so in verità deve essere commentato e interpretato. Il Credo è qualitativa-
mente una referenza orale e viva, che si è sviluppato nel tempo e compor-
ta delle varianti tra le Chiese. Esso può anche ricevere aggiunte in grado
di precisarlo, soprattutto nei suoi punti che sono oggetto di contestazio-
ne. Per questo il ricorso a una formula molto antica può essere un mopo
per dissimulare l'interpretazione che un soggetto ne dà all'interno di un
nuovo dibattito.
La fede infatti deve sempre rispondere a molteplici questioni, scaturite
dalle difficoltà provenienti sia da una lettura delle Scritture che si voglia
coerente, sia dal confronto con il pensiero filosofico. Problemi di inter-
pretazione compaiono ogni volta che occorre tradurre i punti cardini del-
la professione di fede secondo nuove categorie. Oggi si parlerebbe di un
problema di «inculturazione». Il confronto delle affermazioni bibliche con.
le categorie filosofiche del mondo greco provoca uno choc. Ad esempio,
come si deve comprendere la Scrittura quando ci parla del Cristo come
«Figlio di Dio»? Sorgono così i commenti del Credo e delle nuove formu-
le. L'antico senso dato a formule venerabili si trova contestato. Si deduco-
no conseguenze che appaiono contradditorie. Il conflitto tra vescovi e tra
teologi (i primi erano il più delle volte anche i secondi) diviene rapida-

18 Questa connessione mostra la solidarietà originale tra ciò che diventerà teologia fondamentale e
teologia dogmatica. ·

I - APOLOGIA DELLA FEDE E DISCORSO CRISTIANO NELL'EPOCA PATRISTICA 43


mente una crisi ecclesiale. In breve, sorge un dibattito in un campo non
ancora delimitato, che mette in causa l'unanimità della Chiesa.
Tra le diverse interpretazioni della fede, può scavarsi uno scarto, per-
cepito come creante una distanza tra la fede di sempre e la fede di oggi,
così come essa viene glossata mediante proposizioni apparentemente nuo-
ve e con categorie estranee alla sua origine. Si impone un discernimento
che consenta di verificare dove sta la fedeltà autentica alla fede ricevuta
dagli apostoli e dove si situa la <<novità», secondo il significato che gli
antichi davano a questo termine e che voleva indicare l'eresia.
È in una tale situazione e con questa motivazione che i Padri della
Chiesa prendono la penna, anzitutto a titolo personale, mettendo la loro
riflessione al servizio di un discernimento ecclesiale che, con il tempo,
assumerà la forma conciliare. Questo discernimento è dapprima teologi-
co, poiché mette in azione le risorse e le prospettive personali di un uomo,
ma si apre anche a un atto «dogmatico» (nel senso moderno del termine),
perché la crisi ecclesiale attraversata darà luogo a una decisione solenne,
che intende attualizzare nella Chiesa presente la fede degli apostoli.

Primo momento: la confessione ecclesiale della fede


ricevuta dalla tradizione battesimale
Il primo momento del cammino dei Padri consiste nel risalire espressa-
mente dalla fede oggi contestata alla fede di ieri, cioè alla fede ecclesiale
così come essi l'avevano ricevuta dalla tradizione battesimale. Questa fede
sarà la pietra di paragone per il discernimento da operare. Essa trova la
sua espressione previlegiata e la sua prima referenza nella confessione di
fede che è stata al centro della catechesi battesimale ed è stata pronuncia-
ta nel momento del battesimo e dunque nel momento della nascita alla
vita cristiana. Confessione e battesimo vanno di pari passo e sono ricevuti
inseparabilmente dalla tradizione ecclesiale: «La fede e il battesimo, dirà
Basilio, sono i due modi della salvezza, l'uno all'altro congiunto e insepa-
rabili»59. Il battesimo è chiamato una «tradizione» della fede ecclesiale e
«cattolica». È la fede delle Chiese di Alessandria e di Cesarea, che cam-
biano le loro confessioni, sostanzialmente identiche quanto al contenuto,
malgrado le loro varianti letterarie. È questa fede che con~ente di dirsi
cristiani, cioè di collegarsi direttamente al Cristo, mentre gli eretici porta-
no generalmente il nome del loro fondatore.
Per questo Alessandro di Alessandria interroga subito Ario sulla sua

l9 BASILIO DI CESAREA, Lo Spirito Santo, XII, 28, a cura di G .A. Bernardelli (CTP 106), Città Nuova,
Roma 199.3, p. 125.

44 BERNARD SESBOÙÉ
professione di fede 60 . Dopo aver recensito le negazioni dello stesso Ario,
Atanasio gli oppone la professione della vera fede, mettendo così la luce
sul candelabro per scacciare le tenebre 61 , prima ancora di entrare nella
contestazione in corso. La confessione di fede ha forza in se stessa, perché
ha valore di confessione ufficiale e tradizionale della Chiesa. Nei riguar-
di di Eunomio, Basilio non procederà in modo differente. La prima fra-
se del suo libro comincia così: «Se tutti coloro sui quali il nome del
nostro Dio e Salvatore Gesù Cristo è stato invocato vogliono davvero
non tentare nulla contro la verità del Vangelo, ma accontentarsi della
tradizione degli apostoli e della semplicità della fede, ... » 62 • Prima di ogni
argomentazione sulla questione, egli rivendica la confessione di fede
ecclesiale pervenuta dalla tradizione 63 , contro l'abuso che il suo avversa-
rio ne fa. Nel momento di difendere la piena divinità del Figlio, egli fa
in tal modo appello alla fede battesimale, in un testo in cui si sente fre-
mere l'emozione del credente:
Ci sono senza dubbio dei punti che separano il cristianesimo dall'errore dei Greci
e dall'ignoranza dei Giudei, ma, per quanto mi riguarda, io ritengo che non esiste
dottrina più importante nel vangelo della nostra salvezza che la fede nel Padre e
nel Figlio. Che Dio sia creatore e artigiano, in effetti, coloro che, per non importa
quale errore, hanno fatto uno scisma, ne convengono. Colui però che insegna che
Padre è un falso nome e che Figlio non vale che nella misura in cui si tratta di un
puro appellativo, e che non vede alcuna differenza nel confessare un Padre o un
creatore e nel dire Figlio o creatura, dove lo collocheremo? In quale parte lo an-
novereremo? Tra i Giudei o tra i Greci? Perché non si potrà ammettere tra i cri-
stiani colui che rinnega la potenza della religione e ciò che costituisce la caratte-
ristica della nostra adorazioQe. Infatti noi non abbiamo creduto in un Artigiano e
in una creatura, ma, per la grazia del battesimo, siamo stati segnati col sigillo del
Padre e del Figlio64.

Allo stesso modo, la prima referenza di Basilio nel trattato Lo Spirito


Santo, è il contenuto della fede incluso nella dossologia da lui impiegata
nell'indirizzarsi «a Dio Padre, insieme al Figlio, con lo Spirito Santo» 65 • ·

Perché c'è per Basilio una stretta correlazione tra la regola della fede e la
regola della lode e dell'adorazione: <<noi crediamo secondo quanto siamo
battezzati e rendiamo gloria così come crediamo» 66 • Questa solidarietà dei

60 Cfr. B. SESBOOÉ ·B. MEUNIER, Dieu peut-il avoir un Filr?, Cerf, Paris 1993, pp. 33-35.
61 ATANASIO, Contro gli animi, I, 8-9, in: PG 26, 25-32.
62 BASILIO DI CESAREA, Contro Eunomio, I, 1, ed. fr. a cura di B. Sesboi.ié - G.M. De Durand -
L. Doutreleau (SC 299) 1982, p. 141.
63 Ibid., I, 4, pp. 163-171. .
64 Ibid., II, 22, (SC 305), pp. 89-91.
65 BASILIO DI CESAREA, Lo Spirito Santo, I, 3, cit., p. 89.
66 Io., Lettere, 159, 2, cit., II, p. 86.

I - APOLOGIA DELLA FEDE E DISCORSO CRISTIANO NELL'EPOCA PATRISTICA 45


punti di vista interiorizza la dossologia nell'esposizione dottrinale attra-
verso l'uso di un linguaggio spirituale: da una parte c'è la «sana fede», la
vera «religione>> (eusebeia), dall'altra ci sono i «blasfemi» e le «empietà» dei
«prevaricatori» e dei «rinnegati» 67 • In questa stessa opera Basilio esprime in
modo solenne il riferimento alla regola di fede ricevuta nel battesimo:
Per qual motivo noi siamo cristiani? Per la fede, potrebbe dire ognuno. In qual
modo siamo salvati? Rinati dall'alto, evidentemente per la sua grazia conferitaci
nel battesimo. [ ... ] Avendo conosciuto questa salvezza assicurata dal Padre, dal
Figlio e dallo Spirito Santo, getteremo via la forma, il tipo di insegnamento che
abbiamo ricevuto? Sarebbe certo il caso di piangere molto se adesso ci trovassimo
più lontani dalla nostra salvezza che non al momento in cui siamo venuti alla fede:
se rinneghiamo adesso ciò che abbiamo allora accettato. V'è ugual danno sia nel
morire privi del battesimo, sia nell'averne ricevuto uno mancante di un elemento
che viene dalla tradizione. Quanto poi alla professione di fede, che abbiamo de-
posto al nostro primo irigresso nella comunità, quando allontanandoci dagli idoli,
ci siamo accostati al Dio vivente, chi non la custodisce in ogni occasione e non le
aderisce per tutta la sua vita come a una sicura salvaguardia, si rende estraneo alle
promesse di Dio, andando contro a ciò che ha scritto di propria mano e ha depo-
sto a professione della propria fede. Se infatti il battesimo è per me principio di
vita e se il primo dei giorni è quello della rigenerazione, è chiaro che la parola più
preziosa fra tutte è quella pronunziata al momento in cui mi è stato fatto il dono
dell'adoziOne filiale6s.

Questa referenza originale è comunemente accettata dai coloro che


dibattono. Non è più il tempo, come era invece per Iren~o, in cui occorre
giustificare lorigine della tradizione. L'opuscolo di Eunomio comincia
anch'esso con il riferimento alla «professione di fede più semplice>> 69 • Per
questo, prima di Efeso, la discussione tra Cirillo e Nestorio verterà attor-
no alla giusta interpretazione della fede di Nicea, che, sia per l'uno che
per I' altro, costituisce la pietra di paragone dell'ortodossia.
Questo punto di partenza è anche un punto di periodico ritorno, come
una sorta di respiro tra due argomentazioni. Atanasio ama ridirlo: tale è la
.fede cattolica, tale è la nota distintiva della fede nel Cristo 70 , tale è la fede
annunciata dall'origine per mezzo degli apostoli, conservii:ta dall'origine
nella Chiesa cattolica 11 •
Così la fede tradizionale è alla base, è la regola, la <<norma» infrangibile
che conferisce la sua autenticità agli sviluppi seguenti. Essa ha la sua unità

67 ID, Lo Spirito Santo, Xl, 27, cit. p. 123.


68 Ibid., X, 26, pp. 121-122.
69 EuNOMIO, Apo/Ogia, 5-6, ed. fr. a cura di B. Sesboiié (SC 305) 1983, pp. 241-245..
10 ATANASIO, Lettere a Serapione II, 7-8, III, 7, a cura di E. Cattaneo (CTP,55). Città Nuova,
Roma 1986, pp. 117-120 e 133. ·
11 Ibid., pp. 94-95.

46 BERNARD SESBOOÉ
e la sua coerenza, già provata attraverso le controversie anteriori, conosce
le sue linee di forza e suoi assi portanti, e si sa totalità non lacerabile. Essa
è spirito, perché è vissuta nello Spirito, che la soffia in ogni cuore e la
custodisce in tutta la Chiesa. In ogni cristiano si traduce in un «senso della
fede», che lo rende sensibile a ogni affermazione che possa ferirla, più o
meno da vicino.

Secondo momento: l'appello alle Scritture


È qui che s'inserisce logicamente il ricorso alla Scrittura. Anche se l' ar-
gomentazione scritturistica non fa immediatamente seguito sul piano let-
terario a considerazioni corrispondenti al momento precedente, quest'ul-
tima è presupposta e determina l'attitudine del dottore, che apre la Scrit-
tura per giustificare, attraverso di essa, il punto di fede messo in discus-
sione e per liberarlo dalle contestazioni eretiche. Non si tratta più di com-
mentare la Scrittura, né di liberarne i diversi sensi, come poteva fare Ori-
gene. Questa esegesi è propriamente «dogmatica» e vuole apportare la sua
conferma alla regola della fede. Per la stessa ragione, la Scrittura verrà letta
all'interno della tradizione conservata dalla Chiesa, cioè nell'ambito di
interpretazione che fa seguito alla trasmissione originale della Scrittura.
Atanasio parla di una interpretazione «ecclesiastica» della Scrittura 72 • Si
trovano qui posti in gioco la regola di fede e i principi dottrinali che ne
derivano, ma non più come dei poli proclamati di referenza e di riflessio-
ne, bensì spontaneamente utilizzati, come una forma che anima una mate-
ria. Senza regola di fede, infatti, si può far dire tutto alle Scritture. Questa
regola, espressa nel Credo, sarà dunque l'asse maggiore attorno al quale si
raggrupperanno dei testi scritturistici. Per Atanasio, il diavolo-, autore di
ogni eresia, colui che semina sempre la zizzania nel buon grano, sa citare
molto bene la Scrittura per giustificare i suoi fini. Lo ha dimostrato al mo-
mento della tentazione di Eva all'origine dei tempi e in quella del Signore
nel V angelo 73 •
La prova della fede attraverso le Scritture dispiegherà un particolare
metodo di lettura e di argomentazione:
1. Alla luce della regola di fede il ricorso alla Scrittura si opera secondo
il principio della totalità. La fede non sceglie nella Scrittura e, cosl come
la rivendica iùtta intera come suo proprio bene, altrettanto l'utilizza e la
fa servire tutta intera alla sua propria prova. La lettura che essa ne dà è
costante, quella di oggi si appoggia su quella del passato, ma sviluppan-

72 ATANASIO, Contro gli ariani, I, 44, in: PG 26, 102c.


73 lbid., I, 8, in: PG 26, 25-28.

I - APOLOGIA DELLA FEDE E DISCORSO CRISTIANO NELL'EPOCA PATRISTICA 47


dola e approfondendola all'interno di una unanimità. La tradizione dei
Padri trae il suo valore dal fatto che essa si radica a sua volta nella Scrit-
tura 74 • Allo stesso modo, il cammino scritturistico ricerca l'unanimità dei
testi e non gli basta fondarsi sulla maggioranza di questi: essa non può
ammettere che se ne faccia valere uno solo contro le sue affermazioni. Ben-
ché sussistano delle antinomie, occorre impegnarsi per manifestare che non
c'è nulla di irriducibile tra i testi della Scrittura. Meglio talvolta che l'autore
si appelli alla sua incapacità di rispondere piuttosto che cedere 75 •
Questo spiega la preoccupazione frequente di raggruppare i testi e di
citarli come un corteo interminabile di testimoni, e, reciprocamente, di
argomentare senza sosta a riguardo dei testi invocati dagli eretici, al fine
di mostrare che l'uso che essi ne fanno è erroneo. Talvolta, basta citare
i testi delle Scritture in buon ordine per illustrare abbondantemente una
dottrina. Questi sono sufficientemente eloquenti da se stessi, si comple-
tano e si organizzano spontaneamente in fascio per lasciar emergere la
chiarezza cercata. Un breve commento, non sempre necessario, comple-
terà la prova 76 •
2. Il più sovente delle volte però l'uso della Scrittura da adito a una
argomentazione articolata. Certi testi non si comprendono subito o non
sono sufficienti in se stessi. Per farne sgorgare il senso secondo la fede,
l'autore cristiano deve inserirli in una argomentazione ordinata. Questa·
può assumere diverse fisionomie. Il caso più semplice è l'accostamento di
due testi, ciascuno dei quali, da solo, sarebbe incapace di provare alcun-
ché, ma che, una volta riavvicinati, si completano meravigliosamente. La
sostituzione o la corrispondenza dei membri di frase o dei termini equiva-
lenti consente di renderli espressivi e di far elaborare una conclusione
certa. Ad esempio, le qualifiche date allo Spirito dalla Scrittura sono attri-
buite anche al Padre e al Figlio. Così l'inventario dei «nomi» nella Scrit-
tura consente di giustificare l'affermazione che.lo Spirito, dono di Dio, è
Dio stesso. L'avvicinamento di queste testimonianze mostra che lo Spirito
appartiene alla Trinità.
3. Questa preoccupazione della totalità non è dunque semplice valore
quantitativo: attraverso l'accumulo dei testi l'autore cristiano non cerca
solo la ripetizione di una formula cara, ma va in ricerca della coerenza del
linguaggio delle Scrittura. Egli vuol mostrarne l'armonioso consenso (sym-
phònos 77). Attraverso la molteplice varietà delle espressioni, vuole discer-
74 BASILIO DI CESAREA, Lo Spirito Santo, VII, 16, cit., p. 106.
n Io., Contro Eunomio, m, 6, ed. fr. a cura di B. Sesboiiè (SC 305) 1983, p. 169.
76 Cfr. ATANASIO, Contro gli ariani, I, 11-12, in: PC 26, 33-38.
77 Io., Lettere a Serapione, I, 32, cit., pp. 102-103.

48 BERNARD SESBOUÉ
nere quelle che rinviano a una legge del linguaggio e quelle che invece
non lo fanno. Quando i «Tropici» egiziani 78 sostengono che lo Spirito è
creato, argomentando a partire da Am 4, 13, che parla di «colui che crea
il soffio (pneuma)», Atanasio discerne una legge nel linguaggio della Scrit-
tura, che consente di vedere se si tratta del vento o dello Spirito Santo.
Nel primo caso, il termine pneuma è impiegato a nudo e anche senza ar-
ticolo, nel secondo caso c'è sempre una determinazione o una qualifica-
zione: «Spirtito Santo», «Spirito di verità», ecc. 79 • A proposito della for-
mula di 1 Cor 8, 6, che attribuisce al Padre il «dal quale» e al Figlio il «per
il quale>>, Basilio afferma: «Queste non sono parole di una persona che
detta norme, ma di una persona che distingue nettamente le Persone divi-
ne»80. Tuttavia, quando i suoi avversari pongono, al seguito di Aezio, un
principio di lettura che da una dato linguistico conclude a un dato onto-
logico: «"Degli esseri dissomiglianti per natura, si parla in modo dissimi-
le" e, inversamente, "gli esseri di cui si parla in modo dissimile, sono dis-
simili per natura"» 81 , ritornerà allora sul principio invocato: bel lungi dal
fatto che la Scrittura riserva una particella differente per ogni persona
divina: il dal quale, per il Padre, il per il quale, per il Figlio, e il nel quale
per lo Spirito Santo, cosa che dimostrerebbe la tesi contraria, impiega
queste tre particelle per ciascuna delle tre persone. Al termine di una lun-
ga raccolta di testi scritturisdci, Basilio è dunque abilitato a concludere
che ciò che si dice in maniera simile ha una natura simile 82 •
La prova che si appella alla legge del linguaggio si conferma con la
controprova: come la Scrittura parla sempre del Figlio in linguaggio di
eternità, così parla anche delle creature in linguaggio temporale 83 .
Rispettare la legge del linguaggio è, infine, comprendere le espressioni
simboliche per quello che sono e non in modo materiale: l'essere assiso del
Figlio alla destra del Padre ha il valore di una intronizzazione gloriosa che
lo riconosce come uguale al Padre, e non la concessione di una dignità di
un ordine inferiore o quella dello «sgabello» previsto per i suoi nemici 84 •
4. Così, di raggruppamento in raggruppamento, l'autore cristiano cer-
ca di ritrovare nella Scrittura i grandi assi dell'economia della salvezza. È
in questo quadro che metterà in opera, in ordine all'incontro tra le testi-

18 Cfr. t. I, pp. 239-240.


79 ATANASIO, Lettere a Serapione, I, 3-4, cit., pp. 41-44.
80 BASILIO DI CESAREA, Lo Spirito Santo, V, 7, cit. p. 94.
81 lbid., II, 4, p. 90.
82 lbid., II-V, pp. 89-101.
83 ATANASIO, Contro gli animi, I, 13, in: PG 26, 37-40.
84 BASILIO DI CESAREA, Lo Spirito Santo, VI, 15, cit., p. 106. L'attenzione posta al linguaggio delle Scrit-
ture da Atanasio e Basilio non impedisce per nulla di dare la priorità alle realtà affermate sulle parole che
sono loro ordinate. Questo permette loro di relativizzare l'uso di certi termini, già nella Scrittura, ma più
ancora nel linguaggio dogmatico.

I - APOLOGIA DELLA FEDE E DISCORSO CRISTIANO NELL'EPOCA PATRISTICA 49


monianze della Scrittura e le affermazioni delle formule di fede, dei prin-
cipi dottrinali elaborati 8'. Ad esempio la formula giovannea: «Chi vede
me vede il Padre» (Gv 14, 9) costituisce un principio di esegesi che per-
mette di riunire attorno a questo altri testi che esprimono il rapporto tra
il Figlio e il Padre 86 •

Terzo momento:
argomentazione ed elaborazione del linguaggio
Il ritorno alla confessione tradizionale della fede, chiarita attraven;o una
rilettura delle Scritture vertente sul punto messo in questione, è sempre
necessario, ma è sempre meno sufficiente. Poteva bastare quando la con-
testazione era puramente scritturistica; non lo può più da quando le cate-
gorie della ragione ellenistica intervengono nell'espressione della fede. In
effetti, per così dire, l'argomentazione messa in atto conserva sì il linguag-
gio delle Scritture e dei Credo originali, le cui espressioni sono pratica-
mente tratte dalle Scritture, ma il punto nevralgico· della contestazione
verte ormai stil modo con cui queste espressioni devono essere trascritte o
tradotte nel nuovo linguaggio culturale, che è divenuto quello dell'espan-
sione della fede cristiana.
Bisogna oramai fare appello alla ragione e argomentare ragionando.
Come in ogni dialogo apologetico, è l'interlocutore che determina il terre-
no su cui dovrà essere portato il dibattito. Nel momento di varcare questa
soglia, l'autore cristiano del IV secolo è preso da una certa vertigine. Infat-
ti, tanto per tradizione quanto per convinzione, non smette di polemizza-
re contro l'uso della «Sapienza di fuori>> o di «quelli di fuori» 87 • Gli è fa-
cile accusare la filosofia di essere una fonte di errori, se non di menzogne,
e di farsi beffe della sua pretesa «tecnicità» 88 • Di più, sono gli eretici che
si sono impossessati di questa tecnica, ed essi la ritorcono contro la fede.
In sintesi, il Padre della Chiesa è nella delicata situazione di doversi ci-
mentare con la dialettica filosofica del suo tempo, pur dichiarando che di
essa egli non se ne fa niente. E più lo fa, più senza dubbio prova il biso-
gno di giustificarsi dicendo che non lo fa. Col passare del tempo però ri-
conoscerà che il dibattito teologico richiede altri° strumenti e non la sem-
plice confessione di fede 89 •

B' Cfr. l'insieme degli argomenti soteriologici esposti nel t. I, pp. 310-317.
86 ATANASIO, Contro gli an(mi, I, 12, in: PG 26, 35c.
87 BASILIO DI CESAREA, Lo Spin'to Santo, III, 5, cit., pp. 91-92.
BB Ibid., VI, 13, p. 102. Cfr. J. DE GHELLINCK, Patristique et Moyen Age, t. III, VI: Un aspect de l'op-
position entre hellénisme et christianisme. L'attitude vis-à-vis de la dialectique dans les débats trinitaires,
Duculot, Gembloux 1948, pp. 245·310.

50 BERNARD SESBOÙÉ
Atanasio si era già impegnato su questa strada, ad esempio nel dibatti-
to sul tempo e sull'eternità a proposito della generazione del Figlio 90 , o
per giustificare l'uso del consostanziale da parte del concilio di Nicea.
Molto più decisiva è l'attitudine di Basilio davanti alla ferrea costruzione
dialettica che il campione della .seconda generazione ariana, Eunomio di
Cizico 91 , gli oppone. La ripetizione delle affermazioni tradizionali sareb-
be qui inefficace. La difesa della fede non può restare al di qua del livello
razionale della contestazione elaborata dall'avversario. Occorre a propria
volta costruire un discorso razionale strettamente condizionato dal pen-
siero di colui che si vuol passo passo confutare. .
Nel senso stretto del termine, Basilio deve «rendere i conti» (tas euthu-
nas hupekhein) della fede, cioè deve «rendere conto» (ton logon pa-
rekhein) 92 di fronte al pensiero filosofico. Non siamo lontani dal reddere
rationem di Agostino. Questo doppio vincolo della fede e della ragione fa
progredire la sua riflessione: tutto il suo problema è quello di proporre il
mistero trinitario, confessato dalle origini, nel quadro di una elaborazione
concettuale coerente, cosa che suppone una presa di posizione sulle cate-
gorie dell'essere e sulla struttura del linguaggio. Il suo discorso assumerà
dunque un risvolto speculativo e metafisico, fino ad allora sconosciuto nei
testi cristiani. Tutto è guidato dalla preoccupazione di conferire alle cate-
gorie della ragione l'attitudine a esprimere senza contraddizione la coe-
renza del mistero trinitario 93 • Ciò che però Basilio assume dalla sapienza
filosofica resta dell'ordine della dialettica e della logica. Se vogliamo assu-
me anche alcuni concetti - e questo in maniera talvolta eclettica -, ma si
guarda bene dall'assoggettar.si a un preciso pensiero filosofico.

Quarto momento: emergenza del richiamo


ai monumenti della tradizione
Il richiamo alla tradizione assume progressivamente una nuova forma.
Quella classica investe fin dall'inizio il movimento dottrinale qui esposto
e si fonda sulla convinzione vitale che il messaggio della fede battesiinale

89 Cfr. BASILIO DI CESAREA, Prologo VIII sulla fede, 2, in: PG 31, 679b-c. Rispondendo a monaci in-
quieti nel vederlo utilizzare un vocabolario estraneo alla Scrittura, Basilio scrive: «Cosl come il soldato e
l'agricoltore non utilizzano i medesimi strumenti[... ], cosl colui che esorta alla sana dottrina e colui che
confuta i contradditori non svolgono lo stesso tipo di discorso. [. ..] Altra è la semplicità di coloro che
confessano la religione nella pace, e altri i sudori di coloro che si oppongono alle contraddizioni della falsa
conoscenza»
90 ATANASIO, Contro gli ariani, I, 11-13, in: PG 26, 33-40.
91 Cfr. t. I pp. 238-239 e 257-259. .
92 BASILIO DI CESAREA, Lo Spirito Santo, XXV, 59, cit., p. 173. Cfr. le riflessioni di B. Pruche nell'edi-
zione francese dell'opera: Sur le Saint-Esprit (SC 17bis) 1968, pp. 167-168.
93 Per il contenuto di questa argomentazione, dr. t. I, pp. 259-263.

I · APOLOGIA DELLA. FEDE E DISCORSO CRISTIANO NELL'EPOCA PATRISTICA 51


proviene dal Signore per mezzo degli apostoli ed è stato conservato au-
tenticamente dalla tradizione ecclesiale nelle Chiese da loro fondate 94 • Con
il tempo però gli autori cristiani sono coscienti che la dottrina che espon-
gono gode anche della testimonianza esplicita dei loro predecessori. Di
qui la preoccupazione di costituire delle catene di testimonianze, non più
solamente a partire dalle Scritture, ma anche a partire dai Padri. Questa
seconda forma dell'argomento di tradizione, destinato a un grande svi-
luppo, consiste dunque nel presentare i «monumenti della tradizione».
Queste testimonianze vengono dopo l'essenziale della dimostrazione fon-
data sulla conferma che si danno tra loro la confessione di fede e le Scrit-
ture, dopo i primi sforzi di elaborazione razionale.
Il primo esempio in cui questo processo si presenta in modo sistemati-
co è il trattato Lo Spirito Santo di Basilio di Cesarea. Il penultimo capitolo
del suo libro «da la lista degli uomini illustri nella Chiesa» che hanno usato
la dossologia nella quale lo Spirito è annoverato con il Padre e il Figlio.
Basilio si sente fiero di presentare, come in un tribunale, una. «folla di
testimoni»: Ireneo, Clemente di Roma, Dionigi di Roma e Dionigi di Ales-
sandria, Origene, Giulio l'africano, il martire Atenogene, Gregorio il Tau-
maturgo, Firmiliano di Cesarea, Melezio, fino a Diano, il vescovo che l'ha
battezzato e ha fatto di lui il destinatario attuale di questa tradizione.
Fondato su questa nugolo di testimoni, Basilio non potrebbe essere trat-
tato come un «novatore» 95 • Cirillo di Alessandria farà lo stesso, elaboran-
do una documentazione patristica secondo la quale il titolo «Madre di
Dio» (theotokos) dato alla Vergine Maria non è una novità, ma è impiega-
to da un certo numero di suoi predecessori 96 • Anche Teodoreto costruirà
delle raccolte patristiche per giustificare le sue posizioni dottrinali. Que-
sta abitudine, una volta presa, verrà mantenuta fino all'insegnamento at-
tuale della teologia.

Momento conclusivo: la decisione conciliare


Evocando il ruolo del concilio ecumenico al termine di questo cammi-
no, usciamo dalla trama letteraria dei trattati patristici presi in se stessi,
pur: senza uscire dalla loro logica, visto che le opere prese in considerazio-
ne hanno un impatto ecclesiale e un preciso legame con i concili.
Il concilio interviene al termine - almeno provvisorio - di un dibattito,
per esercitare l'autorità regolatrice del corpo episcopale. Esso intende cir-

94 Cfr. ATANASIO, Lettere a Serapione, I, 28, cit., p. 94.


95 BASILIO DI CESAREA, Lo Spirito Santo, XXIX, 71-75, cit., pp. 189-196.
96 CIRILLO DI ALESSANDRU., Sulla retta fede. Alle prindpesse, in: PG 76, 1209d-1217.

52 BERNARD SESBOÙÉ
coscrivere il conflitto attraverso una decisione, che interviene nel punto
di incontro tra la fede tradizionale e la nuova contestazione che si è solle-
vata. Per questo esso ritorna alla confessione di fede nella quale il discor-
so aveva trovato il suo fondamento. Il concilio però «attualizza» questa
confessione di fede, dotandola di nuove espressioni, desunte, se necessa-
rio dal linguaggio filosofico, con lo scopo di eliminare ogni ambiguità nel-
l'interpretazione corrente dell'antica confessione. I concili trinitari e cri-
stologici sono tutti ruotati attorno al Simbolo di fede: si tratti dell' aggiun-
ta del concostam,iale al Simbolo di Nicea, si tratti dell'elaborazione della
sequenza sullo Spirito Santo e sulla Chiesa in occasione del I concilio di
Costantinopoli, si tratti della conferma a Efeso della lett~ra cirilliana di
Nicea, si tratti a Calcedonia della elaborazione di una formula cristologica
che assume la forma di un secondo articolo del Credo, considerevolmente
allungato e precisato. In tutti i casi, vi è una inclusione che va dal Credo
al Credo.
Il processo tuttavia non è mai definitivamente chiuso. Il concilio gene-
ra a sua volta nuovi dibattiti, che si radicano in ciò che è insufficiente-
mente maturo o equilibrato nella sua definizione. Gli scritti di Atanasio
contro gli Ariani si situano così dopo Nicea, nella lunga battaglia dottri-
nale che il concilio stesso ha suscitato. Questi dibattiti troveranno il loro
compimento nel Costantinopolitano I, dopo la morte di Atanasio e di
Basilio, in un nuovo Simbolo, che registra il loro apporto, sia a proposito
del Figlio che dello Spirito Santo. A partire da Nicea, i grandi trattati
patristici si situano insieme dopo e prima di un concilio. È in questo modo
che, per molti secoli, ha funzionato l'elaborazione sempre più razionale
del discorso cristiano, scandito dall'intervento periodico dei concili ecu-
menici, esercitanti la loro autorità regolatrice in nome della tradizione
degli apostoli. ·

3. Agostino e i latini: dalle autorità alle ragioni


Un nuovo dibattito culturale sulla ragione
Con Agostino emerge una nuova esigenza della ragione credente. Al-
l'inizio della sua grande opera La Trinità, il vescovo di Ippona recensisce
tre tipi di contestazione, ciascuna delle quali è il risultato dell'essere «trat-
ti in inganno da uno sconsiderato quanto fuorviato amore della ragione» 97 •
Ora, questi contradditori «ragionatori» osano dirsi delusi dalle risposte

97 AGOSTINO, La' Trinità, I, 1, 1, a cura di G. Beschin (NBA IV), Città Nuova, Roma 1973, p. 7.

I - APOLOGIA DELLA FEDE E DISCORSO CRISTIANO NELL'EPOCA PATRISTICA 53


che la fede cristiana propone loro. Un sorprendente brano testimonia il
cambiamento di mentalità che si è operato:
Quando lo si dice a certuni [l'annuncio tradizionale del Credo, la parola della
croce] ciò li irrita e li offende. Regolarmente essi, piuttosto che sentirsi incapaci
di intendere quanto si dice loro,· preferiscono giudicare sprovvisti di argomenti
coloro che parlano così. E talvolta nel discutere con essi non trattiamo quello che
chiodono su Dip sia perché non è alla loro portata, sia perché nemmeno noi lo
sappiamo cogliere o spiegare, e ci limitiamo a mostrare quanto siano lontani dal
poter intendere quello che pretendono. Allora, insoddisfatti nelle loro richieste, o
ci accusano di coprire astutamente la nostra stessa ignoranza o di rifiutare loro
maliziosamente la scienza. Così se ne vanno-sdegnati e sconvolti 98 •

Non è più sufficiente dunque sviluppare il Credo, giustificarlo nella sua


coerenza. Questo parlare avverso deciderà dell'asse della stesura dell'ope-
ra di Agostino: la parola d'ordine tenuta presente in tutta l'opera sarà
rendere ragione (reddere rationem):
Per questo motivo con l'aiuto del Signore Dio nostro prenderemo la parola per
spiegare (reddere rationem), come ci chiedono anche i nostri avversari, in qu~l
modo la Trinità sia un solo unico e vero Dio e come sia pienamente esatto dire,
credere e pensare (intelligere) che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono di
un'unica e medesima sostanza o essenza 99 •

Primo momento: l'appello alle autorità


In un primo momento però «occorre dimostrare, fondandosi sull'au-
torità delle Scritture, se tale è l'insegnamento della fede» 100• Si tratta per
Agostino di ricapitolare i dati anteriori della dimostrazione scritturistica
trasmessa dai Padri greci. Egli dirà di averlo fatto «dirigendo la mia at-
tenzione verso questa regola di fede» 101 • Nei primi quattro libri della sua
opera Agostino scrive come erede: il suo discorso riproduce il cammino
dei suoi predecessori e si sottomette alle loro norme, alla regola di fede
e alle Scritture. Egli lo fa però nel suo tempo e riceve il linguaggio del
dogma trinitario stabilito dai primi concili. Il suo discorso, molto fedele
all'esegesi dogmatica dei Padri greci, si compie in un clima nuovo. La
sua argomentazione a partire dalle «autorità» scritturistiche e tradizio-
nali non è più allo stadio originale: è una ripresa e una sintesi (oggi di-
remmo: è una «rilettura», più riflessa e meglio costruita). Agostino in-
tende anche fare una raccolta più ampia dei testi della Scrittura e met-

98 lbid., I, 1, 3, p. 11.
99 Ibid., I, 2, 4, p. 11.
100 lbid.
101 Ibid., XV, 28, 51, p. 719.

54 BERNARD SESBOÙÉ
tervi la sua nota personale. Come i suoi predecessori, egli ragiona sul-
l'enunciato della fede. Perché il clima della «ricerca» (quaerere) si esten-
de a tutta l'opera.

Secondo momento: l'appello alle ragioni


È a questo punto che Agostino intraprende consapevohnente un nuo-
vo tipo di discorso, posto sotto il segno del «rendere ragione». Questo
discorso si realizzerà secondo due piste differenti. La prima (Libri V-VIII)
è incentrata stilla coerenza logica e ontologica del linguaggio concernente
le tre persone divine 102 • Il vescovo riflette a partire dalle categorie di so-
stanza e di accidente, e soprattutto di relazione. Distingue tra gli attributi
relativi (ingenerato e generato) e gli attributi essenziali. Elabora la dottri-
na della processione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio (ab utro-
que) 103, in nome dell'opposizione delle relazioni. Così facendo, egli pone
dei punti fermi sul terreno della teologia trinitaria latina, lasciandole un
campo ricco di «semi di ragione», come dirà più tardi Boezio. Tuttavia, la
sua ricerca non viene port.ata completamente a termine e lui stesso è co-
sciente di una aporia a proposito ael termine persona, che può essere at-
tribuita al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo, pur venendo dette al plu-
rale per la Trinità, contrariamente alla legge dei termini comuni alle per-
sone divine: «Tuttavia se si chiede che cosa sono questi Tre, dobbiamo
riconoscere l'insufficienza estrema dell'umano linguaggio. Certo si rispon-
de: "tre persone", ma più per non restare senza dir nulla, che per espri-
mere quella realtà» 104 • Nonò~tante un prodigioso sforzo speculativo, Ago-
stino non evita ancora un uso troppo immediato delle categorie logiche.
Come si colloca questo sviluppo agostiniano in rapporto al lavoro già
intrapreso da Basilio di Cesarea per adattare all'enunciato trinitario le
categorie della ragione? Da una parte, egli l'utilizza e lo continua, in par-
ticolare nella messa in risalto dei termini relativi. Dall'altra compie uno
spostamento del centro di gravità della ricerca stessa. Ciò che un tempo
era il punto d'arrivo dei suoi predecessori, diviene per lui un punto di
partenza: i loro risultati sono anch'essi dei problemi. I Cappadoci pote-
vano essere più rigorosi o più abili di Agostino nel loro modo di usare le
categorie; essi non avevano paura di offrire dei complementi razionali
alla prova della fede. Per essi però questi restavano precisamente «com-
plementi». Al contrario, per Agostino si tratta di una nuova impresa, de-
cisamente nuova, che prende il posto della prima e diviene l'oggetto

102 Cfr. t. I, pp. 27 8-280.


1oi Cfr. t. I, pp. 291-293.
104 AGOSTINO, La .Trinità, V, 9, 10, cit., p. 251.

I· APOLOGIA DELLA FEDE E DISCORSO CRISTIANO NELL'EPOCA PATRISTICA 55


previlegiato della preoccupazione. A questo titolo si vedrà giustamente
in lui il primo attore del passaggio dalle autorità (auctoritates) alle ragio-
ni (rationes).
La seconda pista razionale seguita (Libri VIII-XV) affronterà il mistero
trinitario a partire dalle sue analogie e dalle sue immagini nella creazione
e nell'anima dell'uomo. Non si tratta, come si è detto, di una ricerca filo-
sofica che farà seguito a un percorso teologico, bensì del proseguimento
della stessa prospettiva di «ricerca», secondo un nuovo tipo di intelligibi-
lità, che mette in atto l'apporto dell'antropologia. Glossando una parola
di P. Ricoeur, si può clire che Agostino ci mostra come «il mistero dà a
pensare». Egli poteva dire a Dio nella sua preghiera finale: «ho desiderato
di vedere con l'intelligenza ciò che ho creduto» 105 •

Il giudizio di san Tommaso su Agostino


San Tommaso, con la lucidità che gli è propria e lo caratterizza, situerà
esattamente la funzione di Agostino nell'evoluzione deldiscorso teologi-
co cristiano e della sua metodologia tra i Padri e il Medioevo. ·
Ci sono due mòdi di trattare della Trinità, come dice Agostino nel suo
primo libro su La Trinità, cioè attraverso le autorità e attraverso il ragio-
namento. Agostino, come dice lui stesso, ha adottato entrambe i modi. Di
fatto, alcuni santi Padri, come ad esempio Ambrogio o Ilario, hanno im-
piegato solo uno dei due modi, quello che procede per autorità. Boezio,
al contrario, ha scelto di sviluppare il secondo modo, quello che procede
per ragionamenti, presupponendo che gli altri avevano seguito il metodo
per autorità 106 •
Agostino viene collocato a una svolta: prima di lui i Padri parlavano
soprattutto per autorità, cioè sul fondamento di una argomentazione
scritturistica e tradizionale, come abbiamo verificato. Dopo di lui, Boe-
zio 107 inaugurerà un metodo puramente razionale e speculativo, aprendo
così la via a quella che diventerà la scolastica. Questo nuovo terreno di
riflessione teologica è destinato a un luminoso awenire e avrà le sue riper-
cussioni sulla futura formulazione del dogma. Agostino unisce i due me-
todi, sapendo che il secondo non può costruirsi che sul fondamento ben
riconosciuto del primo. L'indagine ad infra è dunque ampiamente moti-
vato da una problematica ad extra, proveniente dalla ragione culturale·che
si impone al teologo stesso, il quale partecipa di questa cultura.

lbid., YJI, 28, 51, p. 719.


105
TOMMASO o' AQUINO, Erporizione sul De Trini/a/e di Boezio, Prologo, 9, Opusc. Theol., Marietti,
106
Casale Monferrato 1954, II, p. 314.
101 Cfr. t. I, pp. 280-282.

56 BERNARD SESBOÙÉ
III. L'AUTORITÀ DOGMATICA DEI CONCILI

Dobbiamo ritornare sull'emergenza dell'istituzione del concilio ecume-


nico, destinato a svolgere un ruolo fondamentale nella regolazione della
fede. È utile d'altra parte anche fare il punto sui primi usi del termine
dogma, chiamato alla fortuna che si sa, a motivo di una attenzione sempre
più concentrata verso la dimensione normativa della fede.

1. Il concetto di dogma
Indicazioni bibliografiche: A. DENEFFE, Dogma. W ort und Begnff. in «Scholastilrn, 6 ( 1931),
pp. 381-400 e 505-538; P.A. LffiGÉ, Dogme, in «Catholicisme», III (1952), pp. 951-952; M.
ELzE, Der Begriff des Dogmas in der Alten Kirche, ZThK, 61 (1964), pp. 421-438; W. KASPER,
Il dogma rotto la parola di Dio, Queriniana, Brescia 1968; H.-J. SIEBEN, Der Traditions begnff
des Vinzent von Lerin, in: Die Konzilridee des Alten Kirche, Schéiningh, Paderborn 1979, pp.
153-156; U. WICKERT, Dogma I. Hirtorirh, TRE, 9 (1982), pp. 26-34; J.P: WEISS, Vincent de
Lérins, DSp, XVI (1993), coli. 822-832.

Alla radice del termine .dogma sta il verbo greco dokein, che significa
apparire, sembrare, sembrare buono. Il sostantivo dogma esprime dunque
una opinione nel senso tecnico del termine (quella del medico o del fisi-
co) o una dottrina (filosofica o altra). Nell'epoca patristica, il termine è
impiegato nelle scuole filosofiche per designare i punti chiave della dot-
trina di tale scuola (hairesis), in quanto normativi per l'adesione al siste-
ma 108 • Il termine si è anche sviluppato nell'orizzonte del vocabolario giu-
ridico, per esprimere una decisione, un decreto o una sentenza.
Nella Settanta e nel Nuovo Testamento, il termine dogma significa così
un decreto o una prescrizione legale: ad esempio le disposizioni della Leg-
ge giudaica (Col 2, 14; E/2, 15), l'«editto» di Cesare Augusto (Le 2, 1), gli
editti dell'imperatore (At 17, 7), le «decisioni» del concilio di Gerusa-
lemme: Paolo e Sila sono incaricati di trasmettere i dogmi (dogmata) che
gli apostoli e gli anziani avevano preso «nello Spirito Santo» (At 16, 4).
Questo uso del termine è quello che anticipa più da vicino il senso futuro
delle decisioni dogmatiche della Chiesa.
Tra i primi Padri il termine. non si trova frequentemente: esso significa
cose stabilite 1~9 ,/are così 110 , precettim. Spesso significa una istruzione mo-
rale di Cristo. Allo stesso modo, per il cristianesimo che si considera la

108 Cfr. A.J. FESTUGIBRE, L'idéal religieux des grecs et l'Évangile, Lecoffre, Paris 1932, p. 221.
109 Cfr. CLEMENTE RoMANO, Ai Corinti, 27, 5, in: I Padri apostolici, cit., pp. 67-68.
110 Didaché, 11, 3, in: I Padri Apostolici, cit. p. 36
l11 IGNAZIO DI ANTIOCHIA, Ai Magnesi, n. 1, in: I Padri Aposolici, cit. p. 113. Cfr. anche: Lettera di
Barnaba, 1, 6; 9, 7, 10, 1, 9.

I · APOLOGIA DELLA FEDE E DISCORSO CRISTIANO NELL'EPOCA PATRISTICA 57


«vera filosofia», i dogmata sono i punti fondamentali della dottrina della
fede e della pratica cristiana, e tutto ciò che è questione di precetto 112 •
Nel IV secolo, il termine si puntualizza secondo due direzioni. In Euse-
bio di Cesarea viene a designare «le decisioni sinodali che furono prese a
proposito del battesimo degli eretici>> 1B. In un altro senso è riservato alla
dottrina della fede, contraddistinta dalla morale: secondo questa modalità
ne parlano i due Cirillo, di Gerusalemme e di Alessandria, e Gregorio di
Nissa 114 • Secondo questa prospettiva però si distingue tra <<dogmi autenti-
ci», cioè le posizioni c,Ìottrinali cristiane, e i «falsi dogmi», cioè le dottrine
eretiche, come aveva già fatto Ireneo. Questo uso è anche quello dei con-
cili, che adoperano il termine dogma non per designare le proprie defini-
zioni, ma sempre nel senso di «dottrine» vere o false. Calcedonia intende,
in questo senso, ergersi contro i dogmata dell'errore 115 •
Basilio di Cesarea, in un celebre passo del trattato Lo Spirito Santo,
presenta una opposizione originale tra le proclamazioni (kerigmata) e le
dottrine (dogmata): le prime vengono dall'insegnamento scritto e le secon-
de dalla tradizione apostolica, trasmessa segretamente. Egli ritiene che
«entrambe hanno lo stesso valore per la pietà» 116 , espressione questa che
sarà ripresa da Trento e dal Vaticano II 117 • Il contesto e l'uso del vocabo-
lario però è molto differente. ~asilio mette dalla parte delle proclamazio-
ni ciò che noi oggi chiameremmo più volentieri dogmi e chiama dogmata
ciò che costituisce l'oggetto di una trasmissione segreta secondo il princi-
pio dell'arcano e che concretamente concerne le pratiche liturgiche. L'au-
tore sottolinea la solidarietà che unisce i due ambiti, poiché le proclama-
zioni sono anche, a loro modo, dei dogmata 118 • Basilio parla così di «dog-
ma della monarchia divina», cioè della dottrina dell'unità trinitaria, o di
«dogmata della teologia», del «dogma della religione» 119 •
In Occidente, il termine dogma è assente dalle opere di Tertulliano,
Cipriano, Ambrogio, Agostino, Leone e Gregorio Magno 120 • Esso svolge

112 Cfr. GIUSTINO, Prima Apologia, 44, l; TAZIANO, Discorso ai Greci, 27, l; ATENAGORA, Supplica per i
cristiani, 3, 11, l;A Diogneto, 5, 3; CLEMENTE DI .ALESSANDRIA, Gli stromati, 7, 16, 104, l; 0RIGENE, Contro
Celso, 1, 7; 2, 24; 3, 39; 3, 76; 5, 22; EUSEBIO DI CESAREA, Storia ecclesiastica, I, 3, 12; cfr. W. KAsPER, Il
dogma sollo la parola di Dio, Queriniana, Brescia 1968, p. 39.
rn W. KASPER, li dogma sollo la parola di Dio, cit., p. 39, che riprende EUSEBIO, Stona ecc/es1'astica,
VII, 5, 5.
114 lbid. L'autore rimanda a: Cmn.w DI GERUSALEMME, Le catechesi battesimali, 4, 2; Cmn.w D'ALES-
SANDRIA, Commento al vangelo di Giovanni, 21,.25.
m D:i:S 300. Più tardi però la seconda lettera di Cirillo a Nestorio (Lettera 4 del corpo cirilliano) sarà
chiamato <<lettera dogmatica», in ragione del fatto che era stata acclamata a Efeso.
11 6 BASILIO DI CESAREA, Lo Spirito Santo, XXVII, 66, cit., p. 181.
117 Cfr. infra, pp. l28 e 474.
118 Cfr. B. PRUCHE, introd. a se 17bis, cit., pp. 141-14:?.
119 BASILIO DI CESAREA, Lo Spirito Santo, XVIII, 47; XX, 51; XXX, 77, cit., pp. 154, 161, 199.
120 W. KAsPER, Il dogma sollo la parola di Dio, cit. pp. 40-41.

58 BERNARD SESBOÙÉ
viceversa un ruolo importante nel Commonitorium di Vincenzo di Lerino
(morto prima del 450), che impiega abbondantemente il termine nel ten-
tativo di cercare i criteri che permettano di discernere la verità dall'erro-
re. Il suo principale criterio è divenuto celebre:
Nella stessa Chiesa cattolica bisogna vegliare con la più grande attenzion.e a rite-
nere come vero ciò che è stato creduto dappertutto, sempre e da tutti (quod ubi-
que, quod semper, quod ab omnibus creditum est). Perché non è veramente catto-
lico, nel senso forte del termine, che ciò che coglie il carattere universale di ogni
cosa 121.

Vincenzo ritiene dunque e assolutizza in qualche modo il criterio di


ecumenicità nel tempo e nello spazio: antichità e accordo unanime pre-
sente, ai quali accorda un valore normativo 122 • Il suo adagio è ispirato alla
documentazione patristica preparata dal concilio di Efeso, che aveva rac-
colto testimonianze provenienti da regioni (ubique) ed epoche differenti
(semper) e il cui numero (omnes) esprimeva una unanimità m. Vincenzo si
oppone a ogni «novità» ed entra in dialettica a questo riguardo con Ago-
stino. Nondimeno, pone le condizioni di un autentico progresso del dog-
ma: la sapienza e l'intelligenza cristiane devono «crescere secondo il loro
genere proprio, vale a dire nello stesso senso, secondo lo stesso dogma e
lo stesso pensiero» 124 • I «dogmi cristiani» sono per lui i «dogmi della filo-
sofia celeste» m; ciò che appartiene alla professione di fede cattolica è un
«dogma divino» 126 • Vincenzo si avvicina così al senso moderno del termi-
ne dogma, con la connotazione di obbligazione che gli è propria. Il suo
libro però non avrà alcun peso nel Medioevo. Riscoperto nel XVI secolo,
eserciterà solo allora una notevole influenza nelle controversie sulla tradi-
zione tra cattolici e protestanti.
Da parte sua, il marsigliese Gennadio (morto verso il 492) intitola un
compendio delle grandi affermazioni della fede Libro dei dogmi ecclesia-
stici121. La sua preoccupazione di sottolineare la normatività delle affer-
mazioni o delle tesi che esprime è evidente, perché da un momento all'al-
tro impiega la formula dell'anatèma. L'opera, a lungo attribuita ad Ago-

12 1 VINCENW DI LERINO, Commonitorium, 2, 5, a cura di R Demeulenaere (CCSL 64), Brepols, Tur-


nholti 1985, p. 149.
122 La verifica çoncreta di questo criterio su un dato punto può porre dei difficili problemi. L'unani-
mità storica non può essere sempre verificata. Non si può parlare, il più delle volte, che di unanimità
morale. È pertanto in un senso rdativo che si farà valere il «consenso unanime dei Padri» su un dato di
fede. · ·
in Cfr. J.-P. WEISs, Vincent de Lérins, DSp, 16 (1994), col. 828.
124 VINCENZO DI LERINO, Commonitorium, 23, 3, cit., pp. 177-178.
m Ibid., 23, 13, p. 179.
126 Ibid., 22, 16, p. 177. .
127 GENNAD!O, Libro dei dogmi ecc/esiastid, in: PL 58, 979-1000.

I · APOLOGIA DELLA FEDE E DISCORSO CRISTIANO NELL'EPOCA PATRISTICA 59


stino o a Isidoro di Siviglia, sarà tenuta in grande considerazione lungo il
Medioevo.
A parte le considerazioni tardive di Vincenzo di Lerino e di Gennadio,
il termine dogma non appartiene dunque veramente, nell'epoca patristi-
ca, al vocabolario della regolazione della fede. Esso ha il senso di dottrina
e non ha ancora il senso moderno di dogma. Ciò che noi oggi chiamiamo
dogma era chiamato fede, confessione di fede o anche kerigma.

2. I concili ecumenici
Indicazioni bibliografiche: Le conci/e et /es conci/es. Contribution à l'hirtoire de la vie con-
ciliaire de l'Églire, Cerf, Chevetogne-Paris 1960; W. DE VRIES, Orient et Occident. Les structu-
res ecclésiales vues dans l'hirtoire des sept premiers conci/es oecuméniques, Cerf, Paris 1974; Y.
CONGAR, Pour une hirtoire sémantique du terme «magisterium» e Bref hirtorique des formes du
«magirtère» et de ses relations avec les docteurs, RSPT, 60 (1976), pp. 85-98 e 99-112; H.J.
SIEBEN, Die Kom.ilsidee der alten Kirche, F. Schoningh, Paderborn 1979.

Il concilio ecumenico è una istituzione nuova e fa la sua comparsa nel


IV secolo, con la riunione del concilio di Nicea (325). Le condizioni poli-
tiche la rendono ormai possibile, di fronte ad alcuni problemi di fede ri-
tenuti così gravi da domandare una risoluzione solenne da parte di tutta
la Chiesa. Questa novità però non deve far dimenticare, lo si è visto 128 , la
tradizione pressoché bisecolare dei concili locali e provinciali.

Il cammino conciliare
Tre termini chiave caratterizzano il cammino conciliare, che intende
rinnovare la fede, dare un insegnamento ed emettere una de/inizione 129 •
1. La fede è intesa tanto nel senso soggettivo dell'atto di fede quanto
nel senso oggettivo del contenuto della fede, data la loro indissociabilità.
Da una parte le prime definizioni si inscrivono nel Simbolo di fede che
inizia con le parole «Noi crediamo ... » e non con le parole «Io credo ... ».
Questo «noi» esprime l'unanimità ecclesiale della confessione di fede.
Questa non è solamente una fede (pt'stis), ma anche un consensus nella
confessione (homologia). Il concilio è una celebrazione in cui la Chiesa
riunita pone un atto teologale di fede e vive una nuova Pentecoste 130 •

128Cfr. supra, pp. 41-42.


129Non è possisibile analizzare qui le procedure utilizzate nei dibattiti conciliari: notiamo semplice-
mente che questi si ispirano fortemente a modelli già esistenti nelle assemblee politiche del tempo e che il
dibattito era una espressione della ricerca della verità
no Riprendendo questa antica visione, Giovanni XXlil voleva fare del Vaticano una «nuova Pentecoste>>.

60 BERNARD SESBOÙÉ
Questo atto teologale di fede ha due connotazioni complementari. Da
una parte ha il compito di apportare una determinazione chiarificante sul
punto allora in questione. Il concilio elabora una formula o un discorso
interpretativo messo al servizio della confessione. Questa redazione sarà
chiamata «esposizione della fede» (ekthesis pisteos) o più semplicemente
«fede» (pistis), venendo spesso preso, il termine, come l'indicativo di una
formulazione datata. Si parlerà così della pistis di Nicea per designare il
Simbolo di quel concilio. D'altra parte, la confessione di fede ha un forte
accento dossologico: è un atto di adorazione verso Dio e di obbedienza a
ciò che comporta la fede di sempre. Dopo Nicea, Atanasio non invoca
l'autorità del concilio in quanto tale, ma deduce in qualche modo questa
autorità dal fatto che i Padri hanno espresso la fede ricevuta dagli apostoli
e dai loro predecessori, vale a dire la fede trasmessa dalla tradizione:
I Padri, in materia di fede, scrive, non hanno mai detto: - si è decretato così;
ma: - Cosl crede la Chiesa cattolica; ed hanno subito confessato ciò che crede-
vano, al fine di mostrare chiaramente che il loro pensiero non era nuovo, ma
apostolico m.

Questo atto di fede apostolica, solennemente riformulato, intende dare


gloria a Dio. Un altro termine esprime bene questi due aspetti dell'orto-
dossia, quello di religione (eusébeia, molto più forte del termine «pietà»
con il quale spesso viene tradotto), che si oppone all'empietà (asebeia)
dell'eresia. L' eusebei(f è la vera religione, lautenticità della fede «sana»
che rende fedelmente gloria a Dio nel pieno rispetto della sua rivelazione.
2. Il concilio consegna an~he un insegnamento, poiché elabora delle
nuove formule. Esso sviluppa il contenuto iniziale della fede e l'attualizza
in funzione della crisi presente e della novità culturale secondo la quale il
problema si pone. Esso introduce un «vale a dire» tra la parola della Scrit-
tura e della tradizione e la nuova formula dogmatica m. Mediante questa
«spiegazione», che è anche una traduzione, il concilio stabilisce nel dibat-
tito il senso da dare, qui e ora, nell'ambito culturale greco, alle grandi
affermazioni scritturistiche su Dio, sul Cristo e sullo Spirito Santo. La
presa di coscienza che il concilio insegna, si esprime in modo speciale a
Calcedonia, in una formula di cui W. Kasper, al seguito di E. Schlink, ha
sottolineato la portata m. L'espressione che introduce la definizione di
Calcedonia non è più «Noi crediamo ... », bensì: «All'unanimità noi inse-

131 ATANASIO, Sui Sinodi, 5, in: PG 26, 688. Citato da Y. CoNGAR, Bref historique des formes du "ma-
gistère" et de ses relations avec !es docteurs, RSPT, 60 (1976), p. 101.
132 Cfr. t. I, pp. 222-226.
m W. !V.SPER, Il dogma sotto la parola di Dio, cit., p. 57.

I - APOLOGIA DELLA FEDE E DISCORSO CRISTIANO NELL'EPOCA PATRISTICA 61


gniamo (ekdidaskomen) a confessare>> 134 • La confessione (homologia) di-
viene insegnamento (didaskalia). Con il tempo, questa fisionomia delle
cose diventerà sempre più dominante.
3. Il terzo termine importante è quello di de/t'nizione (horisen) 135 , intro-
dotto a Cakedonia. Questotermine traduce una presa di coscienza da par-
te del concilio della sua propria autorità a servizio della regolazione della
fede. Definire è demarcare, delimitare, prendere una decisione. La decisio-
ne conciliare assume da ciò una forma giuridica: è un «decreto», come si
dirà sovente in seguito, un atto giuridico in materia di fede, che è all'occor-
renza un atto di giurisprudenza che interpreta i testi fondatori della Scrittu-
ra e del Simbolo; è un atto d'autorità che lega i credenti, ma col solo scopo
di mantenerli nell'obbedienza alla fede apostolica. La Chiesa «fa» in qual-
che modo la verità della sua fede in un dato momento della sua storia. Di
conseguenza, una definizione dogmatica non è mai sufficiente in se stessa,
poiché resta sempre relativa al testo fondatore al quale si riferisce. Così l'er-
meneutica dei testi conciliari è sempre l'ermeneutica di una ermeneutica 1}6.

L'anatema
La tradizione. conciliare farà dell'anatema la conclusione normale di
ogni canone che condanna gli eretici. Il termine proviene dalla Scrittu-
ra. Il suo senso etimologico (offerta votiva) si è piegato per esprimere
ciò che è consegnato alla collera di Dio, e dunque maledetto, votato
spesso allo sterminio - i nemici d'Israele secondo le regole della guerra
santa-, o alla distruzione - il bottino sottratto al nemico (Dt 7, 1-6;
13, 12-17; Lv 27, 28-29). Il termine si ritrova nel Nuovo Testamento con
il senso spirituale di maledizione (Mt 18, 15-18; 1 Cor 5, 3-5). Vi sono
attestate formule con anatema:
Se un angelo dal cielo vi annunciasse un vangelo diverso da quello che vi abbiamo
annunciato, sia anàtema! [... ] Se qualcuno vi annuncia un vangelo diverso da
quello che avete ricevuto, sia anàtema! (Gal 1, 8-9).
Se qualcuno non ama il Signore sia anàtema! (1 Cor 16, 22).

Paolo esprime anche, in modo paradossale, il desiderio di essere


anàtema al fine di poter permettere ai suoi fratelli di razza ebrea di ot-
tenere la salvezza (Rm 9, 3). L'oggetto concreto dell'anatema, che san-
zionava un peccato commesso contro la comunità, era la messa al bando
dalla comunità stessa.
n4DzS 301.
m DzS 301.
136 Cfr. B. SESBOO~, Le procès contemporain de Chalcédoine, RSR, 65 (1977), pp. 55-60.

62 BERNARD SESBOOÉ
Il concilio di Elvira (verso il 300) è il primo a formulare dei canoni con
anatema, costruiti sul modello delle formule paoline. Questo genere lette-
rario sarà mantenuto per i canoni dogmatici fino al Vaticano I. Nell'anti-
co Diritto canonico, l'anatema era la forma più solenne della scomunica,
che comportava la separazione del membro, ritenuto ribelle a ciò che la
comunità gli richiedeva in nome della fede. Alla fine del IX secolo si farà
la distinzione tra la scomunica che priva della comunione eucaristica e
l'anatema che separa dalla società cristiana m. Nel suo uso dogmatico,
l'anatema resta sempre condizionale. Nel corso della storia avrà di mira
sempre di meno le persone e verterà sulla qualità di una affermazione.
Esso qualifica solennemente ciò che è giudicato incompatibile con l'ap-
partenenza alla fede cristiana. La severità della formulazione contribuirà
ad assolutizzare la sentenza cosl corredata e a vedervi l'espressione previ-
legiata delle «definizioni». Il senso però dato all'anatema varia in fonzio-
ne dell'intenzione di ciascun concilio 138 •

Dalla recezione di fatto all'autorità di diritto


Le vicissitudini della recezione di Nicea e l'emergenza di una teologia
del concilio, che non preesisteva alla prima assemblea ecumenica, sono
già state presentate 139 • Ricordiamo semplicemente che il movimento è an-
dato da una autorità di fatto a una autorità di diritto, passaggio di cui
Nicea fornisce uno splendido esempiÒ. Si è fatta anzitutto l'esperienza - at-
traverso il tempo e le difficolta che si sanno - del fatto che questo concilio
aveva effettivamente rinnovi:ito e confermato la fede degli apostoli, era
fedele alla Scrittura ed era effettivamente ricevuto a questo titolo dalla
maggior parte delle Chiese. In un secondo momento, si è preso coscienza
che non poteva essere altrimenti, poiché si constatò che a Nicea era la
Chiesa tutta intera che si era riunita e si era espressa attraverso la persona
dei suoi vescovi. Ora, la Chiesa universale non può errare nella fede. Si è
dunque affermato che il concilio aveva parlato in modo definitivo, colle-
gando la sua autorità al suo carattere ecumenico. Si è venuti allora ad af-
fermare lautorità di diritto del concilio ecumenico, cosa questa che sarà
già presente a Efeso. Si è d1,1nque passati dalla proposizione: il concilio ha
ribadito la fede degli apostoli e la sua decisione riveste perciò una autorità
sovrana, a quest'altra: il concilio ecumenico, rappresentante la fede di
tutta la Chiesa, non poteva che ribadire la fede degli apostoli e ha perciò
un'autorità sovrana: Le grandi vicessitudini della recezione di Nicea sono

137 Cfr. A. BRIDE, Anathème, in: Catholicisme, I (1948), 517.


138 Torneremo sull'argomento in occasione del Concilio di Trento, infra, p. 140.
139 Cfr. t. I, pp. 220-222 e t.III, pp. 341 s.

I . APOLOGIA DELLA FEDE E DISCORSO CRISTIANO NELL'EPOCA PATRISTICA 63


state il crogiuolo in cui si è elaborata la presa di coscienza della definitiva
autorità di un concilio ecumenico. È così che, nel conflitto tra Cirillo e
Nestorio, il concilio di Nicea verrà invocato come pietra di paragone per
la comprensione dell'incarnazione.

L'autorità del vescovo di Roma


Il vescovo di Roma continua a esercitare la sua autorità dottrinale come
in passato. Con il tempo e il moltiplicarsi delle crisi, è sempre più coscien-
te di esercitare una autorità propria in materia dottrinale 140 • La nascita
però dell'istituzione conciliare pone un nuovo problema: come si articola-
no l'autorità del concilio e l'autorità del primato papale?
Nel frangente di Nicea il papa Silvestro è rimasto molto passivo. Ha
declinato l'invito ad essere presente al concilio «a motivo della sua anziani-
tà», e la sua assenza avrà valore di un precedente. Non abbiamo nemmeno
alcuna prova che egli abbia confermato il concilio. A Efeso, Celestino e i
suoi legati hanno svolto un ruolo più importante, ma non si può ancora
parlare di una formale conferma di Efeso da parte di Celestino. A Calcedo-
nia la manifestazione dell'autorità di Leone è ancora più grande. Questi ha
coscienza di avere autorità sul concilio, ma, come ha ben dimostrato W. De
Vries 141 , già a Efeso e ancora di più a Calcedonia, la concezione del rappor-
to tra il concilio e il papa è divergente in Oriente e in Occidente. Leone
ritiene che il concilio si sia rifatto al suo Tomo a Flaviano, mentre i Padri di
Calcedonia ritengono di aver giudicato come ortodosso il docwnento di
Leone. Così, Leone confermerà Calcedonia con una restrizione: respingerà
infatti il canone 28. Questa pratica sarà mantenuta e sarà in seguito consi-
derata come necessaria per l'autorità diun concilio ecwnenico.
Qual è, all'epoca, l'uso del termine magistero? Gli antichi concili si
guardano bene dall'impiegarlo a proprio riguardo. Agostino è un testimo-
ne del pensiero del suo tempo: il magistero (magisterium) è riservato a Dio
e al Cristo, in forza di Mt 23, 10: «Uno solo è il vostro maestro, il Cristo».
Gli uomini non hanno che un ministero (ministerium). «Questa coppia
magister-minister è classica», scrive Congar 142 • San Leone però parla già di
Chiesa romana come maestra (magistra). Il sacramentario leoniano parla
del «magistero» degli apostoli Pietro e Paolo, dal quale la Chiesa è gover-
nata 143 • Ritroveremo questo termine nel Medioevo, ma con un senso an-
cora lontano da quello che ha assunto oggi.

140 Cfr. Y. CoNGAR, Bre/ historique .. ., art. cit., p. 102.


141 Cfr. t. I, pp. 367-368.
14 2 Cfr. Y. CoNGAR, Pour une histoire sémantique du terme "magisterium", RSPT, 60 (1976), pp. 86-87.
143 Cfr. ibid., p. 88.

64 BERNARD SESBOÙÉ
Capitolo Secondo

Esposizione della fede


e apologia nel Medioevo

Secondo la storiografia corrente, il Medioevo corrisponde a quel lungo


periodo di nove secoli che si estende dall'inizio del secolo VII e arriva alla
fine del xv. Esso prende awio all~ fine della civilizzazione antica e in con-
comitanza con la conversione dei Barbari europei al cristianesimo. Men-
tre un mondo è andato in decadenza, un altro nasce, rimodellando consi-
derevolmente la società. Tale genesi non awiene senza i difficili momenti
delle invasioni e del prender piede di nuovi regni barbari, momenti che
hanno fatto anche chiamare i secoli che hanno preceduto e seguito il re-
gno di Carlo Magno «i secoli di ferro». Oggi la ricerca storica è più atten"
ta al valore iniziale di tutti i valori culturali che sono fermentati intorno
alla «rinascita carolingia» 1 • Questo periodo di transizione è importante
per la cultura e il pensiero cristiano, e presenta uomini come Cassiodoro,
Boezio, Giona di Bobbio e, più tardi, Incmaro, Gerberto e altri 2 • Durante
questi secoli, la Chiesa svolge un ruolo capitale per la salvaguardia della
cultura antica, sia pagana che cristiana. Mentre si evangelizzano le campa-
gne, i monasteri orientali e occidentali ricopiano i manoscritti, studiano le
Scritture e sono dei centri di studio e di insegnamento religioso. Un gran
numero di concili locali o regionali vengono allora tenuti in diversi paesi
d'Europa'.
Dal punto di vista della dottrina della parola di Dio (metodologia del
discorso della fede, regolazione dogmatica, giustificazione e apologia), che
è quello che qui ci interessa, non tutti i tempi medievali sono ugualmente

1 Cfr. P. R!CHÉ, Education et culture dans l'Ocddent barbare (VI'-VllI' siècle), Seui!, Paris 1962; Io.,
Écoles et enseignements dans le Haut Moyen Age, Aubier, Paris 1979; H.-1. MARRou, Décadençe romaine et
antiquité tardive, Seui!, Paris 1977; P. BROWN, Genèse de l'antiquité tardive, Gallimard, Paris 1983.
2 Cfr. A. GRJLLMEIER, Fulgentius'von Ruspe De fide ad Petrum, und die Summa sententiarum. Eine
Studie zum Werden der Fruhscholastischen Systematik, in: Mit ihm und in ihm, Herder, Freiburg 1975,
pp. 637-679. .
J Cfr. O. PoNTAL, Histoire des conci/es mérovingiens, Cerf/CNRS, Paris 1989.

II · ESPOSIZIONE DELLA FEDE E APOLOGIA NEL MEDIOEVO 65


produttivi. L'Alto Medioevo, cioè il periodo che va dal 604, morte di
Gregorio Magno, al 1054, rottura tra l'Oriente e l'Occidente cristiano, è
un tempo di trapasso tra la tarda antichità e il Medioevo stesso. I grandi
problemi dottrinali sono ancora trattati in Oriente (III concilio di Costan-
tinopoli nel 681 e II di Nicea nel 787) e risentono dell'influsso dell'impe-
ro bizantino e della cultura patristica orientale. In seguito, «la Chiesa gre-
co orientale, danneggiata gravemente dall'invasione dell'Islam, continuò
a vivere in questo periodo la sua vita precedente senza cambiamenti so-
stanziali; non conosce il Medioevo» 4 • In Occidente, al contrario, un nuovo
fermento teologico si manifestò sulla base dei fondamenti posti da Ago-
stino e della ricerca speculativa di Boezio (480-525). Esso si espresse ini-
zialmente già in occasione della creazione di un nuovo impero d'Occiden-
te sotto lo scettro di Carlo Magno e del suo figlio Luigi il Pio: fu questa la
cosiddetta «rinascita carolingia», che conobbe la fondazione di scuole
presso le cattedrali e la riunione di diversi sinodi. I secoli seguenti raccol-
sero i frutti di questo fermento.
Saranno però i seguenti due periodi del Medioevo a catalizzare la no-
stra attenzione: quello che va dalla rottura del 1054 e dal pontificato di
Gregorio VII (1073-1095) alla fine del XIII secolo, che vede l'espandersi
progressivo della grande scolastica e la formazione delle collezioni cano-
niche, che svolgeranno un ruolo di trasmissione nei confronti della teolo-
gia, e quello che ingloba il XIV e il xv secolo, che vede nascere alcune ten-
denze teologiche, premonitrici, in un certo qual modo, della Riforma.
Questi due periodi restano uniti da caratteri comuni: una lucida maturità
nell'esercizio di un metodo teologico molto consapevole di sé; la prospet-
tiva di una nuova forma di intelligibilità della fede; un nuovo tipo di fun-
zionamento della regolazione dottrinale. L'Oriente, ormai separato dal-
l'Occidente, segue in proposito una via propria e per questo concentrere-
mo la nostra riflessione sul Medioevo latino 5 •
In Occidente è l'ora del possesso pacifico del contenuto della fede, che
diviene l'oggetto di una riflessione sempre più razionale. In rapporto ad
essa, la lotta contro gli eretici resta secondaria, benché questa assuma tal-
volta un carattere quasi ossessivo. L'apologia ad extra ha di mira soprat-
tutto i musulmani. In confronto all'epoca patristica, il centro di gravità
della riflessione dottrinale si è spostato dall'apologia della fede alla sua
esposizione sistematica. Per questo motivo invertiremo, rispetto al capito-

4 K. Bll·lLMEYER - H. TUECHLE, Storia della Chiesa, Il: Il Medioevo, Morcelliana, Brescia 196(,}, p. 18.
Cfr. M.D. KNOWLES - D. OeOLENSKY, Nouvelle histoire de l'Église, II: Le Moyen Age, Seui!, Paris 1968;
Histoire du christianisme, a cura di].-M. Mayeur e altri, N-V, Desclée, Pads 1993
5 Per l'Oriente, dr. J. PELIKAN, La tradition chretienne, Il: L'esprit du christianisme orientai (600-1700),
PUF, Paris "1994.

66 BERNARD SESB00É
lo precedente, l'ordine di presentazione degli argomenti. Affronteremo
dapprima la metodologia teologica, evocando i contenuti che annunciano
quella che verrà chiamata più tardi la «teologia fondamentale», e daremo
solo suc_cessivamente qualche indicazione concernente l'apologia della
fede. Il punto di vista prescelto è dunque alquanto selettivo, richiesto dalle
realtà vissute nel Medioevo e, per quanto riguarda il dogma, da eiò che
seguì alla svolta scolastica, allora intrapresa.

I. LE FASI DELLA SCOLASTICA:


I PROBLEMI E LE RAGIONI

Indicazioni bibliografiche: G. PARÉ· A. BRUNET - P. TREMBLAY, La renaissance du x1r siècle.


Les écoles et l'einsegnement~ Vrin, Paris-Ottawa 1933; Y. CoNGAR, Théologie, DTC, XV/l
(1946), 341-502;]. DE GHELLINCK, Le mouvement théologique du Xlf siècle, Èd. Univ.-DDB,
Bruxelles-Paris 1948'; M.D. CHENU, La teologia come scienza nel XIII secolo,Jaka Book, Milano
1985; ID., S. Tommaso d'Aquino e la teologia, Gribaudi, Torino 1989; Io., La teologia nel XII
secolo, Jaka Book, Milano 1986; A. LANG, Die theologische Prinzipienlehre der mittelalterli-
schen Scholastik, Herder, Freiburg 1964; M. CORBIN, La liberté de Dieu. Quatre études sur l'oe-
uvre d'Anselme de Cantorbery, I.C.P., Paris 1980;]. LECLERCQ, Cultura umanistica e desiderio
di Dio. Studio sulla letteratura monastica del Medioevo, Sansoni, Firenze 1988';]. PAUL, Histoi-
re intellectuelle de l'Occident médiéval, A. Colin, Paris 1973; J. }OLIVET, Arts du langage et théo-
logie chez Abélard, Vrin, Paris 1982'; J. VERGER - ]. }OLIVET, Bernard et Abélard ou le cloftre et
l'école, Favard-Mame, Paris 1985; A. DE LIBERA, La filosofia medioevale, Il Mulino, Bologna
1991; L. MATIIIEU, La T rinité créatrice d'après saint Bonaventure, Éd.. franciscaines, Paris 1992;
O.H. PESCH, Thomas d'Aquin: limites et grandeur de la théologie médiévale, une introduction,
Cerf, Paris 1993; J. PELIKAN, La tradition chrétienne, III: Croissance de la théologie médiévale
(600-1300), PUF, Paris 1994; J. GAUDEMET, Église et Cité: histoire du droit canonique, Cerf-
Montchrétien, Paris 1994; M.L. CousH, Peter Lombard, Brill, Leiden 1994.

1. Un nuovo contesto culturale

L'epoca patristica aveva conosciuto qualche scuola di catechesi supe-


riore o di teologia (Giustino a Roma, Clemente e Origene ad Alessandria,
più tardi la scuola di Antiochia). Essa disponeva anche di fiorenti centri
intellettuali, che si applicavano alla lettura della Scrittura e alla riflessione
sulla fede. Nella maggior parte dei casi però, i grandi teologi erano vesco-
vi e la teologia restava un impegno propriamente episcopale. Nel Medio-
evo le cose mutano ..
Nei secoli di transizione tra l'antichità cristiana e il Medioevo, i mona-
steri orientali e occidentali svolsero un ruolo primario nella trasmissione
della cultura, in particolare per l'intelligenza delle Scritture e l'insegna-
mento delle necessarie conoscenze per il ministero pastorale. In Occiden-

II· ESPOSIZIONE DELLA FEDE E APOLOGIA NEL MEDIOEVO 67


te, nascono le «scuole monastiche», che insegnano il percorso delle arti
liberali e dipendono dagli ordini religiosi. Al loro fianco si sviluppano le
«scuole cattedrali», suscitate dall'iniziativa dei vescovi. Questi due tipi
di scuole seguivano lo stesso programma di insegnamento (grammatica,
retorica, dialettica) e avevano un punto in comune: vi insegnava un mae-
stro, la cui riconosciuta autorità costituiva la fama dell'istituzione e atti-
rava gli studenti. È qui che vennero elaborati, dal x al XII secolo, i primi
lineamenti del metodo scolastico, la scienza della Scuola. La teologia di-
venne una disciplina «scolare», oggetto dell'insegnamento e della ricer-
ca. In Francia, le scuole cattedrali di Laon (Giovanni Scoto Eriugena,
Anselmo di Laon), di Chartres (Giovanni di Salisbury) e di Parigi (Abe-
lardo che aveva studiato a Laon), la scuola monastica dei Vittorini (Ugo
di San Vittore), svolsero in tal modo un ruolo importante nell'evoluzio-
ne del metodo teologico.
Le università nascono a partire da queste scuole: a motivo della loro
relativa decadenza, alcuni maestri vollero lavorare in modo indipendente,
fondando le loro proprie scuole superiori «libere». Le prime a essere eret-
te furono quelle di Parigi, di Bologna e di Oxford.
In seguito, «gli insegnanti delle dottrine fondamentali: teologia, diritto,
medicina e filosofia (Artes liberales) si unirono per difendere i loro inte-
ressi in una corporazione, si dettero una costituzione ed ottennero dei
riconoscimenti civili e religiosi; accanto a importanti privilegi [. .. ] Sorse
così uno Studium generale [ .. .] Il nome di "Università" nel senso moder-
no, coqie accademia che riunisce tutte le discipline (universitas literarum),
comparve per la prima volta in Germania verso la fine del XIV secolo;
anteriormente si designava col nome di "Universitas" l'associazione degli
insegnanti (le facoltà docenti) oppure lorganizzazione degli studenti in
nazioni, oppure la corporazione degli insegnanti e degli studenti in una
scuola superiore presi insieme» 6 • Le prime università furono dunque il
frutto di una iniziativa degli stessi insegnanti, ma dipesero anche dai papi,
che ne fondarono a loro volta. In queste nuove istituzioni, la teologia co-
rona l'insieme delle discipline, come regina delle scienze.
Le diverse università conservarono ciascuna la loro originalità nel lavoro
teologico, ebbero la loro propria «via» e non assunsero tutte le medesime
posizioni. Si instaurò così un pluralismo teologico. Qualcosa di analogo
accadde anche tra i grandi ordini religiosi: domenicani, francescani, carme-
litani, agostiniani. Si può così parlare dell'esistenza, nel Medioevo, di «scuo-
le teologiche» nel senso intellettuale del termine; scuole definite dai loro

6 K. Bllll.MEYER - H. TUECHLE, Storia della Chiesa, II: Il Medioevo, cit., p. 357. Sulle Università cfr.
anche Histoire du christianisme, cit., e J. VERGER, Les Universités au Moyen Age, PUF, Paris 1973.

68 BERNARD SESBOÙÉ
metodi, dai loro filosofi e dalle posizioni chiave sostenute nel quadro del-
le tradizioni proprie. Queste scuole dibattono liberamente quei punti sui
quali i concili si guardano bene dal prendere precise posizioni. A metà del
XIII secolo si avranno così grandi dibattiti intorno ali' averroismo 7 •

2. Nuove metodologie teologiche

L'evoluzione della teologia nella direzione di una disciplina di scuo-


la, insegnata sistematicamente a studenti, ne muta profondamente la
natura e il metodo. La sua finalità è oramai la ricerca della intelligibilità
della fede (jidens quaerens intellectum). H. de Lubac ha recentemente
ben mostrato, a proposito della teologia dell'eucaristia, il passaggio allo-
ra compiuto dal simbohco al· dialettico 8 • Questo cambiamento orienterà
l'evoluzione della teologia fino ai giorni nostri, ma avrà anche delle con-
seguenze sul linguaggio dogmatico stesso, che si rivestirà sempre di più
di una forma scolastica. Per questa ragione si darà qui un più ampio
spazio a questi nuovi orientamenti. Non si deve però dimenticare la
continuità, nella stessa epoca, della teologia monastica, più dipendente
dall'eredità patristica, più meditativa e più orientata verso la contempla-
zione del mistero.

Dalla lectio alle «sentenze»


La teologia lavora su dei. testi: quello della Scrittura, owiamente, ma
anche su quelli della patristica, della liturgia e del diritto canonico, che
costituiscono il commentario dottrinale di questa «sacra pagina» (sacra
pagina). La base dell'insegnamento consiste dunque nello studio della
Scrittura, luogo privilegiato dell'esposizione della dottrina della fede. È al
«commentario« o all' «esposizione» (lectio), primo tempo della pedagogia,
che i grandi maestri della scolastica continueranno ad applicarsi, utiliz-
zando la griglia ermeneutica dei quattro sensi della Scrittura 9 • Questi com-
mentari, che potevano procedere frase per frase, sono come altrettante
glosse che cercano di chiarificare le difficoltà del testo, al fine di evitare i
dubbi che questo poteva suscitare. La glossa poteva intervenire sulla pa-
gina stessa del testo, o in margine, o in modo interlineare. Le risorse della

7 Cfr. M.-M. DuFEIL, Guillame de Saint-Amour et la polémique universitaire pansienne 1250-1259,


Picard, Paris 1972.
8 H. DE LUBAC, Dal simbolo alla dialettica, in: Corpus mysticum. L'eucaristia e la Chiesa nel Medioevo,
Jaka Book, Milano 1982, pp. 283-314.
9 Sui sensi della Scrittura, cfr. t.I., pp. 131-134. Cfr. Anche: H. DE LUBAC, Esegesi medievale. I quattro
sensi della Scrittura, Paoline, Roma 1972.

II - ESPOSIZIONE DELLA FEDE E APOLOGIA NEL MEDIOEVO 69


grammatica, delle categorie del linguaggio e della logica, aiutavano a for-
malizzare l'insegnamento dei testi, oggetti della lectio.
Per la logica stessa delle cose, le glosse, prendendo maggior consisten-
za, <#vennero un genere letterario proprio: «glossa media» (glossatura
media, Gilberto Porretano) o «glossa grande» (glossatura magna, Pier
Lombardo). La lectio dava luogo alla formulazione di sentenze (senten-
tia), che erano anzitutto enunciati di formule patristiche che glossavano la
Scrittura, raccolte e poste in antologie. Le sentenze poi divennero l'enun-
ciato di una intelligenza più profonda della lettera, una dizione del senso
(sensus). Le collezioni di Sentenze diedero sempre di più spazio a queste
conclusioni e divennero delle Somme di Sentenze. <<L'antica compilazione
di sentenze diviene un'originale raccolta di interpretazioni e di opinioni,
motivate e sistematizzate, di vera e propria densità dottrinale. Il famoso
Liber sententiarum di Pietro Lombardo (verso il 1100-1160) è il tipo per-
fetto di questa letteratura e sancisce il traguardo di una evoluzione ormai
compiuta. Il Lombardo è il "maestro delle sentenze"» 10 • I suoi Quattro
libri di Sentenze integrano una prima forma di dialettica e ritracciano leco-
nomia cristiana dalla creazione fino al giudizio ultimo. L'opera del Lom-
bardo assunse un posto previlegiato nell'insegnamento della teologia: tut- ·
ti gli studenti dovevano leggerla e i grandi maestri della scolastica, da
Bonaventura a Tommaso d'Aquino, Duns Scoto e Guglielmo di Ockam
ne fecero il commento.

La quaestio
La lectio però non può bastare, anche con lo sviluppo delle glosse e.le
conclusioni espresse nelle sentenze. Le affermazioni della Scrittura pon-
gono un insieme di questioni radicali e innumerevoli che superano l'inter-
pretazione di questo o quel testo: si tratta dei loro presupposti, della loro
coerenza e delle conseguenze che se ne possono dedurre. In breve, si trat-
ta dell'intelligibilità di tutto ciò che esse costituiscono. Ad esempio: «Cri-
sto è venuto a salvare l'uomo dal peccato; sarebbe ugualmente venuto se
non vi fosse stato il peccato? L'uomo è debilitato da una decadenza origi-
naria della stirpe; ma questa debolezza colpisce il vigore della sua intelli-
genza? oppure la sua sensibilità, o solo la sua volontà? La grazia è in me
soccorso divino e partecipazione alla sua vita; come si istituisce nella mia
anima? La fede, la speranza, la carità, sono degli elementi, delle forme di
questa partecipazione? In che modo sono delle virtù? E così via»u. La

10 M.-D. CHENu, La teologia come sdenza nel Xlii secolo, Jaka Book, Milano 1985, pp. 40-41.
u Ibid., pp. 38-39.

70 BERNARD SESBOÙÉ
questione (quaestio) succede in qualche modo alla contemplazione: essa
cerca di comprendere la terra interrogando la terra e non più contemplan-
do il cielo; passa da una causalità esemplare a una causalità efficiente
(Y. Congar). La questione, che fa seguito alla lectio, sarà il luogo previle-
giato dell'intellectus /idei. Non è più una questione spontanea che ci si
pone su un testo, ma un procedimento tecnico di elaborazione di un ar-
gomento, dal suo status quaestionis fino alla sua soluzione.
Di mano in mano, le risposte a ciascuna questione creano uno spazio
teologico che cerca a sua volta una coerenza globale e sistematica. Poi la
quaestio si universalizza divenendo il punto di vista formale secondo il
quale verrà trattato ogni argomento. «Cosicché dalla domanda autenti-
ca degli inizi, si passa a un artificio applicato metodicamente ai conte-
nuti ideologici meno suscettibili di incertezza; della questione non rima-
ne che la forma. Il primo teologo che osò domandare Utrum Deus sit?
non dubitava affatto, in verità, dell'esistenza di Dio» 12 • Egli indicava
semplicemente la messa in forma sistematica del tema. Tutto questo
processo sposta il centro di interesse della teologia: dal testo della Scrit-
tura, commentata, si passa a un nuovo terreno, quello degli interrogativi
sempre più speculativi. Ci si pone oramai un insieme di questioni di
intelligibilità che conviene trattare per se stesse. Per fare questo la teo-
logia intende procedere con rigore per rationes. Dalla sentenza si è dun-
que passati alla quaestio. Molto presto gli esemplari del testo di Pier
Lombardo si trovano sommersi di note marginali che moltiplicano· le
questioni («Hic quaeritur>>) Il. Quando l'opera sarà commentata dai gran-
di scolastici del XIII secolo, il loro commento assumerà il genere lettera-
rio della. quaestio.

La metodologia della quaestio


La quaestio sviluppa la sua metodologia propria a partire dal loqtano
esempio che ne aveva dato Boezio nella sua famosa -questione sulla Trini-
tà 14 • Essa partiva da uno status quaestionis che proponeva le opinioni dei
Padri sui punti considerati, prendendo atto delle loro divergenze. Nel suo
famoso Si e No (Sic et Non) 15 Abelardo raccoglieva così, a proposito di un
vasto insieme teologico (fede, sacramenti, carità), le opinioni dei Padri,
vale a dire delle «autorità» per eccellenza, di cui constatava le contraddi-
zioni. Egli manifestava in tal modo un'esigenza critica nel trattamento

12 lbid., p. 40.
Il In., La teologia nel XII secolo, Jaka Book, Milano 1986, p. 383.
14 BoEZIO, Quomodo Trinitas unus Deus est et non tres dii, in: PL 64, I255ss.
15 ABELARQO, Sic et Non, in: PL 178, 1339·1610.

II - ESPOSIZIONE DELLA FEDE E APOLoGIA NEL MEDIOEVO 71


delle stesse autorità, che venivano classificate secondo il sì e il no dato alla
questione posta. Il teologo cercava allora di orientarsi in mezzo a queste
opposizioni, cercava di trovare la verità e nel contempo un accordo di
fondo, pur attraverso la diversità delle opinioni. Per far questo occorre-
va individuare il senso esatto di ogni testo, ricorrendo alle risorse del-
la grammatica e della dialettica. Le parole stesse di queste autorità face-
vano emergere diverse questioni «che bisogna giudicare prima di giudi-
care mediante esse» 16 • Da parte sua, Gilberto Porretano, sulla scia di
Boezio, vedeva nella quaestio un processo di chiarificazione, di soluzio-
ne e di approfondimenfo del problema considerato, attraverso il con-
fronto delle posizioni e lesposizione delle ragioni più profonde in dire-
zione dei rispettivi punti di vista 17 •
Nella forma compiuta che prende nel XIII secolo, in particolare con
san Tommaso, l'unità elementare della quaestio, cioè l'articolo, scompo-
ne i diversi aspetti di un interrogativo, cominciando dall'enunciato con-
tradditorio dell' a favore e del contro: una serie di opinioni è data in un
senso (Videtur quod... ), al fine di mettere in risalto un certo numero di
ragioni; poi l'«in senso contrario» (Sed contra) propone l'opinione in-
versa, fondata sul testo di una autorità (scritturistica, patristica, sovente
sant'Agostino, oppure filosofica, Aristotele). Però «il Sed contra non è
di per sé né la tesi dell'autore, né l'argomento autorevole che serve da
base alla propria posizione: è solo la presentazione dell'altra parte del-
1' alternativa» 18 • Per questo anche un solo Sed contra può bastare a far da
contrappeso a diverse ragioni e annunciare la posizione che l'autore
abbraccerà.
Una volta presentato lo status quaestionis, il maestro vi apporta la sua
soluzione personale o «determinazione», o «conclusione», in un testo che
costituisce il corpo dell'articolo. Questa conclusione è fondata ragione-
volmente, perché riporta la soluzione a principi generali, teologici o filo-
sofici, a delle cause, a delle distinzioni logiche o grammaticali, o a delle
analogie. Da ultimo, il maestro risponde agli argomenti contrari divenuti
obiezioni alla sua posizione, usando generalmente la distinzione, in modo
da rispettare la parte di verità presente nell'opinione. La trattazione di una
questione principale può ramificarsi in una serie di distinzioni, di questio-
ni, di articoli e di «piccole questioni» (quaestiuncula). Nel XIV secolo, la
sua presentazione potrà divenire più complessa e più appesantita, ma il
principio di fondo resterà il medesimo.

In., Dialogo tra un filosofo, un giudeo e un cristiano, in: PL 178. 1641 b.


16
Cfr. A LANG, Die theologische Prinzipienlehre der millelalterlischen Scholastik, Herder, Freiburg
17
1964, p. 37.
18 M.. D. CHENU, Introduction à l'étude de Saint Thomas d'Aquin, Vrin, Montréal-Paris 1950, p. 80.

72 BERNARD SESBOÙÉ
La disputatio
La disputa (disputatio) costituiva una specie di messa ih scena vivente
della quaestio. Come in genere vi erano due opinioni correnti, così due
insegnanti o studenti prendevano la parte l'uno del difensore (de/endens)
e l'altro dell'oppositore (opponens). Ciascuno entrava in una giostra di
argomenti, per far valere la sua posizione. Si trova già tale formula in
Gilberto Porretano 19 • Il maestro fornisce allora la «determinazione» o
soluzione ultima del problema. Questo metodo aveva i suoi vantaggi, nel-
la misura in cui stimolava lo spirito a cercare gli argomenti migliori, ma
conduceva anche a un formalismo esagerato, dove la sottigliezza della dia-
lettica poteva condurre più a brillanti sofismi che all'enunciazione di auten-
tiche ragioni. Le Quodlibetales, cioè le «questioni portanti su non importa
cosa», erano un genere, specialmente parigino, di questioni disputate in cui,
nel corso di una seduta solenne, il maestro si esponeva a rispondere a ogni
possibile questione, proveniente dai suoi colleghi e dagli studenti.

L' «ordine della dottrina» e le Somme teologiche


La glossa conservava uno stretto contatto con il testo commentato. La
sentenza se ne allontanava già con la costituzione di Somme di Sentenze.
La separazione si fa ancora più netta con i Commenti alle Sentenze, che
assumono la forma della quaestio, ma restano fissate all'ordine che Pier
Lombardo aveva dato alla sua opera. Da parte loro, le dispute vertono su
delle Questioni disputate, ri,manendo, per il legame con l'attualità, inse-
gnamenti spezzettati, più legati alla ricerca dei maestri che alla formazio-
ne degli studenti. Si faceva dunque sentire il bisogno di proporre il cor-
pus teologico secondo l'ordine stesso che questa disciplina richiedeva. Le
nuove Somme teologiche costituiscono l'ultimo passo di questa evoluzione
e la creazione di un nuovo genere letterario, le cui caratteristiche princi-
pali sono le seguenti: un insieme di quaestiones trattate secondo la legge
del genere; un progetto di totalità, indicato dal titolo stesso dell'opera; la
preoccupazione di un ordine decisamente sistematico (ardo doctrinae), che
non parte più dalla lettera della Scrittura, ma obbedisce a uno schema
razionale di costruzione, che permetta di giustificare il posto assegnato a
ogni contenuto e di mettere in risalto le articolazioni della fede; l'uso di
principi speculativi fondamentali, talvolta platonici, ma poi, col tempo,
sempre più aristotelici. Il maestro è libero di scegliere il suo piano e la sua
architettura delle materie, dando luogo a una scienza pervenuta a maturi-

19 Cfr. PL 64, 1049 b.

Il - ESPOSIZIONE DELLA FEDE E APOLOGIA NEL MEDIOEVO 73


tà. Da parte sua lo studente vi trova un percorso completo di ciò che deve
sapere. Si passa cosl dalla sacra pagina alla sacra dottrina'°. Questa evolu-
zione non si compirà senza forti resistenze da parte dei maestri più tradi-
zionalisti2t.
Nelle università si pongono allora due tipi complementari di insegna-
mento, il più sovente assicurati dallo stesso maestro: da una parte questi
commenta la Scrittura in maniera corsiva (lectio): Il commento dei libri
sacri conserva anche in san Tommaso un grande rilievo nella sua opera.
Dall'altra, il maestro sviluppa in un primo tempo una «questione disputa-
ta» con i suoi colleghi e i suoi allievi e apporta la sua conclusione; insegna
quindi metodicamente l'insieme delle questioni, in corsi che stanno ali' ori-
gine di una Somma teologica.

3. Il crescere di una nuova intelligibilità:


verso lavvento della teologia come scienza

A questa evoluzione del metodo e della forma della teologia, corrispon-


de una evoluzione del suo contenuto e della sua natura. A differenza della
teologia patristica, impegnata a dare spazio alle autorità scritturistiche e
tradizionali e a mettere la sua ricerca razionale al servizio dell'afferma-
zione della fede, la teologia scolastica pone tutta la sua creatività in un
metodo che procede attraverso la ragione sul fondamento della fede.
Essa mette in moto la discussione dialettica delle ragioni (principi, cau-
se, effetti, metodo sillogistico) e ha di mira la formazione di un sistema.
La preoccupazione di una dottrina che proceda secondo un ardo razio-
nale rigoroso guida tutta l'itltelligenza della fede. Lo stesso rapporto
fede-ragione è vissuto come in precedenza, ma secondo una certa inver-
sione di questi due fattori.

Le «ragioni necessarie» in Anselmo di Canterbury


Anselmo di Canterbury (1033-1109) riprende il compito che si era dato
Agostino: la fede deve cercare di comprendere quello che crede (fides
quaerens intellt:ctum). Egli però porta tale compito più avanti, collocan-
dosi in un punto intermedio tra l'intelligenza patristica della fede e la ra-
gione (ratio) scolastica 22 • Anselmo fa spazio a quest'ultima, poiché vuole
provare la fede attraverso le «ragioni necessarie».

20 Cfr. M.-D. CHENu, La teologia nel Xli secolo, cit., pp. 371-380.
21 Cfr. su questo punto M.-D. CHENu, La teologia come scienza nel XIII secolo, cit., pp. 42-50.
22 H. URs VON BALTIJASAR, Gloria, II: Stili ecclesiastici, Jaca Book, Milano 1978, p. 199.

74 BERNARD SESBOUÉ
Il Monologion e il Proslogion sono stati fatti, dice Anselmo, «perché
possa essere provato, attraverso ragioni necessarie (necessariis rationibus),
senza l'autorità della Scrittura, ciò che noi riteniamo, in forza della fede, a
proposito della divina natura e delle sue persone al di là dell'incarnazione
(praeter incarnationem) 23 •
Prescindendo da Cristo (remoto Christo) e supponendo che egli non sia mai esi-
stito, dimostra con ragioni apodittiche (rationibus necessariis) che, senza di lui, la
salvezza dell'umanità è impossibile. Così pure il secondo libro, supponendo che
di Cristo non si sappia nulla, prova con argomenti evidenti e veri (aperta ratione
et veritate) che la natura umana è stata creata affinché tutto l'uomo - cioè anima
e corpo - un giorno goda della beata immortalità. Dimostra poi che questo fine è
all'uomo necessario, in quanto fu creato proprio in vista di esso, ma che può venir
realizzato solo per opera dell'uomo-Dio, e tutto quello che crediamo dd Cristo
deve necessariamente avvenire 24.

Questo rigore nella ricerca delle ragioni necessarie, che intende fare
astrazione dalla persona di Cristo e dall'insegnamento della Scrittura, ha
dato luogo a molti conflitti di interpretazione. Alcune espressioni di An-
selmo possono in effetti far pensare a che egli ritenga una deduzione ne-
cessaria l'incarnazione e la Trinità. Questa interpretazione razionalista è
tuttora vigente. Tuttavia, essa sembra ignorare la dimensione propriamen-
te contemplativa del pensiero di Anselmo e il suo senso della bellezza della
fede, che lo spinge a mettere in opera una «ragione estetica», come dice
H. Urs von Balthasar 25 • Anselmo sa bene che non potrebbe dedurre le
verità rivelate se non le conoscesse. Se egli le mette metodicamente tra
parentesi, è precisamente nel desiderio di raggiungerle attraverso un cam-
mino che ne manifesti l'intelligibilità e la razionalità. Esse funzionano
come un polo direttore e stimolatore della riflessione. Anselmo si rivolge
a dei fratelli che non hanno bisogno di «arrivare alla fede per mezzo della
ragione», ma vogliono rallegrarsi per l'intelligenza e la contemplazione
della bellezza di ciò che credono e sentirsi pronti a rendere ragione della
loro speranza (cfr. 1 Pt 3, 15) 26 • Il suo interlocutore Bosone lo riconosce:
«Così mi sembra negligenza se, una volta rassodati nella fede, non cer-
chiamo· di capire quanto crediamo» 27 • «Anselmo, scrive H. U rs von Bal-
thasar, si trova nel kairos in cui la rivelazione biblica può venir intesa sem-
plicemente come esuberante compimento della filosofia antica 28 •

2J ANSELMO DI CANTERBURY, Lettera sull'incarnazione del Verbo, VI; L'oeuvre de S. Anse/me, t. III, ed.
fr. a cura di M. Corbin, Cetf, Parigi 1987, p. 231.
24 ID., Perché un Dio uomo, Prefazione, a cura di D. Cumer, Paoline, Alba 1966, pp. 63-64.
25 URS VON BALTHASAR, Gloria, II: Stili ecclesiastici, cit., pp. 193-214.
26 ANSELMO DI CAITTERBURY, Perché un Dio uomo, I, 1, cit., p. 67.
21 Ibid, I, l, p. 613. .
28 H. VON BALTHASAR, Gloria, II: Stili ecclesiastici, cit., p. 194.

II. ESPOSIZIONE DELLA FEDE E APOLOGIA NEL MEDIOEVO 75


Quello che va colto dello sforzo di Anselmo - che del resto non ha
esercitato nel suo tempo che una influenza limitata - è una nuova pre-
occupazione della giustificazione della fede per mezzo della ragione e
dunque la posizione di un nuovo rapporto tra fede e ragione. Questa
impegno è rivolto ai suoi fratelli monaci, ma anche agli infedeli e ai non
credenti, affinché i credenti interiorizzino sempre, come questione po-
sta dall'interno della fede, ciò che i non credenti obiettano dall'esterno
e presentano come un ostacolo. Gli uni ricercano le loro ragioni di cre-
dere, gli altri delle ragioni per non credere, ma gli uni e gli altri si ritro-
vano nella medesima ricerca razionale 29 • Questa rimarrà un dato costan-
te dell'apologia della fede, che si rivolge alla parte incredula che abita in
ogni uomo. A questo titolo, la radicalità del metodo di Anselmo inaugu-
ra un cammino che, sotto diverse forme, non si arresterà più.

L'uso della dialettica nel XII secolo


L'uso della dialettica, disciplina della logica e del discorso che consen-
te una discussione serrata, ha preso il suo awio con Abelardo. Il suo allie-
vo Pier Lombardo si è inoltrato su questa strada. Gilberto Porretano vi si
applica con un vigore speculativo eccezionale. Riflettendo sugli opuscoli
di Boezio, questi ricerca quei concetti teologici e quelle proposizioni che
servono da principi e da regole al discorso, come nelle scienze matemati-
che, di cui sente tutto il fascino del rigore 30 • Gilberto intende ricondurre
la diversità dei dati della fede all'unità di una sintesi inglobante. Il suo
progetto è già «scientifico».
La referenza filosofica più importante della dialettica è allora, in teolo-
gia, l'Organon di Aristotele, messo in circolazione nel XII secolo, quindi le
sue Categorie e più tardi i suoi Analitiei e i suoi Topici. Si tratta dunque
dell'insieme logico dell'opera di Aristotele, quello che regge la coerenza
del discorso. Non si tratta ancora della Metafisica.
Secondo questa dinamica, le principali sentenze delle grandi collezio-
ni devono divenire altrettante regole che consentano di stabilire un
metodo. La teologia, al pari delle altre discipline, ricerca una «assioma-
tica», secondo il modello della topica aristotelica. Lo sforzo però è anzi-
tutto logico e linguistico. Esso non induce a nessun vincolo con una
metafisica. La scolastica si definisce dunque in un primo tempo come
un metodo più che come un contenuto: prima di diventare una ontolo-
gia è una logica.
29 Cfr. M CoRBIN, L'oeuvre de S. Anse/me, intr., cit,, III, pp. 32-34.
io GILBERTO PoRRETANO, PL 64, 1316 c. Cfr. A. LANG, Die theologische Prinzipienlehre... , cit., p. 52.

76 BERNARD SESBOÙÉ.
La teologia come scienza nel XIII secolo
Dopo un buon secolo, la teologia cerca dunque di diventare una «scien-
za», nel senso medievale del termine, vale a dire una disciplina argomen-
tativa. «Vi è scienza infatti per Aristotele e gli Scolastici, scrive Y. Congar,
quando una realtà è conosciuta in un'altra che è la sua ragione, cioè nella
causa, nel principio, in principio»n.
Il terzo influsso di Aristotele, dovuto alle ondate successive della sua
traduzione, farà oltrepassare una nuova soglia a questa evoluzione razio-
nale della teologia. Fino ad allora, si era applicata alla teologia la logica, la
grammatica e la dialettica. «La novità dell' "ingresso" di Aristotele avve-
nuto tra il XII e il XIII secolo, è l'applicazione, in teologia, della fisica, della
metafisica, della psicologia e dell'etica di Aristotele; applicazione che ha
provocato un contributo nuovo nel contenuto e nell'oggetto nella trama
stessa della scienza sacra. Da allora, Aristotele apporterà[. .. ], nel dominio
stesso degli oggetti del sapere teologico, un materiale ideologico che inte-
resserà non più solamente le vie, ma il termine e il contenuto del pensie-
ro» 32. Questo cambiamento lo si deve soprattutto ad Alberto Magno, poi
a Bonaventura e Tommaso d'Aquino, l'allievo di Alberto. La scolastica
diviene allora una «ontologia», che comporta insieme una epistemologia
e una metafisica, il cui fondamento è la teoria dell'analogia dell'esseren.
Bonaventura descrive molto bene il passaggio dal «credibile come cre-
dibile (credibile ut credibile) al credibile come intelligibile (credibile ut
intelligibile). «È questo, spiega Bonaventura, una determinazione che trae
in qualche modo l'oggetto studiato al di fuori del suo asse originario (de-
terminatio distrahens), e sotì:o la quale esso non è più trattato come parte
del suo dato primitivo, ma è sottomesso ad altri principi esplicativi» 34 • Vi
è dunque un passaggio da un tipo di sapere a un altro. Il termine usato da
Bonaventura e da Tommaso d'Aquino per esprimere la cosa è la «subal-
ternazione» di una disciplina indotta in rapporto a una disciplina indut- ·
trice, come l'ottica è subalterna alla geometria. Così la teologia stessa è
subalterna al sapere fondamentale della fede. L'oggetto di fede viene ad
essere trattato secondo il modo del ragionamento. Il metodo del teologo
non è dunque più quello del semplice credente.
Così, nella prima questione della sua Somma teologica, san Tommaso
tratta d~a «dottrina sacra» e si pone subito la questione di sapere se
questa dottrìna è una «scienza». Egli risponde affermativamente, parago-

Jl Y. CoNGAl\, Theologie, DTC, XV/l (1946), 419.


l2 lbid., 375.
JJ Cfr. M.·D. CHENu, La teologia come sdenza nel Xli/ secolo, cit., p. 104.
J4 lbid., pp. so:si.

li : ESPOSIZIONE DELLA FEDE E APOLOGIA NEL MEDIOEVO 77


nandola alle scienze che procedono a partire da «principi conosciuti per
mezzo della luce naturale dell'intelligenza»:
Sicuramente la dottrina sacra è una scienza. Tra le scienze però ve ne sono di due
specie. Alcune si fondano su principi conosciuti per mezzo della luce naturale
dell'intelligenza: come l'aritmetica, la geometria ecc.
Altre procedono da principi che sono conosciuti alla luce di una scienza superio-
re: come la prospettiva a partire da principi riconosciuti in geometria, e la musica
a partire da principi conosciuti dall'aritmetica.
Proprio per questo la dottrina sacra è una scienza. Essa procede in effetti da prin-
cipi conosciuti alla luce della scienza di Dio e dei beati. E come la musica si affida
ai principi che le provengono dall'aritmetica, così la dottrina sacra presta fede ai
principi rivelati da Dio 35 •

In questa risposta, Tommaso d'Aquino volge in argomento una obie-


zione e stabilisce, al seguito di altri scolastici 36, un parallelo tra il ruolo dei
principi nelle altre scienze e quello degli articoli di fede che provengono
dalla rivelazione e dalla tradizione. L'obiezione veniva dal fatto che ogni
scienza procede a partire da principi evidenti per se stessi, secondo il prin-
cipio posto da Guglielmo di Auxerre 37 • Ora, gli articoli di fede non sono
evidenti. La risposta fa dunque appello al principio di subalternazione di
una scienza in rapporto a un'altra, così che la conclusione di una scienza
può diventare il principio di un'altra. In questo caso, lo studioso lavorerà
su dei principi che non sono per lui evidenti, ma che lo sono comunque
per un altro e ai quali egli crede. C'è una continuità tra una scienza e
un'altra, secondo una gerarchia delle evidenze. Questo è ciò che avviene
in teologia, dove gli articoli di fede sono «subalterni» alla scienza di Dio
e dei beati.
L'illuminazione della fede (lumen /idei) assicura la continuità necessa-
ria, poiché proprio lei consente l'intelligenza degli articoli di fede come
principP8 • Se la fede si fonda su un dono abituale (habitus) infuso, o teo-
logale, la teologia riposa su un habitus acquisito per mezzo dell'esercizio
della riflessione. Essa rientra dunque nell'ordine generale della conoscen-
za scientifica 39, perché resta in continuità immediata con il mistero della
fede, in forza del lumen /idei; comune alla fede e alla teologia. Pertanto, la

3l S. Th., I, q. 1, a. 2.
36Questo paragone è già presente negli scolastici dell'inizio del xm secolo: Guglielmo di Auxerre,
Alesandro di Hales, Filippo il Cancelliere. CTr. A. LANG, Die theologische Prinzipienlehre... , cit., pp. 112-
121.
37 Cfr. M.·D. CHENU, La teologia come scienza nel X/II secolo, cit., p. 86
38 Il ruolo del lumen [idei era maggiormente sottolineato nel Commento alle Sentenze, ma è mantenu-
to anche nella Summa, Cfr. M.-D. CHENU, La teologia come scienza nel X/II secolo, cit., p. 95.
39 Sulla subalternazione in s. Tommaso, cfr. M.-D. CHENU, La teologia come scienza nel X/II secolo, cit.,
pp. 104-115. .

78 BERNARD SESBOÙÉ
trascendenza propria degli articoli di fede induce una grande differenza
rispetto al caso delle altre discipline, cosa questa che porta Tommaso
d'Aquino a parlare, all'occorrenza, di «quasi-subalternazione» 40 •
Questa idea della scienza corrisponde a un processo deduttivo che
porta a delle conclusioni nuove, ancora sconosciute, ma a partire da prin-
cipi sicuri e ben noti. Come fa ogni scienza, la teologia argomenta per
«mostrare qualcos'altro» e conduce a delle «conclusioni teologiche». Poi-
ché questa dottrina è una scienza «argomentativa»:
Le altre scienze non argomentano in vista di dimostrare i loro principi, ma argo-
mentano a partire da essi per dimostrare altre verità, comprese in quelle scienze.
Così la dottrina sacra non pretende [.. .] di provare i suoi principi propri, che sono
le verità di fede, ma li prende come punto d'appoggio per rendere manifesta qual·
che altra verità, così come l'apostolo (1 Cor 15, 12) prende spunto dalla risurre-
zione di Cristo per provare la risurrezione generale 41 .

Questa dottrina sacra è una scienza che possiede la sua unità, poiché
gli oggetti che essa prende in considerazione sono in quanto tali rivelati
da Dio (a. 3). Questa scienza è insieme speculativa e pratica (a. 4) e sotto
questo duplice rapporto è superiore a tutte le altre scienze, perché è la
più certa e ha per fine la beatitudine suprema (a. 5). Questo non le impe-
disce di essere anche una «sapienza».

Filosofia e teologia
Indicazioni bibliografich~: E. G!LSON, Le Thomisme. Introduction à la philosophie de
S. Thomas d'Aquin, 1948'; F. VA)'I STEENBERGHEN, Introduction à l'étude de la philoso-
phie médiévale, B. Nauwelaerts, Louvain/Paris 1974; P. V!GNAUX, La filosofia nel Medioevo,
Laterza, Bari 1990; K. FLASCH, Introduction à la philosophie médiévale, Edit. univ.-Cerf,
Fribourg-Paris 1992; A. DE LIBERA, La/iloso/ia medievale, Il Mulino, Bologna 1991.

Una relazione nuova tra teologia e filosofià si instaura a partire dall'in-


terno del discorso razionale della fede. La situazione non è più quella dei
Padri della Chiesa che facevano sì appello alla «sapienza di fuori», ma
·sempre difendendosi dal suo insieme. Platone era il solo ad aver veramen-
te trovato grazia ai loro occhi, e questo a motivo di intuizioni spirituali
che sembravano loro profetizzare il cristianesimo. Il loro rifarsi alla dialet-
tica e ad alcuni concetti improntati in modo sincretistico alle diverse scuo-
le, rimaneva-strumentale. Oramai la filosofia ha invece diritto di cittadi-
nanza, come una grandezza relativamente autonoma all'interno della teo-
logia. La situazione però non è ancora - e lo è ben lontana - da quella dei
40 lbid., pp. 115-122.
41 S. Th., I, q. 1, a. 8.

II -·ESPOSIZIONE DELLA FEDE E APOLOGIA NEL MEDIOEVO 79


tempi moderni, anche se la prepara. È importante pertanto precisare il
rapporto di distinzione e di unità tra filosofia e teologia nel Medioevo, in
particolare a partire dal XIII secolo.
Per la scolastica, la filosofia sussiste in se stessa. Essa è oggetto, alla
Facoltà delle Arti, di un insegnamento universitario che precede quello
della teologia e presenta anche qualche distanza nei suoi confronti. Il suo
rappresentante è Aristotele, il cui pensiero viene veicolato in modo sem-
pre crescente dalle traduzioni e dai commenti dei filosofi arabi. Nel XIII
secolo essa diviene anche l'oggetto di una sorta di infatuazione universita-
ria. Aristotele è «il filosofo» per eccellenza, rappresenta l' «autorità» della
ragione. San Tommaso lo cita a questo titolo, abbandonandosi sempre a
una «presentazione piena di rispetto» (expositio reverentialis) 42 , anche
quando si confronta con lui a riguardo di una qualche tesi incompatibile
con la fede cristiana. La sua audacia nel far entrare il punto di vista della
filosofia nell'insegnamento della scienza sacra provocherà perfino delle
sospensioni e una condanna.
Tuttavia, in nessun momento il discorso dei teologi scolastici attribui-
sce alla filosofia un posto completamente autonomo, come se si trattasse
di una disciplina esercitata congiuntamente e parallelamente alla teologia.
Il loro progetto è dall'inizio e soprattutto teologico. Questo appare evi-
dente nel piano architettonico delle grandi Somme teologiche. Il teologo
parla dall'interno della fede cristiana, nel rispetto dei principi orientativi
della sua disciplina e si serve delle risorse della filosofia secondo un dop-
pio registro: da una parte impronta ad essa alcune strutture del discorso e
del pensiero, per manifestare la razionalità del dato rivelato, per inscriver-
lo in una struttura metafisica ed esprimerlo secondo un ordine sistemati-
co; dall'altra, ritiene che la ragione umana sia capace con le sue sole forze
di dimostrare un certo numero di verità «naturali» su Dio, sull'uomo e sul
mondo, realtà che sono anche contenute nella rivelazione cristiana. La
ragione può dunque aiutare a inventariare (investigare) un insieme di con-
tenuti proposti dalla fede, ma che di per sé non superano le sue stesse
capacità. Il rapporto tra le due discipline pone la metafisica al servizio
della teologia (ancilla theologiae).
Così il mistero della creazione verrà trattato in una prospettiva consa-
pevolmente metafisica 43 ; il concetto di natura dominerà l'antropologia e
condurrà alla distinzione tra naturale e «soprannaturale» 44 - compreso da
san Tommaso come un «soprannaturale continuo»," che non fa violenza

42 Cfr. Ctt.-H. LoHR, Commentateurs d'Aristote au moyen tige latin, Ed. Univ.-Cerf, Fribourg-
Paris 1988.
43 Cfr. t. II, pp. 61 ss.
44 Cfr. t. U, pp. 332 ss.

80 BERNARD SESBOOÉ
alla natura dell'uomo ma che compie il suo desiderio 45 - ; sarà assunto l'ile-
morfismo aristotelico; saranno prese in considerazione le prove dell'esi-
stenza di Dio e il principio dell'analogia dell'essere consentirà di chiarire
le corrispondenze tra i diversi ambiti del corpus teologico. «Da un punto
di vista del metodo, si noterà che c'è distinzione e articolazione tra i livelli
del conoscere, ma senza che si possa parlare di superamento dell'uno da
parte dell'altro: visione beatifica, luce di fede, intellectus /idei, ragione
naturale, sono altrettanti livelli distinti. Nella prospettiva di san Tomma-
so, la fede non rende caduca la ragione, e inversamente la ragione non ha
alcuna speranza di raggiungere o uguagliare la fede» 46 • Un nuovo rappor-
to si è dunque allacciato tra filosofia e teologia, che dà alla prima un posto
sempre più consistente. Questo rapporto resta comunque aperto a quello
che sarà la sua evoluzione futura, e se il «connubio» avvenuto non verrà
mai rotto, nondimeno si troverà successivamente di fronte a una filosofia
che si farà maggiormente rivendicatrice della sua indipendenza.
Due insegnamenti principali possono essere dedotti dalla svolta presa
dalla teologia medievale nel suo rapporto con la ragione. Anzitutto, lo
sforzo di integrare la teologia nell'architettonica delle scienze - sia pure al
suo vertice - è già l'espressione di una preoccupazione della fede di fron-
te alla ragione. La conoscenza di fede è una «scienza», dunque una cono-
scenza razionale capace di rendere ragione di se stessa. Essa dispone delle
stesse credenziali di ogni sapere umano e può sviluppare un discorso co-
erente. È il frutto di un dialogo che è sì inerente alla coscienza di ogni
credente, ma che proprio il teologo ha le capacità di formalizzare, tra l'esi-
genza della ragione e latto di fede. In questo, il Medioevo è già moderno,
e G. Lafont parla in modo suggestivo di «modernità prematura» a propo-
sito del periodo che va dal 1153 al 1334 47 • Questo impegno di giustifica-
zione razionale della fede costituisce lapporto specifico del Medioevo a
ciò che verrà chiamata più tardi «teologia fondamentale». Se la teologia si
costruisce per se stessa, essa tuttavia non dimentica mai quelli di fuori,
come si vede in Anselmo e anche in san Tommaso, preoccupatissimo che
nessuno dei suoi argomenti possa cadere nella «derisione dei non creden-
ti» Urrisio infidelium). Così H. Bouillard aveva potuto individuare serie
analogie tra il progetto di Anselmo e quello di Bionde! 48 •
Il secondo insegnamento concerne l'evoluzione del linguaggio dog-
matico. L'università medievale forma tutti i chierici e dunque anche i

45 Secondo la categoria proposta da G. LAFONT, Histoire théologique de l'Église catholique, Cerf, Paris
1994, p. 180.
46 Ibid., pp. 181-182.
47 lbid., pp. 143 ss.
48 H. BOUILLARD, L'intention fondamentale de Maurice Bionde/ et la théologie, RSR, 36 (1949),
pp. 390-391. .

li - ESPOSIZIONE DELLA FEDE E APOLOGIA NEL MEDIOEVO 81


futuri vescovi e i futuri papi. Essa diffonde il suo tipo di cultura teolo-
gica, condivisa dai maestri della «cattedra dottorale» e da quelli che seg-
gono sulla «cattedra pastorale». Si è coscienti che vi sono qui due tipi di
discorsi, quello che parla in «modo scolastico» (more scolastico) e quello
che si esprime in «modo apostolico» (more apostolico), secondo unari-
flessione di papa Innocenzo Ill 49 • Il primo modo però finirà per inter-
ferire sempre di più sul!' esercizio dell'insegnamento pastorale e precise
determinazioni filosofiche entreranno nella formulazione dogmatica
delle verità di fede. Questo processo comincia a manifestarsi nei concili
medievali: l'esposizione trinitaria del Lateranense IV (1215) adopera un
linguaggio decisamente scolastico, utilizzando in particolare il verbo
«transustanziare» a proposito dell'eucaristia ' 0 • Il concilio di Vienne
(1312) definisce che l'anima è forma del corpo". Un intero opuscolo di
san Tommaso sui sacramenti diviene un decreto del concilio di Firenze
destinato agli Armeni ' 2 e veicola in modo analogo i concetti di materia
e di forma. Al concilio di Trento, l'esposizione della fede della giustifi-
cazione si servirà dello schema aristotelico-tomista delle cause e il termi-
ne tecnico della scolastica, «transustanziazione», entrerà nel linguaggio
ufficiale della fede' 1 • Questi esempi potrebbero essere moltiplicati: il lin-
guaggio dogmatico fa dunque sempre più ricorso alle categorie scolasti-
che, tecniche e filosofiche.

4. La regolazione della fede nel Medioevo


Indicazioni bibliografiche: J.M. PARENT, La notion de dogme au XIII' siècle, in: Études 4'hi-
stoire littéraire et doctrinale du XIII', I, Vrin, Ottawa-Paris 1932, pp. 141-163; G. FRANSEN, L'ec-
clésiologie des conci/es médiévaux, in: Le conci/e et !es conci/es. Contributions à l'histoire de la
vie conciliaire de l'Église, Cerf, Chevetogne-Paris, 1960, pp. 125-141; Hermeneutics o/ the
Couna1s and other Studies, University Press-Uitgenerij Peeters, Leuven 1985; J. BEUMER, La-
tradition orale, Cerf, Paris 1967; O. DE LA BROSSE, Le pape et le conci/e. La comparaison de leur
pouvoir à la veille de la Ré/orme, Cerf, Paris 1966; B. THIERNEY, Foundations o/ the concilir
Theorie, Univ. Press., Cambridge 1955; lo., Origins i/Papa! In/allibzlity 1150-1350. A Study on
the concepts o/ In/allibility, Sovereignity and Tradition in the Middle Ages, Brill, Leiden 1982;
J. LECLER, Le pape ou le conci/e? Une interrogation de l'Église médiévale, Le Chalet, Lyon 1973;
J. CHATILLON, L'exercice du pouvoir doctrinal dans la chrétienté du XIII' siècle: le cas d'Etienne
Tempier, in: Le Pouvoir, Beauchesne, Paris 1978, pp. 13-45; H.J. SIEBEN, Die Konzz1sidee des
lateinischen Mittelalters (847-1378), Schoningh, Paderborn 1984; lo., Traktate und Theorien

<9 PL 216, 1178, citato da Y. CoNGAR, Bre/ historique des /ormes du «magistère» et ses relations avec ·
!es docteurs, RSPT, 60 (1976), p. 10.3.
'o DzS 802.
" DzS 902.
n Cfr. t. III, pp. 108-111.
'1 Cfr. t. III, pp. 145-147.

82 BERNARD SESBOÙÉ
1,Um Kon1.il vom Beginn des grossen Schismas bis 1,um Vorabend der Re/ormation (1378-1521),
Verlag-G. Knecht, Frankfurt-Main 1983; M. TH. NADEAU, Foi de l'Église. Evolution et sens
d'une formule, Beauchesne, Pari 1988; F.-X. PuTALLAZ, Insolente liberté. Controverses et con-
damnations au x11r siècle, Cerf, Paris, 1995.

Come la teologia patristica, anche la teologia medievale obbedisce alla


regola di fede. I termini chiave però che esprimono l'ortodossia vedono
evolvere il loro significato, così come non è più lo stesso il funzionamento
delle autorità e dei riferimenti che la sostengono.

I dogmi e gli articoli della fede


Il termine dogma è impiegato talvolta dagli autori e dai concili dell' Al-
to Medioevo, ma i grandi teologi scolastici lo usano raramente. Manca del
tutto, ad esempio, in Bonaventura, mentre Tommaso d'Aquino non lo usa
che di passaggio' 4 , parlando anche di «dogmi perversi» o di «falsi dog-
mi», eretici, empi e anche di «dogmi dei filosofi»''. Il senso del termine
resta dunque quello di dottrina o di enunciato, e non viene maggiormente
precisato quando viene impiegato a proposito della fede.
Per esprimere ciò che noi chiamiamo oggi dogma, san Tommaso parla
di «articoli della fede» (articuli /idei). Il suo linguaggio si inscrive nella
tradizione del XII secolo e dei suoi predecessori e si riferisce alla collezio-
ne degli articoli che costituiscono il Simbolo di fede, articoli ai quali rico-
nosce il valore di «principi» della scienza teologica. L'articolo di fede è
per lui un preciso enunciato, che si adatta a un tutto organico come le
membra al loro corpo. Ve ne-sono un certo numero a motivo della discor-
sività del nostro spirito, che non può abbracciare in modo semplice la
verità divina 56• Il dottore angelico distingue così gli articoli di fede nell'in-
sieme delle «cose da credere» (credibilia): «Vi sono delle cose da credere
che lo sono per se stesse (per se), e altre che lo sono in riferimento alle
prime» 57 • San Tommaso colloca tra questi oggetti essenziali di fede, la
Trinità, l'incarnazione, ecc., vale a dire gli articoli menzionati nel Credo.
Le altre cose, proposte nella Scrittura, sono lì per la manifestazione delle
prime e non costituiscono degli articoli. C'è dunque una gerarchia nelle
verità da credere. Gli articoli stessi non aumentano con il tempo quanto
alla loro sostanza, anche se sono soggette a nuove spiegazioni'8 • Per faci-

54 S. Th. IIa-IIae, q. 11, 2 e 2; 86, 2. S. Tommaso nell'Inno LAuda Sian Salvatorem del Corpus Domini
scrive le righe seguenti: Dogma datur christianis, ma potrebbe «apparire quasi come una licenza poetica».
Cfr. W .. KAsPER, Il dogma sotto la parola di Dio, Queriniana, Brescia 1968, p. 41.
55 S. Th. IIa-IIae, 39, a. 2; 184, a. 6, ad lm; Commento ai Romani, 1, 17.
56 S. Th. IIa-IIae, q. I, a. 6.
57 Ibid., ad lm.
58 Ibid., a. 7.

II - ESPOSIZIONE DELLA FEDE E APOLOGIA NEL MEDlOll'O 83


litare la trasmissione della fede, essi devono essere riuniti in un Simbolo.
In questo san Tommaso discerne quattordici articoli (sette concernenti
Dio e sette l'umanità di Cristo), ma conosce però anche l'organizzazione
del Simbolo in dodici articoli.
Per i grandi teologi scolastici, gli articoli del Simbolo degli apostoli sono
altrettante verità di fede (credibilia principalia). La loro autorità è aposto-
lica e riconosciuta come tale dalla Chiesa. Regna l'accordo per riconosce-
re con una certezza assoluta che questi articoli esprimono la verità e non
possono essere dedotti né provati in altro modo. Non sono accessibili che
alla fede, perché sono inevidenti per se stessi, e solo la luce della fede può
far percepire la loro certezza, secondo un modo soprannaturale autosuffi-
ciente. La tesi generale è dunque la seguente: «Tutte le verità confermate
dalla fede presentano una certezza assoluta e possono divery.tare dei fon-
damenti per l'argomentazione teologica. Sotto questo punto di vista si può
attribuire a tutte le verità di fede il carattere di principi»s9 •

I concetti di fede e di eresia


Abbiamo visto san Tommaso fare una distinzione tra «le cose da cre-
dere per se stesse» e le altre credibilia. Dalle une alle altre c'è una gerar-
chia di valore, perché le prime appartengono per se stesse (per se) alla
fede 60 • Nel Medioevo, il criterio delle altre credibilia, considerate dal pun-
to di vista dell'oggetto di fede, non è la loro appartenenza alla rivelazione,
ma il loro legame più globale con la salvezza e il conseguimento della vita
beata. Così, quando si cercava di determinare il campo delle verità da
credere, non si assumeva il criterio oggettivo della certezza di fede, ma il
criterio soggettivo dell'obbligazione di credere, compresa in un senso
ampio, secondo il suo legame interno con una attitudine di fede coerente.
Non si cercava di stabilire quello che si poteva attribuire alla fede divina
(nel senso moderno dell'espressione, quanto cioè proviene dalla rivelazio-
ne) secondo la certezza di un insegnamento dogmatico, ma ci si preoccu-
pava piuttosto dell'attitudine religiosa pratica che apparteneva alla respon-
sabilità del credente e alla competenza della Chiesa per la disciplina della
fede. Il campo della «fede» era dunque più grande di oggi.
Il termine eresia, normalmente correlativo a quello di fede - poiché è
definito come suo contradditorio -, sarà analogamente compreso in un
modo più ampio. Il Medioevo fa fatica a distinguere l'eresia come ne-
gazione di un punto di fede o come l'insubordinazione alla Chiesa. Il

l9 A LANG, Die theologische Prinzipienlehre ... , cit, p. ui:


60 S. Th. IIa-IIae, q. 1, a. 8; q. 2, a. 5 e 7.

84 BERNARD SESBOÙÉ
.26° dictatus papae di Gregorio VII (1073-1085), dice ad esempio: «È evi-
dente che è eretico chi non è d'accordo con la Chiesa romana» 61 • Nella
sua definizione, per eresia san Tommaso intende la corruzione della fede
cristiana, sia direttamente negli articoli di fede, sia «indirettamente e se-
condariamente, nelle cose che comportano la corruzione di un articolo.
L'eresia può estendersi a questo doppio domirÌio, come anche la fede» 62 •
Nella scolastica tardiva, l'eresia è considerata non solo il rifiuto di una
verità rivelata, ma anche ogni seria messa in pericolo della vita della fede
e ogni ostinata opposizione o disobbedienza alla disciplina ecclesiale. E
questo era il concetto di cui si serviva l'inquisizione per condannare una
eresia. Il concetto soggettivo di pertinacia (pertinacia) in un giudizio op-
posto a quello della Chiesa ha una portata particolarmente grande. Si
poteva così diventare eretici per aver sostenuto una «sentenza erronea».
Uno scomunicato diventava anche un sospetto di eresia. Ad esempio, il
concilio di Vienne ritiene che colui che afferma con pertinacia che l'usura
non è un peccato è considerato come un eretico. Nori è il peccato di usu-
ra in se stesso che è così giudicato, ma la disobbedienza formale all'inse-
gnamento della Chiesa:
Se qualcuno fosse caduto in quell'errore, per cui presuma di affermare in modo
pertinace che esercitare l'usura non è peccato, decretiamo che debba essere puni-
to come eretico. Inoltre ingiungiamo con il più grande rigore agli ordinari e agli
inquisitori della depravazione eretica di non omettere di procedere contro coloro
che saranno stati denunciati o che si troveranno sospetti di un tale errore, come
farebbero contro coloro che fossero stati denunciati o trovati sospetti di eresia>> 6J.

I due «magisteri»
Il successo delle prime Facoltà di teologia contribuì a dare autorità di
fatto ai dottori scolastici più prestigiosi. In questo contesto, si parla, a
proposito di coloro che insegnano con autorità, di un doppio magisterium.
Poiché il titolo di «maestro», che Agostino riservava al Cristo, passa or-
mai agli uomini. Già Abelardo usa il termine magisterium per designare la
funzione di insegnare 64 • Per san Tommaso ci sono due «magisteri»: il
magistero pastorale del prelato avente giurisdizione e il magistero del
dottore, fondato sulla sua competenza pubblicamente riconosciuta:
L'insegnamento della Sacra Scrittura, scrive egli, avviene in due modi. In un pri-
mo modo attraversç> l'ufficio prelatizio, e infatti chi predica insegna. Perché non

6t Cfr. t. III, p. 379.


62 S. Th. IIa-IIae; q. 11, a. 2.
6l DzS 906.
64 Cfr. Y. CoNGAR, Pour une histoire sémantique du term.e «magisterium», RSPT, 60 (1976), p. 90.

Il - ESPOSIZIONE DELLA FEDE E APOLOGIA NEL MEDIOEVO 85


è permesso ad alcuno predicare se non dispone di un ufficio .di prelatura o se non
lo fa per l'autorità di qualcuno che ha una prelatura. «Come lo annunzieranno, se
non sono stati inviati?» (Rm 10, 15). In un secondo modo attraverso l'ufficio di
magistero, e infatti i maestri di teologia insegnano 65 •

Tommaso d'Aquino distingue esplicitamente «il magistero della catte-


dra pastorale» e il magistero della «Cattedra magisteriale» 66 • «Quello è una
eccellenza di potere, questo una competenza personale pubblicamente
riconosciuta» 67 •
Da parte del magistero pastorale, i papi sono molto coscienti della loro
responsabilità nell'ordine dell'insegnamento della fede. Giovanni XIX, nel
1024, ritiene che il magistero di Pietro (magisterium Petrz}significa la sua
autorità per legare e sciogliere 68 • Alessandro III (1159-1181) «parla del
magisterium della Chiesa romana (di Pietro) e chiede di ricorrere a lei se
si solleva qualche questione» 69 • Celestino III (1191-1198) impiega sovente
il termine «per esprimere l'autorità della Chiesa romana, "mater et magi-
stra", alla quale appartiene la pienezza del potere di legare e di sdogliere.
La sua formula "magisterium et principatus" [magistero e primato] divie-
ne, nel suo successore Innocenzo III "apostolicum principi Petra magiste-
rium contulit et primatum" [li Cristo ha conferito a Pietro, principe degli
apostoli, il magistero apostolico e il primato]. Innocenzo III usa magiste-
rium per significare direzione, governo, autorità di capo» 70 •
Un testo della fine del XII secolo si avvicina molto al senso attuale del
termine magistero. Bernardo di Fontcaude (verso il il85) criticando i
discepoli di Valdo. Scrive:
Il Cristo o il suo angelo non hanno voluto ammaestrare Saul o il centurione, al
fine di mostrare che il magistero della Chiesa deve essere conservato in modo
inviolabile. Nessuno assolutamente lo deve pretendere, se non coloro che hanno
preso posto in una successione di discepoli, cioè i vescovi e gli uomini di Chiesa
ai quali il Signore ha delegato questo compito 71 •

Il magistero dei dottori compare nel XII secolo e si esercita pienamente


nel XIII. I dottori e le università esercitano un ruolo di autorità nelle que-
stioni dottrinali, giudicano o condannano certe tesi. Il «magistero dei teo-
logi» si esercita talvolta in accordo e talvolta indipendentemente dal ma-

65 TOMMASO D'AQUINO, Commento alle Sentenze, IV, d. 19, q. 2, a. 2, ad 4m, citato in: Y. CoNGAR,
Pour une histoire sémantique ... , art. çit., p. 92. ·
66 TOMMASO D'AQUINO, Quodlibeta, m, q. 9, ad 3m. Cfr. Y. CoNGAR, ibid.
67 Y. CONGAR, Bref historique... , art. cit., p. 103.
68 Y. CoNGAR, Pour une histoire sémantique... ~ art. cit., p. 88. ·
69 Epistola 1447 bis, in: PL 200, 1259. - lbid., 92.
70 lbid., p. 89.
7! BERNARDO DI FoNTCAUDE, Libro contro i Valdesi, in: PL 204, 799, citato da Y. CoNGAR, ibid., p. 91.

86 BERNARD SESBOÙÉ
gistero papale. «Al di là della loro funzione di insegnamento scientifico,
scrive Y. Congar, dottori e università hanno acquisito una posizione e un
ruolo d'autorità di decisione o richiedente una sottomissione. Lo Studium
è una terza 72 • Gersone afferma anche il diritto dei dottori a «determina-
re», circa le cose che sono di competenza della fede, prima dei prelati della
Chiesa 73 • Nel caso di errori teologici o scientifici, si assiste contemporanea-
mente a interventi pontifici o conciliari e a interventi universitari. Il «ma-
gistero dei teologi» si esereita dunque di comune accordo, ma talvolta
anche in tensione, con il magistero ecclesiale.
Si .constata che, all'epoca, il rapporto tra teologi e «magistero pastorale»
era molto differente da quello di oggi. I primi godevano di una libertà più
grande rispetto al secondo, ma erano sottomessi alla regolazione esercitata
all'interno del loro «ordine» - un po' come l'ordine dei medici esercita una
autorità deontologica sui suoi membri-. Questo spiega l'importanza che
Lutero attribuirà al suo titolo di dottore. Malgrado le ambiguità del sistema,
c'era qualcosa di sano nella distinzione di due istanze complementari, che
creava uno spazio di dibattitç> e permetteva di poter fare ricorso. Ogni meda-
glia però ha il suo rovescio: l'Inquisizione ha rappresentato una pericolosa
utilizzazione del magistero dei teologi da parte del magistero ecclesiale.

Il ricorso alle autorità


Benché interamente preoccupata della ricerca dell'intelligibilità razio-
nale, la teologia medievale faceva regolarmente ricorso alle «autorità».
Nella struttura della quaestiQ, il ricorso alle autorità svolgeva un impor-
tante ruolo preliminare, con l'enunciazione delle opinioni e soprattutto
con l'esposizione del Sed contra. San Tommaso giustifica il ricorso alle
autorità a motivo del fatto che la teologia come scienza si fonda sempre su
un dato di rivelazione:
È certo che la nostra dottrina deve usare argomenti d'autorità; e questo gli è spe-
cificamente proprio per il fatto che i principi della dottrina sacra ci vengono dalla
rivelazione, e così si deve credere ali' autorità di coloro per mezzo dei quali la ri-
velazione è stata fatta. Questo però non deroga affatto alla sua dignità, perché se
l'argomento d'autorità fondato sulla ragione umana è il più debole, quello che è
fondato sulla rivelazione divina è di tutti il più efficace.
È un uso appropriato che essa fa delle autorità della Scrittura canonica. Quanto
alle autorità. degli altri dottori della Chiesa, essa ne usa anche come argomenti
propri, ma in modo solamente probabile. Questo deriva dal fatto che la nostra
fede si fonda sulla ~ivelazione fatta agli apostoli e ai profeti7 4•

72 Y. CONGAR, Bref hirtorique ... , art. cit., p. 104.


7J lbid.
14 S. Th. I, q. I; a. 8; ad 2m.
Il - ESPOSIZIONE DELLA FEDE E APOLOGIA NEL MEDIOEVO 87
Questo testo distingue diversi livelli d'autorità: vi è anzitutto e soprat-
tutto l'autorità sovrana delle Scritture. Bisogna aggiungervi l'autorità de-
gli articoli di fede raccolti nel Simbolo, non richiamati qui. Tommaso
menziona quindi l'autorità dei dottori, prima di tutti i Padri della Chiesa,
non accordando loro però che un'autorità probabile. Si sa infatti, dopo
Abelardo, che le sentenze dei Padri devono essere sottomessse alla critica
e corrispondere a un certo numero di criteri75 • Si trattava sempre di testi,
ciò che noi oggi chiamiamo i «monumenti della tradizione». San Tomma-
so riconosce infine l'autorità dei filosofi, ma a titolo di autorità esterne e
dunque solamente probabili.
Che ne è del ricorso alla tradizione? «Tutta la teologia Medievale,
scrive Y. Congar, univa Chiesa e Spirito Santo come corpo e anima;
vedeva l'articolo dello Spirito Santo e l'articolo della Chiesa, nel Simbo-
lo, come un unico e medesimo articolo, che significava: "Credo nello
Spirito Santo, unificante, santificante (. .. , ma anche governante, illumi-
nante, ispirante) la Chiesa"» 76 • A questo titolo la Chiesa era considerata
come colei che portava e trasmetteva sotto l'assistenza dello Spirito San-
to, tutto quello che apparteneva alla rivelazione apostolica. Era una teo-
logia della tradizione pur senza il termine. Il senso però dato all'ispira-
zione dello Spirito Santo restava vago e ambiguo. I termini di ispirazio-
ne, di rivelazione e di suggestione (suggestio) dello Spirito Santo erano
prossimi tra loro. Di qui il pericolo di inglobare nella Sacra pagina i ca-
noni conciliari e i decreti pontifici, dando loro un'autorità praticamente
uguale a quella delle Scritture, cosa contro la quale Tommaso d'Aquino
reagì nel testo citato. Si era in effetti più sensibili alla dimensione glo-
balmente divina della trasmissiOne della fede che all'individuazione esat-
to delle mediazioni umane di questa trasmissione 77 • Si ritroveranno nel
XVI secolo delle teologie della rivelazione continuata 78 •
Le tradizioni sono invocate allorché si ha di mira le cose ritenute e os-
servate nella Chiesa, senza che si possa trovarne l'attestazione nella Scrit-
tura. Si tratta il più delle volte delle realtà del culto (i sacramenti), delle
decisioni canoniche o conciliari. Si invocava allora una tradizione orale.
Nel xrv e nel xv secolo i teologi distinguevano tre c.ategorie nel dato nor-
mativo: «la Sacra Scrittura (e ciò che se ne deduceva necessariamente), le
tradizioni apostoliche non ricordate nella Scrittura, le decisioni ecclesia-

7' Cfr. M.-D. CHENU, La teologia nel XII secolo, cit., in particolare i capitoli: Auctoritas, pp. 398-400, e
Tecnica delle «autorità», pp. 405-410.
76 Y. CONGAR, La Tradizione e le tradir.ioni. Saggio storico, Paoline, Roma 1961, pp. 303-304.
n Ibid., pp. 177-178.
78 Cfr. infra, pp. 126-127.

88 BERNARD SESBOÙÉ
· stiche che si potevano chiamare anche tradizioni ecclesiastiche o tradizio-
ni della Chiesa» 79
In questo contesto dottrinale, il ricorso fatto ai testi magisteriali in
quanto tali è relativamente raro. Sembra anche che il giovane sah Tom-
maso non abbia conosciuto del tutto i testi delle definizioni degli antichi
concili. Si faceva appello a questi documenti o agli interventi dei papi
considerandoli piuttosto come testimoni della tradizione, più che come
una istanza autoritaria vera e propria 80 • La pratica teologica però doveva
progressivamente aprirsi a una considerazione nuova dell'autorità dei con-
cili e dei papi.

L'autorità dei concili


Il Medioevo latino ha visto la riunione di un gran numero di concili, sia
provinciali, sia «generali». L'appellativo di «ecumenici» in riferimento a
questi ultimi è contestabile, poiché non riuniscono che i vescovi dell'Oc-
cidente. Si tratta dei quattro concili del Laterano (1123, 1139, 1179 e
1215), dei due concili di Lione (1245 e 1274), del concilio di Vienne
(1311), del concilio di Costanza (1414-1418), riunito per mettere fine al
grande scisma d'Occidente, e infine della serie conciliare, segnata dalla
crisi conciliatorista, di Basilea, Ferrara, Firenze e Roma (1431-1445) 81 • Il
II concilio di Lione e quello di Firenze conobbero la partecipazione dei
Greci e cercarono di ricucire lo scisma tra l'Oriente e l'Occidente, senza
peraltro ottenere dei durevoli successi 82 • L'insieme di questi concili ebbe
come compito principale quello di prendere delle decisioni legislative (in
particolare sui vescovi) e sacramentarie, destinate a tutta la Chiesa lati-
na 83 • La loro denominazione è stata, nelle collezioni canoniche, quella di
concili «generali» 84 • L'intenzione però di Innocenzo III era proprio quel-
la. di riprendere la tradizione dei concili «ecumenici» 85 • «Nella dottrina
dell'epoca, un concilio ecumenico era quello che, convocato dall'autorità
legittima (il papa), riuniva di fatto dei vescovi di tutti i paesi debitamente

79Y. CONGAR, La Tradizione e le tradizioni... , cit., p. 281.


80Al contrario, nei tempi moderni si cercheranno piuttosto nella tradizione delle attestazioni dcl
magistero. Cfr., infra pp. 194-195.
81 Cfr. t. III, pp. 366 ss. e 403-406.
82 A Firenze si espresse l'idea che questo concilio avrebbe dovuto essere ritenuto come ecumenico,
per il fatto che riuniva i Gr,ci e i Latini.
83 Cfr. t. III, pp. 103-111
84 Si sa che Paolo VI, nel 1974, è ritornato a questo vocabolario a proposito del II concilio di Lione.
Cfr. t. I, p. 298.
85 Il concilio di Trento manterrà da parte _sua la qualifica di «ecumenico». Su questa questione, cfr.
G. FRANSEN, L'ecclésiologie des conci/es médiévaux, in: Le conci/e et /es conci/es. Contributions ii l'histoire
de la vie conciliaire de l'Eglise, Cerf, Chevetogne-Paris, 1960, pp. 125·127.

II - ESPOSIZIONE DELLA FEDE E APOLOGIA NEL MEDIOEVO 89


convocati, per deliberare sugli affari della cristianità» 86 • Tutti questi con-
cili saranno ripresi nel xvr secolo nella lista dei concili ecumenici stabi-
lita da Roberto Bellarmino nelle sue Controversie del 1586 87 , ancor oggi
ricevuta senza tuttavia avere valore di una determinazione ufficiale o
dogmatica.
Questi concili si svolgono in un quadro istituzionale completamente
differente da quello dell'antichità cristiana: sono dei concili di «cristiani-
tà». Non sono più convocati dall'imperatore, ma dal papa. La lista dei
luoghi in cui si tengono privilegia la città di Roma e le città d'Europa che
non ne sono lontane. In tale prospettiva questi concili meritano il nome di
«concili pontifici», perlomeno fino alla crisi conciliatorista. Del resto, al
concilio, è il papa che presiede personalmente, a differenza dei concili
antichi; che parla «con l'approvazione del concilio» e, più tardi, «secondo
il consiglio dei nostri fratelli»; che decide infine e legifera come se il con-
cilio non fosse che il suo consiglio 88 •
I primi concili medievali mettono spontaneamente in atto la superiori-
tà del papa sul concilio. Il suo primato di giurisdizione non è messo in
dubbio. Tuttavia, il papa si serve del concilio per prendere alcune deci-
sioni legislative universali e non può modificare le decisioni dei concili
anteriori in materia di fede. I canonisti, a partire dal Decreto di Grazia-
no, contribuiscono a elaborare una dottrina della monarchia pontificia 89
e avranno per ciò stesso una influenza sulla teologia: influenza di conte-
nuto - perché i teologi svilupperanno a loro volta la dottrina papale - e
influenza di forma - perché la modalità giuridica impregna sempre più
la riflessione teologica. Il riferimento ai canoni è una anticipazione della
moderna referenza al «magistero».
Tra i teologi e i canonisti, anche la teologia del concilio costituisce og-
getto di riflessione dal periodo carolingio fino alla fine del Medioevo.
Diverse tendenze si affrontano in questo tra loro: in un primo tempo l'in-
fluenza papale e quella del diritto romano si esprimono tra i Decretisti,
che affermano la superiorità del papa sul concilio, poi, con la svolta del
XIV secolo, si fa sentire un'altra tendenza, che, in uno spirito polemico nei
confronti dell'autorità pontificia, afferma l'infallibilità del concilio 90 •

86 Ibid., p. 128.
87 Cfr. Y. CONGAR, 1274-1974. Structures ecclésiales et conci/es dans /es relations entre Orient et Occi:
dent, RSPT, 58 (1974), p. 379.. Le pagine 371-390 fanno il punto sulla lista dei concili ecumenici. Cfr.
anche l'ampio studio di H.J. SIEBEN, Neuer Konsens uber die Zahl der okumenischen Konzilien, in: Katho-
lische Konzilsidee von der Re/ormat1'on bis wr Au/kliirung, cit., pp. 181-222.
88 G. FRANSEN, L'ecclésiologie des conci/es médiévaux, in: Le conci/e et /es conci/es... , cit., p. 132.
89 Cfr. t. III, pp. 374 s.
90 Cfr. H.J. SIEBEN, Die Konzilsidee des /ateinischen Mittelalters (847-1378), Schoningh, Paderborn
1984, pp. 359-360.

90 BERNARD SESBOÙÉ
Il Grande Scisma d'Occidente rimette radicalmente in questione la
superiorità del papa sul concilio. A partire dal momento in cui tre papi si
disputano la Sede di Roma, ciascuno dei quali convinto della sua legitti-
mità e del fatto che nessuna autorità superiore possa dimetterlo, come
uscire dalla crisi? Il problema si pose anzitutto al concilio di Costanza,
che prese una posizione conciliatorista moderata e circostanziata, ma che
il concilio di Basilea radicalizzò, conferendogli il carattere di una dottrina
universale. Il conciliatorismo venne condannato nel V concilio del Late-
rano nel 1516 91 •
Nel clima di questa crisi conciliatorista, venne suscitato un dibattito,
tra il 1378 e il 1449, sull'infallibilità del concilio ecumenico 92 • Il vocabola-
rio impiegato si presenta in modo diversificato: «incapace di tergiversa-
re», «incapace di deviare», «indefettibile» (indefectibilz's), «infallibile» (in-
fallibzlis). Le qualificazioni dottrinali dell'affermazione variano anche a
seconda dei vari autori: Giovanni di Ragusa e alcuni teologi del concilio
di Basilea ne fanno un articolo di fede; per altri si tratta di una «posizione
indubitabile di tutti i dottori>>; Pietro di Alliaco non la ritiene che una «pia
opinione».
Tra i teologi si contrappongono gli argomenti pro e contra. Gli avversa-
ri adducono delle ragioni storiche (alcuni concili sono caduti nell'errore),
biblici (Le 22, 32; Mt 18, 20) e soprattutto teologici. Come possono giusti-
ficare - quelli che invocano in favore dell'infallibilità I' «ispirazione» dello
Spirito Santo -, che questi guidi dei sinodi manifestamente segnati dal
peccato? D'altra parte, i concili non possono pretendere di rappresentare
la fede reale della Chiesa infallibile, perché non portano in sé la carità e la
santità dei cristiani che sono la Chiesa.
I fautori dell'infallibilità conciliare sviluppano da parte loro cinque ar-
gomenti principali: i concili sono infallibili a ragione dell'insegnamento
della Scrittura (Mt 28, 20; 18, 20; Gv 14, 16; 14, 26; 16, 12; Dt 17, 8-13;
ecc.); a motivo della «ispirazione» dello Spirito Santo 9', di cui sono i be-
neficiari; perché sono la rappresentazione dell'infallibilità della Chiesa
universale; in ragione delle conseguenze inaccettabili e assurde della tesi
che li vorrebbe fallibili, e infine a causa dell'essenza stessa dell'atto di fede
in quanto tale che, altrimenti, mancherebbe di un principio ultimo.
L'oggetto dell'infallibilità è espresso in maniera globale e concerne,
seguendo i differenti autori, <<ciò che è necessario alla salvezza», «la fede

9l La storia dottrinale del conciliatorismo è stata presentata nel t. III, pp. 400-406.
92 Il solo studio su questa questione è stato fatto da H.J. SIEBEN, Traktate und Theorien zum Konzil
vom Begirm des groJJen Schismas bis zum Vorabend der Re/ormation (1378-1521). Verlag-G. Knecht,
Frankfurt-Main 1983, al quale mi ispiro.
9J Il termine deve essere compreso con lambiguità che allora lo caraiterizzava.

Il - ESPOSIZIONE DELLA FEDE E APOLOGIA NEL MEDIOEVO 91


e i riti dei sacramenti», «le verità della fede e ciò che è necessario o utile
per il governo della Chiesa>>, oppure «la fede e i costumi» 94 • Questo del-
l'infallibilità è dunque un concetto assai ampio, che ingloba ciò che oggi
si chiamerebbe piuttosto indefettibilità. Tra le condizioni dell'infallibilità,
alcuni hanno avanzato come necessaria l'unanimità del concilio, anche se
per lo più ei si è attestati sulla maggioranza. Da parte papale si aggiunge
il necessario consenso della Sede di Roma.

L'autorità dottrinale del papa


Il Medioevo è anche l'epoca in cui, a partire dalla riforma gregoriana,
si manifesta la prima centralizzazione pontificia nella C,hiesa. L'autorità
del papa si rafforza, non solo nei fatti, ma anche nella teoria. A questo
riguardo, i Dictatus papae di Gregorio VII sono già eloquenti 9'. Tre secoli
più tardi, la Bolla Unam Sanctam di Bonifacio VIII, del 1302, segna un
vertice nell'espressione del potere pontificio medievale, provocando per
ciò stesso una reazione. Essa si conclude con questa affermazione peren-
toria:
Dichiariamo, affermiamo, stabiliamo che l'essere sottomessi al romano pontefice
è, per ogni umana creatura, necessario per la salvezza 96 •

Il potere di giurisdizione è una realtà acquisita. Un'altra questione però


concerne la misura, l'estensione e anche l'infallibilità dell'autorità dottri-
nale del papa in materia di fede. I canonisti dei secoli XII e XIII non inse-
gnano l'infallibilità del papa, e la loro teologia su questo punto è molto
lontana da quella futura del Vaticano I 97 • Il ricordo dell' «eresia» di papa
Onorio sulla volontà umana del Cristo non è passato 98 • Così le prime at-
testazioni di una inerranza vengono riferite alla Sede di Roma (sedes) e
non a colui che vi sta assiso (sedens): una affermazione corrente diceva
che la Chiesa romana non ha mai errato nella fede, senza precisare però in
che cosa questo implicava il papa a titolo personale 99 • L'idea soggiacente
è pertanto da comprendere nel senso globale di una indefettibilità. Allo
stesso modo, uno dei grandi problemi del Medioevo sarà quello di affer-

94 Sulla coppia «fede e costumi», cfr. t. Il, pp. 427-428.


9' Cfr. t. III, p. 379.
96 DzS 875.
97 B. TIERNEY, Origins of Ptipal Infal/1bility 11.50-1350. A Study on the concepts oflnfallibility, Soverei-
gnity and Tradition in the Middle Ages, Brill, Leiden 1982, p. 57.
98Cfr. t. I, p. 394.
99Cfr. B.-D. DUPUY, Infaillibilité, in: Catholicisme, V (1963 ), col 1555. Cfr. P. FRANSEN, L'ecclésiologie
des conciles médiévaux, in: Le conci/e et /es conales.. ., cit., p. 140. Alcuni testi lasciano aperto il dubbio
sull'espressione Ecclesia romana: si tratta. della Chiesa locale di Roma o dell'insieme della Chiesa latina?

92 BERNARD SESBOÙÉ
mare una eccezione al principio secondo il quale il papa non può essere
giudicato da nessuno (secondo una interpretazione di 1 Cor 2, 15). Tale
sarebbe il caso in cui il papa si rendesse colpevole di eresia 100 e quello in
cui cessasse d'essere papa.
I teologi del XIII secolo cominciano a sviluppare l'idea che il papa, da
cui dipende il concilio, può concludere senza errore e in modo definitivo
i dibattiti dottrinali. Tale è la posizione, ad esempio di san Tommaso:
Una nuova formulazione del Simbolo [... ] appartiene a colui che ha autorità per
definire in ultima istanza ciò che è di fede, e di definirla in tal modo che tutti
debbano attenersi ad essa come a una fede inamovibile. Ora, è il sovrano ponte-
fice che ha autorità per questo. [ ... dr. Le 22, 32]. La ragione è che non deve
esserci che una sola fede in tutta la Chiesa. [... ] Una simile unità non potrebbe
essere salvaguardata se una questione sollevata in materia di fede non potesse
essere risolta da colui che presiede a tutta la Chiesa, in modo tale che tutta la
Chiesa osservi saldamente la sua sentenza 101 •

Il papa era in effetti colui che convocava, presiedeva e confermava i


concili. Tommaso però non adopera il termine infallibile che a proposito
dell'adesione «all'insegnamento della Chiesa come a una regola infallibi-
le»102. San Bonaventura, «uno dei principali teologi della monarchia pa-
pale nel XIII secolo» 10}, rimane, nella storia dell'infallibilità papale, una «fi-
gura di transizione» 104 • La sua dottrina poteva condurre all'idea che, se la
Chiesa universale non può errare, nemmeno lo può il suo capo. Tuttavia
san Bonaventura non ha mai espresso questa conclusione 10'.
Alla fine del XIII secolo e durante il XIV, la tesi dell'infallibilità tende a
esprimersi in modo più deciso, nel contesto del conflitto (sorprendente per
noi) tra Giovanni XXII e l'Ordine francescano, a proposito di tesi concer-
nenti la povertà. Pietro Giovanni Olivi (1248-1298) 106, francescano, è il pri-
mo ad affermare l'impossibilità di errore del papa quando determina un
punto della fede. Il suo principale argomento è il seguente: è impossibile
che Dio abbia donato a qualcuno piena autorità per risolvere dei dubbi
concernenti la fede e la legge divina, e poi gli abbia lasciato la possibilità di
sbagliarsi 107 • La motivazione congiunturale dell'Olivi sembra essere stata di
rilancio al decreto papale Exiit di Nicola III (1279), che prendeva posizione

100 La restrizione ~i trova nel Decreto di Graziano, dist. 40, c. 6. Cfr. P. FRANSEN, ibid., p. 139.
101 S. Th. IIa-IIae, q. 1, a. 10.
102 Ibid., q. 5, a. 3. Cfr. Y. CoNGAR, St Thomas Aquinas and the Infallibility o/ the Papa! Magisterium,
in «The Thomist>>, 38 (1974), pp. 81·105.
10} Y. CoNGAR, De l'Église de saint Augustin à l'époque moderne, Cerf, Paris 1970, p. 222.
104 B. TIERNEY, Origins o/ Papa{ Infallibility ... , cit., p. 92.
lo' Cfr. ibid.
106 Cfr. t.II, pp. 122,124.
107 Cfr. B. TIERNEY, Origins of Papa! Infallibility .. ., cit., p. 116.

11 - ESPOSIZIONE DELLA FEDE E APOLOGIA NEL MEDIOEVO


, 93
in favore delle tesi francescane, già molto discusse, sulla povertà. Appare
chiaro che i grandi difensori dell'infallibilità pontificia dei secoli XIII e XIV
non avevano l'intenzione di fondare l'autorità del papa regnante, ma, al
contrario, di interdirgli di ritornare sulle decisioni prese dai suoi predeces-
sori. Olivi intendeva di fatto porre una garanzia per l' awenire.
Il dibattito riprese vigore, naturalmente, quando Giovanni XXII, papa
di Avignone (1313-1334), revocò il decreto del suo predecessore, concer-
nente la regola di vita dei francescani. Questi invocavano il carattere irre-
formabile e infallibile del documento di Nicola III, in nome della loro
interpretazione del potere petrino delle chiavi e della «chiave della cono-
scenza» (Le 11, 52). Giovanni XXII si adombra per questa dottrina e
mantiene la differenza tra la chiave della conoscenza e quella del potere.
Il conflitto è come rovesciato, poiché i francescani rivendicano per il papa
una infallibilità che questi rifiuta 108 •
Guglielmo di Ockham (frate minore, morto nel 1350), si impegnerà a
sua volta con decisione nella via della rivendicazione dell'infallibilità del
papa contro il papa 109• Egli si appella sempre alla distinzione delle due
chiavi, quelle della conoscenza e del potere, e arriva a pensare che Gio-
vanni XXII, col suo contraddire Nicola III, è caduto nell'eresia, e perciò
non è più papa.
Guido Terreni (carmelitano, morto nel 1342), difensore del potere papa-
le, utilizza, prima del 1328, il termine infallibzle a riguardo del papa, ma
questa volta con una intenzione favorevole al papa 110 • La feritoia della sua
riflessione è stretta perché Giovanni XXII ha condannato la tesi che i papi
possiedono la «chiave della conoscenza>> ed egli vuole denunciare l' «eresia»
dei francescani. Per l'esercizio di questa infallibilità sono poste un certo
numero di condizioni. Anzitutto il papa <<non può derogare a ciò che è sta-
to deciso dai concili in materia di fede o di costumi>> 111 • Il papa non bene-
ficia dell'infallibilità che nel suo legame concreto con la Chiesa, quando
definisce in nome della sua autorità papale e giudica per concludere defini-
tivamente un dibattito vertente sulla fede. Egli personalizza allora l'inerran-
za della Chiesa 112 • Alla fine del Medioevo, questa dottrina ha preso corpo e
diviene maggioritaria, pur senza raccogliere l'unanimità dei teologi. Per il
momento non ha ricevuto ancora alcuna formulazione dogmatica e il suo
contesto resta molto lontano dalla preoccupazione del Vaticano I.

108 Ibid., pp. 171-204.


109 B. TIERNEY parla di uria «infallibilità anti-papale>>, cfr. ibid., pp. 205-237.
110 Ibid., p. 238, dove si parla di «infallibilità pro-papale>>. Cfr. G. TERRENI, Quaestio de [magisterio]
ùtfallibili romani ponli/icis, B.M. Xiberta, Miinster 1926.
111 P. FRANSEN, L'ecclésiologie des conci/es médiévaux, in: Le cona1e et les conci/es... , cit., p. 140.
112 Cfr. B. TIERNEY, Origins of Papa/ Infallibt1ity ... , cit., pp. 247-248. Cfr. Y. CoNGAR, De l'Église de
saint Augustin à l'époque moderne, cit., pp. 247-248; Io., Pour une histoire sémantique... , art. cit., p. 93.

94 BERNARD SESBOÙÉ
II. LA CONSIDERAZIONE
DI NUOVI CONTENUTI DOTTRINALI

L'evoluzione che il Medioevo visse nella sua ricerca dell'intelligibilità


della fede lo portò a interessarsi sempre più degli aspetti soggettivi di
questa. I Padri greci contemplavano il misteri trinitario e cristologico sen-
za interrogarsi sul soggetto credente. Agostino aveva compiuto una svolta
insleme spirituale, con le sue Confessioni, e teologica, con i dibattiti intra-
presi sulla grazia e la libertà. Abbiamo visto la cura con cui il Medioevo
ha continuato a riflettere su queste questioni e ha cercato di portarle a
piena maturità. Le complessità dell'anima credente sono divenute un og-
getto teologico in cui lo sforzo di giustificare la razionalità della conoscen-
za di fede è molto presente.
Occorre dunque evocare brevemente tre ambiti che interessano più da
vicino ciò che si chiamerà più tardi la teologia fondamentale: la conoscen-
za di Dio, la teologia della rivelazione e quella dell'atto di fede e della sua
comunicazione. Questi temi saranno affrontati con un riferimento previ-
legiato a san Tommaso d'Aquino, non solo perché ha esercitato in questo
campo una durevole influenza teologica, ma anche perché ne ha condi-
zionato la problematica dogmatica fino al Vaticano I.

1. La conoscenza di Dio
Indicazioni bibliografiche: E. GosSMANN, Poi et connaissance de Dieu au Moyen age, Cerf,
Paris 1974; E. PoUSSET, Une relecture du traité de Dieu dans la Somme théologique de sairzt
Thomas, in «Archlves de Philosophie», 38 (1975), pp. 559-593.

Nell'epoca patristica e nel Medioevo, scrive H. Bouillard, «quello che


costituiva l'oggetto della teologia fondamentale non era una dottrina
della rivelazione, ma la dottrina di Dio»m. C'è anche un'altra differenza
da sottolineare tra queste due epoche. I Padri della Chiesa erano preoc-
cupati anzitutto di mostrare la compatibilità del mistero trinitario con
l'unità divina riconosciuta contemporaneamente dall'Antico Testa-
mento e dalla filosofia greca. Essi non sentivano alcun bisogno di ripren-
dere o di cristianizzare le prove dell'esistenza di Dio di matrice filo-
sofica. Al contrario, Il Medioevo intende fare spazio alle prove del-
l'esistenza di Dio, nel quadro della presentazione della sacra dottrina.
Questo sforzo, attestato da Anselmo di Canterbury a Tommaso d'Aqui-

lll H. BoUILLARD, Vérité du christianisme, DDB, Paris 1989, p. 156.

II . ESPOSIZIONE DELLA FEDE E APOLOGlA NEL MEDIOEVO 95


no e agli ultimi scolastici medievali, rientra nel loro progetto di fare della
teologia una scienza rigorosa e di fondarla il più possibile su dimostra-
zioni facenti appello alla ragione, comune a tutti gli uomini. In questo
senso, la questione di Dio è già un problema di teologia fondamentale.
Essa però non è trattata come un preambolo alla fede, ma all'interno.
dell'.esposizione della fede. La «teologia filosofica» rimane un capitolo
della teologia.
Anselmo di Canterbury è il primo ad aver elaborato una prova «unica»
dell'esistenza di Dio, detta «prova ontologica>> 114 , che si rivolge a un im-
maginario ateo per convincerlo che il suo ateismo è irrazionale. In questo
tentativo, il credente. parla anche a se stesso, per convincersi che la sua
. fede è razionale. L'argomento non parte dunque dalla fede, ma dal con-
cetto stesso di Dio, comune al credente e all'ateo, come «l'essere al di
sopra del quale non si può pensare niente di più perfetto». Ora, questo
concetto include l'esistenza di questo essere, perché un tale essere è certa-
mente più perfetto se esiste rispetto a se non esistesse. L'inesistenza di
Dio è dunque impensabile. Questo argomento verrà discusso in tutta la
storia della filosofia e i più grandi spiriti si divideranno tra coloro che lo
rifiutano (san .Tommaso, Kant) e quelli che l'ammettono (Duns Scoto,
Nicola Cusano, Cartesio, Leibniz ed Hegel). Tutto ciò vale come attesta-
zione della sua serietà sul piano della filosofia pura.
San Tommaso è perfettamente cosciente che vi sono due modi dico-
noscenza di Dio: il modo razionale, che è messo in opera dai filosofi a
partire dagli effetti, e il modo divino, che è una partecipazione alla co-
noscenza che Dio ha di se stesso e che ci è comunicata per la grazia della
rivelazione e nella luce della fede 115 • Questi due modi aprono la strada a
un doppio discorso teologico, quello in cui la teologia porta la sua ricer-
ca su ciò che è accessibile alla ragione, pur rimanendo proposta dalla
fede, e quella in cui essa cerca di rendere conto delle verità propriamen-
te rivelate. In entrambe i casi si tratta di una ricerca teologica. Anche
quando riflette sulle «vie» che consentono di affermare l'esistenza di
Dio, Tommaso lo fa all'interno di una costruzione teologica, che consi-
dera, in definitiva, il Dio della rivelazione - il cui orizzonte è sempre
presente anéhe nelle argomentazioni più metafisiche. D'altra parte, ve-
dremo che, per il dottore angelico, la rivelazione è stata praticamente
necessaria anche per quello che riguarda le realtà per sé accessibili alla
ragione, perché tutti potessero conoscerle facilmente 116 • La teologia filo-

114 ANSELMO DI AOSTA, Pros/ogion, Rizzo!i, Milano 1992.


m S. Th. la, q. 12, a. 12 e 13.
116 Dottrina ripresa al Vaticano I, nella Dei Filiur.

96 BERNARD SESBOÙÉ
sofica è dunque in sé possibile, è realizzabile da certuni, ma non dalla
maggior parte degli uomini.
La filosofia si mette al servizio della teologia e mostra che non c'è, tra
ragione e fede, alcuna frattura che escluderebbe la prima dalla seconda.
Se provare con la ragione l'esistenza di Dio non è affatto un preambolo
necessario alla fede, rimane capitale che questa prova possa essere costru-
ita ragionevolmente, al fine di mostrare che la questiòne di Dio è una
.questione che interessa l'uomo in quanto uomo e che il termine Dio ha un
senso nei confronti della sua ragione.
Ora, l'esistenza di Dio non è evidente per se stessa, poiché è oggetto
di dibattito e di interrogativo. Bisogna dunque che essa sia dimostrabile
almeno per i suoi effetti, anche se questa via non ci conduce alla cono-
scenza dell'essenza divina.
Tommaso propone così, per provare l'esistenza di Dio 117 , cinque vie
che si inscrivono in uno statuto epistemologico aristotelico: la via del
movimento, della nozione di causa efficiente, della dialettica del possi-
bile e del necessario, della dialettica dei gradi, del governo del mondo.
Senza entrare qui nell'analisi e nella critica di queste diverse vie, mettia-
mo in risalto il fatto che ciascuna si conclude con la medesima clausola:
«Un tale essere, tutti comprendono che è Dio». Attraverso questa for-
mula, l'autore constata la compiutezza o l'incompiutezza della prova?
Egli sembra esprimere un modo di mirare a Dio più che il raggiungi-
mento di Dio: queste vie sono degli «approcci». D'altronde, san Tom-
maso conosce anche altre prove, elaborate a partire da ogni attributo
divino, come la prova del dinamismo dello spirito, per l'immaterialità di
Dio e per la composizione delle creature. Inoltre, la riflessione razionale
su Dio non si arresta alla prova della sua esistenza. Se noi non possiamo
conoscere «ciò che Dio è», noi possiamo perlomeno mostrare tutto «ciò
che non è».
Il gioco delle distinzioni fatte da san Tommaso tra le due conoscen-
ze di Dio e l'affermazione fondamentale della possibilità di un discorso
razionale su Dio sono delle acquisizioni definitive per la teologia.
Sull'argomento, egli prepara il terreno dei grandi dibattiti della filosofia
dei Tempi moderni e condizionerà la costituzione futura dei trattati di
apologetica fino a guidare il concilio Vaticano I alla dogmatizzazione
della possibilità della conoscenza di Dio mediante le forze naturali della
ragione us.

117 S. Th. la, q. 2, a. 3.


118 Cfr. infra, pp. 244-246.

u . ESPos1z10NE DELLA FEDE E APOLOGIA NEL MEDIOEVO 97


2. La rivelazione
Indicazioni bibliografiche: R. LATOURELLE, Teologia della rivelazione, Cittadella, Assisi
1991'; La révélatiorÌ dans l'Écriture, la patristique, la scolastique, Cerf, Paris 1974; cfr. Biblio-
grafia generale.

Nell'epoca patristica, la rivelazione non era oggetto di una considera-


zione specifica. La sua idea andava da sé: Dio aveva parlato agli uomini
per mezzo dei profeti e in seguito nel suo Figlio Gesù Cristo. Il termine
stesso (apokalupsis) rinviava piuttosto a una letteratura particolare, l'apo-
calittica. La teologia scolastica, nelle sue esposizioni dottrinali, non ne
parla molto, anche se si trova con maggior frequenza nei commenti alla
Scrittura e nella riflessione sulla profezia: In effetti, oramai ci si pongono
alcune questioni sulla natura e sulla modalità della rivelazione. Nel conci-
lio del Laterano del 1215 si trova una prima espressione della teologia
della rivelazione, pur senza il termine:
Questa santa Trinità [. ..] ha rivelato al genere umano, per mezzo di Mosè, dei
santi profeti e degli altri servi la dottrina di salvezza, secondo un piano perfetta-
mente ordinato nel corso dei tempi.
Infine il Figlio unigenito di Dio Gesù Cristo, [... ] manifestò più chiaramente la
via della vita 119 .

San Bonaventura definisce la rivelazione come l'atto mediante il quale


Dio parla all'uomo, illuminandone lo spirito. Per lui «Rivelazione, parola,
illwninazione sono termini interscambiabili>> 120 • Dio parla all'uomo sia per
mezzo di segni, interiori o esteriori, sia mediante una parola da lui ispira-
ta. La rivelazione è necessaria all'uomo perché sia illuminato divinamente
nelle cose della salvezza ed essa si dispiega nel tempo e nella storia secon-
do la progressione di una economia che va dai profeti al Cristo, «Dottore
infinitamente sapiente>>.
L'analisi delle modalità della rivelazione viene presentata quando si
parla del profeta. La profezia, in se stessa, è un tempo forte e passeggero;
comporta una «recezione» di rappresentazioni nei sensi, nell'immagina-
zione o nello spirito, che ne costituiscono come la materia, e un giudizio
(judicium) apportato a loro riguardo, che è un effetto dell'illwninazione
dello Spirito. Ciò che qualifica il profeta, è l'illuminazione che dà forma e
senso per comprendere le rappresentazioni. Questa illuminazione «è·det-
ta infusa, perché, per mezzo di essa, lo spirito è elevato al di sopra di ciò
che gli è naturale>> 121 • Bonaventura distingue tre modi di rivelazione pro-

119 DzS 800-801.


120 R LATOURELLE, Teologia della rivelazione, Cittadella, Assisi 1967, p. 164.
121 BONAVENTURA, Commento alle Sentenze, III, d. 23, a. 2, q. 2, e, a cura del Collegium S. Bonaven-
turae, Quaracchi, Firenze 1928, III, p. 491.

98 BERNARD SESBOÙÉ
fetica: quello sensibile, quello immaginativo e quello intellettuale. Que-
st'ultimo è ritenuto superiore agli altri due 122 • L'atto della rivelazione de-
signa dunque l'illuminazione soggettiva che invade il profeta: L'insegna-
mento del Cristo è anch'esso una illuminazione universale dell'umanità.
In san Bonaventura, le due nozioni di rivelazione e di ispirazione si trova-
no vicine.
Per san Tommaso, la rivelazione è anzitutto una iniziativa di Dio in
vista della salvezza dell'uomo. Dall'inizio della Somma teologica, la rive-
lazione interviene come il principio che specifica la dottrina sacra delle
altre scienze: «Fu necessario alla salvezza dell'uomo che vi fosse, al di
· fuori delle scienze filosofiche che la ragione umana scruta, una dottrina
che procede dalla rivelazione divina» 123 • In effetti, Dio è il fine dell'uo-
mo, e ciò che fa l'oggetto della salvezza dell'uomo supera infinitamente
le possibilità della sua ragione. Questa stessa finalità salvifica rende
ugualmente necessaria una rivelazione concernente le verità divine ac-
cessibili di per sé alla ragione:
Anche in rapporto a ciò che la ragione era capace di raggiungere a proposito di
Dio, bisognava che l'uomo fosse istruito per divina rivelazione. In effetti, il rag-
giungimento della verità su Dio attraverso la ragione non avvenne che per un pic-
colo numero, richiese molto tempo e rimase mescolato a molti errori. [ ... ] Era
dunque necessario, se si voleva che la salvezza fosse procurata agli uomini in modo
più ordinario e più certo, che questi fossero istruiti da una rivelazione divjna 124 •

Questa affermazione ispirerà un testo importante del concilio Vatica-


no I sullo stesso tema m e colloca al suo giusto posto la possibilità radicale
che l'uomo ha di arrivare alla conoscenza di Dio per mezzo della sua ra-
gione: è questa che gli consente di riconoscere la rivelazione.
La rivelazione si inscrive in un lungo movimento storico progressivo,
che procede per tappe succesive. Tommaso d'Aquino distingue tre gran-
di tappe della rivelazione: la rivelazione fatta ad Abramo, che è quella
del Dio unico; la rivelazione fatta a Mosè, che è quella dell'essenza divi-
na; la rivelazione del Cristo, che è quella della Trinità. Il Cristo è «l'ul-
tima consumazione della grazia» e il suo tempo è quello «della pienez-
za» (Gal 4, 4). Per questo; coloro che si sono avvicinati di più a lui han-
no conosciuto maggiormente i misteri 126 , il che è un modo di dire che il
Cristo è la consumazione della rivelazione. La rivelazione assume dunque
numerose e differenti forme: diversità di personaggi, di processi, di conte-
122 Cfr. R LATOURELLE, Teologia della rivelavone, cit., p. 167.
m S. Th. la, a. I.
124 lbid.
125 Cfr. infra, pp. 247-251.
126 S. Th. Ila-Ilae, q. I, a. 7, ad 4m.

II . ESPOSIZIONE DELLA FEDE E APOLOGIA NEL MEDIOEVO 99


nuti e di gradi, fino alla pienezza del Cristo. Infine, «la nostra fede si fon-
da sulla rivelazione fatta agli apostoli e ai profeti» che hanno scritto i libri
canonici 127 •
San Tommaso analizza ugualmente il processo della rivelazione nella
coscienza del profeta. Egli è molto attento al lato soggettivo e psicologicò
della profezia. La profezia è un carisma di conoscenza soprannaturale, gra-
zie al quale il profeta accede a delle verità che ~uperano la portata del suo
spirito e dal quale è istruito da Dio per il bene di tutta la comunità 128 •
Questo carisma ha dunque una dimensione sociale, avendo per oggetto
l'insegnamento all'umanità di ciò che è necessario alla sua salvezza. Nel
processo della profezia Tommaso distingue il momento della conoscenza
o della scoperta e quello della parola o dell'annuncio, là dove il profeta
utilizza i suoi propri doni per parlare. La Scrittura chiama veggenti i pro-
feti, perché vedono ciò che gli altri non vedono e quanto è avvolto dal
mistero 129 • Il dono della profezia include da una parte delle rappresenta-
zioni (species) e dall'altra una luce (lumen), che consente di apportare un
giudizio:
L'elemento formale nella conoscenza profetica è la luce divina ed è dall'unità di
questa luce che la profezia riceve la sua propria unità specifica, malgrado la diver-
sità degli oggetti che questa luce manifesta al profeta no.

Come per Bonaventura, la profezia consiste dunque anzitutto in questa


luce e non nell'elemento rappresentativo. Questa luce «sopraeleva» la luce
naturale dell'intelligenza e le dona accesso a ciò che le sarebbe di per sé
inaccessibile. Questa «sopraelevazione» è una ispirazione che apre a «una
rivelazione, cioè a una percezione delle realtà divine» 131 • Se il profeta rice-
ve delle rappresentazioni senza luce, egli non è profeta che in senso im-
proprio. Al contrario, se riceve la luce senza rappresentazioni resta un
autentico profeta. Egli può operare un discernimento sulle rappresenta-
zioni donate a un altro, o su quelle che ha ricevute nel suo spirito in modo
naturale. Attraverso la mediazione del profeta, la rivelazione diviene dun-
que parola di Dio, poiché parlare è manifestare a un altro il proprio pen-
siero. È ciò che Dio compie, ma in maniera analogica, in confronto con la
comunicazione della parola tra due esseri umani. La rivelazione nella sto-
ria non è ancora che una conoscenza imperfetta, ma ha come suo fine
condurre alla pienezza della contemplazione di Dio.
127 S. Th. la, q. 1, a. 8, ad 2m. •
128 Cfr.J.P. TORRELL, Recherches sur la théorie de la prophétie au Moyen Age: XII'·XIV" siècles, Éd. Uoiv.,
Fribourg 1992.
129 S. Th. lla-llae, q. 171, a. 1.
lJO Ibid., a. 3, ad 3m.
Ili Ibid., a. 1, ad 4m.

100 BERNARD SESBOÙÉ


In propbsito, san Tommaso ha, anche in questo caso, posto i confini
del terreno entro il quale si svolgeranno, fino al XIX e xx secolo, i dibattiti
teologici sulla rivelazione. Il suo apporto più decisivo concerne gli elemen-
ti psicologici, dove annuncia le teorie future che situeranno la rivelazione
e l'ispirazione sul polo trascendentale della coscienza m.

3. La teologia della fede


Indicazioni bibliografiche: H. LANG, Die Lehere des hl. Thomas v. Aquim von der Gewis-
sheit des ubematurlichen Glaubens, Filser, Augsburg 1929; A. STOLZ, Glaubensgnade u. Glau-
benslicht nach Thomas v. Aq., Herder, Roma 1933; R. AUBERT, Le problème de l'acte de foi.
Données traditionnelles et résultats de controverses récentes, Warny, Louvain 1945;]. DE WOLF,
Lajusti/ication de la foi chez saint Thomas d'Aquin et le PèreRousselot, Ed. Universelles-DDB,
Bruxelles-Paris 1946; B. DUROUX, La psycologie de la fot' chez S. Thomas d'Aquin, Desclée, Paris
1964; CHR. THEOBALD, L'Épftre aux Hébreux dans la théologie de la foi de saint Thomas au
conci/e Vatican I, in: Comme une ancre jetée vers l'avenir. Regards sur l'Epitre aux Hébreux,
Médiasèvres, Paris 1995, pp. 19-35.

Alla rivelazione corrisponde la fede. Questa concezione, che sarà for-


temente sottolineata nei due concili del Vaticano, è già quella degli sco-
lastici, che sono interessati non solo all'oggettività del contenuto della
fede e alla sua formulazione (la pistis dei Padri), ma anche alla forma
che l'atto di fede prende nella soggettività credente. Il primo a proporre
una sintesi teologica sull'atto di fede fu Guglielmo di Auxerre, all'inizio
del XIII secolo.
Anche Bonaventura propone una esatta corispondenza tra la rivela-
zione e la fede, perché esse hanno lo stesso contenuto. Il dottore serafi-
co parla indifferentemente dell' «insegnamento della rivelazione» della
<<Verità della salvezza», della <<Verità della fede e della Sacra Scrittura».
Per lui «la fede nasce dalla fede congiunta della parola esteriore e della
parola interiore, dall'insegnamento della predicazione che colpisce
l'orecchio e dall'insegnamento dello Spirito Santo che parla al cuore in
segreto. [ ... ] La fede viene principalmente dall'audizione interiore, per-
ché il predicatore lavora invano se manca, dentro, "l'illuminazione del
Maestro interiore"» m.
Nella lung_a esposizione della Somma teologica sulla fede (Ila-IIae,
q. 1-16), l'ultima della sua carriera, san Tommaso non dedica che una
sola questione all'aspetto oggettivo della fede (q. 1), mentre offre una trat-
tazione molto più lunga sull'atto interiore ed esteriore di fede (q. 2-3);

132 Ad esempio in Karl Rahner.


m R. LATOURELLE, Teologia della rivelazione, cit., p. 167.

Il - ESPOSIZIONE DELLA FEDE E APOLOGIA. NEL MEDIOEVO 101


sulla virtù di fede, che è un altro modo di affrontare l'antropologia della
fede, cioè il suo rapporto con la potenza dell'anima; sulla carità; sugli es-
seri che sono soggetti della fede; sulle sue cause, in quanto la fede è una
virtù infusa da Dio; e infine sui doni, che ad essa si rapportano 134 •
Nella teologia dell'atto di fede del Dottore angelico vanno posti in ri-
salto soprattutto due punti: da una parte, in rapporto a ogni realtà sem-
plicemente umana, il suo sforzo di sottolineare il carattere soprannaturale
e trascendente dell'atto di fede, cosa che si·manifesta nel fatto che ne trat-
ta nel quadro delle virtù infuse; e dall'altra la sua intenzione di situare
l'atto di fede in un orizzonte epistemologico umano, nei confronti del
quale appaia giustificata. Nell'articolazione tra questi due punti di vista si
trova l'utilizzazione della definizione della fede data in Eb 11, 1: «La fede
è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedo-
no». San Tommaso commenta ampiamente questo testo nella sua «lettu-
ra» dell'epistola m, ripresa poi nella Somma teologica.
1. La fede è una qualità abituale (habitus) dello spirito «per la quale la
vita eterna comincia in noi e che fa aderire l'intelligenza a quello che non
vede» 136• Essa è un dono soprannaturale che rende adatta e proporziona
l'intelligenza umana alla beata conoscenza di Dio, e che costituisce una
anticipazione della visione beatifica. Senza dubbio la fede rimane quella
che proviene dall'ascolto (fides ex auditu) e non strappa l'uomo dalla co-
noscenza discorsiva. Questa conoscenza tuttavia, per così dire, non si pone
a titolo dell'intrinseca evidenza, ma a ragione dell'autorità di Dio che ri-
vela e che è la Verità prima: «Ciò che c'è di formale nell'atto di fede è la
verità prima così come è rivelata nelle Sacre Scritture e nell'insegnamento
della Chiesa che procede dalla verità prima» m. Ben inteso, nella trasmis-
sione della fede, il Cristo gioca un ruolo essenziale, poiché secondo l'in-
terpretazione di Eb 12, 2 data da Tommaso, questi è più che «l'iniziatore
(archégos) e colui che la porta al suo compimento»: è «l'autore e il perfe-
zionatore della fede», e ne è l'autore perché l'ha insegnata (cfr. Eb 1, l;
Gv 1, 18) e l'ha saputa imprimere nei cuori dei fedeli; ed è anche «perfe-
zionatore» della fede, perché conferma la fede con i suoi miracoli o le sue
opere 138 • Come la referenza al Cristo mostra, l'aspetto esteriore della fede

U4 Per questa esposizione mi ispiro allo studio di R. AUBERT, Le problème de I'acte de foi. Données
traditionnelles et résultats de controverses récentes, Warny, Louvain 1945, pp. 43-71.
m Cfr. CHR. THEOBALD, L'Epitre aux Hébreux dans la théologie de la foi de saint Thomas au conci/e
Vatican I, in: Comme une onere jetée vers l'avenir. Regards sur l'Epitre aux Hébreux, Médiasèvres, Paris
1995, pp. 19-35, articolo al quale mi ispiro.
U6 S. Th. IIa-IIae, q. 4, a. 1.
IJ7 S. Th. IIa-IIae, q. 5, a. 3.
UB Cfr. CHR. THEOBALD, L'Epitre aux Hébreux ... , art. dc., p. 28, a proposito della Lettura di san Tom-
maso.

102 BERNARD SESBOOÉ


però non è il solo a fondare il suo atto, e non è sufficiente. La fede è una
virtù teologale, cioè un dono interiore di Dio, una grazia, che interviene al
cuore delle facoltà umane e rende queste capaci di accedere a delle verità
inaccessibili senza di essa:
Ecco perché bisogna ammettere un'altra causa, interiore questa volta, che muo-
ve l'uomo ad aderire alle verità di fede. [ ... ] Quando aderisce alle verità di fede,
l'uomo viene elevato al di sopra della sua natura; bisogna dunque che questo
avvenga in lui per un principio soprannaturale che lo muove dal di dentro e che
è Dio 139 •

Questa grazia, Tommaso se la rappresenta come una luce infusa (lu-


men /idei) che rischiara l'intelligenza. Col passare del tempo sfumerà l'im-
portanza e il ruolo attribuito a questa luce, ma ne manterrà il principio.
2. Nel Medioevo, si presentava la fede anche in un'altra maniera, in
riferimento all'antico senso filosofico, che la situava tra la scienza e l' opi-
nione. La fede non è una scienza, poiché non si fonda sull'evidenza inter-
na delle cose, ma non è nemmeno una opinione, perché non è dubbia. È
una certezza portata su una realtà non evidente. Ugo di San Vittore dice-
va: «La fede è una certezza concernente delle realtà assenti, superiore al-
1'opinione e inferiore alla scienza» 140 • Allo stesso modo, dopo san Tom-
maso d'Aquino, Gregorio di Rimini dirà ancora: «Ogni assenso privo di
evidenza e di dubbio è una fede» 141 • In questo senso, il termine varrà
ugualmente per le conclusioni teologiche, chiamate proposizioni di fede
non perché appartengono alla rivelazione, ma perché dominio delle cono-
scenze non evidenti per se stesse. Per via di questa referenza noetica, il
concetto di fede era dunque relativamente largo.
Tommaso d'Aquino inscrive questa riflessione in questa tradizione.
Riprendendo nella Somma la definizione della fede data da Eb 11, 1, so-
stiene che l'apostolo non ha fornito una definizione in forma della fede,
ma gli elementi dai quali diventa possibile trarre una vera definizione
della fede: ·
La fede, che è un certo habitus, deve essere definita dal confronto del suo atto
proprio col suo oggetto proprio. Ora, l'atto di fede [. .. ] è un atto di intelligenza
determinata a una sola risoluzione sotto il comando della volontà. Cosl dunque
l'atto di fede è ordinato sia all'oggetto della volontà che è il bene e il fine, sia
all'oggetto dèll'intelligenza che è il vero 142 •

139 S. Tb. Ila· Ilae, q. 6, a. l. Su questo testo dr. E. KuNZ, Wie erreicbt der Glaube seinen Grund,
ThPh, 62 (1987), pp. 352·381.
140 UGO ·m SAN VnTORE, in: PL 176, 330c.
141 Citato eia A. LANG, Die tbeologiscbe Prinzipienlebre ... , cit., p. 190.
142 S. Tb. Ila·Ilae, q. 4, a. 1.

li - ESPOSIZIONE DELLA FEDE E APOLOGIA NEL MEDIOEVO 103


Questa definizione richiama quella della Lettura dellà lettera agli Ebrei:
«Credere è un atto dell'intelligenza determinato da una sola parte sotto il
comando della volontà» 143 . L'atto di fede è dunque situato in una doppia
referenza: all'intelligenza, perché il.suo oggetto è la verità, e alla volontà,
il cui fine è il possesso delle realtà che la fede dona a sperare. La dualità
dell'oggetto e del fine converge nell'unità dei trascendentali del vero e del
bene. La fede è la presenza inizialé delle realtà sperate, ma è anche un
argomento di ciò che non è evidente. Questo consente di porre lo statuto
epistemologico della fede: essa non è scienza, poiché non è evidente per
se stessa; ma è più di una opinione soggetta al dubbio, mediante un inter-
vento giustificato e fondato della volontà.
Se la virtù di fede e il suo habitus sono dei doni che concernono for-
malmente l'intelligenza, l'Aquinate non dimentica dunque il ruolo della
volontà, che viene a supplire alla mancanza di evidenza dell'oggetto della
fede e che aiuta l'assenso. Perché ci sono dei casi in cui «l'intelligenza
aderisce a qualche cosa senza esservi pienamente portata dal suo ogget-
to proprio, ma aderendo per scelta a una parte piuttosto che a un al-
tra»144. La conoscenza di fede entra dunque nel quadro generale della
conoscenza, poiché sovente noi crediamo una cosa che non abbiamo
vista, sulla testimonianza di un altro che riteniamo credibile. L'intelli-
genza obbedisce all'ordine della volontà, per la semplice ragione che la
volontà si fonda sul motivo dell'autorità divina. Questa logica è anche
quella degli stimoli divini che attirano alla fede, prima che questa sia
divenuta una virtù infusa.
San Tommaso si è anche posto il problema della credibilità dell'atto di
fede, senza dubbio in termini meno acuti che non la teologia dei Tempi
moderni. Egli pensa che esistano dei segni esteriori di credibilità, come i
miracoli e gli argomenti razionali, che mostrano l'alta convenienza delle
affermazioni della fede. Il ricorso ai miracoli occupa ui;i posto importante
per lui, in connessione con la sua teologia del miracolo, che ne sottolinea
la trascendenza e l'origine divina. Tuttavia ritiene che il miracolo non è
una condizione né necessaria né sufficiente della fede. La fede che si fon-
. da sui miracoli è una fede inferiore 14s. Per Tommaso il miracolo è una
conferma:
Colui che crede ha un motivo sufficiente che lo induce a credere. Egli vi è indotto
in effetti dall'autorità dell'insegnamento divino, che i miracoli hanno confermato,
e ancor più dall'ispirazione interiore di Dio, che invita a credere 146 .

143 Cfr. CHR. THEOBALD, L'Epitre aux Hébreux .. ., art. cit., p. 25.
144 S. Th. Ila-Ilae, q. 1, a. 4.
14S Su questa questione cfr. R. AUBERT, Le problème de l'acte de /oi... , cit., pp. 64-65.
146 S. Th. Ila-Ilae, q. 2, a. 9, ad 3m.

104 BERNARD SESBOÙÉ


Ritroviamo qui, come in Bonaventura, la corrispondenza tra la testimo-
nianza esteriore dell'annuncio della parola di Dio e la grazia: interiore. Il
miracolo non interviene che a titolo di conferma della testimonianza este-
riore. La prova attraverso il miracolo non assume dunque che un ruolo
secondo nel suo pensiero. L'istinto interiore della fede fa sì che il creden-
te si fondi su un dato divino, la verità stessa di Dio, superiore a ogni ra-
gione umana. Nei confronti della ragione questo è sufficiente per giustifi-
care l'atto di fede. L'appello ai segni esteriori di credibilità non eleva que-
sti allo statuto di condizione normale dell'atto di fede 147 •
Ancor più che per i punti precedenti, il posto riservato qui al pensiero
di san Tommaso si giustifica forse per l'influenza multisecolare esercitata
sul pensiero teologico e sul dogma. «Gll interventi del magistero ecclesia-
stico [. .. ] si inscrivono del tutto naturalmente nel prolungamento del trat-
tato scolastico della fede così come è stato messo a punto da san T omma-
so» 148 • Il suo modo di utilizzare l'epistola agli Ebrei raccoglie «un corpus
relativamente omogeneo di versetti (dieta probantia)» che si ritroverà «nel
Decreto sulla gusti/icazione del concilio di Trento (1547), prima di ritro-
varlo nel cap. III della Costituzione Dei Filius del concilio Vaticano I, dove
costituisce la base scritturistica della definizione dogmatica della fede che
segnerà tanto l' analysis /idei fino al concilio Vaticano II» 149 • L'analisi futu-
ra dell'atto di fede si riferirà in effetti spontaneamente alle sue posizioni e
si inscriverà entro i confini da lui tracciati.

III. L'APOLOGIA DELLA FEDE


E IL DISCORSO CONTRO GLI ERETICI E I GENTILI

La cristianità medievale elabora la sua dottrina in funzione del suo


mondo, tuttavia, lo si è notato, la preoccupazione della giustificazione
della fede è già presente nell'immenso sforzo di intelligibilità che attraver-
sa questa epoca m. D'altra parte i dottori medievali si sono posti la do-
. manda sui motivi di credibilità e sull'accesso dei semplici alla fede e in
questo senso si sono impegnati in una apologia della fede. Essi dovevano
però anche tener conto delle eresie del loro tempo e di coloro che chia-
mavano con un termine generico gli «infedeli» e che comprendevano in-

147 Sulla questione di sapere se san Tommaso ammetteva la possibilità di una credibilità naturale,
messa in discussione a partire da Rousselot, cfr. R. AUBERT, Le problème de /'acte de/oi... , cit., pp. 69-71.
148 R. AUBERT, Le problème de l'acte de /oi... , cit., p. 44.
149 CHR. THEOBALD, L'Epitre aux Hébreux ... , art. cit., p. 20.
llO Cfr. supra, pp. 75-76.

11 - ESPOSIZIONE DELLA FEDE E APOLOGIA NEL MEDIOEVO 105


sieme gli eredi della sapienza razionale dei pagani, gli Ebrei, ancora pre-
senti nella società medievale, nonostante alcune esclusioni già marcate, e
infine i Musulmani, evidentemente sconosciuti all'epoca patristica, ma
attivi e spesso minacciosi alle frontiere della cristianità, mentre le loro fi-
losofie veicolavano il pensiero aristotelico.

1. I primi lineamenti di una apologia della fede


Indicazioni bibliografiche: A. LANG, Die Ent/altung des apologetischen Problems in der Scho-
lastik des Mittelalters, Herder, Freiburg 1962.

1. San Tommaso - l'abbiamo visto - parla di una necessità della rivela-


zione in quello che concerne le verità normalmente accessibili alla ragione
naturale, al fine di evitare alla maggior parte degli uomini di cadere nel-
l'ignoranza e nell'errore. Su questo terreno ci sono dunque delle «ragioni
veramente dimostrative apportate non agli articoli ma ai preamboli della
fede (preambula /idei)» m e che contribuiscono a condurre alla fede. Allo
stesso modo, queste verità costituiscono un presupposto necessario per una
elucidazione della fede, perché propongono i concetti e le conoscenze a
partire dalle quali la comprensione dei misteri della fede può essere espres-
sa: «ci sono delle cose che si devono credere e che si possono provare dimo-
strativamente. [ ... ] Questi punti sono i preamboli esigiti per la fede» 152 •
La questione dei preamboli alla fede· o degli «antecedenti della fede>>
(antecedentia /idei), secondo il linguaggio francescano, era all'ordine del
giorno già prima di san Tommaso. Questi preamboli comprendevano
contemporaneamente delle verità religiose fondamentali e dei dati etici
naturalmente accessibili all'uomo. Gli uni e gli altri erano dei presupposti
necessari all'elaborazione di un discorso teologico e avevano un doppio
ruolo, apologetico e speculativom. Tra questi la prospettiva tomista in-
scrive l'esistenza di Dio, l'unità e l'immaterialità divina, la spiritualità e
l'immortalità dell'anima, la libertà della volontà, l'unità sostanziale del ·
corpo e dell'anima e, in generale, le verità fondamentali della morale. Ogni
scuola elaborava così una lista di antecedenti della fede 154 •
Per i misteri di fede propriamente detti, la chiarificazione funzionerà
differentemente, con l'aiuto dell'.analogia della fede, dei paragoni, degli

m S. Th. Ila-Ilae, q. 2, a. 10.


m S. Th. Ila-Ilae, q. 1, a. 5, ad 3m. Su questo punto cfr. A LANG, Die Ent/altung des apologetischen
Problems in derScholastik des Mittelalters, Herder, Freiburg 1962, pp. 58-59. A quest'opera mi ispiro per
gli sviluppi successivi.
m Cfr. A. LANG, Die Entfaltung des apologetischen Problems.. ., cit., p. 96.
m Ibid., pp. 100-109.

106 BERNARD SESBOÙÉ


argomenti di verosomiglianza, della coerenza interna, ecc. San Tommaso
però è sempre attento ai possibili slittamenti di queste dimostrazioni. A
proposito dell'inizio del mondo, che egli ritiene essere un oggetto di fede
e non di sapere, avverte:
Questa osservazione è utile per evitare che, pretendendo di dimostrare ciò che è
di fede attraverso argomenti non rigorosi, si finisca con l'offrire occasione agli
increduli di disinteressarsene, facendo loro supporre che è per ragioni di questo
tipo che crediamo ciò che è di fede 155 •

Inoltre l'apologia dovrà risolvere le difficoltà sollevate dagli avversari


contro le affermazioni della fede, proponendo dei contro-argomenti 156 •
2. L'argomentazione attraverso le ragioni deve però fondarsi anche sulle
testimonianze della fede. Per testimonianze si intendono dei motivi di cre-
dibilità che restano esterni al contenuto stesso della fede, ma che funzio-
nano come segni sensibili in favore della sua verità e come conferme che
dispongono lo spirito a credere. Il segno principale è il miracolo. Allo stes-
so modo si fa appello alle profezie. Qui, ancora, i differenti teologi forni-
scono delle liste più o meno lunghe di motivi di credibilità 157 •
Questa preoccupazione per i segni esterni di credibilità è evidente nel-
la nuova interpretazione della formula di 1 Pt 3, 15, all'epoca spesso cita-
ta: «Pronti sempre a rispondere (pros apologian) a chiunque vi domandi
ragione della speranza che è in voi». Il testo, compreso dapprima come
un invito alla giustificazione razionale del contenuto della fede, è in segui-
to applicato alle testimonianze che rendono credibile la rivelazione 158• I
· miracoli intervengono qui in primo piano.
3. A questo si aggiunge la preoccupazione di elaborare delle prove della
fede «in generale» (in universali), vale a dire degli argomenti capaci di
fondare la fede in se stessa, la sua verità, il suo valore per la salvezza, usan-
do gli argomenti che l'abbracciano nella sua globalità. Guglielmo di Au-
vergne, all'inizio del XIII secolo, è un testimone di questa preoccupazione,
che fa ricorso in particolare ai miracoli m. Questo tipo di fede è quella dei
semplici, che non possono entrare nel dettaglio degli articoli: l'uomo sem-
. plice crede le stesse cose dell'uomo sapiente, ma in un altro modo: crede
in generale ciò che il sapiente crede in particolare 160 • Distinzione questa

m S. Th. I, q. 46, a. 2.
1% Cfr. A LANG, Die Entfaltung des apologetiscben Problems... , cit., pp. 60-63.
m lbid., pp. 83-85.
1'8 lbid., p. 80.
159 Cfr. lbid., pp. 83-85.
160 GUGLIELMO DI AUVERGNE, Sulla fede, 2 (Paris 1591, fol 12a); cfr. A. LANG, Die Entfaltung des apo-
logetiscben Problems: .. , cit., p. 84.

Il - ESPOSIZIONE DELLA FEDE E APOLOGIA NEL MEDIOEVO 107


che corrisponde alla differenza tra la giustificazione della fede «per mez-
zo delle testimonianze» e «per mezzo delle ragioni». Questa concezione
viene così formalizzata da san Tommaso:
Le cose soggette alla fede possono essere considerate in due modi. Possono esser-
lo nel dettaglio, e a questo riguardo non possono essere viste e credute nello stes-
so tempo [. .. ]. Oppure sono considerate in generale, vale a dire sotto l'aspetto
comune della credibilità. Allora esse sono viste da colui che crede; egli non crede-
rebbe infatti se non vedesse che queste cose devono essere credute, e questa visio-
ne ha per causa sia levidenza dei segni, sia qualche cosa di analogo 161•

Il dotto non crede dunque i punti sottomessi alla fede ma accessibili alla
ragione, poiché li conosce con una scienza certa; il semplice, al contrario, al
quale queste prove sono inaccessibili, le crede in ragione dei segni esterni.
Prossima a questa concezione della giustificazione della fede «in gene-
rale» è quella della «fede implicita» (fides implicita) o della «fede indistin-
ta». Si pensa infatti che i santi dell'Antico Testamento abbiano avuto
implicitamente la fede nel Cristo, essendo data, la fede esplicita, dal Nuo-
vo. Allo stesso modo, i semplici di oggi possono avere una fede velata e
inscritta nella pratica dei sacramenti. Non è necessari9 esigere da essi una
fede esplicita nella totalità del contenuto della fede. E sufficiente che co-
noscano le verità necessarie alla salvezza e che diano un a.ssenso implicito
al resto. Ritroviamo l'idea di una fede «in generale» di tutto ciò che la
Chiesa crede 162 • San Tommaso ad esempio dice: «Colui che crede che la
fede della Chiesa è vera, crede per ciò stesso implicitamente ciascuno dei
punti che sono contenuti nella fede della Chiesa» 163 • Questo non dispensa
dal credere esplicitamente alcune verità essenziali, come dice una dichia-
razione minimalista di Innocenzo IV, secondo la quale «basta ai semplici
e forse a tutti i laici» 164 credere «che Dio esiste e che egli è il remuneratore
di tutti gli uomini che fanno il bene». Gli altri articoli saranno creduti
implicitamente, secondo ciò che crede la fede della Chiesa 165 • San Tom-
maso è più esigente:
Per quello che riguarda le principali verità da credere, che sono gli articoli di fede,
si è tenuti a crederli esplicitamente, così come si è tenuti ad avere la fede. Quanto
alle altre verità, non si è tenuti a crederle esplicitamente, ma solo in modo impli-
cito o nella disponibilità dello spirito: si è pronti a credere tutto ciò che è conte-
nuto nella divina Scrittura 166•

161 S. Th. Ila-IIae, q. 1, a. 4, ad 2m.


162 Cfr. A. LANG, Die Entfaltung des apologetischen Problems ... , cit., pp. 88-91.
163 TOMMASO o'AQmNO, Sulla verità, q. 14, a. 11; dr. lbid., p. 90.
164 Questo testo è. rivelatore della separazione culturale tra clero e laici,compresa come quella della
gente istruita e degli ignoranti.
165 Citato da A. LANG, Die Entfaltung des apologetischen Problems ... , cit., p. 90.
166 S. Th. IIa-IIae, q. 2, a. 5.

108 BERNARD SESBOOÉ


La teologia medievale ha dunque posto importanti prospettive sui temi
che diventeranno l'oggetto dell'apologetica dei tempi moderni.

2. Il Medioevo di fronte ai suoi eretici


Indicazioni bibliografiche: Hérésies et sociétés dans l'Europe pré-industn'elle, xr-xvrrr siècles,
Mouton co, Paris-La Haye 1968; M.D. LAMBERT, Medieval Heresy. Popolar Movements /rom
Bogomil to Hus, E. Arnold, London 1977; C.T. BERKHOUT-J.B. RussELL, Medieval Heresies. A
Bibliography 1960·1979, Pont. lst. of Medieval Studies, Toronto 1981; P. VALLIN, Les chrétiens
et leur histoire, Desclée, Paris 1985; M. REEVES, The influence o/ Prophety in the later Middle
Age: a study in joachimism, Univ. of Notre-Dame Press, London 1993.

Le eresie medievali
Le eresie medievali sono del tutto differenti da quelle dell'antichità
cristiana. Anzitutto non vertono più, o praticamente più, sui misteri trini-
tario e cristologico, ma riguardano soprattutto la Chiesa e i sacramenti,
evidenziando così le grandi preoccupazioni del tempo. Tra le eresie si
possono distinguere quelle popolari e le eresie o gli errori sapienti. Le ere-
sie popolari - prendendo questo termine nella larga accezione propria di
quel tempo - furono la conseguenza di personalità carismatiche che inse-
gnavano un radicalismo evangelico ed entrarono in conflitto con una ge-
rarchia giudicata insieme troppo clericale e troppo tollerante nei confron-
ti dei preti indegni. Un importante movimento in questo senso fu il movi-
mento cataro, designato con un termine greco che significa i «puri» o i
«perfetti». I capi di questo movimento erano ostili a ogni forma di media-
zione nella Chiesa e mettevano in discussione i sacramenti - soprattutto il
matrimonio, perché esaltavano una castità escatologica -; volevano torna-
re alla Chiesa primitiva e a un «cristianesimo autentico»; insegnavano una
povertà assoluta e un ascetismo rigoroso. Non si confondevano però con
gli «spirituali». I catari comparvero nella seconda metà del XII secolo in
diversi paesi tlell'Europa occidentale, prima di essere localizzati, dalle
fonti, nella regione di Albi (da cui il nome di Albigesi), e furono anche
influenti nel nord Italia. Essi avevano rotto i legami con la Chiesa perché
ritenevano che avesse tradito il Vangelo. Il loro moviment6 conobbe un
grande successo e si diffuse largamente in Europa. Verso il 1174-1176 si
tenne anche un «concilio cataro», a Saint-Félix di Caraman 161 • Il catari-
smo poneva alla Chiesa un problema evidente, davanti al quale essa reagì
male, con uri rigore spietato, senza ottenere peraltro dei veri risultati.

167 Cfr. A. VAUCHEZ, Histoire du christianisme, V, Desclée, Paris 1993, p. 466.

II . ESPOSIZIONE DELLA FEDE E APOLOGIA NEL MEDIOEVO 109


Altri movimenti di tipo evangelico si manifestarono nella stessa epoca,
in particolare quello dei Valdesi, dal nome di un mercante lionese, Pietro
Valdo o Valdesio (Valdesius) 168 • A seguito di una conversione personale
egli si fece tradurre i vangeli in lingua volgare e cominciò a predicare per
le strade, presto seguito da un gruppo di discepoli. Il conflitto con la ge-
rarchia del tempo sorse dal fatto che i laici non avevano il diritto di pre-
dicare, secondo una disposizione del Decreto di Graziano. Il conflitto si
inasprì progressivamente e giunse alla rottura: Valdo non si sottomise
quando gli venne ritirata la sua provvisoria autorizzazione a predicare. Fu
scomunicato e poi condannato come eretico nel 1184. Un movimento
analogo nacque a Milano, dove i membri laici presero il nome di Umiliati.
Essi vennero per un certo tempo scomunicati, poi riconciliati da Innocen-
zo III. Nel caso dei Valdesi e degli Umiliati non si tratta di eresie nel sen-
so moderno, ma piuttosto di attitudine scismatica, poiché niente nel loro
comportamento li separava dall'ortodossia dottrinale 169 •
Le altre eresie medievali furono più precisamente degli errori teologici
dotti, vertenti su un punto di dottrina dibattuto nelle scuole. Esse non
avevano per nulla lo stesso impatto ecclesiologico e sociale. A loro riguar-
do, le università potevano stipulare un atto sotto forma di censure e i papi
agirono in modo puntuale, con la condanna di certe proposizioni oppure
la domanda di sottoscrivere una confessione di fede: fu questo il caso di
Berengario, di Abelardo, di Gilberto Porretano, di Pier Lombardo.

L'inquisizione
Al servizio della difesa e della regolazione della fede, il XIII secolo ha
fatto ricorso alla violenza fisica. Senza dubbio quest'epoca vedeva cresce-
re la dissidenza religiosa, in particolare con i catari Albigesi, e contro di
essi, nel 1209, fu intrapresa una crociata. «La novità non risiede nella vio-
lenza, a cui spesso si era già fatto ricorso contro gli erranti nell'XI e nel XII
secolo, ma nell'uso consapevole e sistematico di questa di fronte a certe
categorie di persone, con la tutela della società e la mediazione delle isti-
tuzioni implicate sul piano politico, giudiziario e sociale» 170• In una socie-
tà istituzionalmente cristiana, la devianza eretica era considerata anche
come un problema di ordine pubblico. La Chiesa e lo Stato si unirono
dunque nella repressione. Dal XII secolo la pena di morte sul rogo era in
uso contro gli eretici ostinati, perché l'eresia era assimilata alla stregone-

168 Cfr. t. III, pp. 386s.


169 Su questi due movimenti dr. A. VAUCHEZ, Histoire du christianisme, V, cit., pp. 460-472, alle cui
pagine mi ispiro qui.
110 A. VAUCHEZ, Histoire du christianisme, V, cit., p. 820 (riferendosi a R.l. Moore).

110 BERNARD SESBOÙÉ


ria. L'eresia catara fu l'occasione di una decisione papale di Lucio III
(1181-1185), ripresa dal IV concilio del Laterano (1215) e da Gregorio IX
(1227-1241). Il IV concilio del Laterano così si esprimeva:
Scomunichiamo e colpiamo con anatema ogni eresia che si erge contro la santa,
ortodossa e cattolica fede [... ]. Condanniamo tutti gli eretici, sotto qualunque
nome si presentino; essi hanno facce diverse, ma le loro code sono strettamente
aggrovigliate perché nella falsità sono eguali. Gli eretici condannati siano abban-
donati alle autorità secolari o ai loro funzionari per essere puniti con pene ade-
guate 171 • .

La pericolosa soglia, che venne superata, è quella del passaggio da pene


spirituali - la scomunica - a pene temporali di vario tipo: degradazione
per il clero; confisca dei beni; incapacità di esercitare qualsiasi funzione
nella società; messa al bando; rifiuto della sepoltura 'cristiana. Si faceva un
dovere ai vescovi di :ricercare e punire gli eretici e di consegnare i colpe-
voli al braccio secolare affinché ricevessero la punizione richiesta o il «trat-
tamento meritato» (animadversio debita). Tutti coloro che li sostenevano,
accordavano loro rifugio o si mostravano troppo deboli nella repressione,
venivano ugualmente puniti con sanzioni.
Gregorio IX tra il 1231 e il 1233 instituì formalmente l'Inquisizione,
tribunale incaricato specialmente di combattere l'eresia e ne integrò la
procedura nel diritto canonico. Egli mantenne il supplizio del fuoco e le
altre pene in una costituzione del 1231. Affidò principalmente ai religiosi
mendicanti (Domenicani e Francescani) l'inquisizione, che divenne pro-
gressivamente un tribunale autonomo. Sotto il suo pontificato, l'inquisi-
zione fu attiva in Francia, iri Italia, in Spagna, in Germania, nei Paesi Bassi
e si rese responsabile di numerose esecuzioni al rogo. L'Inquisizione si
estendeva anche nei confronti dei crimini di sacrilegio, di bestemmia, di
sodomia, di magia, di stregoneria e di alchimia. I diritti della difesa furo-
no sempre più violati: era lo stesso sospettato di eresia, dopo esser stato
incarcerato e privato di un avvocato, a dover dare la prova della sua inno-
cenza. La delazione poi era incoraggiata. L'interrogatorio aveva come sco-
po quello di ottenere la confessione di eresia. Nel 1252, il papa Innocen-
zo IV autorizzò la tortura come mezzo di prova. Le pene erano l'imprigio-
namento e talvolta la reclusione a vita. I «recidivi» venivano condannati alla
pena di morte attraverso il fuoco, pena eseguita dal braccio secolare.
Ci è diffièile comprendere come la preoccupazione di conservare intat-
to il deposito della fede abbia potuto condurre a una tale disumanità e a
tali eccessi di ingiustizia e di crudeltà. Si tratta di un grave abuso di un

171 Degli eretici, COD p. 233.

Il · 'ESPOSIZIONE DELLA FEDE E APOLOGIA NEL MEDIOEVO 111


potere totalitario, condiviso tra la Chiesa e lo Stato. C'è da notare che l'in-
sieme della società dell'epoca riteneva che le questioni di fede dovessero
venir regolate all'occorrenza con la violenza fisica e la morte. Essa conce-
piva anche l'unità politica e religiosa come una uniformità. Si voleva in-
staurare «una società cristiana perfetta sotto la guida di un capo unico, il
papa» 172 • Molti inquisitori avevano di mira la conversione del colpevole,
attraverso la sua confessione. San Tommaso stesso, convinto che non si
possa costringere un infedele alla fede con la forza, pensa al contrario che
si possa fisicamente forzare gli eretici e gli apostati «a compiere ciò che
hanno promesso e a conservare la fede che hanno abbracciata una volta
per tutte» 173 • Questa convinzione resterà diffusa fino al tempo della Rifor-
ma e rende ragione della violenza delle guerre di religione che la seguiran-
no. Nel suo insieme, l'epoca patristica, anche se poco tenera nei confronti
della deviazione eretica, aveva ignorato questo tipo di pene, salvo quella
dell'esilio per i vescovi condannati.

Discorsi e censure contro gli eretici


Nel Medioevo non sono state dimenticate le eresie che avevano segna-
to l'antichità cristiana. La loro confutazione è però normalmente integra-
ta nella dottrina sacra. Ugualmente, si è coscienti delle loro possibili so-
pravvivenze nelle eresie e negli errori del presente. Nella Somma teologi-
ca, san Tommaso abbozza una riflessione sulle condizioni della discussio-
ne in materia di fede: con gli eretici si può discutere «utilizzando un arti-
colo di fede per combattere coloro che ne hanno un altro»; ma con l'in-
credulo «è possibile solo confutare le ragioni che egli potrebbe opporre
alla fede» 174 •
Queste affermazioni restano nell'ordine dei principi. Concretamente,
la lotta contro le opinioni erronee o giudicate eretiche passa attraverso
l'applicazione di graduali censure. Le Facoltà di teologia le mettono a
punto per prime, ma il magistero romano adotterà questo sistema, già nel
Medioevo e ancor più nei secoli XVII e XVIII m. Le condanne dottrinali
prendono in considerazione due parametri principali: la dimensione spe-
culativa dell'errore e la sua portata pastorale. La censura è espressa con
una o più note, tendenti a qualificare con la maggior precisione possibile
delle proposizioni formulate in modo lapidario. La qualifica più grave è

112 A. VAUCHEZ, Histoire du christianisme, V, cit., pp. 822.


173 S. Th. Ila-Ilae, q. 10, a. 8.
174 S. Th. I, q. 1, a. L
m Cfr. infra pp. 157-159. Un buon esempio neè dato dai 229 articoli condannnati a Parigi i:l 7 marw
1277. Cfr. su questo punto B. NEVEU, L'e"eur et ron juge. Remarques sur les censures doctrinales à l'époque
moderne, Bibliopolis, Napoli 1993, pp. 94-106, che studia la documentazione sulle censure nel Medioevo.

112 BERNARD SESBOÙÉ


quella di eresia. L'annotazione di errore però domina, dando anche luogo
a molteplici sfumature: «falso, improprio, ridicolo, assurdo, opposto ai
princìpi dei filosofi pagani, temerario» o, ancora, «falso, certi punti sono
eretici, alcuni dubbi al riguardo della fede, alcuni da mettere alla gogna»,
o, ancora, «errore concernente la fede, opposto all'opinione comune» 176 •
Ockham farà la prima dissertazione sulle note teologiche 177 , distinguendo
diversi generi di verità, e quindi di errori: l'errore principale contraddice
i soli punti contenuti nella Sacra Scrittura, per rivelazione esplicita o im-
plicita, e deve essere chiamato eresia; all'ultimo grado c'è un errore che
contraddice una verità dedotta dalla Sacra Scrittura o dalla verità aposto-
lica non consegnata nelle Scritture. Questo errore <<ha sentore d'eresia»
(sapit haeresim), senza essere formalmente eretico. Ockham pone dunque
chiaramente la distinzione tra l'eresia che si oppone a una verità divina e
l'errore che si oppone a una verità di «fede solamente ecclesiastica». Il
discernimento però della linea di frontiera tra i due terreni resta fluttuan-
te, data l'ampiezza del concetto di «rivelazione implicita» e il numero cre-
scente di conclusioni teologiche, la cui negazione era giudicata come un
errore dottrinale. Sulla questione delle censure, il Medioevo non fa che
innescare un movimento destinato a un fiorente avvenire.

3. I «Gentili» del Medioevo


Il Medioevo non è rimasto insensibile all'incredulità. Il suo concetto di
infedeli è anch'esso molto inglobante. Già sant'Anselmo, nella sua esposi-
zione della dottrina cristiana, ·aveva la preoccupazione di rispondere alle
obiezioni di quelli di fuori. Tra questi infedeli ci sono i pagani, o gli eredi
del paganesimo intellettuale dell'antichità, ci sono anche i Giudei e i
Musulmani, questi ultimi non considerati più solamente come pagani.
Questi infedeli ritengono che il mistero dell'incarnazione, così come la
morte in croce del Cristo, «offenda e oltraggi Dio». L'impegno teologico
mira dunque a convertirli 178•
San Tommaso aveva scritto, molto prima della Somma teologica, una
Somma contro i Gentili (tra il 1258 e il 1264), che procede in tutt'altro
modo. Chi sono questi «gentili»? Si era creduto per molto tempo, sulla
scia di un testo apocrifo di Pietro Marsili, che si trattasse di un'opera
missionaria, una specie di manuale destinato ai domenicani destinati ad

176 Ibid., p. 97, di cui seguo l'argomentazione. .


177 GUGLIELMO DI 0cKHAM, Dialogo sulla dignità papale e regale, ed. ingl. a cura di C.K. Brampton,
Clarendon Press, Oxford 1931. Cfr. B. NEVEU, L'e"eur et sonjuge... , cit., pp. 97-99.
178 Cfr. M. ROQUES, introduzione all'edizione francese del Cur Deus homo (SC 91) 1963, pp. 69-74.

II - ESPoSIZIONE DELLA FEDE E APOLOGIA NEL MEDIOEVO 113


annunciare il vangelo ai Mori. Il titolo dell'opera però, nella misura in
cui è autentico, contraddice questa ipotesi: i Gentili designavano, per
san Tommaso, i pagani in generale e non i Musulmani. Di più, Tom-
maso non cita il Corano e non manifesta alcuna preoccupazione di con-
futarlo.
Si è creduto, in seguito, che si trattasse di un'opera anti-averroista, di-
retta contro la filosofia araba. I Gentili sarebbero allora tutti i filosofi non
cristiani. Di fatto l'opera è diretta contro il paganesimo antico, in quanto
questo «produsse una filosofia completa, pressoché senza mescolanza con
l'errore: la filosofia di Aristotele» 179 • Questa filosofia è una istanza della
verità di sempre, ma ha dato luogo a errori e l'influenza della sapienza
pagana sulla fede cristiana è stata generatrice di eresie. Il libro ha di mira
la motivazione razionale permanente delle eresie anche nei riguardi della
fede. D'altra parte, l'altro titolo dato dai manoscritti, più originale a quan-
to pare, è il seguente: «Libro della verità della fede cattolica, contro gli
errori degli infedeli» 180 • Raccogliamo l'intenzione del Dottore angelico
dalla sua propria penna:
Prendendo fiducia dalla bontà divina, nell'affrontare il compito del sapiente, pur
trattandosi di un'impresa superiore alle nostre forze, ci proponiamo di esporre,
secondo le nostre capacità, la verità professata dalla fede cattolica, respingendo
gli errori contrari [. .. ].
E però difficile confutare tutti e singoli gli errori, per due motivi. Primo, perché
non abbiamo tale conoscenza delle asserzioni sacrileghe dei singoli oppositori, da
poter desumere validi argomenti dalle ragioni da essi addotte per distruggere
partendo da esse i loro errori. Così infatti fecero gli antichi dottori nel distruggere
gli errori dei gentili, avendo avuto la possibilità di conoscere le loro posizioni,
essendo stati gentili loro stessi, o perlomeno avendo vissuto con essi ed essendo
stati istruiti nelle loro dottrine. Secondo, perché alcuni di essi, come i Maometta-
ni e i pagani, non accettano come noi l'autorità della Scrittura, mediante la quale
è possibile invece disputare con gli Ebrei, ricorrendo all'Antico Testamento, op-
pure con gli eretici ricorrendo al Nuovo Testamento. Quelli invece non accettano
né l'uno né l'altro. Perciò è necessario ricorrere alla ragione naturale, cui tutti sono
costretti a piegarsi. Questa però nelle cose di Dio non è sufficiente 181 •

San Tommaso vuol fare opera di sapienza, vale a dire un'opera di teo-
logia; ora la confutazione dell'errore fa parte della teologia. Egli intende
dunque confutare gli errori degli infedeli in generale, ma ne sente la dif-
ficoltà, perché non conosce sufficientemente le loro dottrine. Mostra so-

179 A. GAUTHlER, introduzione all'edizione dell'opera Contra Genti/es, Lethielleux; 1961, I, p. 76.
Questa introduzione presenta la documentazione sull'argomento.
tso Ibid., p. 75.
181 TOMMASO o' AQUINO, Somma contro i Gentili, I, cap. 2, a cura di T.S. Centi, UTET, Torino 1975,
pp. 61-62.

114 BERNARD SESBOÙÉ


prattutto che la base del dibattito non può essere la stessa con i pagani,
con i Giudei e con gli eretici (ritroviamo così la trilogia degli avversari che
aveva conosciuto l'antichità cristiana). Bisogna dunque cercare per ciascu-
no la base di accordo preliminare, quella base su cui potrà venir effettua-
to il confronto. Di fronte agli infedeli san Tommaso è obbligato a fare
appello alla ragione naturale e universale, come denominatore comune,
tra tutti gli uomini, della comunicazione nella verità.
Se la Somma contro i Gentili non è un'opera di apologetica nel senso
moderno, manifesta tuttavia una preoccupazione ad extra e nello stesso
tempo quella di mostrare l'accordo con la fede della verità stabilita per
dimostrazione. È un'opera di dialogo tra la ragione e la fede.

4. I Giudei e i Musulmani. Le missioni.


Indicazioni bibliografiche: E. FRITSCH, Islam und Christentum im Mittelalter, Breslau 1930;
R. SUGRANYES DE FRANCH, Raymond Lu/le docteur des missions, Éd. Nelle Rev. de Se. Missio-
naire, Schoneck-Bechenried; J. RICHARD, La papauté et !es missions d'Orient au Moyen Age
(x11r-xv siècle), École franç. de Rome, Roma 1977; G. DAHAN, Le, intellectuels chrétiens et !es
jutfs au Moyen Age, Cerf, Paris 1990.

Nei confronti dei Giudei, il discorso controversistico continua dopo


Isidoro di Siviglia (morto nel 634) e il suo trattato La fede cattolica contro
i Giudei 182, che eserciterà una grande influenza fino alla fine del Medioe-
·vo, passando per Pier Damiani (morto nel 1072) 183, Ruperto di Deutz
(morto nel 1129) 184 , Abelardo (morto nel 1142) 18', Pietro il Venerabile
(morto nel 1156) 186 e·altri 187 •
Questo discorso conserva nel suo insieme un tono molto polemico e
affronta senza riguardi il problema del rigetto del popolo giudaico. Gli
argomenti impiegati consistono essenzialmente nel raccogliere delle te-
stimonianze dell'Antico Testamento, comprese come annunci profetici
dell'evento del Cristo. L'identità messianica di Gesù è in effetti al cen-
tro del dibattito. Gli apologisti cristiani però intendono trarre dall' Anti-
co Testamento argomenti a favore della divinità del Cristo, della sua
morte e risurrezione.
Ancora più polemico, ma meno sviluppato in Occidente, è la contro-

182 PL 83, 449-538.


18J PIER DAMIANI, Confutazione contro i Giudei, in: PL 145, 58-68.
UH RUPERTO DI DEUTZ, Anello o Dialogo tra un criJtiano e un giudeo, in: PL 170, 561-610.
18.5 ABELARDO, Dialogo tra un filosofo, un giudeo e un crùtiano, in: PL 178, 1611-1682.
186 PIETRO IL VENERABILE, Contro l'inveterata durezza dei Giudei, in: PL 189, 509-601.
187 Cfr. A. LANG, Die Bntfaltung deJ apologetiJchen Problems .. ., cit., pp. 67-70.

II - ESPOSIZIONE DELLA FEDE E APOLOGIA NEL MEDIOEVO 115


versia contro i Musulmani. Molto presto in Oriente gli scrittori cristiani
arabi dovettero rispondere alle grandi obiezioni dell'Islam al cristianesi-
mo: il mistero trinitario, che mette in causa ai loro occhi l'unicità divina
e, correlativamente, la divinità del Cristo, senza dimenticare il carattere
inammissibile della croce e il rifiuto della risurrezione. Si ritroveranno
in Occidente questi stessi temi, ma anche la confutazione degli attacchi
contro la pratica religiosa dei cristiani. Anche la questione della legitti-
mità del Cristo o di Maometto come profeti inviati da Dio è seriamente
discussa, a partire dai segni e dai miracoli rivendicati da ciascuna delle
due parti. L'assenza di profezia in favore di Maometto è rifiutata dai suoi
discepoli, in quanto inutile per un profeta che non intende abrogare
nulla. Di nuovo incontriamo qui Pietro il Venerabile, con la sua opera
Contro la setta ne/asta dei Saraceni (1143 ), ripresa un secolo più tardi da
Raimondo Marti de Subirats (morto nel 1284) 188 , che rivolge la sua ope-
ra insieme contro i Musulmani e i Giudei, e da Riccardo di Monte Cro-
·Ce, verso il 1300 189 •
Non si deve infine dimenticare il grande sforzo missionario del Me-
dioevo, rivolto dapprima verso il mondo mediterraneo dell'Islam, ma
anche verso l'Asia centrale (Guglielmo di Rubrouck in Mongolia, una
primissima evangelizzazione della Cina). Gli Ordini mendicanti, france-
scani e domenicani, ne furono i principali apostoli sotto l'impulso deci-
sivo dei loro fondatori. Il grande «dottore delle missioni» fu all'epoca il
francescano Raimondo Lullo (Llull, 1232-1316), missionario lui stesso e
grande viaggiatore, che ne determinerà i metodi con intelligenza: egli
era convinto che il missionario doveva conoscere le credenze delle altre
religioni e la lingua di coloro ai quali si indirizzava; per questo conveni-
va formare i missionari attraverso un insegnamento speciale. Per questo
Lullo fondò un monastero speciale a Miramare. Egli consiglia anche di
organizzare delle controversie dottrinali e di inviare ambasciate per con-
sentire degli scambi. In breve, consiglia di razionalizzare tutto lo sforzo
missionario 190 • Poco dopo, sotto la spinta di Raimondo di Peiiafort, i
domenicani organizzarono in Spagna un centro di studi in cui venivano
formati degli apologisti, destinati a evangelizzare le regioni musulmane,
come pure i Giudei residenti in Occidente. La preoccupazione missio-
naria del Medioevo non resterà senza conseguenze per la riflessione
dottrinale.

188 RAIMONDO MARn DE SUBIRAlS, Il pugnale della fede, ed. a cura di J.B. Carpzov, Leipzig-Francfort
1687. Ristampa anastatica 1967.
189 RICCARDO DI MONTE CROCE, Confutaiine del Corano, Venezia 1609.
190 Cfr. R. SUGRANYES DE FRANCH, Raymond Lulle docteur des missions, Éd. Nelle Rev. de Se. Missio-
naire, Schoneck-Bechenried, pp. 57·73.

116 BERNARD SESBOÙÉ


FASE SECONDA

DA TRENTO
AL CONCILIO VATICANO I:
UNA NUOVA STAGIONE
DELLA TEOLOGIA
Dall'apologetica all'emergenza
del «magistero vivo»

Bernard Sesboiié
Capitolo Terzo

Scritture, tradizioni e dogmi


al concilio di Trento

Il concillo di Trento è stato presentato in se stesso nel secondo tomo di


quest'opera 1• L'insieme dei suoi decreti è stato commentato in parte nel
secondo tomo (peccato originale e giustificazione) e in parte nel terzo (i
sacramenti)2. Bisogna ora ritornare sulla sua metodologia dottrinale nel
trattare i due primi decreti dogmatici concernenti la recezione del Simbo-
lo di fede e quindi della Scrittura e delle tradizioni. Dovremo anche in-
terrogarci sul senso che assumono in esso i termini chiave di fede, di dog-
ma, di eresia, di «definizione», di mores, al fine di prendere atto di quanto
il loro statuto semantic9 era, all'epoca, molto differente da quello che è di-
venuto in seguito. Infine, bisognerà prendere in esame un'importante opera
di metodologia teologica che venne pubblicata, poco dopo la chiusura del
concilio, da un teologo che aveva partecipato ai suoi lavori, Melchior Cano.
Questo libro, consacrato ai <<luoghi teologici», sarebbe diventato un p1.µ1to
di riferimento importantissimo per la teologia fondamentale.

I. LA RECEZIONE DEL SIMBOLO DI FEDE

Il concilio di Trento presenta, nella programmazione delle sue prime


sessioni, la metodologia del suo lavoro. La terza sessione - la prima che si
cimenta sul terreno dottrinale - è dedicata alla «recezione del Simbolo
della fede cattolica». La quarta sessione si incentra invece sul decreto ri-
guardante la «recezione dei libri santi e delle tradizioni degli apostoli».
Questi due decreti riprendono alcuni elementi della metodologia tradi-

t Cfr. t. II, pp. 195-200.


2 Cfr. t. II, pp. 200-215 et. III, pp. 129-184.

III - SCRITTIJRE, TRADIZIONI E DOGMI AL CONCILIO DI TRENTO 119


zionale già evocata, poiché il concilio intende seguire <<l'esempio dei Pa-
dri»; tuttavia formalizzano tali elementi in modo nuovo e ne fanno l'argo-
mento di una trattazione preliminare a quella delle questioni dogmatiche.
Questa novità merita la nostra attenzione.

Il Simbolo «solido e unico fondamento»


In apertura dei suoi lavori, il concilio riprende una vecchia tradizione
conciliare che consisteva da una parte nell'elaborare una rimessa in auge
del Simbolo di fede e dall'altra a «confessarlo» solennemente in segno di
«recezione»:
Perché questa sua materna sollecitudine inizi e prosegua per la grazia di Dio,
anzitutto stabilisce e dispone di premettere la professione di fede seguendo in
ciò l'esempio dei Padri[ ... ]. Per queste ragioni [il concilio] ha creduto bene che
si professi, con le stesse parole con cui si legge in tutte le chiese, il Simbolo della
fede in uso presso la santa Chiesa romana, come il principio in cui tutti coloro
che professano la fede di Cristo necessariamente si ritrovano, e come solido e
unico fondamento contro cui «le porte degli inferi non prevarranno mai». Que-
sto è il testo: ... 3.

Il concilio considera dunque il Simbolo come sua norma. Una dialetti-


ca particolare attraversa i verbi impiegati: da una parte Trento «decide e
decreta», che corrisponde a un linguaggio d'autorità (che ritornerà nel
seguito dei decreti), ma dall'altra vuol cominciare con una «professione
di fede» e «professare» il Simbolo in uso nella Chiesa, con un atto ufficia-
le di «ricezione». Questa decisione autorevole si mette al servizio dell'ob-
bedienza della fede attraverso la formula simbolica ricevuta con rispetto.
Questo Simbolo è qualificato come «principio» e «solido e unico fon-
damento», nel quale «tutti coloro che professano la fede di Cristo neces-
sariamente si ritrovano». La finale del decreto seguente, concernente le
Scritture e le tradizioni, riprenderà questo stesso termine a proposito del
Simbolo: «Tutti intendano l'ordine e il modo con cui procederà lo stesso
sinodo, dopo che ha stabilito il fondamento della confessione della fede» 4 •
È come dire che il Simbolo costituisce la prima e immediata referenza di
ogni discorso della fede. Esso ne è la pietra angolare. In termini moderni,
esso costituisce la pre-comprensione alla luce della quale saranno affron-
tati i nuovi problemi posti. Il termine fondamento è significativo: esso fa
entrare nel campo del discorso cristiano la preoccupazione delle questio-

l Concilio di Trento, 3° sessione, COD p. 662.


4 lbid., 4• sessione, COD p. 664.

120 BERNARD SESBOÙÉ


ni «fondamentali» 5 • Il decreto seguente dirà come questo fondamento si
trova articolato in rapporto alle Scritture e alle tradizioni.
Il Simbolo professato è quello niceno-costantinopolitano. Il concilio
non apporta dunque alcuna innovazione rispetto al contenuto della for-
mula tradizionalmente trasmessa nelle Chiese d'Oriente e d'Occidente.

Il. LA RECEZIONE DEI LIBRI SANTI


E DELLE TRADIZIONI

Indicazioni bibliografiche: Cfr. Bibliografia generale sul concilio di Trento, t. II, p. 196; E.
0RTIGUES, Écritures et tradt~ions apostoliques au conci/e de Trente, RSR, 36 (1949), pp. 271-
299; J.R. GEISELMANN, Das Konzil van T rient iiber das Verhiiltnis der Heiligen Schnft und der
nicht geschriebenen Traditionen. Die miindliche Oberlie/erung, hrsg von M. Schmaus, Ch. Kai-
ser, Miinchen 1957, pp. 123-232; H. LENNERZ, Scriptura sola?, in «Gregorianum», 40 (1959),
pp. 38-53; !D., Sine scripto traditiones, ibid., pp. 624-636; J. BEUMER, Katholisches und prote-
stantisches Schri/tprinzip im Urteil des Trienter Konzils, in «Scholastilo>, 34 (1959), pp. 249-
258; H. HoLSTEIN, La tradition d'après le conctte de Trente, RSR, 47 (1959), pp. 367-390;
ID., Les. «deux sources de la révélatiom>, RSR, 57 (1969), pp. 375-434; Y. CoNGAR, La Tradizio-
ne e le tradizioni. Saggio storico, Paoline, Roma 1961; G.H. TAVARD, Écriture ou Église? La
crise de la Réforme, Cerf, Paris 1963; P. LENGSFELD, Tradition, Écriture et Église dans le dialo-
gue oecuménique, Orante, Paris 1964; W. KASPER, Il dogma sotto la parola di Dio, Queriniana,
Brescia 1968; K. RAHNER - J. RATZINGER, Rivelazione e tradizione, Morcelliana, Brescia 1970;
H.-J. SIEBEN, Die Katholische Konzils idee von der Reformation· bis zur Au/kliirung, Schoningh,
Paderborn 1988.

1. La contestazione della Riforma:


il principio scritturistico
Uno dei primi punti della critica mossa da Lutero nei confronti della
Chiesa cattolica riguardava l'autorità che questa rivendicava per se stessa
in materia di fede, attraverso la molteplicità delle sue tradizioni e delle
sue istituzioni. Questa contestazione è radicale e si manifesta nelle novan-
tacinque tesi di Wittemberg. Lutero rimproverava alla Chiesa di mettere
ogni sorta di cose sullo stesso piano del Vangelo, mentre si trattava di
«invenzioni» umane. Qualcuna di queste pratiche, in particolare il siste-
ma delle indulgenze, contraddiceva secondo lui il puro Vangelo e faceva
ritornare a una forma di giustificazione mediante le opere. Egli filtrava
cosìle tradizioni veicolate dall'autorità della Chiesa e non voleva ritenere
che quanto risultava conforme al Vangelo. Tuttavia, Lutero non metteva

5 Punto sottolineato da CHR. THEOBALD, Maurice Bionde! und das Problem der Moderniti#, Knecht,
Frankfurt 1988, pp. 473-475.

III - SCRITTURE, TRADIZIONI .E DOGMI AL CONCILIO DI TRENTO 121


in questione il dogma, nel senso di una affermazione di fede dotata di
autorità, rimanendo fedele ai Simboli della Chiesa antica, da lui giudicati
conformi al Vangelo.
Di fronte alla tradizionale concezione della Chiesa portatrice della
Scrittura e delle tradizioni, Lutero invocava in effetti il Vangelo. Con que-
sto termine egli intendeva il Vangelo paolino della giustificazione median-
te la fede, che era stata l'oggetto della sua esperienza e della sua scoperta
a partire dalla lettera ai Romani. Questo Vangelo era anche lo «spirito»,
assimilato alla fede, che egli opponeva alla «lettera», identificata - affasci-
nato com'era dall'opera di sant'Agostino Lo spirito e la lettera 6 - con i
precetti della vita morale 7• Questo Vangelo è anche al di sopra della Chie-
sa: «La parola di Dio è incomparabilmente superiore alla Chiesa ed essa
sola produce la Chiesa» 8 • La Chiesa è 1n effetti la «creazione del Verbo».
Questo V angelo però non è più solo Scrittura, ma è la predicazione viven-
te e orale che è una potenza di salvezza:
Vangelo non significa altro che una predicazione e un grido della grazia e miseri-
cordia di Dio, meritate e acquistate dal Signore Gesù Cristo con la sua morte, e
non è propriamente ciò che sta in libri o viene fissato in lettere, bensì piuttosto
una predicazione orale, una parola viva e una voce che risuona in tutto il mondo
viene emessa pubblicamente perché la si senta dovunque 9 •

Il Vangelo è potenza di vita e Lutero sottolinea la sua assoluta trascen-


denza. È la predicazione stessa del Cristo e ha per oggetto primo il Cristo:
è il «Vangelo del Cristo» o il «Vangelo di Dio concernente suo Figlio». È
dunque alla luce del Vangelo e del Cristo che bisogna interpretare i libri
della Scrittura. Poiché il Vangelo ne è il centro: in questo la Scrittura è
assolutamente chiara, mentre la tradizione cattolica insisterà sul-
1' «oscurità» delle Scritture. Questa concezione del Vangelo trascendente
le Scritture però non è lontana dalla concezione che anche il concilio di
Trento si farà del Vangelo.
L'appello al Vangelo diviene in Lutero un principio critico non solo
nei confronti dei dogmi della Chiesa, ma anche nei confronti dei testi della
Scrittura. L'uomo giustificato per la grazia del Vangelo è 'abitato dallo
Spirito, che gli consente di giudicare la Scrittura, perché «l'uomo mosso
dallo Spirito giudica ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno»
(1 Cor 2, 15). L'esperienza dello Spirito lo ammaestra e gli permette di
discernere dove e come la Scrittura gli dona il Cristo. «In Lutero - scrive

6 Cfr. t. II, pp. 255-256. ·


7 Cfr. G.H. TAVARD, Écriture ou Église? LA crise de la Réforme, Cerf, Paris 1963, p. 121.
8 LUTERO, WA 12, 259; traduzione in: W. KASPER, Il dogma sotto la parola di Dio, Queriniana, Brescia
1968, p. 18.
9 W. KASPER, Il dogma sotto la parola di Dio, cit., p. 19.

122 BERNARD SESBOOÉ


W. Kasper - la teologia della parola è sostenuta dalla fede nella potenza
di Cristo nello Spirito Santo, che mediante la sua parola annunciata nella
Chiesa si fa continuamente ascoltare» 10• La Scrittura è dunque giudicata
alla luce di questo Vangelo, col rischio di vedersi strumentalizzata al ser-
vizio dell'interpretazione luterana di Vangelo. Il grande principio della
«sola Scrittura» (Scriptura sola) va compreso all'interno di questa convin-
zione ermeneutica 11 •
La Chiesa conserva un ruolo essenziale nella predicazione del Vange-
lo, ma essa non è la bocca di Dio che nella misura in cui resta fedele alla
pura Parola di Dio. «Essa è l'assemblea di tutti i credenti tra i quali il
Vangelo è predicato fedelmente e i santi sacramenti sono amministrati
conformemente al Vangelo» 12 • La Chiesa non è più dunque la custode
indefettibile di questa, ma è sottomessa al suo giudizio, come a qualcosa
che la trascende.
In questa prospettiva, il termine tradizione rinvia essenzialmente alle
«tradizioni degli u"omini», già stigmatizzate dalle parole del Vangelo
(cfr. Mt 7, 8). E vero peraltro che, da parte cattolica, la distinzione tra
tradizioni apostoliche ed ecclesiastiche era ancora lungi dall'essere chia-
rita. Il problema posto dai Riformatori non era dunque tanto quello
delle Scritture - sulle quali non c'erano che alcune difficoltà concernen-
ti il canone-, ma quello delle tradizioni, che essi rigettavano. E concer-
neva anche il rapporto tra Vangelo e Chiesa.

2. Il decreto Sacrosancta (4• sessione)


Dopo aver ricevuto il Simbolo di fede, il concilio di Trento riceve i li-
bri santi delle Scritture e le tradizioni venute dagli apostoli. Si tratta qui
della sua prima produzione dogmatica. Questo testo è breve, costituito da
un solo canone. Non si tratta di una «doctrina» propriamente detta, con
un insieme di capitoli, come il concilio sarà indotto a fare per la giustifi-
cazione e alcuni sacramenti. Il testo si presenta con una forma letteraria
tipica dei testi di introduzione alle «doctrinae>>.
L'essenziale del documento è costituito da una sola frase, costruita
con molta cura e che culmina con i due verbi della proposizione princi-
pale «accoglie e venera». Come si è visto per il Simbolo di fede, questi
verbi assumono tutto il loro significato se confrontati con quelli che

10 Ibid., p. 21.
li Melantone sentiva vivamente la parte di contraddizione che c'era nel porre un principio scritturi·
stico cosi rigoroso e ad ammettere tuttavia i Simboli di fede e gli antichi concili. Egli conosceva i Padri e
ammetteva il principio di una tradizione dottrinale sempre sottomessa al Vangelo.
12 Confessione di Augusta, VII.

III - SCRITI1JRE, TRADIZIONI E DOGMI AL CONCILIO DI TRENTO 123


esprimeranno, nei decreti seguenti, l'autorità del concilio (che «dichia-
ra, decide, insegna»). Qui si tratta ancora di un atto di sottomissione del
concilio nei confronti di ciò che esso considera come sua norma. Come
nella sessione precedente, l'autorità conciliare si fonda su una obbedien-
za: Scritture e tradizioni saranno dunque le referenze normative della
sua fede.
L'andamento di quest'unica frase comporta tre punti principali. Anzi-
tutto essa mette in risalto l'unicità dell'Evangelo; poi tratta dei due luoghi
di attestazione e di trasmissione di quest'unico Vangelo; infine li riceve
entrambi, attribuendo loro il medesimo valore. Il testo viene qui presen-
tato secondo questi tre momenti, in una disposizione che ne metta in rilie-
vo largomentazione.

Il Vangelo, unica fonte di verità e di vita


Il sacrosanto concilio tridentino ecumenico e generale, legittimamente ·riunito
nello Spirito Santo, sotto la presidenza degli stessi tre legati della Sede apostolica,
ha sempre ben presente di dover conservare nella Chiesa, una volta tolti di mezzo
gli errori,
la stessa purezza del vANGELO
- che promesso un tempo dai profeti nelle sante Scritture,
- il Signore nostro Gesù Cristo, Figlio di Dio, prima annunciò con la sua bocca,
- poi comandò che venisse predicato a ogni creatura dai suoi apostoli,
QUALE FONTE
DI OGNI VERITÀ SALVIFICA E DI OGNI NORMA MORALE 13 •

Il termine centrale è quello di Vangelo: il Vangelo che la Chiesa ha il


compito di conservare in tutta la sua purezza, che è fonte di ogni verità
e di ogni norma morale. Questo Vangelo è ciò che la teologia seguente
chiamerà la rivelazione i 4 • È molto più che la fede, o la dottrina della
fede, nel senso che questi termini avevano a Trento 15 • Questo Vangelo è
formalmente distinto dalla Scrittura e dai vangeli scritti. Si tratta della
Parola di Dio, del messaggio di salvezza, del Vangelo vivente e spiritua-
le. Il concilio si inscrive in una tradizione antica che risale a Origene,.
quando questi commenta il passo in cui Paolo parla del «suo Vangelo»
(Rm 2, 16):
Tutto ciò che egli ha proclamato e ciò che ha detto era il Vangelo. Ora, ciò che ha
proclamato e ciò che ha detto, egli l'ha anche scritto. Dunque, ciò che egli ha

n Concilio di Trento, 4• sessione, Decreto «Sacrosancta>>; COD p. 663.


t4 E che corrisponde al «divinamente rivelata» del Vaticano I, cfr. infra p. 261.
15 Cfr. infra, pp. 135ss.

124 BERNARD SESBOÙÉ


scritto era il Vangelo. Se gli scritti di Paolo però erano il Vangelo, ne segue che
anche quelli di Pietro erano il Vangelo e, in una parola, tutti coloro che mostrava-
no la venuta di Cristo, preparavano la sua presenza e la procuravano alle anime di
coloro che volevano accogliere il Verbo di Dio, che sta alla porta, bussa e·deside-
ra entrare nelle anime 16.
[Allo stesso modo,] poiché è venuto e poiché ha realizzato l'incarnazione del
Vangelo, il Salvatore ha, per il Vangelo, fatto di tutto come un vangelo 17 •

Per Origene il Vangelo si identifica in definitiva con la persona e I'even-


to del Cristo. Questo Vangelo vivente, si attesta nelle Scritture, in partico-
lare nei vangeli scritti, e deve costruire «il Vangelo eterno» lungo tutta la
storia della salvezza. San Tommaso parlerà da parte sua della «Legge del
Vangelo», per significare la legge della nuova alleanza 18 •
Questo Vangelo è qui designato per la sua origine nell'economia stori-
ca della rivelazione: anzitutto promesso dai profeti, nelle Scritture; quindi
promulgato dalla bocca di Cristo; infine predicato dagli apostoli. Questa
trilogia, dei profeti, del Cristo e degli apostoli è molto antica. Ireneo se
ne era servito come di una referenza spontanea nelle sue argomentazio-
ni sulle Scritture 19 • Qui però è la dimensione orale che viene ogni volta
sottolineata: promesso, annunciato, predicato. Si tratta della comunicazio-
ne originale del Vangelo, poi della sua trasmissione ecclesiale.
Questa trilogia è la reminescenza di un importante intervento del lega-
to Cervini (il futuro papa Marcello II, che regnerà ventidue giorni), il
quale sottolineava che ci sono
tre principi e fondamenti dell:\ nostra fede: 1° i libri santi, che sono stati scritti
sotto l'ispirazione dello Spirito Santo; 2° il Vangelo, che il Cristo ha impiantato,
non «su una pergamena», ma «nei cuori>>, e ·di cui gli evangelisti hanno messo più
tardi qualche elemento per scritto, mentre molti altri restavano semplicemente
affidati al cuore dei fedeli; 3° poiché il Figlio di Dio non doveva restare sempre
corporalmente tra noi, ha inviato lo Spirito Santo, che, nel cuore dei fedeli, rivela
i misteri e che deve, fino alla fine dei tempi, insegnare alla Chiesa ogni verità 20 .

Ii Vangelo è dunque la rivelazione della grazia e della benevolenza


divina che si è compiuta in Gesù Cristo, una potenza di salvezza, una
legge spirituale impressa nei cuori dallo Spirito Santo. «Per il concilio

16 0RIGENE; Commentario su s. Giovanni, I, IV, 26, ed fr. a cura di C. Blanc (SC 120) 1966, p. 73.
I7 Ibid., I, VI, 33, p. 79.
18 S. Th. Ila-Ilae, q. 106,.prologo.
19 L'accordo dei profeti, del Signore e degli apostoli costituiva per Ireneo il nerbo della prova attra-
verso le Scritture, cfr. Contro le eresie, III, 6, l; 9, 1 ecc.
20 CTA V, 11; una recensione più sviluppata di questo intervento si trova in I, 484-485, trad. in: W.
KAsPER, Il dogma sollo la parola di Dio, cit., p. 104. CERVINI riprende e fa sua la teologia del lovanista
Giovanni Driedo, che aveva pubblicato nel 153 3 il suo trattato Sulle Seri/Iure e i dogmi della Chiesa, uti-
lizzato dai teologi e dai Padri di Trento.

III - SCRITI1JRE, TRADIZIONI E OOGMI AL CONCILIO DI TRENTO 125


questo Vangelo vivo nella Chiesa è l'unica fonte di ogni verità salvifica e
di ogni disciplina della prassi. Il Vangelo così inteso è il concetto chiave
per la retta interpretazione della decisione conciliare sulla Scrittura e
Tradizione» 21 •
Questo Vangelo è chiamato «FONTE di ogni verità salvifica e di ogni
norma morale», mentre il progetto parlava della «regola di verità»: espres-
sione tradizionale che risale a Ireneo. Il termine fonte è una immagine più
viva e dinamica. Questa fonte è unica: il Vangelo ha valore pieno e suffi-
ciente. Si può dire che al <<Scriptura sola» dei luterani, il concilio risponda
con un «Evangelio solo» (il termine infatti è al singolare; dato capitale
questo, troppo a lungo dimenticato).
Questo concetto di Vangelo è dunque molto vicino a quello dei Rifor-
matori, benché Lutero abbia soprattutto sottolineato l'aspetto paolino del
«Vangelo potenza attiva di salvezza», mentre Trento insisteva sulla «rive-
lazione della verità salvifica». L'intervento del Cervini poi dà tutto il suo
rilievo al ruolo dello Spirito Santo, che conduce la Chiesa verso tutta in-
tera la verità. C'erano qui dei punti impliciti di accordo, che potranno
forse servire al superamento futuro di qùella controversia che andò via via
indurendosi, a partire da quando il concetto di Vangelo venne identifica-
to con quello di Scrittura santa. J.A. Mohler, nel XIX secolo, rimetterà in
onore questo concetto di Vangelo vivente, che sarà in lui l'equivalente
della Tradizione vivente, quella con la T maiuscola 22 •

I due luoghi di attestazione del Vangelo


Il sinodo sa che questa verità e normativa è contenuta nei
LIBRI SCRITTIe nelle TRADIZIONI NON SCRITTE che,

raccolte dagli a postali dalla bocca o dagli stessi a postali, sotto l'ispirazione
dello stesso Cristo, dello Spirito Santo, trasmesse quasi di
mano in mano,

sono giunte fino a noi 23 •

Dalla fonte che è il Vangelo, il concilio passa ai due luoghi di trasmis-


sione, o ai due canali per i quali questa fonte giunge fino a noi. Il concilio
aveva poche cose da dire a riguardo dei libri santi, dei quali fornirà solo la
lista; al contrario, il problema delle tradizioni risultava all'epoca inolto
complesso. Notiamo subito la forma plurale: tradizioni, intese nel senso di

21 W. KAsPER, Il dogma sotto la parola di Dio, cit., p. 104.


22 J.A. Mohler, L'unité dans l'Église ou le principe du catholicisme, Cerf, Paris 1938, pp. 49-53.
2} COD p. 663.

126 BERNARD SESBOOÉ


cose trasmesse, di dati positivi. La nozione di tradizione attiva, dell'atto di
trasmettere il Vangelo, è presente al concilio, ma questo non lo chiama
«Tradizione», al singolare. La sua problematica è relativamente confusa,
a immagine delle confusioni che regnavano alla fine del Medioevo su que-
sta questione.
Anzitutto, la distinzione era mal posta tra tradizioni apostoliche, non
consegnate nella Scrittura, e tradizioni ecclesiastiche, determinazioni ulte-
riori, usanze e insegnamenti della Chiesa. Tale distinzione esisteva formal-
mente, ma non aveva concreta incidenza, perché la nozione di ispirazione
dello Spirito Santo era molto ampia: essa giustificava sia le tradizioni apo-
stoliche che quelle della Chiesa, poiché l'unanimità dei Padri e i concili
erano giudicati positivamente ispirati (successivamente si parlerà di una
assistenza «negativa» dello Spirito). Alcuni teologi sostenevano la tesi della
rivelazione permanente 24 •
Concretamente, una conoscenza insufficientemente rigorosa della sto-
ria antica, faceva risalire, nella coscienza dell'epoca, molte tradizioni ec-
clesiastiche al tempo degli apostoli: ad esempio, l'acqua miscelata al vino,
i voti monastici, il battesimo dei bambini (secondo l'opinione di Orige-
ne), la confessione segreta, il digiuno eucaristico, la preghiera per i defun-
ti (secondo il Driedo); il digiuno quaresimale (secondo il Cervini); la co-
munione ai laici sotto una sola specie, il celibato dei presbiteri (secondo il
Bertrano) 25 •
Questa confusione emergerà nei dibattiti di Trento e solleciterà il con-
cilio a elaborare un concetto di «tradizioni>~ sufficientemente preciso e
molto prudente 26 • Da una parte il concilio non intende parlare che di tra-
dizioni apostoliche (benché l'aggettivo non vi sia) non scritte, poiché esse
sono state ricevute dalla bocca di Cristo o trasmesse dagli apostoli che le
ricevevano dallo Spirito Santo. Queste sono quelle riconducibili al tempo
fondatore della Chiesa, evento del Cristo e dono dello Spirito agli aposto-
li, e giudicate tali a motivo della loro origine. Le tradizioni ecclesiastiche
sono intenzionalmente lasciate da parte.
D'altra parte, si tratta di tradizioni che sono «pervenute fino a noi»,
trasmesse di mano in mano, o «conservate nella Chiesa cattolica attraver-
so una successione continua». Questa esclude le tradizioni desuete, di-
menticate o abolite (ad esempio l'astinenza dalle carni immolate). Questa

24 A Trento alcuni vescovi estendevano la rivelazione a tutto quello che la Chiesa recepisce in modo
unanime, CTA, XII, p. 475.
25 Cfr. Y. CONGAll, La Tradizione e le tradizioni. Saggio storico, Paoline, Roma 1961, pp. 115-120, che
offre una lunga lista delle tradizioni ritenute apostoliche dai teologi del tempo o dai Padri del concilio.
26 Commento nello. stesso tempo i due testi paralleli che parlano di tradizioni: il primo nella sezione
citata, il secondo nella sezione seguente, citata infra, p. 128.

11! · SCRITTURE, TRADIZIONI E DOGMI AL CONCILIO DI TRENTO 127


menzione evoca l'atto costante della trasmissione nella comunità ecclesia-
le. Nessuno sarebbe giustificato se «inventasse» nei documenti antichi una
tradizione apostolica nuova.
Esiste anche un criterio interno: sono le tradizione che concernono la
fede e i costumi27 •
Questa precisazione è stata fatta a seguito della domanda del teologo
Lejay (Claudio Jay, o Le Jay, uno dei primi gesuiti), che aveva una pro-
spettiva restrittiva: il campo delle tradizioni non concerne che quelle aven-
ti valore universale.
Infine, il concilio rifiuta di stilare la lista delle tradizioni, mentre farà
questo per i libri delle Scritture. La disparità è evidente. Parecchi vescovi
avevano raccomandato al concilio di non nominare le tradizioni in detta-
glio, perché difficilissimo poterle recensire. Bisognava parlarne «in gene-
rale», essendo, la loro enumerazione, «pericolosa». Si afferma dunque
semplicemente che «esistono delle tradizioni», secondo la parola di Cer-
vini, ma nessuna tradizione apostolica viene poi citata 28 •

Loro uguale recezione da parte del concilio


Seguendo l'esempio dei Padri della vera fede,
CON UGUALE PIETÀ E VENERAZIONE [il sacrosanto concilio]
ACCOGLIE E VENERA

rum I LIBRI, e COSÌ PURE LE TRADIZIONI stesse,


sia dell'Antico che del Nuo- inerenti alla FEDE e ai COSTUMI,
vo Testamento, essendo Dio poiché le ritiene dettate dalla bocca
autore di entrambi, dello stesso Cristo I o dallo Spirito Santo,
e conservate nella Chiesa cattolica in forza di
una successione mai interrotta~.

Su questo punto, la discussione tra i Padri conciliari fu molto serrata:


come si doveva comprendere il rapporto tra Scritture e tradizioni? Era
giustificato metterle così sullo stesso piano?
La maggioranza dei Padri di Trento, con alla testa il legato Del Mon-
te (il futuro Giulio III), aveva la convinzione che la rivelazione divina
fosse contenuta in parte nella Scrittura e in parte nelle tradizioni. C'erano
dunque dei dati della rivelazione che si sarebbero trovati solo nelle

21 Il senso esatto del tennine mores sarà analizzato infra, pp. 144s.
28 Nel seguito dei suoi lavori, il concilio invocherà quattro volte una tradizione apostolica, per esem-
pio per il battesimo dei bambini; cfr. COD p. 666.
29 COD p. 663.

128 BERNARD SESBOÙÉ


tradizioni. Èil famoso <<partim ... partim ... », presente nella. prima dichiara-
zione di Del Monte:
Tutta la nostra fede viene dalla rivelazione divina; la Chiesa ci ha trasmesso que-
sta rivelazione, in parte (partim) attraverso le Scritture che si trovano nell'Antico
e nel Nuovo Testamento, e in parte (partim) attraverso una semplice trasmissione
di mano in mano 30 .

Il cardinal Cervini gli fece eco, esprimendo qualche giorno più tardi il
«secondo principio della nostra fede»:
Con l'andare dei tempi, è piaciuto alla divina bontà di rivelare agli uomini attra-
verso il suo unico Figlio queste stesse cose e molte altre. Questi, non per scritto,
ma oralmente, non sulla carta, ma nei cuori, ha impiantato il suo Vangelo, secon-
do quanto avevano predetto da tempo quegli stessi profeti. Questo è quello che
noi chiamiamo il Nuovo Testamento. Fra le cose che sono provenute dal Cristo,
alcune furono messe per iscritto, altre furono lasciate nei cuori degli uomini. Tale
è dunque il secondo principio della nostra fede 31 •

La rivelazione di Gesù Cristo è dunque in parte scritta, in parte «tra-


smessa di mano in mano» o «lasciata nei cuori degli uomini». Questo se-
condo termine corrisponde alle tradizioni. Questa concezione risale senza
dubbio, come ha dimostrato G.-H. Tavard 32 , a Enrico VIII, secondo la
testimonianza di Tommaso Moro che parla, riferendosi a questo re, di
«tradizioni di Dio in parte inserite nelle Scritture, in parte trasmesse at-
traverso la parola vivente di Dio». Con assoluta naturalezia il <<partim ...
partim ... » si ritrovò nel progetto del decreto. D'altra parte, l'idea domi-
nante era proprio che le tradizioni si trovavano sullo stesso piano delle
Scritture:
Non ci sono differenze tra le sante Scritture e le tradizioni apostoliche, aveva af-
fermato il legato Cervini; le prime sono scritte, mentre le seconde sono proposte
(per insinuationem); entrambe nondimeno provengono similmente dallo Spirito
Santo 33 •

Così lo stesso progetto diceva che il concilio riceve le Scritture e le tra-


dizioni <<pari pietatis affectu». Come tradurre? «Con un medesimo senti-
mento di fede» (Tavard) è senza dubbio esagerato. «Pietà» resta debole.
Y. Congar propone «un'accoglienza piena di rispetto e di fiducia» 34 •

JO CTA I, p. 30; citato in:G.-H.TAVARD, Écriture ou Église?... , cit., p. 287.


Jt CTA I, pp. 484-485; recensione più dettagliata dell'intervento citato; cfr. E. 0RTIGUES, Écritures et
traditions apostoliques au concile de Trente, RSR, 36 (1949), p. 274.
32 G.-H.T,o,vARD, Écriture ou Église? ... , cit., p. 193.
JJ CTA I, p. 485; citato ib1d., p. 288.
J4 Y. CoNGAR, La Tradizione e le tradizioni... , cit., p. 292.

I11 - SCRITTIJRE, TRADIZIONI E DOGMI AL CONCILIO DI TRENTO 129


Questo termine è infatti la traduzione dell' «eusebeia» greca, cioè la «reli-
gione» in ciò che essa ha insieme di autentico, di ortodosso e di dossolo-
gico. L'espressione proviene da un passo di Basilio di Cesarea nel suo trat-
tato Lo Spirito Santo, in cui non si tratta però della medesima cosa:
Fra le dottrine (dogmata) e le proclamazioni (kerygmata) custodite nella Chiesa,
talune le deriviamo dall'insegnamento scritto, altre le abbiamo ricevute dalla tra-
dizione apostolica, a noi trasmesse. segretamente. Ma entrambe hanno lo stesso
valore per la pietà e questo non lo potrà negare nessuno' 5 .

I dibattiti tridentini fanno esplicitamente riferimento a questo testo.


Basilio però intendeva, evocando quello che è trasmesso mediante la tra-
dizione apostolica, un insieme di riti liturgici e di «istituzioni>> (ad esem-
pio: il segno della croce, l'epiclesi, la benedizione dell'acqua del battesi-
mo, la triplice immersione) che accompagnano ciò che viene direttamente
dalla Scrittura nella vita della Chiesa. Ora, vi veniva applicata la disciplina
dell'arcano: Basilio fa risalire «questo insegnamento mantenuto privato e
segreto» alle origini apostoliche. Egli ritiene che sarebbe «attentare al
Vangelo» scartare queste cose con disprezzo. Basilio non distingue però
tra tradizioni apostoliche e usi ecclesiastici'6•
Una minoranza ben organizzata si oppose con determinazione alle due
espressioni chiave: il «partim ... partim ... » e il «pari pietatis af/ectu». Essa la
spunterà sul primo punto, ma non sui secondo.
1. Sul primo punto, Bonucci, generale dei Serviti, sosteneva: <<Riteng·o
che tutta la verità evangelica si trova nella Scrittura e che questa non vi si
trova solamente in parte» 37 • Il vescovo domenicano Nacchianti dichiarava
similmente: «È inutile che adesso ricerchiamo quelle tradizioni che ci sono
pervenute oralmente e attraverso la prassi comune della Chiesa, poiché
possediamo il Vangelo, nel quale è scritto tutto quello che è necessario
alla salvezza e alla vita cristiana»'8 • Essi non volevano però dire che la
Scrittura era sufficiente: tali oppositori accettavano le tradizioni e l'auto-
rità della Chiesa. Tra la maggioranza e questa battagliera minoranza c'era
anche la posizione moderata di teologi di un «gruppo intermedio»: «Ben-
ché godano di una piena autorità, le tradizioni non sono the delle inter-
pretazioni della Scrittura (Lunello), del Vangelo nell'anima (Lejay)»'9, cioè
l'ambiente vivo ed ecclesiale dell'interpretazione delle Scritture.

. J~ BASILIO DI CF.sAREA, Lo Spirito Santo, 66, a cura di G.A. Bernardelli (CTA 106), Città Nuova, Roma
1993, p. 181.
J6 Y. CoNGAR, La Tradizione e le tradizioni... , cit., p. 123.
J7 CTA V, p. 525; citato in: G.-H.TAVARD, Écriture ou Église? .. ., cit., p. 298.
is CTA I, p. 494; citato in ibid., p. 289.
J9 G.-H.TAVARD, Écriture ou Église? .. ., cit., p. 294.

130 BERNARD SESBOÙÉ


n«partim ... partim ... » fu tolto all'ultimo momento, secondo la richiesta
della minoranza (Bonucci, Bertano). Il concilio ha dunque rifiutato di
impegnarsi sul modo secondo il quale le Scritture e la tradizione si com-
pongono reciprocamente. Due interpretazioni teologiche restano dunque
legittime: si può interpretare il testo nel senso del «partim ... partim ... »,
secondo una complementarietà quantitativa, ma si può anche pensare che
la totalità della fede sia trasmessa secondo due vie, avente ciascuna la sua
propria modalità. Si tratta allora di una complementarietà qualitativa, se-
condo la dialettica dello scritto e dell'orale. Tutte le verità rivelate sono
contenute nella Scrittura, di cui le tradizioni rappresentano un canale di
interpretazione vivente e comunitario. Era già l'interpretazione dei teolo-
gi come Lunello e Lejay.
J.R. Geiselmann, teologo di Tubinga e specialista della tradizione, alla
metà di questo secolo sostiene che il concilio non vuole esprimere nulla
su questo rapporto: l'ET esprime una congiunzione globale delle due for-
me sotto le quali il Vangelo è comunicato e trasmesso e che bisogna con-
servare e tenere insieme 40 • Di fronte al principio della «Scriptura sola» 41
professato dalla Riforma, questo era sufficiente.
2. L'attacco contro il «pari pietatis affectu» fu ancora più vigoroso. Sem-
brava sconvolgente mettere sullo stesso piano le Scritture e le tradizioni.
Non si rifiutavano queste ultime, ma, si diceva, certe tradizioni sono mu-
tate, alcune sono cadute in disuso. Come distinguere le tradizioni eccle-
siastiche dalle tradizioni veramente apostoliche? Questa distinzione resi-
ste alla prova della storia? Non è che finiamo col dare l'impressione di
. accogliere le tradizioni che ci piacciono, diceva il vescovo Bertano, e di
lasciar cadere quelle che non ci piacciono? Il vescovo Nacchianti, da par-
te sua, riteneva come «empio» mettere sullo stesso piano la tradizione di
volgersi verso l'Oriente per la preghiera e il vangelo di Giovanni 42 • Uve-
scovo di Worcester affermava infine: «Chi può dire che i Libri santi e le
tradizioni hanno la stessa autorità? Perché le tradizioni sono m·antenute,
cambiate o anche semplicemente soppresse a seconda che la Chiesa giudi-
ca bene per una ragione o per un'altra, in un qualsiasi momento, ma i
Libri santi li ha mai cambiati o aboliti» 4'.

40 Nello stesso ·senso E. 0RTIGUES, Écritures et traditions apostoliques au conci/e de Trente, art. cit., pp.
288-299; Y. CONGAR, La Tradizione e le tradizioni... , cit., p. 127. H. LENNERZ, Sine scripto traditiones, in
«Gregorianum», 40 (1959) ha invece contestato le posizioni di Geiselmann, sostenendo che Trento era
rimasta fedele allo spirito del partim ... partim...
4 1 Queste due interpretazioni sono teologicamente legittime, ma non lo è più l'attribuire a una delle
due l'affermazione dottrinale del concilio, come invece sarà fatto frequentemente.
42 CTA V, p. 70;.citato in: G.-H.TAVAIID, Écriture ou Église? ... , cit., p. 301.
43 CTA V, p. 41; citato in: G.-H.TAVARD, Écriture ou Église? ... , cit., p. 298.

ID . SCRITI1JRE, TRADlZ!ONl E DOGMI AL CONCILIO DI TRENTO 131


Nondimeno, il <<pari pietatis affectu» fu mantenuto (lo si ritroverà an-
che nel Vaticano II), adducendo la ragione che le tradizioni e i libri santi
sono stati ispirati dallo stesso Spirito e provengono dallo stesso Cristo.
Un terzo dell'assemblea aveva tuttavia, nel momento del voto orientativo
su questa questione, votato contro 44 • Il teologo Lejay manteneva una po-
sizione sfumata: «Si possono mettere le tradizioni sullo stesso piano dei
libri santi, ma non su quello del Vangelo» 45 e restringendo l'affermazione
alle tradizioni apostoliche in ·materia di fede e di «costumi», con l'esclu-
sione perciò di tutto un insieme di tradizioni liturgiche. In definitiva, il
vertice del decreto riguarda la recezione in modo congiunto delle Scrittu-
re e delle tradizioni. Il «pari pietatis affectu» non costituisce peraltro una
definizione come tale.

La lista dei Libri santi


L'intenzione del concilio è di fornire la lista dei libri della Scrittura,
così come era già stata presentata dal concilio di Firenze 46 • Il concilio li
riceve nella loro totalità, senza alcuna distinzione . .;. quanto alla loro auto-
rità - tra proto e deutero-canonici. Questa era in effetti l'unica questione
sollevata dai luterani. Questa lista è l'ultima espressione dogmatica del
canòne delle Scritture 47 • Nel contesto di Trento, questa enumerazione,
data con autorità, sottolinea che i Libri santi sono tali perché sono ricono-
sciuti e trasmessi dalla Chiesa. La recezione delle Scritture è un atto di
tradizione.

Riflessioni /inali del concilio


Il testo si conclude con un canone che porta un doppio anatema: con-
tro coloro che rifiutano in tutto o in parte le Scritture, così come si tro-
vano nella Vulgata, e contro coloro che disprezzano le tradizioni apo-
stoliche.
Un'ultima frase ritorna sul metodo dottrinale del concilio:
Tutti intendano l'ordine e il modo con cui procederà lo stesso sinodo, dopo che
ha stabilito il fondamento della confessione della fede, e soprattutto quali testi-
monianze e sostegni userà per confermare la verità di fede e riformare i costumi
della Chiesa 48 •

44 Cfr. G.-H.TAVARD, Écriture ou Église? ... , cit., p. 300.


45 CTA I, p. 524; citato da G.-H.TAVARD, Écriture ou Église?... , cit., p. 296.
46 Concilio di Firenze, Bolla di unione con i Copti (1442), DiS 1335.
47 Cfr. t. I, pp. 53-62.
48 COD p. 664.

132 BERNARD SESBOÙÉ


Così la confessione della fede, che ricapitola il Vangelo, resta il «fonda-
mento», mentre le Scritture e le tradizioni costituiranno le «testimonian-
ze» e i «sostegni» per «confermare» la verità di fede (dogma) 49 • Il proget-
to diceva «costituire i dogmi», espressione infelice perché poteva far pen-
sare che il concilio stesse per proporre dogmi «nuovi». Secondo la tradi-
zione conciliare, non si intende che «confermare» ciò che appartiene alla
fede della Chiesa, a causa di ciò che si trova minacciato. È dunque il rap-
porto tra confessione di fede da una parte e Scritture e tradizioni dall'al-
tra ciò che costituisce la referenza di base del concilio. In questo esso re-
sta totalmente fedele al cammino dogmatico dei secoli anteriori e la _sua
novità consiste semplicemente nella formalizzazione di questi dati.

Bilancio
Il senso di questo decreto non è puramente formale? Esso proclama
la recezione congiunta e di uguale valore delle Scritture e delle tradizio-
ni. Il concilio è in grado di enumerare in modo esaustivo le Scritture,
ma non osa citare con certezza una sola tradizione. D'altra parte, la sop-
pressione del «partim ... partim... » rende possibile una interpretazione che
esclude l'idea che un dato di fede possa appoggiarsi solamente sulla tra-
dizione.
Dietro questo bilancio apparentemente negativo rimane un punto ca-
pitale: l'attestazione primaria del Vangelo è stata affidata a una vivente
comunità di fede. Questo dato è talmente interno al Vangelo che è esser-
gli sicuramente infedele tarito il separarsi dalla sua attestazione scritta
quanto dalla sua attestazione orale e vivente, trasmessa dalla comunità
apostolica, vale a dire da questo ambito di interpretazione della parola e
della messa in atto del messaggio evangelico. «Si chiamerà dunque, scrive
E. Ortigues, tradizione apostolica costitutiva (nel senso formale e sempre
attuale) l'attività mediante la quale la Chiesa trasmette se stessa come isti-
tuzione divina o sacramentale, facendo partecipare gli uomini alla testi-
monianza dello Spirito Santo nell'unità della successione apostolica» 50 •
L'esistenza di tradizioni traduce «l'economia comunitaria della rivelazio-
ne predicata dalla Chiesa nel corso dei secoli» 51 • D'altra parte, l'accento
messo sul carattere apostolico delle tradizioni interdice ogni concezione
larvata di rivelazione permanente: la Chiesa non può pretendere che le
siano state rivelate nuove dottrine 52 • La regola o la fonte di tutta la fede e

49 Sul senso del termine «dogma» a Trento, cfr. infra, pp. 140-144.
50 E. 0RTIGUES, Écriturer et traditionr aportoliquer au conci/e de Trente, art. cit., pp. 291.
51 Ibid.
52 Cfr. G.-RTAVARD, Écriture ou Églire? ... , cit., p. 304.

III - SCRITI1JRE, TRADlZlONl E DOGMI AL CONCILIO DI TRENTO 133


di ogni verità è l'autorità del Vangelo, che, per sua stessa natura, è attesta-
to da una Scrittura accolta in una comunità.
In questo senso si può dire che «tutto il Vangelo è contenuto nella
Scrittura come lo è nelle tradizioni>>n. Tale è il «dogma» cattolico che
Trento oppone al «dogma» protestante: da una parte la «sola Scrittura» è
sufficiente a far trovare la purezza del Vangelo, dall'altra è la Scrittura
vissuta e trasmessa dalla comunità che proviene dagli apostoli. Su questo
terreno però immediatamente polemico, Trento difende l'autorità della
Chiesa, assistita dallo Spirito Santo nella trasmissione delle Scritture e
delle tradizioni .
.-;?.l'

3. Il decreto riguardante la Volgata


Un secondo decreto della stessa sessione riguarda l'antica traduzione
latina della Bibbia, risalente, nel suo "insieme, a san Girolamo e ·chiamata
«Volgata»: All'epoca del Rinascimento, in cui le lingue originali dei libri
biblici, l'ebraico e il greco, erano particolarmente in onore, molti ritene-
vano che questi testi dovevano essere preferiti alla traduzione della Vol-
gata, giudicata mancante in un certo numero di punti.
Lo stesso sacrosanto sinodo stabilisce e dichiara che l'antica edizione della
Volgata, approvata dalla stessa Chiesa da un uso secolare, deve esserè ritenuta
come autentica nelle lezioni pubbliche, nelle dispute, nella predicazione e spie-
gazione 54.

Il termine «autentico» afferma da una parte il valore sostanziale della


traduzione della Volgata e dall'altra il suo carattere ufficiale nell'uso della
Chiesa cattolica. Il documento non interdice il ricorso ai testi originali o,
eventualmente, ad altre traduzioni55 • Nel seguito del testo il concilio si
oppone all'interpretazione soggettiva delle Scritture:
Inoltre, per frenare certi spiriti indocili, stabilisce che nessuno, fidandosi del pro-
prio giudizio, nella materia di fede e di costumi, che fanno parte del corpo della
dottrina cristiana, deve osare distorcere la sacra Scrittura secondo il proprio modo
di pensare, contrariamente al senso che ha dato e dà la santa madre Chiesa, alla
quale compete giudicare del vero senso e dell'interpretazione delle sacre Scrittu-
re; né deve andare contro l'unanime consenso dei Padri 56•

53 Ibid., p. 303. Nello stesso senso: Y. CoNGAR, La Tradizione e le tradi:u"oni... , cit., pp. 126-127.
54 Concilio dì Trento, 4• sessione, Secondo decreto riguardante la Volgata, COD pp. 664-665.
55 La questione dell'autenticità della Volgata e di alcuni versetti controversi ritornerà nel momento
della crisi modernista. Pio XII, nel documento Divino afflante preciserà il senso del termine «autentico»;
cfr. infra, pp. 33lss.
56 COD p. 664.

134 BERNARD SESBOÙÉ


Il punto antiprotestante è evidente: al giudizio interpretativo personale
e soggettivo della coscienza, il concilio oppone quello della Chiesa che ha
autorità in materia di fede e pone la referenza dell' «unanime consenso dei
Padri». L'espressione usata è «Chiesa» e non, come sarà più tardi, «magi-
stero della Chiesa». È chiaro però che Trento si situa sulla strada di una
formalizzazione dell'autorità gerarchica in materia di fede. Concretamen-
te, le edizioni della Bibbia e più generalmente le opere riguardanti «le cose
sacre», non dovranno essere pubblicate senza l'esame e l'approvazione
preliminare del vescovo locale.

III. l CONCETTI DOGMATICI A TRENTO

Indicazioni bibliografiche:].B. UMBERG, Die Bewertung der Trienter Lehren durch Pius VI,
in «Scholastik»,. 4 (1929), pp. 402-409; P. LENNERZ, Notulae Tridentinae, in «Gregorianum»,
27 (1946), pp. 136-142; R. FAVRE, Les condamnations avec anathème, BLE, 47 (1946), pp. 226-
241; 48 (1947), pp. 31-48; A. LANG, Der Bedeutungswalden der Begriffe fides und haeresis und
die dogmatische Wertung der Konzilsentscheidungen von Vienne und Trient, MThZ, 4 (1953),
pp. 133-146; P .F. FRANSEN, Ré/lexions sur l'anathème au conci/e de T rente, EphThL, 29 (1953),
pp. 657-672; lo., L'autorité des conci/es. Problèmes de l'autorité, Cerf, Paris 1962, pp. 59-100
(con bibliografia); lo., A short History o/ the meaning o/ the Formula «Fides et mores», in
«Louvain Studies», 7 (1978-1979), pp. 270-301; alcuni articoli sono ripresi insieme ad al-
tri studi sullo stesso tema in: Hermeneutics o/ the Councils and other Studies, University
Press-Uitgenerij Peeters, Leuven 1985;]. SCHUSTER, Ethos und kirliches Lehramt. Zur Kompe·
tenz des Lehramtes in Fragen des naturlichen Sittlichkeit, Knecht, Frankfurt 1984; A. DUVAL,
Des sacrament au conci/e de Trente, ~erf, Paris 1985, pp. 101-102; 170-172; 254-258.

1. Fede ed eresia
Al concilio di Trento (concilio per molti aspetti ancora medievale),
fede, eresia e dogma non avevano lo stesso senso di oggi e altrettanto si
può dire per il termine definizione. Questi concetti diventeranno così
pregnanti nell'uso ulteriore della teologia e del magistero, che è impor-
tante, per evitare anacronismi troppo spesso verificatisi nell'ermeneuti-
ca di questo concilio, precisate il loro senso esatto nell'uso dei docu-
menti tridentini.
La posiziorie del problema della fede e dell'eresia a Trento era lo stesso
che nel Medioevo. Il concilio non riteneva dunque necessario decidere se
una dottrina apparteneva formalmente alla fede divina (fides divina), cioè.
a quella dowta alla rivelazione di Dio. Questa questione non stava al cen-
tro della preoccupaziòne, anche se poteva intervenire in certi dibattiti.
Restava il sottofondo e non era sempre chiarita. La linea di confine con i

III - SCRITIURE, TRADIZIONI E DOGMI AL CONCILIO D1 TRENTO 13 5


luterani si situa al livello dell'autorità della Chiesa. È questo il «perime-
tro» che Trento intende difendere e non quello del formalmente rivelato.
Appartiene dunque alla fede tutto quello che la Chiesa poteva, con una
autorità infallibile - il termine va inteso nel senso che aveva a quell' epo-
ca')I -proporre come necessario alla salvezza. Questo concerneva non
solamente le verità propriamente rivelate (ciò che è contenuto nella Scrit-
tura, negli articoli di fede e nel Simbolo), ma anche le verità teologiche
dedotte dalla Chiesa dagli articoli di fede per farne la sua dottrina, quanto
si rapporta ai sacramenti e infine tutto quello che la Chiesa propone nei
suoi «Santi canoni» per la nostra salvezza, cioè le leggi universali. Attra-
verso tutto questo insieme, la Chiesa esercita «infallibilmente» la sua mis-
sione pastorale e salvifica. In termini moderni, l'intenzione del concilio
ingloba la <<fede divina» e la «fede ecclesiastica».
Questo concetto di fede integra sempre il lato soggettivo dell'obbliga-
zione di credere, da dove è dedotto il criterio del campo di verità propo-
ste alla fede: si tratta di ciò che è necessario per appartenere allà comunità
ecclesiale di fede e pervenire alla salvezza. Questo obbligo è compreso in
maniera molto ampia in funzione di una attitudine di fede organica e co-
erente e di una vita di fede che va ben al di là delle formule. Tale è la
maniera con cui Trento pone il problema della fede, sulla scia del tramon-
tante Medioevo. Abbiamo visto così che il Vangelo è fonte di «ogni verità
salvifica», concetto che corrisponde al continuo sforzo di richiamare «ciò
che ~ necessario alla salvezza». Quello che noi oggi chiamiamo oggetto di
fede si chiamava allora «articolo di fede», cioè gli articoli del Simbolo e
alcune affermazioni fondamentali collegate a questi articoli, come le defi-
nizioni cristologiche degli antichi concili.
Il concetto di eresia è strettamente correlativo a quello di fede. L'eresia
è l'atto di separarsi dall'unità cattolica e dall'autorità salvifica del papa e
dei vescovi. Si sottolinea allora l'aspetto di disobbedienza ai capi religiosi
che il Cristo ci ha lasdato per guidarci verso la salvezza. Questa obbe-
dienza è condannata sotto la forma della caparbietà ostinata e cocciuta
(pertinacia, contumacia) e dell'individualismo nella ricerca della salvezza
eterna. Lutero è così considerato come eretico, perché si è rivoltato con-
tro l'autorità ecclesiale'8 •
Il senso di questi termini a Trento è confermato dall'enunciato delle
censure proposte dai teologi sotto forma di articoli estratti dagli scritti dei
Riformatori. Ad esempiò, nel 1547 i teologi ritengono che gli articoli di

'J7 Il termine infallibile non deve essere preso qui in senso moderno, ma piuttosto nel senso di «inde-
fettibile», cfr. infra pp. 145-147.
58 Su questa questione, cfr. P. FRANSEN, L'autorité des conci/es. Problèmes de /'autorité, Cerf, Paris
1962, pp. 94-97.

136 BERNARD SESBOùf


questi ultimi sulla messa siano «eretici, scismatici, erronei, falsi, contrari
alla Sacra Scrittura, alla tradizione degli apostoli, alle decisioni dei concili,
all'autorità dei santi Padri e dei dottori cattolici e anche contrari al con-
sensus unanime della Chiesa cattolica, alla sua prassi, alla sua dottrina e
alla sua fede e per questo devono essere condannati e anatematizzati dal
santo concilio»'9 •
I dibattiti svolti nel corso delle sedute conciliari testimoniano nella stes-
sa direzione. Andrea Navarra ritiene che appartengono alla fede teologica
tutte le verità cattoliche: 1. quelle che sono contenute formalmente nella
Sacra Scrittura; 2. quelle che ne sono giustamente dedotte; 3. quelle che
sono state trasmesse oralmente dagli apostoli; 4. quelle che la Chiesa pro-
pone di credere 60 • Un teologo afferma che è eretico quell'articolo che
combatte o contraddice direttamente una determinazione della Chiesa 61 •
Al contrario, un tal altro articolo non è eretico perché riguarda una posi-
zione discussa nella Chiesa. Allo stesso modo, si parla di «articoli propo-
sti contro la Chiesa cattolica, dunque eretici» 62 • Più nettamente ancora:
«è eretico colui che si separa dalla Chie8a cattolica» 61 • Ambrogio Catari-
no, infine: «Tutti questi articoli sono condannati come eretici, perché
vanno contro l'usanza della Chiesa romana e dunque sono eretici» 64 •

L'intenzione dottrinale del concilio


compresa a partire dalle introduzioni ai decreti
L'intenzione del concilio in materia di fede e d'eresia si lascia ugual-
mente comprendere a partire dalle introduzioni dei differenti decreti.
Nell'ermeneutica conciliare questi testi sono generalmente trascurati, per-
ché non comportano alcun contenuto dottrinale. Essi restano nondimeno
essenziali per l'interpretazione dei documenti, poiché ne costituiscono la
dichiarazione di intenti. Attraverso queste introduzioni, il concilio si au-
todefinisce in qualche modo nel suo compito dottrinale. Le varianti te-
stuali da una introduzione all'altra rinviano a una manifesta unità inten-
zionale. Questi passaggi mostrano che Trento intende non solo trattare di
alcune verità della rivelazione, ma anche abbracciare tutta la pienezza
concreta e istituzionale della fede cattolica.
Anzitutto il concilio si intitola così: «Il sacro, generale concilio Triden-
tino», «ecumenico». Questa formula costante corrisponde all'intenzione
l9 CTA VI, p. 390.
60 CTA V, p. 559.
61 CTA V, p. 891.
62 CTA VI, p. 19.
6) CTA VI, p. 117.
"" CTA V, pp. 933, 17.

llI · SCRITI1JRE, TRADIZIONI E DOGMI AL CONCILIO DI TRENTO 13 7


del papa che così l'ha voluto. Il concilio però ha respinto la formula «rap-
presentante la Chiesa universale>>: espressione infelice per la sensibilità dei
protestanti. I Padri avevano coscienza del piccolo numero di vescovi pre-
senti, perlomeno all'inizio; ma anche, agli occhi dei legati, aveva un sapo-
re conciliarista.
Successivamente, non si nota differenza sensibile quando la formula
introduce dei capitoli di doctrina o direttamente dei canoni. I canoni sono
detti «aggiunti» (13' sessione) 65 • La differenza non è.dell'ordine del grado
di investimento di autorità - niente indica che i canoni rappresentino una
decisione più irrevocabile o più solenne. La differenza è di genere lettera-
rio: da Una parte si propone una dottrina positiva e organica; nei canoni si
precisano alcuni punti di eresia da cui bisogna guardarsi. Il termine «de-
finire» è impiegato anche per le doctrinae (21' sessione) 66 • Si possono in-
dividuare cinque puriti sostanziali:
1. Fede e dottrina della fede: le due espressioni sono molto legate ed
equivalenti quanto all'ampiezza dell'orizzonte e possono essere tra loro
interscambiate (5' e 22' sessione). Il concilio espone «la vera e sana dottri-
na», «la dottrina della fede>>, opponendola a una «falsa dottrina>> (6• e 13'
sessione). La doctrina è l'insegnamento ordinato e ufficiale del contenuto
della fede.
2. Fede e obbedienza alla Chiesa, fede e salvezza delle anime: quest'altra
costellazione del vocabolario rappresenta un correlato del termine fede.
Difendere la fede significa vegliare sulla salvezza delle anime, legata essa
stessa all'appartenenza obbediente al corpo visibile della Chiesa, mante-
nuta nell'unità. Il concilio intende salvaguardare l'unità della Chiesa in
quanto società di salvezza ed evitare le defezioni in rapporto a questa
comunità. Vuol far fronte alla crisi che attraversa la Chiesa «per la perdi-
ta di molte anime e il grave detrimento dell'unità della Chiesa»; inten-
de dunque lavorare «per la pace della Chiesa e la salvezza delle anime»
(6• sessione).
Per questo «interdice e ordina» (6• e 13' sessione), nel momento in cui
«certuni abbandonano la fede e l'obbedienza alla Chiesa cattolica» (21'
sessione). L'oggetto delle sue interdizioni si esprime in una trilogia pastòra-
le «credere, predicare o insegnare» (6•, 13" e 21' sessione). La fede insegnata
dalla Chiesa e vissuta nel corpo che essa costituisce distingue quelli che fan-
no parte della Chiesa e quelli che la lasciano. Questo punto di vista è quello
di Ignazio di Loyola nelle sue Regole per sentire con la Chiesa 67 •

65 COD p. 697.
66 COD p. 728.
67 Cfr. le regole l, 9, 11 e 13; Esercizi spirituali, nn. 353, 361, 363, 365.

13 8 BERNARD SESBOÙÉ
3. Fede ed eresia: la correlazione dei due termini nella loro opposizione
è rigorosa (13' sessione). Il concilio vuole eliminare gli «errori, le eresie»
(7' sessione), «le dottrine estranee al sentire della Chiesa» (24' sessione),
che «causano dei danni molto gravi» nel corpo dei fedeli. Queste eresie
sono anche degli scismi: ogni attitudine praticamente scismadca è formal-
mente giudicata come eretica nelle sue motivazioni (13' e 24' sessione). Si
tratta di eresie di questo tempo (7', 13' e 14' sessione), perché il concilio
fa fronte a una situazione storica concreta. C'è una dimensione congiun-
turale nella determinazione di queste eresie; è ciò che qui e ora attenta al
bene dei fedeli e all'unità della Chiesa.
4. Il concilio al servizio della tradizione della Chiesa: Trento intende
seguire «le testimonianze delle sacre Scritture, dei santi Padri e dei concili
più venerandi, e il giudizio e il consenso della Chiesa stessa» (5' sessione).
«Intende esporre a tutti i fedeli cristiani la vera e sana dottrina sulla giu-
stificazione che Gesù Cristo, sole di giustizia (Ml 4, 2), autore e perfezio-
natore della nostra fede (Eb 12, 2), ha insegnato, che gli apostoli hanno
trasmesso, e che la Chiesa cattolica, sotto l'ispirazione dello Spirito Santo,
ha sempre ritenuto» (6• sessione) 68 " Esso moltiplica così i termini che
esprimono la sua sottomissione alle Scritture e alla tradizione ecclesiale:
esso segue, è «unito a» (7' sessione), è «istruito da» (13• e 22• sessione),
«si serve della regola della fede» (23• sessione).
La fede che insegna il concilio di Trento è dunque la fede autentica
della Chiesa, che ha nel suo cuore la rivelazione fatta dal Cristo e trasmes-
sa dagli apostoli; ma la propone così come trova nella sua attestazione
ecclesiale, alla luce del consenso vissuto sotto l'assistenza ·dello Spirito
Santo. Trento si situa in un orizzonte molto più largo che quello del de-
posito rivelato.
5. L'atto conciliare è una decisione e un decreto: il vocabolario della
decisionalità è molto significativo: il concilio «decide, confessa e dichia-
ra» (5' e 6• sessione), «spiega e definisce» (13' e 21" sessione), «propone,
dichiara e insegna>> (14' sessione), «insegna, dichiara e decide» (statuit,
22• sessione), «insegna>> (23' sessione), «decide (decernens)» (24' sessio-
ne). Domina il vocabolario giuridico, perché le decisioni del concilio sono
delle «sentenze>> di valore giuridico, che operano un discernimento prati-
co tra verità ed errore. Un canone è anch'esso un articolo di diritto.
H.G. Gadamer ha ragione di applicare il caso dell'ermeneutica giuridi-
ca alla Scrittura, considerata come legge fondamentale del cristianesimo.
Prolungando la sua ermeneutica, che riabilita le idee di tradizione e di
autorità attraverso la «distànza storica>> e la «condivisione del linguaggio»,

68 con· p. 671.

1II · SCRIITURE, TRADIZIONI E DOGMI AL CONCIIJO DI TRENTO 139


si può dire che l'ermeneutica giuridica vale a fortiori per i documenti ec-
clesiastici, che assumono la forma letteraria del decreto e della legge. Ogni
legge va interpretata all'interno di una giurisprudenza che si inscrive nel
susseguirsi degli insegnamenti dottrinali 69 •

2. Dogmi, «definizioni» e canoni con anatema

Il termine dogma, usato frequentemente nei dibattiti del concilio, si


ritrova raramente nei decreti, dove viene il più delle volte sostituito dal
termine dottrina. Gli atti di Trento mostrano così che, per i Padri, i cano-
ni erano proprio dei «dogmi di fede» (dogmata /idei), definiti mediante
l'atto solenne di un concilio della Chiesa universale. E questo perché un
canone comportava una proposizione chiara, formante l'oggetto di una
deliberata decisione. Il termine si applica anche a una dottrina fondamen-
tale: si diceva ad esempio che l'eucaristia sarebbe stata il «dogma» studia-
to nella successiva sessione. Abbiamo visto che le Scritture e le tradizioni
dovevano essere le testimonianze e ì fondamenti che consentivano di «con-
fermare· i dogmi». Allo stesso modo il concilio si preoccupa perché le
immagini non diventino portatrici di «falsi dogmi» 70 • Si parlava anche di
«dogmi eretici» dei luterani.
Qual è più precisamente l'intenzione del concilio quando elabora un
canone con anatema? La questione è importante, poiché si tratta di una
«definizione». Quale ne è la portata? Una giurisprudenza interpretativa
nella teologia scolare di un tempo ancora recente valutava la cosa alla luce
della dottrina del Vaticano I, la cui intenzione era di non proporre nei
canoni se non delle verità di fede divina o rìvelata. Una ricerca storica
condotta da più parti nel corso di questo secolo ha mostrato invece che le
cose non erano affatto così.
Dal 1929, J.B. Umberg - allora editore del Denzinger - faceva notare
che la Costituzione Auctorem ji'dei di Pio VI (1794), che rigettava il siste-
ma giansenista del concilio di Pistoia, aveva il vantaggio di dare una qua-
lifica precisa alla censura di ciascuna proposizione. Ora, più volte il con-
cilio di Trento è ricordato come autorità contro la quale vanno le decisio-
ni di Pistoia. Pio VI, che parla già nel nome di una concezione più precisa
. dell'eresia, si appella solamente a due canoni tridentini come a definizioni
di fede nel senso attµale del termine 71 • Nel primo caso, il documento par-

69 H.G. GADAMER, Verità e Metodo, Bompiani, Milano 1983.


1025• sessione, COD p. 775.
71Si tratta del can. 7 della 6• sessione sulla giustificazione e del can. 2 della 13• sessione sull'eucaristia
(Dz 2623 e 2629).

140 BERNARD SESBOÙÉ


la di un «errore condannato come eretico dal Tridentino», nel secondo, si
tratta di un punto che il concilio di Trento ha definito come «dottrina di
fede». Nelle altre menzioni di Trento, viene semplicemente detto che la
proposizione in questione «capovolge» la dottrina di Trento o le è «con-
traria», il che è tutt'altra cosa. Non si può senza dubbio dedurre la con-
clusione che agli occhi di Pio VI solo due canoni di Trento avessero valo-
re di definizione di fede in senso forte. L'analisi proposta da Umberg a
proposito delle «doctrinae>> porta alle stesse conclusioni. Un poco più tar-
di, P. Lennerz dimostrava che il primo anatema di Trento non comporta-
va che una scomunica latae sententiae 72 • Questa scoperta sollecita dunque
a ricercare in modo ancora più.approfondito l'intenzione di Trento quan-
do redigeva i suoi quasi centoventi canoni.

Dibattiti rivelatori attorno al progetto di un canone


P. Fransen 73 riprende questo problema analizzando il progetto di un
canone che non sarà accolto:
Se qualcuno, disprezzando la Chiesa di Dio, osa benedire anche le seconde nozze,
o insegna che le si devono benedire, sia anatema 74 •

Questo canone rimanda a una legge puramente ecclesiastica; non im-


plica il rito sacramentale propriamente detto; la cosa non appartiene agli
articoli degli eretici. Se esso non è stato recepito, non è affatto dovuto al
fatto che non conteneva nulla che appartenesse alla «rivelazione divina».
Ci si è posti anzitutto la questione di sapere se bisognava metterlo nei
decreti di riforma della Chiesa: in effetti, esso hon aveva di mira una po-
sizione luterana e non si trattava di una legge universale nella Chiesa. Ora,
si faceva una netta distinzione tra la legge universale e la legge locale. Nel
primo caso, si tratta di «dogmata /idei», perché la Chiesa non può sba-
gliarsi in quello che riguarda la fede e i buoni costumi, o un atto ecclesia-
stico di portata universale. Queste due ragioni andavano nel senso del ri-
mando ai decreti della riforma.
Un'altra discussione si incentrò sulla questione dell'anatema in questo
caso. L'anatema restava in rapporto con la sua origine scritturistica e con-
servava il suo antico significato di enunciato di censura canonica, più par-
ticolarmente di massima scomunica. All'epoca, la cbnce:iione era che un

n Dis 1504.
7l P.F. FRANSEN, Réflexions sur l'anathème au conci/e de Trente, EphThL, 29 (195>), pp. 657-672, del
quale seguo l'argomentazione. Sull'autorità dei canoni di Trento cfr. anche A. DUVAL, Des sacrament au
conci/e de Trente, Cerf, Paris 1985, pp. 101-102; 170-172; 254-258.
14 CTA VI, p ..446, 9.

III · SCRITIURE, TRADIZIONI E DOGMI AL CONCILIO DI TRENTO 141


canone comportava una pena ecclesiastica maggiore, la pena vendicati-
va più grave di cui la Chiesa disponeva. L'anatema era un caso partico-
larmente solenne di massima scomunica: colpiva una più grande con-
tumacia - cioè la disobbedienza formale e ostinata del ribelle - e lo sepa-
rava ancora di più dalla comunione dei fedeli. Ora, l'anatema appariva
una pena troppo forte per questo caso 75 • Alcuni Padri allora domandaro-
no di mantenere questo canone modificandone il contenuto, al fine di
poter presentare «qualche carattere dogmatico». Ad esempio, si sarebbe
potuto dire: «Se qualcuno dice che la Chiesa non può proibire le benedi-
zioni delle seconde nozza, .. ». Ci si sarebbe allora trovati sul terreno del-
1' autorità ecclesiastica, contestata dai luterani. Alla fine questo canone non
fu accolto; ma altri lo furono, aventi di mira con evidenza delle leggi ec-
clesiastiche, come quella che il matrimonio contratto e non consumato è
annullato dalla professione religiosa solenne di uno dei due sposi 76 ; oppu-
re l'obbligo di comunicare almeno una volta l'anno, a Pasqua 77 •
Nel corso di questa discussione non troviamo alcuna prova del fatto
che ogni canone con anatema debba necessariamente definire una verità
di fede divina e cattolica. I canoni sono prima di tutto diretti contro i lu-
terani: ogni posizione che si oppone formalmente all'insegnamento della
Chiesa o a una legge universale che essa ha promulgato viene detta «ere-
tica». Questo perché, secondo la convinzione del concilio, solo la Chiesa
possiede l'autorità suprema per tutto quello che riguarda la salvezza e, di
conseguenza, non può sbagliarsi in materia di fede e di costumi. Secondo
la stessa logica, il concilio si interdice di rivolgere un anatema su un punto
controverso tra i cattolici 78 • Il criterio «comunitario» della vita ecclesiale è
sempre soggiacente.

Il canone 7 sul matrimonio


Un altro canone ha conosciuto successive redazioni, molto rivelatrici
dell'intenzione propria del concilio. Si tratta del canone 7 sul matrimo-
nio, che interdice allo sposo innocente, ingannato dall'adulterio del suo
congiunto, di contrarre un altro matrimonio. La Chiesa latina ha sempre
negato questa possibilità, anche se alcune testimonianze patristiche rive-
lavano una attitudine più larga in Origene, Basilio di Cesarea, l' Ambro-
siaster. L'Oriente conosceva una pratica di «economia» che consentiva il

75 Intervento del vescovo Garuffus, CTA VI, p. 474, 1-4.


16 DzS 1806.
11 DzS 1659.
78 Cfr. CTA V, p. 727, la messa in guardia del presidente sulla «certezza della grazia», punto dibattu-
to tra i cattolici.

142 BERNARD SE.5BOÙÉ


nuovo matrimonio in caso di adulterio della sposa, e c'era a Trento qual-
che vescovo delle isole greche dipendenti dalla Repubblica di Venezia. Da
parte sua Lutero, convinto com'era che il matrimonio non fosse di com-
. petenza della Chiesa, reputava questa disciplina ecclesiale come un abuso
di potere e riteneva che questo divorzio fosse autorizzato in caso di adul-
terio dai testi di Mt 5, 32 e 19, 9. Si redasse allora un canone così formu-
lato: «Se qualcuno dichiara che il matrimonio possa essere sciolto a causa
dell'adulterio dell'altro congiunto, ecc ... ». Questa formulazione però fini-
va per condannare non solo Lutero, ma la Chiesa greca e la dottrina di
certi Padri della Chiesa, cosa che il concilio voleva assolutamente evitare.
Di qui la nuova redazione del canone:
Se qualcuno dirà che la Chiesa sbaglia [errare, cioè abusa della sua autorità] quan-
do ha insegnato e insegna [nello stato attuale del diritto canonico e della teolo-
gia], secondo [cioè «ispirandosi a» e dunque non per applicazione letterale] la
dottrina del vangelo [i quattro vangeli del NT] e degli apostoli [le epistole, so-
prattutto san Paolo] che il vincolo del matrimonio non può essere sciolto per
l'adulterio di uno dei coniugi; che nessuno dei due, nemmeno l'innocente, che
non ha dato motivo all'adulterio, può contrarre un altro matrimonio, vivente l'al-
tro coniuge [. .. ] sia anatema 79.

Notiamo anzitutto il senso di errare: non si tratta di un errore formale,


contro il quale il quale il canone farebbe intervenire l'infallibilità della
Chiesa. Si tratta di una accusa di abuso del potere di giurisdizione, o di
una «tirannia» per la quale la Chiesa andrebbe al di là della sua missione
e nello stesso tempo la contraddirebbe 80 • Si noti anche come il centro del
canone si è spostato: esso òon ha più di mira i Greci, che nqn hanno mai
contestato la pratica latina, ma ha di mira coloro che contestano questa
pratica, accusandola di abuso di potere. D'altra parte, il canone non reca
più alcun giudizio sul problema di fondo - la questione rimane ancora
dunque soggetta a revisione-, ma si accontenta di affermare la legittimità
della posizione della Chiesa e della sua pratica, che non è né un abuso di
potere, né contraria al Vangelo 81 • Il concilio non ha dunque mai avuto
l'intenzione di definire «l'inerranza della Chiesa in questa materia, elogi-
camente l'impossibilità di un divorzio in caso di adulterio» 82 ; come invece

79 24• sessio:ne, can. 7; DzS 1807. Il commento è improntato a P .F. FRANSEN, L'autorité d~s conciles.
Problèmes de l'autorité, Ced, Paris 1962, pp. 97-99, in cui l'autore riassume due approfonditi articoli sulla
questione, ripresi in: Her'meneutics of the Councils and other Studies, University Press-Uitgenerij Peeters,
Leuven 1985, pp. 157·197.
80 Cfr. due articoli di P. Fransen sul tema «Si quis dixerit Ecclesiam errare», ripresi in Hermeneutics
of the Councils and other Studies, cit., pp. 69-125. In particolare, pp. 121-125.
8! Nello stesso senso: W. KASPER, Il dogma sotto la parola di Dio, cit., p. 43.
8> P. FRANSEN, L'autorité des conciles. Problèmes de l'auton'té, cit., p. 98.

III - SCRITIURE, TRADIZIONI E DOGMI AL CONCILIO DI TRENTO 143


affermerà una interpretazione ulteriore che reintrodurrà nel testo ciò che
il concilio aveva voluto escludere.
Un altro elemento verrà sollevato nelle discussioni conciliari: un cano-
ne con anatema non implica che il suo oggetto sia irreformabile. Il vesco-
vo Guerrero dice così: «Ciò che ha detto un padre non è vero, e cioè che
non si debba fare un canone se non per una cosa che non potrà cambiare
(invariabili)» 8J.

3. «La fede e i costumi»


È il Vangelo, abbiamo letto nel decreto Sacrosancta, che è fonte di ogni
verità salvifica e di ogni disciplina morale (morum disciplina). Il concilio
non recepisce d'altra parte che le tradizioni concernente «la fede e i co-
stumi» (jides et mores). Il latino impiega qui una coppia di termini prove-
nienti da una antica tradizione «ft'des et moreS>> 84 • P. Fransen ha studiato
la storia semantica di questa coppia, storia che rivela un certo numero di
sorprese. Dopo lo studio del termineji"des, sostiamo sul secondo membro
della coppia: quale è il senso del termine mores? 85 •
In Agostino, che è il primo a utilizzare questo binomio, il termine mo-
res non ha.niente a che vedere con ciò che noi chiamiamo la <<morale» e
ancor meno «la legge naturale o i principi etici». Esso si rapporta alle
molteplici forme della vita cristiana, in particolare sacramentali e liturgiche.
Si tratta di ciò che è universalmente accettato in tutta la Chiesa cattolica e
perciò stesso considerato come un'eredità proveniente dagli apostoli o dalle
decisioni conciliari. A questo titolo sono espressioni della fede, che non si
trovano nella Scrittura e sono spesso chiamate «tradizioni orali». Siamo
molto vicini al concetto di «tradizioni>> secondo il concilio di Trento.
Nel Medioevo, l'espressione non è molto utilizzata. Si trova nel decre-
to di Graziano a partire da una citazione di Agostino. Graziano collega i
«mores» alle «usanze ecclesiastiche» che non sono «contro la fede». Un
altro binomio molto prossimo è assai impiegato nel Medioevo: gli «artico-
li della fede e i sacramenti». I primi vengono dal Simbolo e dai dogmi
trinitario e cristologico; i secondi sono oggetto di una amministrazione e
di «decreti» posti dalla Chiesa. Al concilio di Firenze, il documento di
unione con gli Armeni, proveniente da un opuscolo di san Tommaso, si
chiama giustamente «Sugli articoli della fede e sui sacramenti».

BJ CTA IX, p. 689, 21.


84 Delle indicazioni su questa coppia di termini nella Chiesa antica sono state già date nel t. II, pp.
442-446.
85 Seguo qui l'articolo citato di P. FRANSEN, «Fides et mores», in: Hermeneutics o/ the Councils and
other Studies, cit.

144 BERNARD SESBOÙÉ


Anche a Trento «la formulafides et mores, impiegata due volte, è stret-
tamente parallela alla formula dell'introduzione, anch'essa in binomio,
veritas et morum disciplina oppure veritas et disciplina» 86 • Già nel decreto
della 3' sessione il concilio afferma la sua intenzione primaria: «l'estirpa-
zione delle eresie e la riforma dei costumi» 87 • Quando si era dibattuto
sull'ordine del giorno, il concilio aveva deciso di affrontare di pari passo
i dogmi e la riforma della Chiesa, usando le espressioni de dogmatibus et
reformatione oppure de fide et moribus. Con il termine di riforma si ave-
vano di mira gli abusi installatisi nella Chiesa. I due dati, fzdes et mores,
«appartengono al Vangelo così come è stato descritto [. .. ]. I mores rap-
presentano le pratiche e le usanze della Chiesa apostolica, alcune delle
quali erano relative ad alcuni punti di dottrina, mentre altre costituivano
dei punti di disciplina e di liturgia. In breve, si tratta pressoché esatta-
mente di quanto viene inteso con l'espressione «tradizioni non scritte».
Questo è talmente vero che anche al di fuori del concilio il termine tradi-
zioni è usato in molti casi dai contemporanei al posto di mores. Il binomio
esprime chiaramente la tradizione apostolica nella sua unità e coesione,
fondata sull'ispirazione dell'unico Spirito del Cristo, benché corrispon-
derite a due aspetti, differenti ma non separati, la dottrina e le forme della
vita cristiana» 88 • Taluni scritti del tempo mostrano tuttavia che il senso di
«problemi morali» era possibile per mores, secondo il significato di «fede
e morale» che questo binomio assumerà in seguito 89 •

4. L'autorità dogmatica de.I concilio di Trento


Queste analisi consentono una conclusione precisa sull'intenzione
«dogmatica» del concilio di Trento, molto differente da quella che pren-
derà il concilio Vaticano I, in corrispondenza con l'evoluzione ulteriore
dei concetti di fede e di «magistero». Trento mira a trasmettere un inse-
gnamento il cui cuore è costituito dalla rivelazione compiuta nell'evento
del Cristo. La sua problematica generale però non consiste nell'isolare il
dato rivelato come tale, salvo in qualche precisa affermazione, ma
piuttosto presentare l'insegnamento della Chiesa, che integra la ri-
velazione in un corpo di dottrine e di decisioni capaci di mantenere
l'unità della comunità cristiana e di condurla alla salvezza. Il perimetro

80 P. FRANSEN, «Fides et mores», in: Hermeneutics o/ the Councils and other Studies, cit., p. 306.
87 3• sessione, COD p. 662.
88 P. FRANSEN., «Fides et mores», in: Hermeneutics o/ the Councils and other Studie!f, cit., p. 306, che
cita una formula di Y. Congar.
89 I. VAZQUEZ}ANEIRO, Caeli novi et terra nova. La evangeliiacion del Nueovo mundo a traves de libros
e documentos, Selecdon y Catalogo, Bibl. Apost. Vatic., I992.

Il!· SCRIITURE, TRADIZIONI E DOGMI AL CONCILIO DI TRENTO 145

.\"
che difende è sensibilmente più ampio di quello corrispondente al rive-
lato formalmente. Nel suo orizzonte, intende sì esprimere e «definire la
fede», e anche pronunciare delle definizioni con anatema nei canoni, ma,
d'altra parte, ha coscienza che queste definizioni non sono di per sé ir-
reformabili.
In termini più moderni, il concilio distingue spontaneamente quello che
è dell'ordine della indefettibilità della Chiesa e quello che è dell'infallibi-
lità propriamente detta. L'indefettibilità è l'assicurazione che la Chiesa
non può mai essere infedele alla sua missione di salvezza, anche quando
insegna e impone dei punti che non appartengono alla rivelazione e che
dunque possono eventualmente evolvere nel corso della storia. Essa resta
al servizio della verità divina, non la mutila e non la contraddice. L'infal-
libilità - nel senso attuale, perché all'epoca di Trento si poteva impiegare
.il termine nel senso di indefettibilità - è un concetto molto più ristretto:
dice che la Chiesa non può assolutamente sbagliarsi quando insegna che
un punto di dottrina appartiene alla rivelazione divina. La sua decisione è
allora irreformabile. Nel suo combattimento contro la Riforma, il concilio
di Trento si situa il più delle volte sulla linea della indefettibilità, formal-
mente contestata dai Riformatori. È su questa linea che il concilio reclama
dai cattolici l'obbedienza della fede, che assicura la coesione della comu-
nità ecclesiale. Solo in certi casi - sempre da verificare -, esso si situa sulla
linea della infallibilità propriamente detta.
La problematica di Trento ha il vantaggio di non dissociare l'attitudine
soggettiva del credente, che fa della Chiesa la norma della sua propria
fede, e il contenuto oggettivo di questa stessa fede. Essa non isola que-
sto contenuto dogmatico Òggettivo dall'intelligenza viva che la Chiesa
ne ha. Questa posizione mantiene anche una certa distanza tra il linguag.
gio della fede e il contenuto inteso da questo linguaggio, e anche tra il
discorso ecclesiale della fede e la Parola di Dio. Il primo rende conto
autenticamente del secondo, ma non pretende di identificarsi con quel-
lo. Trento mantiene dunque una sana dialettica tra la rappresentazione
e l'affermazione e rispetta la necessaria implicazione tra parola umana e
parola di Dio.
Resta tuttavia una ambiguità, concernente l'equilibrio del rapporto tra
rivelazione e Chiesa. C'era l'idea della rivelazione permanente o conti-
nuata, formalmente esclusa ma praticamente mantenuta: essa tendeva a
mettere sullo stesso piano la rivelazione del Cristo trasmessa dagli apo-
stoli e l'assistenza dello Spirito Santo alla Chiesa e ai concili. Si rischiava
anche - come i secoli seguenti ben mostreranno - una insistenza unila-
terale sull'autorità della decisione ecclesiale in materia di fede. Invece di
dire, come in passato: la Chiesa propone questa verità perché è attestata

146 BERNARD SESBOOÉ


dal Vangelo, si è arrivati a dire: poiché la Chiesa propone questa verità,
in nome della sua legittima autorità, essa si trova nel Vangelo. Questa
inversione del rapporto, che appartiene senza dubbio al circolo erme-
neutico, può divenire pericolosa se non è in qualche modo sottomessa
alla critica. L'autentica difficoltà dogmatica nell'interpretazione di Tren-
to è nata più tardi, con la mentalità post-tridentina. Si è allora voluto
applicare in maniera anacronistica ai testi di questo concilio la griglia
concettuale elaborata solo successivamente e che identificava il dogma
con la verità rivelata.

IV. MELCHIOR CANOE I LUOGHI TEOLOGICI

Indicazioni bibliografiche: M. JACQUIN, Melchior Cano et la théologie moderne, RSPT, 9


(1920), pp. 121-141; A. LANG, Die Loci theologici des Melchior Cano und die Methode des dog-
matischen Beweises, J. Kosel & F. Pustet, Miinchen 1925; A. GARDEIL, Lieux théologiques,
DTC, IX (1926), 712-747; E. MARCOTIE, La nature de la théologie d'après Melchior Can~, Éd.
de l'Univ., Ottawa 1949; A. DUVAL, Cano (Melchior), in: Catholicisme, II (1949), 465-467; V.
BELTRAM DE HEREDIA, Cano (Melchior), DS, II (1953), 73-76;J. BEUMER, Positive und spekula-
tive Theologie. Kritische Bemerkungen an Hand der «Locis theologiciS» des Melchior Cano, in
«Scholastilo>, 29 (1954), pp. 53-72; C. Pozo, Fuentes para la historia del mètodo teologico en la
escuela de Salamanca, I: Francisco de Vitoria, Domingo de Soto, Melchior Cono y Ambrosia de
Salazar, Grenade 1962; TH. TSHIBANGU, Melchior Cono et la théologie positive, EpThL, 40
(1964), pp. 300-339; A.M. ARTOLA, De la Revelaci6n a la Inspiraci6n. Los origines de la moder-
na Teologia catolica sobre la inspiradon biblica, Mensajero, Bilbao 1983; B. KORNER, Melchio
Cono. De locis theologicis, Styria Medienservice, Graz 1994.

Melchior Cano (1509-1560), teologo domenicano di Salamanca, parte-


cipò a questo titolo ai lavori di Trento, a partire dal 1551. Nel 1563, un
anno dopo la chiusura del concilio, fu pubblicata postuma la sua opera
incompiuta sulla metodologia teologica, destinata ad avere una influenza
decisiva sulla teologia dei Tempi moderni. Cano aveva la coscienza di sta-
re innovando con il suo presentare un'opera.sistematica su un tema che
non era ancora mai stato trattato in modo formale.

1. I dieci «luoghi teologici»


L'opera di Melchior Cano si intitola I luoghi teologici (De locis theolo-
gicis). Per luogo teolOgico (il termine «luogo» era già stato impiegato da
san Tommaso 90 a immagine dei topoi della logica razionale) bisogna in-

90 S. Th. I, q. 1, a. 8, ad 2m.

III. SCRIITURE, TRADIZIONI E DOGMI AL CONCILIO DI TRENTO 147


tendere una referenza che costituisce un'autorità per la determinazione
della dottrina cristiana. M. Cano distingue dieci luoghi teologici:
Il primo è l'autorità della Sacra Scrittura, che si trova contenuta nei libri canonici.
Il secondo è lautorità delle tradizioni del Cristo e degli apostoli, che si può invo-
care a giustissimo titolo, poiché anche se non sono state scritte, sono pervenute
fino a noi di bocca in bocca, come oracoli a viva voce.
Il terzo è l'autorità della Chiesa cattolica.
Il quarto è l'autorità dei concili, soprattutto. di quelli generali, nei· quali risiede
lautorità della Chiesa cattolica.
Il quinto è l'autorità della Chiesa romana, che per un privilegio divino è ed è chia-
mata apostolica. ·
Il sesto è l'autorità degli antichi santi.
Il settimo è lautorità dei teologi scolastici, ai quali aggiungiamo anche gli esperti
in diritto pontificio. La dottrina infatti di questo diritto corrisponde alla teologia
scolastica, come uno specchio.
L'ottavo è la ragione naturale, che si estende molto ampiamente a tutte le scienze
scoperte dalla luce naturale.
Il nono è l'autorità dei filosofi che seguono la natura come una guida; tra essi si
trovano senza alcun dubbio i giureconsulti imperiali, che professano anch'essi[ ... ]
la vera filosofia.
Il decimo infine è lautorità della storia umana, sia quella s'critta da autori degni di
fede, sia quella trasmessa di nazione in nazione, senza superstizioni né semplici
chiacchiere, ma con ragione seria e costante 91 •

Questo decalogo di luoghi teologici è rivelatore della mentalità teologi-


ca dell'inizio dei Tempi moderni. La preoccupazione di Cano non è d'or-
dine apologetico, né di quella che si chiamerà più tardi «teologia fonda-
mentale»: si tratta per lui di ordinare il più sistematicamente possibile le
autorità utili per l'elaborazione della prova dogmatica della fede. L'enu-
merazione che propone costituisce una gerarchia di queste autorità 92 • I
primi sette luoghi sono i luoghi propri della teologia. Essi si distinguono
in due categorie: a capo stanno la Scrittura e le tradizioni che abbracciano
il contenuto della rivelazione.
A proposito della Scrittura, Cano passa in rassegna un certo numero di
problemi già moderni: l'ispirazione e l'inerranza dei libri sacri 93 e la deter-
minazione del loro canone da parte della Chiesa - tenendo presente la
differenza tra canonicità e autenticità -; il valore della Volgata, difesa

9I M. CANO, De locis theologicis, l, c. 3; MIGNE, Theologiae cursus comp!etus, l, 62-63.


92 Cfr. A. LANG, Die Loci theologici des Me!chior Cano und die Methode des dogmatischen Beweises,}.
Kosel & F. Pustet, Miinchen 1925, pp. 88-89.
93 Sui dibattiti concernenti l'ispirazione biblica alle quali la posizione di Cano ha dato luogo, cfr. A.M.
ARTOLA, De la Revelaci6n a la Inspiraci6n. Los origines de la moderna Teologia catolica sobre la inspiracion
biblica, Mensajero, Bilbao 1983.

148 BERNARD SESBOÙÉ


davanti ai sostenitori dei testi originali; la prova scritturistica della fede,
validamente elaborata a partire dalla Volgata.
Nella sua descrizione delle tradizioni, Cano è molto vicino alle formu-
lazioni di Trento: ne parla il più delle volte al plurale e le considera in
modo oggettivo come delle «cose trasmesse». Contro il sola Scriptura dei
Luterani, egli le pone come una fonte costitutiva della fede. La tradizione
è un luogo teologico indipendente dalla Scrittura. Cano ricorda che la
Chiesa è più antica della Scrittura e che in un primo tempo la sua fede
non è dipesa dalle Scritture. Non solo la tradizione «aiuta a comprendere
dei testi "oscuri o poco intelligibili" della Scrittura, ma inoltre contiene
"molte cose che non sono attestate, né chiaramente né velatamente [. .. ]
nelle sacre Scritture [. .. ]. Perché vi sono molti dogmi della fede cattolica
che non sono contenuti nelle sacre pagine" [. .. ]. "Non si può negare che
la dottrina della fede non è stata trasmessa dagli apostoli tutta per iscritto,
ma in_ parte lo è stata verbalmente (ex parte verbo)"» 94 • Melchior Cano è
dunque fin dall'inizio un partigiano del partim ... partim ... : egli intende
«mostrare che gli apostoli hanno trasmesso la dottrina del Vangelo in
parte per iscritto, in parte oralmente» 95 • Questo non impedisce di ritenere
che queste tradizioni «non sono delle aggiunte alle divine Scritture, ma
piuttosto dei complementi e come un loro commento» 96 • Cano stabilisce
parimenti i criteri, essenzialmente quello di unanimità, che consentono di
fondare una verità di fede sulla tradizione. A. proposito di queste due
prime autorità, egli intende delineare i contorni delle verità sicuramente
rivelate da Dio.
I successivi cinque luoghi teologici rinviano all'autorità della Chiesa:
non sono più luoghi «fondatori», ma luoghi di conservazione del depo-
sito rivelato, della sua interpretazione e della sua trasmissione. Essi si
distinguono a loro volta in luoghi certi - i primi tre - e in luoghi proba-
bili - gli altri due. Fra i luoghi certi, c'è l'autorità della Chiesa cattolica
in generale, vale a dire il suo consenso universale 97 , quindi quello dei
concili, cioè l'insieme degli insegnamenti che sono stati promulgati, e da
ultimo la Chiesa romana, in forza della sua apostolicità e dell'autorità
propria dell'insegnamento pontificio.
Per autorità della Chiesa cattolica, Cano intende in modo prioritario la
totalità del corpo della Chiesa visibile, cioè l'insieme dei battezzati (collec-

94 H. HoLSTEIN, Les «deuX» sources de la révélation, RSR, 57 (1969), p. 393, che cita l'opera di M.
C~o. Il, cap. 2, cap. 3, par. e e conclusione; MIGNE, Theologiae cursus completµs, l. 191-192 e 197.
95 M. CANO, De locis theologicis, II, c. 3; MIGNE, Theologiae cursus completus, l, 197.
96 lbid., III, c. 7; MIGNE, Theologiae cursus completus, 1, 210.
97 Si tratta di qualcosa di molto prossimo a quello che il Vaticano I chiamerà «magistero ordinario e
universale», cfr. infra pp. 261 ss.

III· SCRITIURE, TRADIZIONI E DOGMI AL CONCILIO DI TRENTO 149


tio omnium fidelium) 98 che vivono nell'obbedienza alla Chiesa e non ne
sono stati esclusi. La Chiesa non può sbagliarsi nella sua fede (in creden-
do), il che vuol dire che «tutto quello che la Chiesa ritiene un dogma di
fede è vero e che non c'è nulla di falso in ciò che essa crede o insegna a
credere» 99 • «Non solo la Chiesa antica non ha potuto errare nella fede,
ma anche la Chiesa attuale e la Chiesa futura fino alla fine dei tempi non
può né potrà errare nella fede» 100 • Cano fa dunque ampio spazio al senso
dei fedeli, con stupore peraltro del suo editore 101 • Questa inerranza della
Chiesa però - il vocabolario dell'infallibilità, che si trova a torto nei suoi
commentatori è assente in Cano - è anche questione delle sue guide e dei
suoi pastori: i pastòri e i dottori della Chiesa non possono errare nella
fede, ma tutto quello che insegnano al popolo, in quello che concerne la
fede nel Cristo, è del tutto vero 102 • Cano appare qui all'origine della di-
stinzione della doppia inerranza della Chiesa nella fede (in credendo) tra i
fedeli e nell'insegnamento (in· docendo) tra i pastori. I termini fede, dog-
ma, eresia, devono essere intesi in Cano nel senso di Trento, dd quale
Cano condivide la mentalità teologica 103 •
L'autorità dei concili è studiata da Cano in modo molto giuridico. Il
problema è di sapere a quali condizioni un concilio può essere considera-
to al riparo dall'errore e in quale misura le sue decisioni devono essere
comprese come irreformabili e definitive. Cano distingue i concili genera-
li, i concili episcopali e i sinodi diocesani, ma si occupa soprattutto dei
primi: essi hanno un carattere ecumenico e devono comportare un nume-
ro sufficiente di vescovi provenienti da diverse regioni del mondo, così da
poter rappresentare l'insieme della Chiesa. Perché un concilio abbia au-
torità bisogna anzitutto che sia stato convocato dal papa e che quindi
venga da lui confermato. A questa doppia condizione il suo insegnamento
è garantito dall'errore. La prova della conferma da parte del papa è dun-
que capitale. Nei concili i vescovi svolgono il ruolo di giudici della fede.
Perché una definizione sia infallibile e irreformabile, bisogna che la deci-
sione conciliare porti il carattere di obbligo universale e definitivo. Una

98 M. CANO, De locis theologicis, IV, c. 4; MIGNE, Theologiae cursus completus, l, 238.


99 Ibid., IV, cap. 4; MrGNE, 1, 234.
100 Ibid., IV, c. 4; MrGNE, 1, 238.
101 Cfr. la nota siglata P.S. nell'edizione dd·MrGNE (1, 238), che rimprovera a Cano di concedere
troppo al popolo cristiano in materia di inerranza.
102 M. CANO, De locis theologicis, IV, c. 4; MIGNE, Theologiae cursus completus, 1, 239.
IOJ A. Lang ha cambiato opinione su questo punto. Nella sua opera del 1925 su Cano (op. cit.) egli
riporta volentieri nei confronti dd suo autore il vocabolario dd magistero e dell'infallibilità (in.terpretata
in senso proprio, ·p. 126, n. 1); comprende i concetti di fede, di eresia e di dogma in Cano. nel loro senso
moderno. Nel suo articolo del 1953, al contrario, analizzando il senso di fede e di eresia a Trento, attribu-
isce a Cano la stessa comprensione di questi concetti secondo la comprensione dd concilio Cfr. A. LANG,
Der Bedeutungswalden der Begri/fe fides und haeresis und die dogmatische W ertung der Konzilsentschei-
dungen von Vienne und Trient, MThZ, 4 (1953), pp. 133-146.

15 0 BERNARD SESBOUÉ
tale decisione però non richiede necessariamente che il suo oggetto ap-
partenga alla fede. La Chiesa può definire infatti una proposizione che è
in connessione con la rivelazione e garantirla con la sua autorità. Si ha a
che fare allora con una decisione ecclesiale che si fonda sull'autorità della
Chiesa e appartiene alla fede di cui il credente è debitore verso la Chie-
sa 104 • Più tardi si parlerà a questo riguardo di «fede ecclesiastica» </ides
ecclesiastica).
L'autorità della Chiesa romana indica in Cano quella del papa. Il rap-
porto però tra il papa e la Chiesa, della quale egli è il vescovo, è giusta-
mente sottolineato, poiché si tratta della «Sede apostolica». Cano fonda
l'autorità dottrinale che è propria al pontefice romano sulle testimonianze
petrine della Scrittura e mostra che ciò che è stato affidato a Pietro passa
per diritto divino ai suoi successori, cioè ai vescovi di Roma. Ora, Pietro
non ha potuto «errare» quando confermava i suoi fratelli nella fede.
L'inerranza del papa è, secondo Cano, una verità di fede e colui che si
oppone a questo diviene un eretico. Questo carisma di inerranza non con-
cerne tuttavia la persona privata del papa, bensl lesercizio pubblico della
sua autorità dottrinale 10'. Questa autorità, come quella dei concili, con-
cerne la trasmissione della rivelazione, l'interpretazione e la spiegazione
del suo senso. Il discorso di Cano traccia già una precisa via a quella che
diventerà la dottrina dell'infallibilità del Pontefice romano, ma sarebbe
anacronistico voler intrawedere nel suo discorso e nel suo vocabolario le
precisioni concettuali che saranno proprie del Vaticano I. Lo si capisce
dal modo stesso con cui usa le fonti patristiche a questo riguardo e dal
silenzio che mantiene su alcuni punti che diventeranno in seguito oggetto
di numerosi dibattiti. L' «inerranza>> della Sede di Roma di cui Cano parla
è un concetto più inglobante e meno rigoroso di quello che costituirà l'og-
getto della definione del 1870.
Gli altri due luoghi, considerati come «probabili», sono l'autorità degli
antichi santi, dei Padri della Chiesa, dei teologi scolastici e dei canonisti.
La preoccupazione di Cano è quella di precisare i criteri che danno più o
meno peso all'argomento patristico, secondo i temi e il numero dei testi-
moni. L'unanimità dei Padri nell'interpretazione della Scrittura o nell'af-
fermazione di una verità di fede è al riparo dall'errore. L'argomentazione
è analoga, ma più prudente, per quello che riguarda i teologi: nei dibattiti
di scuola, gli argomenti vanno giudicati in funzione del loro peso proprio

104 A. LANG, Die Lod theo/ogid. .. , cit., pp. 134-135.


1°' Cano pensa anche che coloro che ritengono l'inerranza dcl papa in ogni materia e in ogni giu-
dizio non favoriscono l'autorità della Sede apostolica, ma piuttosto la r9vesciano: «li papa non ha biso-
gno della nostra menzogna, non ha bisogno della nostra adulazione», cfr. A LANG, .Die Lod theologici. .. ,
cit., pp. 140, n. 1.

III - SCRITIURE, TRADIZIONI E DOGMI AL CONCILIO DI TRENTO 151


e delle autorità sulle quali si fondano; l'accordo unanime dei teologi
su una questione importante riveste un alto grado di verosimiglianza.
Dato però, tra i teologi, il gusto del questionare - osserva con umorismo
Cano -, un tale accordo è altrettanto meraviglioso come quello dei settan-
ta traduttori della Scrittura 106 •
Gli ultimi tre «luoghi» escono dal quadro delle autorità della fede pro-
priamente detta. Si tratta della ragione naturale, dei filosofi - dove il caso
di Aristotele è oggetto di una particolare considerazione - e dei giuristi,
come pure della storia. Questi sono dei luoghi teologici annessi. Secondo
il suo metodo, Cano sviluppa dei criteri di valore nella valutazione di
questi luoghi. La loro messa in conto è interessante: le «scienze umane»
sono messe al servizio della comprensione del messaggio cristiano.
L'opera di Cano doveva comportare una seconda parte, per esporre il
modo di utilizzare ciascuno di questi luoghi, «sia nelle questioni scolasti-
che, sia nella spiegazione della Sacra Scrittura, sia nella controversia con
gli eretici, con i Giudei, con i Maomettani, con i Pagani. Purtroppo, di
questi ultimi tre libri è stato redatto solo quello che concerne la disputa
scolastica. La morte di Cano (1560) ha interrotto il lavoro cominciato» 107 •
Questo libro affronta la questione della natura della teologia e dei suoi
principi, poi quella delle conclusioni teologiche legate alla gestione degli
argomenti teologici (c. 5). Il problema di Cano è sempre quello di decifra-
re il valore dogmatico di certe tesi teologiche. Egli sostiene che le verità
strettamente connesse con il contenuto della rivelazione, soprattutto le
«conclusioni teologiche» unanimi, appartengono alla fede e che il loro
negatore sia un eretico:
Se la Chiesa, o un concilio, o la Sede Apostolica, o anche i santi, unanimi nello
spirito e nella voce, hanno elaborato una conclusione teologica e l'hanno inoltre
prescritta ai fedeli, questa verità sarà ritenuta cattolica come se fosse stata rivelata
dal Cristo stesso; e colui che si opporrà ad essa sarà eretico come se si fosse oppo·
sto alle Sacre Scritture e alle tradiZioni degli Apostoli 108 •

Questa proposizione deve naturalmente essere compresa in rapporto


allo spazio semantico entro il quale funzionano, in quell'epoca, i concetti
utilizzati. Perché Cano sostiene anche che non vuole decidere della diffe-
renza essenziale tra la fede divina e la certezza dell'insegnamento così
dedotto. Egli non dice dunque che le conclusioni teologiche definite dalla
Chiesa sono da credere de fide divina. Esse appartengono alla fede in un
vero senso, ma in modo indiretto o mediato (/ides mediata). Il concetto

106 Cfr. A LANG, Die Loci theologici.. ., cit., pp: 156·157.


107 M. }ACQUIN, Melchior Cano et la théologie moderne, RSPT, 9 (1920), p. 133.
108 M. CANO, De locis theologicis, XII, c. 5; M1GNE, Theologiae cursus completus, I, 586.

152 BERNARD SESBOÙÉ


che ingloba in Cano il campo delle verità da credere non è determinato
dalla certezza che una verità appartiene alla fede divina, ma dalla preoc-
cupazione pratica dell'integrità della fede 109 • Allo stesso modo, si dà per
lui definizione di fede quando l'insegnamento contrario è condannato
come eretico, quando l'anatema è espresso contro i sostenitori di tale in-
segnamento, quando la scomunica vi è congiunta ipso iure 110•

2. La svolta teologica introdotta da M. Cano

L'opera di Melchior Cano offre il segnale di un cambiamento di meto-


do e di scopo nella teologia. Egli intendeva certo proporre una teologia
«più èonforme alle necessità del suo tempo» 111 • La scolastica aveva dispie-
gato tutto il suo genio nell'elaborazione delle questioni e in una impresa
di sistematizzazione razionale del dato della fede. Cano visse al tempo del
Rinascimento, che aveva messo in onore il ritorno ai testi, e della Riforma,
che aveva rimesso in causa l'edificio cattolico della fede. In questa situa-
zione, Cano pensava che la teologia non potesse più continuare lo steso
lavoro sistematico e speculativo, a proposito del quale pensava, tra l'altro,
che tutto era già stato detto 112 • Egli intendeva al contrario sistematizzare
quanto consentiva di costituire la prova della fede. In questo senso Cano
segna un ritornQ dalle ragioni verso le autorità. Queste autorità però non
sono solamente le Scritture e le tradizioni, conservate comunque al primo
posto, ma anche I' autorità dottrinale della Chiesa, alla quale non dà il
nome di magistero, anche se è già proprio di questo che si tratta. A questo
titolo, Cano sta all'origine della teologia moderna, per la quale la referen-
za magisteriale diventerà sempre più dominante, con grande differenza
rispetto alla scolastica medievale. Il teologo è anzitutto colui che stabilisce
la prova della fede, sulla base dei luoghi teologici, in particolare quelli
dell'autorità dei concili e del Pontefice romano. Alle Somme medievali,
strutturate in questioni, faranno dunque seguito i trattati di teologia che
presentano le tesi portanti sull'insieme del corpus. Questi trattati saranno
in particolare utilizzati nei seminari. Essi verranno articolati, fino a un'epo-
ca recente, secondo una logica tripartita: primo momento, l'esposizione
della tesi a partire dalla dottrina della Chiesa, ricercata nei documenti più

109 Cfr. A. LANG, Der Bedeutungswalden der Begri!fe.. ., art. cit, pp. 143-144, in cui l'autore riconosce
che, nel suo libro anteriore; Cano è troppo interpretato alla luce del senso attuale dei concetti.
110 lbid., p. 145.
111 M. }ACQUIN, Melchior Cano et la théologie moderne, art. cit., p. 138.
11 2 Egli è anche molto severo di fronte a certe sottigliezze dialettiche della scolastica; e arriva anche a
prendersela con la frantumazione degli articoli della Somma di san Tommaso, cfr. De locis theologicis,
VIII, c. I; XII, c. 11.

III - SCRITIURE, TRADIZIONI E DOGMI AL CONCILIO DI TRENTO 153


recenti; secondo momento, l'argomento della Scrittura e della tradizione;
terzo momento, la ragione teologica che propone le sue conclusioni. È il
concetto moderno di «teologia dogmatica».
Se l'ambizione di Cano non è d'ordine apologetico, appartiene comun-
que già alla teologia della controversia. Lo si vede dal modo con cui cita
nella sua opera gli argomenti degli autori protestanti prima di confutarli a
uno a uno. Nelle future tesi scolari della teologia moderna, gli «avversari»
saranno presentati fin dall'inizio dell'esposizione e non si mancherà poi di
rispondere loro.
Cosl facendo, Cano può essere anche considerato come un precursore
della teologia positiva. Il termine in lui non esiste, ma lo spazio fatto al-
1' argomentazione dei Padri e dei teologi, nonché il richiamo alla storia,
mostra la sua preoccupazione di fondare la prova dogmatica su dei dati
positivi. D'altronde, Cano realizza nel suo trattato il metodo che insegna:
costruisce le sue prove con l'aiuto di abbondanti citazioni patristiche e il
genere letterario della sua opera differisce radicalmente da quello delle
Somme. Senza dubbio questo richiamo ai documenti antichi manca un po'
di gratuità: non si tratta ancora di studiarli per se stessi, ma di arruolarli in
una argomentazione.
In tutto questo Melchior Cano è proprio il contemporaneo del concilio
di cui è stato il teologo. Trento non aveva posto all'inizio il fondamento
del Simbolo di fede e i due fondamenti principali, la Scrittura e le tradi-
zioni? Il suo impegno poi era stato ben quello di «confermare i dogmi»,
esponendo la fede della Chiesa. ·

154 BERNARD SESBOÙÉ


Capitolo Quarto

Dogma e teologia
nei tempi moderni

Consideriamo ora il periodo che va dalla Riforma fino al concilio Va-


ticano I. La Riforma protestante ha posto un termine alla situazione di
cristianità unificata, che era quella propria del Medioevo. L'Europa e, al
suo seguito, i ·continenti che essa scopre nel suo movimento espansioni-
stico, vivono ormai nella divisione religiosa. Dal punto di vista cattolico,
la Riforma è stata vissuta come una disobbedienza nella fede e come una
rivolta contro i legittimi pastori e l'autorità gerarchica della Chiesa. Que-
sto non sarà senza conseguenze per il modo di esercitare in futuro l'au-
torità dottrinale. Alla Riforma protestante risponde la Riforma cattolica,
col concilio di Trento e con i secoli rimasti sotto la sua influenza. Que-
sta Riforma si inasprirà in Controriforma, a motivo di una opposizione
sostenuta contro il protestantesimo: questa è una caratteristica del-
1'«epoca tridentina». C'è inoltre la nascita del «cattolicesimo», in oppo-
sizione alla «cristianità» precedente 1• Su questo cattolicesimo l'autorità
gerarchica si farà sentire con sempre maggior fermezza, allo scopo di
mantenerla nella sua coesione e nella sua unità.
Un altro avvenimento però segnerà fortemente questa stessa epoca: la
nascita della moqernità, i cui primi sintomi appariranno alla fine del XVII
secolo e che si esprimerà particolarmente nel cosiddetto secolo dei Lumi
(Aufkliirung). Questa modernità - che farà chiamare questa epoca i
«tempi moderni» - è caratterizzata sul piano politico dalla crescita degli
Stati e dalla rivendicazione di autonomia del potere politico in rapporto
alla Chiesa. Essa attribuisce inoltre una nuova autorità alla ragione, sia

1 Cfr. t. II, p. 199. La Chiesa si è sempre definita come «cattolica>> a partire da Ignazio di Antiochia
e la <<Cattolica>> da sant'Agostino, nd senso di qud qualificativo presente nd Simbolo di fede (cfr. t. I, pp.
115-117). Il sostantivo «cattolicesimo» le conferisce ormai de facto un significato confessionale, vale a dire
di una Chiesa cristiana in mezzo alle altre.

IV. DOGMA E TEOLOGIA NEI TEMPI MODERNI 155


in campo filosofico che :religioso, come pure nell'ambito dei costumi e
dei comportamenti. Questa stessa ragione, sottomessa alla prova critica,
mette avanti dei dubbi sulla sua capacità di costruire delle prove valevo-
li per quanto riguarda ciò che supera l'esperienza umana e in particola-
re l'esistenza di Dio. A fianco del magistero tradizionale si erge dunque,
e sovente in sua opposizione, il magistero della ragione. La fede non è
semplicemente contestata nei suoi contenuti, ma nei suoi stessi fonda-
menti. Essa deve giustificarsi di fronte alla ragione in una nuova apolo-
getica e difendere la possibilità della prova razionale dell'esistenza di
Dio, l'intelligibilità del concetto di rivelazione e la legittimità di un atto
di fede che si propone come «soprannaturale». La ragione dei Lumi non
era storica, ma nei' xrx secolo integra anche la dimensione storica. Que-
sto insieme complesso di problemi impegnerà a lungo questo secolo e
sarà ripreso al Vaticano I.
Chiesa e mondo stanno sempre tra loro in una relazione inter-attiva,
ma anche inter-reattiva. Le evoluzioni menzionate finiscono per avere il
loro impatto non solo sulla teologia, ma anche sui concetti dogmatici e
sul funzionamento concreto del «magistero vivo» della Chiesa. Il segno
di questo lo si ritrova nello stesso linguaggio, a causa dell'emergenza di
questo nuovo concetto.

l. IL TRIDENTINISMO DOITRINALE
NEI SECOLI XVII E XVIII

Indicazioni bibliografiche: Y. CONGAR, Fait dogmatique, in: Catholicisme, IV, (1956) 1059-
1067; Io., Gallicanisme, in: Githolicisme, IV, (1956) 11731-1739; B.D. DUPUY, Infallibzlitéde
l'Église, in: Catholicisme, V, (1963) 1550-1572; P. DE VOOGHT, Enquéte sur le mot «infallibili-
té» durant le pén'ode scolastique, in: L'infallibilité de l'Église, Chevetogne 1963, pp. 99-146; G.
THILS, L'infalibilité du peuple chrétien «in credendo». Notes de théologie posttn'dentine, DDB-
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TAVARD, La tradition au xvir siècle en France et en Angleterre, Cerf, Paris 1969; B. JASPERT, Die
Urspriinge der piipstlichen Unfhlbarkeitslehre, ZRG, 25 (1973), pp. 125-134; U. HoRST, Un-
fehlbarkeit und Geschichte. Studien zur Unfehlbarkeitsdiskussion von Melchior Cano bis zum 1.
Vatikanischen Konzil, Griinewald, Mainz 1982; H.J. SiEBEN, Traktate und Theon'en zum Kon-
zil (1378-1521),J. Knecht, Frankfurt 1983; W. .KLAUSNITZER, Das Papsamt im Disput zwischen
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Paris 1992; B. NEVEU, L'erreur et sonjuge. Remarques sur !es censures doctrinales à l'époque
moderne, Bibliopolis, Naples 1993; lo.,Juge supreme et docteur infaillible: le ponti/icat romain
de la Bulle «In eminenti» (1643) à la Bulle «Auctorem Fidei» (1794), in: Erudition et religion
aux xv1r et XVIJf siècles, Albin Miche!, Paris 1994, pp. 385-450; P. BLET, Le e/ergé du Grand
Siècle en ses assemblées (1615-1715), Cerf, Paris 1995.

156 BERNARD SESBOÙÉ


1. Verso l'emergenza del «Magistero vivo»
Tra Trento e il Vaticano I, non vi saranno convocazioni conciliari nella
Chiesa cattolica. Nei Tempi moderni il concilio di Trento resterà dunque
la referenza dogmatica principale di questa Chiesa, mentre l'autorità dot-
trinale sarà sempre di più questione del pontefice romano e solo seconda-
riamente quello dei vescovi. Si assiste così alla genesi del funzionamento
«moderno» della Chiesa.

Il ruolo del magistero romano


Il papato, così reticente nel riunire il concilio nel XVI secolo, investirà
viceversa tutte le sue forze per la sua attuazione. I decreti di Riforma sa-
ranno in particolare applicati con diligenza e. la recezione del concilio
costituirà per ciò stesso un nuovo passo nel movimento verso la centraliz-
zazione romana, inaugurata in Occidente da Gregorio VII. La contesta-
zione della Riforma spinge la Chiesa cattolica a insistere sulla propria
autorità, a formalizzarla, a sottolineare la sua legittimità e ad esercitarla,
specialmente in campo dottrinale.
Poco dopo la conclusione del concilio di Trento, il papa Sisto V organiz-
za la curia romana nella sua forma moderna, con la Bolla Immensa, del 1587.
Senza dubbio alcuni organismi sono anteriori a questa creazione ammini-
strativa: i tribunali della Rota e della Penitenzieria esistevano infatti fin dal
XIV secolo, così come alcuni altri servizi, quali la Cancelleria e la Dataria,
che erano già operanti. Paolo. III aveva già istituito nel 1542, prima della
riunione del concilio, la Congregazione del Sant'Ufficio o dell'Inquisizione,
con la Bolla Licet ab inizio 2 • Sisto V però organizzò un autentico governo di
quindici Congregazioni di cardinali, incaricate del disbrigo dei diversi affari
ecclesiastici. Questi «dicasteri» sono specie di ministeri competenti, ciascu-
no nel suo campo. Nel corso del tempo, furono aggiunti altri organismi, ma
la curia di Sisto V non conobbe cambiamenti importanti fino alla riforma di
Pio X (Sapienti concilio, 1908), che la riorganizzò completamente. Da allora
le riforme della curia sono state periodicamente all'ordine del giorno e l'ul-
tima data del 1984 (Pastor bonus di Giovanni Paolo II). Il termine Congre-
gazione utilizzato per questi dicasteri indica una origine storica e una mo-
dalità. Le congregazioni romane sono l'istituzione permanente di commis-
sioni cardinalizie anteriori, incaricate di trattare temporaneamente un pro-
blema. Esse funzionano in modo collegiale: le grandi decisioni, preparate

2 Il tribunale dell'Inquisizione era stato creato da Gregorio IX verso il 12J 1, per far fronte all'eresia
catara, Nel XVI secolo, )a creazione del Sant'Ufficio fa di questo tribunale - che conserva questo titolo - un
ministero di vigilanza dottrinale,

lV, DOGMA E TEOLOGIA NEI TEMPI MODERNI 157


dall'amministrazione del dicastero sotto l'autorità del Prefetto, sono prese
nella riunione dei cardinali della congregazione secondo la maggioranza dei
voti. Il contesto politico dei tempi moderni e lo sviluppo degli Stati in Eu-
ropa spiegano almeno in parte questa evoluzione «statale» della Chiesa e la
crescita degli interventi pontifici.
In questo contesto ci soffermiamo solo su ciò che riguarda l'esercizio
magisteriale: il termine «magistero» emerge infatti con il suo senso mo-
derno nel XVIII secolo. Poiché durante tutto il periodo considerato non vi
sarà nessun concilio - dato che il papa è oramai munito di una ammini-
strazione e anche di un governo particolarmente efficiente nei confronti
delle istituzioni civili corrispondenti - gli interventi pontifici si faranno
sempre più frequenti in campo dottrinale. Il papa interviene sia a titolo
personale con una Bolla, una Costituzione o un Breve, sia mediante i de-
ereti dei diversi dicasteri. Tra i vescovi si prenderà l'abitudine di sotto-
mettere a questo o a quel dicastero una questione o un dubbio su un
punto di sua competenza. Il dicastero fornisce allora una breve risposta,
che riprende il testo della domanda.
Dalla fine del XVI secolo alla Rivoluzione francese, si vedono così i papi
trattare di questioni dottrinali messe in questione, mediante la promulga-
zione di una lista di proposizioni condannate. Awenne così per gli errori di
Baio (1567), di Giansenio (1653) e dei giansenisti (1690 e 1713), della mo-
rale lassista (1665 e 1679), del quietismo (1682, 1687 e 1699), della condan-
na di quattro articoli dell'Ass~mblea francese del clero del 1682 (1690) e
infine per la condanna di Pio VI nel 1794 degli errori del Sinodo diocesano
di Pistoia. Ogni serie di proposizioni, che può essere anche lunga e raggiun-
gere il centinaio di numeri, è conclusa da un paragrafo indicante la natura
e la gravità della censura inflitta. Queste censure sono differenziate e sfu-
mate a seconda del loro implicare o meno una questione di fede 3 •
Benedetto XIV (1740-1758) ne dà la lista: ereti'ca, prossima all'eresia,
erronea, prossima al!'errore, temeraria, scandalosa, offensiva delle pietà,
sconveniente, pericolosa, scismatica, favorente lo scisma, ingiuriosa, empia,
blasfema. È molto difficile proporre oggi una interpretazione precisa di
ciascuna di queste note: il loro senso esatto ha potuto infatti evolvere nel
corso del tempo. Alcune di queste note poi sono cadute in disuso:
l' «arsenale» si è così andato semplificando da se stesso. Spesso la medesi-
ma proposizione è fatta oggetto di più censure. L'interesse di queste note
è di marcare delle importanti sfumature nella gravità della proposizione
condannata e di situare con precisione ciò che si oppone veramente alla

3 Cfr. B. NEVEU, L'erreur et son juge. Remarques sur les censures doctrinales à l'époque moderne, Bi·
bliopolis, Naples 1993, cap. III: Ars censoria, pp. 239-381.

158 BERNARD SESBOÙÉ


fede. Il loro pericolo è di voler precisare con una esagerata acribia e in
senso sempre più giuridico il senso di ogni affermazione. In nessuna parte
è menzionata la questione della irreformabilità della condanna. Nel 1745,
lo stesso Benedetto XIV indirizza ai vescovi italiani la prima lettera enci-
clica Vix pervenit, che condanna l'usura.

La crescita dell'idea d'infallibilità


Dapprima la contestazione protestante, poi la contestazione del cristia-
nesimo in nome della ragione, spingono la Chiesa a un irrigidimento e a
una formalizzazione dell'esercizio della sua autorità dottrinale. Sul piano
della fede, essa è impegnata nella riproposizione del principio d'autorità 4 •
La preoccupazione passa dal quod al quo: il principium quod è l'oggetto
della fede, che è norma in se stesso; il principium quo è il magistero che
urge l'affermazione in forza della sua legittima autorità. «Queste decisioni
hanno il valore assoluto di verità che bisogna credere per essere salvi,
perché la Chiesa(= il magistero), che così le definisce, è assistito e infalli-
bile»'. Nello stesso spirito si metterà in risalto la «regola prossima» (regu-
la proxima) della fede, quella che viene dall'autorità magisteriale, a detri-
mento della «regola remota» (regula remota), cioè l'insegnamento della
Scrittura e della tradizione.
Lo stesso movimento contribuirà alla crescita dell'idea dell'infallibilità
del magistero papale, distinto da quello del corpo dei fedeli. Si è vista
l'evoluzione propriamente medievale del tema 6• Nel corso del xv secolo,
in occasione dei conflitti conciliaristi, la questione ritorna a galla e il ter-
mine è applicato, in modo contradditorio secondo le opinioni, ora al con-
cilio ora al papa. La supremazia del papa sul concilio esce vittoriosa da
questo dibattito, fatto che contribuirà allo sviluppo dell'idea di una infal-
libilità propriamente pontificia. Il più grande difensore di questa infallibi-
lità fu Giovanni di Torquemada (morto nel 1468)7:
Era conveniente, scrive, che questa sede [di Roma], destinata per una disposizio-
ne del consiglio divino a essere la maestra nella fede e il vincolo di tutte le Chiesa,
fosse dotata del previlegio eccezionale dell'infallibilità, in ciò che è necessario alla
salvezza degli uomini, da Dio, autore di tutte le cose, la cui prowidenza non s'in-
ganna nelle sue disposizioni 8.

4 Cfr. supra, pp. I46-I47.


' Y. CoNGAR, Lo Tradizione e le trodit.iom: Saggio storico, Paoline, Roma I96I, p. 324.
6 Cfr. supra, pp. 93-94.
1 Cfr. t. Ill, pp. 400-406.
8 G. DE TORQUEMADA, Summa de Ecclesio, Venezia 156I, Il, cap. I09, f 252r; citato da P. DE Voo-
GHT, Enquete sur le mo/ «in/ollibilité' duroni le période scolostique, in: L'in/ollibilité de l'Église, Cheve-
togne I963, p. 137.

IV. DOGMA E TEOLOGIA NEI TEMPI MODERNI 159


La questione però è lontana dal trovare unanimità. Teologi e canonisti
saranno allora indotti a precisare le condizioni di esercizio dell'infallibili-
tà pontificia. «L'acquisizione di quest'epoca fu di collegare chiaramente
l'infallibilità non più, come faceva il Medioevo in modo inlpreciso, alla
sede romana, ma al magistero personale del papa» 9 • La distinzione si chia-
rifica in effetti tra la Chiesa romana (sedes) e la persona del papa (sedens).
Essa darà luogo, più tardi, a un certo numero di dibattiti. Bellarmino in-
sisterà sulla necessità, per il papa, prima di impegnare la sua infallibilità,
di ricorrere ai «mezzi umani», cioè lo studio storico e dottrinale del pro-
blema in questione 10 •
A partire dal XVI secolo, la controversia con i teologi della Riforma verte
sull'infallibilità della Chiesa. Da parte cattolica, questa è considerata come
una delle note della Chiesa. Più tardi, due controversie dottrinali contri-
buiranno, nel XVII e nel XVIII secolo, a rimettere la questione dell'infallibi-
lità pontificia all'ordine del giorno: il giansenismo e il gallicanesimo.
Il giansenismo 11 , legato al pensiero di sant' Agostino, aveva una conce-
zione molto documentaria della tradizione e riteneva che la Scrittura e la
tradizione fossero sufficienti nella riflessione sulla fede. Fu dunque un suo
presupposto quello di sottostimare l'importanza dell'autorità magisteriale
della Chiesa e di considerare una innovazione il posto sempre più grande
che tale autorità andava assumendo. Il giansenismo era ugualmente vicino
alle tesi conciliariste e a quelle gallicane. Nelle proposizioni condannate
nel 1690, si ritroverà quella che gli rimprovera di considerare come «futi-
le» l'affermazione del papa sul concilio e quella dell'infallibilità pontificia,
e quella secondo la quale si può tenere per certa e insegnare una dottrina
chiaramente fondata su sant'Agostino senza darsi pensiero di nessuna
Bolla del pontefice 12 •
Nel 1649, Nicola Cornet aveva redatto, nel quadro della lotta contro
il Giansenismo n, sette proposizioni caratteristiche del movimento, ma
senza referenza all'autore. Nel 1653, il papa Innocenzo X condannò cin-
que di queste proposizioni, attribuendole però formalmente a Gianse-
nio, mentre solo la prima si trovava, a rigore di termini, nell'autore: le
altre quattro erano un riassunto del suo pensiero. Arnauld rispose mo-
strando che il contesto della prima la rendeva ortodossa e che le altre

9 B.D. DuruY, Infallibilité de l'Église, in: Catholidsme, V, (1963) 1555-1556.


lO Questo punto verrà dibattuto al concilio Vaticano I, cfr. infra, pp. 289-290.
11 Cfr. t. II, pp. 316-318.
12 Dz.5 2329-2330; cfr. Y. CONGAR, La Tradizione e le tradizioni ... cit., p. 332; G. TAVARD, La tradi-
tion au XVII' siècle en France et en Angleterre, Cerf, Paris 1969, pp. 79-120. Sul papa, sul re (Luigi XIVJ
e i giansenisti, cfr. P. BLET, Le clergé du Grand Siècle en ses assemblées (1615-1715), Cerf, Paris 1995,
~3M~~- . .
n Dz.5 2001-2007.

160 BERNARD SESBOUÉ


quattro erano conformi al pensiero di sant'Agostino e che «il libro di
Giansenio contiene delle formule [. .. ] assolutamente contrarie alle pro-
posizioni condannate» 14 . Quando il fatto divenne pubblico per l'entrata
in gioco di Pascal e delle sue Provinàali, Roma reagì. Nel 1656, Alessan-
dro VII, nella sua Costituzione Ad sanctam affermava che le cinque pro-
posizioni condannate erano state estratte proprio dall'Augustinus di
Giansenio e che esse erano state condannate proprio nel senso che dava
loro il loro autore (in sensu auctoris) 15 • Arnauld si difese operando la
distinzione tra il diritto e il.fatto: egli aderiva a livello di diritto alla con-
danna dell'eresia contenuta nelle proposizioni; quanto al fatto però rite-
neva che il papa si fosse sbagliato a proposito della presenza di queste
proposizioni nell'Augustinus. Su questo punto egli si impegnava solo per
un «rispettoso silenzio» 16 • Più tardi, Arnauld acconsentì a sottoscrivere
la condanna del formulario, esigita dall'Assemblea del clero francese nel
1661, a condizione che fosse menzionata la distinzione tra fatto e dirit-
to. Dopo diverse fasi, nelle quali la politica di Luigi XIV verso i gianse-
nisti svolse un ruolo importante, la contesa conobbe una relativa calma
alla fine del XVII secolo. In seguito però a una discussione attorno al
seguente caso di coscienza: «Si può dare l'assoluzione a chi sul fatto del
pensiero di Giansenio si accontenta di un "rispettoso silenzio"?», il San-
t'Ufficio ne condannò nel 1703 l'ipotesi. Fénelon intervenne allora af-
fermando che «nella questione di Giansenio, la Chiesa esigeva la fede
divina sul fatto quanto sul diritto, e che questa esigenza era perfetta-
mente legittima, per il fatto che la Chiesa era infallibile non solo a pro-
posito dei dogmi propriamente detti, ma anche sui fatti dogmatici non
rivelati, come ad esempio era il fatto di Giansenio» 17 • Fénelon parlava
tuttavia,_ a questo riguardo, di «fede ecclesiastica», poiché la cosa non
apparteneva alla rivelazione. Egli avrebbe voluto ottenere la definizione
dell'infallibilità della Chiesa sui «fatti dogmatici», utilizzando per que-
sto la nozione di «tradizione vivente», o dell' «insegnamento comune e
corrente» della Chiesa, che fa del magistero ecclesiale la regola della fede
a motivo delle promesse di Gesù Cristo 18 • Clemente XI nel 1705 con-
dannò formalmente il «rispettoso silenzio» sul fatto dogmatico con la

14 L. COGNET, ]a!'sénisme, in: Catholicisme, VI (1967) 320.


15 DzS 2010-2012.
16 Sulla questione disputata tra «di fatto» e «di diritto>>, cfr. lo studio di B. NEVEU, L'e"eur et son
juge... , cap V: Sensus et sententia, cit., pp. 507-746. L'autore si mostra favorevole alla posizione romana e
riservato sull'opposizione tra di diritto e di fatto.
17 L. COGNET, Jansénisme, in: Catholicisme, cit., 326.
18 Y. CoNGAR, La Tradizione e le tradizioni.. ., cit., p. 342. È di qui che l'idea di «tradizione vivente»
passerà nella scuola di Iubinga, sebbene secondo un altro spirito.
19 DzS 2390.

!V. DOGMA E TEOLOGIA NEI TEMPI MODERNI 161


Bolla Vineam Domini 19 • La definizione però dell'infallibilità nel campo
dei fatti dogmatici non fu mai formulata. Il tema della fede ecclesiastica
avrà un seguito e la questione verrà riproposta al Vaticano I2°, dove però
non trovò risposta. Il progettato canone infatti sull'infallibilità della
Chiesa in ciò che è «connesso» con la rivelazione non sarà promulgato.
Sul versante del gallicanesimo 21 ci imbattiamo nella grande figura di
Bossuet. Bossuet parlava di «indefettibilità» della Chiesa «intendendo con
questo che gli errori, se si producevano, non potevano "radicarsi" nella
fede della Chiesa di Roma, ma erano assolutamente passeggeri e persona-
li» 22 • Anch'egli si fondava sulla distinzione tra la Sede (sedes) e colui che
la occupa (sedens). Nel 1682, l'Assemblea del clero di Francia promulgò
quattro articoli redatti da Bossuet; ecco il quarto:
Nelle questioni di fede, le funzioni del sommo pontefice sono privilegiate, e i suoi
decreti riguardano tutte e singole le Chiese; e tuttavia il giudizio non è irreforma-
bile, se non si aggiunge il consenso della Chiesa 23 •

Alessandro VIII dichiarò nel 1690 questi quattro articoli nulli e senza
valore 24 e un secolo più tardi, nel 1794, Pio VI, con la Bolla Auctorem
/idei, condannò dettagliatamente gli articoli del 1682 2\ con delle censure
però spesso inferiori a quella di eresia. La capacità del papa di porre un
giudizio irreformabile, altro termine per t:sprimere l'infallibilità, non può
dipendere dal consensus ulteriore della Chiesa, cioè, in concreto, dal suf-
fragio dei vescovi. Questo testo sarà presente ai redattori della definizione
dell'infallibilità del papa nel 1870 e spiega la famosa formula: <<le defini-
zioni del vescovo di Roma sono irreformabili per se stesse, e non in virtù
del consenso della Chiesa» 26 •
Tutti questi dibattiti concentrano sempre di più l'attenzione sulla
questione dell'infallibilità del papa, che è insegnata e sostenuta da alcu-
ni teologi come il gesuita belga Estrix (1624-1694), risoluto avversario
del giansenismo 27 • Dalla riflessione di principio si passerà anche al di-
scernimento pratico, ricercando il caso in cui un papa aveva potuto
impegnare la sua infallibilità. Si riterrà ad esempio che Innocenzo XI
aveva posto un atto ex cathedra nel 1679, nella condanna delle proposi-

20 Cfr. infra, pp. 296·297.


21 Cfr. t. III, pp. 421-424, l'ecdesiologia del gallicanesimo. Sull'Assemblea del 1682, cfr. P. BLET, Le
e/ergé du Grand Siècle en ses assemblées (1615-1715), cit., pp. 309-324.
2 Y. CoNGAR, GalliCtJnisme in: Oitholidsme, IV, 1536-1537.
2
2J D:tS 2284, secondo il testo censurato da Alessandro VIII.
24 D:tS 2281·2285.
,, D:tS 2700.
26 DzS 3074; cfr. infra, pp. 298.
27 Cfr. R AUBERT, Le probléme de l'acte de foi. Données traditionelles et résultats des controverses ré-
centes, Wamy, Louvain 1945, p. 89.

162 BERNARD SESBOOÉ


zioni della morale lassista 28 • Questo giudizio è curiÒso, poiché le censu-
re inflitte «scandalose e pericolose per la pratica» 29 non comprendono
un giudizio di fede.
La riflessione però sull'infallibilità del magistero non ha fatto dimenti-
care nell'epoca post-tridentina un altro aspetto dell'infallibilità: quella di
tutto il popolo cristiano. Una distinzione viene allora posta tra l'infallibi-
lità di tutto il popolo nella fede (in credendo) e l'infallibilità del magistero
nel suo insegnamento (in docendo). Numerosi grandi teologi, come M.
Cano (quanto al senso, perché non usa il vocabolario dell'infallibilità), R.
Bellarmino, F. Suarez, nel XVI secolo e più tradi J.B. Gonet (1616-1681),
H. Tournely (1658-1729) e Ch. Billuart (1685-1757) nei secoli XVII e xvr-
u}0, fondano la seconda infallibµità sulla prima, di cui è insieme l'espres-
sione e la garanzia. Esse sono solidali l'una con l'altra. Il movimento della
dottrina dell'infallibilità va dunque dalla Chiesa al magistero. Questa di-
stinzione si semplificherà, all'inizio del XVIII secolo, con il vocabolario
dell'«infallibilità passiva» e dell'«infallibilità attiva» (G. Pichler, 1670-
1736), poi con quello della «Chiesa docente» (docens) e della «Chiesa
credente» o «Chiesa discente» (discens) 3'. Fénelon diceva: «L'infallibilità
dei pastori è una infallibilità di decisione, mentre quella del popolo non è
che una infallibilità di intelligenza e di docilità»}2. Queste categorie di-
venteranno comuni in teologia fino ai catechismi del XIX secolo.

2. L'interpretazione teologica del concilio di Trento


Indicazioni bibliografiche: J. GEISELMANN, Das Konzil von Trient iiber das Verhiiltnis der
Heiligen Schrzft und der nicht geschriebenen Traditionen, in: Die miindliche Oberlie/erung, hrsg
von M. Schmaus, Kaiser, Miinchen 1957, pp. 123-232; Y. CoNGAR, La Tradizione e le tradizio-
ni. Saggio storico, Paoline, Roma 1961, pp. 233-270; H. HOLSTEIN, La tradition dans l'Église,
Grasset, Paris 1960; lo., Le «deux sources» de la révélation, RSR, 57 (1969), pp. 375.434.

L'interpretazione ufficiale e giuridica dei testi del concilio di Tren-


to fu affidata da Sisto V alla Congregazione del concilio. L'importanza
però accordata ai testi dogmatici di Trento nell'insegnamento della teo-

28 Ibid., p. 90.
29 D:rS 2166. Sulla.questione di una «lista» di definizioni papali ex cathedra prima dd Vaticano I, cfr.
la sintesi di K. ScHATZ, Piipstliche Unfehlbarkeit und Geschichte in den Diskussiones des Ersten Vatikanu-
ms, in: Dogmengeschichte und katholische Theologie, Echter, Wiirzburg 1985, pp. 186-250.
JO Cfr. G. THILS, L'infallibilité du peuple chrétien «in credendo». Notes de théologie posttridentine,
DDB-Wamy, Paris-Louvain, 1963.
Jl Y. CoNGAR, L'Église de saint Augustin à l'époque moderne, Cerf, Paris 1970, p. 389; ID., Bref histo:
rique des Jormes du «magistère» ... , RSPT, 60 (1976), p. 107.
J2 FÉNELON, Ordonnance et Instruction sur le cas de o:mscience (1702), citato in: Y. CoNGAR, L'Église
de saint Augustin à l'époque moderne, cit., p. 389.

N. DOGMA E TEOLOGIA NEI TEMPI MODERNI 163


logia veicola una giurisprudenza d'interpretazione che può andare al
di là di quello che aveva voluto questo concilio e conoscere delle reali
oscillazioni.

La teologia controversistica
La teologia cattolica è oramai dominata dalla controversia con le diffe-
renti forme di protestantesimo. Le Controversie divengono un genere let-.
terario descritto da Bellarmino 33 e, in Francia, da san Francesco di Sales 34 •
Si hanno anche le Difese della fede cattolica e le «Disputationes» (F. Sua-
rez), le Confutazioni, i Raffronti, le Antitesi, le Risposte e le Repliche alla
risposta e perfino lo Scudo della teologia 35 e la Teologia polemista. I trattati
sistematici sono pervasi del medesimo spirito. Queste opere concentrano
la loro attenzione sui punti contesi con la Riforma: da una parte la Scrit-
tura e le tradizioni e dall'altra la Chiesa e i sacramenti, cioè ciò che con-
cerne la visibilità del corpo ecclesiale e l'autorità che ne assicura la coesio-
ne. Grandi personaggi si sono resi famosi con questo tipo di teologia, che,
nei suoi migliori rappresentanti, va distinta dalla polemica. La problema-
tica dominante però manca di serenità e resta orientata dalla preoccupa-
zione apologetica di mostrare che la Chiesa cattolica è la sola a potersi
vantare della fedeltà apostolica. È in questo contesto che furono interpre-
tati i documenti del concilio di Trento.

L'interpretazione maggioritaria del decreto


sulle Scritture e le tradizioni
Poco tempo dopo il concilio, i controversisti cattolici reintrodussero
nell'interpretazione del decreto Sacrosancta il «partim ... partim ... », elimi-
nato dal concilio e lo considerarono come la sola esegesi legittima. Per
rispondere al «sola Scriptura» della controversia protestante, si affermava
con convinzione «Scrittura e tradizioni>> e ci si fondava su Trento come
sull'autorità clie aveva canonizzato la dottrina delle due fonti della rivela-
zione. La distinzione stabilita dal concilio tra Vangelo, unica fonte, e i suoi
due canali di trasmissione venne dimenticata.
Quanto emerge dalle controversie del XVI secolo lo abbiamo già incon-
trato nella posizione del domenicano M. Cano 36 • La stessa cosa si ritrova
nei controversisti gesuiti: P. Canisio scrive così nel suo catechismo: «Que-

JJ R BELLARMINO, Djjputationes de controversiis, Venezia 1596.


J4 FRANCESCO DI SALES, Les Controverses (1596), in: Oeuvres complètes, IV, Guyot, Paris 1850.
J> J.·B. GoNET, Le bouclier de la théologie thomiste con tre ses nouveaux adversaires, Bordeaux 1659.
J6 Cfr. supra, pp. 148-149.

164 BERNARD SESBOOÉ


ste sono le verità che provengono necessariamente, come da fonti divine,
in parte (partim) dal simbolo di fede, in parte (partim) dalle Scritture» 37 •
Anche Bellarmino conclude con l'insufficienza formale delle Scritture e
con una complementarietà quantitativa della tradizione, pur avendo con-
servato il senso della priorità del Vangelo affermata a Trento:
La Scrittura è una regola di fede non totale, ma parziale. La regola di fede totale
è la Parola di Dio, o la rivelazione fatta alla Chiesa: essa si divide in due regole
parziali, la Scrittura e la Tradizione. Poiché la Scrittura non è regola di fede tota-
le, ma parziale, essa non misura tutto e ci sono degli elementi della fede che non
vi sono contenutP 8•

L'opinione di Bellarmino influirà molto sulla teologia e inciderà nel


diffondere questo punto di vista nell'insegnamento corrente. La polemica
contro il sola Scriptura del Protestantesimo contribuirà a motivare questa
'ìemplificazione dell'insegnamento di Trento, benché questi autori abbia-
no talvolta delle proposizioni più sfumate' 9 • F. Suarez sosterrà anche che
la tradizione costituisce, a fianco della Scrittura, una «regola di fede infal-
libile». Lo stesso dicasi per l'oratoriano Thomassin nel XVII secolo, che
vede nei Padri della Chiesa i testimoni più autorevoli delle tradizioni apo-
stoliche. L'opinione sarà dunque corrente nella Chiesa e la si ritrova nei
primi manuali e dizionari moderni di teologia, come ad esempio nel Dic-
tionnaire de theologie dell'abbé Bergier (1788) 40 •
Questa sarà anche l'opinione, nel XIX secolo, di J. Perrone al collegio
romano - «La rivelazione è stata consegnata in parte nelle Scritture e in
parte trasmessa a viva voce» 41- - , di C. Passaglia e di H. Hiirter 42 , ripresa
nel xx secolo dal cardinal Billot. Essa sarà volgarizzata nelle ·molteplici
edizioni tedesche dei manuali di teologia di C. Pesch. Lo stesso consen-
sus regnerà nei manuali di Saint-Sulpice, in L.-F. Brugère e A. Tanque-
ray43. Questo insegnamento sarà corrente e dominante fino al concilio
Vaticano II, presentandosi, con il passare del tempo, sempre più come
l7 P. CANISIO, Catechismi latini, I, 1, PUG, Roma 1933, p. 91, citato in: H. HoLSTEIN, Le «deux sour·
ces» de la révélation, RSR, 57 (1969), p. 394.
JS R BELLARMINO, La Parola di Dio, IV, 12; in: Opera omnia, Coloniae Agrippinae 1620, I, 209; citato
in: H. HoLSTEIN, Le «deux sources» de la révélation, art. cit., p. 394. .
J9 Secondo J. BEUMER, Die Frage nach Schrift und Tradition bei Robert Bellarmin, in «Scholastik», 34
(1959), pp. 1-22. Si tratterebbe più di posizioni di apologisti che di tesi.
40 Abbé BERGIER, Dictionnaire de théologie, Nllc éd., Outhenin-Chalendre fils, Besançon 1841, IV; art.:
Tradition, 153; cfr. H. HOLSTEIN, Le «deux sources» de la révélation, art. cit., p. 397. Questo dizionario fu
spesso rieditato sotto la Restaurazione, seivendo come base per l'insegnamento nei seminari.
41 H.]. FERRONE, Prélections de theologie. De la vraie religion, Rome 1840, p. 240; cfr. H. HOLSTEIN, Le
«deux sources» de la révélation, art. cit., p. 398.
42 Questi due autori impiegano un'espressione che ritornerà nei dibattiti del concilio Vaticano Il: il
deposito della rivelazione si estende più ampiamente (/atius palet) della Scrittura; cfr. H. HOLSTEIN, Le
«deux sources» de la révélation, art. cit., p. 398.
4J Cfr. H. HoLSTEIN, Le «deux sources» de la révélation, art. cit, p. 399.

IV. DOGMA E TEOLOGIA NEI TEMPI MODERNI 165


appartenente alla «fede divina», fondata sulla doppia testimonianza di
Trento e del Vaticano 144 • Durante tutto questo tempo, «le tradizioni» di
Trento sono progressivamente divenute «la Tradizione» apostolica, una
sorta di luogo astratto, fonte di argomenti teologici. Questa Tradizione ha
perduto la rappresentazione concreta, nai"ve ma limitata, di Trento. Essa
continua però a indicare un contenuto: il termine non ha ancora subito la
sua conversione verso l'atto di trasmissione vivente e globale.

Una controcorrente minoritaria


Questa interpretazione dominante non era tuttavia la sola, poiché si era
mantenuta anche l'altra linea di pensiero. Richard Simon (1638-1722) svi-
luppa l'antica prospettiva di Ireneo: «La Scrittura, nata da una tradizione,
deve essere letta nella tradizione e interpretata secondo la tradizione» 45 •
Anche per Fénelon la tradizione è norma di interpretazione della Bibbia:
È per mezzo di questa parola non scritta nei sacri libri che la Chiesa deve interpre-
tare la parola scritta. Così il senso proprio e autentico del testo delle sacre Scritture
deve essere determinato attraverso il senso proprio, autentico e naturale di questa
parola non scritta nei libri sacri, che la Chiesa non ha smesso di pronunciare per
bocca dei concili, dei papi, dei pastori e dei dottori, fin dai tempi apostolici 46 •

Nel XIX secolo J.A. Mohler e J.H. Newman sono due importanti testi-
moni di questa corrente interpretativa, data la qualità della loro teologia e
l'influenza che essa eserciterà. Così si esprime Mohler:
Coloro che credono che alcuni punti si provano solamente in forza della tradizio-
ne e il resto per mezzo della Scrittura, non hanno capito le cose a fondo. Tutto
quello che noi possediamo l'abbiamo ricevuto e lo conserviamo grazie alla tradi-
z.ione [ ... ] Senza la Sacra Scrittura, considerata come la più antica incarnazione
del Vangelo, la dottrina cristiana non avrebbe potuto conservarsi in tutta la sua
purezza e la sua semplicità [... ] Senza la Sacra Scrittura mancherebbe il primo
anello della catena. Questa sarebbe, senza le Scritture, priva di un inizio e per
questo incomprensibile, confusa, caotica. Al contrario, senza una regolare tradi-
zione, ci mancherebbe il senso profondo delle Scritture, perché senza meinbri
intermedi non potremmo comprendere il legame che le cose hanno tra loro 47 •

Mohler mostra bene la complementarietà qualitativa tra la Scrittura e


la Tradizione: la prima resta necessaria per fondare la nostra conoscen-

• 44 Qu·esta concezione rimarrà presente nel primo schema del Vaticano II sulla rivelazione, cfr. infra,
p. 450.
Cfr. H. HOI.STEIN, Le «deux sources» de la révélation, art. cit., p. 404.
45
46 F. fÉNELON, Oeuvres complètes, Leroux-Gaume, Paris 1850, III, p. 592; citato in: H. HOLSTEIN, Le
«deux sources» de la révélation, are. cit., p. 407.
47 J.H. MOHLER, L'unité dans l'Église ou le principe du catholicisme, Cerf, Paris 1938, pp. 51-52.

166 BERNARD SESBOOÉ


za storica dell'evento del Cristo e della sua proclamazione da parte dei
discepoli, la seconda costituisce il veicolo non meno necessario della sua
trasmissione attraverso il tempo. Dall'idea di tradizione orale Mohler
passa a quella di tradizione «vivente», cioè della fede concretamente
vissuta e proclamata dalla Chiesa nel corso delle età, periodicamente
difesa contro gli attacchi tendenti a snaturarla. Per lui, la questione di
una superiorità dell'una sull'altra non si pone nemmeno, perché Scrittu-
ra e tradizione esistono l'una nell'altra e formano «un tutto indissolubi-
le». Mohler sottolinea allo stesso modo che senza tradizione non avrem-
. mo nemmeno le Scritture. La nozione di tradizione si converte allora in
lui dall'idea di un luogo a quella di un ambito che trasmette il tutto e
offre il senso vivo.
Anche Newman, nel suo Saggio sullo sviluppo del dogma, supera il pa-
rallelismo delle due fonti attraverso la concezione di uno sviluppo vi-
vente e continuo del dato rivelato nella Scrittura attraverso la vita stessa
della Chiesa:
È nella continuità di .una lettura ecclesiale costantemente ripresa che la Scrittura
prende tutto il suo senso e manifesta, per così dire, la sua pienezza e la vera di-
mensione del suo contenuto rivelato 48 •

A proposito del canone 7 sul matrimonio


Nel XVII e nel XVIII secolo numerosi teologi e canonisti si sono attenu-
ti al senso minimale del canone, c;osì come è stato spiegato sopra 49 • Essi
erano coscienti infatti dell'intenzione del concilio di non mirare alla
pratica dei Greci. Nel XIX secolo però, i manuali e le enciclopedie hanno
affermato correntemente che questo canone definiva l'inerranza della
Chiesa in questa materia e dava una definizione irreformabile dell'im-
possibilità assoluta di divorzio in caso d'adulterio. Il punto del canone
consisteva viceversa nel dire che la Chiesa latina non si sbagliava, nei
confronti del Vangelo e della tradizione apostolica, quando prescriveva
questa impossibilità. Al di là del problema, non si tratta qui di una de-
finizione dogmatica nel senso moderno del termine. Questo piccolo
esempio sottolinea il progressivo movimento verso una dogmatizzazio-
ne dei dati conciliari di Trento, nel momento in cui il termine dogma si
andava precisando. I teologi e i canonisti hanno svolto un ruolo impor-
tante in questo movimento, a partire dall'inizio del XIX secolo.

48 H. HoLSTEIN, Le «deux sources» de la révélation, art. cit., p. 409; questa prospettiva si ritroverà in
Storia e dogma di M. Bionde!; cfr, infra, p. 358.
49 Cfr. supra, pp. 142-143.

IV. DOGMA E TEOLOGIA NEl TEMPI MODERNI 167


Una ermeneutica retroattiva
Nel corso del XVIII secolo noi possiamo constatare che il concetto di
dogma si riduce a ciò che appartiene alla rivelazione ed è proposto a que-
sto titolo dalla Chiesa. I canoni di Trento vengono considerati come «de-
finizioni», cosa che era davvero nell'intenzione del concilio, ma nel senso
in cui esso concepiva il termine dogma. Il risultato fu che l'ermeneutica
scolare dei manuali finì per considerare i quasi centoventi canoni dottri-
nali di Trento come altrettante definizioni solenni irreformabili, impe-
gnanti la rivelazione e la fede. Abbiamo visto come le cose non stessero
così. Una «mentalità dogmatica» si apriva così a una «inflazione dogmati-
ca», al servizio della quale Trento divenne un autentico «arsenale».
Il Catechismo romano, detto Catechismo del concilio di Trento, poiché
era stato redatto in ottemperanza a un decreto del concilio, eserciterà fino
al 1900 una grande influenza per la diffusione nella catechesi della teolo-
gia conciliare. Ugualmente, i diversi catechismi utilizzano nella pastorale
la sistematizzazione sviluppata dai manuali di teologia e dagli insegnamen-
ti del magistero 50 • Rispetto al passato la dottrina è sicuramente meglio
esposta ai fedeli, ma la sua presentazione intellettualista poteva anche
restare esteriore e la vita cristiana corrente legata con facilità a rituali ste-
reotipi o a devozioni marginali.

Il. LA FEDE ALLE PRESE CON LA RAGIONE DEI LUMI

Mentre la Chiesa cattolica viveva la sua propria riforma sul piano istitu-
zionale e dottrinale e rinserrava la sua coesione gerarchica, il mondo euro-
peo viveva una evoluzione culturale considerevole, al seguito dei differenti
movimenti del Rinascimento, avviati nel XVI secolo. Le contestazioni pro-
priamente dottrinali della Riforma ebbero in parte la loro origine in una
nuova figura della coscienza. A sua volta, la perdurante scissione religiosa
in Occidente favoriva l'evoluzione della coscienza verso una maggior liber-
tà e verso forme nuove di razionalità. Soprattutto nell'Europa centrale, i
pensatori provenienti dalle Chiese della Riforma contribuivano a un pro-
gresso del tutto nuovo nei differenti settori della vita sociale, politica ed
economica, ma anche e soprattutto nel campo della filosofia e della fede.
Indicazioni· bibliografiche: P. HAzARD, La crise de la conscienze européenne (1680-1715),
Bovin, Paris 1935; J.-L. BRUCH, La phzlosophie religieuse de Kant, Aubier, Paris 1968; A. MA-
THERON, Lè Christ et le salut des ignorants chez Spinoza, Aubier, Paris 1971; S. BRE10N, Spino-

so Cfr.J.-C. Dm'.>TEL, Les origines du catèchisme moderne, Aubier, Paris 1967; E. GERMAlN,]ésus-Christ
dans !es catèchismes, Desclée, Paris 1986.

168 BERNARD SESBOÙÉ


za, théologie et politique, Desclée, Paris 1977; F. MARTY, La naissa11ce de la métaphysique chez
Kant. Une étude sur la notio11 kantienne d'analogie, Beauchesne, Paris 1980; H. D'AvIAU DE
TERNAY, Traces bibliques dans la loi morale chez Kant, Beauchesne, Paris 1980; ID .. La liberté
kantienne. Un impérativ d' exode; Cerf, Paris 1992; J.L. MARJON, Sur la théologie bianche de De-
scartes; PUF, Paris 1981; A.A.Vv., L'Au/klarung dans la théologie, RSR, 72 (1984), pp. 321-449 e
481-568; P. VALLIN, Naissance de l'histoire cntique, in: Les chrétiens et leur histoire, Desclée, Paris
1985, pp. 236-250; H. LAUX, Imagination et religion chez Spinoza: la potentia dans l'histoire, Vrin,
Paris 1993;]. GREISCH, L'age herméneutique de la raison, Cerf, Paris 1995; F. LAPLANCHE, La
Bible en France entre mythe et critique (xvf-XIX' siècles), Albin Miche!, Paris 1994.

1. Un nuovo contesto culturale

L'autonomia della ragione nel XVII secolo


Con Renato Cartesio (1596-1650) ~ 1 la filosofia si sviluppa in modo au-
tonomo nei confronti della teologia. Anche se egli deve molto ai suoi pre-
decessori scolastici, non si può più· accontentare di una filosofia serva della
teologia. A partire di qui Cartesio inaugura in Occidente la grande cor-
rente filosofica dei Tempi moderni. Con i suoi studi in campo matemati-
co e in quello fisico, Cartesio diviene uno degli autori di questa nuova
scienza, nella quale si può vedere il fattore più radicale di questa moder-
nità. Il famoso «penso dunque sono», riproduce la chiarezza e la distin-
zione che offrono, con la loro certezza, le proposizioni matematiche. Que-
sta evidenza segna il punto d'arresto del cammino del «dubbio» metodico.
Cartesio, formato dai gesuiti a La Flèche, è un cristiano cattolico e intende
costruire la sua filosofia a sostegno del cristianesimo. Desta inquietudine
però per la temibile libertà che si prende e tra i gesuiti le opinioni a suo
riguardo si dividono. La condanna di Galileo gli fa rinunciare alla pubblica-
zione di un'opera di fisica riguardante il movimento della terra.
Cartesio vuole fondare in metafisica l'esistenza di Dio, ma lo fa in modo
nuovo. La prova razionale di Dio non è più collocata all'interno del cor-
pus teologico come in san Tommaso. Come già in Suarez, essa appartiene
a un insieme proprio, la cui regola è la ragione, anche se non potrà evitare
i conflitti con la teologia. Inoltre, la prova è considerata come il frutto di
un libero esame. Questo tratto della modernità sarà gravido di conseguen-
ze. L'opera di Cartesio, che riscuote un gran successo mentre è ancora in
vita, metterà: in moto un movimento che non si fermerà più.
Il XVII secolo vede ugualmente nascere una prima forma di ateismo «li-
bertino» e, ancor più, il deismo. Tra gli avversari esplicitamente consi-
derati da B. Pascal nei suoi Pensieri, figurano gli atei del suo tempo e il

n Ringrazio F. Marty per le preziose indicazioni che mi ha donato su Cartesio, Spinoza e Kant.

IV. DOGMA E TEOLOGIA NEI TEMPI MODERNI 169


P. Mersenne ne contava, nella Parigi del 1623, 50.000, senza dubbio esa-
gerando. Pascal ha di mira soprattutto i deisti, che la religione cristiana
aborre quanto gli atei, e accomuna coloro che sono caduti nell'ateismo o
nel deismo 52 • I teisti si fanno gli insolentissimi apostoli di una religione e
di una morale naturale incerta. Pascal pensa anche ai pirroniani 53 , gra~di
lettori dei Saggi di Montaigne, che facevano professione di un sapiente
scetticismo; agli stoici, la cui influenza era considerevole a motivo dei loro
nobili sentimenti e infine agli epicurei. Il XVII secolo vede in effetti il sor-
gere di numerose correnti religiose e filosofiche che si separano dal catto-
licesimo tradizionale.
Il deismo è una «opinione su Dio, che accetta la sua esistenza persona'
le e ammette che il mondo, con le leggi naturali, sia stato da lui creato, ma
nega ogni cooperazione e ogni ulteriore intervento di Dio nella sua crea-
zione (e soprattutto ogni rivelazione soprannaturale)» 54 • Il deismo inse-
gna così una religione filosofica e naturale, che crede nell'esistenza del-
1' «essere supremo» o nel «grande orologiaio del mondo», e nell'immorta-
lità dell'anima, ma respinge ogni rivelazione soprannaturale e ogni prov-
videnza. Esso è già diffuso nell'alta società del XVII secolo, ma la grande
ondata deista dilagherà in Europa a partire dall'Inghilterra, ripercuoten-
dosi in Francia a partire dal 1735 con Voltaire, suo più alto rappresentan-
te, con Diderot e J.J. Rousseau.
Il XVII secolo vede sorgere anche la prima contestazione dell'idea cri-
stiana di rivelazione con Baruch Spinoza (1632-1677), feroce difensore
dell'indipendenza e dell'autonomia tra teologia e filosofia, tra le quali
«non c'è rapporto alcuno né alcuna affinità» 55 • Il tema della rivelazione è
da lui affrontato a partire dalla profezia, dalla parola ricevuta dal profeta
come parola di Dio, da accogliere nella fede. Se è vero, tuttavia, che l'in-
tendimento umano non sarebbe che un modo dell'intendimento divino, è
vero anche che ogni conoscenza, compresa la conoscenza naturale, do-
vrebbe esser detta rivelazione'6• A partire di qui il rapporto tra spinozi-
smo e rivelazione biblica ha potuto essere compreso come una riduzione
razionalista.
Nel medesimo spirito, Spinoza critica la nozione di «popolo eletto» e
di «alleanza storica». Un Dio immanente alla Natura (Deus sive natura)
non può conferire previlegi agli uni a detrimento di altri. Un popolo non
può disporre di fronte agli altri di vantaggi «naturali>>. Per quello che

'2 B. PASCAL, Pensieri, 114, Mondadori, Milano 1982l, p. 137. Nell'edizione Brunschwicg, n. 556.
'' Dal nome di Pirrone, filosofo· greco scettico del 365-275 a. C.
'4 K. RAHNER ·H. VoRGRIMLER, Petit dictionnaire de théologie catholique, Seui!, Paris 1970, p. 115.
5' Cfr. B. SPINOZA, Trattato teologico-politico, XIV, UTET, Torino 1972, pp. 628-629.
56 Ibid., I, pp. 399 e ss.

170 BERNARD SESBOOÉ


concerne ilmiracolo, Spinoza ha il merito di ricusare la impropria defini-
zione che ne farebbe anzitutto una «deroga alle leggi della natura». Per-
ché Dio non può agire contro le leggi naturali, cioè, secondo il pensiero
filosofico, contro la sua propria essenza. Il miracolo però è da lui ridotto
a non essere che un avvenimento di cui non si sa spiegare l'origine. Se un
miracolo della Scrittura «appare» in assoluta contraddizione con le leggi
naturali, bisogna credere che è stato aggiunto al testo da uomini sacrile-
ghi. Il miracolo è in definitiva un problema filosofico che bisogna interro-
gare a partire dalla scienza 57 •
In nome della filosofia, Spinoza rigetta la nozione di «mistero». L'enun-
ciato di un mistero non può essere che una parola di un automa o di un
pappagallo. In effetti, se l'unica facoltà di conoscenza dell'uomo non può
apprendere il mistero, il mistero non è una realtà conosciuta e non è nulla
nello spirito. Un oggetto che non è ricevuto attivamente dallo spirito non
è conoscibile. Ora, tale è il mistero, poiché non è derivato da principi della
ragione. Il termine mistero è dunque vuoto di senso e la rivelazione è
impossibile: Dio stesso non sarebbe compreso, poiché per definizione l'es-
senza del mistero non potrebbe essere compresa. Un'altra lettura si fa stra-
da, tuttavia, a partire dal ruolo dell'immaginazione. È questa che si trova
in gioco nella rivelazione profetica, mentre l'intendimento è la facoltà della
«rivelazione naturale». Ora, l'immaginazione, legata alle impressioni sen-
sibili, non può procedere per «idee adeguate» e resta nella fluttuazione. Il
valore della rivelazione non può che provenire dalla correttezza del suo
insegnamento e dalla rettitudine di vita del profeta. Ne consegue un prin-
cipio di esegesi che precede con un secolo di anticipo l'esegesi moderna.
La Scrittura va letta e va chiarita a partire da se stessa, considerata secon-
do «la sua storia autentica». Le esitazioni sui veri autori, le corruzioni di
testo, i racconti, la maggior parte dei miracoli, fanno sì che molte incer-
tezze e oscurità permangano. L'essenziale di questa rivelazione può tutta-
via essere chiaramente percepito, perché si tratta della presentazione de-
gli attributi imitabili di Dio che sono giustizia e carità. Questo conduce a
un «Credo minimum», le cui sette proposizioni sono l'ossatura speculati-
va della religione 58 •
Questo metodo è detto da Spinoza conforme alla conoscenza della
natura, poiché comincia sempre con lo stabilire i fatti che sono dell'ordi-
ne della Storia» 59 • Questo metodo «naturale» però è anche quello che ri-
spetta la natura del testo biblt"co, e gli consente di esercitare i suoi effetti.

57 Ibid., VI, pp. 486 e ss.


58 Ibid., XIV, pp, 626-629.
59 Ibid., VII, pp. 510 e ss.

IV. DOGMA E TEOLOGIA NEI TEMPI MODERNI 171


Questa natura ne fa una via per la salvezza degli ignoranti. Il suo valore
immaginativo non ha solo il vantaggio di renderla più accessibile, ma la
mette nell'ordine delle passioni, dalle quali, per Spinoza, attinge la politi-
ca. Invece di lasciare le passioni al loro scatenamento, le modera, orien-
tando la condotta verso la giustizia e la carità. Essa opera il passaggio da
una religione di servitù a una religione liberata. Se è vero che il «Credo
minimum» rivelato può essere anche conosciuto con la semplice ragione,
è solo per rivelazione che noi apprendiamo l'esistenza di una via di salvez-
za per gli ignoranti, e questo interessa allo stesso filosofo. Se la rivelazione
può essere finalmente via di salvezza, è in ragione dei due personaggi prin-
cipali: Mosè, che parla con Dio faccia a faccia, e Gesù, che comunica «da
spirito a spirito» (de mente ad mentem), secondo il più alto genere della
conoscenza 60 •
Spinoza pensava che l'immanenza di Dio nella natura fosse una verità
stabilita «more geometrico». Alla luce di questo assioma egli rifiuta rigoro-
samente l'idea di una rivelazione propriamente soprannaturale. Così di-
chiara che l'idea di incarnazione, professata da «certe Chiese», non gli
appariva meno assurda del dire che un cerchio aveva assunto la forma di
un quadrato. Spinoza preferiva l'idea «del figlio eterno di Dio, cioè della
sapienza eterna che si è manifestata in tutte le cose, principalmente nel-
1'anima umana e, più che in ogni altro essere, in Gesù Cristo» 61 • Questa
contestazione levata contro il dogma cristiano non farà che radicalizzarsi
nel XVIII secolo.

Il XVIII secolo, secolo dei Lumi (Aufkliirung)


La fine del XVII secolo è stata segnata da ciò che Paul Hazard ha chia-
mato «la crisi della coscienza europea». La svolta culturale tra il gran se-
colo e quello dei Lumi è cominciata a prodursi più presto di quanto si sia
detto. Le grandi idee del XVIII secolo erano già espresse nel 1680. Questa
crisi della coscienza costituisce la grande tappa culturale tra il Rinascimen-
to e la Rivoluzione francese. L'apparente stabilità fa posto al cambiamen-
to, in particolare nel campo delle idee. Tutte le grandi questioni dell'uo-
mo vengono poste in un clima critico: «La ragione non era più una sa-
pienza equilibrata, ma un'audacia critica» 62 • La propensione verso la fede
cristiana ne subisce fortemente il contraccolpo.
Il XVIII secolo è chiamato il secolo dei Lumi. Esiste una comunicazione
semantica tra l'idea di Aufkliirung, di «chiarimento» e l'idea di «rivelazio-
6() Ibid., I, p. 408.
61 Io.; Epistolario, lettera 73 a Oldenburg, IV.
62 Ibid., VI.

172 BERNARD SESBOÙÉ


ne», che alimenterà il confronto tra la ragione e la fede. La rivelazione
divina si presenta in effetti come l'Aufkliirung dell'uomo, l'autentica illu-
minazione che gli permette di comprendersi nel suo senso ultimo. Da
parte loro, i Lumi proclamano che l'uomo può trovare la verità ultima su
Dio, sul mondo e su se stesso.
I Lumi si definiscono, scrive Kant, come l'uscita dell'uomo dallo stato minorile,
dove rimane per sua propria colpa. La minorilità è l'incapacità dì servirsi del
proprio intendimento senza essere diretti da un altro. Essa è dovuta alla nostra
propria colpa quando proviene non da una mancanza di intendere, ma da una
mancanza di coraggio per servirsene senza essere guidati da un altro. Sapere
aude! Abbi il coraggio di servirti del tuo proprio intendimento. Ecco la divisa
dei Lumi 63.

Questa definizione dei Lumi ha potuto venire intesa come la rivendica-


zione di una autonomia assoluta della ragione nei confronti di ogni forma
di dipendenza. Il primo bersaglio è proprio il magistero ecclesiastico. Kant
sa estenderlo al campo del consulente, dell'insegnante e del medico. Indi-
ca anche , però, il vero bersaglio, cioè i poteri politici, complici quando si
tratta di scuotere il giogo clericale, senza rendersi conto di riprenderne la
medesima logica. Soprattutto, la ragione di cui parla Kant è la ragione
critica, quella cioè che si occupa anzitutto di determinare i limiti dell'eser-
cizio del suo potere. Il carattere troppo illustre. di questa definizione dei
Lumi l'ha fatto dimenticare. Non è a caso che la Chiesa va progressiva-
mente formalizzando il suo proprio concetto di magistero, al fine di op-
porlo a quello della ragion~.

La religione entro i limiti della sola ragione


La filosofia cerca, sempre di più, di costituire la metafisica come
scienza, seguendo in questo la via aperta nel XIII secolo dalla teologia,
specialmente con san Tommaso, che aveva dato a questa la forma di una
scienza, presentata attraverso l'Organon aristotelico. Questo è il punto
di partenza della critica di Emmanuele Kant (1724-1804), che si interro-
ga sui limiti dell'esercizio legittimo della ragione. Se è opportuno riserva-
re il termine conoscere a questo cammino che ha dato la prova del suo
successo nella fisica di Newton, paradigma per Kant della scienza mo-
derna, bisogna dire che la metafisica, con le sue tre questioni tradiziona-
li, l'io, il mondo e Dio, non può costituirsi come scienza. In modo spe-

63 E. !CANT, Réponse à la question: qu'est-ce que le Lumières?, in: Oeuvres philosophiques, II, Pleiade,
Paris 1985, p. 209;

IV. DOGMA E TEOLOGIA NEI TEMPI MODERNI 173


ciale le prove dell'esistenza di Dio non possono soddisfare a queste esi-
genze. Inoltre, bisogna pensare ciò che non si può conoscere. Questo
«pensare» che giunge fino all'incondizionato, ritrova, per esprimersi, i
vecchi sentieri dell'analogia (Critica della ragion pura) 64 • Il terreno è così
preparato per le esigenze della ragion pratica, in cui la libertà si manife-
sta come chiave di volta di tutto l'edificio critico (Critica della ragion
pratica) 65 • L'agire morale, per essere compreso integralmente, «postula»
l'immortalità dell'anima e l'esistenza di Dio, che sono oggetti di una
<efede della ragione», precisazione questa troppo spesso dimenticata
quando si vogliono opporre in Kant fede e ragione. A partire di qui Kant
elabora la sua nozione di religione, che consiste nel ritenere tutti i nostri
doveri (rispondenti all'imperativo categorico) come altrettanti coman-
damenti divini 66 •
A questo punto sono possibili due interpretazioni. La prima, che ha
avuto la sua influenza maggiore, considera la posizione di Kant come
una riduzione razionalista della religione alla morale (in questa stessa
linea, il titolo dell'opera del 1793, La religione entro i limiti della sola
ragione, va intesa come l'enunciazione del solo concetto possibile di re-
ligione); la seconda, che segue un cammino inverso, ritiene che non si
rispetti gran che la legge morale fintanto che non la si riconosce come
un comandamento divino. Se Kant ritiene fermamente che l'obbligazio-
ne morale si presenta nella sua assolutezza, senza aver bisogno di fonda-
mento teologico - così come l'ateo non può difendersi dietro il suo atei-
smo per sottrarsi alla legge morale -, la potenza di trasformazione del
soggetto e del suo mondo, inscritto nella libertà, non può divenire realtà
se non a condizione che Dio porta a compimento ciò che è sempre im-
perfetto attraverso una specie di «giustificazione forense» 67 • In questa
prospettiva, la Critica del giudizio arriverà a parlare di «prova morale»
dell'esistenza di Dio 68 •
Quanto a La relz'gione nei limiti della sola ragione essa fa parte del
compito critico che esplora i limiti della ragione umana. Tre punti pos-
sono essere tenuti presenti. Il primo è il male radicale nella natura uma-
na, che ha scandalizzato i sostenitori dei Lumi, poiché riprende la dot~
trina del peccato originale, dicendo che l'umanità storica si trova presa
nella scelta di un male che gli è divenuto come naturale. Il secondo con-
cerne il Cristo, da considerare come il tipo dell'uomo gradito a Dio, sia

64 E. KANT, Cn'tique de la raison pure, Pleiade I, pp. 1285-1289.


65 Io., Critique de la raison pratique, Pleiade II, p. 610.
66 Ibid., p. 765.
67 Ibid., p. 759.
68 Io., Critique de la /aculté de juger, Pleiade. li, pp. 1253s.

17 4 BERNARD SESBOÙÉ
per la sapienza del suo insegnamento, sia per la santità della sua vita,
manifestata specialmente nella sua passione. Il terzo concerne la Chiesa,
chiamata in causa per una sorta di riproposta della problematica del
male radicale, dal momento che l'individuo vive in società. Occorre che
la legge della società sia come tale legge di libertà, ciò che non si può
dare se essa si costituisce sotto un legislatore che può imporre una legge
di libertà senza contraddirvi, vale a dire come popolo di Dio sotto una
legislazione morale, che è una Chiesa 69 •
Tutto questo non ha valore che «da un punto di vista pratico», a
nome di questo pensiero di cui è portatrice una libertà. Kant però inter-
dice l'assicurazione dogmatica, fondata su una qualche deduzione spe-
culativa. La sua posizione critica, sospettosa di ogni costruzione teorica,
raggiungeva facilmente i lettori che gli rimproveravano l'esclusione di
qualsiasi teologia.
L'opera di Kant pone dei problemi a una religione che si dice «rivela-
ta» e il cui funzionamento comprende un ricorso all'autorità. Kant ha già
incontrato questi problemi nel protestantesimo in cui era nato. Da parte
cattolica, verranno prese in considerazione soprattutto le questioni della
conoscenza di Dio e della rivelazione detta «soprannaturale». Queste
questioni sono «fondamentali» nel senso che condizionano alla base l'edi-
ficio dottrinale cristiano e guideranno oramai l'orientamento della teolo-
gia cattolica ·e la nascita dell'apologetica classica.
La filosofia dei Lumi però non si limita a Kant. Altri filosofi vanno
citati, sia tedeschi che francesi, sebbene a un livello speculativo più bas-
so, come Voltaire e Rousst;au o, in Inghilterra, gli empiristi, Hume o lo
stesso Newton. Ciò che è stato detto è comunque sufficiente per mo-
strare davanti a quale tipo di contestazione viene oramai a trovarsi il
discorso cattolico della fede, il quale, in un primo tempo, sarà molto più
sensibile alla parte negativa piuttosto che alla dimensione nuova delle
questioni poste.

Dai lumi alla morte di Dio (XIX secolo)


Il XVIII secolo sfocia nella Rivoluzione francese, nel corso della quale
si cristallizzano tutte le rivendicazioni del tempo, in particolare quella
della libertà, la cui ideologia dominerà i dibattiti intellettuali del XIX se-
colo. Si sa con quale fermezza la Chiesa di quest'epoca reagirà e si op-
porrà a quella che reputerà una ideologia rovinosa per la religione e la
società, perfino atea.

69 ID., La religion dans le limites de la simple raison, Pleiade III, pp. 119-121.

IV. DOGMA E TEOLOGIA NEI TEMPI MODERNI 175


L'ateismo, rimasto nel XVIII secolo come oscurato dal deismo, si farà in-
vece sempre più virulento nel corso del XIX secolo. Nel momento in cui un
secolo trapassa nell'altro, un celebre testo di Gian Paolo Richter, conosdu-
to in Francia grazie alla traduzione di Mme de Stael, fa annunciare al Cristo
la morte di Dio. L'autore sogna di trovarsi in un cimitero, testimone di una
danza di <<livide ombre» che, levatesi dai loro sepolcri, invadono la chiesa
vicina in una atmosfera apocalittica. Il Cristo appare allora ai morti:
Allora discese dalle alte sedi sull'altare una figura raggiante, nobile, elevata, che
portava l'impronta di una imperitura grandezza; i morti gridarono: O Cristo! Non
c'è traccia di Dio? Egli rispose: Non ce n'è alcuna. [ ... ] Ho percorso i mondi, mi
sono levato al di sopra del sole e anche là non c'è traccia di Dio; sono disceso finu
alle ultime estremità della terra, ho scrutato nell'abisso e mi sono detto: Padre,
dove sei? Ma non ho inteso che la pioggia che cadeva goccia a goccia nell'abisso
e solo m'ha risposto l'eterna tempesta, che nessun ordine regola. Elevando allora
il mio sguardo verso la volta celeste non ho trovato che un'orbita vuota, nera e
senza fondo 70 •

Nella bocca di Richter, si tratta di un incubo e di una vertigine. Lungo


il XIX secolo, lateismo diventerà una nuova professione di fede e troverà
un incremento a partire da coloro che verranno chiamati, nel xx secolo, i
maestri del sospetto: Marx, Nietzsche e Freud (certamente insieme ad
altri). I pensatori atei hanno un tratto comune: per loro l'idea di Dio non
è che una proiezione in un mondo assoluto e ideale dei valori che l'uomo
cerca·e che non può realizzare nella sua vita. Per sostenere la propria esi-
stenza, l'uomo si è alienato davanti a un Dio che si è fabbricato. Si tratta
dunque di liberare l'uomo dalla sua illusione e di insegnargli a non fare
affidamento che su se stesso per costruire il proprio mondo. Nella bocca
di Nietzsche questo sarà una proclamazione gioiosa, una sorta di Vangelo
dei tempi moderni. In questa nuova contestazione, l'apologetica cristiana,
sempre costruita come una risposta al deismo, arriverà con grande ritardo
e non si renderà conto che nel XX secolo della posta messa in gioco dal-
1' ateismo nella cultura contemporanea.
Nel passaggio dal XVIII al XIX secolo notiamo infine il fenomeno di una
prima «storicizzazione della ragione», alla quale conducono la rilettura
della Rivoluzione francese secondo il Kant della terza critica ed Hegel
(mentre la ragione dei lumi era a-storica, come il dogma stesso). Hegel
eserciterà da parte sua una grande influenza sulla teologia del XIX secolo,
in particolare a partire dalle due scuole di Tubinga, e anche, fino al Vati-
cano I, per il suo concetto di autorivelazione.

70 G.P. RrCHTER, Siebenklis (1795), <<Primo brano floreale», tradotto in francese da Mme de Stael, in:
De l'Allemagne, II, Flammarion, sd, p. 71.

17 6 BERNARD SESBOOÉ
2. Scienze teologiche
e apologetiche nei Tempi moderni
Indicazioni bibliografiche: R. LATOURELLE, L'uomo e i suoi problemi alla luce di Cristo,
Cittadella, Assisi 1982; H. BourLLARD, Vérité du christianisme, DDB, Paris 1989, pp. 131-147;
F. LAPLANCHE, L'évidence du Dieu chrétien. Religion, culture et société dans l'apologétique pro-
testante de la France classique (1576-1670), Fac. de Th.ie protestante, Strasbourg 1983.

Lo scarto tra questa evoluzione culturale e la matrice degli interventi


dogmatici nella Chiesa post-tridentina è notevole. Bisognerà attendere
infatti il XIX secolo perché le questioni provenienti dalla modernità siano
effettivamente prese in considerazione da parte del magistero. Durante la
stessa epoca però la teologia non si accontenta di sviluppare i suoi trattati
classici e di polemizzare con il protestantesimo. Essa intraprende due svol-
te, gravide di conseguenze per la successiva considerazione dogmatica: la
svolta «scientifica» e quella «apologetica».

«Esegesi>> e teologia positiva


La svolta «scientifica» è un secondo ritorno alla teologia come scienza,
dopo quella del XIII secolo. Il concetto però di scienza ha cambiato senso:
esso non mira più alla conoscenza metafisica a partire dalle cause, ma si
apre alle scienze positive e in particolare alla filologia e alla storia. Nel
XVII secolo, la lectio della Scrittura, cioè la sua spiegazione dottrinale, co-
mincia con Richard Simon a prendere in considerazione i problemi stori-
co-critici, divenendo progressivamente «esegesi» nel senso moderno del
termine. Senza dubbio questo processo sarà lungo e non sarà ammesso
che lentamente nell'insegnamento delle Facoltà e nei seminari cattolici.
Esso porterà, alla fine del XIX secolo e all'inizio del xx, a dei violenti di-
battiti, dall'enciclica Providentissimus alla crisi modernista 71 • Il processo
però è irrevocabilmente in moto.
Contemporaneamente si assiste anche allo sviluppo della teologia
positiva, il cui concetto era già presente nel XVI secolo 72 • Anch'essa si
fa erudizione e ricerca storico-critica. Fu il caso questo dell'opera del
gesuita Denis Petau (1583-1652, la cui influenza si eserciterà fino alla
scuola di Tubinga, a Newman e alla scuola romana); di Luis Le Nain
de Tillemont {1637-1698), con i suoi quindici volumi delle sue Memorie
per servire alla storia ecclesiastica dei primi sei secoli 13; dell'oratoriano

71 Cfr. infra, pp. 309-325 e 348-370.


72 La teologia positiva è menzionata, con la teologia scolastica, da Ignazio di Loyola nei suoi Esercizi
spirituali, 11• regola per sentire con la Chiesa (n. 363).
7l Apparsi tra il l693 e il 1712.

lV. DOGMA E TEOLOGIA NEI TEMPI MODERNI 177


Louis Thomassin (1619-1695), con i suoi Dogmi teologici; del benedet-
tino Jean Mabillon (1632-1707), gran collezionatore di manoscritti, per
non citare che i nomi più famosi. I benedettini maurini del xvn e XVIII
secolo realizzarono delle grandi edizioni critiche dei Padri della Chiesa,
in particolare di sant' Agostino; edizioni che in certi casi fanno testo
ancor oggi. La loro erudizione filologica fu impressionante. Nell'in-
segnamento, le argomentazioni storiche assumono sempre maggio-
re importanza. I gesuiti discutono sulla corretta interpretazione di
Agostino e fanno riferimento ai Padri greci. La mentalità critica però
condusse anche allo scetticismo (Pierre Bayle, 1647-1706) o al pas-
saggio da una erudizione al criticismo impenitente, come nel caso deì
gesuita Hardouin (1646-1729) 74 • Questo sviluppo della teologia positiva
compie un primo passo di distanza dall'insegnamento classico della
scolastica ed è all'origine, alla fine del XIX secolo, della disciplina della
Storia dei dogmi. Esso porterà un giorno alla questione dottrinale dello
«sviluppo dei dogmi».

L'apologetica dei Pensieri di Pascal


La seconda svolta, quella che concerne la nascita dell'apologetica, rap-
presenta la prima reazione dottrinale alle questioni poste dalla nuova au-
tonomia della ragione. Questa apologetica conferisce un ruolo importan-
te alle questioni delle prove di Dio e della rivelazione. In questo ambito
vale la pena lasciare a Pascal lo spazio che gli è dovuto.
I Pensieri, pubblicati nel 1670, non sono un manuale per la scuola, ma
una grande opera incompiuta, che si distingue non solo per la sua qualità
letteraria, ma ancor più per la sua originalità e i suoi aspetti del tutto .
moderni: essa parte infatti dall'uomo, dal suo mistero e dal suo desiderio
di felicità. In questo senso quest'opera è una antropologia. Pascal tenta di
«decriptare» la condizione umana. La sua opera è costruita sul paradosso
dell'uomo: miseria-grandezza, finito-infinito, tempo-eternità, carne-spiri-
to, paradosso che prende senso nel Cristo, senza che l'uomo resti indeci-
frabile a se stesso:
Conosci dunque, superbo, quale paradosso sei a te stesso. Umiliati, ragione impo-
tente; taci, natura imbecille: imparate che l'uomo eccede infinitamente l'uomo e
apprendete dal vostro Signore la vostra effettiva condizione, che ignorate. Ascol-
tate Iddio 75 •

74 Le questioni fatte emergere dalla critica storica condurranno anche al fideismo e alla tendenza di
affidare infine tutto al magistero.
75 B. PASCAL, Pensieri, 456, cit. p. 291. Nell'edizione Brunschwicg, n. 434. M. Bionde! svilupperà al-
cune intuizioni di Pascal.

178 BERNARD SESBOÙÉ


Questa apologia si rivolge a tutto l'uomo: alla sua ragione, ma anche al
suo cuore e fa appello alla conversione del cuore, cioè alla libertà, cosl
come alla grazia. Essa pratica già un certo «metodo d'immanenza», che
sarà quello proprio di Blondel: far prendere coscienza all'uomo che il suo
desiderio è insieme necessario e irrealizzabile. L'autore si guarda bene dal
cadere in una piatta razionalità e nella «derisione agli occhi degli infede-
li». La sua è una apologia dei segni più che delle prove, che non pretende
dare la dimostrazione della verità del cristianesimo all'esterno del suo
contenuto. L'opera è infine animata da un grande senso della fede e sa far
desiderare il cristianesimo.

Genealogia dell'apologetica classica


L'apologetica classica dei Tempi moderni è nata verso la fine del XVI
secolo e intende difendere la fede cristiana da quelle contestazioni che gli
vengono mosse dalla nascente modernità, contestazioni che nel tempo si
faranno sempre più radicali. Protestanti e cattolici, solidamente installati
in una teologia controversistica che li oppone, ritrovano qui una sorta di
fronte comune nel cammino apologetico che li oppone agli «increduli»,
principalmente ai deisti, contro i quali è essenzialmente diretto il loro sfor-
zo apologetico. I loro trattati «sulla vera religione» si ispirano e riprodu-
cono lo stesso impianto fondamentale.
fl primo trattato è quello del protestante Ugo Grotius: La verità della
religione cristiana, del 1627 76 , prototipo degli ulteriori trattati. Grotius
prova l'esistenza di Dio, la sua provvidenza e l'immortalità dell'anima; poi
mostra che Gesù Cristo è l'inviato di Dio, che ha fondato la vera religio-
ne; infine definisce l'autorità o la veracità dei libri del Nuovo Testamento.
Egli non giustifica però la religione naturale e non impiega la parola «ri-
velazione».
]acques Abbadie (protestante francese) pubblica nel 1684, a Rotterdam,
il Trattato della verità della religione cristiana, molto apprezzato da Ma-
dam di Sévigné. Quest'opera sarà più diffusa, nel XVIII secolo, dei Pensieri
di Pascal. Dopo le prove dell'esistenza di Dio, l'autore «stabilisce la verità
e la necessità della religione contro coloro che si chiamano deisti» 77 • Ab-
badie prova così la necessità di una religione naturale che ci fornisca una
prima conoscenza di Dio oltre il senso dell'obbligo morale. Dato però che

76 U. GROTIUS, La verità della religione cristiana, trad. fr. in: Démonstrations évangéliques, Migne II,
Paris 1843, 993-1122. In questo paragrafo seguo il contributo di H. BoUILLARD, Vérité du christianisme,
DDB, Paris 1989, pp. 131-147.
77 Traité de la vérité de la religion chrétienne (senza nome dell'autore), Rotterdam 1684, 1• parte,
pp. 152-228.

IV. DOGMA E TEOLOGIA NEI TEMPI MODERNI 179


questa religione naturale si è corrotta nel paganesimo, lautore stabilisce
«la necessità di una rivelazione ulteriore rispetto a quella della natura».
Egli scorge questa rivelazione nella legge di Mosè, che conduce a ricono-
scere in Gesù il Messia promesso. La religione cristiana è dunque la vera
religione. Questo sistema concettuale perdurerà per lungo tempo:
Esso consiste, scrive H. Bouillard, nell'accogliere (correggendola quando necessi-
ta) l'idea di «religione naturale» sostenuta dai deisti, nel mostrare successivamen-
te la necessità di una «rivelazione ulteriore rispetto a quella della natura», nello
stabilire infine che la religione cristiana ci dona questa «rivelazione» 78 .

I trattati apologetici che seguiranno riprenderanno sempre la sfida pro-


veniente dai deisti: Samuel Clarke (pastore anglicano unitariano), nei suoi
sermoni 79 tenuti a san Paolo di Londra nel 1704-1705, adotta il piano di
Abbadie. Si ritrova il medesimo schema a Parigi, da parte cattolica, con
Luc-]oseph Hookeso, autore di origine irlandese, la cui opera si compone
di tre tomi: 1. il primo tratta della religione naturale, cioè «dell'insieme di
tutti i doveri verso Dio, verso se stessi e verso gli altri uomini, così come
possono essere scoperti e dedotti dalla ragione» 81 • Hooke propone una
teologia naturale e alcuni elementi di etica, quindi espone contro i deisti
la possibilità, l'utilità e la necessità di una rivelazione, riconoscibile grazie
ai miracoli e alle profezie. 2. Il secondo tomo stabilisce «l'origine e la
natura divina della religione giudaica e cristiana». 3. Il terzo infine tratta
della Chiesa e dei principi della fede cattolica. Quest'opera costituisce <<la
prima somma cattolica sul tema della rivelazione» 82 •
Nel cammino di questa evoluzione, la prova dell'esistenza di Dio, della
sua prowidenza e dell'immortalità dell'anima è estrapolata dall'insieme
teologico per essere destinata ai trattati di filosofia. Due manuali seguono .
questo metodo (I. Neubauer e L. Bailly) 83 e un terzo all'inizio del XIX se-
colo, di F .L.B. Liebermann 84 • Questa strutturazione dell'apologetica si
perpetuerà fin verso il 1940.
Se si cerca di giudicarla in se stessa, questa apologetica classica è se-
gnata, secondo H. Bouillard, da tre tratti principali: anzitutto è diretta

78 H.BOUILl.ARD, Vérité du christianisme, cit., p. 135.


79 S. CLARKE, Discorsi concernenti/' essere e gli attributi di Dio, gli obblighi della religione naturale, la
verità e la certezza della religione cristiana, trad. fr. in: Démonstrations évangéliques, cit., V, 947-1037 e
1069-1283.
SO L.]. HooKE, Principi della religione naturale e rivelata (in latino), Paris 1754.
81 Ibid., 2• ed., 1774, I, p. 1; cfr. H. BomLLARD, Vérité du christianisme, cit., p. 137.
82 H. BoU!LLARD, ibid.
83 Il primo nel t. II della Teologia di Wiirzburg e il secondo nel Trattato della vera religione adattato
all'uso degli studenti in teologia (redatto in latino}, Dijon 1771.
84 F.L.B. LIEBERMANN, Instructions théologiques, Mayence 1819, che avrà una grande diffusione nei
seminari.

180 BERNARD SESBOUÉ


contro il deismo, del quale si dimentica che è un risultato o un residuo
laicizzato del cristianesimo. In secondo luogo pratica la separazione tra
senso e fatto (ad eccezione di Pascal), ritenendo che sia possibile stabilire
il fatto della rivelazione indipendentemente dal suo senso e darne la pro-
va con argomenti esterni. Essa non si preoccupa di mostrare che la rivela-
zione di Dio ha un rapporto con le attese profonde dell'umanità e l'intel-
ligibilità del messaggio cristiano non interviene nella sua giustificazione.
Questa problematica è legata al dualismo del sistema della «natura pura»
e dell' «ordine soprannaturale sovraggiunto». Si inscrive infine in una pro-
spettiva «autoritaria» della fede, che si impone «a causa dell'autorità di
Dio che si rivela».

L'apologetica romantica
Il romanticismo, sotto le sue differenti forme, reagisce contro l'intel-
lettualismo del secolo dei Lumi, ritenuto inaridente. Nel campo del-
1' apologetica letteraria interviene Chateaubriand con il suo Genio del cri-
stianesimo 85, il cui titolo primitivo ne indica bene il contenuto: «Le bel-
lezze poetiche e morali della religione cristiana e la sua superiorità su
tutti gli altri culti della terra». È una apologetica del sentimento, una
«poetica del cristianesimo» e una «teologia estetica» che reagisce contro
la filosofia di Voltaire, vuol mettere in valore il sentimento religioso e
«colpire al cuore». In questo l'opera segnala un aspetto mancante del-
l'apologetica classica 86 • Il libro però, che ebbe un grande successo al suo
tempo, argomenta poco. .
Sul piano propriamente teologico, la scuola di Tubinga, nella prima
metà del XIX secolo, opera un reale rinnovamento, con l'originale libro di
Jean-Sébastien Drey (1777-1853) 87 • Drey accetta lo schema classico, ma
integra i dati della critica kantiana e dell'idealismo tedesco e contesta la
concezione corrente che separa naturalismo e soprannaturalismo. Egli ri-
conosce d'altronde che l'apologetica non è ancora chiarificata da un con-
cetto di sé che sia comunemente definito e universalmente riconosciuto 88 •
Lo sviluppo dell'apologetica classica costituisce anzitutto una reazione
della teologia in quanto tale e non entra ancora nel campo del dogma.
Questi temi però danno l'indicazione delle preoccupazioni dottrinali ora-

85 F.R DE CHATEAUBRIAND, Il genio del cnstianesimo, 1802.


86 Cfr. il giudizio di H. URS VoN BALTHASAR, Gloria. Una estetica teologica, I: LA percezione della for-
ma, Jaka Book, Milano 1975, pp. 78-81.
87 J.-S. DREY, L'Apologétique comme démonstration scientifique de la divinité du christianisme en son
apparition, 3 voi., Mayence, 1838-1847.
88 H. BornLLARD, Vérité du christianisme, cit., pp. 142 e 152.

IV. DOGMA E TEOLOGIA NEI TEMPI MODERNI 181


mai all'ordine del giorno, che attraverseranno il XIX secolo per divenire
oggetto di decisioni dogmatiche al concilio Vaticano I. Tra esse: la prova
razionale dell'esistenza di Dio in quanto tale, che è giudicata necessaria ai
preamboli della fede; il problema della razionalità della rivelazione di Dio
agli uomini e infine quello della legittimità antropologica dell'atto di fede
Ritorniamo brevemente su questi argomenti per il periodo che ci interessa.

3. Teologia naturale e rivelazione soprannaturale


Indicazioni bibliografiche: E, SCHILLEBEECKX, Révélation et théologie, Cep, Bruxelles 1965;
R. LATOURELLE, Teologia della Rivelazione, Cittadella, Assisi 1967; H. WALDENFELS, O/fenba-
rung, Kaiser, Miinchen 1969; AA.Vv., La révélation, Fac. Univ. St. Louis, Bruxelles 1977; P.
EICHER, O/fenbarung. Prinzip neuzeitlicher Theologie, Kaiser, Miinchen 1977; W. KASPER, Le
Dieu des chrétiens, Cerf, Paris 1985; J. GREISCH, La philosophie de la religion devant le fati
chrétien, in: AA.Vv., lntroduction à l'étude de la théologie, I, Desclée, Paris 1991, pp. 243-514;
J. DORÉ, La révélation, in: AA.VV., lntroduction à l'étudede la théologie, II, Desdée, Paris 1992,
pp. 285-337.

Dopo Anselmo, la preoccupazione di proporre delle prove dell'esistenza


di Dio si era già fatta presente nella scolastica medievale. Questa riflessione
però era integrata in un progetto propriamente teologico e tali prove si tro-
vavano nel trattato su «Dio uno», che comportava tutti gli elementi della
rivelazione biblica, prima di proporre il mistero trinitario. Queste prove
erano anche una eredità della filosofia greca, in particolare di Aristotele e
non erano l'espressione di un dubbio culturale sull'esistenza di Dio.
Con la Riforma, le cose cambiano: nella loro diffidenza verso le possi-
bilità della ragione peccatrice dell'uomo, i Riformatori rimettono in causa
la capacità di conoscere Dio con le proprie risorse, al di fuori di una rive-
lazione cristiana. Gli uomini fanno di Dio un idolo e una costruzione del
desiderio umano. Se l'ortodossia protestante del XVII secolo conserva in
una certa misura la teologia naturale, fino alla filosofia dei Lumi, il XVIII
secolo opera un ulteriore svolta. Sensibili agli interrogativi e alle obiezioni
fatte da questa filosofia, molti autori protestanti vi vedranno una confer-
ma dell'intuizione dei primi Riformatori e si consegneranno a una critica
radicale della teologia naturale. Questo punto resterà, fino ai nostri gior-
ni, un luogo di dibattito tra teologi cattolici e protestanti.
Da parte cattolica, in nome della distinzione tra la «natura» e il «so-
prannaturale», che non possono opporsi l'una all'altro si intende con-
servare un posto alla teologia del dato naturale, al fianco della teologia
del dato rivelato. Tuttavia, ci si lascerà discretamente influenzare dalla
contestazione, per operare una separazione tra i due ordini. Da· una

182 BERNARD SESBOOÉ


parte si dimenticherà che la rivelazione trinitaria rinnova radicalmente
la conoscenza naturale di Dio e, dall'altra, si faranno concessioni al dei-
smo 89 • Questa separazione, attestata sempre di più nella distinzione dei
trattati e delle discipline, non resta certamente senza conseguenze, fino
ai nostri giorni, per quanto riguarda l'evoluzione del problema di Dio in
Occidente.
Il fatto della rivelazione di Dio agli uomini non era mai stato, fino ad
allora, rimesso in causa. D'altronde, la nozione stessa di rivelazione non
appariva prima nella riflessione: si parlava piuttosto di «Vangelo di Gesù
Cristo», dell' «economia della salvezza» e della «Parola di Dio». Lo stesso
concilio di Trento, nel decreto Sacrosancta, parla del Vangelo. Il Vaticano I
invece sostituirà nella sua stessa citazione di Trento il termine Vangelo con
quello di rivelazione 90 • Per la prima volta questa parola entrerà nel vocabo-
lario del magistero, come il risultato dell'itinerario precedente, che aveva
fatto del concetto di rivelazione un punto focale della riflessione teologica.
In effetti, in reazione alla negazione culturale di ogni conoscenza «so-
prannaturale», la teologia dei Tempi moderni mise sempre di più in risal-
to proprio la nozione di «rivelazione soprannaturale». Essa intendeva
stabilire la possibilità della rivelazione, mostrando che non «ripugna» alla
ragione, tanto dalla parte di Dio che da quella dell'uomo. La teologia dei
Tempi moderni ne sottolineava anzi la necessità, da una parte a motivo
del carattere inaccessibile all'uomo dei misteri propria.mente soprannatu-
rali e divini e, dall'altra, a motivo del peccato dell'uomo. Essa mostrava
successivamente le forme della sua trasmissione nelle Scritture e nella tra-
dizione della Chiesa.
Lo schema classico, assunto dalla scolastica dell'epoca, distingueva tre
momenti: 1. Prima del peccato, Adamo aveva ricevuto una rivelazione
primitiva naturale e soprannaturale. 2. Con il peccato, la primitiva rivela-
zione soprannaturale, benché non scomparsa e restando potenzialmente
attiva nei popoli, declina, mentre la rivelazione naturale rimane invisibil-
mente presente nella precomprensione della coscienza. Queste due forme
di rivelazione si esprimono visibilmente nella storia delle religioni, ma
restano oscurate dal peccato. 3. Con l'Antico e il Nuovo Testamento, la
rivelazione propriamente soprannaturale riprende il suo corso e giunge
alla sua pienezza in Gesù Cristo. Tale .rivelazione è conservata dalla Chie-
sa. Questo schema contribuisce a porre la distinzione astratta tra natura e
soprannatura, come due regimi esistenziali concreti.

89 Cfr. la tesi di W. KASPER, Le Dieu des chrétiens, Cerf, Paris 1985, p. 7, secondo la quale <<la risposta
alla questione moderna di Dio e alla situazione dell'ateismo moderno non può essere che il Dio di Gesù
Cristo, cioè la confessione trinitaria».
90 Cfr. infra, p. 251.

N. DOGMA E TEOLOGIA NEI TEMPI MODERNI 183


4. La dottrina dell'atto di fede
Indicazioni bibliografiche: R. AUBERT, Le probléme de l'acte de fai. Données traditionel!es et
résultats des controverses récentes, Warny, Louvain 1945; E. HoCEDEZ, Histoire de la théologie
au XIX' siècle, 3 voi., Éd. Univers-DDB, Bruxelles-Paris, 1947, 1952, 1949; L. FoUCHER, La
philosophie catholique en France au XIX' siècle avànt la renaissance thomiste et dans son rappo;;
avec elle (1800-1880), Vrin, Paris 1955; P. PoUPARD, ]ournal romain de l'abbé Louis Bautain
(1838), Ed. di storia e letteratura, Roma 1964; E. HEGEL, Georg Hermes: 150 ]ahre Rheinische,
Fr. Wilhelms-Univ. zu Bonn, 1968, pp. 13-25.; K.H. MINZ, Pleroma Trinitatis. Die Trinitat-
stheologie bei Matthias Joseph Scheeben, Lang, Frankfurt 1982, pp. 219-258 [consacrate a
Giinther].

Il concilio di Trento aveva affrontato il tema dell'atto di fede nel qua-


dro della giustificazione 91 e l'aveva preso in considerazione non sotto
l'aspetto del suo contenuto (jides quae), ma nella prospettiva dei suoi
atti (jides qua) prima della giustificazione e quindi della sua virtù a giu-
stificazione avvenuta. L'aspetto soggettivo della fede era già l'oggetto di
una considerazione nuova, tanto più che, davanti a certe affermazioni
luterane, il concilio si pronunciò sul delicato problema della «certezza
della fede» 92 • ·

La svolta verso la soggettività della fede non era però ancora totalmen-
te compiuta. La natura antropologica dell'atto di fede infatti non era an-
cora oggetto di analisi. La svolta avverrà dal XVII al xrx secolo, in un con-
testo di opposizione tra fede e ragione. La teologia dovrà giustificare ra-
zionalmente un atto di fede avente la pretesa di rivolgersi a quanto supera
i dati della ragione. D'altra parte, l'atto di fede si scontra con la doppia
affermazione, apparentemente antinomica, del suo essere contemporane-
amente certo e libero.

Tesi lassiste sull'atto di fede


Nel 1679, il papa Innocenzo condannò come lassiste 65 proposizioni
che i teologi di Lovanio avevano denunciato a Roma contro i loro avver-
sari probabilisti (francescani e gesuiti). Fra queste, 4 riguardano l'atto
di fede:
4. L'infedele che non crede, guidato dall'opinione meno probabile, è scusato dal-
]' infedeltà.
19. La volontà non può far sl che l'assenso di fede sia più fermo in se stesso di
quanto non meriti il peso delle argomentazioni che spingono all'assenso.
20. Per questo uno può prudentemente ripudiare l'assenso soprannaturale che
aveva.

91 Cfr. t. II, pp. 299-309.


92 Cfr. t. II, 309-312.

184 BERNARD SESBOUÉ


21. L'assenso di fede, soprannaturale é utile per la salvezza, si fonda su di una
conoscenza soltanto probabile della rivelazione, unita per di più al timore con cui
si teme che Dio non abbia parlato 93 •

La prima tesi, la cui interpretazione è controversa, sembra aver di


mira la proposizione secondo la quale un infedele non è tenuto alla sua
conversione fintanto che la religione o la confessione alla quale appar-
tiene sembrano conservare ai suoi occhi una piccola probabilità. Questa
condanna ha di mira un probabilismo esasperato che si riconduce alla
semplice scusa 94 •
Le altre tre proposizioni formano un tutt'uno e provengono dalla teo-
logia del gesuita Estrix. Quest'ultimo distingue nell'atto di fede la «cer-
tezza materiale», che dipende dall'habitus soprannaturale di fede e supera
l'ordine della coscienza, e la «certezza formale», che dipende dal modo
con cui si aderisce agli argomenti presentati in favore della fede. Egli ritie-
ne che non sarebbe «ragionevole» dare a questi argomenti più assenso di
quanto non meritino nei confronti della ragione. Di conseguenza, distin-
guendo tra la fermezza esterna dell'atto di fede che viene dalla volontà e
la fermezza interna che è proporzionata alle ragioni, Estrix intravvedeva
dei casi di figure complicate: un cattolico in buona fede potrebbe dubita-
re del suo parroco, sulla parola del quale crede, in funzione del suo modo
di vita, protestante ad esempio; potrebbe avere anche dei dubbi reali su
quel certo dato di fede, al punto d'essere spinto legittimamente a passare
all'eresia. Allo stesso modo, un «eretico» potrebbe restare in buona fede
nella sua confessione. La proposizione 20 fa pensare che questi casi pos-
sano essere stati correnti, mentre di fatto ha di mira un cattolico che vive
in ambiente protestante. La proposizione 21 suppone la legittimità di
dubbi in favore dell'eresia. Essa mette in questione il fatto che Dio abbia
potuto rivelare questa o quella affermazione. La generalizzazione della
proposizione però gli fa dire che un cattolico può arrivare a dubitare le-
gittimamente del carattere rivelato dell'insieme del dogma cattolico 95 •
Al di là della sottigliezza casistica, di cui quell'epoca si compiaceva, si
va disegnando una evoluzione della problematica concernente l'atto di
fede. Anzitutto, l'orizzonte di questa riflessione è una cristianità chiara-
mente divisa, nella quale le confessioni cristiane disunite si trovano da-
vanti ai credenti come in competizione. Questo pluralismo cristiano però
si trova legato a una evoluzione della coscienza che fa riflettere sempre di
più sull'atto di fede come atto umano e giustificabile allo sguardo della

93 DzS 2103, 2119-2121.


94 Cfr. R AUBERT, Le probléme de l'acte de foi... , cit., pp. 92·93.
95 Cfr. ibid., pp. 93-101.

IV. DOGMA E TEOLOGIA NEI TEMPI MODERNI 185


ragione. Da cui l'emergenza di questioni concernenti i motivi di credibili-
tà e la certezza soggettiva della fede, al livello in cui questi punti si deci-
dono al tribunale della ragione. Correlativamente, è posta una pericolosa
separazione tra l'aspetto umano e razionale e l'aspetto soprannaturale
della fede, a detrimento dell'unità concreta del credente e del ruolo che
svolge la sua attitudine spirituale nel modo di soppesare gli argomenti.
Il XVIII secolo non farà che esarcebare le difficoltà concernenti il carat-
tere soprannaturale della fede. Come sempre, la contestazione razionale
proveniente dalla cultura si interiorizza nella riflessione cristiana. Così
all'inizio del XIX secolo, si opporranno tra loro due tendenze: alcuni teo-
logi sottolineeranno il carattere razionale della fede, mentre altri, un po'
sfiduciati della ragione, si faranno gli apostoli del fideismo, sotto forma di
tradizionalismo. La relativa documentazione appartiene a uno dei dibatti-
ti dottrinali più importanti di questo secolo e condizionerà le posizioni
prese nel Vaticano I.

Il razionalismo d'Hermes
Sul primo versante troviamo Georg Hermes (1775-1831), Anton Giin-
ther (1783-1871) eJakob Froschammer (1821-1893). G. Hermes, profes-
sore di dogmatica a Miinster e quindi a Bonn, vuol giustificare la fede di
fronte alla ragione. Egli lo fa in uno spirito influenzato da Kant, che di-
stingue la ragione teorica e la ragione pratica. Da una parte, la fede deve
poter imporsi in virtù di una necessità razionale cogente. La ragione teo-
rica può imporre di ritenere per vere le verità metafisiche, come l'esisten-
za di Dio, ma per le verità che superano le capacità dell'evidenza intrinse-
ca della ragione, la ragione pratica svolgerà questa funzione in nome del
dovere morale, come accade per la certezza storica. Si tratta allora di una
certezza pratica, che rispetta la libertà. Nei due casi, la necessità razionale
è assoluta, sia che queste verità siano conosciute per ragionamento che
per rivelazione, ma nel secondo questa necessità è solamente d'ordine
morale. Tale è quella che vale per la fede nella rivelazione cristiana, che è
«uno stato di certezza e di persuasione in rapporto alla verità della cosa
conosciuta, stato al quale siamo condotti attraverso l'assenso necessario
della ragione teorica o attraverso il consenso necessario della ragio"ne pra-
tica» 96 • Ogni dubbio si trova escluso. L'autorità di Dio che si rivela è in tal
modo relativizzato come un motivo di credibilità tra altri. Hermes esalta
anche, per l'accesso a una fede totalmente ragionevole, la messa in club-

96 G. HERMES, Philosophischer Einleitung indie christ-catho/ische Theologie, p. 261; citato in: R. Au-
BERT,Le prob/éme de l'acte de foi ... , cit., p. 105.

186 BERNARD SESBOÙÉ


bio sistematica delle loro credenze da parte di coloro che sono nati catto-
lici, al fine di poter scoprire gli argomenti razionali che si impongono in
modo cogente. Quest'atto di fede è una attitudine filosofica anteriore a
ogni grazia, che interviene nell'attitudine della volontà che segue alla co-
noscenza: è la fede viva, la fede del cuore libero e soprannaturale. La fede
teologale è dell'ordine della condotta pratica. Una conoscenza non è un
effetto della grazia.
Nel 1833 Roma fece esaminare le opere di Hermes da una commis-
sione di esperti, i quali reagirono alla sua metodologia (l'esaltazione del
dubbio metodico) e alla sua teoria della fede, che sembrava eliminare la
sua dimensione libera e soprannaturale. Gregorio XVI, con il Breve
Dum acerbissimas condannò severamente e massicciamente le tesi di
Hermes sulla natura della fede e la regola dei credenti, sulla rivelazione
e il magistero della Chiesa, sui motivi di credibilità e la necessità della
grazia 97 • Le opere di Hermes vennero poste all'indice. Il Breve condan-
nò specialmente la via del «dubbio positivo come fondamento di ogni
ricerca teologica» e il principio che «la ragione è norma primaria e l'uni-
co mezzo con il quale l'uomo può conseguire la conoscenza delle verità
soprannaturali» 98 • Questa condanna ebbe una considerevole risonanza
in Germania, dove la teologia di Hermes godeva di numerosi sostenito-
ri. L'ombra del pensiero di Hermes peserà sulle deliberazioni del conci-
lio Vaticano I.
L'enciclica Qui pluribus di Pio IX interviene ancora, nel 1846, prima di
molti altri documenti, contro i razionalisti cristiani. Essa afferma che non
può esservi opposizione reale ira la- fede e la ragione, «perché tutte e due
provengono dall'unica e medesima fonte immutabile della verità, Dio ot-
timo massimo, e così si danno reciproco aiuto» 99 • Condanna inoltre ogni
sforzo di ricondurre la fede alla ragione, mentre «la nostra santissima re-
ligione non è stata inventata dalla ragione umana ma rivelata agli uomini
dalla grande clemenza di Dio» 100 • Il ruolo della ragione è che «studi atten-
tamente il fatto della rivelazione divina, per esser sicura che Dio ha parla-
to e per rendergli "ossequio secondo ragione" (Rm 12, l)», perché è con-
forme a questa «ammettere, attaccandovisi saldamente, quelle cose che
siano state constatate come rivelate da Dio, che non può essere ingannato
né ingannare» 101 • La ragione umana è in grado di riconoscere gli argomenti

91 DzS 2739.
98 DzS 273 8. Rimane aperta la questione di sapere se i censori romani abbiano ben compreso la docu·
mentazione relativa a Hermes.
99 DzS 2776.
100 DzS 2777.
10 1 DxS 2778.

IV. DOGMA E TEOLOGIA NEI TEMPI MODERNI 187


luminosi e del tutto certi mostranti che Dio è l'autore della nostra fede e
di rendergli l'ossequio della fede, liberi da ogni dubbio 102 •
I redattori del testo vanno molto lontano nell'affermazione di una pro-
va certa del fatto della rivelazione, così che taluni hermesiani riterranno
che questo testo ritornava sulla èondanna di Gregorio XVI. Poiché non si
fa questione del ruolo della grazia, il papa non si pronuncia sul fatto se
l'uso della ragione naturale alle prese con i preamboli della fede si eserciti
con o senza la grazia.
Nella prospettiva di Hermes, anche Giinther intendeva riconciliare tra
loro fede e ragione e voleva ricostruire, sulla base dell'idealismo tedesco,
l'organicità del mistero cristiano. Egli voleva dimostrare scientificamente
le verità che vi erano contenute e farne un sistema di valore filosofico. La
fede conservava tuttavia un ruolo: «È per mezzo della fede che noi perce-
piamo la realtà di queste verità, di cui la ragione dimostra la necessità» 103 •
In altre parole, il fatto della rivelazione è una realtà storica, oggetto di fede,
ma il suo contenuto diviene oggetto di scienza necessaria. Egli rimette così
in causa il concetto di rivelazione soprannaturale, poiché l'uomo può ar-
rivare per mezzo della sua ragione alla comprensione dei misteri.
Il pensiero di Giinther provocò in Germania entusiasmo e contraddi-
zione. Le sue opere furono messe all'indice nel 1857 e Giinther si sotto-
mise. Pio IX però tenne a recensire i suoi errori in un Breve indirizzato
all'arcivescovo di Colonia 104 • Froschammer, che propose una forma un
poco differente di razionalismo, fu anche lui condannato da Pio IX nel
1862 10' e quindi indicato nel Syllabus'06 • Froschammer rivendicava una
autonomia totale della filosofia in rapporto all'autorità religiosa e inten-
deva penetrare i misteri rivelati come l'oggetto proprio della ragione, ri-
mettendo così in causa la sp<tcificità del soprannaturale.

Il fideismo di Bautain
Sul secondo versante, incontriamo Louis-Eugène Bautain ( 1796-1867)
e Augustin Bonnetty (1798-1879). Bautain, professore a Strasburgo, era
tradizionalista, ma anche ontologista 107 , e reagiva contro il razionalismo

102 Cfr. DzS 2779-2780.


lOJ E. HocEDEZ, Hirtoire de la théo{ogie au X1X' riècle, II, Éd. Univers/DDB, Bruxelles/Paris, 1952,
p. 42.
104 DzS 2828-2831.
'°' Pio IX, Lettera Gravirrimar inter all'arcivescovo di Monaco, DzS 2850-2861.
106 DzS 2908-2914.
107 «Dottrina [... ] secondo la quale ogni conoscenza umana spirituale ha il fondamento necessario
della sua possibilità in una visione immediata (benché informulabile) dell'essere divino assoluto in se stes-
so». In: K. RAHNER . H. VoRGRIMLER, Petit dictionnaire ... , cit., p. 326. L'ontologismo fu condannato dal
Sant'Ufficio nd 1861, DzS 2841-2847.

188 BERNARD SESBOÙÉ


del XVIII secolo. Alla ragione umana, il cui uso è sempre soggetto a cauzio-
ne in materia di verità, Bautain opponeva la tradizione, cioè la trasmissio-
ne della parola di Dio attraverso vie esterne e storiche. A questa trasmis-
sione esterna corrisponde nell'anima l'azione di grazie, una intuizione e
un gusto che ne fanno cogliere la verità. La fede nelle verità così trasmes-
se dalla testimonianza umana, ma non evidenti in se stesse all'occhio della
ragione, diventeranno evidenti quando saranno state sentite nella luce e
nella grazia di Dio. Bautain poteva rivolgersi in tal modo all'incredulo:
prendete sul serio la rivelazione, cercate di provarne la verità e vi convin-
cerete da voi stessi di questa verità. Lasciatevi fare dal senso divino che è
in voi l'opera della grazia.
Rispondendo a sei questioni che gli aveva posto il suo vescovo, Bau-
tain affermava: 1. Il solo ragionamento non può dare la certezza dell'esi-
stenza del Dio creatore. 2. A proposito della fede nella rivelazione giu-
deo-cristiana, bisogna distinguere il fatto storico di questa tradizione e
la sua «verità divina» riconosciuta come oggetto di fede, come tutto ciò
che è divino. 3. Gli argomenti basati sui miracoli del Cristo non hanno
valore di prova che per i fedeli, ma non possono da soli convincere gli
increduli. 4. La stessa cosa vale per la risurrezione, che resta per gli in-
creduli una testimonianza umana e che non può essere recepita senza la
grazia e la preghiera. 5. Se la ragione precede in un senso la fede, poiché
consente di comprendere il messaggio trasmesso, al contrario, il ragio-
namento non può determinare la convinzione senza l'intervento di un
principio che non si dimostra. 6. Senza dubbio l'uomo decaduto ha
ancora la capacità di ricevere la grazia e di accogliere la luce divina, ma
non può, con le sue proprie forze, raggiungere la certezza dell'esistenza
di Dio e della rivelazione.
Il suo vescovo, preoccupato della minaccia che le risposte di Bautain
facevano pesare sull'ortodossia, fece sottoscrivere a questi, per due vol-
te (nel 1835 e nel 1840), sei proposizioni, che riprendevano in sostanza
il senso delle sue questioni. La seconda versione delle proposizioni com-
portava semplicemente qualche nuova sfumatura 108 • Un po' più tardi, nel
1844, Roma gli fece sottoscrivere quattro promesse: 1. «non insegnare
mai che con la sola ragione [. .. ] non si possa dare una vera dimostrazio-
ne dell'esistenza di Dio; 2. che «non si possa dimostrare la spiritualità e
l'immortalità dell'anima od ogni altra verità puramente naturale, razio-
nale o morale»; 3. che «non si possa avere la scienza dei principi o della

108 D:i:S 2751·2756. Le tesi del 1840 modificano leggermente quelle del 1835. Il termine solo a propo·
sito del ragionamenti per provare l'esistenza di Dio è stato tolto.

ìV. DOGMA E TEOLOGIA NEI TEMPI MODERNI 189


metafisica»; 4. che la ragione non possa acquisire una vera e piena cer-
tezza dei motivi di credibilità» 109 • Queste proposizioni sono meno co-
strittive di quelle del vescovo di Strasburgo 110 •
Sulla scia di Bautain, anche Bonnetty, fondatore degli Annales de phi-
losophie chrétienne sosteneva un tradizionalismo molto diffidente della
ragione. Egli fu attaccato dal gesuita Chastel, che l'accusava di relegare
la fede nell'ambito del sentimento. Bonnetty non fu condannato da
Roma, ma dovette sottoscrivere quattro proposizioni che, in tre casi, ri-
guardavano la dottrina dell'atto di fede: 1. Non c'è alcuna opposizione
tra la ragione e la fede, perché esse provengono dall'unico Dio, sorgente
di ogni verità, e si sostengono vicendevolmente; 2. Il ragionamento può
provare con certezza l'esistenza di Dio, la spiritualità dell'anima e la li-
bertà dell'uomo; 3. L'uso della ragione precede quello della fede e vi
conduce l'uomo con l'aiuto della rivelazione e della grazia. Le ultime
due proposizioni si ispirano a quelle sottoscritte da Bautain. Esse resta-
no aperte a interpretazioni sfumate.
Il razionalismo (o, più esattamente, il semi-razionalismo) e il fideismo
saranno condannati al concilio Vaticano I. Quanto alla questione dell'ana-
lisi dell'atto di fede (analysis /idei), questa rimarrà l'oggetto di ricerche e
di dibattiti fino ai primi decepni 111 del xx secolo.

III. EVOLUZIONE DEI CONCETTI DOGMATICI


E NASCITA DEL «MAGISTERO» MODERNO
NEL XIX SECOLO

1. Dogma, encicliche e magistero


InJicazioni bibliografiche: L. CHOUPIN, Valeur der décirionr doctrinaler et dirciplinairer du
Saint-Siège. Syllabur; Index; Saint Office; Galilée; Congrégationr romainer. L'inquirition au
Moyen Age, Beauchesne, Paris 1928';}. BEUMER, Die Regula Fidei Catholicae der Ph. N. Chri-
rmann o/m und ihre Kritik durch]. Kleutgen rj, in <<Franz. Stud.», 46 (1964), pp. 321-334; W.
KASPER, Il dogma rotto la parola di Dio, Queriniana, Brescia 1968; Y. CoNGAR,'Pour une hirtoi-
re rémantique du terme «Magirten"um», RSPT, 60 (1976), pp. 85-95; ID., Bre/ hirtorique der
/ormer du «megirtère» e der relationr avec ler docteurr, RSPT, 60 (1976), pp. 99-112; AA.Vv.,
Le magirtère. Inrtitution et fonctionnement, RSR, 71 (1983), pp. 5-308; B. SESBOO~. La notion
de magirtère danr l'hirtoire de l'Églire et de la théologie, in «L'année canonique», 31 (1988),
pp. 55-94; A. DuLLES, Modelr o/ Revelation, Maryknoll, New York 1992'; AA.Vv., Dogma,
LThK, 1995', pp. 283-288.

109 DzS 2765-2768.


110 Che riprende, tre volte su quattro, il termine sola.
111 Cfr. i celebri articoli di P. RoussELOT, Les yeux de lafoi, RSR, 1 (1910), pp. 241-259 e 444-475.

190 BERNARD SESBOÙÉ


La nuova definizione di «dogma»
Nel xvr secolo, il Commonitorium di Vincenzo di Lerino conobbe 35
riedizioni e 22 traduzioni. L'opuscolo divenne la base dell'argomento di
tradizione nella controversia protestante. «In dipendenza dalla formula
del monaco di Lérin si rimandò a ciò che nella Chiesa "dovunque, sem-
pre, da tutti è stato creduto" (Comm. 3), si elevò questa "universale e
antica fede" (18) a "dogma divino, celeste, ecclesiastico" (22 ecc.) e lo si
contrappose alle innovazioni, al "dogma nuovo" (9)» 112 •
I primi testimoni dell'uso del termine dogma in senso moderno e ri-
stretto, che sarà quello proprio del Vaticano I, sono il francese François
Véron (1578-1649) e l'inglese Henry Holden (1596-1662) 113 • Questi auto-
ri non sembrano al momento fare scuola. La stessa definizione si trova nel
francescano Filippo Neri Chrismann (1751-1810) 114 • Confrontiamo le due
definizioni, di Véron e di Chrismann:
Véron: È di fede cattolica tutto e solamente quello che è rivelato nella parola di
Dio e proposto a tutti dalla Chiesa cattolica; questo deve essere ritenuto di fede
divina 115 •
Chrismann, 1792: Un dogma di fede non è nient'altro che una dottrina e una
verità divinamente rivelate, dottrina e verità che il giudizio pubblico della Chiesa
propone a credere di fede divina, in modo tale che il loro contrario è condannato
dalla stessa Chiesa come dottrina eretica 116 .

Quest'ultima formula fu tacciata di «minimalismo» e l'edizione del-


l'opera di Chrismann nel 1854 fu messa all'indice, non solo per la sottoe-
stimazione che questa definizione comportava nei confronti della «fede
ecclesiastica», ma anche in ragione del gallicanesimo dell'autore. In que-
sta concezione la fede «soprannaturale» è opposta alla forma «naturale»
di conoscenza, che ha la sua fonte nella ragione.
«Ciò nonostante nel sec XIX il concetto di dogma qui formulato diven-
ne sorprendentemente patrimonio comune della teologia cattolica e fu
ripreso quasi alla lettera dal Vaticano l» 117 • Progressivamente diffusa in
teologia nel XVIII secolo, questa definizione entrò nel vocabolario ufficiale
della Chiesa nel XIX secolo. Il carattere tardivo della definizione attuale

l12 W. KASPER, Il dogma sotto la parola di Dio, cit., p. 43.


!13 Cfr. J. LE BRUN, L'institution dans la théologie de Henry Holden (1596-1662), RSR, 71 (1983), PP·
191-202.
l l 4 Cfr. P. FRANSEN, A shorl History of the meaning of the Formula «fides et mores», in: Hermeneutics
of the Councils and o/ber Studies, University Press-Uitgenerij Peeters, Leuven 1985, p. 310, che modifica
l'opinione di W. Kasper, il quale vede in Ph.N. Chrismann il primo testimone in questo senso.
rn F. VÉRON, De la règle de la fai catholique, Louvain 1721, citato in: P. FRANSEN, ibid., p. 310.
116 PH.N. CHRISMANN, La regola della fede cattolica, Kempten 1792; cfr.: W. KASPER, Il 4ogma sotto la
parola di Dio, cit., pp. 43-44.
m Ibid., p. 44.

IV. DOGMA E TEOLOGIA NEI TEMPI MODERNI 191


del termine dogma rende ragione di un dato sorprendente per i cattolici
di oggi: non esiste una lista ufficiale dei dogmi che la Chiesa impone in
nome della fede. E questo malgrado una concezione sempre più giuridica
del dogma, come ciò che è stato definito come tale dall'autorità legittima
del magistero, lui stesso istituito per diritto divino.

L'emergere del concetto di «magistero»


Il termine magistero, utilizzato per esprimere la funzione gerarchica
della fede nella Chiesa, non data che alla fine del XVIII secolo 118 • Esso è
stato successivamente introdotto dai canonisti tedeschi dell'inizio del XIX
secolo, per i quali il «potere magisteriale» si inscrive nella distinzione tri-
partita che comprende il «potere di ordine» e il «potere di giurisdizione».
Questo termine designa «un corpo gerarchico designabile» 119 , che eserci·
ta per missione la funzione di insegnare nella Chiesa e che possiede l' au-
torità per determinare ciò che appartiene alla fede: è il «magistero vivo».
Sebbene la realtà designata con queste parole sia più antica e veniva
espressa in altro modo, l'emergere di un vocabolario nuovo non resta mai
una cosa neutra. Il termine corrisponde a una figura nuova dell'esercizio
del «magistero».
Il XIX secolo accentua la svolta. «La sede apostolica di Roma, prima
dell'epoca moderna, non ha mai esercitato il magistero attivo delle defini-
zioni dommatiche e della formulazione costante della dottrina cattolica,
come poi ha fatto dopo il pontifieato di Gregorio XVI e soprattutto da
quello di Pio IX. Nell'antichità cristiana, essa agiva piuttosto come supre-
ma autorità giudiziaria in una Chiesa nella quale le assemblee dei vescovi
formulavano abitualmente le regole di vita; poi, nel medioevo, agì come
moderatrice e giudice sovrana della cristianità [... ] Le questioni dottri.pali
erano dapprima trattate e maturate, e poi risolte, con un riferimento im-
mediato alla Scrittura e a delle serie di testi patristici, conciliari o canoni-
ci: insomma, con una specie di magistero della tradizione stessa» 120 •
Il XIX secolo formalizza la funzione del magistero. Il termine entra con
il suo nuovo senso nel linguaggio ufficiale nel 1835: «La Chiesa dispone,
dice Gregorio XVI, per istituzione divina, di un potere [. .. ] di magistero,
per insegnare e definire ciò che concerne la fede e i costumi e interpretare
le Sacre Scritture senza alcun pericolo d'errore». Nel Breve diretto contro

118 Il primo uso del termine «Ecclesiae magisterium» si troverebbe in Martin Gerbert, abate di Saint-
Blaise. Comincia a compiersi qui il passaggio da «funzione di insegnamento con autorità nella Chiesa» a
quello di «corpo gerarchico». Cfr. Y. CoNGAR, Pour une histoire sémantique du terme «Magisterium»,
RSPT, 60 (1976), p. 94.
119 Y. CONGAR, ibid.; mi ispiro qui a questo grande teologo, che costituisce una autorità in materia.
120 Y. CoNGAR, La Tradizione e le tradizioni... , cic., pp. 318·319.

192 BERNARD SESBOUÉ


Hermes, il papa gli rimprovera di avere delle opinioni estranee alla dottri-
na cattolica «in particolare quelle che toccano la natura della fede, la re-
gola delle cose da credere, la tradizione, la rivelazione e il magistero della
Chiesa» 121 • Pio IX dirà da parte sua nel 1849:
Non ci si può rivoltare contro la fede cattolica senza rifiutare nel medesimo tem-
po l'autorità della Chiesa romana, nella quale risiede un «/idei irreformabile magi-
sterium», fondato sulla divina rivelazione e nel quale, per questo motivo, la tradi-
zione che viene dagli apostoli è sempre stata conservata 122 •

Pio IX riprende l'espressione nella lettera Tuas Libenter all'arcivescovo


di Monaco (1863), accusando Dollinger di aver mancato all'«obbedienza
dovuta al magistero della Chiesa» 123 e «al magistero ordinario di tutta la
Chiesa diffusa sulla terra» 124 • L'espressione si ritrova nel Vaticano I e i
papi fino ai nostri giorni l'impiegano correntemente. Il legame tra dogma
e magistero si afferma sempre di più.
La rivoluzione francese, col suo impatto sull'evoluzione delle idee in
Europa, avrà delle conseguenze anche sul funzionamento del magistero nel
XIX secolo. La Chiesa si difende contro numerose tesi «moderne», sia nel
campo propriamente dogmatico (lo si è visto con le tesi di Bautain nel 1835,
di Giinther nel 1857, degli «ontologisti nel 1861, di Froschammer nel 1862),
ma anche e soprattutto contro le idee liberali diffuse nella società.

La nascita delle encicliche


Indicazioni bibliografiche: P. NAu, Ùne source doctrinale: !es Encycliques. Essai sur !'auto-
rité de leur einsegnement, Paris 1952 (ripresa di una serie di articoli apparsi in: La Pensée ca-
tholique); P.A. L1ÉGÉ, Encyclique, in: Catholicisme, IV (1956), pp. 114-116; AA.Vv., Dictionnai-
re historique de la papauté, Fayard, Paris 1994, pp. 610-613.

L'emergere del termine magistero è accompagnato fin dall'inizio dal-


la comparsa di un nuovo genere letterario dottrinale, quello dell' encicli-
ca. Attraverso le lettere encicliche, la Sede di Roma consegna oramai un
insegnamento continuo. Questo genere letterario era stato anticipato nel
XVIII secolo da Benedetto XIV, che aveva dato a diverse sue lettere il
nome di encicliche, sebbene queste non fossero indirizzate a tutti i ve-
scovi. Gregorio XVI, nel 1832, inaugura con la Mz'rari vos la lunga serie
delle encicliche moderne. È in una enciclica che questo stesso papa in-

.12 1 GREGORIO XVI, enciclica indirizzata al clero della Svizzera; cfr. Y. CONGAR, Pour une histoire sé-
mantique.. ., art. cit., p. 95.
122 Pro IX, Enciclica Nostis et nobiscum, 1849; Y. CoNGAR, ibid.
123 D:i:S2875. .
124 D:i:S 2879; cfr. Y. CoNGAR, ibid. .

IV. DOGMA E TEOLOGIA NEI TEMPI MODERNI 193


troduce il termine magistero, nel 1835. L'enciclica è ampiamente utiliz-
zata da Pio IX per il periodo che ci interessa, fino alla Quanta Cura
(1864), che accompagnava il Syllabus con un insieme di proposizioni
condannate.
Etimologicamente, il termine designa una lettera circolare inviata da un
patriarca o da un metropolita ai suoi vescovi suffraganei. Il patriarca d'Oc-
cidente ne scriveva, come i suoi confratelli. L'enciclica, che diviene un
appellativo «controllato», riservato a un atto specifico del papa, è ormai
la forma più ufficiale con la quale il vescovo di Roma insegna ai suoi fra-
telli nell'episcopato. Si conoscono i dibattiti suscitati dalle encicliche di
Pio IX e la portata delle grandi encicliche dei suoi successori in materia
sociale. L'enciclica rimane fino a oggi l'espressione privilegiata del magi-
stero pontificio. Lo sviluppo però di questo genere letterario finirà per
porre anche dei difficili problemi circa l'interpretazione dell'autorità che
gli è propria.

Dalla tradizione al magistero


Indicazioni bibliografiche: Y. CONGAR, La Tradizione e le tradizioni, Paoline, Roma 1961;
H. HOLSTEIN, La tradition dans l'Église, Grasset, Paris 1960;J. BEUMER, La tradt'tion orale, Cerf,
Paris 1967; J. PELIKAN, La tradition chrétienne, V: Doctrine chrétienne et culture moderne de-
puis 1700, PUF, Paris 1994, pp. 225-278.

La crescita della funzione di un «magistero vivo», incaricato di di-


scernere l'insegnamento della fede a partire dalla Scrittura e dalla tradi-
zione, condurrà alcuni ambienti teologici a far slittare il senso di questa
tradizione verso l'esercizio del magistero attraverso il tempo. Quello che
era considerato come monumento della tradizione viene allora assunto,
in maniera retroattiva, come l'espressione del magistero. I moderni ve-
dono il magistero intervenire là dove gli antichi vedevano l'espressione
della testimonianza della fede. Nell'espressione «regola di fede», il geni-
tivo, da oggettivo che era, diventa soggettivo. La «regola di fede» mo-
derna esprime ciò che l'autorità decide a proposito della fede 125 • Questo
passaggio dalla tradizione al magistero non è fatto dal concilio di Tren-
to, che sottolinea fortemente le referenze che gli sono normative: il Sim-
bolo, le Scritture e le tradizioni. Lutero, da parte sua, scriveva al suo
corrispondente Prierias: «Non so che cosa tu voglia dire chiamando la
Chiesa romana regola della fede» 126 • I teologi post-tridentini operano

m Cfr. Y. CONGAR, LA Tradizione e le tradizioni... , cit., pp. 317-319. Per quello che segue mi ispiro al
capitolo qui citato.
126 LUTERO, WA I, p. 662; citato in: Y. CONGAR, LA .Tradizione e le tradizioni... , cit., p. 329.

194 BERNARD SESBOÙÉ


però il «passaggiò da una concezione della tradizione, come contenuto
e come deposito ricevuto dagli apostoli, a quella della tradizione consi-
derata sotto l'aspetto di organo trasmettitore, residente soprattutto nel
magistero della Chiesa» 121 • Senza dubbio ha contribuito a questo pas-
saggio la lotta contro il giansenismo, che pretendeva di opporre la Scrit-
tura e la tradizione a questo «magistero vivo» 128 , rappresentato dall'au-
torità della Chiesa. Si passerà successivamente dal concetto di «tradizio-
ne vivente» a quello di «magistero vivo».
Il termine di «tradizione vivente» assumerà un significato molto diver-
so nella scuola di Tubinga e in Mohler. Si tratta, per quest'ultimo, del
«Vangelo vivente sempre annunciato nella Chiesa>>, cioè della totalità stes-
sa della rivelazione in quanto questa è l'oggetto di una comunicazione
costante e vitale nella Chiesa, di generazione in generazione.
La scuola romana del XIX secolo, da G. Perrone e G.B. Franzelin, di-
stinguerà la tradizione in senso oggettivo, il deposito della fede, e in
senso attivo, latto della sua trasmissione. Questa definizione supera
dunque il caso del solo magistero. I manuali opineranno in sensi diffe-
renti: gli uni dando il primato alla tradizione oggettiva, considerata come
regola remota della fede; gli altri sottolinenado, al seguito di Billuart
(morto nel 1757), che non vi è tradizione attiva se non in quanto comu-
nicata a viva voce, cioè attraverso il magistero vivo. Nel medesimo tem-
po, lo stesso termine'Chiesa viene sempre di più a significare il magiste-
ro. In questo senso, dice Congar, «potremmo dire che la teologia mo-
derna ha introdotto il magistero nella definizione della tradizione [ ... ].
Stando così le cose, ci potremmÒ chiedere se il magiste~o non diventa
l'unico luogo teologico, l'unica fonte di conoscenza della verità rivelata.
[... ] Scrittura e tradizione nel senso oggettivo della parola sono i riferi-
menti con cui i teologi giustificano il magistero» 129 • Dopo la crisi mo-
dernista, questa tendenza si farà ancora più forte. «Cosicché, se la si
considera in un'epoca determinata, la tradizione si confonde col magi-
stero autentico, regola prossima e immediata della nostra fede» 130 • Il
famoso episodio in cui il Papa Pio IX disse al cardinal Guidi: «La tradi-
zione sono io!», raccontato secondo diverse versioni, ma certamente
autentico 131 , non è senza dubbio che una «uscita» senza valore dottrina-
le, ma tuttavia è rivelatrice di una mentalità.

121 Y. CONGAR, La Tradizione e le tradizioni ... , cit., pp. 326-327.


128 Il termine è impiegato in questo senso nella Prefazione alt. XXIII delle Opere di Arnauld; cfr. Y.
CONGAR, La Tradizione e le tradizioni... , cit., p. 333.
129 Y. CONGAR, La Tradizione e le tradizioni... , cit., pp. 360-362.
lJO lbid., p. 363. In Newman e Scheeben, il concetto di tradizione si inscrive in una prospettiva molto
più equilibrata. · .
IJI lbid., p. 371; cfr. R. AUBERT, Le pon;zficat de Pie IX, Bloud et Gay, Paris 1952, p. 354.

lV. DOGMA E TEOLOGIA NEI TEMPI MODERNI 195


2. L'evoluzione della teologia
Indicazioni bibliografiche: E. HocEDEZ, Histoire de la théologie au XIX' siècle, 3 voi., Edi-
tion universelle-DDB, Bruxelles-Paris 1949, 1947, 1952; W. KASPER, Die Lehre von der Romi-
schen Schule, Herder, Freiburg 1962; P. VALLIN, Des !ieux où la théologie se fait, in: lntroduc-
tion à !'étude de la théologie, a cura di]. Doré, III, Desclée, Paris 1992, pp. 67-147.

Il nuovo statuto della teologia universitaria


Nel corso dei secoli XVII e XVIII, il funzionamento delle Facoltà di teo-
logia resta praticamente lo stesso di quello della fine del Medioevo, seb-
bene lo spirito sia profondamente cambiato. In Francia, queste Facoltà
sono generalmente gallicane. Se esse continuano a condannare delle tesi,
questo compito è oramai sempre di più esercitato dall'autorità pontificia.
Le tesi condannate da Roma sono d'altronde, il più delle volte, tesi di
teologi. «La teologia è sorvegliata, perlomeno quando comporta delle
conseguenze nel comportamento del clero e del popolo fedele»m_
Dopo la Rivoluzione francese, lo statuto dei teologi è nella Chiesa con-.
siderevolmente cambiato. Alla fine del XVIII secolo il tormento rivoluzio-
nario aveva coinvolto in Europa occidentale le Università e dunque anche
le Facoltà di teologia. In Francia, le Università e alcune Facoltà di teolo-
gia vengono restaurate sotto il I Impero, specialmente quella di Parigi.
Queste Facoltà però insegnavano ancora i quattro articoli gallicani del
1682 e i loro gradi non erano riconosciuti da Roma. Per questo, a partire
dal 1824, il papato prende un certo numero di iniziative: restituisce il
Collegio Romano ai Gesuiti e rifonda Lovanio, dando alle due istituzioni
lo statuto di Università pontificie. In seguito, altre Università pontificie
verranno fondate sotto l'immediata autorità della Santa Sede e in un cli-
ma del tutto differente dalle Facoltà dell'Anden Régime.

Il successo del Denzinger


Indicazioni bibliografiche: Enchiridion Smbolorum, definitionum et dec!arationum de rebus
/idei et morum. La 1' edizione reca la data del 1854. Il XIX secolo ha conosciuto 8 edizioni: le
prime 6 dello stesso Denzinger (1854-1888); la 7' e 1'8' a cura di Stahl (1894-1900); nel xx
secolo i successivi editori saranno C. Bannwart, dal 1908 al 1913 (10'-12' edizione), che ha
dato al volume il suo volto per lungo tempo classico; J.B. Umberg dal 1921 al 1951 (13•-27'
edizione); K. Rahner dal 1952 al 1957 (28'-31' edizione); A. Schi:inmetzer dal 1963 al 1976
(32'-36' edizione). Quest'ultimo ha rifuso l'opera in funzione delle esigenze critiche moderne:
scelta di testi, soppressione di documenti dubbi, revisione dei titoli tendenziosi, notizie stori-
che capaci di situare l'autorità del testo, nuova numerazione. La 37' edizione, corretta e accre-
sciuta sotto la direzione di P. Hiinermann (Herder 1991) è per la prima volta bilingue (lingua

ll2 Y. CoNGAR, Bref historique des formes du «magistère»... , are. cit., p. 107.

196 BERNARD SESBOÙÉ


originale e tedesca). Una versione italiana, a cura di A. Lanzoni - G. Zuccherini, è stata pub-
blicata nel 1995 a cura delle EDB di Bologna; Y. CoNGAR, Situations et taches présentes de la
théologie, Cerf, Paris 1967 («Du bon usage du Denzingern, pp. 111-133);]. ScHUMACHER, Der
Denz:inger, Geschichte und Bedeutung eines Buches in der Praxis der neuren Theologie, Herder,
Freiburg 1974.

L'apparizione nel 1854 e il rapido successo dell'opera di H. Denzinger


è un doppio segno dell'importanza sempre crescente data agli interventi
del magistero nella ricerca teologica e dell'evoluzione della teologia istitu-
zionale nei seminari e nelle università. Per H. Denzinger, professore di
dogmatica a Wiirzburg, questo libro non era che un manuale scolastico e
pratico, che forniva una scelta di documenti del «magistero», giudicati
utili per lo studio della teologia. Questo manuale raccoglie dei documenti
conciliari, pontifici ed episcopali secondo una sequenza cronologica che
si apre con i Simboli della fede e sviluppa nei Tempi moderni le citazioni
di encicliche e di diversi documenti romani. L'opera ha dunque messo
facilmente a disposizione una ricchissima documentazione, scientifica-
mente migliorata di edizione in edizione.
Per il suo giusto utilizzo però quest'opera richiede un necessario di-
scernimento. Anzitutto questo libro non ha niente a che vedere con un
«giornale ufficiale» della Chiesa: è una raccolta ufficiosa di documenti
ufficiali. La scelta dei testi non impegna dunque che gli autori e alcune
lacune delle prime edizioni, così come certi tagli nelle citazioni, devono
essere messi in rilievo. Alcuni antichi testi sono stati tolti nelle edizioni
più recenti, perché la ricerca.ne ha messo in dubbio l'autenticità. Alcuni
documenti erano evocati con un certo anacronismo, secondo un senso
che corrispondeva a preoccupazioni recenti. D'altra parte, di fronte a
questo insieme, l'opera rischia di indurre nello spirito del lettore l'idea
di un livellamento dell'autorità. Essa inscrive nella stessa serie e con la
stessa presentazione tipografica dei documenti la cui autorità è assai
variabile e che domanderebbe una valutazione caso per caso. Inoltre
sviluppa esageratamente i documenti dei Tempi moderni e contempora-
nei, per i quali una certa decantazione non si è ancora potuta produrre.
L'opera dunque non potrebbe supplire al necessario lavoro della crite-
riologia e dell'ermeneutica dei documenti dogmatici. Perché, a partire
dalla sua tendenza, isola in larga misura il magistero straordinario dal
magistero ordinario e universale, nonché il magistero dalla tradizionem.
Il suo cattivo uso ha contribuito da una parte alla formazione di una
teologia troppo giuridica, chiamata in senso peggiorativo da K. Rahner
«Denzinger-Theologie».

llJ Y. CoNGAR, Situations et tache! présentes de la théologie, Cerf, Paris 1967, pp. 119-127.

IV. DOGMA E TEOLOGIA NEI TEMPI MODERNI 197


Il successo dell'opera 134 però attesta l'immenso servizio reso e quello
che ancora oggi rende, coni una presentazione più scientifica. Il Denzin-
ger è divenuto una istituzione teologica universalmente utilizzata. Le note
di questa Storia dei dogmi vi rinviano costantemente e non è che giustizia
a suo riguardo ricordarlo al lettore.

L'uso delle note teologiche


Indicazioni bibliografiche: L. CHOUPIN, Valeur des décisions doctrinales et disciplinaires du
Saint-Siège. Syllabus; Index; Saint Office; Galilée; Congrégations romaines. L'inquisition au
Moyen Age, Beauchesne, Paris 1?28'; S. CARTECH!NI, De valore notarum theologicarum et de
criteni's ad eas dignoscendas, P.U.G., Roma 1951; Y. CONGAR, La foi et la théologie, Desclée,
Paris 1962, pp. 166-168.

Le tesi condannate dai papi nel corso del XVII e XVIII secolo comporta-
no, lo si è visto, una serie di censure ufficiali e di note negative. Nello
stesso tempo, con M. Cano, la teologia scolastica dei Tempi moderni pas-
sa dal metodo della questione all'esposizione della tesi. La stessa intenzio-
ne di qualificare ogni tesi teologica si è esercitata progressivamente nei
manuali a partire dal XIX secolo. Non si tratta più ormai di censure date
con autorità, ma di qualificazioni di ogni proposizione nel suo rapporto
con la fede. Questo discernimento non implica che il teologo che l'enun-
cia, ma il consensus dei teologi costituisce a suo modo una autorità e fini-
rà per costituire lui stesso una nota.
Bisogna distinguere qui tra note propriamente dogmatiche, che con-
cernono la fede, e note teologiche. Ci sono anzitutto due note principali:
difede definita (de fide definita), quando un punto è stato fatto oggetto di
una definizione solenne, infallibile e irreformabile da parte di un concilio
o di un papa; e la nota di fede (o de fide divina et catholica), che non indica
una appartenenza minore al deposito della fede, ma si applica a delle ve~
rità che ne fanno parte di fatto in forza del consensus e dell'insegnamento
di tutta la Chiesa, senza che esse siano state l'oggetto di una definizione
solenne. È ciò che il concilio Vaticano I formalizzerà nel 1870 sotto la
categoria di «magistero ordinario e universale« m. La definizione non in-
terviene che in caso di necessità e perciò il peso di questa nota è altrettan-
to importante quanto la precedente. Il discernimento però di ciò che ap-
partiene alla fede a questo titolo talvolta è evidente, come per il mistero

134 Cfr. l'opera di G. DuMEIGE, Lafoi catho/ique, Orante, Paris 1969, che intendeva fare una traduzio-
ne francese del DzS. Gli editori però interdirono allora una traduzione in senso stretto secondo l'ordine
cronologico dei documenti. Dumeige ha dovuto prendere un ordine tematico. La scdta dei testi è più
ridotta.
lll DzS 3011; cfr. infra p. 261.

198 BERNARD SESBOOÉ


della redenzione, ma talvolta lascia spazio a interrogativi. In questo caso i
teologi parlano di un dato «prossimo alla fede» (proximum /idei). Infine,
i dibattiti sul fatto dogmatico in occasione del giansenismo hanno con-
dotto a sviluppare l'idea del connesso alla fede. Alcuni teologi parlano
allora di «fede ecclesiastica» (jides ecclesiastica). Questo punto però è ri-
masto fino al presente l'oggetto di dibattiti tra teologi. K. Rahner a questo
proposito ritiene che «tali verità esistano, cioè che ci sia una fede pura-
mente ecclesiastica [. .. ] che questa però abbia realmente un oggetto pro-
prio, è un punto sul quale non vi è alcuna unanimità tra i teologi» JJ6.
Accanto a queste note propriamente dogmatiche, c'è l'insieme delle
note teologiche, che riguardano il campo delle proposizioni dedotte dalla
teologia dal dato rivelato o elaborate nel quadro di una sistematizzazione.
La più importante è la nota «teologicamente certo» (theologice certum).
La nota «dottrina cattolica» è di portata prossima. La nota «comune e
certo» (commune et certum) esprime un largo consenso dei teologi. Alla
base della lista c'è la nota <<più comune» (cioè meno comune che il comu-
ne puro e semplice) e quella «probabile» (o più probabile): si tratta allora
di tesi di un gruppo di teologi o anche di un solo teologo.
Se l'uso delle note propriamente dogmatiche conserva la sua importan-
za, quello delle note teologiche è caduto in un relativo disuso nella secon-
da metà del xx secolo. In effetti, i progressi dell'ermeneutica dogmatica
hanno sottolineato la tendenza dei precedenti manuali a una generale in-
flazione nella valutazione delle note e dunque hanno sottolineato la loro
grande relatività. Al contrario,. l'uso di note propriamente dogmatiche
resta un aspetto importante del lavoro dei teologi.

136 · K. RAHNER, commento al n. 25 di LG, LThK, Das Vatikanisce Konzil, I, p. 238.

'IV. DOGMA E TEOLOGIA NEI TEMPI MODERNI 199


FASE TERZA

DAL VATICANO I AGLI ANNI 1950


Rivelazione, fede e ragione, ispirazione,
dogma e magistero infallibile
Christoph Theobald
Capitolo Quinto

La progressiva dogmatizzazione
dei fondamenti della fede

Indicazioni bibliografiche: sul Concilio Vaticano I e il suo contesto vedi la bibliografia


generale.
, Sulla storia della teologia fondamentale: E. HOCEDEZ, Histoire de la théologie au XIX siècle,
Ed. Univ.-DDB, Bruxelles-Paris 1947-1952 in 3 voli.; W. KASPER, DieLehre von der Tradition
in der Romischen Schule, Herder, Freiburg 1962; Il Dogma sotto la Parola di Dio, Queriniana,
Brescia 1968; R VAN DER Gucm.- H. VORGIULMLER (a cura di), Bilan de la théologieau XIX siècle,
t. II: La théologie-chrétienne: !es disciplines théologique particulières, Castermann, Toumai 1971,
pp. 9-51; FJ. NIEMANN, Jesus als Glaubensgrund in der Fundamentaltheologie der Neuzeit. Zur
Genealogie eines Traktates, Tyrolia, Innsbruck-Wien 1984.

Il secolo XIX è quello in cui si assiste alla nascita della «teologia fonda-
mentale» come disciplina autonoma dalla teologia dogmatica. D'altronde
poco importa il nome di questa nuova scienza che molto deve al-
1' «enciclopedia» di Schleiermacher 1• Nel 1819 il suo primo rappresentate
cattolico 2 ,J.S. von Drey (1777-1853 ), della scuola di Tubinga, parla anco-
ra di «apologetica» 3 ; quarant'anni più tardi il suo allievo J.N. Ehrlich
(1810-1864), della scuola di Vienna, usa, per la prima volta nel titolo di
un manuale, il concetto di «teologia fondamentale» 4 • L'oggetto proprio
di questa nuova scienza è indicato dal suo duplice statuto epistemologico:
tratta dei presupposti del cristianesimo (preambula /idei), servendosi della
ricerca filosofica e storica al fine di stabilire la sua credibilità davanti alla

1 F.D.E. ScHLEIERMACHER, Lo studio della teologia (1810), Queriniana, Brescia 1978.


2 M. SECKLER, Im Spannungsfeld von Wissenschafl und Kirche. Theologie als schopferische Auslegung
der Wirklichkeit, Herder, Freiburg 1980, p. 181.
3 J.S. von DREY, Kurze Einleitung in das Studium der Theologie mii Rucksicht auf den wissenscha/tli-
chen Standpunkt und das katholische System (1819), a cura di F. Schupp, Wiss. Buchgesell, Darmstadt
1971, p. 152, par. 226 e p. 46, par. 72.
4 J.N. EHRLICH, Leitfaden Jur Vorlesungen uber die allgemeine Einleitung in die theologische Wissen-
schaft und die Theorie der Religion und Offenbarung als I Theil der Fundamental-Theologie, Prag 1859;
Leitfaden Jur Vorlesungen uber die Offenbarung Gottes als Thatsache der Geschichte. II. Theil der Funda-
mental-Theologie, Prag 1862.

V - LA PROGRESSIVA DOGMATIZZAZIONE DEI FONDAMENTI DELLA FEDE 203


ragione umana, alle religioni e alle altre confessioni cristiane; ma si com-
prende al contempo come disciplina teologica che deve fondare prima di
tutto la possibilità e la necessità di una giustificazione razionale della fede
sull'essenza stessa della rivelazione cristiana.
A questo doppio titolo prepara (e in seguito prolungherà) la progressi-
va «dogmatizzazione» dei fondamenti della fede. Questa ha già avuto ini-
zio con il concilio di Trento 5 , ma nel secolo XIX entra in una nuova fase.
La teologia fondamentale deve ora cogliere la sfida di una contestazione
globale del mistero cristiano da parte del mondo moderno. Ciò la porta a
prendere coscienza dei fondamenti ultimi della fede che sarà registrata,
sottoposta a discernimento e giudicata dal magistero della Chiesa durante
il concilio Vaticano I. Questo capitolo si propone di offrire un primo
approccio alla logica di questo processo di «dogmatizzazione».

l. DAL CONTENUTO DELLA FEDE ALLA SUA FORMA

Già mentre si preparava il concilio Vaticano I un certo numero di ve-


scovi, e in particolare i cardinali Rauscher di Vienna e Schwarzenberg di
Praga, notavano che la fede non veniva più contestata in questo o quel
contenuto dogmatico ma più radicalmente nei suoi fondamenti. Oggi, di-
cevano, si nega l'ordine soprannaturale come pure la stessa esistenza di
Dio: la lotta contro il razionalismo, il naturalismo, il panteismo e il mate-
rialismo doveva dunque concentrarsi sui preambula fidei 6 • Quanto al pro-
blema di sapere da dove vengano questi «errori», i Padri del concilio
avranno posizioni diverse: bisogna forse incriminare il protestantesimo, il
dubbio metodico di Cartesio o il sistema filosofico dei Lumi e l'idealismo
tedesco? Tutti sembrano essere d'accordo per situare il problema dei fon-
damenti della fede in un percorso storico che risalga fino all'epoca del
concilio di Trento 7 •
Effettivamente per la prima volta e sotto la pressione della controversia
con il luteranesimo, Trento ha fatto precedere il suo giudizio materiale
sulla «purezza del Vangelo» (che si trova nei suoi decreti dogmatici) da
una riflessione formale circa <<l'ordine e il modo in cui procederà lo stesso
sinodo [. .. ] per confermare la verità di fede e riformare i costumi della
chiesa». Ora questa riflessione formale sul principio di giudizio dogmati-
co e morale concerne il «fondamento (/undamentum) della confessione

5 Cfr. supra p. 120.


6 Cfr. Mansi 49, 149 A-D e 457 A - 458 C.
7 Cfr. il prologo della costituzione Dei Filius, infra, pp. 2}2-236.

204 CHRISTOPH TIIEOBALD


della fede» 8 • Nessuno, né il concilio né i suoi avversari, contesta «il sim-
bolo della fede in uso presso la santa chiesa romana, come il principio in
cui tutti coloro che professano la fede in Cristo necessariamente si ritro-
vano, e come solido e unico fondamento contro cui le porte degli inferi
non prevarranno mai» 9 • Tutti, cattolici e protestanti, si propongono an-
che di «conservare nella chiesa la stessa purezza del vangelo [ ... ] quale
fonte di ogni vefità salvifica e di ogni norma morale». Ma ciò che è ogget-
to della controversia ed esige una giustificazione è la presenza di questa
«fonte evangelica» o di questo «fondamento» nella Chiesa del tempo:
fonte e fondamento (Vangelo e Simbolo) sono contenuti «nei libri scritti
(sia dell'Antico che del Nuovo Testamento) e nelle tradizioni non scrit-
te». Così afferma il concilio di Trento indicando queste «mediazioni sto-
riche» con lo stesso concetto di «fondamento» 10 • Si corre anche il rischio
di porre la «fonte» e la sua «collocazione storica» sullo stesso piano 11 ; da
ciò si conferma tuttavia il fatto che il dibattito non riguarda il fondamento
ultimo della fede ma, i criteri di giudizio (testimonia ac praesidia) che in-
tervengono nel circolo ermeneutico tra il Vangelo di Cristo (la fonte) e la
sua interpretazione materiale da parte della Chiesa.
In quest'orizzonte si può capire il duplice spostamento che sarà porta-
to a termine nel concilio Vaticano I: si tratta infatti di un progressivo al-
largamento del concetto di «fondamento».

1. Dei Lumi insoddisfatti

La caduta del corpus catholicum avvenuta durante le guerre di religione


fornisce le condizioni storiche di una prima trasformazione. Sui rottami
delle antiche dispute confessionali, l'Europa dei Lumi costruisce un nuo-
vo consenso minimale che si basa sulla conoscenza razionale di Dio in
quanto capace di fondare un legame sociale. La carta ideologica delle di-
verse posizioni in campo è complessa. Ma con E. Troeltsch si può ritene-
re che «la lotta generalizzata (dei Lumi) contro il soprannaturalismo della
Chiesa e le sue conseguenze pratiche, così come una certa unità nei meto-
di usati, le conferisce un carattere relativamente omogeneo» 12 •
La nuova forma argomentativa che si mette allora in piedi è legata
agli inizi delFesegesi storico-critica in R. Simon (1638-1712) e J.S. Sem-

B Cfr. supra, pp. 119.-121.


9 COD, p. 662.
10 COD p. 663; cfr. H. HO!.STEIN, La tradttion d'après le cona1e de Trente, RSR, 47 (1959), pp. 367-390.
11 Cfr supra, pp.-132-133. -
12 E. TROELTSCH, L'Aufklarung (1897), trad. francese in RSR, 72 (1984), p. 382.

V - LA PROGRESSIVA DOGMATIZZAZIONE DEI FONDAMENTI DELLA FEDE 205


ler (1725-1791) 13 unitamente al postulato in vigore fino agli inizi del xx
secolo secondo cui il cristianesimo autentico si trova nei suoi inizi (nella
sua fonte o nelle Scritture?). È a partire da lì e da nessun'altra parte che si
decide se - sì o no - la fede può essere riferita effettivamente ad una rive-
lazione soprannaturale che vada al di là dell'ordine naturale della ragione.
La dimostrazione si svolge ormai su un doppio cammino: partendo dal-
1' esperienza umana, accessibile ad una psicologia e ad una sociologia ele-
mentare, cerca prima di tutto di verificare la pretesa dei fondatori, profeti o
primi testimoni, di aver ricevuto un'ispirazione interiore. Poiché costoro
pretendono che questa rivelazione abbia lasciato delle tracce nello spazio
storico-fisico è utile, in seguito, completare la teoria della profezia con una
dottrina del miracolo che cade sotto la giurisdizione della critica storica.
Questo schema si ritrova in tutte le prospettive ideologiche del
XVIII secolo: nel deismo che considera il cristianesimo come una forma
primitiva o come decadenza della religione naturale; nelle posizioni «in-
termedie» del pietismo e della neologia 14, la prima che riduce la rivèlazio-
ne al sentimento interiore e la seconda che l'adatta allo spirito morale e
razionale dei Lumi; nelle ortodossie luterane e cattoliche, infine, che di-
fendono la tradizionale differenza tra fede e ragione, natura e soprannatu-
rale, valorizzando così la «credibilità» psicologica del primo testimone,
Gesù, e la plausibilità storica della sua azione miracolosa al fine di fonda-
re la fede in lui come <<legato divino» 15 •
Dietro il problema dell' <<inizio» si profila quindi il rapporto conflittuale
tra un'antropologia che dà valore alla ragione <<naturale», e una teologia che
continua a pretendere di avere a che fare con un ordine «soprannaturale».
Il fatto poi che il secolo XVIII abbia conosciuto dei tentativi di riconci-
liazione tra que.sti due «ordini» 16 risulta essere di primaria importanza per
la nascita della «teologia fondamentale», a partire dal 1819, come pure
per la dogmatizzazione della fede durante il concilio Vaticano I. Già G.W.
Leibniz aveva proposto una riconciliazione tra il «regno della natura» e il
«regno della grazia», e G.W.F. Hegel critica a partire dal 1802 i risultati
della filosofia dei Lumi «Se si guarda da vicino la gloriosa vittoria riporta-
ta dall'Illuminismo su ciò che, in una visione religiosa ristretta, questi ve-

lJ Cfr. CHR. THEOBALD, Sens de l'Écriture, DBS, t. XII (199}), pp. 474-476.
14 Il termine «neologia>> indica una corrente teologica protestante diffusa nel XVIII secolo che conserva
il concetto di rivelazione abbandonando però il carattere «scandaloso» delle grandi affermazioni cristiane
e trasformandole in un sistema di verità morali e razionali. Cfr. E. Hmsrn, Geschichte der neueren evange-
lischen Theologie, Bertelsmann, Gtitersloh 1952, IV, pp. 1-204.
n Su questo trattato «De Christo legato divino» all'epoca dei Lumi, cfr. F.J. NIEMANN, ]esus als Glau-
bensgrund in der Fundamentaltheologie der Neuzeit. Zur Genealogie eines Traktates, Tyrolia, Innsbruck-
Wien 1984, pp. 199-300.
16 Cfr. CHR. THEOBALD, I tentativi di ricondliare la modernità e la religione nelle teologie cattoliche e
protestanti, in «Concilium», 6 (1992), pp. 50-61.

206 CHRISTOPH TIIEOBALD


deva come suo opposto in quanto fede non è altro che questo: né la reli-
gione positiva contro cui l'illuminismo partì in guerra conservò il suo ca-
rattere di religione, né la stessa ragione, pur vittoriosa, mantenne la sua
natura di ragione» 17 • Con uno spirito diverso, G.E. Lessing e E. Kant
avevano lottato,. prima di Hegel, contro alcuni Lumi poco illuminati circa
i loro presupposti conservando, ciascuno a suo modo, la tensione fra tra-
dizione cristiana ed esperienza critica del soggetto, tra teologia biblica e
teologia filosofica 18 • Questi diversi tentativi di riconciliazione saranno ri-
presi dai fondatori della teologia fondamentale delle scuole di Tubinga e
di Vienna, ma anche da alcuni teologi come G. Hermes (che si situa nella
linea kantiana) e A. Giinther (di tradizione hegeliana) che saranno il ber-
saglio del concilio Vaticano I '9 •
Questo lungo dibattito dei «Lumi insoddisfatti» e lo stile di argomen-
tazione apologetica da loro prodotta hanno lasciato delle tracce impor-
tanti nei testi di questo concilio. La grande decisione del Vaticano I con-
sistette nell'affrontare il problema epistemologico dei rapporti tra fede e
ragione, messo in campo dai Lumi, a partire dalle relazioni teologiche tra
la «natura» e il «soprannaturale» 20 discusse non solo nella scuola di Tu-
binga ma anche, da poco tempo, nella scuola romana (J. Kleuteng, C.
Passaglia, Cl. Schrader, M.J. Scheeben e anche J.B. Franzelin)2', di cui
fanno parte i teologi principali che parteciperanno al concilio. È questo
schema propriamente teologico che permette al concilio di prendere po-
sizione di fronte alle differenti forme di razionalismo e di fideismo, eredi-
tate dall'Illuminismo, ma anche di fronte a certi tentativi di riconciliazio-
ne, giudicati insufficienti (semi-razionalisti) in quanto rischiano di cancel-
lare il limite tra la natura e il «soprannaturale». Ma ciò che si ha primaria-
mente di vista è tuttavia il razionalismo o naturalismo concepito come la
«negazione dell'ordine soprannaturale» 22 •
Il concetto di «fondamento della fede» utilizzato dai capitoli III e IV
della Costituzione dogmatica sulla fede cattolica (Dei Filius) corrisponde
esattamente a questa situazione. Non riguarda più soltanto le «mediazioni
storiche» tra il Vangelo e la sua interpretazione ecclesiale, la Scrittura e la
Tradizione, ma anche e più radicalmente l'origine soprannaturale dell'in-

l7 G. F.W. HEGEL, Foi et savoir (1802), Vrin, Paris 1952.


18 Cfr. E. KANT, Le con/lit des Jacultés, in: Oruvres philosophiques Ili, Pléiade, Paris 1986,
pp. 837-887.
l9 Cfr. supra 186-188.
20 Cfr. H.]. POTTMEYER, Der Glaube vor dem Anspruch der Wissenscha/t, Herder, Freiburg 1968,
p. 83.
w:
2 ' Cfr. KASPER, Dze Lehre von der Tradtlion in der Romischen Schule, Herder, Freiburg 1962,
pp. 9-26 .
22 _Cfr. l'intervento di Mons. Meign,an, Mansi 51, 81 A-82 D.

V - LA PROGRESSNA DOGMATIZZAZIONE DEI FONDAMENTI DELLA FEDE 207


sieme dell'economia cristiana ed ecclesiale, da rendere credibile a riguar-
do della «retta ragione». Si vedrà ben presto che questo riferimento alla
rivelazione soprannaturale suppone un reinquadramento dei dati acquisi-
ti da Trento: il concetto di «fondamento», utilizzato nel XVI secolo per
indicare i libri della Bibbia e le tradizioni non scritte, viene applicato allo
stesso modo nella Costituzione dogmatica sulla Chiesa di Cristo (Pastor
Aeternus) ad un terzo «polo» del dispositivo ermeneutico, al magistero e
alla persona di Pietro come «principio stabile e fondamento visibile del-
l'unità». Ma ciò che stiamo per dire è un anticipo su ciò che rappresenta
un secondo spostamento d'orizzonte in rapporto al concilio di Trento.

2. Minaccia ai fondamenti della società umana

Il secolo XIX non rappresenta la semplice continuazione dei dibattiti


dell'epoca Illuministica. Molto velocemente dopo la morte di Hegel
(1831), il paesaggio della filosofia si trasforma e ancora di più si trasforma
la configurazione delle scienze: soprattutto le scienze naturali e quelle sto-
riche. Esse propongono ormai un approccio «positivista» della realtà 23 in
cui ogni tipo di intervento soprannaturale di Dio (profezie e miracoli) è
diventato impensabile: le religioni, e il cristianesimo in particolare, devo-
no quindi essere applicate e comprese dallo storico in relazione con il
contesto culturale della loro nascita, che non corrisponde più alla visione
moderna e secolarizzata del mondo. Questa trasformazione culturale del-
la razionalità ha una duplice ripercussione sulla teologia.
I rapporti tra filosofia e teologia diventano molto più complessi a mo-
tivo dell'intervento di un certo numero di discipline positive. Questo
movimento di anticipazione delle scienze, fondato su una diversificazione
sempre più grande dei loro metodi, rappresenta ~na minaccia non solo
per l'unità della filosofia ma anche per la teologia. E questa l'epoca in cui
si mette in piedi l'attuale struttura delle Facoltà di teologia, con un cano-
ne di discipline organizzate in materie positive e sistematiche. Il loro pro-
blema più grande è quello rapportarsi contemporaneamente con l'autori-
tà della rivelazione e con il principio moderno della libertà o dell'autono-
mia delle scienze (che tende a contestare il carattere scientifico della teo-
logia). Non è certo che il concilio Vaticano I abbia percepito la comples-
sità di questa nuova situazione epistemologica 24, anche se gli interventi di
qualche Padre (Mons. Vérot, Mons. Dubreil e Mons. Ginoulhiac) hanno
contribuito a un miglioramento sostanziale dei testi proposti.

2J Cfr. soprattutto l'opera di A. COMTE (1798-1857).


24 Cfr. H.J. PorrMEYER, Der Glaube vor dem Anspruch der Wissenscha/t, cit., pp. 35·37.

208 CHRISTOPH THEOBALD


Lo sguardo sui risultati «ideologici» delle scienza mette in ombra, al-
meno per il momento, i problemi propriamente metodologici. In ogni
caso, il concilio è soprattutto preoccupato delle tendenze anti-metafisiche
delle scienze e, più ampiamente, delle società moderne; è l'altra faccia,
più visibile, delle trasformazioni della razionalità nel secolo xrx. Al mo-
mento in cui condanna il panteismo, il materialismo e l'ateismo, il Vatica-
no I allarga una volta ancora l'accezione del concetto di «fondamento»,
applicandolo, nel prologo della Costituzione Dei Fihus, all'insieme della
società umana: «negando la stessa natura razionale ed ogni norma del giu-
sto e del retto, essi fanno ogni sforzo per distruggere i fondamenti stessi
dell'umana società» 2'. Di fronte alla scomparsa del consenso minimo illu-
ministico che consisteva nella conoscenza razionale di Dio come fonda-
mento dei legami sociali, la Chiesa crede oramai di avere anche come
missione quella di difendere la società umana e la razionalità umana da se
stesse. Si vedrà come la maggioranza del concilio stabilisca un legame in-
timo tra la diagnosi di una minaccia di distruzione dei «fondamenti stessi
dell'umana società» e il ricorso ultimo al «fondamento visibile» della fede
cattolica stabilita da Dio nella persona di Pietro.

3. La dogmatizzazione dei fondamenti della fede


Il progressivo allargamento del campo di applicazione del concetto di
fondamento nei documenti del magistero sarebbe stato impensabile senza il
contributo della «teologia fondamentale» del XIX secolo. L'importanza dei
teologi di Tubinga 26 è già stata sottolineata. Risulta chiaro che il fronte anti-
idealista del concilio impedirà a quest'ultimo di recepire i dati di questa
scuola, particolarmente il suo approccio dialettico dei rapporti tra rivelazio-
ne e storia che invece sarà determinante al tempo del Vaticano Il. Ma W.
Kasper ha dimostrato come l'influsso dei teologi di Tubinga (in particolare
di J.A. Mohler) sulla scuola romana non è trascurabile, nonostante alcune
importanti differenze di metodo e di orientamenton. Se il lavoro di questi
teologi romani è decisivo per la dogmatizzazione dei fondamenti della fede
durante il Vaticano !28, non si può comunque sottovalutare il ruolo di un
uomo come il cardinale V.A. Dechamps (1810-1883), arcivescovo di Mali-
nes, il cui metodo apologetico deve molto sia alla tradizione francese del
secolo XVII (Pascal e Bossuet) che alla teologia di un Mohler.

V COD, p. 234. •
26 Cfr. t. III, pp.432-435.
27 W. KASPER, Die Lehre.. ., cìt., pp. 6ss e 135-143.
2s Cfr. t. III, pp. 435-437.

V - LA PROGRESSNA DOGMATlZZAZlONE DEI FONDAMENTI DELLA FEDE 209


Ma più globalmente e aldilà delle frontiere tra scuole, l'apporto della
teologia fondamentale dell'epoca è decisivo su due punti: propone infatti
un'articolazione progressiva e sistematica dei «fondamenti della fede» e
finisce per conferire una forma propriamente teologica al suo modo di
segnalare l'accesso dell'uomo alla fede cattolica.
L'articolazione dei fondamenti della fede obbedisce in effetti alla strut-
tura dei tre «trattati»: il trattato della demonstratio catholica, che si oppo-
ne alla Riforma protestante per la definizione delle «autorità» della fede
(Scrittura, tradizioni e magistero); il trattato della demonstratio christiana,
che si oppone alle diverse correnti illuministiche e giustifica, sulla base di
un minimo consenso attorno ad una conoscenza naturale di Dio, il carat-
tere soprannaturale del cristianesimo; infine il trattato della demonstratio
religiosa, che fa da fondamento all'apertura della ragione alla trascenden-
za e alla legittimità della religione, in una società segnata dal positivismo
e dall'ateismo. Il Vaticano I segue questa triplice «dimostrazione», ma lo fa
in senso inverso, cominciando cioè dalla difesa più radicale dei fondamenti
della fede. La sua opposizione a certi tentativi cattolici di riconciliazione tra
fede e mondo moderno (semi-razionalismo e fideismo o tradizionalismo),
giudicate insufficienti, si ispirano alle ricerche della scuola romana e parti-
colarmente ai lavori di J. Perrone nel suo trattato Sui luoghi teologici 29 , che
rappresenta come un quarto trattato di teologia fondamentale 30 •
Insistendo sui «preambula fidei» questi diversi trattati incrociano sul
loro cammino altre discipline come la filosofia e la storia, ma con un orien-
tamento più teologico. Il concilio adotta questo punto di vista in una pro-
spettiva formale che è propriamente dogmatica: senza entrare nei dettagli
dell'argomentazione apologetica esso fonda la possibilità e la necessità di
una giustificazione razionale della fede sulla stessa essenza della rivelazio-
ne cristiana.
Per indicare questo approccio dogmatico dei fondamenti della fede che
interessano la struttura fondamentale dell'essere umano (sotto l'aspetto
della ragione) si può anche parlare di una sorta di «dogmatizzazione della
forma della fede»: non solo perché la tradizione cristiana si preoccupa da
sempre che vi sia una corrispondenza assoluta tra il contenuto della fede
e la sua forma, tra ciò che è creduto (/zdes qua e creditur) e l'atto di credere
(fides qua creditur), tra il risultato del discernimento dogmatico e il «modo
di fare» per giungervi; ma anche perché nella modernità il rispetto della
«forma» si dà una nuova immagine. Per questo motivo, a partire dal 1954,

29 J. PERRONE, De locis theologicis.


Pars Il et III, Roma 1842 2, pp. 341-616..
Jo La tradizione tedesca non ha questo trattato. Cfr. A. KoLPING, Fundamentaltheologie I, Regenberg,
Miinster 1968, pp. 70-72.

210 CHRISTOPH THEOBALD


K. Rahner distinguerà la «teologia formale e fondamentale» dalla «dog-
matica speciale» 31 . Già M. Blondel, in una più grande prossimità cronolo-
gica in rapporto al Vaticano I, indicherà nel 1896 la sfida dello sposta-
mento del contenuto della fede verso la sua forma:
Perché non è l'oggetto o il dono, ma la forma e il fatto del dono che forma l'osta-
colo. Perfino se (suppongo l'impossbile) con uno sforzo genialmente rivelatore
noi scoprissimo quasi tutta la lettera e il contenuto dell'insegnamento rivelato,
non avremmo ancora nulla, assolutamente nulla dello spirito cristiano, poiché
esso non proviene da noi. Non averlo affatto come ricevuto e dato, ma come
trovato e proveniente da noi, significa proprio non averlo: ed è questo lo scan-
dalo della ragione; è qui propriamente che occorre fissare lo sguardo per sonda-
re la piaga filosofica delle coscienze, in quei nostri contemporanei che si orien-
tano in base al pensierol 2 •

Al momento la forma della fede si definisce a partire dal suo contenuto


dogmatico; e questa «spiegazione» condivide il valore normativo del dog-
ma propriamente detto. Ma si vedrà che questa estensione del «dogmati-
co» ai fondamenti della fede avrà qualche ripercussione sullo stesso con-
cetto di dogma e sul suo statuto. Da ciò che si è fin qui detto si deduce già
che l'inedita presa di coscienza quanto alla forma della fede è in larga
misura dovuta alle evoluzioni storiche dei tempi moderni e particolarmen-
te ad una contestazione sempre più globale del mistero cristiano.

Il. IL CONTESTO STORICO DIVENTA «LUOGO TEOLOGICO»

Prima di usare il termine di «luogo teologico» nel senso proprio definito


da M. Cano", sembra utile presentare brevemente il contesto storico che
ha reso possibile il processo di dogmatizzazione che stiamo per tracciare.

1. Il contesto storico

La metà del secolo, e più precisamente le rivoluzioni del 1848, rappre-


sentano una vera cesura sul piano culturale e politico. Si è già fatta notare
la radicalizzazione operata dall'illuminismo: il risentimento anti-metafisi-
co del «positivismo» che si manifesta sempre di più nell'evoluzione delle

H K. RAHNER, Saggi teologia; Paoline, Roma 1965, pp. 51-111.


32 M. BLONDEL, Lettera sull'apologetica, Queriniana, Brescia 1990, p. 68.
n Cfr. supra, p. 148; ciò che si dice qui riguarda l'ultimo luogo teologico che è appunto la
storia.

V - LA PROGRESSIVA DOGMATIZZAZIONE DEI FONDAMENTI DELLA FEDE 211


scienza e della filosofia, come pure il principio di autonomia del «libera-
lismo» che progressivamente si impone all'insieme della vita politica, so-
ciale e culturale. La fine della restaurazione politica (1848) lascia la Chie-
sa completamente isolata nel suo programma di restaurazione in una po-
sizione sempre più difensiva in rapporto ai cambiamenti in atto 34 •
È a partire da questo punto storico che bisogna comprendere il legame
che si stabilisce pian piano tra l'opposizione della Chiesa ai principi della
modernità - che porta alla dogmatizzazione del fondamento soprannatura-
le della fede e dell'apertura della ragione alla trascendenza - e la posizione
del papato come fondamento stabile al cospetto dell'incerta evoluzione delle
società - ciò che poi conduce fino alla definizione della sua infallibilità 3'.
Questo legame tra due problematiche, di per sé diverse, si era già crea-
to all'epoca della restaurazione (1815-1848) in seno ad una relativa mino-
ranza. La svolta spirituale verso la restaurazione è difatti dovuta ampia-
mente ad alcuni «convertiti», provenienti dal protestantesimo o da un
certo scetticismo, si pensi a H.E. Manning in Inghilterra e G. Ward in
Irlanda, J.J. Gorres e G. Philippes in Germania, D. Cortés in Spagna e
J.M. de Maistre in Francia. L'opera di quest'ultimo con il suo titolo Du
Pape (1919) è di primissima importanza per capire le evoluzioni che por-
tano fino al Vaticano 136, anche se gli elementi essenziali del suo ultra-
montanismo e della sua filosofia della restaurazione si trovano già presen-
ti nell'opera del futuro papa Gregorio XVI (1831-1846), Mauro Capella-
ri, pubblicata nel 1799 con il titolo Il trionfo della Santa Sede- e della Chie-
sa contro gli assalti dei novatori 37 •
Nella linea di questo primo ultramontanismo si abbozza lo spostamen-
to decisivo dal primato di giurisdizione nel corpus catholicum, interessato
fin dal Medioevo dal problema del potere supremo, al problema tutto
sommato nuovo dell'infallibilità pontificia, appunto da definire per evita-
re che il primato di giurisdizione fosse ridotto ad un potere arbitrario. H.J.
Pottmeyer ha dimostrato che lo stesso primato di giurisdizione segna que-
sta nuova figura dell'infallibilità che nell'insieme viene compresa come
«sovranità» e «ultima istanza>>: si accentua la decisione a detrimento del
suo carattere «testimoniale», la determinazione della fede (determinatio
/idei) al posto dell'attestazione della fede (testi/icatio fidez)3 8 • Questa idea

34 Cfr. R. AuBERT, Vaticanum I, Paris 1964, pp. 20ss.; H.J. POITMEYER, Der Glaube ..., cit., p. 20; K.
SCHATZ, Vaticanum I. 1869-1870, I: Vor der Eroffnung, Schoningh, Pederborn 1993, pp. 18ss.
3' Cfr. per questa tesi centrale K. SCHATZ, Vaticanum I, I. l, cit., pp. 34 e 287.
36 Circa]. de Maistre (1735-1821), cfr. P. VALLIN, Ler «Soiréer» de Joreph de Mairtre, RSR, 74 (1986),
pp. 341-362 (bibliografia).
37 Cfr. U. HORST, Unfehlbarkeit und Gerchichte. Studien zur Unfehlbarkeitrdirkurrion von Melchior
Cano zum 1. Vaticanirchen Konzil, Griinewald, Mainz 1982, pp. 78-120.
JB H.J. POTTMEYER, Unfehlbarkeit und Souveriinitiit ... , Griinewald, Mainz 1975, pp. 363-371; K. ScHATZ,
Vaticanum I, I, cit., pp. 10-12.

212 CHRISTOPH THEOBALD


diventa plausibile a partire dal fatto che essa permette di sovrastare i prin-
cipi della critica e della continua discussione - con cui si verrebbe a di-
struggere ogni tipo di ordine sociale - mediante il principio dell'autorità
che risulta essere l'istanza ultima e senza appello.
Scrive De Maistre:
Non ci può essere società umana senza governo, né governo senza sovranità, né
sovranità senza infallibilità; e quest'ultimo privilegio è talmente necessario da es-
sere forzati a supporre l'infallibilità anche nelle sovranità temporali (dove non c'è)
per evitare il rischio di vedere dissolversi l'associazione 39 •

Lungi dall'essere accolto da tutti i teologi dell'epoca 40 , questo legame


tra ultamontanismo e restaurazione fece tuttavia strada fino a diventare
maggioritario dopo il 1848, momento in cui il papato viene considerato
da molti come il simbolo esclusivo dell'identità e della stabilità cattoliche
in mezzo alle «rivoluzioni» culturali e politiche in atto.
L'infallibilità è precisamente ciò che diventa sempre di più l'incarnazione dei prin-
cipi di unità, di ordine e di autorità contro i principi liberali di autonomia, di
separazione e di singolarizzazione, contro lo spirito dei Lumi e della modernità,
intesa come emancipazione totale 41 •

In questa evoluzione un ruolo motore è proprio del «populismo cat-


tolico», molto sensibile alle forze sociali e preoccupato dei limiti del
potere dello Stato che vengono definiti mediante il diritto naturale.
Questo populismo lega la devozione popolare alla persona del papa con
una grande sensibilità per la libertà e le aspirazioni del popolo. Difeso
da persone come Lamennais (tuttavia condannato nel 1832 da Grego-
rio XVI), Bautain e Ozanam, questo «ultramontanismo populista» 42 , tra
l'altro nato piuttosto ai margini della Chiesa, precede di molto la politica
sistematica di Pio IX (1846-1878) contro i rimasugli del gallicanesimo. A
partire dalla sua enciclica inaugurale Qui pluribus del 1846, questo pa-
pa in effetti difende la dottrina dell'infallibilità pontificia 4J. Una tappa
importante è rappresentata dalla definizione dell'Immacolata Concezione,
1'8 dicembre 1854 4\ che è il primo caso di una definizione ex cathedra basa-
ta sulla rivendicazione esplicita dell'infallibilità pontificia 45 • Questo è an-

J9 J. DE MA!STRE, Du Pope, in: Oeuvres complète, II, Vitte, Lyon 1884, p. 157.
40 Cfr. il panorama pieno di sfumature in K. ScHATZ, Vaticanum I, I, cit., pp. 12-18.
41 Ibid., p. 19.
42 Ibid., p. 13.
4J DxS 2781; dr. anche H.]. POTIMEYER, Un/ehlbarkeit und Souveriinitiit.. .. , cit., pp. 50-52.
44 Cfr. t. III, pp. 519·521.
45 DxS 2803: «Con l'autorità di nostro Signore Gesù Cristo, dei beati apostoli Pietro e Paolo e Nostra,
dichiariamo, pronunziamo e definiamo che la dottrina [... ] è stata rivelata da Dio e perciò si deve credere
fermamente e inviolabilmente da tutti i fedeli».

V. LA PROGRESSIVA DOGMATIZZAZIONE DEI FONDAMENTI DELLA FEDE . 213


che il momento in cui la Santa Sede comincia ad intervenire in modo
più sistematico nelle diocesi al fine di imporre l'uniformazione alla litur-
gia romana e una formazione teologica che fosse conforme con i manua-
li della scuola romana (Perrone). In questa linea troviamo l'enciclica
Inter multiplices del 1853 46 , rivolta a quanti in Francia si oppongono alla
riforma liturgica di Dom Guéranger e alla stampa ultramontana (soprat-
tutto a L'Univers di Veuillot): è il colpo mortale contro ciò che rimane
del gallicanesimo.
Un altro cambiamento importante si attua dopo il 1860 in un momen-
to di estrema polarizzazione. Questa volta è provocato da alcune cor-
renti che si raggruppano sotto il nome di «neo-ultramontanismo» 47 : at-
titudine questa - più o meno teologicamente pensata - secondo cui
«tutto ciò eh~ la Chiesa indica come grande e oggetto di venerazione
si concentra nella persona del papa, tanto che il "sentire con la
Chiesa" diventando in tal modo il "sentire con il papa" fa sì che la Chie-
sa stessa si definisca ormai a partire dal papa e non il contrario» 48 ; Que-
sta radicalizzazione va inserita naturalmente nel contesto politico e cul-
turale di un liberalismo sempre più combattivo (Kulturkamp/), di cui la
vittoria della Prussia sull'Austria nel 1866 e la rivoluzione liberale della
Spagna nel 1868 sono il simbolo. L'isolamento dèlla Chiesa è ormai
completo in quanto non esiste più uno Stato cattolico capace di corri-
spondere alla tesi «ròmana» la cui ultima espressione si può trovare
nell'enciclica Quanta cura come pure nel Syllabus (1864) 49 • A partire
da questo momento si assiste ad una crescente divisione nel fronte
ultramontanista. Durante la Restaurazione, e ancora dopo il 1848, i
«cattolici liberali» - ad esempio in Francia Montalembert e Dollinger in
Germania avevano visto in Roma un alleato potente contro le ambizioni
dello statalismo, ma ora si sentono minacciati da un assolutismo intra-
ecclesiale. Nella misura in cui Pio IX sostiene sempre più apertamente il
«neo-ultramontanismo», mentre i «liberali» si rapportano positivamen-
te e non solo a livello strategico con la libertà moderna, si vede già in
gioco quella che sarà l'opposizione tra maggioranza e minoranza nel
corso del concilio Vaticano I: si tratta precisamente del legame tra l'at-
teggiamento della Chiesa a riguardo dei principi della modernità e il
ricorso al papato come certezza ultima in un mondo in cui tutto sembra
oramai relativizzato 50 •

46 Pro IX, Inter multiplices (21.03.1853) EE 2, nn. 191-198.


47 R AUBERT, Vatican I, cit., pp. 3 lss; soprattutto K. SCHATZ, Vaticanum I, I, cit., pp. 29ss.
48 Ibid., 29.
49 DiS 2890-2896 e 2901-2980.
50 Cfr. K. SCHATZ, Vaticanum I, I, cit., p. 34.

214 CHRISTOPH TIIBOBALD


2. La storia come genealogia degli errori moderni

L'evoluzione storica delle società moderne, awertita da molti come una


relativizzazione di ogni tradizione e particolarmente del «deposito della
fede», suscita la ricerca di un «fondamento stabile» nella figura della cer-
tezza. Questo tipo di rapporto piuttosto difensivo con la storia riguarda
prima di tutto la relazione della fede della Chiesa con le sue origini. Su
questo punto si concentra a partire del XVIII secolo il dibattito cattolico
con l'esegesi protestante e soprattutto con la «critica tedesca>> 51 • La pro-
posizione VII del Sillabo, pubblicato un anno dopo la Vita di Gesù di E.
Renan e nello stesso anno di quella di D.F. Strauss, condanna la tesi se-
condo cui ·
Le profezie e i miracoli esposti e narrati nelle sacre Scritture, sono invenzioni di
poeti, e i misteri della fede cristiana sono la somma delle indagine dei filosofi; e
nei libri dei due Testamenti sono contenute invenzioni mitiche; e lo stesso Gesù
Cristo è una finzione mitica 52 •

Durante il Vaticano I un esegeta come Mons. G. Meignan, vescovo di


Chalon-sur Marne, cercherà di far valorizzare l'immenso lavoro storico-
critico compiuto dalla ricerca biblica (la filologia, l'archeologia e la sto-
ria), distinguendolo accuratamente dai presupposti razionalisti sottintesi
dagli esegeti protestanti e non credenti.
Per quanto riguarda il rapporto con la storia questo concerne la Chiesa
stessa e in modo particolare lo sviluppo del suo dogma. Spicca per questo
punto la figura di J.J. Dollingei:, la cui celebre allocuzione del 1863 da-
vanti alla riunione degli intellettuali cattolici a Monaco delinea perfetta-
mente il perimetro dei problemi posti in quel momento dalla storia dei
dogmi. Lo storico difende la libertà della ricerca teologica al di fuori del
campo strettamente dogmatico, scagliandosi contro la confusione tanto
diffusa tra dottrina della fede e opinioni e convinzioni del momento.
Schierandosi chiaramente per una teologia ecclesiale Dollinger insiste sul-
la sua funzione profetica e critica. Per esercitare questo tipo di teologia il
teologo necessita di uno sguardo storico che relativizzi lo stato attuale
delle cose. Nel dicembre dello stesso anno, proprio un anno prima della
pubblicazione del Sillabo, Pio IX reagisce con una lettera indirizzata al-
1' arcivescovo di Monaco affermando che:
Infatti anche se si tratta di quella sottomissione che si deve prestare con un atto
di fede divina, tuttavia questa non deve essere limitata a quelle cose che sono

51 Cfr. CHR. THEOBALp, Senr de l'Écriture, art. cit., pp. 489-498.


52 DzS 2907.

V - LA PROGRESSIVA DOGMATIZZAZIONE DEI FONDAMENTI DELLA FEDE 215


state definite con espliciti decreti dei concili o dei pontefici romani e di questa
sede apostolica, ma deve essere anche estesa a quelle cose che, per mezzo del
magistero ordinario di tutta la chiesa diffusa sulla terra, sono trasmesse come
divinamente rivelate5}.

E aggiunge:
È anche necessario che si sottomettano sia alle decisioni relative alla dottrina
che vengono esposte dalle congregazioni pontificie, sia quei capitoli di dottrina
che per comune e costante consenso dei cattolici sono ritenute come verità te-
ologiche e conclusioni talmente certe che le opinioni contrarie ai medesimi ca-
pitoli di dottrina, anche se non possono dirsi eretiche, meritano tuttavia una
qualche censura teologica 54 .

Nel corso del concilio Vaticano I la storia del dogma verrà fuori so-
prattutto al momento del dibattito sull'infallibilità pontificia. Nessuno
sembrò essere pronto ad adottare il punto di vista di Dollinger secondo
il quale l'infallibilità è una questione puramente storica. La posizione
estrema del cardinal Manning, che separa radicalmente la tradizione
dalla storia, non sarà nemmeno tanto rappresentativa. Se gli autori
(Schrader e Maier) che illustrano l'argomento mettono in relazione la
questione dogmatica dell'infallibilità con la rivelazione e le sue fonti,
lasciando ai teologi il compito di risolvere le difficoltà storiche, uno sto-
rico della scuola di Tubinga, successore di Mohler e giovane vescovo di
Rottenburg e facente parte della minoranza, Mons. K.J. von Hefele, ar-
gomenterà proprio a partire dalla storia come luogo teologico 55, non solo
dando peso a questo o a quel documento storico ma più ampiamente al
loro contesto e a tutta la vita della Chiesa. Secondo K. Schatz tuttavia, la
minoranza sarà tentata di utilizzare in questo dibattito il riferimento alla
storia come ad una realtà senza ambiguità, mentre la maggioranza insi-
sterà appunto sull'incerto statuto di ogni tradizione e di ogni consenso
arguendo così in favore di un ricorso al papato come ad una garanzia
istituzionale di una certezza ultima 56 • ·

L'atteggiamento della maggioranza per quanto riguarda la lettura stori-


ca della Bibbia e la storia del dogma è dunque complessivamente segnato
da un'esperienza negativa della modernità che ha generato appunto que-
sto tipo di approccio e dato via libera a inaudite forze di relativizzazione.
Questa motivazione verrà fuori chiaramente nel momento in cui il conci-
lio si occuperà della storia appunto come una genealogia degli errori

5l DzS 2879.
54 DzS 2880.
55 Mansi 51, 932 C-D; 52, 83 A.
56 K SCHATZ, Vaticanum I, III, cit., pp. 50-52.

216 CHRISTOPH TIIEOBALD


moderni. Partendo dall'opposizione tra realitivismo storicç> e ricerca di un
«fondamento stabile», tra pretese del razionalismo e principio di autorità,
si risalirà fino alla Riforma e al concilio di Trento per delineare nuova-
mente la genesi storica dello spirito moderno: il rifiuto dell'autorità del
magistero.e il riferimento al giudizio personale avrebbero portato fino alla
divisione interna del protestantesimo e alla distruzione della Sacre Scrit-
ture, preparando così il terreno al razionalismo che non rappresenta sol-
tanto una minaccia per il carattere soprannaturale del cristianesmo ma
anche per le stesse basi della società umana 57 • .
Queste tre prospettive dell'approccio storico della Bibbia attraverso la
storia dei dogmi e fino alla genesi della modernità occidentale si ritrovano
quindi alla luce della conclusione nel momento cioè in cui il principio anti-
cattolico del razionalismo manifesta, in una progressiva radicalizzazione,
la forza distruttiva che è anche al contempo l'inizio della sua autodistru-
zione. Si capisce facilmente come una simile lettura impedisca di ritenere
la storia, e specialmente la storia della modernità, come fonte di una rin-
novata capacità di comprendere la fede o più semplicemente come «luo-
go teologico».

3. Coscienza storica e storia del dogma


Questo rifiuto della storia è ancora più significativo per il fatto che non
si può negare la fortissima coscienza metodologica dei protagonisti prin-
cipali del concilio e particolarmente degli esponenti della scuola romana,
come Franzelin e altri. Dalla stesura del regolamento del concilio - in cui
lo storico dei concili H.J. von Hefele ha avuto un ruolo limitato ma reale -
fino ai suoi enunciati dogmatici, l'interesse per la «forma» sarà qualcosa
di notevolmente decisivo: si è già fatto notare l'importanza della distinzio-
ne tra teologia dogmatica e teologia fondamentale e si è pure sottolineato
fino a che punto il concilio è attento a tenere un livello teologico nel
momento in cui fonda la possibilità e la necessità di una giustificazione
razionale della fede. D'altronde la «Deputazione della fede», che è il nome
della commissione teologica, ricorda continuamente lo specifico orienta-
mento di un concilio che ha la pretesa di proporre la totalità della fede
cattolica - questo è il ruolo del «magistero ordinario» - ma di opporsi agli
errori 58 • Quindi la connessione logica e la genealogia degli errori impon-
gono al concilio la sua prospettiva metodologica e il suo modo di proce-

57 Cfr. infra, pp. 232ss.


58 ar. l'intervento del patriarca Valera durante !'VIII Congregazione generale'(Mansi 50, 240 A-C) e
la giustificazione di Franzdin al cospetto deUa Deputazione deUa Fede (Mansi 50, 319 B).

V· LA PROGRESSIVA DOGMATIZZAZ!ONE DEI FONDAMENTI DELLA FEDE 217


dere. Il difficile riconoscimento di questi limiti interni da parte dell'as~
semblea conciliare si manifesta nella distinzione tra il «deposito della
fede», che indica la totalità della rivelazione affidata alla Chiesa, e il «dog-
ma», che ne è la sua autentica espressione, pur rimanendo sempre contin-
gente a motivo dei limiti inerenti alla conoscenza del linguaggio umano. A
partire dai lavori di J. R. Geiselmann 59 , si è diventa ti sensibili a questa
distinzione, abbastanza disattesa nei testi del concilio, in quanto il celebre
Commonitorium di Vincenzo di Lerins, così spesso impugnato a partire
dal concilio di trento e citato dal Vaticano I, identifica il deposito con il
«dogma divino, celeste, ecclesiale» opponendolo alle innovazioni e ai
«nuovi dogmi» 60 •
Ma già alla fine del XVII secolo i teologi discutevano circa un concetto
più ristretto di «dogma». Ci si ricordi 61 della definizione di Ph. N. Chris-
mann che ne conserva solo questi elementi: «una dottrina e verità che il
giudizio pubblico della Chiesa propone da credere come di fede divina,
in modo che il contrario è condannato dalla Chiesa come dottrina ereti-
ca» 62. Questo modo di pensare e stato tacciato di minimalismo da parte
di Kleutgen e Scheeben 63 , forse per il fatto che lo si è utilizzato come
un'arma nel dibattito in ambito tedesco, animato da Dollinger, attorno
al problema della libertà nella ricerca teologica. È ciò che sempre si ri-
trova nei testi del concilio Vaticano I: se tutto ciò corrisponde ad una
più grande differenziazione degli enunciati di fede, messa a punto da un
magistero desideroso di reagire contro gli errori def momento, ha co-
munque il vantaggio, evidenziato da W. Kasper e H.J. Pottmeyer, di
provocare (ad esempio in Franzelin) la coscienza di una differenza tra la
prospettiva del discorso dogmatico che si pone in «reazione» e la Parola
di Dio 64 •
Nondimeno questa distinzione fondamentale non porterà subito al ri-
conoscimento della storicità del dogma che la conditio slne qua non per
comprendere la storia come «luogo teologico». La resistenza a tutto ciò
proveniva con ogni probabilità dall'istanza unilaterale sul contenuto
dogmatico e il carattere giuridico della sua determinazione. Ma è neces-

59 J.R. GEISELMANN, Dogma, in: HThG I, pp. 228ss; W. KAsPER, Il Dogma sotto la Parola di Dio, cit.,
pp. 31-68; H.]. ParrMEYER, Der Glaube vor dem Anspruch der Wissenschaft, cit., pp. 446-456.
60 Cfr. VINCENZO DI LERJNO, Commonitorium, 9 e 22.
61 Cfr. supra, p. 191.
62 Ph. N. CHRISMANN, Regula /idei catholicae, Kempten 1792, par. 5. Questo concetto più ristretto si
trova già in F. VÉRON (1578-1649) che non ha avuto influsso solo sulla scuola di Tubinga ma pure su
quella romana., cfr. W. KASPER, Die Lehere von der Tradition, cit., p. 202.
6J ]. BEUMER, Die Regula Fidei Catholicae des Ph. N. Chrismann und ihre Kritik durch f. Kleutgen sj, in
Franziskanische Studien 46 (1964). pp. 321-334.
64 Cfr. W. KAsPER, Il Dogma sotto la Parola di Dio, cit., pp. 35ss. e H.]. ParrMEYER, Der Glaube vor
dem Anspruch, cit., p. 450.

218 CHRISTOPH THEOBALD


sario capire il timore che abitava i principali protagonisti del concilio
dinanzi ad una concezione razionalista dello sviluppo del dogma che
potrebbe confondere l'esplicitazione del dogma cattolico con la storia
del sapere umano. Effettivamente la figura su cui insiste il magistero ri-
mane ancora nel 1870 A. Giinther (1783-1863) 65 la cui intera opera era
stata messa all'indice nel 1857 66 • Solo oggi si riescono a capire i malinte-
si tra la presentazione fatta da Franzelin del pensiero di Giinther nei
documenti preparatori del concilio e l'idea che si fa egli stesso della sto-
ria dei dogmi. Lungi dal riconoscere una qualsiasi contraddizione nelle
diverse tappe dello sviluppo, egli insiste invece sulla differenza tra una
comprensione imperfetta ed un'intelligenza più perfetta del mistero,
salvaguardando in o~ni modo il carattere frammentario di ogni tipo di
conoscenza di Dio. E la sua sensibilità per il linguaggio della fede e per
l'interazione storica tra rivelazione e soggetto che la riceve a create dif-
ficoltà nella teologia romana.
Ci troviamo così al punto preciso in cui, nel processo di dogmatizza-
zione dei fondamenti della fede, la nascente storia dei dogmi si occupa
del concetto stesso di dogma. Che questo primo incontro si sia attuato
sotto il segno di una vicendevole esclusione, nonostante il riconoscimento
ufficiale della distinzione fondamentale tra deposito della fede e dogma,
non pregiudica affatto il futuro ma lascia prevedere comunque qualche
conflitto. Prima di occupacene presentiamo brevemente lo svolgimento
del Concilio Vaticano I di cui abbiamo già compreso l'importanza 67 •

III. h CONCILIO VATICANO IE LE SUE COSTITUZIONI

Si può trovare qualche raro indizio di un progetto conciliare a partire


dal 1849. La primissima consultazione a livello confidenziale risale a due
giorni prima della pubblicazione di Quanta cura e del Sz"llabo, il 6 dicem-
bre 1864, fatto questo che sottolinea nell'insieme il legame esistente tra
queste due operazioni del magistero romano 68 • Visto il risultato abbastan-
za positivo di questa prima inchiesta, Pio IX nomina nel 1865 una com-
missione la quale propone, tra altre, µn'interrogazione più allargata rivol-
ta a 36 vescovi diòcesani circa i temi da affrontare. Temendo tuttavia le
minacce che incombono sugli Stati Pontifici e forse anche una pubblica

65 Cfr. Ibid., pp. 434-442. Cfr. rupra p. 188.


66 DzS 2821-2831.
61 Cfr. t. li, pp. 75-78; t. III pp. 437-444.
68 Cfr. la presentazione e il dibattito sulle ipotesi in: K. ScHATZ, Vaticanum I, I, pp. 91-94.

V - LA PROGRESSIVA DOGMATIZZAZlONE DEI FONDAMENTI DELLA FEDE 219


dimostrazione delle divisioni da cui ormai l'episcopato è segnato, il papa
esita un poco fino alla grande celebrazione del XVIII centenario del mar-
tirio di Pietro e Paolo nel giugno 1867 durante la quale annuncia il suo
progetto ai 500 vescovi radunatisi per l'occasione. ·

1. Convocazione, preparazione e svolgimento

La Bolla di convocazioneAeterni Patris del 29 giugno 1868 provoca un


po' di sommovimento a motivo della sua imprecisione per quanto riguar-
da gli invitati. La grande novità è che, al contrario di quanto successe a
Trento, gli Stati cattolici non saranno più rappresentati. Nel suo celebre
discorso del 10 luglio davanti alla Camera francese, il futuro primo mini-
stro E. Ollivier valuta questo invito mancato come il più grande avveni-
mento dopo il 1789: la Chiesa si separa dallo Stato, per volontà stessa del
papa che tuttavia non accetta che lo Stato si separi dalla Chiesa 69 • Per
quanto riguarda invece gli inviti rivolti ai capi delle Chiese ortodosse e
protestanti, formulati maldestramente, questi rimangono senza alcuna
conseguenza o provocano delle reazioni di opposizione.
Così la preparazione che comincia si concentra sull'elaborazione del
regolamento interno e sulla redazione di diversi schemi e testi. Per quan-
to riguarda il regolamento del concilio bisogna tener conto di una vo-
lontà di efficacia e di rapidità: da questo punto di vista Trento non è un
esempio da seguire 70 , anche secondo il parere di Hefele. Per molti pro-
blemi la direzione è la medesima del concilio Laterano V (1512-1517).
Su due punti le nuove regole del gioco vanno persino oltre la stessa ec-
clesiologia pontificia di questo concilio: l'imposizione del regolamento
da parte del papa e la nomina papale della commissione che smista i
postulati dei padri.
Tra le cinque commissioni speciali, la più importante è la commissione
dottrinale: sulla base del Sillabo e di Quanta cura, questa commissione
prepara i testi che riguardano le relazioni tra Chiesa e Stato, la struttura:
gerarchica della Chiesa (primato e infallibilità), lo Stato del Vaticano, la
rivelazione e la fede e infine il sacramento del matrimonio. Altre commis-
sioni si occupano della disciplina, dei religiosi, delle Chiese orientali e
delle missioni, della politica ecclesiastica 71 • Il progetto conciliare è quindi

69 E. 0LLIVIER, L'Église et l'Étal au conct'le du Vatican, I, Garnier, Paris 1877, pp. 399ss.
10 Cfr. t. II, pp. 196-200.
71 Per questo lavoro di preparazione cfr. R. AUBERT, Vatican [, cit., pp. 54-66 e K. ScHATZ, Vatica-
num I, I, cit., pp. 146-196; la commissione politico-ecclesiastica scompare nel luglio 1869 e cosi il concilio
non avrà che quattro deputazioni.

220 CHRISTOPH THEOBALD


molto ampio e le reazioni provocate da certe indiscrezioni, attese e timori,
durante i mesi che precedono l'apertura dei lavori, sono commisurati a
questa ambizione. Già prima di cominciare, 1'8 dicembre 1869, il concilio
entra nella tormenta delle opposizioni e delle polarizzazioni presentate
prima. A separare gli spiriti è soprattutto la questione dell'infallibilità che
crea nelle primissime settimane una frontiera tra maggioranza e minoran-
za che rimarrà invalicabile 72 •
Nello svolgimento del concilio si possono distinguere cinque fasi. Il
dibattito generale sui diciotto capitoli del primo schema Sulla dottrina
cattolica contro i molti errori derivati dal razionalismo 73 occupa l'assem-
blea tra il 28 dicembre e il 10 gennaio. Manifestando la sua libertà nei
confronti delle commissioni preparatorie, il concilio dà prova di non
essere il «sinodo degli adulatori» che Janus (alias Dollinger) aveva
preannunciato in marzo. A partire dal 14 marzo, si affrontano - seconda
fase - tre decreti disciplinari sui vescovi e sui sacerdoti, unitamente allo
schema sul Piccolo catechismo, che presenta lo stesso tipo di problemi
evocati recentemente a proposito del Catechismo della Chiesa cattolz'ca 74 •
È qui che per la prima volta si affrontano difensori e oppositori dell'in-
fallibilità, i primi parteggiando per l'uniformità della Chiesa nel mondo
intero e i secondi difendendo la varietà delle situazioni umane e peda-
gogiche. Terminato il 22 febbraio, questo dibattito verrà ripreso tra il
29 aprile e il 4 maggio e si concluderà con un voto. Ma l'approvazione
ufficiale del testo in una sessione solenne non si avrà mai 75 • La terza fase
del concilio era già cominciata il 21 gennaio 1870 con la distribuzione di
un secondo schema dogmatico che trattata in quindici capitoli della
Chiesa. Questo testo cade nel pieno della campagna pro o contro la
proposizione dell'infallibilità pontificia come materia del dibattito con-
ciliare. Tra il 12 e il 18 gennaio la proposizione della minoranza che
evidenziava le difficoltà di un'eventuale definizione ottiene 136 firme
(il 20% dell'assemblea) mentre la diverse domande della maggioranza
raccolgono 440 voti. Il 9 febbraio la commissione dei postulati prende
dunque una decisione positiva e il 6 marzo viene distribuito un capitolo
aggiuntivo sull'infallibilità pontificia che si situa ormai dopo il capi-
tolo XI dello schema sulla Chiesa 76 • Comincia allora la battaglia sull'op-
portunità o meno di anticipare il dibattito conciliare sull'infallibilità, che

n Cfr. K. ScHATZ, Vaticanum I, II, pp. 23-36. .


73 De doctrina catholica contra multiplices errores ex rationalismo dervatos, Mansi 50, 59-119.
74 Catechismo della Chiesa cattolica, Libreria Ed. Vaticana 1992; dr. R. MARLÉ, Présentation de la foi:
pour des formules brèves, in: «Études», 380 (1994), pp. 497-506.
75 Cfr. K. ScHATZ, Vaticanum I, I, cit., pp. 115-121; III, pp. 3-12.
76 Cfr. t. III, p. 439.

V· LA PROGRESSIVA DOGMATIZZAZlONE DEI FONDAMENTI DELLA FEDE 221


porterà alla decisione favorevole del 23 aprile. L'annuncio al concilio
viene fatto il 29 aprilè.
Nel frattempo l'assemblea ha potuto procedere alla seconda lettura
del primo schema dogmatico sulla fede cattolica 77 • Questa quarta fase,
che si svolge tra il 18 marzo e il 24 aprile, giorno della proclamazione
solenne di questa prima Costituzione conciliare, è segnata dai conflitti
di cui abbiamo parlato. Ma l'unanimità dell'ultimo voto sottolinea la
qualità del consenso raggiunto. L'ultima fase del concilio comincia con
il dibattito su un nuovo schema che raccoglie, sotto il titolo Prima Costi-
tuzione sulla Chiesa, i due capitoli del vecchio schema ecclesiologico che
trattav~no del primato (cap. XI) e dell'infallibilità pontificia (capitolo
aggiunto) 78 • Il dibattito generale dura dal 14 maggio al 3 giugno. In un
caldo romano sempre più provante si passa in seguito alla discussione
particolare delle diverse parti del testo che termina il 4 luglio 1870. Il 13
luglio si ha il voto decisivo: dei 601 Padri presenti 451 votano Plaçet, 62
Placet juxta modum e 88 Non Placet. La frontiera tra maggioranza e
minoranza è rimasta intatta. K. Schatz fa notare la strana giustapposi-
zione tra, da una parte, i dibattiti in Congregazione Generale in cui
queste due posizioni si affrontano senza compromesso alcuno, non vo-
lendo nessuno aprire delle falle per l'avversario e, d'altro canto, il lavo-
ro segreto della Deputazione della fede in cui «infallibilisti estremisti» e
«infallibilisti moderati» discutono sulle formule da adottare. Il 16 luglio
ha luogo l'ultima relatio del relatore ufficiale, Mons. Gasser, e il voto
dei due emendamenti (modz) accolti dalla Deputazione. Così diceva
Gasser alla fine del suo discorso:
Non si può negare che la società umana è giunta al punto in cui stano per vacil-
lare i suoi ultimi fondamenti. A questa condizione tanto miserabile della società
umana nessun rimedio può essere offerto se non dalla Chiesa di Dio, nella quale
esiste un'autorità istituita da Dio e infallibile, sia nell'insieme del corpo della
Chiesa docente quanto nel suo stesso capo. Affinché gli occhi di tutti fossero
attratti verso questa pietra di fede con.tro cui non prevarranno le porte degli
inferi, Dio ha voluto - lo credo - che in questi giorni la dottrina dell'infallibilità
del Romano Pontefice è stata proposta al Concilio Vaticano 79 •

Due giorni dopo si celebra l'approvazione solenne della Prima costitu-


zione sulla Chiesa di Cristo, Pastor Aeternus, dopo che la minoranza ave-
va lasciato il Concilio.

77 Cfr. Mansi 51, 31·38; e un confronto sinottico tra questo schema e il testo definitvo della Costitu-
zione Dei Filius in: H.J. PorrMEYER, Der Glaube vor dem Anspruch der Wirsenschaft, cit., pp. 488-498.
78 Mansi 52, 4-7.
19 Mansi 52, 1317 B/C.

222 CHRISTOPH THEOBALD


2. Le due costituzioni del concilio Vaticano I
Per capire il processo di dogmatizzazione dei fondamenti della fede, è
necessario tener conto del taglio operato dal Concilio a partire da un in-
sieme più vasto e ambizioso di proposizioni che non verranno mai alla
luce. É del tutto evidente che questa selezione si deve alle contingenze
storiche di cui si è parlato come pure al fatto che il Concilio fu aggiorna-
to. Ma tutti questi avvenimenti mettono in rilievo la logica e l' orientamen-
to di un processo che è cominciato molto tempo prima.
Il primo testo approvato dal Concilio - la Costituzione sulla fede catto-
lica Dei Filius - è il risultato di una completa rifusione dello schema De
doctrina catholica, redatto da Franzelin, di cui tuttavia si è conservata la
sostanza 80 . Il nuovo testo, proposto per la seconda lettura in marzo, è sta-
to preparato da J. Kleugten e Ch. Gay sotto la direzione di Mons. De-
champs, Pie e Martin: al prologo fanno seguito quattro capitoli di teolo-
gia fondamentale (Dio e la creazione del mondo, rivelazione, fede, fede e
ragione) e cinque capitoli di teologia dogmatica fondamentalmente pen-
sati contro Giinther (Santa Trinità, creazione dell'uomo e sua natura, ele-
vazione dell'uomo e caduta, mistero del Verbo incarnato, grazia del Re-
dentore)8t. L'll marzo, la Deputazione decide di separare le due parti di
questo testo e di proporre al concilio i primi quattro capitoli come Costi-
tuzione indipendente. A causa dell'anticipazione del dibattito sull'infalli-
bilità, la parte dogmatica non verrà mai discussa. Così pure l'isolamento
della prima parte corrisponde perfettamente all'emancipazione della teo-
logia fondamentale di cui si è fatto cenno più sopra. Il nostro capitolo VI
presenterà questa Costituzione Dei Filius e le sue decisioni dottrinali sui
fondamenti della fede.
Il secondo testo approvato dal concilio, la Prima Costituzione dogma-
tica sulla Chiesa, Pastor Aeternus, è il risultato di un analogo processo di
separazione dovuto all'anticipazione del dibattito sul primato del papa e
sulla sua infallibilità. La Costituzione risulta essere effettivamente il con-
giungimento del capitolo XI dello schema sulla Chiesa, dovuta al lavoro
diJ. Kleugten, e del capitolo aggiuntivo sull'infallibilità pontificia, redatto
da Cl. Schrader. La Costituzione consta oramai di un prologo e quattro
capitoli sull'istituzione del primato, il suo carattere perpetuo, la sua natu-
ra e i poteri che implica e, infine, la sua infallibilità. Il nuovo titolo, scelto
già il 27 aprile dalla Deputazione, indica chiaramente l'intenzione di far

so Decisione presa dalla Deputazione della fede il 7 gennaio 1870; cfr. I<. ScHATZ, Vaticanum I, Il,
cit., p. 93.
s1 Mansi 53, 164-177.

V - LA PROGRESSIVA DOGMATIZZAZlONE DEI FONDAMENTI DELLA FEDE 223


precedere la Chiesa dal primato come suo «fondamento», secondo la vi-
sione del canonista tedesco G. Philips e J. Perrone, della scuola romana.
La protesta della minoranza contro l'anticipazione (firmata 1'8 maggio da
parte di 71 padri) indica perfettamente la posta in gioco del nuovo titolo
quando pretende il rispetto dell' «ordine naturale delle cose»: «poiché la
Chiesa è un corpo formato da molte membra le cui funzioni sono legate le
une alle altre, è impossibile trattare di un membro e della sua specifica
funzione senza parlare della totalità della Chiesa e di tutti i suoi membri;
in questo contesto ecclesiale, molte cose possono essere dette sul primato
che, trattate isolatamente, apparirebbero esagerate e perfino false» 82 • Il
nostro capitolo VII ritornerà su questa Costituzione di cui abbiamo già
detto qualcosa e sulle decisioni dottrinali che essa implica.
La storia ha voluto che il concilio non abbia promulgato che questi due
testi che ora si trovano significativamente vicini. Senza dubbio durante il
dibattito sulla Costituzione Dei Filius tutte le formule che avrebbero pre-
giudicato le ulteriori decisioni sull'infallibilità sono state accuratamente
evitate. Tuttavia un filo lega questi due testi che riguardano entrambe il
problema dei fondamenti della fede, come dimostra l'ultimo intervento di
Mons. Gasser citato prima.

3. Le due conclusioni di un concilio incompiuto


Bisogna forse parlare di una doppia conclusione del concilio che ci
permette di situare il problema della storicità delle sue decisioni dottrina-
li, non solo a carico dell'avvenimento conciliare ma anche come scusante.
Una prima conclusione è senza dubbio quella che si ha al momento della
partenza della minoranza e la proclamazione solenne dell'infallibilità ponti-
fica, il 18 luglio 1870, proprio alla vigilia dello scoppio della guerra franco-
tedesca. Questa conclusione agitata ha fatto porre il problema globale della
libertà del concilio, rimasto controverso fino ad oggi, soprattutto da quan-
do nel 1977.A.B. Hasler 83 l'ha rilanciato contestando la tesi difesa da R.
Aubert 84 , di una <<libertà sostanziale». K. Schatz ha recentemente proposto
la valutazione, a nostro avviso, più equilibrata 85 • Questo autore sottolinea
l'esigenza di metodo che richiede la capacità di distinguere tra la questione
storica, riguardante le effettive limitazioni della libertà dei padri conciliari,
e l'interpretazione di questi eventuali limiti in un contesto ecclesiologico

82 Mansi 51, 727-732 (citazione in 728 A).


83 A.B. HASLER, Pio IX (1846-1878), Piipstliche Unfehlnarkeit und 1. Vatkanisches Konzil.
84 R. AUBERT, Vatican I, cit., pp. 243-246.
85 K. SCHATZ, Vaticanum I, III, cit., pp. 170-203.

224 CHRISTOPH THEOBALD


allargato. Dal momento che il concilio Vaticano I nelle sue procedure sup-
pone già il primato nella forma assunta durante il secondo millennio in
Occidente, la posizione globale in relazione a questa evoluzione storica è
determinante per la valutazione della libertà del concilio. Senza entrare nel
dettaglio degli argomenti che si trovano già quasi tutti nei documenti del-
l'epoca, facciamo riferimento a quattro punti importanti:
1. Quanto al comportamento di Pio IX, Schatz conferma, dopo una
lunga valutazione storica e psicologica, l'affermazione di R. Aubert:
Importa solo il fatto [la sua non neutralità nei confronti del concilio]
che è innegabile e che si manifestò non solo con incoraggiamenti agli in-
fallibilisti, ma pure mediante interventi diretti al presidente della Deputa-
zione della fede, di cui abbiamo fatto due esempi, come pure con al sce-
nata di cui fu vittima il cardinal Guidi. Se fatti simili si fossero moltiplicati
si avrebbe diritto di parlare di un grave attentato alla libertà morale dei
Padri, ma il caso rimase unico e molti vescovi della minoranza, tra i più
impegnati, tennero a segnalare ai loro colleghi - dopo un'udienza -1' ama-
bilità con cui erano stati ricevuti 86 •
2. Detto ciò non si può escludere che il clima globale del concilio e
soprattutto e lo schieramento di Pio IX abbiano impedito ad un certo
numero di padri prossimi alla minoranza di votare con questa. K. Scahtz
riproduce qualche documento che va in questo senso e che permette di
ristimare la parte reale della minoranza a circa il 25 % 87 •
3. È così che viene fuori il p_roblema del «consensus unanime» tanto
discusso quando si trattò della riforma del regolamento interno del conci-
lio nel febbraio 1870. Schatz ha ragione di sottolineare èhe il problema
della libertà del concilio in quanto condizione della sua validità si riferisce
unicamente al/oro esterno, come d'altronde il «consensus» che si deve otte-
nere secondo le procedure codificate dal diritto. Ora, nella misura in cui
solo il voto definitivo del 18 luglio aveva valore di legge, l'argomento del
consenso unanime, utilizzato continuamente dalla minoranza, perdette la
sua pertinenza giuridica quando la minoranza rinunciò di sua iniziativa a
partecipare all'ultimo voto 88 • Inoltre H. J. Sieben ha mostrato nuovamen-
te come il principio dell' «unanimità morale» come necessità dogmatica
non esisteva né nel conciliarismo del xv secolo né nel gallicanesimo clas-
sico 89. Comparve, nella sua forma dura, al sinodo locale di Pistoia (1786)

86 R.AUBERT, Vatican I, cit., p. 245; cfr. K. SCHATZ, Vaticanum I, III, cit., p. 200.
87 lbid., pp. I9I-I99.
BB Ibid., pp. I64, ISO e I99-203.
89 H.]. SIEBEN, Consensus, unanimitas und maior pars auf Konzilien, von der Alten Kirche bis zum
Ersten Vatikanum, ThPh, 67 (1992), pp. I92-229.

V· LA PROGRESSIVA DOGMATIZZAZIONE DEI FONDAMENTI DELLA FEDE 225


e in seguito al concilio Vaticano I come antitesi all'infallibilità personale
del papa. Forse bisognerebbe comprendere oggi 90 il «consensus» come il
risultato di un dibattito che non tollera né una maggioranza senza rispetto
delle argomentazioni della minoranza né una minoranza che fa ostruzio-
nismo bloccando così le decisioni 91 •
4. Il vero problema è tutto qui: il persistente sentimento di non-libertà
provato dalla minoranza proviene appunto dall'esperienza di essere in.
balìa di una maggioranza che le lascia la possibilità di parlare ma senza
darle in realtà la possibilità di influire sulle decisioni. Inoltre la minoranza
presentava delle esigenze moderne per ciò che riguarda la forma della
comunicazione nella Chiesa come ambito di verifica e di «dimostrazio-
ne» 92, anche se ciò veniva fatto forse maldestramente a motivo del timore
di essere divisa. Ma in ogni modo accogliamo la prudente riserva di K.
Schatz posta alla fine della sua valutazione:
Si pone dunque il problema di sapere se una decisione dogmatica raggiunta con
la vittoria di una maggioranza su una minoranza, può avere, nonostante tutto, lo
stesso valore di una risposta equilibrata capace di integrare tutti gli aspetti impor-
tanti di quanto abbia un'altra decisione che esprime in un momento preciso, no-
nostante la relatività storica che la caratterizza comunque, il consenso del collegio
episcopale e della Chiesa 93 •

I testi del Vaticano I sono quindi rimandati alla ricezione come luogo
del loro ri-equilibrio. Tale processo si sarebbe potuto dare all'interno stes-
so del concilio a causa della prospettiva lasciata globalmente aperta in un
primo tempo, con l'anticipazione di certi problemi e la selezione della
materia che comportava la loro discussione. Questo processo di equili-
brio non ha potuto attuarsi a motivo della «seconda conclusione» del
concilio provocata dalla situazione politica. La guerra franco-tedesca e il
ritiro delle truppe francesi che proteggevano gli Stati pontifici portarono
alla presa di Roma, il 20 settembre 1870, e fecero sì che Pio IX prorogasse
- il 20 ottobre dello stesso anno - il concilio sine die, probabilmente vo-
lendo evitare che un concilio liberamente riunito a Roma approvasse taci-
tamente il «ratto sacrilego» della Città da parte dell'Italia 94 • Perché si su-
peri l'ambiguità di quest'abrogazione bisognerà aspettare l'annuncio del-
la preparazione del Vaticano Il 95 •

90 Cfr. Y. CoNGAR, Una sancta 14 (1959), pp. 161ss.


91 Cfr. K. ScHATZ, Vaticanum I, III, p. 167.
92 Si ritornerà su questo, infra, pp. 424 e 426-427.
9J K. SCHATZ, Vaticanum I, III, cit., p. 203.
94 Cfr. Ibid., p. 210.
95 Il motu proprio Supemo Dei Nutu del 5 giugno 1960 precisa: «Abbiamo anche deciso che a partire
dal luogo in cui il futuro concilio sarà tenuto si chiamerà concilio Vaticano Il».

226 CHRISTOPH THEOBALD


In tal modo crolla la speranza che alcuni membri della minoranza ave-
vano riposta in un ulteriore ri-equilibrio delle cose da parte dello stesso
concilio. La «fine» del concilio inconcluso porta da una parte all'allinea-
mento relativamente veloce dei vescovi della minoranza alla sua opera (per
motivi d' alti-onde diversi a seconda dei paesi d'Europa) e, dall'altra, alla
nascita di una nuova Confessione in Germania e in Olanda: «la Chiesa
vecchio-cattolica».

4. Dopo il concilio: una serie di crisi

Un diverso modo di inquadrare le decisioni conciliari in una prospetti-


va più globale sarebbe stato indubbiamente impossibile nel clima eccle-
siale e politico dell'epoca. In ogni caso, il lungo processo di ricezione che
cominciò ad attuarsi - e che non è ancora terminato - è pieno di una serie
di crisi. Sarebbe falso valutare queste crisi a partire unicamente dal carat-
tere incompleto e unilaterale delle decisioni conciliari. Gli 89 anni che
separano la «fine» del concilio Vaticano I e l'annuncio del Vaticano II da
parte di Giovanni XXIII non solo vedono affacciarsi nuovi problemi che
si «agglutinano» alle vicende del 1870, ma vedono anche affacciarsi nuo-
ve soluzioni ispirate spesso dalle intuizioni della scuola di Tubinga o dalle
correnti teologiche nate in Francia all'inizio del nostro secolo.
Una prima serie di scosse è conosciuta sotto il nome di «crisi moderni-
sta» (1893-1914). Questa ha il suo epicentro in Francia ma ben presto
raggiunge l'Inghilterra, l'Italia e la Germania conosce diverse fasi che ri-
flettono il progressivo ampliamento della problematizzazione dogmatica.
La crisi si manifesta prima di tutto sotto l'aspetto della «questione bibli-
ca» (secondo il titolo di un celebre articolo di Mons. D'Hulst). Il segnale
della sua apertura viene dato nel 1893 con la pubblicazione della prima
enciclica biblica Providentissimus Deus di Leone XIII (1878-1903) e con
la destituzione di Alfred Loisy (1857-1940) dalla sua cattedra di esegesi
biblica all'Insitut Catholique di Parigi. Il problema è la dottrina biblica
della Chiesa oramai messa in discussione non solo da parte dell'esegesi
protestante ma pure all'interno stesso della Chiesa cattolica. Il nuovo di-
battito si innesta lontanamente sulla VII proposizione del Sillabo e più
direttamente sul modo di trattare del «luogo» biblico della rivelazione che
si trova nel capitolo II della Dei Filius. Per rispettare la prospettiva siste-
matica di questa storia dei dogmi, il nostro capitolo VII non presenterà
soltanto la Providentissimus Deus ma pure le due encicliche bibliche che
hanno fatto seguito a questo testo, la Spiritus Paraclitus di Benedetto XV
nel 1920 e la Divino a/flante Spiritu di Pio XII nel 1943, come pure si farà

V - LA PROGRESSIVA DOGMATIZZAZIONE DEI FONDAMENTI DELLA FEDE 227


riferimento all'istituzione della Commissione biblica nel 1902 e all'orien-
tamento dottrinale delle sue decisioni.
La pubblicazione de Il Vangelo e la Chiesa (1902) di A. Loisy e di Cos'è
un dogma di E. Le Roy (1905) fa scattare una nuova fase della crisi attor-
no allo statuto del dogma e del suo rapporto con la storia. Il dibattito parte
dal capitolo III della Dei Filius e dal tipo di apologetica supposto da que-
sta Costituzione. L'insieme del dossier biblico, storico e dottrinale della
crisi modernista viene ripreso nel 1907 in una sorta di Sillabo ad intra, il
Decreto Lamentabili e l'enciclica Pascendi dominici gregis di Pio X, che si
studieranno nel nostro capitolo IX.
Il panorama della crisi dei fondamenti della fede sarebbe incompleto
se non si facesse anche il punto sul dibattito circa il posto della ragione e
della filosofia nel mistero cristiano. Questo si innesta sul capitolo IV, sul
Prologo e sul capitolo I della Dei Filius. Si incontrerà a questo punto l' ope-
ra di Leone XIII e soprattutto la sua enciclica Aeterni Patris del 1879 su
san Tommaso come Dottore della filosofia e della teologia cristiane. Nei
testi socio-politici di questo papa, in cui si sviluppa una visione della città
moderna, prende corpo la missione che ha la Chiesa di difendere la socie-
tà e la razionalità umane da se stesse. Lo stesso legame tra filosofia cristia-
na e società è confermato dalle reazioni romane al «modernismo sociale»
nel 1910 che si ritrova anche in altri testi (il nostro capitolo decimo).
Pur reagendo a situazioni storiche precise, il magistero prende sempre
più coscienza del carattere sistematico della sua dottrina dei fondamenti
della fede. Ciò compare un'ultima volta nel 1950 nell'enciclica Humani ge-
neris di Pio XII. Opponendosi alle tendenze teologiche vicine alle intuizio-
ni di Tubinga e alle correnti nate in Francia all'inizio del secolo, questo te-
sto si situa alla fine di un lungo sviluppo dottrinale e permetterà di misurare
la distanza percorsa a partire dal concilio Vaticano I (capitolo undicesimo).
Con questo capitolo introduttivo si è voluto dare un primo approccio al ·
processo di dogmatizzazione dei fondamenti della fede su cui si è impegnati
a partire dagli inizi del XIX secolo. Ed è proprio durante questo lungo peri-
odo che termina attorno al 1950, che è nata la storia dei dogmi. Frutto prin-
cipalmente delle istanze del protestantesimo liberale, dal lato cattolico è
legata al «contesto dottrinale turbolento della crisi modernista» 96 •
Bisogna evocare a questo punto non solo il nome di A. von Harnack
(1851-1930), il quale ha come tracciato la «via regale» di questa nuova
disciplina destinata a tracciare in modo nuovo lo svolgimento discorsivo
degli enunciatì dogmatici 97 , ma pure quello di E. Troeltsch (1865-1923) le

96 Cfr. la presentazione di B. SESBOOÉ, t. I, pp. 7ss.


97 A. von HARNACK, Histoire des dogmes (1892), Labor et Fides-Cerf, Genève-Paris 1993.

228 CHRISTOPH THEOBALD


cui celebri «Dottrine sociali» del 1911 98 rappresentano, nello spirito del
loro autore, un autentico «parallelo alla Storia dei Dogmi di Harnack>> 99 •
Partendo dal principio sistemico 100 del «reciproco condizionainento degli
elementi fondamentali della vita», Troeltsch tenta infatti di analizzare il
modo in cui «l'universo ideologico e dogmatico del cristianesimo dipende
dalle condizioni sociologiche fondamentali e in particolare da questa o
quell'idea di comunità 101 • Ci ricolleghiamo così alle note metodologiche
di Ph. Lécrivain nel II tomo di quest'opera che segue, sul terreno della
morale fondamentale, «l'interazione degli enunciati e dell'enunciazione, e
riflette sul meccanismo della elaborazione dogmatica, cioè della «dogma-
tizzazione» 102 •
Questa trasformazione metodologica che si annuncia già agli inizi del
xx secolo mostra effettivamente una grande connivenza con il carattere
propriamente ecclesiale e istituzionale del «dogma>>, che emergeva con
forza già nel XIX secolo. Questa trasformazione ci porterà, prima di passa-
re a considerare il contributo dogmatico del concilio Vatieano II, a inter-
rogarci appunto sul senso che nella Chiesa ha il dato «dogmatico». Le crisi
che il dogma ha attraversato a partire dal 1870 preannunciano un cambia-
mento di statuto che si potrebbe assimilare a ciò che alcuni storici delle
scienza definiscono come «cambiamento paradigmatico» 10'?

98 E. TROELTSCH, Die Soziallehren der christlichen Kirchen und Gruppen (1911), in: Gesammelte Schrif-
ten I, Tiibingen 1922; cfr. CHR. THEOBALD, Troeltsch et la méthode historico-critique, in: Histoire et théolo-
gie chez Ernst Troltsch, a cura di P. Gisel, Labor et Fides, Genève 1992, pp. 243-268.
99 E. TROELTSCH, Meine Bucher (192~), in: Gesammelte Schriften Iv; Tubongen 1925, pp. llss.
100 Con cui si sottolineano le interrelazioni tra diversi insiemi strutturati.
10 1 E. TROELTSCH, Die Soziallehren ... , cit., pp. 967ss.
102 Cfr. t. II, p. 427.
lOJ Th. S. KuHN, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Milano 19784; cfr. CHR. THEOBALD,
Les «changements de paradigmes» dans l'histoire de l'exégèse et le statut de la vérité en théologie, RICP, 24
(1987), pp. 79-111.

V· LA PROGRESSIVA OOGMATIZZAZIONE DEI FONDAMENTI DELLA FEDE 229


Capitolo Sesto

La Costituzione dogmatica Dei Filius


del concilio Vaticano I

Indicazioni bibliografiche: Cfr. bibliografia generale; R. AuBERT, Le problème de l'acte


de/oi, Warny, Louvain 1945, pp. 131-222; W. KASPER, Die Lehre von der Tradition in der Ro-
mischen Schule, Herder, Freiburg 1962, pp. 402-422; H.J. PorrMEYER, Der Glaube' vor dem
Anspruch der Wissenscha/t. Die Konstitution uber den katholischen Glauben «Dei Filiur»
des Ersten Vatikanischen Konzils und die unvero/fentlichten Voten der vorbereitenden Kom-
mission, Herder, Freiburg 1968; R. AuBERT (a cura di), De doctrina Conci/ii Vaticani Primi stu-
dia selecta annis 1948-1964 scripta denue edita cum centesimus annus compleretur ab eodem
inchoato concilio, Libreria editrice Vaticana, 1969, pp. 3-281; P. E1èHER, Offenbarung. Prinzip
neuzeitlicher Theologie, Kosel, Miinchen 1977; K. ScHATZ, Vaticanum I. 1869-1870. voi. II: Von
der Ero/fnung bis zu der Konstitution «Dei FiliuS», Schoningh, Paderborn 1993, pp. 313-355.

Nel commento seguiremo lo stesso ordine della Costituzione eviden-


ziando così il suo carattere sistematico 1• Laddove si renderà necessario per
chiarire il senso del testo o affrancarlo da interpretazioni troppo strette 2 ,
si farà riferimento alla storia della sua redazfone e ai dibattiti avvenuti in
assemblea conciliare. Concluderemo l'insieme di questo percorso con una
breve valutazione dogmatica dei dati e delle aperture della Costituzione
nella prospettiva della recezione che, appunto, è la nostra.

l. IL PROLOGO O LA GENEALOGIA DEL SISTEMA

Il prologo che (ad eccezione della fine) non è mai stato ripreso nel Denzin-
ger è importantissimo per l'interpretazione della Costituzione: non solo rial-
laccia il Vaticano I al concilio di Trento, ma soprattutto mette in chiaro
l'oggetto formale del testo che è l'opposizione del «magistero straordina-
1 Riferendosi alle note metodologiche sulla storia dei dogmi chiamiamo qui <<Sistema» il «nesso degli
stessi misteri fra loro e con il fine ultimo dell'uomo» (Dei Filius, cap. IV) e che assume, nella Costituzione,
la forma di un «edificio» allo stesso tempo dottrinale, ecclesiale e politico-giuridico; cfr. B. CASPER, Der Sy-
stemgedanke in der s:piiten Tubingee Schule und in der deutschen Neuscholast1k, PhJ, 72 (1964). pp. 161-179.
2 Or. H.J. PoTIMEYER, Der Glaube vor dem Ans:pruch der Wissenscha/t.. ., Herder, Freiburg 1968, pp. 12ss.

23 0 CHRISTOPH THEOBALD
rio» (cap. III) 3 agli errori dei Tempi moderni, riletti e connessi secondo un
«legame» genealogico, quasi una sorta di contrario negativo del «nesso degli
stessi misteri fra loro e con il fine ultimo dell'uomo» (cap. IV) 4 • Questa cor-
relazione tra «difesa della verità cattolica» e «proscrizione delle dottrine pe-
ricolose», tra «dottrina salutare di Cristo» e «proscrizione e condanna degli
errori contrari» 5 è fondamentale per comprendere lo statuto del testo quale
espressione del «giudizio solenne» della Chiesa, che viene posto in modo
dottrinale nel capitolo III 6 ma che era già comparso in quel «giudicare» an-
nunciato solennemente alla fine del prologo. Inoltre questa correlazione per-
mette di misurare il limite del testo che non pretende per nulla di proporre la
totalità della fede cattolica (è questa la funzione del «magistero ordinario e
universale» della Chiesa). Si noti la novità della formula di introduzione che
trasforma, in modo significativo, il «soggetto» autore della Costituzione, così
come si presentava ancora nei testi di Trento 7 • Eccoci dunque al cuore di
quella «interazione degli enunciati dogmatici e della loro enunciazione» a cui
si faceva riferimento concludendo il capitolo precedente.

1. Il «metodo della provvidenza»


Pio vescovo, servo dei servi di Dio, con l'approvazione del sacro concilio, a perpe-
tua memoria. Il Figlio di Dio e redentore del genere umano, nostro signore Gesù
Cristo, sul punto di tornare al Padre celeste, promise di essere con la sua chiesa
militante sulla terra tutti i giorni fino alla fine dei secoli. Per questo non ha mai
cessato in ogni tempo di essere a fianco della sua sposa diletta, di assisterla nel suo
insegnamento, di benedire le sue opere, di soccorrerla nei pericoli. Ora, questa prov-
videnza salutare, che si è costantemente manifestata attraverso altri innumerevoli
benefici, si è mostrata principalmente per i frutti abbondanti che il popolo cristiano
ha tratto dai concili ecumenici e soprattutto da quello Tridentino 8.

Già nel prologo si fa funzionare «il metodo della Provvidenza» 9, - in-


trodotto nella Costituzione dal presidente della sotto-commissione della
Deputazione, il cardinale Dechamps - prima ancora che ad esso venga

3 COD, p. 807; DzS 3011; il testo parla di «giudizio solenne>> discinguendolo dal «magistero ordinario.
e universale>>.
4 COD, p. 808; DzS 3016.
s COD, p. 805;. DzS 3000.
6 COD, p. 807; DzS 3011.
7 Fu fatto notare da Mons. STOSSMAYER il 30 dicembre 1869 a nome di un certo numero di 11esco11i
(cfr. Mansi 50, 138-142).
s COD, p. 804.
9 La presentazione migliore del «metodo della Provvidenza» è quella di M. BLONDEL, in: F. MALLET
(=M. Bionde!), L'oeuvre du Ca! Dechamps et la méthode de l'apologétique, APhC, 151 (1905), pp. 68-91;
Les controverses surla méthode apologétique du Ca! Dechampes, APhC, 151 (1906), pp. 449-472 e 625-646;
L'oeuvre du Ca! Dechamps et !es progrès récents de l'apologétique, APhC, 153 (1907), pp. 561-591.

VI . LA COSTITUZIONE DOGMATICA DEI FILIUS DEL CONCILIO VATICANO I 231


dato un fondamento dottrinale nel capitolo III 10 • In tal modo un solo
movimento mette insieme l'atto trinitario della fondazione della Chiesa in
Mt 28, 20, evocato all'inizio del testo, e il riconoscimento, che si troverà
alla fine del prologo, che la promessa d'Isaia 59, 21 si compie attualmente
come sempre in questa Chiesa 11 • Questa presenza effettiva del Cristo ac,
canto alla sua «Sposa diletta» - lo Spirito nella Chiesa - viene già indicata
con il termine tecnico di «assistenza» che si ritroverà nella Costituzione
Pastor Aeternus. Il «metodo della Provvidenza» consiste allora nel con-
templare gli effetti o «prove» storiche di questa assistenza oppure del-
1' opera della «Provvidenza salutare», nella riconoscenza e nel dolore:
Mentre ricordiamo con animo grato, com'è giusto, questi ed altri meravigliosi
benefici che la divina clemenza ha accordato alla sua chiesa, specie con l'ultimo
concilio ecumenico, non possiamo tacere, tuttavia, il nostro acerbo dolore di fron-
te ai mali gravissimi, nati proprio dal fatto che moltissimi hanno disprezzato l'au-
torità di questo santo sinodo e trascurato i suoi saggi decreti.

La riconoscenza che proviene dalla contemplazione dei frutti della ri-


forma tridentina che si trova nella prima parte del testo viene affermata
prima di ogni altra cosa. Ma questa lascia poi il posto al dolore che viene
dallo spettacolo attuale di «mali gravissimi», che vengono analizzati nella
seconda parte del prologo.

2. Il giudizio sulla modernità


Infatti nessuno ignora che, dopo aver rifiutato il divino magistero della chiesa e
consegnate le cose della religione al giudizio privato di ciascuno, le eresie condan-
nate dai Padri di Trento si sono divise a poco a poco in molteplici sette i cui dis-
sensi e rivalità hanno finito per spegnere presso molti uomini la fede nel Cristo. E
la stessa sacra Bibbia, ritenuta prima come l'unica fonte e l'unico giudice della
dottrina cristiana, ha cessato di essere considerata come divina, ma è stata assimi-
lata ai racconti mitici.
Allora è nata e si è sparsa largamente nel mondo quella dottrina del razionalismo o
naturalismo che attaccando con rutti i mezzi la religione cristiana, in quanto sopran-
narurale, cerca con ogni sforzo di stabilire il regno di quella che chiamano la ragion
pura o la narura, dopo aver escluso il Cristo, nostro solo signore e salvatore, dall'ani-
mo umano, dalla vita e dai costumi dei popoli. Ora, questo abbandono e rifiuto del
cristianesimo, questa negazione del vero Dio e del suo Cristo, ha fatto sì che la men-
te di molti sia precipitata nel baratro del panteismo, del materialismo e dell'ateismo,
di modo che, negando la stessa natura razionale ed ogni norma del giusto e del retto,
essi fanno ogni sforzo per distruggere i fondamenti stessi dell'umana società.

IO COD, p. 807; DzS 3012.


11 Cfr. infra la citazione del testo p. 236.

232 CHRISTOPH TIIEOBALD


Il testo indica il punto preciso che produce una sorta di inversione nel
«legame dei misteri» (nexus mysteriorum) che conduce, secondo una logi-
ca ferrea, ad una vera «de-creazione»: «la distruzione dei fondamenti del-
l'umana società». La ragione esatta di questo capovolgimento proviene dal
fatto di aver «disprezzato l'autorità» del concilio di Trento e «trascurato
i suoi saggi decreti». Per la prima volta compare qui il concetto di autori-
tà, che sarà così centrale nel concilio. Infatti è l'interazione tra la verità
cattolica e il giudizio del magistero ad essere il principio di questa lettura
genealogica degli errori del Tempi moderni, che prende l'avvio dal disprez-
zo dell'autorità ecclesiale.
Svolgendo allora davanti al lettore la connessione storica di questi er-
rori, il testo distingue tre tappe di una progressiva degradazione. In un
primo tempo, si va dal «rifiuto del divino magistero della Chiesa e dal-
1' abbandono delle cose della religione al giudizio privato» alla divisione
dei gruppi ecclesiali usciti dalla Riforma («sette»), alla rovina della/ede in
Cristo presso molti che non accettano più «il carattere divino della sacra
Scrittura» (cap. II) e alla nascita della «dottrina del razionalismo e del
naturalismo» 12 • Razionalismo e naturalismo vengono qualificati nella pro-
spettiva dogmatica del testo come «dottrine».
La seconda tappa dello sviluppo consiste da allora nella lotta contro
il «naturalismo» e la «religione cristiana in quanto realtà soprannatura-
le» (capp. 11-111), tra il regno di Cristo, unico Signore e salvatore dei
popoli, e il «regno della pura ragione e della natura» (cap. IV). Storica-
mente parlando, siamo al cuore della battaglia della Costituzione che
spiega, l'uno attraverso l'altro, il principio formale del giudizio dottrina-
le dell'autorità ecclesiale e il contenuto soprannaturale del cristianesimo.
L'ultima tappa infine si attua nel capovolgimento della stessa ragione
nel suo contrario, nel momento preciso in cui essa abbandona la sua
trascendenza giungendo così al «nodo che lega i misteri della fede con il
fine ultimo dell'uomo». Ciò corrisponde alla caduta «nell'abisso del
panteismo, del materialismo e dell'ateismo», in quanto coloro che nega-
no la loro natura razionale abbandonano con questa ogni regola del ret-
to e del giusto distruggendo così i fondamenti della società. La ragione,
dunque, viene in questo testo messa in relazione con il socio-politico. Si
vedrà come la· fine di questa lettura della modernità, che bisogna quali-
ficare come apocalittica, è legata alla teologia della creazione presente
nella Costituzione (cap. I) e alla sua interpretazione della lettera ai Ro-
mani (cap. Il).

12 Questa genealogia ha incontrato delle resistenze presso un certo numero di vescovi; la Deputazione
ha conservato la sostanza del testo pur eliminado certe formule offensive.

VI . LA COSTITUZIONE DOGMATICA DEI FILIUS DEL CONCILIO VATICANO I 233


Il prologo della·
·;

~-------• PASSATO •-------~ ~---------------------------------------~

1. analisi della situazione


PADRE

FIGLIO
provvidenza
Sposo
assistenza

Chiesa militante Universo cristiano

~ Capo visibile
concilio di Trento
gioia Noi
(Pio IX)

~
<----

;:i unione corpo mistico


~
insegnamento dogmi definiti
religione
dolore soprannaturale
disciplina
opere [ clero
collegi i figli
della Chiesa
soccorso costumi

errori spettacolo

disprezzo dell'autorità
\i
rifiuto del magistero
\i
o effusione dd. sangue giudizio privato
~ \i

l
propagare in tutto l'universo
protestantesimo
\i
razionalismo, naturalismo
i
Cristo strappato dall'anima umana dei popoli
il regno di Cristo i
distruzione dei fondamenti
della società

234 CHRISTOPH THEOBALD


Costituzione "Dei Filius"

-------------------« PRESENTE •-----------------------------------------~


2. utopia 3. giudizio
DIO GESÙ CRISTO
/
'' /
/

'' /
/

'' /
/
Noi
' \i ,,(
Nostra responsabilità apostolica
madre e maestra
dei popoli pnklecessori
Nostra autorità
Paola di Dio

Chiesa . ( Cattedra di Pietro)

a tutti [ Spirito Santo )

rilevare, sostenere in mezzo ai vescovi


abbracciare, confermare del mondo intero
portare alla perfezione Santo Concilio

attestare e predicare la verità divina insegnare e difendere la verità cattolica


che risana tutte le cose professare e dichiarare la dottrina che salva

salvezza salvare riprovare le dottrine pericolose


di tutti gli
uomini

conoscenza l'unità dei proscrivere e condannare


della verità figli dispersi gli errori contrari

VI· LA COSTITUZIONE DOGMATICA DEI FILIUS DEL CONCILIO VATICANO I 235


Sempre e soprattutto a questo punto della rottura nello svolgimento
del tempo il testo fa anche intervenire sempre di più l'immaginario spa-
ziale (cfr. schema). Ciò che avviene fuori dalla Chiesa cattolica tocca un
gran numero dei suoi figli: «in conseguenza dell'indebolimento insensi-
bile della verità, il senso cattolico si è affievolito in loro». Tutto ciò li
conduce alla «confusione tra natura e grazia» (cap. Il), «tra scienze
umane e fede divina» (cap. III) e alla «depravazione del senso dei dog-
mi» (cap. IV). Alla logica della «negazione» che il testo vede agire nella
storia della modernità corrisponde quella della «confusione» rimprovera-
ta a Hermes e Giinther, come si è visto nel capitolo precedente.

3. La Chiesa «madre e maestra dei popoli»


Di fronte a un simile spettacolo, come può essere che il cuore della chiesa non si
commuova? Come, infatti, Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati. e arrivino
alla conoscenza della verità (I Tm 2, 4); come Cristo è venuto a cercare e salvare ciò
che era perduto (Le 19, 10) e per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi (Gv
11, 52), così la Chiesa, costituita da Dio madre e maestra dei popoli, si riconosce
debitrice verso tutti ed è sempre disposta e intenta a sollevare quelli che sono
caduti, a sostenere quelli che vacillano, ad abbracciare quelli che ritornano, a
confermare i buoni e a spingerli alla perfezione. Perciò essa non può mai astenersi
dal testimoniare e predicare la verità divina che sana ogni cosa, ben sapendo che
è stato detto: Il mio spirito che è sopra di te e le mie parole che ti ho messo in bocca
non si allontaneranno dalla tua bocca ora e sempre (Is 59, 21).

Questa terza parte del prologo, corredata di riferimenti biblici, mette


la Chiesa al centro. Fino ad ora considerata come «sposa» di Gesù Cri-
sto, gratificata da «innumerevoli benefici» della Provvidenza e colta da
emozione davanti allo spettacolo offerto dal mondo, ora la stessa Chiesa
si presenta come «madre e maestra dei popoli», posta analogicamente
accanto a Cristo 13 nel «prolungamento» della sua missione divina. Si ri-
conoscono qui i tratti dell'ecclesiologia della scuola romana (in partico-
lare quella di Passaglia) 14 • Il carattere universale della missione della
Chiesa presso i popoli e il ministero di raccolta 1' vengono sottolineati
fortemente in questo passo che guarda al futuro; tutto ciò ci porta a
leggervi come gli inizi di una visione che E. Poulat indica con il ter-
mine di «cattolicesimo utopico» 16 • Non bisognerà perdere di vista il
fatto che il concetto di verità sviluppato dal testo non è puramente in-
Il Cfr. il doppio «come» del testo a cui fa seguito un «così».
14 Cfr. t. III, pp. 435 ss.
15 Naturalmente in opposizione alle «sette» di cui si parla nella seconda parte del testo ..
16 E. POULAT, Modernistica. Horixons, Physionomies. Débats, (edizione latina) Nelles, Paris 1982, p. 87.

23 6 CHRISTOPH TIIBOBALD
tellettuale: nella prospettiva della Sapienza si tra,tta infatti «dell'attesta-
zione e della predicazione della verità divina che guarisce ogni cosa».
Ma in questo momento, insieme con i vescovi di tutto il mondo che siedono e
giudicano con noi, riuniti nello Spirito Santo per la nostra autorità in questo
concilio ecumenico, Noi, basandoci sulla parola di Dio scritta e trasmessa dalla
tradizione così come noi l'abbiamo ricevuta, santamente custodita e sinceramen-
te esposta dalla chiesa cattolica, abbiamo deciso di professare e dichiarare da
questa cattedra di Pietro, al cospetto di tutti, la salutare dottrina di Gesù Cri-
sto, proscrivendo e condannando gli errori contrari, in nome dell'autorità che
ci è stata data da Dio 17.

Cominciando si è fatto riferimento a quest'ultima parte del prologo


(riprodotta parzialmente dal Denzinger). Va aggiunto che il testo ora re-
stringe la sua visuale al concilio stesso e al «Noi» pontificio circondato dai
vescovi di tutto il mondo. Lo spazio è gerarchizzato col fatto di situare
«questa cattedra di Pietro al cospetto di tutti». È lo spazio dello Spirito
Santo quello in cui si situano le «autorità» che verranno esplicitate dottri-
nalmente nel testo (cap. Il). Oramai tutto è pronto per cominciare l'espo-
sizione dottrinale. Sono stati presentati i temi essenziali: la Chiesa docen-
te, rappresentata dal «Noi» pontificio in mezzo ai vescovi, quale soggetto
del testo, situato nella storia e condotto dalla Provvidenza divina verso un
solenne momento di «giudizio» apocalittico; l'attesa di una definizione
dogmatica che riguardi al contempo il principio formale del giudizio dot-
trinale da parte dell'autorità ecclesiale (in una sorta di ritorno riflessivo
sulla sua propria forma) e il contenuto di questo giudizio, il carattere so-
prannaturale del cristianesimo, per legare e dedurre l'uno dall'altro in una
circumincessione perfetta.

II. IL CAPITOLO PRIMO:


DIO CREATORE DI TUTTE LE COSE

L'esposizione dottrinale prende l'avvio dal punto più radicale della


contestazione: proprio a partire dal «baratro del panteismo, del materia-
lismo e dell'ateismo», che pare sia capace di attirare alcuni teologi catto-
lici come Hermes e Giinther. Il testo si divide in tre paragrafi 18 che si
occupano via via dell'esistenza e dell'essenza di Dio, della creazione e della
dottrina della Provvidenza divina.

17 COD, p. 805; DzS 3000 (in parte).


!8 Seguiamo l'ordine del testo ufficiale in Mansi 51, 429-434.

VI - LA COSTITUZIONE DOGMATICA DEI FIUUS DEL CONCILIO VATICANO I 237


1. L'esistenza e l'essenza di Dio

La formula· solenne che introduce questo primo capitolo .(e che verrà
ripresa con alcune varianti all'inizio dei capitoli II e IV) è stata oggetto di
un dibattito conciliare· circa la denominazione della Chiesa nel contesto
della teoria anglicana dei tre rami 19 • In tal modo si è sostituito, prima del-
l'ultimo voto, il titolo La santa Chiesa.cattolica romana (facilmente confu-
sa con l'espressione Roman Catholic Church) con La santa Chiesa cattoli-
ca, apostolica e romana:
La santa chiesa cattolica apostolica romana crede e confessa che vi è un solo Dio
vero e vivo, Creatore e signore del cielo e della terra, onnipotente, eterno, immen-
so, incomprensibile, infinito nel suo intelletto, nella sua volontà ed in ogni perfe-
zione, che essendo una sostanza spirituale unica e singolare, assolutamente sempli-
ce e immutabile, deve essere dichiarato realmente ed essenzialmente come distin-
to dal mondo, sovranamente beato in se stesso e per se stesso ed ineffabilmente
elevato al di sopra di tutto ciò che è e può essere concepito al di fuori di lui 20 .

L'inizio di questo primo paragrafo costituisce una confessione solenne,


vicina al linguaggio biblico, della fede nell'esistenza del vero Dio 21 • Ci si
muove nel contesto dogmatico del primo articolo del Simbolo, dato che
viene confermato da qualche riferimento (che abbiamo messo in corsivo
nel testo riportato poc'anzi) alla confessione di fede del Laterano IV
(1215) nella sua Costituzione Firmiter credimus sulla fede cattolica 22 • Non
bisogna comunque dimenticare l'orientamento specifico del concilio Va-
ticano I analizzato globalmente nel capitolo precedente.
Innanzitutto si ritrova in questo testo il processo di selezione: il conci-
lio non s'interessa al primo articolo del Credo se non come parte dei «pre-
amboli della fede», accessibili alla ragione in quanto tale. Supponendo che
il dogma della creazione non sia soltanto un articolo di fede ma al contem-
po «una verità di ordine naturale» 23 (come si vedrà nel capitolo II), i Padri
ritengono di avere trovato in questo modo una base comune tra tutti gli
spiriti razionali a partire dalla quale possono opporsi ragionevolmente al
panteismo, al materialismo e all'ateismo. In questo contesto polemico, si
capisce come mai si taccia della struttura trinitaria della creazione, non
conservando del testo del concilio Laterano IV che il carattere «assoluta-

19 Cfr. TH. GRANDERATH, Histoire du Conci/e du Vatican ... , cit., Il-2, pp. 70·74 e 132ss.
20 COD, p. 805; DzS 3001. I passi citati in questa sezione sono la continuazione del capitolo I.
21 Mansi 51, 186 A; il can. 1 indica la parte negativa della confessione dell'esistenza di Dio (COD,
p. 809; DzS 3021).
22 Cfr. t. II, pp. 60 e 75.
2J DTC III (1908), 2197; cfr. CHR. THEOBAW, La théologie de la création en question, RSR, 81 (1993),
pp. 613-641.

23 8 CHRISTOPH TIIEOBALD
mente semplice» e la «sostanza unica» di Dio, che nel 1215 veniva invece
confessata come l'essenza comune alle tre persone della Trinità 24 • Questa
«astrazione» avrà delle conseguenze importanti sul secondo punto di vi-
sta di questo capitolo I che appunto vuole aprire, partendo dalla confes-
sione di «Dio creatore e Signore», alla possibilità dell'ordine soprannatu-
rale (trattato nei capitoli II e III) 25 per dedurre da questo stesso dogma
un'affermazione epistemologica sui rapporti tra fede e ragione (cap. IV).
Torniamo al testo: alla confessione di Dio onnipotente, Creatore e Si-
gnore del cielo e della terra, fa seguito un'enumerazione di quattro attri-
buti26, tratti dalla metafisica classica, di cui due (l'eternità e l'infinità in
intelligenza, in volontà e in ogni perfezione) sono dirette proprio contro
l'idea panteista o materialista di un Dio in processo di infinito perfeziona-
mento27. L'acme del primo paragrafo si trova finalmente nelle tre conclu-
sioni circostanziali e polemiche tratte dalla confessione del Laterano IV
di un Dio che è «una sostanza spirituale (parola aggiunta contro il pantei-
smo e il materialismo) 28 unica e singolare (parola aggiunta contro il con-
cetto panteista di Dio come essere indeterminato)29 , assolutamente sem-
plice e immutabile»
La prima conclusione, la più importante, riguarda la. «distinzione» tra
Dio e il mondo, insita nel concetto stesso di Dio (in realtà e per essenza) 30 ;
la seconda, che riguarda la perfetta beatitudine di questo Dio (in sé e per
se), annuncia la dottrina della gratuità dell;atto di creare che si trova nel
paragrafo seguente; infine, la terza aggiunge a questa distinzione essen-
ziale e qualitativa tra Dio e il mondo quella della sua ineffabile elevazio-
ne - poniamo mente all'immaginario spaziale che funziona nel prologo -
«al di sopra di tutto ciò che è e può essere concepito al di fuori di lui».
Si può sottolineare molto il carattere «razionale» di questo concetto di
Dio che è precisamente «razionale» nella sua maniera, paradossale, di
sottrarre Dio alle prese della ragione: Dio è «incomprensibile» e «ineffa-
bilmente elevato al di sopra di tutto ciò che è e può essere concepito al di

24 Tresquidem personae sed una essentia, substantia seu natura simplex omnino, COD, p. 230; DzS 800.
25 Per questo motivo si troverà all'inizio del cap. III il titolo di «Dio creatore e signore>> (ac dominus).
26 Eternità, immensità, incomprensibilità e infinità.
27 Cfr. can. 4, 2: «Se qualcuno afferma [ ... ] che l'essenza divina manifestandosi o evolvendo diventa
ogni cosa [. .. ]» (COD, p. 810; DzS 3024).
28 Cfr. can. 2: «Se qualcuno non si vergogna di affermare che non esiste niente al di fuori delfa ma-
teria, [ ... ]» (COD, p. 810; DzS 3022).
29 Cfr. can. 4, 3: «Se qualcuno afferma che[ ... ] è l'essere universale o indefinito, che determinandosi
produce la totalità delle cose, distinta secondo i generi, le specie e gli individui [... ]» (COD, p. 810;
DzS 3024).
JO Cfr. il can. 3 che dà una definizione generale del pantesimo: <<la sostanza e l'essenza di Dio e di
tutte le cose è unica e identica» e il canone 4 che distingue tre diversi tipi di panteismo (COD, p. 810;
DzS 3023-3024).

V1. LA COSTITUZIONE DOGMATICA DEI FIUUS DEL CONCILIO VATICANO I 239


fuori di lui». È qui che si trova la punta polemica della Costituzione Dei
Filius. Contro il panteismo e il materialismo, essa deve infatti stabilire la
trascendenza e la libertà di Dio (Creatore e Signore) al di fuori delle quali
la sua rivelazione salvifica, il suo agire sovrano e l'idea stessa dei «misteri
divini che per la loro intrinseca natura sorpassano talmente l'intelligenza
creata» (cap. IV) n, sarebbero assolutamente impensabili. Contro una fal-
sa autonomia della ragione - razionalismo e semi-razionalismo rimangono
i nemici per eccellenza -, il testo fonda la trascendenza di Dio e quella
dell'ordine soprannaturale (nei capp. II-III) sull'essere stesso di Dio, sulla
sua «sostanza» 12 , rimandando.al contempo la ragione ai suoi propri limiti
determinati dal fatto stesso della creazione (cap. IV). Il testo abbandona
qui il Dio della Bibbia? Così risponde H.]. Pottmeyer:
La sfida della dottrina di Dio al concilio non è altro che la trasposizione dell' enun-
ciato biblico di un Dio Altissimo al di sopra del mondo e che si manifesta nel suo
agire (soggetto) al livello di un enunciato ontologico (predicato), per affermarlo
come una realtà essenziale di fronte ad un panteismo metafisico}}.

2. La dottrina della creazione

Il secondo paragrafo del primo capitolo propone la dottrina della crea-


zione 14 ; ma lo fa solo per precisare di più il concetto di Dio contrapponen-
dosi al panteismo e al semi-razionalismo di Giinther e Hermes. La base del
testo viene nuovamente fornita dal Lateranense IV (in corsivo nel testo):
Nella sua bontà e con la sua onnipotente virtù, non per aumentare la sua beatitu-
dine né per acquistare perfezione, ma per manifestarla attraverso i beni che con-
cede alle sue creature, questo solo vero Dio ha, con la più libera delle decisioni,
insieme all'inizio dei tempi; creato dal nulla l'una e l'altra creatura, la spirituale e la
corporale, e cioè gli angeli e il mondo, e poi la creatura umana come partecipe di
entrambe, costituita di anima e di corpo.

I tre punti principali vengono ripresi nel canone 5; dapprima, si evi-


denzia la radicale asimmetria tra Dio e la sua creatura, contro il pantei-
smo, attraverso il «dal nulla» (de nzhilo) e con il dato «assieme all'inizio
dei tempi» (ab initio temporis) della creazione. Il canone poi traduce que-
sta asimmetria con l'affermazione di una creazione della totalità del mon-

H COD, p. 808; DzS 3016.


12 Affermazione questa diretta contro Giinther e Hermes i quali trasformano, al pari dell'idealismo, la
sostanza divina in soggetto.
n H.J. POTTMEYER, Der Glaube vor dem Anspruch..., cit., p. 143.
14 Questa sezione è stata già presentata nel quadro del dogma della creazione, t. II, pp. 74-78 e viene
qui ripresa dal punto di vista della teologia fondamentale.

240 CHRISTOPH THEOBALD


do 15 , sbarrando nuovamente la strada ad ogni possibile confusione tra
creatura ed essenza divina 36 • Inoltre, l'assoluta libertà dell'atto della crea-
zione (liberrimo conszlio) viene affermato contro ogni tentativo di dedu-
zione del mondo a partire dalla stessa essenza di Dio (Giinther) 37 • Infine,
si trova affermata la gratuità dell'atto di creare, il cui motivo è solo la bontà
di Dio (che precede qui ogni sua onnipotenza) 38 : Dio non crea per au-
mentare egoisticamente la sua beatitudine - rimprovero rivolto da Giin-
ther e Hermes alla teologia classica - né per acquisire perfezione - come
se l'atto della creazione fosse legato al suo proprio divenire-Dio 39 - ma
per manifestare ciò gratuitamente attraverso la sua bontà.
Rivolta contro le tendenze dell'idealismo tedesco di concepire Dio e
il mondo come un'unità e a pensare la cosmogonia come una teogonia,
la dottrina della creazione del concilio rimane dunque nella prospettiva
«razionale» già riscontrata, in base a cui fa astrazione del contesto trini-
tario, non cogliendo nell'atto di creazione se non il fondamento della
Signoria di Dio sul mondo.

3. La dottrina della Provvidenza


Il terzo paragrafo completa quest'idea portandoci fino alla soglia del
«metodo della Provvidenza», già presente nel Prologo:
Dio, con la sua provvidenza, protegge e governa tutto ciò che ha creato, poiché essa
si estende da un confine all'altro con forza, governa con bontà ogni cosa (Sap 8, 1).
Tutto è nudo e scoperto davanti agli occhi suoi (Eb 1, 1-2), anche quello che sarà fatto
· dalla libera azione delle creature:

A partire dalla dottrina della creazione e dalla sua finalità 40 , il testo af-
ferma che la Provvidenza divina ha come compito quello di custodire le
creature e condurre le loro azioni orientandole verso il vero fine. Questa
Provvidenza è universale (universa vero quae condidit e Sap. 8, 1); inoltre
la Provvidenza si fonda sull'onniscienza di Dio che include anche l'avveni-

J5 Can. 5, 1: «Se qualcuno non confessa che Dio ha prodotto dal nulla il mondo e tutte le cose che esso
contiene, spirituali e materiali, nella totalità della loro sostanza[ ... )» (COD, p. 810; DzS 3025). Si ritroverà
questo punto nel cap. III in termini teologici ed epistemologici: «l'uomo dipende totalmente da Dio come
suo creatore e signore e la ragione creata è sottomessa completamente alla verità increata» (COD, p. 807).
J6 Cfr. Mansi 50, 76 C.
37 Can. 5, 2: «0 sé dice che Dio le ha create non con una volontà libera da ogni necessità, ma tanto
necessariamente, quanto necessariamente ama se stesso, [... )» (COD, p. 810).
38 Il relatore fa riferimento qui a san Tommaso: «Questa causa motrice è la bontà di Dio[ ... ), su-
premamente comunicativa di se stessa, dove, come dice san Tommaso summe diffusivus· sui ipsiuw
(Mansi 51, 193 D).
J9 Cfr. can. 4, 2 e 3.
40 Questa finalità viene indicata nel can. 5, 3: «O se nega che il mondo sia stato creato per la gloria di
Dio» (COD, p. 810; DzS 3025).

VI· LA COSTITUZIONE DOGMATICA DEI FILIUS DEL CONCILIO VATICANO I 241


re (Eb 4, 13 dove si parla infatti della Parola di Dio). Se il secondo para-
grafo poi insiste così tanto sull'assoluta libertà del disegno di Dio non è
certo per escludere la libertà delle sue creature. Questa è, al contrario,
riconosciuta alla fine del terzo paragrafo in quanto portata dalla Provvi-
denza e dall'onniscienza di Dio. Bisognerà aspettare il capitolo III per
comprendere il senso esatto di questa libertà umana.
Pur sottolineando la trascendenza di Dio contro il panteismo e la sua
differenza in rapporto alla creazione come pure la sua grandezza, il con-
cilio si preoccupa di equilibrare il suo modo di vedere, affermando al
contempo e contro il deismo, la presenza, «forte e dolce», del Creatore e
Signore nella sua creazione a l'apertura di questa alla sua azione. Le con-
dizioni che rendono possibile una rivelazione soprannaturale (capp. II e
III) si trovano così al cuore stesso della creazione. Ma non bisogna forse
anche notare il carattere «selettivo» delle proposizioni sulla Provvidenza,
a motivo dell'assenza della considerazione trinitaria? Il fatto di presentare
uno dopo l'altro l'inizio temporale del mondo (ab initio), la divina origine
dell'uomo (deinde), la sua azione futura (actio futura) e il motivo finale
della creazione (ad Dei gloriam) obbedisce ad una logica lineare che si
trova sotto altre forme nell'evoluzionismo scientifico del positivismo. In
ogni modo si differenzia molto dalla temporalità biblica e dal suo modo
di articolare la storia e la creazione 41 •
Col fatto di aprire alla possibilità dell'ordine soprannaturale (capp. II-ID)
e stabilendo già i limiti della ragione (cap. IV) a partire dal dogma del
<<Dio Creatore di tutte le cose», il concilio ritiene di avere trovato una base
comune tra tutti gli spiriti razionali, ed è questo appunto il fine a cui ten-
dono i «preambula fidei». Oggi bisogna forse riconoscere che ad essere
giustamente dogmatizzata come parte del concetto stesso di Dio è pro-
prio la ricerca di questa base comune. Di contro la forma ontologica che
compie questa impresa nel capitolo I suppone un consenso filosofico che
ormai - all'epoca - non esisteva più 42 •

!Il. IL CAPITOLO SECONDO: LA RIVELAZIONE

Il capitolo II e III della Costituzione formano un insieme unificato e si


trovano raggruppati sotto una medesima formula d'introduzione che li
mette in relazione al capitolo I e al prologo: «La stessa santa madre chiesa

41 Cfr. CHR. THEOBALD, La théologie de la création en question, art. cit., p. 617 e Problèmes actuels
d'une théologie de la création, in P. CoLIN (a cura di), De la nature. De la physique classique au souci éco·
logique, Beauchesne, Paris 1992, pp. 98·102.
42 H.]. POITMEYER, Der Glaube vor dem Anspruch .. ., cit., pp. 143ss.

242 CHRISTOPH THEOBALD


ritiene e insegna [.. .]» 4l. Questa unità letteraria corrisponde ad una logica
precisa che ha guidato una certa riorganizzazione del materiale prima
dell'ultima redazione, distribuendolo tra il capitolo sulla rivelazione divi-
na (II) e quello sulla fede come risposta umana (III) 44 •
Le due parti del capitolo II che riguardano rispettivamente la rivelazio-
ne e il suo «luogo» (i libri scritti e le tradizioni non scritte), possono esse-
re lette prima di tutto come una reinterpretazione circostanziale dei due
decreti del concilio di Trento sulla recezione dei Libri sacri e delle tradi-
zioni degli apostoli, sull'edizione della Vulgata e il modo di interpretare la
Scrittura. Ma <<il Vangelo come fonte di ogni verità salvifica e di ogni rego-
la morale» 45 viene qui rimpiazzato dal concetto di «rivelazione sopranna-
turale». Quest'ultima è una trasformazione importantissima che si spiega
con la doppia opposizione del concilio all'Illuminismo - al razionalismo o
al naturalismo e alla sua recezione in talune teologie semirazionaliste -
come pure all'insufficiente reazione rappresentata dal «tradizionalismo»
o dal «fideismo» 46 •
La prima parte del capitolo è formata da due paragrafi, uno riguarda
la distinzione tra «conoscenza naturale di Dio» e «rivelazione sopranna-
turale» e l'altro la necessità di questa rivelazione, nell'ipotesi del suo
darsi effettivo. Ci si trova così al cuore della Costituzione. Il principio
dottrinale di questo insieme ha nuovamente due facce: il testo non defi-
nisce soltanto il carattere soprannaturale della rivelazione ma deduce da
questo contenuto dogmatico un'affermazione epistemologica che riguar-
da la forma della ragione e la conoscenza di Dio. Il capitolo II si situa
quindi nella stessa linea di quello precedente che, partendo dalla con-
fessione del «Dio creatore e Signore», aveva già aperto la possibilità
dell'ordine soprannaturale e posto i limiti della ragione su una base co-
mune tra tutti gli spiriti razionali. Ma questo capitolo prepara pure, con
la definizione dottrinale ed epistemologica della rivelazione soprannatu-
rale, il capitolo III che ripartirà dalla duplice affermazione della dipen-
denza dell'uomo in rapporto al suo «Creatore e Signore» e della sotto-
missione della ragione creata alla Verità increata, come condizione della
possibilità dell'atto di fede 47 •

4J COD, p. 806.
44 Mansi 51, 313 B.
4> Cfr. supra, p. 124.
<6 Cfr. L'analisi di questo gioco di opposizioni di H.]. PoTTMEYER, Der Glaube vor dem Anpruch ...,
cit., pp. 168-171e192ss.
47 Questa duplice .affermazione della possibilità dell'ordine soprannaturale e dei limiti della· ragione
creata si trovava inizialmente nel primo paragrafo del cap. II, tra la possibilità di una conoscenza naturale
di Dio e laffermazione del fallo della ,Rivelazione.

VI . LA COSTITUZIONE DOGMATICA DEI FILIUS DEL CONCILIO VATICANO I 243


1. La conoscenza naturale di Dio
La stessa santa madre chiesa ritiene e insegna che Dio, principio e fine di ogni
cosa, può essere conosciuto con certezza mediante la luce naturale della ragione
umana a partire dalle cose create; infatti; dalla creazione del mondo in poz; le sue
perfezioni invisibili possono essere contemplate con l'intelletto nelle opere da lui
compiute (Rm 1, 20) 48.

Il senso di quest'affermazione, tanto discussa durante la prima metà del


xx secolo, è chiaro. Il testo non afferma niente di più di quanto faccia il
capitolo I della Costituzione (cfr. can. 1) 49 : si fa riferimento alla conoscen-
za umana che la stessa fede si pone come presupposto (praeambula /idei)
per poter esistere. Spiega H. Bouillard: «Si tratta di affermare che la fede
nel Dio della Bibbia non è un atto arbitrario, perché quando si confessa:
"Dio si è rivelato in Gesù Cristo", la parola "Dio" ha un senso per noi, e
nel momento in cui si dà per certa la realtà di questo Dio, questa certezza
si fonda a partire dalla nostra esistenza di uomini e secondo l'esigenza
della nostra ragione» 50 • Il presupposto (prae-ambulum) a cui si fa riferi-
mento non è quindi di ordine temporale. È propriamente trascendentale,
in quanto è il risultato di una riflessione della fede cattolica sulle sue con-
dizioni di possibilità nell'essere umano, portata avanti nell'intento di sal-
vaguardare, contro ogni scetticismo epistemologico, il carattere umano,
responsabile e libero dell'atto di fede (come si vedrà nel cap. III).
Soltanto la doppia opposizione del concilio riguardo al razionalismo e
al tradizionalismo permette di comprendere il motivo per cui si occupa
della «conoscenza naturale di Dio» nel quadro astratto di una «questione
di diritto» 51 • Un certo numero di Padri legati ad un tradizionalismo mo-
derato spinsero la Deputazione della fede a chiarire l'importanza del pa-
ragrafo senza riuscirvi completamente 52 • In una prospettiva più agostinia-
na, il tradizionalismo moderato preferisce in effetti considerare l'uomo
così come è concretamente, rifiutando di considerarlo isolato da ciò che
lo costituisce, come la sua educazione ricevuta da una famiglia e da una
società che gli permettono l'accesso effettivo alle verità morali e religiose

48 COD, p. 806; DzS 3004. I passi che vengono citati innanzi sono il seguito del capitolo.
49 «Se qualcuno dice che il Dio unico e vero, nostro creatore e signore, non può essere conosciuto
con cenezza, grazie al lume naturale dell'umana ragione [ ... ]» (COD, p. 810; DzS 3026).
50 H. BoUILLARD, Connaissance de Dieu. Foi chrétienne et théologie nature/le, Aubier, Paris 1967,
p. 54.
51 Cfr. la relazione GASSER in: Mansi 51, 272 A e 273 C-D
52 Mentre Mons. GAROA GrL (Mansi 51, 122 C) e il Card. DECHAMPS (Mansi51, 136B-D) intervengo-
no a nome della Deputazione per affermare che il tradizionalismo moderato non è preso in considerazio-
ne dal testo, Mons. GASSER, che ritorna nella sua ripresa ufficiale dei dibattiti all'ordine concreto della
storia della filosofia (Mansi 51, 417 A· 418 C).pretende che il tradizionalismo moderato è pure toccato
dalla condanna del tradizionalismo stretto (Mansi, 51, 275 A).

244 CHRISTOPH THEOBALD


che sono necessarie alla sua umanità 53 • Nella misura in cui il tradizionali-
smo moderato non afferma per nulla la necessità della fede cristiana per
conoscere l'esistenza di Dio ma soltanto l'esigenza storica di un riferimen-
to ad una tradizione, non è interessato dalla definizione che il dibattito ha
permesso di situare al livello formale di una possibilità 54 . La ragione di
questa astrazione 55 è contemporaneamente storica e dogmatica. Essa cor-
risponde al contesto storico, nella misura in cui il razionalismo dei Lumi,
che rivendica l'autonomia della ragione in rapporto ad cigni autorità come
un «diritto» 56 , non può infatti essere combattuto con un semplice ritirarsi
nell'ambito della fede o con un semplice richiamo alla tradizione. Si deve
invece affrontare sul suo proprio terreno, con un riconoscimento franco
del valore della ragione come «potenza attiva»'7 e non solo, come sostiene
il tradizionalismo come «potenza passiva». Questa potenza attiva è co-
munque aperta all'alterità del Creatore. È qui che si contestua il dato
dogmatico di una possibile conoscenza naturale di Dio: la «natura» non si
deve comprendere soltanto come creazione - dato scontato nel contesto
della storia biblica - ma pure inversamente, ossia la creazione come «na-
tura» - dato questo che viene contestato da alcuni Padri conciliari prossi-
mi al tradizionalismo. Come trovare altrimenti un terreno comune tra la
Chiesa e la società e come sostenere che l'uomo possa pertanto trovare
Dio senza però avere a sua disposizione i mezzi di accesso alla Rivelazio-
ne, possibilità questa che obbliga in coscienza'8 ?
Questo è l'intento del testo, che non esprime soltanto la preoccupa-
zione della Chiesa per l'insieme della società, invocando una razionalità
che dipenda dalla trascendenza di Dio, una morale sottomessa al som-
mo legislatore che è Dio e il culto pubblico che a lui si deve. Si tratta
anche di ciò che sta a fondamento della diagnosi del prologo, quando
afferma che «la stessa natura razionale» ed «ogni norma del giusto e del
retto» porta a «distruggere i fondamenti stessi dell'umana società>>. Il
riferimento a Rm 1, 20 si iscrive in questo contesto teologico, come risul-

53 Cfr. l'intervento di Mons. FILn>PI, uno dei difensori del tradizionalismo moderato (Mansi 51, 134 A-
135 D); vedi pure la ripresa di questo dibattito essenziale in H.J. PoTTMEYER, Der Glaube vor dem Anspru-
ch ... , cit., pp. 178-189.
54 Si spiega con ciò anche la trasformazione del can. 1 che inizialmente parlava dell'uomo e dell'uomo
caduto e che, invece, ora fa riferimento - come si trova nel testo - in modo astratto alla <<luce naturale
della ragione>>. ·
" Si tratta di quel processo di selezione, già osservato, determinato dall'opposizione del concilio ai
suoi avversari.
56 Il problema dei «diritti» dell'autorità del magistero al cuore stesso dell'atto di fede, che sarà argo-
mento del capitolo III della Costituzione, si appoggia su una delimitazione «anteriore>> dei rispettivi «di-
ritti» della ragione naturale e dell'autorità della rivelazione soprannaturale.
57 Cfr. H.J. PoTTMEYER, Der Glaube vor dem Anrpruch ... , cit., pp. 185ss e 195ss.
58 Cfr. su questo punto l'intervento di FRANZELIN davanti alla Deputazione della fede, 1'11.1.1870
(Mansi 50, 76 D - 77 A).

VI - LA COSTITIJZIONE DOGMATICA DEI FILIUS DEL CONCILIO VATICANO I 245


ta dall'esegesi di questo testo da parte di Franzelin 59 ; quest'ultimo fa no-
tare molto giustamente che l'idolatria, l'empietà e l'ingiustizia, sono «ine-
scusabili», poiché suppongono che la «conoscenza naturale di Dio» è
possibile 60 , insistendo altresì, in uno spirito antitradizionalista, sul carat-
tere dimostrativo di questa conoscenza (cognosci et demostrari passe), che
il concilio non sostiene.
Non viene determinata in realtà l'estensione di questa conoscenza, an-
che se il testo sembra includervi la creazione. L'espressione «Dio princi-
pio e fine di ogni cosa» dice in ogni modo da una parte i limiti del mondo
e dall'altra l'apertura della ragione all'Assoluto. Ma dal contesto risulta
che questo «Dio dei filosofi» non è altri che il «Creatore e Signore» della
Bibbia (can. 1 e inizio del cap. I). Non bisogna dunque dimenticare le sue
caratteristiche richiamate appunto in questo capitolo (soprattutto il fatto
che Dio è incomprensibile) se non ci si vuole ingannare circa il «potere» di
questa conoscenza 61 , la quale non è altro che la «potenza obbedienziale»,
vale a dire una capacità di ascolto e di obbedienza. A che cosà dispone
questa potenza obbedienziale? All'accoglienza della rivelazione sopranna-
turale che è l'oggetto della frase successiva del testo in questione.

2. La rivelazione soprannaturale

Tuttavia è piaciuto alla sua sapienza e bontà rivelare se stesso a:l genere umano,
nonché gli eterni decreti della sua volontà, per altra via, questa volta soprannatu-
rale, come dice l'Apostolo: Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte
e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti; ultimamente, in questi giorni, ha
parlato a noi per mezzo del Figlio (Eb 1, 1-2).

Si è già sottolineato che l'oggetto principale della Costituzione è pro-


prio la difesa dello statuto «soprannaturale» della rivelazione cristiana di
fronte al razionalismo o al naturalismo 62 • Il concetto di «soprannaturale»
viene qui utilizzato in un triplice senso: in questo primo paragrafo esso
qualifica la rivelazione divina, nel secondo verrà invece applicato alla nuo-
va vocazione dell'uomo mentre nel capitolo III alla recezione della rivela-
zione attraverso la fede.
La Costituzione articola prima di tutto il concetto di rivelazione sul-
!'ordine della creazione: il «tuttavia» con cui comincia la frase, introdotto
59 Cfr. il testo del Votum di FRANZELIN nell'appendice di H.]. POITMEYER, Der Glaube vor dem An·
spruch ... , cit., pp. 36*·44*.
60 Cfr. CHR. THEOBALD, Quand on dit aujourd'hui «Dieu estjusle», NRT, 113 (1991), pp. 161-184.
61 Si ritornerà su questo punto commentando il 2° paragrafo circa il carattere «certo» di questa cono·
scenza naturale di Dio, aspetto molto discusso durante il concilio.
62 Cfr. il commento al prologo, supra, pp. 233 ss.

246 CHRISTOPH THEOBALD


tardivamente, vuole evitare il malinteso di una semplice giustapposizione
dei due ordini. La rivelazione è piuttosto un'altra via, non più quella,
ascendente, approntata dagli uomini nella loro ricerca di Dio, bensì quel-
la discendente che Dio stesso ha scelto per dare accesso a ciò Dio è in se
st.esso. Franzelin distingue questi due ordini della creazione e della. reden-
zione usando i concetti di «manifestazione naturale» e di «rivelazione
soprannaturale» 63 • Quest'ultima si caratterizza anche per una gratuità e
una libertà del tutto particolari, a cui si riferisce l'espressione biblica «è
piaciuto a Dio», che si radicano nella sua sapienza e nella sua bontà e che
rimandano agli attributi di Dio del capitolo I.
La principale caratteristica della rivelazione è tuttavia la sua capacità di
aprire sull'interno stesso di Dio, in quanto essa è proprio auto-rivelazione
(se ipsum) nel senso proprio del termine. Solo in questo caso la Costitu-
zione adotta la prospettiva della comunicazione che, provenendo dall'ide-
alismo tedesco, sarà tanto decisiva nella Costituzione dogmatica sulla Ri-
velazione del Vaticano II. Ma il carattere assolutamente singolare di que-
sto avvenimento di auto-rivelazione, appena accennato, viene immediata-
mente riportato al plurale «gli eterni decreti della sua volontà», traduzio-
ne del suo «disegno» 64 in quello che è il linguaggio teologico dell'epoca.
Il fatto poi che questa rivelazione sia universale era già affermato in ciò
che si è detto circa lo statuto della conoscenza naturale di Dio. La rivela-
zione si rivolge quindi, secondo l'espressione del testo, al «genere uma-
no». Infine la citazione dell'inizio della lettera Agli Ebrei mette in relazio-
ne il concetto di rivelazione con quello di parola di Dio, che diventerà,
nel Vaticano II, il punto di partenza della Costituzione Dei Verbum, e lo
restituisce al contesto della storia biblica precisando in tal modo che que-
sta «altra via soprannaturale», di cui si è parlato fino a questo momento,
non fa che culminare nel Figlio. La prospettiva storica o biblica che si
raggiunge a questo punto è determinante anche per il secondo paragrafo
che fa riferimento alla «presente condizione del genere umano».

3. La duplice necessità della rivelazione soprannaturale

È grazie a questa divina rivelazione che tutti gli uomini possono, nella presente
condizione del genere umano, conoscere facilmente, con assoluta certezza e senza
alcun errore, ciò che nelle cose divine non è di per sé inaccessibile alla ragione.
Non è tuttavia per questo motivo che la rivelazione deve essere detta assoluta-
mente necessaria, ma perché Dio, nella sua infinita bontà, ha ordinato l'uomo ad

63 Cfr. Mansi, 50, 324 C.


64 Cfr. ad esempio Rm 8, 28; 9, p e E/ 1, 11; 3, 11.

VI - LA COSTITUZIONE DOGMATICA DBI FILIUS DEL CONCILIO VATICANO I 247


un fine soprannaturale, perché partecipi ai beni divini, che superano del tutto le ·
possibilità dell'umana intelligenza; infatti quelle cose che occhio non vide, né orec-
chio udz: né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che
l'amano (1 Cor 2, 9).

Prima di occuparci dell'oggetto più proprio di questo paragrafo, che


riguarda appunto la necessità della rivelazione, è utile evidenziare alcune
precisazioni sul concetto di «rivelazione», apportate dalla sèconda frase e
dalla citazione biblica che fanno intervenire un nuovo senso della parola
«soprannaturale». Queste precisazioni, formulate in opposizione al semi-
razionalismo di Giinther e di Frohschammer 65, insistono nuovamente sul-
la trascendenza della rivelazione che è assolutamente necessaria per cono-
scere le verità della fede. Ma una simile insistenza obbliga il concilio a
non rimanere al livello dell'inizio della rivelazione (1° paragrafo) ma a
delineare anche la sua meta, vale a dire l'orientamento dell'uomo «verso
un fine soprannaturale». Questi viene immediatamente tradotto in termi-
ni biblici parlando della partecipazione per grazia agli stessi beni di Dio
che superano (superant secondo l'immaginario spaziale del testo) tutto ciò
che lo spirito umano può immaginare. Si ritornerà sull'aspetto gnoseolo-
gico di questa prima determinazione del contenuto della rivelazione (si
anticipa così la dottrina dei «misteri» del cap. IV). Con la citazione poi di
1Cor2, 9 (che verrà completata nel cap. IV) si termina la definizione della
rivelazione: partendo dalla manifestazione di Dio nella creazione, il testo
in effetti passa per la rivelazione storica per spingersi fino al suo compi-
mento escatologico alla fine dei tempi. H. J. Pottmeyer ricorda giustamen-
te che il Votum di Franzelin sottolineava già questo legame tra conoscen-
za delle profondità divine attraverso la fede e la visione beatifica di Dio,
ritenendolo come la ragione ultima della necessità di una rivelazione per
conoscere i misteri della fede 66 •
Si rendono necessarie due spiegazioni più globali su ciò che si sta per
dire circa il concetto di «rivelazione». Tutti gli interpreti sottolineano la
centralità dello schema «natura-soprannaturale» che si trova nella Co-
stituzione67. Riandando al Medioevo e a san Tommaso 68 , questo schema
suppone che alla «natura» di una cosa corrisponda un «fine determina-
to» e dei «mezzi necessari» per raggiungerlo 69 • In una simile prospetti-
va, la manifestazione di Dio nella creazione è il «mezzo necessario» per

65 Cfr. il can 3 (COD, p. 810; DzS 3.028).


66 H.J. POITMEYER, Der Glaube vor dem Anspruch ..,, cit., p. 230.
67 Cfr. il lungo sviluppo di questo argomento in Ibid., pp. 82-107 e in P. E!CHER, Of!enbarung, cit.,
pp. 134-142.
68 Cfr. t. II, pp. 327-359; per l'epoca moderna pp. 342-346.
69 Cfr. Ibid. con le citazioni.

248 CHRlSTOPH TIIBOBALD


accedere alla conoscenza di Dio come «principio e fine di ogni cosa» ( 1°
paragrafo), così come la rivelazione soprannaturale è «assolutamente ne-
cessaria» affinché l'uomo possa raggiungere il suo «fine soprannatura-
le» (2° paragrafo). Dunque la necessità di cui si va discutendo è pura-
mente ipotetica: essa suppone nel primo caso la libertà del creatore e nel
secondo la gratuità dell'orientamento dell'uomo verso un «fine sopran-
naturale».
Ma mentre lo schema medievale partiva dall'idea che questa apertura
dell'uomo verso la beatitudine, o il desiderio di vedere Dio, facessero
parte della sua «natura», riservando soltanto il compimento paradossale
di questo desiderio al dono «soprannaturale», la Costituzione invece
considera soprannaturale già questo orientamento. Essa suppone dun-
que sia il raddoppiamento delle finalità naturali e soprannaturali sia
l'ipotesi di una «natura pura», che ha cominciato ad imporsi nella teolo-
gia cattolica a partire dal Gaetano 70 • Si può affermare con H. J. Pott-
meyer che i teologi del concilio fossero consci del carattere formale di
questa costruzione, che aveva come scopo quello di salvaguardare la
gratuità dell'ordine soprannaturale 71 ? Ci sembra di sì. A principale so-
stegno di ciò vi è il fatto che i redattori sono stati spinti dai partigiani
del tradizionalismo moderato a precisare lo statuto formale dell'ordine
naturale, interessandosi poco al contenuto che hanno poi dato a questo
concetto che Franzelin e altri concepivano come una replica quasi com-
pleta dell'ordine soprannaturale. Come altrimenti comprendere la pri-
ma frase del secondo paragrgfo, in cui si distingue, precisamente sul
terreno del creato, la prospettiva storica della «presente condizione del
genere umano» dalla prospettiva formale delle possibilità della ragione
naturale 72 ? Detto questo non si può negare che l'insistenza sulla diffe-
renza dei due ordini, dovuta al contesto polemico, e la loro inserzione
in una visione gerarchica a due o tre livelli 73 rende certamente più diffi-
cile la comunicazione dall'uno all'altro.
Questa difficoltà emerge soprattutto quando si considera la punta epi-
stemologica del testo che deduce dallo statuto soprannaturale della rivela-
zione un'affermazione «gnoseologica» che riguarda la forma della ragione
e della conoscenza di Dio. Anche se la Costituzione mette in relazione
l'auto rivelazione di Dio, secondo una prospettiva antropologica (che si

10 Cfr. Ibid., pp. 342-348.


71 Cfr. la spiegazione di FRANZELIN davanti alla Deputazione, 1'11 gennaio (Mansi 50, 334 B - 335 C)
e le note di KLEUGTEN (Mansi 53, 300 B - 301 C).
72 La contestazione dell'argomentazione di HJ. Pottmeyer da parte di P. ErCHER, Offenbarung, cit.,
p. 137. .
73 L'ultimo livello risulta essere qu~llo escatologico.

Vl - LA COSTITUZIONE DOGMATICA DEI FILIUS DEL CONCILIO VATICANO I 249


ritroverà nel Vaticano II), all'orientamento soprannaturale dell'uomo ver-
so il suo fine in Dio, essa definisce comunque il concetto di «rivelazione»
in funzione della ragione umana: vale a dire come mezzo· necessario per
condurre alla conoscenza dell'u.omo ciò «che supera assolutamente le
capacità intellettuali del suo spirito». Il fatto poi che questo contenuto
della rivelazione si presenti quasi sempre sotto una forma plurale (gli
eterni decreti della sua volontà, le cose divine, i beni divini) è un primo
indizio dell'intimo legame 74 tra rivelazione e dogmi, che sarà precisato
·nel capitolo III.
Presente nell'ordine naturale, questa definizione «gnoseologica» della
rivelazione si trova anche nel retroterra della prima frase del secondo
paragrafo in cui si afferma la «necessità morale» - «nella presente condi-
zione del genere umano», segnata dal peccato originale - di una rivelazio-
ne delle «verità naturali». Si tratta, secondo il relatore, di verità che ri-
guardano la relazione dell'uomo a Dio e la legge morale, delle quali ci si
occupa nel primo paragrafo dal punto di vista della conoscenza.naturale
di Dio. Franzelin fa notare, nel suo Votum, che la necessità morale di una
rivelazione di queste verità naturali viene dal loro «legame» con la rivela-
zione soprannaturale e che vi sono per così dire incluse 75 ; questa è una
nota decisiva per capire gli ulteriori dibattiti sull'estensione dell'autorità
magisteriale 76 • D'altronde l'impoverimento «gnoseologico» del concetto
di rivelazione viene confermato dal ripetuto riferimento ad una proble-
matica della «certezza», ereditata dal cartesianismo ma legata soprattutto
al contesto di una incertezza generalizzata in cui la Chiesa si propone
come appiglio. Mentre l'affermazione del carattere «certo» della cono-
scenza naturale di Dio sta a sottolineare I' oggettivz'tà di questa possibilità
della ragione, il ricorso invece alla rivelazione nello stesso ambito - per
«conoscere facilmente, con assoluta certezza e senza alcun errore» - cer-
ca, al contrario, di supplire all'incertezza soggettiva in una situazione se-
gnata dal peccato originale.
Di questa parte centrale della Costituzione riteniamo due punti essen-
ziali che verranno sfumati nei capitoli seguenti: il presupposto «teista» 77
del suo concetto di rivelazione la cui intelligibilità dipende difatti dalla
sua ptecomprensione di Dio come «Creatore e Signore», unitamente al-

74 P. ErCHER, Offenbarung, cit., p. 112, parla di un legame circolare tra la rivelazione e la dottrina
rivelata (religio); cfr. pure l'espressione del prologo: <<la religione cristiana in quanto soprannaturale».
75 Cfr. H.]. PorrMEYER, Der Glaube vor dem Anspruch ... , cit., p. 58*: «La rivelazione delle verità che
di per sé non vanno oltre il lume della ragione non è separata nel presente ordine dalla rivelazione delle
realtà super-razionali, ma al contrario quelle sono contenute in questa al fine di costituire un'economia
unica e integrale della rivelazione». '
76 Cfr. infra, pp. 296 s.
77 Cfr. P. ErCHER, O!fenbarung, cit. pp. 143ss.

250 CHRISTOPH THEOBALD


!'«impoverimento intellettuale» di questo stesso concetto, plausibile sol-
tanto per un immaginario specifico che si è potuto indicare con il termine
di «modello di istruzione» 78 •

4. Il luogo della rivelazione: Scrittuta e Ttadizione


Come si è già visto, il seguito del testo è una rilettura dei due primi
decreti della quarta sessione del Concilio di Trento. Dopo aver affrontato
ciò che distrugge le basi della società e i partigiani del razionalismo e del
naturalismo illuministico, il testo ritorna al punto di partenza della sua
genealogia degli errori dei tempi moderni: la disarticolazione delle tre
istanze della Scrittura, della Tradizione e del Magistero 79 •
Non solo il «Vangelo come fonte di ogni verità salvifica e di ogni regola
morale» ma la sua interpretazione, così come viene proposta sotto il con-
cetto di «rivelazione soprannaturale», si dice essere «contenuta [ .. .] nei
libri scritti e nella tradizione non scritta, che, ricevuta dagli apostoli dalla
bocca dello stesso Cristo, o trasmessa quasi di mano in mano dagli stessi
apostoli, per ispirazione dello Spirito Santo, è ghmta fino a noi» 80 • Non è
quindi pensabile nessuna distanz~ ira la fonte e questa interpretazione.

5. L'ispirazione dei libri sacri


Il terzo paragrafo, che cita a grandi linee il primo decreto di Trento 81 ,
apporta innanzitutto delle precisazioni importanti che riguardano la ca-
nonicità e l'ispirazione 82 dei Libri dell'Antico e del Nuovo Testamento:
La chiesa li considera tali non perché, composti per opera dell'uomo, sono stati
poi approvati dalla sua autorità, e neppure soltanto perché contengono senza er-
rore la rivelazione; ma perché, scritti sotto l'ispirazione dello Spirito Santo, hanno
Dio per autore e come tali sono stati trasmessi dalla Chiesa.

Prima di tutto il testo si ·oppone a due prospettive insufficienti: una spie-


gazione puramente storica o sociologica della canonicità delle Scritture con~
sistente, come fa l'esegesi storico-critica, unicamente sulla composizione del
libro e la sua recezione da parte delle comunità ecclesiali; e quella invece che

78 Cfr. M. SECKLER, Au/kliirung und Offenbarung, in Christi/icher G/aube in moderner Gesellschaft,


XXI, Herder, Freiburg 1980. p. 156.
79 Mons. CAIXAL y EsTllAoE ha insistito sul legame organico che intercorre tra queste tre istanze; cfr.
Mansi 50, 155 D - 157 D.
BO COD, p. 806; DxS 3006; cfr supra, p. 126.
81 Secondo la richiesta di molti Padri, la versione definitiva della Costituzione cita il più fedelmente
possibile i testi di Tre.nto.
82 Secondo GASSER non c'è differenza tra canonicità e ispirazione: «Nel nostro schema il libro cano-
nico è la stessa cosa del libro ispirato>,> (Mansi 51, 281 D).

VI - LA COSTITUZIONE DOGMATICA DEI FILIUS DEL CONCILIO VATICANO I 251


argomenterebbe a partire dal contenuto delle Scritture e si priverebbe della
possibilità di distinguere lo statuto proprio del libro biblico dagli altri testi
del magistero, che «contengtmo anch'essi la rivelazione senza errori>>. Lara-
gione dogmatica della canonicità delle Scritture risiede nella loro ispirazione
o, ma è la stessa cosa, nel fatto che esse hanno Dio stesso come autore.
Questa affermazione situa chiaramente l'ispirazione e la canonicità dal
punto di vista della rivelazione, ma lascia comunque aperto il problema
dell'articolazione tra la composizione realizzata dall'autore umano e l'ispi-
razione dello Spirito Santo, cosa che rappresenterà un problema durante la
crisi modernista. Tuttavia essa presuppone, secondo le spiegazioni offerte
da Franzelin al cospetto della Deputazione, 1'11febbraio1870, la differen-
za tra il carisma dell'ispirazione, particolarmente legata al momento costitu,
tivo della rivelazione, e la continua assistenza (assistentia) dello Spirito che
permette alla Chiesa non solo di ricevere il canone delle Scritture ma anche
di custodirlo e di interpretare fedelmente il «deposito della fede» 8}. Ma
come ha potuto la Chiesa riconoscere il carattere ispirato di questo o quel
libro? Il concilio non definisce né che tutti i libri le siano stati trasmessi
direttamente dagli apostoli come libri ispirati 84 , né che l'ispirazione di que-
sto o quel testo sia stata riconosciuta grazie ad una tradizione divino-apo-
stolica esplicita al riguardo. Bisogna ricorrere qui alla spiegazione di Fran-
zelin di fronte alla Deputazione il quale considera la Scrittura e la Tradizio-
ne come «due modi>> (duplex modus) della Parola di Dio: la presenza della
rivelazione nella tradizione orale della Chiesa le permette di riconoscerla in
questo o quel libro biblico. Questa spiegazione funzionale 85 si trova ben
lontana dalla prospettiva delle «due fonti» che una certa tradizione aveva
progettato e riprogetterà più tardi nei testi del Vaticano 186 •

6. Dalla Scrittura e dalla Tradizione al Magistero


Il quarto paragrafo, infine, lega la Scrittura e la tradizione alla terza
istanza che è il magistero ecclesiale, offrendo l'interpretazione autentica
del secondo decreto del concilio di Trento:
Noi dichiariamo che la sua intenzione era che in materia di fede e di costumi; che
fanno parte del!' edificio della dottrina cristiana, deve considerarsi come vero senso

8} M'ansi 50, 331 e- 333 A; K. KASPER, Die Lehre von der Tradition ... , cit., pp. 405-413 evidenzia
molto questo punto. ·
84 Il per apostolos e stato volutamente eliminato per lasciare aperta la questione storica degli autori
neotestamentari.
85 Mansi 50, 332 C-D.
86 Cfr. per esempio A. KERRIGAN, Doctn"na conci/ii Vaticani I de <<Sine scripto lraditionibur>> (1963) in:
De doctrina Concili Vaticani Primi... , cit., p. 26.

252 CHRISTOPH THEOBALD


della sacra scrittura, quello che ha creduto e crede la santa madre chiesa, alla quale
appartiene giudicare del senso e del!' interpretazione autentica delle sacre scritture; e
che di conseguenza non è lecito a nessuno interpretare la sacra scrittura contro
questo senso e contro l'unanime consenso dei padri.

Questo è il paragrafo della Costituzione che è stato maggiormente di-


scusso nella Deputazione e da parte dei Padri conciliari 87 • La formula-
zione definitiva, che è alfine molto prossima al testo tridentino (in cor-
sivo nella citazione), persegue un duplice fine. Prima di tutto propone
una lettura posz'tiva del concilio precedente che si era limitato ad esclu-
dere la contraddizione «Confessionale» tra giudizio privato o senso per-
sonale e giudizio della Chiesa o senso ecclesiale della Scrittura. Ciò che
Trento semplicemente dava per supposto è ora positivamente affermato
come autorità di giudizio e di interpretazione. La Costituzione riprende
in seguito la versione negativa di Trento che riguarda il «Consenso una-
nime dei Padri» garantendo in tal modo la libertà degli esegeti i quali
sono così tenuti soltanto a una norma negativa di non-contraddizione
con il magistero, e il «consenso unanime» della Tradizione. W. Kasper
sottolinea che il ristabilimento della formula tridentina alla fine del di-
battito, con cui si distingue chiaramente il «senso ecclesiale» caratteriz-.
zato da un giudizio esplicito e il «consenso dei Padri» infinitamente più
ampio, esclude formalmente l'identificazione - sostenuta da alcuni teo-
logi romani come Perrone - tra la tradizione e la dottrina definita dal
magistero ecclesiale 88 •
Con questo paragrafo il testo si chiude a cerchio su se stesso. Non
solo si ricollega al punto di partenza della sua genealogia degli errori dei
Tempi moderni, ma definisce anche il suo proprio statuto come risulta-
to di un giudizio magisteriale e di un'interpretazione delle Scritture. La
formula consacrata «il senso che ha creduto e crede la santa madre chie-
sa» si ritroverà nel seguito di un testo che si presenta nella sua totalità
come «edificio della dottrina cristiana» i cui «fondamenti» epistemolo-
gici sono ormai assicurati: alla base c'è infatti una razionalità umana
aperta alla trascendenza, e la rivelazione soprannaturale, che poggia sul
fondamento naturale della società, e che implica una formale articola-
zione delle tre istanze: la Scrittura, la Tradizione e il Magistero. Infine,
come garanzia della coesione dell'insieme dell'edificio, vi è il giudizio
del magistero in quanto organo dell'interpretazione autentica delle Scrit-
ture e della Tradizione.

87 Cfr. la ripresa del dibattito da parte di Mons. Gasser nella sua relatio del 5 aprile 1870 (Mansi 51,
286 D - 289 D).
88 Cfr. W. KASPER, Die Lehre von,Jer Tradition ... , cit., pp. 415ss. e 420ss.

VI - LA COSTITIJZIONE DOGMATICA DEI FIUUS DEL CONCILIO VATICANO I 253


IV. IL CAPITOLO TERZO: LA FEDE

Senza nessuna formula introduttiva, questo capitolo continua l'esposi-


zione dottrinale occupandosi ora della risposta dell'uomo alla rivelazione. Il
testo si sviluppa in due parti: la prima propone una dettagliata analisi della
struttura della fede contestuandola, secondo la procedura selettiva già espo-
sta, in rapporto alle esigenze della «ragione creata»; la seconda determina la
posizione della Chiesa nell'atto di fede. Il legame tra questi due versanti è
assicurato da un breve paragrafo 89 , molto dibattuto durante il concilio, sul-
la forma dogmatica della fede, con cui si precisa ciò che è stato detto nel
capitolo precedente sul magistero ecclesiale, aspettando l'ultima determi-
nazione circa questo giudizio nella Costituzione Pastor Aeternus.

1. La struttura della fede

Il punto di partenza: la dipendenza del/' uomo da Dio


La prima frase inizialmente si trovava nel capitolo II per fondare, contro
il razionalismo, la possibilità di una rivelazione soprannaturale; nella versio-
ne definitiva invece essa serve a mettere insieme la definiZione della fede
con la sua condizione di possibilità, il rapporto tra creatura e Creatore, espo-
sto già al capitolo I e che rimane il fondamento della Costituzione:
Poiché l'uomo dipende totalmente da Dio come suo creatore e signore e la ragio-
ne creata è sottomessa completamente alla verità increata, noi siamo tenuti, quan-
do Dio si rivela, a prestargli, con la fede, la piena sottomissione della nostra intel-
ligenza e della nostra volontà 90 •

Il punto di partenza è quindi la totale dipendenza da Dio dell'uomo e


della sua ragione. Tutto ciò risulta direttamente dalla teologia della crea-
zione già sviluppata e qui estremizzata a causa dell'opposizione al razio-
nalismo. È questa dipendenza ontologica, che si suppone riconoscibile a
livello universale, su cui si fonda l'obbligo di tutti 91 a credere in Dio nel
momento in cui questi si rivela. L'insistenza sulla sottomissione totale della
creatura al Creatore conferisce alla primissima determinazione della fede
il carattere dell' «obbedienza» (obsequium) 92 o «sottomissione della nostra

89 COD, p. 807.
90 COD, p. 807. I passi che vengono citati sono la continuazione dello stesso capitolo III.
91 A motivo del contesto l'estensione del «noi» che riguarda innanzi tu no il contesto ecclesiale è molto
più ampia.
92 Cfr. pure il can. 1 che rafforza l'aspetto gerarchico del concetto di obbedienza (dovuta a Dio come
a un superiore): «Se qualcun9 afferma che la ragione umana è così indipendente che Dio non può coman-
darle la fede (a Deo imperari), [. .. )» (COD, p. 810).

254 CHRISTOPH THEOBALD


intelligenza e della nostra volontà» a Dio «infinito in intelligenza, in vo-
lontà e in ogni perfezione», secondo gli attributi enumerati nel primo ca-
pitolo. Si potrebbe credere che questa prospettiva sia paolina 93 • Non ci
sembra sia eosì per il fatto che l'apostolo nell'obbedienza della fede sotto-
linea soprattutto l'aspetto dell'ascolto (oboeditio), registrata dal concilio
di Trento e molto valorizzata dalla Dei Verbum 94 • Si noterà come un simi-
le slittamento ha delle conseguenze importanti per ciò che riguarda il
posto della libertà nell'atto di fede.

Una prima definizione della fede


A questa frase introduttiva segue immediatamente la definizione solen-
ne («la chiesa cattolica professa») della struttura fondamentale della fede:
Quanto a questa fede, inizio dell'umana salve7.7.a, la chiesa cattolica professa che
essa non è una virtù soprannaturale, per la quale sotto l'ispirazione divina e con
l'aiuto della grazia, noi crediamo vere le cose da lui rivelate, non a causa dell'intrin-
seca verità delle cose percepite dalla luce naturale della ragione, ma a causa del-
l'autorità di Dio stesso, che le rivela, il quale non può né ingannarsi né ingannare.
La fede, secondo la testimonianza dell'apostolo, è fondamento delle cose· che si
sperano e prova di quelle che non si vedono (Eb 11, 1).

Questa definizione, che non pretende di essere completa 95 , riprende


qualche elemento della descrizione dell'atto di fede contenuto nel decre-
to sulla giustificazione del concilio di Trento (in corsivo nel testo citato).
Ma la citazione non è soltantQ selettiva 96 : il suo senso è slittato a causa di
ciò che è stato aggiunto, e ciò a causa dell'opposizione, dovuta alle circo-
stanze, alla definizione razionalista e semi-razionalista (Giinther e Hermes)
della fede. Dal divenire della giustificazione si passa alla fede in generale,
considerata secondo la prospettiva formale di un'assoluta distinzione tra.
fede e sapere 97 •
Definita prima di tutto come virtù soprannaturale, la fede è integra!~·
mente portata dall'economia soprannaturale di cui ci si è occupati in pre-
cedenza. Si tratta dell'orientamento dell'uomo, grazie alla rivelazione

93 Questa è la tesi di H.J. PorrMEYER, Der Glaube vor dem Anspruch ... , cit., pp. 235ss.
94 Cfr. Dei Verbum 5 che cita Rm 16, 26; Rm 1, 5 e 2 Cor 10, 5-6 sottolineando «l'obbedienza della
fede» (oboeditio), infra, pp. 463s.
95 Mansi 51, 313 A.
% Sono alcune citazioni al cap. VI («Gli uomini si dispongono alla giustificazione stessa, quando
stimolati e aiutati dalla grazia divina [ ... ] si volgono liberamente verso Dio, credendo vero ciò che è
stato divinamente rivelato e promesso») e al cap VIII: («siamo giustificati mediante la fede, perché la
fede è il prinàpio dell'umana salveua») del decreto sulla giustificazione del concilio di Trento, cfr.
t. II, pp. 291-312.
91 Cfr. il can. 2 (COD, p. 810 e Dz5 3032).

Vl - LA COSTITUZIONE DOGMATICA DEI FILIUS DEL CONCILIO VATICANO I 255


soprannaturale, che viene espresso qui secondo la terminologia di Tren-
to come «principio dell'umana salvezza», «preparata e accompagnata
dalla grazia divina». In seguito il testo precisa l'oggetto materiale della
fede: «crediamo vere le cose da lui rivelate»~ Si ritrova l' «impoverimento
gnoseologico», già segnalato, che prepara l'identificazione tra le cose
rivelate da Dio e la loro proposizione dogmatica, al centro del capitolo,
da parte della Chiesa. L'acme del paragrafo si tocca infine nella defini-
zione dell'oggetto formale 98 della fede, «a causa dell'autorità di Dio stes-
so che le rivela, il quale non può ingannarsi né ingannare». Così ultima-
mente la fede si definisce come una relazione di obbedienza al!'autorità
di Dio, che, senza dubbio, è richiesta da una ragione aperta alla trascen-
denza, ma che se ne distingue formalmente. Questo perché l'esercizio
della ragione si fonda sull'intrinseca evidenza di ciò che viene percepito
mentre, al contrario, la fede si fonda sull'intrinseca autorità di Colui che
comunica, infallibilmente, il vero.
Il concilio adotta qui la prospettiva antropologica ed epistemologica
propria del trattato sulla fede di san Tommaso che si serve della de-
finizione della fede in Eb 11, 1 al fine di situarla tra i diversi atti del-
l'intelligenza 99 : da una parte si trova la visione completa di una cosa, ad
esempio i principi primi di una scienza, che comporta evidenza e certez-
za; dall'altra il dubbio o l'opinione che portano all'indecisione. La fede
non si identifica con nulla di tutto ciò. Prima di tutto la fede non
comporta nessuna evidenza - aderisce invece ad una verità che non è
evidente da sé (non apparentium); e pertanto la fede non dubita ma ade-
risce con certezza - attitudine che viene indicata con la terminologia
della prova (argumentum, cfr. Eb 11, 1). La fede infatti suppone una
scelta volontaria (electio voluntaria) che in ultima istanza si fonda sul-
l'autorità divina (auctoritas divina) 100 • Ma mentre san Tommaso cor-
regge questa prospettiva estrinsecista con la sua esegesi alla prima parte
di Eb 11, 1 insistendo su una certa presenza o un primo «abbozzo» in
no/ delle realtà da sperare - la beatitudine -, il concilio si ferma invece
al principio formale di una differenza ontologica tra autorità e ragione
e ristabilisce solo all'ultimo momento, e per la forma, la totalità della
citazione di Eb 11, l 101.

98 Mentre <<l'oggetto materiale» della fede indica il suo contenuto, «l'oggetto formale» riguarda il tipo
di relazioni che entrano in. gioco per l'atto di credere.
99 S. ·Tb. IIa-IIae, q. 4, a. 1 «Vi è una buona definizione della fede in quella offerta dall'Apostolo ... ?»;
cfr. supra. pp. lOlss.
100 Per una dettagliata analisi dell'uso della lettera Agli Ebrei nella Costituzione Dei Filius, cfr. CHR.
THEOBALD, L'Épitre aux Hébreux dans la tbéologie de la foi de saint Tbomas au Conci/e Vatican I, in: CENTRE
SÈVRE, Comme une ancre jetée vers l'avenir. Regards su l'Épitre aux Hébreux, Médiasèvres, 1995, pp. 19·35.
101 Mansi 51, 210 C, 301 e 317 C-D.

256 CHRISTOPH THEOBALD


In stretta correlazione allo schema «natura-soprannaturale», la ten-
sione tra ragione e autorità è effettivamente il tema maggiore della Co-
stituzione e dello stesso concilio Vaticano I 102 • Il fondamento dogmatico
di questa opposizione si trova in questo paragrafo. Nelle altre parti del
testo, I' autorità infallibile di Dio Creatore e Signore che si rivela, ciò che
corrisponde all'oggetto formale della fede, viene comunicata all'insieme
delle istanze mediatrici della Chiesa: prima di tutto la Scrittura (cap. II)
la quale è canonica non a motivo della sua composizione da parte di
uomini o per la sua recezione, né a motivo dell'intelligibilità del suo
contenuto ma solo perché ha come autore Dio stesso; dopo viene <<il
divino magistero della Chiesa», vale a dire «l'autorità del concilio di
Trento» e «l'autorità del Papa» (prologo) 103 • La seconda parte del terzo
capitolo farà vedere la giustificazione dogmatica di questa comunicazio-
ne dell'autorità divina alla Chiesa. Si è già fatto notare lo spostamento
globale del concetto di autorità verso un prospettiva più volontarista ed
estrinsecista a detrimento del suo carattere «testimoniale». Questo spo-
stamento suppone, in ultima istanza, una concezione giuridica della rive-
lazione o della sua autorità, che si oppone al principio critico dell'auto-
nomia legittimando non solo la struttura gerarchica della società eccle-
siale, ma anche la posizione di privilegio del diritto della Chiesa di fron-
te ai fondamenti delle società umane. Ed è in questo orizzonte che biso-
gna comprendere la definizione della fede come obbedienza verso Colui
che comunica infallibilmente il vero.
Gli interpreti del paragrafo che si sta commentando oscillano tra l'evi-
denziare il contesto polemico 104 e l'attenzione alla persistenza di alcuni
aspetti personalisti nel concetto della fede 105 • A nostro awiso non biso-
gnerebbe sottovalutare, a partire da una sensibilità più contemporanea,
l'inconciliabile opposizione tra autorità della rivelazione e ragione critica,
che determina la lotta del «magistero straordinario» del Vaticano I contro
«gli errori dei tempi moderni». Tutto ciò non impedisce il lettore contem-
poraneo di essere attento ad alcuni elementi del testo, soprattutto nei
paragrafi seguenti, su cui si è particolarmente soffermato il lavoro di rie-
quilibrio svolto dal concilio Vaticano I.

102 Cfr. Y. CoNGAR, L'ecclésiologie, de la Révolution française au concile du Vatican, sous le signe de
l'affirmation de l'autorité, in AA.Vv., L'ecclésiologie au XIX siècle, Cerf, Paris 1960, pp. 77-114; cfr. anche
H.J. PorrMEYER, Der Glaube vor dem Anspruch..., cit., p. 65 e P. EICHER, Offenbarung, cit., pp. 120-134.
103 Cfr. anche l'epilogo: «per amore di Cristo [. . .] e per l'autorità dello stesso Dio e salvatore nostro
comandiamo ... [ ... ]» (COD, p. 811; DzS 3044).
104 È il caso di P. EICHER che ci sembra forzare l'aspetto estrinsecista del testo.
lOl Cfr. H.J. POTIMEYER, Der Glaube vor dem Anspruch.. ., cii., pp. 247-252 il quale insiste sul gioco
relazionale che si nasconde dietro il dativo revelanti Deo e stÙ carattere integrale della fiducia e della con-
segna di sé da parte del credente, indicata dall'idea di «piena sottomissione».

VI - LA COSTITUZIONE DOGMATICA DEI FILIUS DEL CONCILIO VATICANO I 257


La fede: ossequio razionale dell'uomo a Dio
I due paragrafi che seguono completano e sfumano la prima definizio-
ne della fede, combattendo sempre sui due fronti del razionalismo e del
tradizionalismo o fideismo: l'obbedienza della fede deve essere «confor-
me alla ragione» (paragrafo 2), perché è giusto che essa sia responsabile e
libera pur essendo completamente sotto l'influsso della grazia (paragra-
fo 3 ). Il contesto continua quindi a esplicitare il sistema dei presupposti
della fede (praeambula fidei). Ma mentre i primi due capitoli della Costi-
tuzione stabilivano i fondamenti della demonstratio religiosa, i due para-
grafi seguenti si situano invece sul terreno della demonstratio christiana 106 •
Tuttavia il concilio insiste unilateralmente, e in modo quasi-positivista, sul
carattere oggettivo e «scientifico» di questa «dimostrazione» opponendo-
si cosl alla prospettiva della scuola di Tubinga (J.E. Kuhn) 107 • La scuola di
Tubinga situa infatti i «preamboli>> e le «ragioni di credibilità>> nel circolo
ermeneutico che si crea tra l'intelligenza e la fede. La contestazione di un
certo oggettivismo da parte dei teologi di Tubinga in realtà mira alla di-
stinzione molto problematica, anche sul piano dogmatico, fatta dall' apo-
logetica del XVIII secolo tra il fatto della rivelazione e il suo contenuto o il
suo «oggetto materiale». Non basta provare mediante la ragione naturale
il fatto dell' «autorità di Dio che non può ingannarsi né ingannare>> per
rendere razionale la recezione del contenuto della fede, proposto dalla
Chiesa. Si vedrà come la Costituzione presuppone questa medesima di-
stinzione tra il contenuto dogmatico (di cui si occuperà nel quarto para-
grafo) e il fatto a cui si fa riferimento di seguito:
Nondimeno, perché l'ossequio della nostra fede fosse conforme alla ragione, Dio
ha voluto che agli interiori aiuti dello Spirito Santo si accompagnassero anche
prove esteriori della sua rivelazione: cioè fatti divini e in primo luogo i miracoli
e le profezie che, manifestando .in modo chiarissimo l'onnipotenza e la scienza
infinita di Dio, sono segni certissimi della divina rivelazione, adatti ad ogni in-
telligenza.

Come già nel caso della «conoscenza naturale di Dio», il concilio qui
non si pronuncia che sulla capacità obiettiva della ragione di verificare,
non la verità, ma la «credibilità» della rivelazione 108 , fondando quest'ulti-
ma dogmaticamente sulla stessa volontà di Dio - «Dio ha voluto che ... » -
che attende dall'uomo una fede «conforme alla ragione» (obsequium ra-

106 C&. supra, pp. 209ss.


101 Franzelin cita Kuhn nd suo Votum; cfr. H.]. POTTMEYER, Der Gillube vor dem Anspruch ..., cit., pp.
256-260 con i riferimenti.
1os Il cap. IV confermerà il cap III: <<la retta ragione dimostra i fondamenti della fede» (COD, p. 809;
DzS 3019).

25 8 CHRISTOPH TIIBOBALD
tioni consentaneum, trasformazione di Rm 12, 1). Questa possibilità di una
verifica razionale non esclude per nulla, ma al contrario include, nel con-
creto della storia, che la «dimostrazione» sia sempre il frutto di una colla-
borazione tra i «soccorsi interiori dello Spirito Santo» e delle «prove este-
riori». Secondo il cardinal Dechamps nei suoi Entretiens sur la démonstra-
tion catholique: «Non ci sono che due fatti da verificare, uno in voi, l'altro
fuori di voi e di ambedue siete voi stessi l'unico testimone» 109 • Detto ciò,
il paragrafo 2 e il canone 3 si oppongono prima di tutto a quanti escludo-
no per principio la possibilità dei criteri esterni 110 che vengono ritenuti
«adatti all'intelligenza di tutti». Nuovamente un'affermazione conforme
all'ambizione dei praeambula di poter raggiungere l'uomo su un terreno
neutro, «prima che abbia ricevuto la fede» (come diceva il primo sche-
ma) n 1, senza escludere d'altronde la presenza dei «soccorsi interiori».

Le ragioni della credibilità: profezie e miracoli


Quali sono dunque queste manifestazioni esterne della rivelazione?"
Nel capitolo si usano sei diversi termini per indicarle: «prove esteriori»
(externa argumenta che fanno pensare all'argumentum non apparentium
di Eb 11, 1), «fatti divini», «segni» (signa, termine che si userà pure in
riferimento alla Chiesa), «segni certissimi» della Chiesa, «motivo di cre-
dibilità» e «testimonianza che non si può rifiutare» (testimonium irrefra-
gibile). Viene sottolineato sia il loro carattere oggettivo (fatti divini e
segni evidenti), sia il loro valore apologetico (prove) come pure la rea-
zione che provocano nel soggetto (motivo di credibilità). Che si tratti di
«segni» e di «testimonianze» che si situano precisamente nell'ambito che
si trova tra l'impossibile evidenza e l'esigenza di una fede responsabile,
questo punto, ancora poco approfondito qui, avrà degli effetti nella te-
ologia fondamentale del xx secolo. Si noti tuttavia l'insistenza sulla «cer-
tezza» di questi segni (signa certissima) che si è già incontrata nel secon-
do capitolo, e sulla loro funzione puramente fattuale che viene sottoli-
neata anche dal canone 4 112 •

109 DECHAMPS, Entretiens sur la démonstration C1Jtbolique de la révélation chrétienne, in: Oeuvres com-
plètes, Dessain, Malines 1874, p. 16; R AUBFJ!.T, Le problème de l'acte de foi, cit., pp. 131-222, che considera
con Vai:ant il cap. III come <<li cuore della Costituzione», accresce un po' l'imponanza della «teoria dei due
fatti interno ed esterno» nella prima parte di questo capitolo sottovalutando l'estrinsecismo dd testo.
!10 Cfr. il can. 3: «Se qualcuno dice che la rivdazione divina non può essere resa credibile con segni
esteriori e che, perciò, gli uomini ·devono essere mossi alla fede unicamente dall'esperienza interiore di
ciascuno o da una ispirazione privata [ ... ] » (COD, p. 810; DzS 3033).
111 Mansi 50, 63 D.
112 Cfr. il can. 4: «Se qualcuno dice che i miracoli sono impossibili e che di conseguenza tutte le nar-
razioni che vi si riferscono, anche quelle contenute nella Sacra Scrittura, devono essere annoverate tra le
favole o i miti; o che i miràcoli npn possono mai essere conosciuti con cenezza né servire per provare
efficacemente l'origine divina della religione cristiana, [ ... ]» (COD, p. 810; DzS 3034).

VI. LA COSTITUZIONE DOGMATICA DEI FIUUS DEL CONCILIO VATICANO I 259


Tra queste manifestazioni esteriori della rivelazione, il testo cita soprat-
tutto i miracoli e le profezie che sono bersaglio dell'esegesi liberale (cfr.
can. 4) l!J. Nella limitata prospettiva degli sviluppi su «Dio creatore e Si-
gnore» (cap. I), la Costituzione li comprende come «dimostrazione» della
sua «onnipotenza» (miracoli) e della sua «scienza infinita» o della sua
«prowidenza» (profezie). Non si può che notare il carattere unilaterale di
questa visione «estrinsecista» che separa gli atti dalle parole e i segni dal
contenuto della rivelazione, che rappresenta un nuovo indizio di quel-
1' «impoverimento intellettuale» della fede, che si è già potuto segnalare.
Tutto ciò non viene smentito dal ritorno alla storia biblica con l'evocazio-
ne delle figure di Mosè, dei profeti, del «Cristo nostro Signore» e degli
apostoli. Le due citazioni che chiudono il paragrafo si riferiscono rispet-
tivamente alla predicazione apostolica confermata da segni (Mc 16, 20) e
alla continua presenza di una parola profetica nella Chiesa (2 Pt l, 19).

La fede come opera dello Spirito


L'insistenza sul peso oggettivo dei <<motivi di credibilità» non elidono
né l'opera dello Spirito nel «consenso alla predicazione, del Vangelo», né
la libertà della fede intesa come «libera obbedienza». E ciò che afferma
l'ultimo paragrafo di questa parte del capitolo (diretto nuovamente .con-
tro Hermes) 114 riferendosi al concilio di Orange II e ritornando di nuovo
al decreto sulla giustificazione del concilio di Trento (in corsivo nel testo):
Quantunque l'assenso della fede non sia affatto un moto cieco dello" spirito, nes-
suno, tuttavia, può prestare il proprio consenso alla predicazione del Vangelo, come
è necessario per ottenere la salvezza, senza l'illuminazione e l'ispirazione dello
Spirito Santo, che rende a tutti soave l'aderire e tl credere alla verità [can. 7 del
concilio di Orange II]. Perciò la fede in se stessa, anche se non opera per inezzo
della carità, è_un dono di Dio, e l'atto di fede è un'opera che riguarda la salvezza
con cui l'uomo offre a Dio stesso la sua libera obbedienza, acconsentendo e coope-
rando alla sua grazia, alla quale potrebbe resistere [cfr. il cap. V del decreto sulla
giustificazione di Trento].

La fede di cui si parla qui è sempre la fede considerata «in se stessa»,


vale a dire quella che può esistere indipendentemente dalla carità, la fede
morta del concilio di Trento e che viene compresa sotto l'aspetto del-

m Sui quali si ritornerà parlando della «questione biblica», infra, pp. 303-309.
114 «Questo paragrafo è diretto contro Hermes e i suoi sostenitori, i quali affermano che la grazia
soprannaturale non è affatto necessaria alla fede, e che la volontà non è libera nel!' assenso che dà alla
verità» (Mansi 51, 47 Cl; cfr. anche le due parti del can 5: «Se qualcuno dice che-J'assenso alla fede
cristiana non è libero, ma che è prodotto necessariamente dalle argomentazioni dell'umana ragione o
che la grazia di Dio è necessaria soltanto per la fede viva che opera mediante la carità [ ... ]» (COD,
p. 810; DiS 3035).

260 CHRISTOPH TIIBOBALD


l' «adesione» (assensus) al contenuto dogmatico. Questa fede, e non sol-
tanto la fede fiduciale (fiducia) dei luterani o la fede viva (jides viva) di
Hermes, ha le caratteristiche essenziali di essere «opera dello Spirito»,
«dono di Dio» o «frutto della sua grazia» e, a motivo di questa origine
«opera di salvezza», «per ottenere la salvezza».
La libertà di questa adesione della fede - è l'altro tema del paragrafo -
è già garantita dal suo essere «conforme alla ragione». Ma il testo ora pre-
cisa questa libertà distinguendola da una libera adesione ad argomenta-
zioni stringenti: «La libertà che il concilio intende affermare non è solo la
libertà di esercitare, vale a dire la libertà di compiere l'atto o di astenerse-
ne; ma vuole garantire la libertà di specificazione vale a dire la libertà di
scegliere in un senso o nell'altro» rn. Il ruolo che qui viene concesso alla
volontà nell'atto di fede 116 non viene esplicitato; ciò verrà fatto durante la
crisi modernista e da parte della teologia fondamentale del XX secolo.
D'altronde la stessa libertà gioca un ruolo anche in relazione alla grazia
che è necessaria pur senza essere necessitante, anche quando i rapporti
tra il soggetto della fede, la sua libertà e la grazia vengono espressi in ter-
mini più esteriori, e talora «estrinsecisti»: l'uomo presenta a Dio la sua
«libera obbedienza» 117 , atto libero perché chi lo pone può acconsentire e
cooperare o resistere alla grazia.

2. Il ruolo della Chiesa nell'atto di fede

La forma dogmatica del contenuto della fede


Eccoci dunque ormai prossimi al contenuto dogmatico, o all'oggetto
materiale della fede:
Inoltre, con fede divina e cattolica, si deve credere tutto ciò che è contenuto nella
parola di Dio scritta o tramandata, e che la chiesa propone di credere come divi-
namente rivelato sia con un giudizio solenne, sia nel suo magistero ordinario e
universale.

Questo breve paragrafo sulla forma dogmatica della fede, che introdu-
ce la seconda parte del capitolo riguardante la posizione della Chiesa nel-
l'atto di fede, presenta un certo parallelismo con il capitolo della Costitu-
zione che va dàlla rivelazione soprannaturale verso la Chiesa passando

rn R. AUBERT, Le problème de l'acte de foi, cit., p. 184.


116 Cfr. la definizione della fede nel primo paragrafo del capitolo come «piena sottomissione della
nostra intelligenza e della nostra volontà».
117 Il Vaticano II parlerà dell'«obbedienza della fede attraverso cui l'uomo si rimette interamente e
liberamente a Dio».

VI - LA COSTITIJZIONE DOGMATICA DEI FILIUS DEL CONCILIO VATICANO I 261


dell'obbligo di credere, fondato sul motivo di «credentità» 121 della fede, di
cui di parla sin dal primo paragrafo. Un solo errore viene in realtà con-
dannato attribuito a Hermes, Gi.inther e Schmid 128 e formulato nel cano-
ne 6. Questo canone è rivolto al cattolico che pensa di poter «sospendere
il suo assenso» o «mettere in dubbio quella fede che egli ha ricevuto», in
nome di un'esigenza di verifica intellettuale delle sue convinzioni, che
sarebbe la stessa per tutti gli uomini. Quest'esigenza supporrebbe che non
c'è nessuna differenza tra «i fedeli» e «coloro che non sono ancora perve-
nuti all'unica vera fede» 129 • Il testo protegge la «libera obbedienza della
fede» (di cui si parla al paragrafo 3) contro il malinteso di una libertà di
coscienza, abbandonata solo all'esame intellettuale senza ritenersi toccata
dall'obbligo di crederen°. Questo punto è capitale nel dibattito sulla li-
bertà religiosa portato avanti dalla Chiesa dai tempi del Sillabo fino al de-
creto Dignitatis Humanae del concilio Vaticano II. Sarebbe un errore
quello di fraintendere il legame intimo tra questo problema di teologia
politica e la concezione della «libertà di fede», così come è stata esposta
nel 1870 e sfumata nel 1965.
Il fatto è che la Costituzione tratta al contempo dell'obbligo di credere
e dei mezzi per corrispondervi ~ lo fa nel quadro della demonstratio catho-
lica, che è il terzo trattato della teologia fondamentale, la quale fonda
espressamente l'autorità della Chiesa «quale custode e maestra della pa-
rola rivelata» m proprio sulla necessità dell'obbedienza della fede.
Il relatore della Deputazione ha diviso i paragrafi 5 e 6 in quattro pun-
ti. Riferendosi a Eb J 1, 6 e ai capitoli VII e XIII del decreto di Trento
sulla giustificazione 132 , la prima frase m stabilisce prima di tutto la neces-
sità della fede in generale, come <<Virtù soprannaturale», per essere giusti-
ficati, e l'obbligo di perseverare in essa per ottenere la vita eterna. Di se-
guito viene un lungo sviluppo sull'obbligo attuale di credere e di perseve-
rare nella fede. Questo passo spiega, secondo il relatore, «come Dio ci

127 La «credentità» dice più della credibilità in quanto esprime il giudizio espresso appunto sull'ob-
bligo che si ha di credere (credendum).
128 Cfr. H.]. PorrMEYER, Der Glaube vor dem Anspruch ... , cit., pp. 305-315 con i suoi riferimenti.
129 Cfr. can 6: «Se qualcuno dice che i fedeli sono nella stessa condizione di coloro che non sono
ancora pervenuti all'unica vera fede, cosl che i cattolici potrebbero avere un giusto motivo di mettere in
dubbio, sospendendo il loro assenso, quella fede che hanno abbracciato sotto il magistero della Chiesa,
fino a che non avranno completato la dimostrazione scientifica delle credibilità e della verità della loro
fede [. ..)» (COD, p. 811; DzS 3036).
no Mansi 50, 91 B-C.
BI COD, p. 808; DzS 3014.
132 Cfr. il cap. VII: «Cause di questa giustificazione sono: [ ... ] causa strumentale è il sacramento dcl
battesimo, che è il sacramento della fede, senza la quale nessuno ha mai ottenuto la giustificazione», cfr.
t. II, pp. 303-304 e il cap. XIII sul dono della perseveranza, con le due citazioni di Mt IO, 22 ·e 34, 13, che
vengono poi riprese dalla Dei Filius.
m COD, p. 807; DzS 3012.

264 CHRISfOPH THEOBALD


aiuti a vivere questo dovere della fede. Ciò prima di tutto con l'istituzione
della sua Chiesa, che è come una rivelazione concreta di Dio e che ci pre-
senta allo st.esso tempo le verità da credere e i motivi di credibilità. A
questa manifestazione molto evidente della rivelazione si aggiunge, a par-
tire dal paragrafo 6, il soccorso della grazia divina interiore» 134 •
Questo lungo brano si sviluppa in tre tempi: il testo evoca prima di
tutto la tradizionale via storica dell'apologetica la quale dimostra che la
Chiesa cattolica è stata istituita da Cristo e che ha ricevuto da lui la mis-
sione di essere «la custode e la maestra della parola rivelata». Questa frase
.prepara già la via empirica che si fonda sulla realtà attuale della Chiesa per
stabilire la sua origine e la sua missione divine. Questa via corrisponde
d'altronde ampiamente alla più tradizionale via delle note, le quattro
«note» della Chiesa «una, santa, cattolica e apostolica»:
Nella sola chiesa cattolica, infatti, si riscontrano tutti quei segni così numerosi e
cosl mirabili disposti da Dio per far chiaramente apparire la credibilità delle fede
cristiana. La chiesa, anzi, a causa della sua ammirabile propagazione, della sua
eminente santità, della sua inesausta fecondità in ogni bene, a causa della sua cat-
tolica unità e della sua incrollabile stabilità, è per se stessa un grande e perenne
motivo di credibilità e una irrefragabile testimonianza della sua missione divina.

L'insieme di questo paragrafo quindi finisce con una sorta di conclusio-


ne: la Chiesa è per se stessa un «segno», e a questo titolo invita a sé «quanti
non hanno ancora creduto» e conferma i suoi fedeli nella «assicurazione
che la fede che essi professano è posta su un' «incrollabile stabilità» 1J5.
Questi tre tempi completano l'andamento apologetico dell'insieme del
capitolo, riferendosi discretamente al «metodo della Provvidenza» di cui
parlava il cardinale Dechamps IJ6. La sfida di. questo metodo è di dimo-
strare che l'obbligo di credere non si fonda soltanto su dei «motivi di cre-
dibilità» su cui l'esame intellettuale potrebbe avere un effetto «sospensi-
vo» per la fede (cosa che viene rifiutata dal can. 6), ma che essa presenta,
a partire da un' «evidenza» prescientifica, la prova morale rappresentata
dalla Chiesa per se stessa (per se ipsa). Detto ciò, anche se quasi all' estre-
mo della dimostrazione, la Costituzione non lascia le cose nel quadro
astratto di una questione di diritto, i «segni evidenti della sua istituzione
divina» sono lì «perché possa essere riconosciuta da tutti».

ll4 Mansi51,314 B.
m COD, pp. 807-808; DzS 3013-3014.
ll6 Il suo influsso su questo passo è incontestabile, cfr. a questo proposito R !<REMER, L'apologétique
du card. Dechamps, ses sources et son influence ai conci/e du Vatican, RSPT, 19 (1930), pp. 679-702, anche
se R. ScttLUND, Zur Quellenfrage der Vatikanischen Lehre von der Kirche als Glaubwurdigkeitsgrund, ZKTh,
57 (1950), pp. 443-459, ha dimostrato che l'idea della Chiesa come motivo di credibilità esisteva già nel
celebre Theologie der Vorzeit di Kleugten, utilizzato da Franzelin nei lavori preparatori.

VI - LA COSTITUZIONE DOGMATICA DEI FILIUS DEL CONCILIO VATICANO I 265


A questo punto il testo ritorna al prologo che aveva già messo in scena
il metodo della provvidenza. Pur onorando il circolo ermeneutico tra
l'esperienza attuale della Chiesa (via empirica) e ciò che la fonda, ossia la
Scrittura e la Tradizione (via historica), questa concezione (specialmente
per quanto riguarda il per se ipsa) è l'espressione ultima di un ecclesiocen-
trismo che non lascia nessun posto a un rapporto critico tra Parola di Dio
e Chiesa. Si avverte, forse soprattutto in questo ambito, che il riequilibrio
della teologia della fede operata dal Vaticano II necessiterà non soltanto
della revisione dei rapporti tra l'obbligo di credere e la «libertà religiosa»
nelle società moderne, ma anche di un decentramento della Chiesa in rap-
porto a se stessa, situata ormai «sotto la parola di Dio» e «tra» l'obbligo
di credere e la «libertà della fede».
Come al paragrafo 2, quando si trattava dei «segni esteriori» della rive-
lazione che accompagnano gli «interiori aiuti dello Spirito Santo», si è
ricondotti, nel punto seguente di questa parte (all'inizio del paragrafo 6),
verso il «fatto interiore»: «A questa testimonianza si aggiunge l'aiuto effi-
cace della grazia che viene dall'alto» m. Così sottolinea il testo insistendo,
riferendosi nuovamente al decreto di Trento, sull'idea che la totalità del-
l'itinerario credente, l'accesso e la conferma di quanti sono passati alla
fede per perseverarvi è infatti opera della benevolenza di Dio «non ab-
bandonando alcuno se non è abbandonato» ns. Questo punto, discusso
durante il concilio, indica chiaramente che il motivo di credibilità e la
grazia non sono dello stesso ordine 139 e che l'asimmetria tra cattolici e non
credenti in ultima istanza non si basa su dei ragionamenti umani ma sulla
«grazia celeste». Da ciò deriva l'ultimo punto che tira le conclusioni di
questo lungo sviluppo di pensiero:
Per cui, non è affatto uguale la condizione di quelli che grazie al celeste dono
della fede hanno aderito alla verità cattolica e di quelli che, guidati da opinioni
umane, seguono una falsa religione. Quelli che, infatti, hanno ricevuto la fede sotto
il magistero della chiesa non possono mai avere un giusto motivo (justam causam)
per mutare o dubitare della propria fede.

Sull'interpretazione di questo testo e del senso di giusto motivo a par-


tire dagli anni 1890 si è sviluppata una controversia. Quanti venivano
chiamati «oggettivisti» 140 difendevano la tesi secondo cui il concilio non
ha mai voluto pronunciarsi sulla colpevolezza soggettiva del dubbio o del-
1'apostasia, mentre i «soggettivisti» 141 pretendevano che la Costituzione

m COD, p. 808; DzS 3014.


J}8 1bid.
IJ9 Cfr. Mansi 51, 327.
140 Si trova questo termine per la prima volta in TH. GRANDERATH, Histoire du Concile Vatican ..., cit.
141 Cfr. S. HARENT, Poi, in: DTC, VI (1920), pp. 286-300.

266 CHRISTOPH IBEOBALD


non si situi soltanto sul piano oggettivo. Attualmente si conviene 142 su una
soluzione a mezza strada. Siccome il testo si oppone soltanto a quanti, in
nome del diritto della coscienza, generalizzano l'esigenza del dubbio e la
possibilità dell'apostasia 14 \ non si può dire che il concilio abbia stabilito
qualcosa circa la colpevolezza di ogni caso di «cambiamento» e di «dub-
bio sulla fede». L'insieme dei paragrafi 5 e 6 cercano piuttosto di indicar-
ne le precise condizioni: l'efficacia interiore della grazia e l'evidenza ester-
na del motivo di «credentità» che risulta dall'esperienza attuale del segno
ecclesiale. Questa seconda condizione, sottesa dalla formula «ricevuto la
fede sotto il magistero della chiesa», evidenzia la complessità del proble-
ma della colpevolezza, chiaramente in una prospettiva ecumenica. L'ec-
clesiocentrismo ha impedito al concilio di rendersene conto.
Il nostro commento al testo ha appena evidenziato tutta la complessità del
terzo capitolo della Costituzione, dovuta all'intreccio difficile da sbrogliare
che si è instaurato tra i tre fili dell'argomentazione. Vi è prima di tutto l'ap-
proccio dogmatico della fede a partire dai capitoli centrali del decreto sulla
giustificazione di Trento, riletto in funzione dell'opposizione del concilio al
razionalismo. In seguito interviene la valorizzazione dei praeambula /idei a
partire dai tre trattati classici della teologia fondamentale, la demonstratio
religiosa, la demonstratio christiana e la demonstratio catholica 144, che si fonda
sulla distinzione non meno classica tra loggetto formale, loggetto materiale
e il giudizio di credentità. È su ciò che si situa lo sforzo apprezzabile del con-
cilio per unificare i fondamenti della fede attorno a «due fatti», il «segno
esteriore» per eccellenza che è la Chiesa (nella sua relazione alla Scrittura e
alla Tradizione) e «gli interiori aiuti dello Spirito Santo». Sfortunatamente gli
interpreti hanno trascurato troppo un terzo filo, quello della trama scritturi-
stica del capitolo che si fonda essenzialmente sulla lettera Agli Ebrei. Sulle
sette citazioni di questo testo, cinque si trovano in questo capitolo 14i. Queste
citazioni si iscrivono perfettamente· nel movimento del testo che, pur insi-
stendo sulla struttura formale della fede e sulla sua credibilità, si orienta pro-
gressivamente verso l'attualità storica della sua figura ecclesiale; ciò che risul-
ta anche dal rendimento di grazie che conclude il capitolo:
Stando così le cose, ringraziando con gioia il Padre, che ci ha messi in grado di
partecipare alla sorte dei santi nella luce (Col l, 12), non trascuriamo una così
grande salvezza (Eb 2, 3 ), ma tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezio-
natore della fede (Eb 12, 2), manteniamo senza vacillare la professione della no-
stra speranza (Eb 10, 23).

142 PoTIMEYER, Der Glaube vor dem Anspruch ... , cit., pp. 342-347.
H.].
14J Cfr. Mansi 50, 95 A.
144 Cfr. supra, pp. 209ss.
l4l Eb 11, 1 con la definizione della fede; Eb 6, 1 che ricorda la necessità della fede; Eb 12, 2 (combi-
nata con Eb 2, 3 e 10, 23) per puntare sull'origine e sul compimento cristologico della fede.

VI - LA COSTITUZIONE DOGMATICA DEI FIUUS DEL CONCILIO VATICANO I 267


V. IL CAPITOLO QUARTO:
LA FEDE E LA RAGIONE

Con l'ultimo capitolo della Costituzione si raggiunge la sua vera finali-


tà. Avendo fino a questo momento dispiegato il suo proposito alle fron-
tiere della dogmatica fondandosi sulla dottrina del «Dio creatore e Signo-
re», della sua rivelazione soprannaturale e della fede come risposta uma-
na, il testo passa ora al versante epistemologico del discorso, prendendo
per modello il trattato Dei luoghi teologici che è un po' il quarto trattato
di teologia fondamentale. Ciò che abbiamo chiamato «dogmatizzaziorte
della fede» si applica più precisamente a questa parte della Costituzione.
Il piano del capitolo è limpido. Dopo aver stabilito la distinzione dei
«due ordini di conoscenza» (paragrafo 1), il testo precisa il ruolo della
ragione nell'intelligenza della fede, pur fissando i suoi limiti che sono
appunto i «misteri divini» (paragrafo 2). Il paragrafo 3 insiste negativa-
mente sull'impossibilità di una contraddizione tra fede e ragione e indica
due cause per un'eventuale «apparenza di contraddizione», definendo in
tal caso la funzione del magistero; mentre il paragrafo 4 sviluppa positiva-
mente qualche aiuto che fede e ragione possono rendersi reciprocamente.
Il capitolo si conclude con la distinzione tra il progresso delle scienze
evocato nel paragrafo 4 e il progresso della dottrina (paragrafo 5).

1. Due ordini di conoscenza


La Chiesa cattolica ha sempre unanimemente creduto e ancora crede che esistano
due ordini di conoscenza, distinti non solo per il loro principio, ma anche per il
loro oggetto: per il loro principio, perché nell'uno conosciamo con la ragione
naturale, nell'altro con la fede divina; per l'oggetto, perché oltre la verità che la
ragione naturale può capire, ci è proposto di vedere i misteri nascosti in Dio, che
non possono essere conosciuti se non sono rivelati dall'alto 146 .

Supponendo ciò che è stato detto circa il rapporto tra natura e so-
prannaturale, il testo definisce prima di tutto la distinzione assoluta (o
la «non-confusione») tra i due ordini di conoscenza: differenza di prin-
cipio quindi tra «ragione naturale» e «fede divina» 147 e differenza di og-
getto tra «verità di ragione» e «misteri nascosti in Dio». Utilizzato in un
contesto epistemologico, la terminologia dei due ordini (duplex ardo)

146 COD, p. 808; D:tS 3015. I passi che si citeranno sono il seguito dello stesso capitolo quarto.
147 Cosa che non esclude affatto che la fede sia un atto di intelligenza e di volontà; la differenza di
principio viene designata al cap. m con il termine di «virtù soprannaturale».

268 CHRISTOPH THEOBALD


rimanda allo sfondo ontologico del testo che infatti si poggia sul dogma
cristologico delle due nature: «un solo e medesimo Cristo [... ] ricono-
sciuto in due nature, senza confusione, [. ..].senza separazione» 148 • Non
c'è nessun dubbio che questa articolazione contemporaneamente dot-
trinale ed epistemologica non sia il risultato di un processo di selezione,
più volte evocato nel corso del commento ai testi. Il ristabilimento della
struttura trinitaria della rivelazione da parte del concilio Vaticano II
porterà quindi inevitabilmente verso un'altra articolazione degli «ordini
di conoscenza» 149 •
L'acme del primo paragrafo è rappresentato dalla definizione del con-
cetto di «mistero» che viene messo in relazione al contempo con ciò che
è «nascosto in Dio», con le «sue profondità» (1 Cor 2, 10), e con la ragio-
ne come ciò che costituisce il suo «limite» assoluto ''0 • Ritroviamo così la
doppia espressione del primo capitolo secondo cui Dio è «incomprensibi-
le» in sé e «ineffabilmente elevato al di sopra di tutto ciò che è e che può
essere concepito al di fuori di lui». Il paragrafo 2 riprenderà la stessa ar-
ticolazione parlando di «misteri divini che per la loro intrinseca natura,
sorpassano l'intelligenza creata» 151 • Il plurale misteri ricorda l' «impo-
verimento gnoseologico», già segnalato, che porta ad un'identificazione
tra rivelazione e «dogmi di fede» m. Si rafforza ancora questo concetto
con l'insistenza poco biblica sui misteri come limiti della ragione, suppo-
nendo così un concetto molto stretto di razionalità m.
Questa critica rimane pertinente nonostante la bella composizione «tri-
nitaria» di citazioni giovannee (il Cristo di Gv 1, 17), paoline (la sapienza
di Dio nel mistero rivelato-per mezzo dello Spirito, 1 Cor 2, 7-8 e 10) e
matteane (il rendimento di grazie del Figlio per la rivelazione dei misteri
fatta ai piccoli, Mt 11, 25) con cui si conclude il paragrafo e si integra il
riferimento paolino (Rm 1, 20) alla «conoscenza naturale di Dio». Indub-
biamente un rispetto più grande per il contesto della lettera Ai Corinzi
che mette in relazione «la sapienza misteriosa di Dio» al «linguaggio della
croce», «scandalo e follia» (1 Cor 1, 18ss.), avrebbe cambiato almeno di
un poco l'insieme di questa costruzione epistemologica.

148 Definizione del concilio di Calcedonia.


149 Cfr. CHR. THEOBALD, Problèmes actuels d'une théologie de la création, in: De la nature... ., cit., pp.
95-118. .
llO Cfr. il can. 1: «Se qualcuno dice che la rivelazione divina non contiene veri e propri misteri, ma
che tutti i dogmi della fede possono essere compresi e dimostrati con la ragione rettamente istruita, a
partire dai principi naturali[ ... ]» (COD, p. 811; DzS 3041).
m Cfr. il testo infra, pp. 270ss.; la sottolineatura è nostra.
1i2 COD, pp. 808-809; DzS 3017. .
m Cfr. K. RAHNER, Sul conce/lo di mistero nella teologia callolica, in: Saggi teologici; Paoline, Roma
1965, pp. 391-465.

Vl ·LA COSTITUZIONE DOGMATICA DEI FILIUS DEL CONCILIO VATICANO I 269


2. Possibilità e limiti della teologia

Il paragrafo seguente determina le possibilità e i limiti della teologia,


sempre nel contesto di una crescente differenziazione delle discipline teo-
logiche, molto toccate dalle evoluzioni della razionalità moderna, e sem-
pre in opposizione alla concezione «idealista » di Giinther:
Quando la ragione, illuminata dallà fede, cerca con zelo, pietà e moderazione, per
il dono di Dio arriva ad una certa conoscenza molto feconda dei misteri, sia grazie
all'analogia con ciò che conosce naturalmente, sia per il nesso degli stessi misteri
fra loro e con il fine ultimo dell'uomo. Mai, però, essa è resa capace di penetrarli
come le verità che formano il suo oggetto proprio.

Se si riconosce alla teologia il suo statuto di opera della ragione, tutta-


via si ritiene che lo sia in quanto frutto di una «mente illuminata dalla
fede» 154 • Questa affermazione significa, per i teologi del concilio, che la
teologia riceve il suo oggetto e la sua norma dalla rivelazione così come
questa viene presentata dalla Chiesa. Ciò comporta un «modo di fare»
(cura, pietà e moderazione) suggeriti da Dio stesso. Nella teologia si trat-
ta, a livello formale, di un lavoro della mente sul terreno della fede oppu-
re, in senso contrario, di un atto di fede che integra (e al contempo limita)
il lavoro della ragione? Sembra che il testo propenda piuttosto per la se-
conda soluzione 155 •
Il documento propone in seguito due cammini alla teologia: «una certa
conoscenza molto feconda dei misteri, sia grazie ali' analogia con ciò che
conosce naturalmente, sia per il nesso degli stessi misteri fra loro e con il
fine ultimo dell'uomo». La prima via suppone la dottrina classica dell'ana-
logia dell'essere (analogia entis) tra i due ordini 156 , la cui evoluzione segue
d'altronde a partire da H. Bouillard quella dei rapporti tra natura e so-
prannaturale 157 • La seconda via non solo si situa all'interno dei «misteri
della fede», ma ha soprattutto come obbiettivo l'unificazione organica
degli articoli di fede (nexus mysteriorum) a partire da un principio. Se-
condo l'ispiratore di questo riferimento, Mons. Gasser, tale principio è
Dio stesso sotto l'aspetto del suo disegno sapienziale di salvezza per l'uo-
mo o ancora la realizzazione della finalità escatologica della creazione 158 •

154 L'espressione ricalca il decreto sull'Eucaristia di Trento (COD, p. 694; DzS 1636).
m Contro H.J. PoTTMEYER, Der Glaube vor dem Anspruch ..., cit., p. 384.
156 Cfr. Ibid., p. 386.
m Cfr. H. BOUJLLARD, K. Barth, III: Parole de Dieu et existence humaine, Aubier, Paris 1957,
pp. 190-217. . .
158 Nelle note allo schema II, Gasser indica questo principio di unificazione come il fine ultimo di Dio
che si rivela e il fine ultimo dell'uomo; dr. l'analisi di H.J. POTTMEYER, Der Glaube vor dem Anspruch... ,
cit., pp. 377-382 e 386-390.

270 CHRISTOPH THEOBALD


H. J. Pottineyer ha fatto notare l'influsso della scuola di Tubinga conJ. S.
von Drey 159 , ma anche di M.J. Scheeben 160 , circa questa concezione «or-
ganica» o «sistematica» della dogmatica, molto distante dalla «teologia
delle conclusioni» praticata dalla scuola romana. Come su altri punti del-
la Costituzione, e in specie lapologetica dei «due fatti», questa visione
promettente di una teologia unificata attorno ad un principio contempo-
raneamente antropologico e teologico, rimane di fatto velata dall'estrinse-
cismo che domina l'insieme del testo.
Questo «limite», in parte dovuto alla punta polemica della Costituzio-
ne, è ciò a cui di fatto mira il paragrafo che si conclude rammentando che
«i misteri divini sorpassano talmente l'intelligenza creata». A motivo dello
stato di pellegrinaggio, che è il nostro, «in questa vita mortale», questi
misteri rimangono avvolti nel velo della fede 161 , e «quasi avviluppati in una
caligine» 162 e questa è la parte che spetta al lavoro teologico. Questa insi-
stenza sull'oscurità risulta ancora più toccante per il fatto che ciò che cir-
conda il testo è interamente dominato da una metafisica della luce: la ra-
gione umana e la <<luce naturale» (capitolo II) che «Dio ha deposto nello
spirito umano» (cap. IV) 163 ; mediante «l'illuminazione dello Spirito San-
to» Dio dà ai credenti «la conoscenza della verità» li <da passare dalle te-
nebre alla sua ammirabile luce» e li «rende degni di partecipare alla sorte
dei santi nella luce» (cap. III) 164 •

3. Nessuna contraddizion~ possibile tra fede e ragione


Da questa articolazione dottrinale tra i due ordini (<<la fede è sopra la
ragione») consegue l'impossibilità di principio di una contraddizione (pa-
ragrafo 3) come pure la possibilità di una collaborazione feconda (para-
grafo 4). Il dibattito sulla libertà delle scienze che ha rivelato delle pro-
fonde divisioni tra i Padri del concilio ha portato ad una revisione sostan-
ziale dei due paragrafi in questione e del canone corrispondente 165 • Mons.
Ginoulhiac, di Grenoble, seppe fondare l'autonomia delle scienze sulla

159 J.S. VON DREY, Ideen zur Geschichte des katholischen Dogmenrystems; cfr. R GE!SELMANN, Geist
del Christentums fmd des Katholizismus, Mainz 1940, pp. 235ss.
160 M.J. ScHEEBEN, Mistero di Cristo (1865), Messaggero, Padova 1984.
161 Con riferimenti a 2 Cor 5, 6-7.
162 Cfr. tuttavia il riferimento a 2 Pt 1, 19 nel cap. III sono il segno della parola profetica.
163 COD, p. 808; DzS 3017.
164 Questi testi citano 1 Pt 2, 9; Col l, 13 e Col 1, 12.
165 Cfr. il can. 2: «Se qualcuno dice che le scienze umane devono essere trattate con tale libertà per
cui se le loro affermazioni si oppongono alla dottrina rivelata possono essere riconosciute come vere e non
possono essere proscritte dalla chiesa [.. ]» (COD, p. 811; DzS 3042).

VI - LA COSTITUZIONE DOGMATICA DEI FIUUS DEL CONCILIO VATICANO I 271


differenza degli oggetti formali tra scienza e fede e distinguere, con gran-
de pertinenza, tra i diversi tipi di scienza: prima di tutto le matematiche,
la fisica e la chimica a cui va riconosciuta la più assoluta autonomia; l'an-
tropologia e la filosofia il cui oggetto materiale ricopre parzialmente quel-
lo stesso della fede. Quest'ultime quindi non hanno il diritto di difendere
delle opinioni che siano opposte alla rivelazione; ma non si può condan-
nare il loro principio fondamentale che consiste nel fare astrazione della
fede 166 •
Purtroppo il testo non riconosce che due cause di «apparente con-
traddizione» che si situano, ambedue, dalla parte delle scienze: risultati
scientifici insufficientemente fondati e una falsa comprensione dei «dog-
mi della fede». Il fatto che la contraddizione possa anche nascere da
un'interpretazione corrente della fede, di cui ancora non si percepisce il
radicamento storico e quindi il carattere relativo della sua espressione,
non entra per nulla nella prospettiva dei Padri. Inoltre la dimostrazione
di una superiorità si esprime anche con ciò che il paragrafo 3 aggiunge
circa il ruolo del magistero nei confronti delle scienze. Con la missione
di insegnare la Chiesa ha pure ricevuto il mandato di «custodire il depo-
sito della fede», che implica il diritto di «proscrivere la falsa scienza».
La riserva che viene introdotta all'ultimo momento - «perché nessuno
venga ingannato dalla filosofia» - precisa che la condanna riguarda sem-
pre la pseudo-scienza 167 •

4. Reciproco aiuto tra fede e ragione

Il paragrafo 4 fa tesoro delle proposte di Mons. Ginoullhiac e insiste su


questo punto:
La retta ragione, infatti, dimostra i fondamenti della fede e, illuminata dalla sua
luce, può coltivare la scienza delle cose divine; la fede, invece, libera e protegge la
ragione dagli errori e l'arricchisce di molteplici cognizioni.

Il testo riassume per la seconda volta, e in modo molto conciso, il du-


plice compito della teologia. Per teologia qui si intende la teologia fon-
damentale - indicata qui con l'ambigua espressione di «dimostrare» i
fondamenti della fede - e la teologia dogmatica. La fede cristiana aiuta

166 Cfr. Mansi, 248 B - 251 B.


167'COD, p. 809; DzS 3018 riferendosi a 1 Tm 6, 20ss; l'ultima frase di questo paragrafo, che si rife-
risce implicitamente alla lettera di Pio IX all'arcivescovo di Monaco, mette in guardia i fedeli contro le
«opinioni conosciute come contrarie alla fede» ampliandone lo spazio oltre l'ambito delle condanne so-
lenni.

272 CHRISTOPH THEOBALD


la ragione non solo per mezzo di una «norma negativa» (come limite), si
ritroverà tutto ciò nel decreto sulla libertà religiosa del concilio Vatica-
no II, ma pure mediante l'apporto storico di un certo numero di dati
religiosi ed etici, che vengono poi ripresi dalle società umane e pensati
mediante le loro scienze profane. Grazie a Mons. Ginoulhiac si valoriz-
zano anche due altri vantaggi provenienti dalle scienze, che in certo
modo anticipano certe affermazioni pratiche della Costituzione pastora-
le Gaudium et Spes del Vaticano II 168 :
[La Chiesa] non ignora e non disprezza i vantaggi che ne derivano [dalle scienze]
per la vita degli uomini; riconosce anche che esse, venute in qualche modo da
Dio, signore delle scienze, possono condurre a lui con l'aiuto della grazia, se usate
come si deve.

Si deve dunque riconoscere che il concilio ha trovato una soluzione di


principio per quanto riguarda il rapporto tra fede e scienze. Esso si situa
rigorosamente nel modello del «prospettivismo epistemologico» che insi-
ste sui «limiti invalicabili» tra «oggetti formali», vale a dire l'autonomia
metodologica delle regioni del sapere. Solo che queste trasgressioni si ri-
velano inevitabili a partire dalla seconda metà del XIX secolo, nella misu-
ra in cui la filosofia, le scienze umane nascenti e soprattutto la storia con-
dividono a prima vista il loro oggetto materiale con le espressioni della
fede. In che modo allora discernere una «differenza di ordine»? La solu-
zione di principio o la semplice affermazione della superiorità della fede
in rapporto alla ragione non è più sufficiente, così come si vedrà nel cor-
so della «crisi modernista» ..

5. Verità di fede e dogmi della Chiesa


L'ultimo paragrafo del testo fa vedere fino a che punto la concezione
della rivelazione, così come è stata sviluppata dal documento, rende diffi-
cile il discernimento tra il «deposito della fede» e la sua espressione sem-
pre storica:
La dottrina della fede, che Dio ha rivelato, non è stata proposta all'intelligenza
umana come un sistema filosofico da perfezionare, ma, come un divino deposito,
è stata affid;ita alla chiesa, sposa di Cristo, perché la custodisca fedelmente e infal-
libilmente la proclami. In conseguenza il senso dei sacri dogmi che deve sempre
essere conservato è quello che la santa madre chiesa ha determinato una volta per
tutte e non bisogna mai allontanarsi da esso sotto il pretesto e in nome di una
intelligenza più profonda.

168 Cfr. HJ. PoTIMEYER, Der Glaube vor dem Anspruch .. ., cit., pp. 430ss.

VI - LA COSTITUZIONE DOGMATICA DEI FIUUS DEL CONCILIO VATICANO I 273


Questo paragrafo è come il sigillo che i Padri pongono sulla prima
Costituzione. Opponendosi all'idea del progresso intellettuale o della
comprensione più perfetta nell'ambito della fede (Giinther), si insiste in-
vece un'ultima volta sull'intrinseco legarne tra la rivelazione come «de-
posito» (1 Tm 6, 20) o come «dottrina della fede» e la Chiesa (chiamata
come già nel Prologo «Sposa di Cristo» e «nostra madre») la quale ap-
punto ha come missione quella di «custodire» ciò che le è stato affidato
da parte di Cristo e di presentarcelo in modo infallibile.
Il senso preciso del concetto di infallibilità, di cui troviamo qui
la prima attestazione, occuperà la nostra attenzione nel prossimo
capitolo.
Ma per capire la frase centrale su «i sensi dei sacri dogmi», non biso-
gna dimenticare che la funzione del magistero viene situata
qui come dipendente in rapporto al «deposito affidato (tradz'tum)» e il
«compito» (munus) o la «missione accolta» 169 ; allo stesso modo il testo
distingue tra il «deposito» in quanto tale e il «senso dei dogmi»;
precisazioni molto importanti e che corrispondono alla dottrina
delle tre istanze: Scrittura, Tradizione e magistero così come era stata
chiarita dai Padri alla fine della secondo capitolo. Giovanni XXIII vi
si riferirà nel suo celebre discorso di apertura del concilio Vaticano II:
«Altra cosa è infatti il deposito stesso della fede, vale a dire le verità
contenute nella nostra dottrina, e altra cosa è la forma con cui quelle
vengono enunciate, conservando ad esse tuttavia lo stesso senso e la
stessa portata» 170 •
Infatti è proprio questa distinzione tra verità e forma che il concilio
Vaticano I non riuscì a stabilire. L'affermazione che «il senso dei sacri
dogmi che deve sempre essere conservato è quello che la santa madre
chiesa ha determinato una volta per tutte>> rischia appunto di portare ad
una insormontabile opposizione tra dogma e storia, che la citazione finale
del Commonitorium di Vincenzo di Lerins non permette in nessun modo
di superare:
Crescano pure, quindi, e progrediscano largamente e intensamente, per cia-
scuno come per tutti, per un solo uomo come per tutta la chiesa, l'intelligen-
za, la scienza, la sapienza, secondo i ritmi propri a ciascuna generazione e a
ciascun tempo, ma esclusivamente nel loro ordine, nella stessa credenza (eodem
dogmate), nello stesso senso (eodem sensu) e nello stesso pensiero (eadem sen-
tentia).

!69 COD, p. 809; DzS .3018. Il concetto di «assistenza>> distinto da quello di «ispirazione>> che viene
utilizzato allo stesso modo nel prologo si situa precisamente a questo punto.
170 Cfr. EV 1, pp. 44·45.

274 CHRISTOPH THEOBALD


VI. RECEZIONE E VALUTAZIONE DOGMATICA

Non è certo che la storia della recezione della Costituzione Dei Filius
sia finita con la redazione della Costituzione Dei Verbum del concilio
Vaticano II, che affronta gli stessi temi di dottrina ma in tutt'altra pro-
spettiva. Ci si dovrà rifare la domanda dopo aver commentato il testo
del 1965 171 • Per il momento ci basti ritenere che la Costituzione del con-
cilio Vaticano I ha suscitato, dopo i primi generici commentari pubbli-
cati nel passaggio tra secolo XIX e xx (Granderath, Vacant, ecc.), duran-
te la seconda metà del xx secolo alcuni notevoli commenti che si divido-
no grosso modo secondo due orientamenti di fondo: R. Aubert e H. J.
Pottmeyer, il primo piuttosto sensibile all'influenza del cardinale De-
champs e della sua apologetica dei due fatti, mentre il secondo più at-
tento al contesto tedesco. Ambedue questi autori hanno uno sguardo
relativamente positivo sul testo che, aldilà dei suoi limiti reali, non può
essere ridotto all'estrinsecismo dilagante e al clima anti-moderno e anti-
scientifico della maggior parte dei Padri conciliari. Di contro P. Eicher
è molto più severo: il suo giudizio si basa su una minuziosa analisi del
contesto dogmatico (naturale-soprannaturale) e politico-giuridico (au-
torità) della scuola romana. Ma alla fine si rivela ingiusto quando ignora
gli elementi del testo, come ad esempio la definizione della teologia, che
vanno oltre il quadro dell'estrinsecismo neo-scolastico. Più recentemen-
te K. Schatz ha proposto una valutazione più equilibrata che sottolinea
la mancanza reale di un pensiero storico che, nel 1870, era comunque
normale 172 •
Effettivamente il conflitto delle interpretazioni risale già alla fine del
XIX secolo e inizio del xx. L'apologetica neo-scolastica, codificata in modo
perfetto nell'opera di P. Garrigou-Lagrange (1877 -1964), accentuerà sem-
pre di più gli elementi estrinseci del testo, mentre M. Blondel e i suoi
successori vi scorgeranno le basi del loro «metodo di immanenza» m e il
«modernismo» metterà in crisi l'insieme dell'edificio dottrinale della Co-
stituzione.
La presente analisi ha voluto evidenziare i motivi per cui lo stesso
testo abbia potuto suscitare delle letture tanto opposte. Forse bisognerà
prima di tutto ritornare sulla sua «forma sistematica», voluta da Franze-
lin e Kleugten che non hanno mai smesso di difendere il carattere for-

171Cfr. infra, p. 542.


172K. SCHATZ, Vaticanum I, II, cit., pp. 352-355.
l7JCfr. ad esempio il suo primo commento alla Costituzione nella sua Lettre sur les exigences de la
pensée contemporaine en matière d'apologétique ... , in: Les premiers écrt~s de Maurice Bionde!, PUF, Paris
1956, pp. 5-95.

VI - LA COSTITUZIONE DOGMATICA DEI FILIUS DEL CONCILIO VATICANO I 275


I. LA STRUTTURA DELLA COSTITUZIONE

1. La rilevanza del testo

Il prologo della Pastor Aeternus in diversi punti è simile a quello della


Costituzione sulla fede cattolica. Il primo paragrafo si iscrive nella pri-
ma frase della Dei Filius (con il riferimento a Mt 28, 20) sulla fondazio-
ne della Chiesa 2 ; ma si istituisce anche, con il sostegno della teologia
giovannea (Gv 15, 19; 17, 20ss e 20, 21), un parallelo tra l'invio del-
l' «eterno pastore e guardiano delle nostre anime» (1 Pt 2, 25) da parte
del Padre e l'invio degli apostoli da parte di questo pastore, cosicché la
sua volontà fu quella che «nella sua chiesa vi fossero dottori e pastori
fino alla fine del mondo» 3 •
Fondandosi su questo sviluppo trinitario ed ecclesiologico, il secondo
paragrafo indica allora l'acme della Costituzione:
Perché l'episcopato stesso fosse uno e indiviso e perché la moltitudine di tutti i
credenti fosse conservata nell'unità della fede e della comunione grazie alla stretta
e reciproca unione dei sacerdoti, prepose il beato Pietro agli altri apostoli e stabilì
nella sua persona il principio perpetuo e il fondamento visibile di questa duplice
unità. Sulla sua solidità si sarebbe costruito il tempio eterno e sulla fermezza di
questa fede si sarebbe elevata la chiesa la cui altezza deve toccare il cielo 4 •

Questo passo trasforma l'implicito riferimento all'ecclesiologia di san


Cipriano, secondo cui l'unità dell'episcopato (epsicopatus unus est) fonda-
ta su Cristo, viene prima del primato'; invece così si iscrive perfettamente
nella visione ultramontana della Chiesa 6, secondo cui l'unità della Chiesa
è costituita direttamente mediante il ministero apostolico di Pietro. Su
questo aspetto centrale, sotteso ai termini di «fondamento» e di «princi-
pio», maggioranza e minoranza si separano dall'inizio fino all'wtima pro-
testa fatta in nome «dell'ordine naturale delle cose», contro l' anticipazio-
ne del dibattito sui poteri del papato.
Il terzo paragrafo 7 , infine, evoca di nuovo la situazione apocalittica in
cui si trova la Chiesa («la cui altezza deve toccare il cielo»), a motivo del-

2 Cfr. supra, p. 231, e la fine del prologo della Dei Filius che si situano completamente nell'orizzonte
proprio. della scuola romana.
J COD, p. 811; DzS 3050.
• COD, pp. 811-812; DI$ 3051.
' Cfr. t. III, pp. 336-338. L'intervento di Mons. Wiery, esponente della minoranza, andava proprio
nel senso dell'ecclesiologia di san Cipriano (cfr. Mansi 52, 502 B-D).
6 Per un'analisi di questCJ tipo di ecclesiologia e del suo ruolo nella preparazione della Pastor Aetemus
cfr. H. J. PorrMEYER, Unfehlbarkeit und Souverlinitiit Die piipstliche Unfehlbarkeit im System der ultramon-
tanen Ekklesiologie des 19. ]ahruhunders, Griinewald, Mainz 1982, pp. 61-114 e 182-278.
1 COD, p. 812.

278 CHRISTOPH THEOBALD


l'operato delle «porte dell'inferno» che «insorgono da ogni parte contro
questo fondamento stabilito da Dio». Si ricoi·da questo contesto per giu-
stificare, come già nel prologo della Dei Filius, la necessità di un giudizio
solenne - secondo il vocabolario oramai acquisito - e che sia al contempo
«pastorale», «per la custodia, la salvaguardia e l'aumento del gregge cat-
tolico». Questo giudizio si esprime sotto la duplice forma di «proporre a
tutti i fedeli la dottrina che devono credere» e «condannare gli errori con-
trari», secondo la formula consacrata dalla Dei Filius.
Definizione e condanna suppongono prima di tutto un «credere che
sia necessario» (necessarium esse iudicamus), vale a dire un'analisi della
situazione e un discernimento storico basati sui «segni dei tempi», come
si dirà al Vaticano IL Questo è il secondo punto di divergenza tra mag-
gioranza e minoranza. Da un'analisi dei dibattiti 8 , si evince che la diver-
genza è dovuta essenzialmente al modo di vedere il rapporto tra la Chiesa
e la società. «La maggioranza tendeva a presentare la dottrina della Chie-
sa come un "contro-dogma" in opposizione ai principi del 1789, e a sot-
tolineare, nella linea del De Maistre, che è compito della Chiesa portare al
mondo la salvezza offrendogli un principio di autorità [.. .] senza cui la
società precipiterebbe nel caos»; la minoranza da parte sua aveva global-
mente: «un giudizio più sfumato che considerava legittimi certi elementi
dello sviluppo moderno della libertà» 9• Si è già citata la monizione con-
clusiva di mons. Gasser, solo due giorni prima dell'approvazione solenne
del testo, come espressione appunto dell'atteggiamento proprio della
maggioranza. Parlando invece per la minoranza mons. Ketteler così dice-
va il 23 maggio:
Rimane vero che tutti si lamentano del fatto che ogni autorità, secolare o spiritua-
le che sia, è oggi messa sotto i piedi. Tutti gli uomini di buona volontà si augurano
che noi si prenda le difese dell'autorità e che la mettiamo chiaramente al primo
posto. Ma il mondo è abitato pure da un'altra convinzione generale vale a dire
dall'orrore per ogni forma di assolutismo che è stata la fonte di tanti mali per
l'umanità; poiché l'assolutismo corrompe e svilisce l'uomo. Quindi proclamatelo,
venerabili Padri, proclamate al mondo intero che l'autorità della Chiesa [ ... ] è il
fondamento di ogni autorità! Ma dimostrate al contempo che nella Chiesa non
c'è un potere arbitrario, senza legge e assolutista [. .. ] che non c'è in essa che un
unico Signore e assoluto monarca: Gesù Cristo che ha acquistato la Chiesa con il
proprio sangue 10 •

8 Cfr. soprattutto K. ScHATZ, Vatican I, 1869-1870. III: CJn/ehlbarke1~sdiskUJsion und Rezeption, Sebo-·
ningh, Paderborn 1993, pp. 28-47 e: LA primauté du pape. Son histoire des originerà nos jours (1990), Cerf,
Paris 1992, pp. 230-232.
9 Ibùl., pp. 2~0ss.. .
10 Mansi 52, 210ss; citato da K. SCHATZ, LA primauté du pape... , cit., p. 231. Cfr. anche ciò che è stato
detto circa il concetto di «autorità» nella Costituzione Dei Filiur, rupra, pp. 255-257.

VII - PRIMA COSTITUZIONE DOGMATICA SULLA CHIESA DI CRISTO 279


I due modi di vedere sono veramente opposti. Ma K. Schatz sottolinea,
riallacciandosi al discorso di mons. Salzano 11 , il fatto che la maggioranza
non aveva torto a ricordare la perdita in atto dell'evidenza dell'idea di
cristianità unitamente all'emancipazione della Chiesa in rapporto allo Sta-
to, per giustificare la «necessità» di rafforzare le sue strutture interne di
autorità come garanzia della certezza della fede 12 •
Alla fine del prologo il piano del testo è già indicato: si tratterà succes-
sivamente dell' «istituzione» (cap. I), del «carattere perpetuo» (cap. II) e
della «natura del primato del romano pontefice» (capp. III-IV) n. Si rima-
ne impressionati dal carattere sistematico del discorso. Per coglierne la
portata ricordiamo che il concilio di Trento non poté affrontare il proble-
ma del primato che avrebbe rischiato di portare il concilio al fallimento 14 •
Si dovettero riprendere per questo le cose dall'inizio, affrontandole secon-
do i canoni della teologia fondamentale, l'interpretazione delle Scritture e
della Tradizione. La Costituzione fu poco contestata circa l'istituzione del
primato (cap. I) e quanto alla sua perpetuità (cap. II), mentre l'interpreta-
zione delle Scritture e della Tradizione dogmatica (codificata nei capp. II e
IV della Dei Filius) diventa un vero e proprio campo di battaglia quando si
tratta di definire la natura e il potere del primato del pontefice romano e il
suo magistero infallibile (capp. III e IV). Questa è la terza occasione di scon-
tro tra maggioranza e minoranza ii, su cui si ritornerà, prima di affrontare la
questione di fondo ossia la definizione dell'infallibilità pontificia che porte-
rà alla definitiva separazione dei due gruppi del concilio.

2. I primi tre capitoli


Il primo capitolo fissa il «senso» dei tre classici passi biblici, tratti dal
Vangelo, per fondare il primato apostolico di Pietro: «Ti chiamerai Cefa»
(Cv 1, 42); «Beato sei tu Simone, figlio di Giona ... » (Mt 16, 16-19); e
«Pasci i miei agnelli, pasci le mie pecore» (Cv 221, 15-17). Mentre si ri-
serva la spiegazione del quarto testo: «Ho pregato per te ... » (Le 22, 32),
per il capitolo IV della Costituzione. L'insieme viene raccolto sotto il ter-
mine di «dottrina così chiara delle sacre scritture, com'è stata sempre in-
tesa dalla chiesa cattolica» 16 , che non è altro che un'allusione al corrispon-

11 Cfr. Mansi, 52, 414 C.D


12 K. SCHATZ, Vaticanum I, III, cit., pp. 44-46.
1J COD, p. 812; DzS 3052; questo piano corrisponde a quello delle Praeelectiones theologicae di
Ferrone.
14 Cfr. t. III, pp. 412ss.; cfr. k. SCHATZ, La primauté du pape.. ., cit., pp. 191-19).
Il Cfr. supra, pp. 2) lss.
16 COD, p. 812; Dz5 J05J.

280 CHRISfOPH THEOBALD


dente paragrafo del capitolo II della Dei filius 11 • La continuazione del
testo 18 indica i tre punti della dottrina scritturistica usata dal concilio:
l'unicità della relazione tra Pietro e Cristo (uni Simoni Petro,· solt.:tm Pe-
trum), la trasmissione immediata del primato a Pietro da parte di Cristo
senza passare attraverso la Chiesa e, infine, il carattere giurisdizionale di
questo primato che si esprime attraverso il «legare-sciogliere» precisato
nel capitolo III e che è impossibile ridurre ad un «primato di onore» 19 •
Sui due primi punti la minoranza allarga e sfuma l'interpretazione delle
Scritture, riferendosi, tra l'altro, all'esegesi patristica. La minoranza inoltre
insiste sulla varietà di significato della metafora della «roccia»; inoltre fa
notare che il pluralismo testimoniato dal Nuovo Testamento è essenziale
per comprendere il ministero apostolico ed evidenzia, infine, che la termi-
nologia del «fondamento» viene ugualmente utilizzata per gli altri apostoli
(E/ 2, 20) e che, nel vangelo di Matteo, il potere di legare e di sciogliere
viene affidato anche a loro (Mt 18, 18) 20 • Si noti il fatto che anche la Costi-
tuzione Lumen Gentium del Vaticano II, che parla (n. 19) dell'Istituzione
dei Dodici 21 , fa riferimento a un dossier scritturistico. Ma quest'ultimo è
molto più sfumato di quello della Pastor Aeternus e suppone, come si ve-
drà, una relazione del tutto diversa con le Scritture, che si preannuncia già
in alcuni interventi della minoranza del concilio Vaticano I.
Il secondo capitolo sulla <<perpetuità del primato di Pietro» si fonda sul-
l'interpretazione della Tradizione e della storia della Chiesa. Così ci si pone
in continuità con quanto si dice nel capitolo IV della Dei Filius circa «il
senso dei sacri dogmi che deve sempre essere conservato, quello che la san-
ta madre Chiesa ha determinato una volta per tutte» 22 • Il dossier storico che
correda questo punto è meno contestato durante i dibattiti conciliari2\ for-
se perché ai Padri la successione apostolica non pone nessun problema. La
perpetuità si fonda su un argomento già evocato nel prologo:
Ma ciò che il signore Gesù Cristo, principe dei pastori e pastore supremo del
gregge, ha istituito nella persona del beato apostolo Pietro per la salvezza eterna

17 Cfr. supra, pp. 252ss.


18 A differenza della Dei Filius i canoni sono integrati nel testo stesso.
19 COD, p. 812; Dz5 3053-3054.
20 Cfr. K. SCHATZ, Vaticanum I, III, cit., pp. 47·49.
21 COD, p. 858; Dz5 4121.
22 COD, p. 809; DzS 3020.
2J Tuttavia il celebre testo di sant'lreneo: «è necessario che ogni chiesa, cioè i fedeli di ogni luogo, si
volga alla chiesa romana in forza della sua origine superiore (propter potentiorem principalitatem)» (Contro
le eresie, III, 3, 2; citato in COD, p. 813 e Dz5 3057) viene interpretato in modo molto diverso dalla
maggioranza e dalla minoranza. Mentre la maggioranza insiste qui sulla dipendenza di tutte le Chiese dalla
Chiesa di Roma e dalla sua tradizione apostolica, la minoranza riferendosi ad altri passi (L III Chiesa di
Efeso e di Smirne e CH IV) valorizza la complementarità tra Roma e queste altre Chiese: <<Per dirimere le
controversie sulla fede, la Chiesa di Roma è la prima e di molto la più importante, ma essa non è né tutta
la Chiesa né la sola secondo lo spirito di sant'lreneo, come viene dimostrato in modo molto pertinente
dalla parola "principalior" che è un comparativo» (Mansi 52, 817 A).

VII . PRIMA COSTITUZIONE DOGMATICA SULLA CHlESA DI CRISTO 281


e il perenne bene della Chiesa, deve necessariamente, per volontà dello stesso
Cristo, durare per sempre nella Chiesa, che, fondata sulla pietra, resterà incrolla-
bile fino alla fine dei secoli (cfr. Mt 7, 25; Lc6, 48) 24 •

In modo più chiaro della DeiFilius, questo testo fa vedere il legame tra
successione e dogma o, più precisamente, il senso dogmatico della nozio-
ne di perpetuità - sia che si tratti del «senso dei dogmi presentati dalla
chiesa una volta per tutte», oppure della successione apostolica, in parti-
colare di quella di Pietro. Questa duplice perpetuità ha un fondamento
soteriologico, in quanto essa è rigorosamente al servizio della «salvezza
eterna» e del «perenne bene della Chiesa». Il conflitto tra i Padri, sull'in-
terpretazione delle Scritture e della Tradizione, si svolge proprio attorno.
a questa base comune e incontestata di cui bisognerà ricordarsi al momen-
to in cui si tratterà dei rapporti tra normatività e storia.
Questo conflitto assume delle proporzioni più rilevanti nel dibattito sul
capitolo III che definisce, seguendo i precedenti25, «il potere e la natura
del primato del pontefice romano», vale a dire il suo potere giurisdiziona-
le e il suo potere magisteriale. Fondandosi nuovamente sulla Scrittura
(«sulle chiare testimonianze delle sacre scritture») e sulla Tradizione («se-
guendo i decreti esplicitamente definiti dai nostri predecessori, i romani
pontefici, come dai concili generali»), il testo rinnova la definizione del
concilio ecumenico di Firenze (1439) e introduce, con il capitolo III della
Dei Filius, la precisazione «che impone a tutti i cristiani di credere» ciò
che viene in essa affermato:
Che la santa Sede apostolica e il romano pontefice hanno il primato su tutta la
terra e che lo stesso pontefice romano è successore· del beato Pietro, principe
degli apostoli e vero vicario di Cristo, capo di tutta la chiesa, padre e dottore di
tutti i cristiani; che, a lui, nella persona del beato Pietro, è stato dato dal signore
nostro Gesù Cristo il pieno potere di pascere, reggere e governare la chiesa
universale, come (quemadmodum) si legge negli atti dei concili ecumenici e nei
sacri canoni 26.

Questo testo; che verrà ripreso in maniera abbreviata nel capitolo IV, è
l'espressione più significativa della dottrina della Pastor Aeternus. L'ulti-
ma frase, in un primo tempo omessa dal redattore a motivo del suo utiliz-
zo da parte dei gallicani, è stata in seguito ristabilita, essendo interpretato
in maniera restrittiva il quemadmodum «nella misura in cui questo è con-
tenuto». La minoranza insiste allora sul carattere limitativo di questa fra-
se, e arguisce a partire dal seguito del decreto di Firenze che ristabilisce,

24 COD, p. 813; DzS 3056.


25 Cfr. la frase introduttiva: «Basandosi perciò sulle chiare testimonianze ...» (COD, p. 813 ).
26 COD, p. 813; DzS 3059.

282 CHRISfOPH THEOBALD


nella prospettiva di un'unione con l'Oriente, i diritti dei patriarchi 27 • Ma
la maggioranza distingue tra l'insegnamento dogmatico del paragrafo che
sarà citato circa il primato e che è a suo dire di diritto divino e l'ordina-
mento disciplinare del paragrafo seguente di Firenze circa la pentarchia,
che invece è ritenuto semplicemente di diritto umano 28 .
Senza contestare «questo pieno e supremo potere» 29 in se stessa, la
minoranza cerca quindi di integrarla di nuovo in un insieme giurisdizio-
nale più ampio. Tutto ciò risulta dalla discussione sui paragrafi 2 e 3 del
capitolo, con cui il «potere» del romano pontefice viene definito come
«ordinario, immediato ed episcopale» distinguendolo in tal modo dal
potere dei vescovil 0 • Alcuni Padri si oppongono soprattutto al legame
instaurato tra il qualificativo «episcopale» e i due altri, temendo che gli
interventi «straordinari», tipo la riorganizzazione delle diocesi in Francia
nel 1801, divenissero moneta corrente. Ma la maggioranza sdrammatizza
il problema ritenendo che il potere episcopale del pontefice romano, iden-
tico a quello dei vescovi ma destinato nel suo caso particolare all'edifica-
zione di tutta la Chiesa, implichi per questo fatto la moderazione da parte
della Santa Sede)!. In ogni modo la minoranza riuscì almeno a introdurre
nel paragrafo 3 sul «potere di giurisdizione episcopale ordinaria e imme-
diata» il riferimento biblico ad At 20, 28: «stabiliti dallo Spirito Santo
come successori degli apostoli, in qualità di veri pastori pascono e gover-
nano ciascuno il gregge a lui affidato») 2 • Inoltre un Padre evidenzia a giu-
sto titolo che la citazione di una lettera di Gregorio Magno a Eulogio di
Alessandria, che chiude il paragrafo, è contraddittoria in quanto questo
papa rifiutava il titolo di <<Vescovo universale»}}.
L'ultima parte del capitolo sulle conseguenze del potere pontificio si
volge contro il gallicanesimo (paragrafo 4) e il conciliarismo (paragra-
fo 5), e nuovamente fa intervenire l'argomento storico facendo riferi-
mento alla lettere dell'imperatore Michele Paleologo a papa Gregorio X;

27 «Rinnoviamo, inoltre, l'ordinamento tramandato nei canoni da osservare tra gli altri venerabili
patriarchi, per cui il patriarca di Costantinopoli sia secondo dopo il santissimo pontefice romano, il pa-
triarca di Alessandria sia terzo, quello di Antiochia quarto, quello di Gerusalemme quinto, senza alcun
pregiudizio per tutti i loro privilegi e diritti» (COD, p. 528); Per il dibattito conciliare cfr. K. ScHATZ,
Vaticanum I, III, cit., pp. 94-97, che fa pure notare che la stretta distinzione trajus divinum ejus huma-
num non rende p<Ìssibile situare il posto che la struttura patriarcale occupa nella coscienza degli orientali.
28 Cfr. la relatio di mons. Zinelli (Mansi 52, 1102 A-B).
29 COD, p. 814; DzS 3064. Questa parte del canone del cap. III, rimaneggiata più volte, è diretta
contro mons. Maret e contro il rifiuto di comprendere il primato come sovranità spirituale, cfr. K. ScHATZ,
Vaticanum I, III, cit., pp. 98ss.,, 130-q3, 137-139 e 140ss.
Jo COD, pp. 813-814; DzS 3059-3061.
Jl Cfr. la relatio di mons. Zinelli, Mansi 52, 1103 C - 1106 B.
i2 COD, p. 814; DQ 3061.
JJ «Il pontefice allora avrebbe dovuto affermare di essere vescovo universale di tutta la terra. Ma
questo santo pontefice non l'ha fatto; in quanto egli ha ben visto che in tal modo avrebbe nuociuto ai suoi
fratelli» (Mansi 52, 666 C - 0).

VII - PRIMA COSTITUZIONE DOGMATICA SULLA CHIESA DI CRISTO 283


letta al concilio di Lione II (1274). La prima parte di questo testo appari-
rà anche al capitolo IV tra le testimonianze sull'infallibilità pontificia. La
minoranza non solo contesta che si tratti di un testo conciliare, ma soprat-
tutto fa notare che la formula «davanti alle altre Chiese o apostoli (prae
caeteris)», che si trova già nel prologo e nel capitolo primo della Pastor
Aeternus, implica, secondo la lettera dell'imperatore, la «condivisione
della sollecitudine pastorale con le altre Chiese» 34 •

II. IL CAPITOLO IV:


IL MAGISTERO INFALLIBILE DEL ROMANO PONTEFICE

Ci siamo avvicinati, passo passo, al dibattito fondamentale tra maggio-


ranza e minoranza del concilio. Preparata dalle controversie sull'opportu-
nità o necessità della definizione dell'infallibilità pontificia e sull'interpre-
tazione della Scrittura e della Tradizione, la diatriba si snoda essenzial-
mente attorno a quattro punti.

1. I quattro punti forti del dibattito


1. Il primo punto, già preso in considerazione nel prologo, riguarda uno
spostamento progressivo: dal riconoscimento pratico della «priorità>> (princi-
palitas) della Chiesa di Roma, da essa condivisa con altre Chiese nonostante
il suo primato, si passa alla rivendicazione del «principato» (principatus) del
«sommo pontefice» che ha, grazie alla sua funzione petrina di «pietra», la
pienezza del potere, per poi arrivare ali' affermazione ontologica che il papa è
il «capo» o principium e/undamentum dell'unità del corpo ecclesiale.
2. Il secondo punto riguarda il rapporto tra potere giurisdizionale e potere
magisteriale del romano pontefice. Questa bipartizione del potere supremo è il
punto di partenza incontestato del dibattito e suppone una separazione ante-
riore tra l'ordine sacramentale (potestas sancti/icandi) e l'ordine giurisdizionale
(potestas juridictionis) nella Chiesa, aspetto che sarà rimesso in cantiere da par-
te del concilio Vaticano II. Maggioranza e minoranza si separano quindi im-
mediatamente già sulla prima frase del capitolo IV che afferma:
Il primato apostolico, che il romano pontefice possiede sulla chiesa universale
come successore di Pietro, principe (princeps) degli apostoli, comprende anche il
supremo potere del magistero [. .. ] n.

l4 Cfr. DzS 861: «La pienezza della potestà si attua poi in lei in modo cale da mettere a parte della sua
sollecitudine tutte le altre chiese>>; passo questo che la Pastor Aeternur non cita.
l5 COD p. 815; DzS 3065.

284 CHRISTOPH TIIEOBALD


La maggior parte dei padri deducono ·questo «potere supremo del
magistero» e la sua infallibilità di fatto dal suo potere primaziale di «go-
vernare», che era già separato dall'ordine sacramentale. Nella linea del-
l'ecclesiologia ultramontana, questi padri ritengono che il «potere giuri-
sdizionale» non si fondi legittimamente se non implicando anche l'infalli-
bilità del «potere di insegnamento». Tacere di questo argomento tanto
importante - argomento di «necessità» in occasione del quale Dechamps
parla di <<Silenzio ecumenico» - sarebbe quindi mettere in pericolo l'insie-
me della realtà della «sovranità pontificia» permettendo così al gallicane-
simo di rialzare la testa 36 • Ecco che il cardinale di Malines scrive a mons.
Dupanloup durante il concilio riferendosi a De Maistre:
È assolutamente certo che il governo della Chiesa non è né un governo aristo-
cratico, né un governo democratico, ma una vera monarchia, in cui la sovranità
appartiene ai successori del principe degli apostoli, in quanto il primato di giu-
risdizione, o la piena potestà del Papa su tutta la Chiesa, è una verità di fede. Ma
qual è la funzione principale di questa funzione, quella che eccelle su tutte le
altre? È l'insegnamento della verità: Magisterium. La sovranità nella Chiesa è
dunque una sovranità dottrinale e non bisogna dimenticare che essa è di divina
istituzione 37 •

Ma è proprio questo legame tra primato di giurisdizione e sovranità


dottrinale ad essere l'oggetto del rifiuto da parte della minoranza conci-
liare, senza d'altronde che questa arrivi a difendere alcune tesi gallicane
né contestare il primato di giurisdizione. Ecco ciò che fa notare mons.
Dupanloup:
Per provare che il romano pontefice è il principio dell'unità della fede, si offre
come motivazione che egli ha il potere di giurisdizione su tutta la Chiesa. Ora il
romano pontefice può avere il primato di giurisdizione senza essere giudice su-
premo della fede, in quanto la rivelazione è chiusa e il suo deposito in possesso di
tutta la Chiesa, per cui tutti i vescovi devono rendere a questa una testimonianza
autentica 38•

H.J. Pottmeyer fa notare, a ragione, che il dibattito contemporaneo


sull'infallibilità pontificia rischia di passare semplicemente accanto a quel-
le che sono le difficoltà vere, e isola questo problema dalla ripartizione
storica della sovi:anità ecclesiale in «tre governi» (tria regimina), che fu
almeno parzialmente contestata dalla minoranza del Vaticano !3 9 •

36 Card. V. DECHAMPS, Lettrer rur l'infaillibilité, in: Oeuvrer complèter, VI, a cura di H. Dessain,
Malines 1874, pp. 185ss.
37 Ibid., pp. 274ss.
JB Mansi 51, 955 C.
39 Cfr. H.J. PorrMEYER, Unfehlbarkeit und Souveriinitiit ..., cit., pp. 408ss.

VII - PRIMA COSTITUZIONE DOGMATICA SULLA CHIESA DI CRISTO 285


3. Il terzo punto di divergenza riguarda le condizioni dell'infallibilità
pontificia: si tratta del rapporto che esiste tra il romano pontefice e la
Chiesa intera, visto globalmente nel primo punto e ora affrontato sotto la
precisa angolatura dell' «infallibilità personale, separata e assoluta», ma
pure e soprattutto per ciò che concerne il rapporto tra rivelazione o dirit-
to e storia.
4. L'ultimo punto infine - quello più discusso nella Deputazione tra
infallibilisti estremisti e moderati - riguarda l'oggetto o l'estensione del-
l'infallibilità pontificia 40 •
Il piano di questo capitolo ha un notevole significato dottrinale. Il pri-
mo paragrafo offre «l'argomento della tradizione» in favore dell'infallibi-
lità pontificia. Il secondo presenta la pratica del ministero magisteriale del
romano pontefice attraverso la storia, evidenziandone il suo significato
dogmatico. Il terzo e il quarto indicano il fine del «carisma indefettibile di
verità e di fede», ritornando su ciò che dice il prologo circa le circostanze
attuali e circa la necessità di una definizione. Il quinto paragrafo, infine,
contiene la definizione solenne a cui aggiunge una globale condanna di
quanti contraddicono «questa nostra definizione».

2. L'argomento della tradizione

L'argomento della tradizione viene fornito attraverso tre testimonianze


scelte secondo il criterio provato dall'uso perpetuo della Chiesa «soprat-
tutto quelli in cui l'Oriente si incontrava con l'Occidente nell'unione del-
la fede e della carità» 41 • Il primo testo, tratto dalla Formula di fede del
papa Ormisda (515) 42 e firmata dai Padri del concilio Costantinopolita-
no IV (869-870), «seguendo le orme dei loro predecessori», si può conte-
stare difficilmente quanto al suo senso «prowidenziale» 43 , anche se la mi-
noranza evidenzia, a ragione, che i vescovi Greci, sostenitori di Fazio, erano
stati obbligati a firmarla 44. Si è già fatto accenno alle difficoltà riguardanti
il secondo testo, tratto dagli atti del concilio di Lione II (già citato nel

40 Si ritornerà su questi punti essenziali, infra, pp. 288-298.


41 COD, p. 815; DrS 3065.
42 DrS 363-365.
43 «Infatti i padri del concilio Costantinopolitano IV, seguendo le orme dei loro predecessori, formu-
larono questa solenne professione di fede[ ... ]. E poiché non può diventare lettera morta l'espressione del
signore nostro Gesù Cristo che dice "Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia Chiesa" (Mt 16, 18)
questa affermazione si verifica nei fatti perché nella Sede apostolica la religione cattolica è sempre _stata
conservata senza macchia e la dottrina cattolica sempre professata nella sua santità» (COD p. 815; DrS
3066).
44 Cfr. Mansi, 51, 983 B.

286 CHRISTOPH TIJEOBALD


capitolo III della Pastor Aeternus). Questo testo mette a punto un legame
molto preciso tra «il dovere di difendere la verità della fede» da parte della
Chiesa romana e il fatto che «le dispute che sorgessero a proposito della
fede devono essere risolte dal suo giudizio 45 ». La terza testimonianza, in-
fine, viene fornita da un estratto del decreto Laetentur caeli del concilio
ecumenico di Firenze (1439), (già citato al capitolo III). Io questo caso si
insiste sul fatto che il testo considera il romano pontefice come «il padre
e dottore di tutti i cristiani».
Le tre parti che formano il secondo paragrafo abbozzano la pratica
effettiva del ministero magisteriale dei papi lungo tutta la storia, offren-
done il fondamento dottrinale e riallacciandolo ai Padri e alla promessa di
Cristo nel vangelo di Luca:
Perciò i vescovi di tutto il mondo, sia singolarmente, sia riuniti in sinodi, con-
formandosi alla lunga consuetudine delle chiese e alla forma dell'antica regola,
hanno riferito a questa Sede apostolica specialmente i pericoli emergenti in
materia di fede, perché i danni causati alla fede venissero riparati soprattutto
dove la fede non può avvertire deficienze. I romani pontefici, da parte loro,
secondo quanto è esigito dalla condizione dei tempi e delle circostanze, ora
convocando concili ecumenici o cercando di sondare l'opinione della chiesa
sparsa sulla terra 46 , ora con sinodi particolari, ora servendosi di altri mezzi for-
niti dalla divina provvidenza, hanno definito che si deve credere ciò che, con
l'assistenza divina, essi hanno riconosciuto conforme alle sacre scritture e alle
tradizioni apostoliche.
Infatti ai successori di Pietro lo Spirito santo non è stato promesso perché mani-
festassero, per sua rivelazione, una nuova dottrina, ma perché con la sua assisten-
za custodissero santamente ed .esponessero fedelmente la rivelazione trasmessa
dagli apostoli, cioè il deposito della fede.
La loro dottrina apostolica è stata accolta da tutti i venerati padri, rispettata e
seguita dai santi dottori ortodossi che sapevano perfettamente che questa sede
di Pietro rimane sempre immune da ogni errore, secondo la promessa divina
del nostro Signore e salvatore al principe dei suoi discepoli: Io ho pregato per te,
che non venga meno la tua fede; e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli
(Le 22, 32) 47 •

Questo lungo «argomento storico» è una concessione alla «minoran-


za», introdotta e commentata 1'8 giugno dal cardinale Bilia davanti alla
Deputazione della fede 48 • Ma al contempo così vien~ segnata una netta
frontiera tra le.esigenze della minoranza e la posizione degli infallibilisti
moderati. Questi ultimi, e per la prima volta il cardinal Dechamps nel suo

45 COD, p. 815; DxS 3067.


46 Cfr. supra, p. 262.
47 COD, p. 816; DxS 3069-3070.
48 Mansi 53, 258 B-C.

Vll - PRIMA COSTITUZIONE DOGMATICA SULLA CHIESA DI CRISTO 287


discorso del 17 maggio 1870 49 , riconoscono perfettamente che l'infallibi-
lità pontificia non si fonda sull' «ispirazione» ma sull' «assistenza dello
Spirito Santo», garantendo niente altro che l'esposizione e l'interpretazio-
ne fedele del «deposito della fede». Costoro riprendono la distinzione del
secondo capitolo della Dei Filius tra il tempo costitutivo della rivelazione
e il tempo della sua recezione in mezzo alle vicissitudini della storia della
Chiesa, aggiungendo, con Roberto Bellarmino, che la promessa dell'àssi-
stenza a Pietro e ai suoi successori implica l'utilizzo dei mezzi umani come
lo studio delle Scritture e della Tradizione cosl come pure il ricorso alle
consultazioni. Ma essi non possono accettare che questi «mezzi» siano
considerati come una condizione per l'esercizio dell'infallibilità pontifi-
cia, come appunto vorrebbero i Padri della minoranza.

3. Infallibilità pontificia e consenso della Chiesa

Per evitare «l'infallibilità personale, separata e assoluta», i Padri della


minoranza si tutelano dietro la celebre formula di Antonino di Firenze,
che stabilisce appunto che il romano pontefice è infallibile quando si
appoggia alla Chiesa «servendosi del concilio e chiedendo l'aiuto della
Chiesa universale» 50 • Ma non riescono a dare alla maggioranza delle
garanzie contro una comprensione «gallicana» di queste condizioni.
Dopo il celebre tentativo di conciliazione del cardinal Guidi (18 giu-
gno) 51, aspramente ripreso da Pio rxn, unitamente a quello di mons.
Ketteler per conto della minoranza (25 giugno)", la differenza tra l'ob-
bligo morale del papa di servirsi dei «mezzi umani» e «l'ordine del dirit-
to», sotteso al dogma, s'impone ormai definitivamente e dà il suo signi-
ficato dottrinale sul piano offerto dal capitolo IV, in cui si distingue
chiaramente tra l'argomento storico e la definizione giuridica dell'infal-
libilità pontificia. Mons. Pie aveva già proposto questa distinzione al-
l'inizio dei dibattiti nella sua relazione del 13 maggio 54 • Mons. Freppel

49 «Non ci sono nuove rivelazioni; in quanto l'oggetto dell'infallibilità è limitato al deposito della ri-
velazione immutabile; (il papa) non è per nulla infallibile per ispirazione, ma in virtù di una grazia data
gratuitamente, che noi chiamiamo in francese grt1ce d'état, promessa divinamente ai successori di Pietro in
modo che essi custodiscano ed espongano fedelmente il deposito della verità rivelata. [ ... ] I successori di
Pietro sono fedeli nella misura in cui si servono dei mezzi richiesti per questo fine; la grazia di stato ha per
oggetto il fatto di rendere possibile che essi si servano di questi mezzi» (Mansi 52, 67 C-D).
50 Cfr. Mansi 52, 78 D, mons. Greith il 17 maggio; 106 B, 910 A, 987 B-D; 994 A; Cfr. U. HoRST,
Papst, Bischofe und Konzil 'nach Antonin von Florenz, RTAM, 32 (1965), pp. 76-116.
51 Cfr. Mansi 52, 740 A - 747 B; per l'interpretazione di questo testo fondato su una lunga tradizione
domenicana, cfr. U. HORST, Unfehlberkeit und Geschichte, Griinewald, Mainz 1982, pp. 164-213.
52 Cfr. K. SCHATZ, Vaticanum I, III, cit., pp. 104ss. e 312-322.
53 Cfr. Mansi 52, 890 C - 899 B.
54 Cfr. Mansi 52, 36 C-D.

288 CHRISTOPH THEOBALD


l'oppone - il 2 luglio - a Guidi e a Kettelet 55, e la si ritrova - in filigra-
na - nella grande relazione finale presentata 1'11 luglio 1870 da mons.
Gasser, otto giorni prima della proclamazione solenne 56 • Per la sua im-
portanza se ne citano qui degli ampi passi riguardanti il litigio tra mag-
gioranza e minoranza:
Senza dubbio non si separa il papa che definisce infallibilmente dalla cooperazio-
ne e dal concorso di tutta la Chiesa, almeno nel senso che non si esclude questa
cooperazione e questo concorso della Chiesa; [ ... ] indubbiamente, per il fatto che
l'infallibilità del romano pontefice non è a lui conferita a modo di ispirazione, né
di rivelazione, ma a modo di assistenza. Per questo il papa, in virtù del suo mini-
stero, è tenuto ad usare i mezzi adatti per esaminare la verità come si deve e ad
enunciarla esattamente. [ ... ] Infine, noi non separiamo nel modo più assoluto il
papa dal consenso della Chiesa, a condizione però che questo consenso non sia
stipulato come condizione, sia che si tratti di un consenso antecedente sia che si
tratti di consenso conseguente.
Alcuni insistono e dicono: Comunque sia circa i mezzi umani, l'aiuto della Chie-
sa, il consenso della Chiesa, vale a dire, la testimonianza e il consiglio dei vesco-
vi, non solo non possono essere esclusi dalla definizione dell'infallibilità, ma
devono essere inseriti nella definizione tra le condizioni che sono di fede. Que-
sta condizione è quindi considerata «di fede» e come la si prova? È forse con-
tenuta nella promessa di Cristo? Mi sembra non solo che non sia contenuta ma
che questa promessa comporti piuttosto il contrario. Non si può negare infatti
che nella relazione tra Pietro e la Chiesa, relazione che Cristo ha voluto legata
all'infallibilità di Pietro, è contenuta una speciale relazione tra Pietro e gli apo-
stoli e attraverso di loro i vescovi, poiché Cristo dice a Pietro: «Ho pregato per
te perché non venga meno la tua fede; e tu, una volta raweduto, conferma i tuoi
fratelli» (Le 22, 32). Tale è quindi la relazione tra il pontefice e i vescovi inclusa
nella promessa di Cristo; mi sembra che si sia per questo obbligati a concludere
da queste parole di Cristo che i fratelli, vale a dire i vescovi, perché siano stabili
nella fede hanno bisogno dell'aiuto e del consiglio di Pietro e dei suoi successo-
ri, ma non il contrario5 7 ,

Troviamo qui il quarto riferimento biblico al primato di Pietro, citato


alla fine dell' «argomento storico» del capitolo IV. L'interpretazione di
Bellarmino circa questo passo biblico, che fa distinzione tra la prerogativa
personale di Pietro di custodire la vera fede e la prerogativa ministeriale,
comunicata ai successori, di proclamare sempre la dottrina ortodossa, è
rifiutata dai Padri della minoranza. Ma il rifiuto della maggioranza di in-
trodurre tra le condizioni dell'infallibilità pontificia l'uso dei mezzi umani

55 Cfr. Mansi 52, 1041 B-D.


56 Cfr. Mansi 52, 1204 A - 1230 D. Dopo una lunga parte sulle prove tratte dalla Scrittura e dalla
Tradizione, il discorso di quasi tre ore di Mons. Gasser precisa il senso dei tre termini «infallibilità perso-
nale, separata e assoluta».
57 Mansi 52, 1213 B - 1215 C.

VII . PRIMA COSTITUZIONE DOGMATICA SULLA CHIESA DI CRISTO 289


non si fonda in verità sull'interpretazione di questo testo, come dimostra
il seguito della relazione di mons. Gasser:
Eccoci agli ultimi trinceramenti e bisogna distinguere con cura il vero e il falso,
per evitare di naufragare proprio arrivando al porto. È vero che il papa nelle sue
definizioni ex cathedra fa appello alle medesime fonti della Chiesa in quanto tale,
ossia la Scrittura e la Tradizione. È vero che l'accordo unanime della predicazio-
ne corrente di tutto il magistero unito con il suo capo è la regola di fede anche per
le definizioni del pontefice. Ma a partire da questo dato non si può concludere la
stretta ed assoluta necessità di munirsi di questo accordo dei capi delle Chiese o
dei vescovi. [ ... ] Tutti sanno che questa regola dell'unanime accordo delle Chiese
nella predicazione corrente vale soltanto in un senso positivo e in nessun modo in
un senso negativo 58 • [ ... ] Si sa già che i giudizi dogmatici del romano pontefice
riguardano in modo molto generale le controversie di fede, per le quali si ricorre
alla Santa Sede. [. .. ]
Perciò chiunque pretenda che il papa dipenda nelle sue decisioni dall'accordo
manifesto dei vescovi o dal loro aiuto, sia per sua informazione che per esprimere
un giudizio infallibile in materia di fede e di costumi, si riduce a proclamare il
falso principio che segue: tutti i giudizi dogmatici del romano pontefice sono, in
se stessi e per se stessi, senza forza decisionale e riformabili a meno che non vi si
aggiunga il consenso della Chiesa.
Ma questo sistema è totalmente arbitrario o distruttore di tutta l'infallibilità pon-
tificia. È arbitrario se l'assenso di una maggioranza o minoranza di vescovi fosse
richiesto. [ ... ] Che poi da questo sistema arbitrario nascerebbero inquietudini,
difficoltà e scandali la storia ne è testimone. [. .. ] Poiché allora non vi è che una
sola infallibilità che risiederebbe solo nel corpo intero della Chiesa docente. [ ... ]
Che cosa succederebbe se i vescovi non fossero d'accordo? La Chiesa non po-
trebbe più giudicare, la Chiesa non potrebbe più essere, secondo la testimonianza
dell'apostolo, la colonna e il.fondamento della verità (1Tm3, 15) 59 •

Questo commento fa ben vedere il motivo fondamentale per cui il con-


cilio rifiuta di elevare i «mezzi umani>> al grado di condizioni dogmatiche.
La distinzione apportata dalla Costituzione Dei Filius «magistero ordina-
rio», in cui il «consen,so unanime» ha un carattere positivo, e il «magiste-
ro straordinario», il «giudizio solenne», che ha carattere negativo, viene
spinta fino in fondo, in modo da salvaguardare, nell'ambito di una società
democratica che sottomette tutto al voto, la garanzia di un ultimo ricorso.
La questione è così di nuovo quella del rapporto tra diritto e storia. Ab-
bordata sotto l'aspetto negativo dei «dissensi», «inquietudini», «difficol-
tà» e «scandali», la storia si svolge al contempo sotto la vigilanza e la gui-
da della Prowidenza la cui azione culmina nella sua speciale assistenza al

58 Cfr. supra, pp. (253 e 263) circa la spiegazione della regola del consensus nella Costituzione Dei
Filius.
59 Cfr. Mansi 52, 12160 - 1217 DC.

290 CHIUSTOPH THEOBALD


ministero di Pietro. In effetti, l'argomento storico del capitolo IV corri-
sponde al «metodo della Prowidenza» del cardinal Dechamps: nella pra-
tica storica dei romani pontefici si coglie il compimento della promessa di
Cristo, un'opera della prowidenza divina che implica, in quanto assisten-
za effettiva, l'umana libertà di utilizzare i mezzi umani a disposizione.
Non si può sottolineare troppo l'importanza del ruolo degli infallibili-
sti moderati nella redazione della Pastor Aeternus che risente dell'influsso
del tradizionalismo moderato sulla Costituzione Dei Filius. Ma l'accento
posto, in ambedue i casi, sulla storia non funziona nello stesso modo. La
Dei Filius vuole tenere un po' a parte il posto della storia o, come si espri-
me la Costituzione, «della presente condizione del genere umano», in cui
risulta difficile separare tra ciò che è di diritto possibile e necessario al-
l'umana ragione e l'accesso effettivo alla fede in Dio grazie al fatto prowi-
denziale della Chiesa. Pastor Aeternus, al contrario, mira a conservare puro
da ogni condizione storica il diritto primaziale dell'infallibilità. Questi due
orientamenti si ritrovano negli stessi esponenti, ad esempio nell'opera del
cardinal Dechamps, attraverso l'ecclesiocentrismo implicito del «metodo
della Prowidenza» di cui si riscontrano le tracce nella Dei Filius, special-
mente nel suo capitolo III. In tal modo esso viene elevato al grado di
«principio giuridico» nell'esposizione del «fondamento ultimo» che è la
sovranità giurisdizionale e magisteriale del romano pontefice.
Si vedrà come questa sovranità, che replica quella di «Dio creatore e
Signore>> 60 , viene codificata nella definizione giuridico-dogmatica dell'in-
fallibilità pontificia. Ma, nella visione apocalittica della storia che domina
l'orizzonte del concilio, la sovranità dei diritti della verità va assolutamen-
te salvaguardata. C. Schmitt ha dimostrato fino a che punto il concetto di
«sovranità», messo a punto da Bodin e Hobbes, abbia influenzato la filo-
sofia dello Stato della contro-rivoluzione in De Maistre e De Bonald 61 , e
sia entrato prima nell'ecclesiologia ultramontana e indi in quella del con-
cilio Vaticano ! 62 • Questo passo si è potuto attuare a motivo di un'analo-
gia esistente tra i contesti: come la sovranità assoluta dello Stato secolariz-
zato si fonda, per Hobbes, sullo stato di urgenza, quale frutto dell'opera
di potenze ecclesiali o altre la cui legittimazione trascendente porta alle
guerre di religione, così la sovranità pontificia si basa, secondo l' ecclesio-

60 Cfr. il terzo punto della relazione Gasser dell'll luglio sull'«infallibilità assoluta»: «l'infallibilità
pontificia non è per nulla assoluta, in quanto l'infallibilità assoluta appartiene solo a Dio, Verità prima ed
essenziale, che mai può ingannare né ingannarsi (Cfr. Dei Filius, cap. III). Ogni altra infallibilità, per il
fatto stesso di essere comunicata per un fine determinato, ha i suoi limiti [ ... ). La stessa cosa vale per
l'infallibilità del romano pontefice» (Mansi 52, 1214 A-B).
61 Cfr. C. SCHMITT, Théologie politique. Quatre chapitres sur la théorie de la souveraineté (1922), in:
Théologie politique, Gallimard, Paris 1988, pp. 11-75.
62 Cfr. H.J. POTTMEYER, Unfehlbarkeil und Souveriinitiit, cit., pp. 397-409.

Vll - PRIMA COSTITUZIONE DOGMATICA SULLA CHIESA DI CRISTO 291


logia ultramontana, sulla lotta tra il «fondamento della Chiesa» e «le por-
te degli inferi», combattimento apocalittico provocato dalla Riforma. e
dalla Rivoluzione francese. Nei due casi lo stato d'urgenza si trasforma in
situazione normale o in struttura essenziale dello Stato o della Chiesa 63 •
Tutto ciò spiega anche come mai la maggioranza faccia fatica a intravve-
dere un altro stato di urgenza, che sarebbe causato dal papa stesso, vale a
dire malattia mentale o eresia, casi per i quali si fa riferimento, e questa
volta al cuore stesso del ragionamento giuridico, alla divina Provviden-
za 64 • Evidentemente il piccolo inciso di Le 22, 32: e tu una volta ravveduto,
con la sua allusione al rinnegamento di Pietro, non ha alcuna funzione
strutturante nell'argomentazione dottrinale e giuridica.

4. «Salutare efficacia» e «carisma di verità»

Il terzo e il quarto paragrafo non fanno che confermare ciò che si è


appena detto. Si nota infatti che «in questi tempi, questa salutare efficacia
dell'ufficio apostolico è più che mai necessaria» 65 • Su questa argomenta-
zione politico-strategica si potrà modellare, più tardi, tutta una logica
amministrativa. Utilizzata dalla maggioranza, viene invece contestata dal-
la minoranza come contraria alle vie di Dio 66 • L'argomento poi della «sa-
lutare efficacia» modellata sul concetto di sovranità pontificia spiega, an-
ch'essa, il motivo per cui le procedure anteriori di ricerca della verità
(media humana) e le procedure conseguenti della recezione ecclesiale sia-
no esclude dalla definizione stessa.
Con un'ultima concentrato concettuale, «la prerogativa di infallibili-
tà che l'unigenito Figlio di Dio si è degnato congiungere col supremo
ufficio pastorale» viene designata in questo stesso paragrafo con il ter-
mine di «carisma di verità e di fede giammai indefettibile accordato da
Dio a Pietro e ai suoi successori su questa cattedra» 67 • Il concetto di
«carisma di fede e di verità» viene contestato dalla minoranza in quanto
con esso sembra si voglia ancora una volta insinuare l'idea di una «infal-
libilità personale» 68 • Tuttavia secondo la relazione di mons. Gasser que-
sto concetto è in relazione all'espressione di «cattedra di Pietro» (cathe-
dra Petri). Mentre questo riferimento permette la distinzione tra il papa

6) lbid., p. 399.
64 Cfr. ad esempio Mansi 52, 1109 B.
65 COD, p. 816; DzS 3072.
66 Cfr. K. SCHATZ, Vaticanum I, III, cit., pp. 65ss.
67 COD, p. 816; DzS 3071-3072.
68 Questo timore si esprime in relazione alla nuova formulazione del canone contro mons. Maret di
cui al cap. II. ·

292 CHRISTOPH THEOBALD


come dottore privato e come persona pubblica o «capo», la nozione di
«carisma» indica che l'infallibilità non riguarda soltanto la Chiesa o la
sede di Roma (sedes) ma il successore di Pietro (sed~ns) 69 • D'altronde
questa formulazione ci rammenta oggi che nella Chiesa antica il ministe-
ro pastorale era legato al «carisma di verità» e che le comunità erano
governate da testimoni in cui abitava lo Spirito e che prima di tutto eser-
citavano il ministero dell'annuncio e dell'insegnamento 70 • Ma la storia
ha fatto sì che il Vaticano I invertisse l'ordine antico tra il «carisma di
fede e di verità» e il «supremo ufficio pastorale», visto qui come potere
di legislazione, di giurisdizione e di esecuzione secondo il modello di
una sovranità statale o monarchica.

5. La definizione propriamente detta

Dopo aver esibito le testimonianze della tradizione unitamente ad un


argomento storico di portata dottrinale, e avendone indicato pure il fine
e la necessità, ecco che il Papa procede finalmente, con l'approvazione
del concilio, alla definizione solenne del magistero infallibile del romano
pontefice:
Per questo noi, aderendo fedelmente alla tradizione accolta fin dall'inizio della
fede cristiana, per la gloria di Dio, nostro salvatore, per l'esaltazione della religio-
ne cattolica e la salvezza dei popoli cristiani, con l'approvazione del santo conci-
lio, insegniamo e definiamo essere dogma divinamente rivelato (divinitus revela-
tum dogma esse) che il romano pontefice, quando parla ex cathedra, cioè quando,
adempiendo il suo ufficio di pastore e di dottore di tutti i cristiani, definisce, in
virtù della sua suprema autorità apostolica, che una dottrina in materia di fede o
di costumi deve essere ammessa da tutta la chiesa, gode, per quell'assistenza divi-
na che gli è stata promessa nella persona del beato Pietro, di quella infallibilità, di
cui il divino Redentore ha voluto fosse dotata la sua chiesa, quando definisce la
dottrina riguardante la fede o i costumi. Di conseguenza queste definizioni del
romano pontefice sono irreformabili per se stesse (ex sese), e non in virtù del
consenso della chiesa (non autem ex consensu ecclesiae) 71 •

Questa definizione solenne viene qualificata come «dogma divinarp.en-


te rivelato», formula che va al di là del limite, salvaguardato dalla Dei Fi-
lius, tra il «deposito della fede» che indica la totalità della rivelazione e il
«dogma» che ne è l'espressione autentica ma sempre contingente.
69 Cfr. il chiarimento di Mons. Gasser sull'infallibilità personale (personalis) Mansi 52, 1212 B -
1213 B.
10 Cfr. H. J. POTIMEYER, Unfehlbarkeit und Souveriim~iit, cit., p. 402 con riferimento a R. SoHM, Kir-
cbenrecbt, II, Dunken und Humbolt, Miinchen-Leipzig 1923, pp. 220 e 227.
11 COD, p. 816; DzS 3073-3074.

V11 . PRIMA COSTITUZIONE DOGMATICA SULLA CHIESA DI CRISTO 293


Storia della redazione
Il testo della definizione ha avuto varie versioni, discusse nella Deputa-
zione tra infallibilisti moderati e infallibilisti estremi 72 • La svolta decisiva, in
questi dibattiti, la si ha quando -1'8 giugno - il cardinal Bilio propone una
nuova formula. Lavorata ancora da parte del cardinal Cullen viene propo-
sta alla Deputazione il 19 giugno e viene da questa adottata 1'8 luglio 73 ,
entrando così nel testo definitivo che viene inviato ai padri il 9 luglio e pre-
sentato 1'11 luglio da mons. Gasser prima del voto decisivo del 13 luglio.
La svolta del mese di giugno è prima di tutto il risultato della lotta tra
infallibilisti estremi raccolti attorno a mons. Senestrey (Ratisbona) e a
mons. Manning (Westminster) contro la limitazione dell'oggetto dell'in-
fallibilità pontificia, che si trovava nel primo testo proposto ai Padri il 9
maggio, secondo cui esso corrispondeva a: «Ciò che in materia di fede e
di morale deve essere ammesso come di fede (tamquand de fide) o rigetta-
to come contrario alla fede (tamquan ftdei contrarium)» 74 • Gli infallibilisti
estremi temevano che questa definizione escludesse dal campo dell'infal-
libilità pontificia canonizzazioni, approvazioni di ordini religiosi, «fatti
dogmatici» e censure a dispetto delle condanne di eresie in senso stretto.
La loro tattica è quella di lasciare, per il momento, aperto il problema:
stando il fatto che l'oggetto dell'infallibilità pontificia è lo stesso di quella
della Chiesa, bisognerà quindi parlare di ciò in seguito, nella seconda
costituzione dogmatica sulla Chiesa 75 • Il cardinal Bilio dà loro ragione col
suo testo dell'8 giugno, parlando oramai di «punti in discussione che ri-
guardano la fede o la morale» 76 • Questa indeterminazione non è stata poi
risolta visto. che la «seconda» Costituzione non verrà mai pubblicata; è
questo un punto essenziale da considerare per il problema della recezione
della formula.
L'altra svolta, questa volta a sfavore dei massimalisti, ha lasciato le sue
tracce nella redazione del 19 giugno che mette insieme nella stessa frase
l'infallibilità pontificia e quella della Chiesa, che erano ancora separate
nella versione del cardinal Bilio: «Il romano pontefice gode (. .. ) di questa
infallibilità di cui il divin Redentore ha voluto che fosse provvista la sua
Chiesa» 77 • Non si può più escludere in tal modo un'interpretazione del

72 Cfr. in R. AuBERT, Vatican I, cit., pp. 299-314, dove si trova una sinossi di queste versioni diverse.
73 Dopo la fine - resa urgente dalla calura romana - del dibattito conciliare sul cap. IV.
74 Mansi 52, 7 B; cfr. R. AuBERT, Vatican I, cit., p. 310.
7~ Cfr. K. SCHATZ, Vaticanum l, III, cit .. pp. 80-85.
76 Mansi 53, 258 A; cfr. R. AUBERT, Vatican I, cit., p. 311.
77 Mansi 53, 266 A; cfr. R. AUBERT, Vatican 1, cit., p. 311, il testo dell'8 giugno diceva: «Noi definiamo
inoltre che questa infallibilità dei romani pontefici si estende allo stesso oggetto che riguarda l'infallibilità
della Chiesa» (Mansi 52, 258 A).

294 CHRISTOPH THEOBALD


dogma che presenti la Chiesa come soggetto primo dell'infallibilità, come
già viene detto nel capitolo IV della Dei Filius. Diventa così difficile in
ogni caso presentare, con i massimalisti e nella linea del prologo che fa del
papa il «principio e il fondamento» dell'unità del corpo ecclesiale, l'infal-
libilità pontificia come fonte dell'infallibilità ecclesiale.
Queste due sottolineature sulla storia della redazione permettono di ca-
pire la rilevanza della prima frase della definizione che riguarda contempo-
raneamente il soggetto, la finalità e l'oggetto del magistero infallibile.

Il soggetto dell'infallibilùà
Prima di tutto il soggetto: il romano pontefice, non in quanto «dottore
privato» ma quando parla ex cathedra, dato che rappresenta una restrizione
per quanto riguarda i tempi ed una precisazione concernente la funzione.
Nella sua relazione, mons. Gasser insiste tre volte sul carattere restrittivo
della formula: <<il papa è infallibile solo quando (solummodo quando), eser-
citando la sua funzione di dottore di tutti i cristiani, e quindi in quanto rap-
presentante della Chiesa universale, giudica e definisce ciò che deve essere
creduto o rifiutato da tutti» 78 • Certo, il «quando» (cum) della definizione
stessa è meno restrittivo; così a partire dalla celebre dissertazione di J.M.A.
Vacant sul Magistero ordinario della Chiesa e i suoi organi 79 , non sono man-
cati teologi che l'abbiano voluto interpretare, non nel senso esclusivo ma in
quello positivo, lasciando quindi aperta la possibilità delle definizioni ex
cathedra del «magistero ordinario» del papa 80• Ma quest'apertura non cor-
risponde per nulla alla spiegazione ufficiale di mons. Gasser 81 •
Nella definizione stessa, la «restrizione» viene subito esplicitata con
due formule intimamente connesse che suppongono, secondo il restrin-
gimento intellettuale già segnalato, che il ministero di pastore e di dot-
tore di tutti i cristiani si eserciti principalmente attraverso la definizione
dogmatica: «quando, adempiendo al suo ufficio di pastore e di dottore
di tutti i cristiani, definisce, in virtù della sua suprema autorità aposto-
lica, che una dottrina in materia di fede o di costumi deve essere am-
messa da tutta la chiesa». li riferimento all' «autorità apostolica», in que-
sto paragrafo come nel precedente 82 , relaziona il soggetto della defini-

78 Mansi 52, 1213 C; cfr. R. AuBERT, Vatican I, cit., p. 293; come pure Mansi 52, 1213 A-Be 1225 B.
79 J.M.A. VACANT, Le magistère ordinaire de l'Église et ses organes, Delhomme et Briguet, Paris 1887.
80 «Si devono distinguere due sorte di definizioni ex cathedra: quelle che sono espresse mediante
decreti solenni e quelle invece espresse attraverso il magistero quotidiano del sommo pontefice» (lbid.,
p. 105). - Per quanto riguarda la ricezione della tesi di Vacant, cfr. G. THILS, Primauté et infaillibilité du
Ponti/e Romain à Vatiçan I, cit., pp. 176-185.
81 Vi si ritornerà, infra, pp. 406·407 a proposito della Humani generis (1950).
82 «non mancano persone che ne contestano l'autorità» (COD, p. 816; DzS 3072).

VII . PRIMA COSTITUZIONE DOGMATICA SULLA CHIESA DI CRISTO 295


zione, colui che definisce e colui di cui parla questa definizione, agli
interessi giuridici dell'ecclesiologia oltramontana il cui sostrato dottri-
nale e politico è già stato esposto.

La finalità dell' in/allz'bilità


Il papa è questo soggetto preciso che agisce in un quadro di cui si indi-
cano le condizioni e che «gode, per quell'assistenza divina che gli è stata
promessa nella persona del beato Pietro, di quella infallibilità, di cui il
divino Redentore ha voluto fosse dotata la sua chiesa quando definisce la
dottrina riguardante la fede o i costumi». A proposito del paragrafo terzo,
si è già commentato il senso della terminologia dell' «assistenza dello Spi-
rito Santo», con cui si indica l'unico fine dell'infallibilità pontificia: la
promessa «che custodissero santamente ed esponessero fedelmente lari-
velazione trasmessa dagli apostoli, cioè il deposito della fede». Si capisce
allora che il testo identifica la specifica infallibilità del romano pontefice
con quella dell'intera Chiesa docente. Nella versione precedente del testo
si parlava di una «impossibilità di ingannarsi» 8i o di«immunità da ogni
errore» 84 , e mons. Gasser aggiunge nella sua relazione che, per evitare la
confusione esistente in certe lingue moderne tra infallibilità e impeccabi-
lità, si tiene a precisare nel titolo del capitolo IV che si tratta del «magiste-
ro infallibile del romano pontefice» 8'.

L'oggetto dell'infallibilità
Quanto all'oggetto dell'infallibilità pontificia mons. Gasser è il solo a
distinguere chiaramente non soltanto tra il papa come dottore privato e il
papa quando parla ex cathedra ma pure tra l'insegnamento non-definitivo
e l'insegnamento infallibile del «pastore e dottore di tutti i cristiani». Pur
esigendo che «l'intenzione di definire una dottrina sia manifestata» 86 ,
Gasser riconosce delle legittime esitazioni riguardanti il «grado di certez-
za» di «altre verità legate più o meno strettamente ai dogmi rivelati, che
non sono rivelati in se stessi ma che sono allo stesso tempo esigiti per
conservare fedelmente il deposito, per interpretarlo correttamente e per
definirlo efficacemente» 87 • Si parlava già di queste verità connesse «di per
sé non inaccessibili alla ragione» nel capitolo II della Dei Filt'us. L'unica

8J Mansi 52, 7 B; cfr. R. AUBERT, Vatican I, cit., p. 310.


84 Mansi 53, 258 A; cfr. R. AUBERT, Vatican I, p. 311.
8) Mansi 52, 1218 D - 1219 A.
86 Mansi 52, 1225 C.
ai Mansi 52, 1226 B.

296. CHRISTOPH THEOBALD


regola impartita da mons. Gasser è di lasciare questo problema aperto e
di dire che si deve credere, quanto all'oggetto dell'infallibilità delle defini-
zioni pontificie, tutto ciò che viene creduto quanto all'oggetto dell'infalli-
bilità delle altre definizioni emesse dalla Chiesa 88 •
La seconda frase della definizione è formulata come una conclusione
della prima: riguarda il «carattere irreformabile» delle definizioni del ro-
mano pontefice. La terminologia dell' <<Ìrreformabilità» non aggiunge nul-
la a ciò che è stato detto dal èapitolo quarto della Dei Filius sul «senso dei
sacri dogmi che deve sempre essere conservato», che corrisponde a «quel-
lo che la santa madre chiesa ha determinato una volta per tutte e non bi-
sogna mai allontanarsi da esso sotto il pretesto e in nome di un'intelligen-
za più profonda>>. Ma l'acme della formula della Pastor Aeternus sta nel
fatto che le «definizioni del romano pontefice sono irreformabili per se
stesse (ex sese)» formula che viene ancora più rafforzata dall'aggiunta «e
non in virtù del consenso della chiesa (non autem ex consensu ecclesiae)».
Questa punta antigallicana è stata aggiunta il 14 luglio, dopo il voto del
13 luglio (con le sue 88 voci di non placet) e in seguito ad un intervento di
Pio IX 89 • Secondo la spiegazione di mons. Gasser al momento dell'ultima
relazione, il 16 luglio, questa precisazione negativa non aggiunge nulla al
testo 90 • Del resto non aveva già spiegato lo stesso mons. Gasser, qualche
giorno prima, la posizione della Deputazione?
Bisogna rammentarsi del fatto che nel pensiero di quanti obbiettano, si tratta della
necessità stretta e assoluta del consiglio e dell'intervento dei vescovi in vista di
qualunque giudizio dogmatico infallibile del romano pontefice, in modo tale che
questa condizione dovrebbe-essere menzionata nelle stessa definizione della no-
stra Costituzione dogmatica. È proprio in questo carattere stretto e assoluto della
necessità che consiste tutta la differenza tra di noi, e non nel!'opportunità o una
certa relativa necessità, che in tal modo va interamente lasciata al parere del roma-
no pontefice, che giudicherà a partire dalle circostanze. Questa condizione chia-
ramente non può essere accolta nella definizione della Costituzione dogmatica 91 •

Questa distinzione tra «necessità assoluta» e «necessità relativa» ha una


grande importanza, non solo in vista della giusta comprensione dell'irre-
formabilità delle definizioni «per se stesse e non in virtù del consenso della

88 «Come è sembrato bene ai Padri della Deputazione unanimemente si è deciso che questo problema
non debba essere definito, ma lasciato al suo stato attuale, da ciò consegue necessariamente [ ... ] che il
decreto di fede sull'infalli~ilità dd romano pontefice deve essere compreso in modo tale che sia definito
che ciò che bisogna credere a riguardo dell'oggetto dell'infallibilità nelle definizioni del romano pontefice
è esattamente ciò che è creduto a riguardo dell'oggetto dell'infallibilità delle definizioni della Chiesa»
(Mansi, 52, 1226 Cl.
89 Mansi 52, 1262 C-D.
90 Mansi 52, 1317 A-B.
91 Mansi 52, 1215 C-D; cfr. R. AUBERT, Vatican I, cit., p. 295.

VII - PRIMA COSTITUZIONE DOGMATICA SULLA CHIESA DI CRISTO 297


chiesa» ma pure per la recezione della formula nel XX secolo. Il «consen-
so» viene quindi escluso unicamente in senso assoluto - vale a dire in una
situazione di ultimo ricorso secondo la prospettiva dell'articolo 4 dell' As-
semblea del clero francese nel 1682 92 - , ma non in senso relativo o abitua-
le. Sottoscriviamo completamente quanto viene auspicato da G. Thils:
«Oggi, dopo un secolo, ci si domanda se la precisazione negativa offerta
da mons. Gasser non potrebbe essere formulata in maniera positiva, vale
a dire che il consenso previo, concomitante o conseguente della Chiesa,
possa essere considerato come condizione abituale, e relativamente neces-
saria, per i giudizi infallibili del papa» 9J.

L'aggiunta finale
L'ultima aggiunta della definizione è come un sigillo apposto da Pio IX
e della maggioranza conciliare sulla Costituzione Pastor Aeternus. Non si
può non cogliere un legame tra certe affermazioni precedenti - «il Dio
creatore e Signore, sovranamente buono in sé per sé (i"n se et ex se); la
Chiesa che è «per se stessa (per se ipsa) un grande e perenne motivo di
credibilità e indubitabile testimonianza della sua missione divina» - e le
«definizioni del romano pontefice» che sono «irreformabili per se stesse
(ex sese) e non in virtù del consenso della chiesa (non autem ex consensu
eccleszae)». In questa prospettiva giuridico-dogmatica che riporta la tota-
lità della storia alla sua origine ontologica e normativa, ogni «recezione»
viene automaticamente identificata con un atto di stretta obbedienza 94 • A
· partire da ciò come si può dare il giusto posto alla storia e ad una creativa
recezione della Parola di Dio da parte di tutta la Chiesa? Mettendo in
prospettiva le due Costituzioni del Vaticano I si vede chiaramente che
questo problema va molto oltre la semplice recezione della definizione
dell'infallibilità pontificia. Essa in realtà ha a che fare con l'immagine di
Dio e con la posizione della Chiesa nella società.

Ili. RECEZIONE E VALUTAZIONE POGMATICA

È opportuno distinguere a questo punto tra un periodo post-conciliare


ed una recezione a lungo termine in cui il concilio Vaticano II gioca un
ruolo decisivo.

92 Cfr:t. III, p. 423.


9J G. THILS, Primauté et in/atllibilité du Ponti/e Romain à Vatican I, cit., pp. 174ss.
94 Cfr. A. GRTI..LEMEIER, Konzil und Rezeption. Metodische Erwagungen zu einem Thema der okumeni·
schen Diskussion der Gegenwarl, ThPh, 45 (1970), pp. 343-347 ..

298 CHRISTOPH THEOBALD


1. Il periodo post-conciliare

Le varie interpretazioni post-conciliari della Costituzione Pastor Aeter-


nus e, in particolare, della definizione dell'infallibilità pontificia si posso-
no facilmente dividere in tre gruppi 9'. L'interpretazione massimalista con-
sidera l'infallibilità del romano pontefice come la fonte dell'infallibilità
ecclesiale e inoltre allarga l'oggetto di questa alla totalità degli atti del
pontefice. Oltre a qualche infallibilista estremo del concilio (come mons.
Manning), è soprattutto M. ]. Scheeben a difendere questa posizione fa-
cendo così dell'infallibilità pontificia una manifestazione del soprannatu-
rale%. Un secondo gruppo, vale a dire la grande maggioranza degli inter-
preti, propone un'interpretazione letterale della Costituzione, reagendo a
possibili malintesi: si insiste sul senso stretto dell'ex cathedra e si afferma
chiaramente che l'ex sese non significa in nessun caso che il papa sia sepa-
rato dalla Chiesa né che egli non sia tenuto al «deposito della fede». Un
terzo gruppo, infine, più vicino alla minoranza del concilio, legge la Co-
stituzione, secondo l'espressione usata da K. Schatz, al di là del testo del
decreto (praeter textum decreti), ma non contro lo stesso testo (contra tex-
tum decreti) 97 • Questa interpretazione, basata sulla prima parte del capi-
tolo IV e su ciò che essa dice dell'utilizzazione dei «mezzi umani>> da par-
te del romano pontefice, viene difesa, ad esempio, dal vescovo e storico di
Rottenburg -Tiibingen, mons. Hefele. Tale interpretazione fu pure con-
fermata da Mons. Fessler, che era stato segretario del concilio e che face-
va piuttosto parte del gruppo dei moderati. La celebre Lettera al Duca di
Norfolk (1875) del cardinal Newman si situa nella stessa linea. Pur oppo-
nendosi a Dollinger per il fatto che questi non capisce che la storia non
esiste mai senza interpretazioni e interpreti 98 , Newman insiste sul proces-
so di recezione del nuovo dogma in cui i teologi hanno da svolgere un
ruolo essenziale.
L'interpretazione ufflciale del testo da parte del magistero romano è
segnato da tre dichiarazioni pontificie: su istigazione di mons. Hefele una
felicitazione rivolta da Pio IX a mons. Fessler per la sua opera del 1871 99 ;
una allocuzione, il 20 luglio 1871, davanti all'Accademia di Religione cat-
tolica in cui il papa insiste sul carattere contingente del diritto medievale

9' Cfr. una d~ttagliata analisi in K. SCHATZ, Vaticanum I, Ili, cit., pp. 283-296, come pure l'insieme
delle pagine 207 · 311.
96 M.J. SCHEEBEN. Die "theologische und praktische Bedeutung des Dogmas von der Unfehlbarkeit des
Papstes, besonders in seiner Beziehung auf die heutige Zeit, in Das okumenische Konzil vom Jahare 1869, Il,
Regensburg 1870, pp. 505-547; III, pp. 81-133, 212-263, 401-448.
97 K. SCHATZ, Vaticanum I, III, p. 293.
98 J.H. NEWMAN, Lettera al Duca di Norfolk.
99 J. FESSLER, Die wahre und die falsche Unfehlbarkeit der Pàpste, Wien-Gran-Pest 1871.

V11 . PRIMA COSTITUZIONE DOGMATICA SULLA CHIESA DI CRISTO 299


dei romani pontefici di destituire i principi, diritto che non ha niente a
che vedere con l'infallibilità pontificia; e infine la lettera Mirabilis illa con-
stantia del 4 marzo 1875 rivolta ai vescovi tedeschi per confermare la loro
interpretazione del dogma del 1870 contro l'accusa di Bismarck, che face-
va dei vescovi solo dei «funzionari di un monarca straniero, diventato per
la sua infallibilità il più assoluto di tutti i monarchi del mondo». Scoperta
dalla dogmatica dopo il condlio Vaticano II, quest'ultimo dossier che dal
1967 compare nel Denzinger-Schonmetzer 100, non fa che confermare una
lettura piuttosto stretta dei punti centrali della Costituzione: «il potere
supremo, immediato e ordinario» del papa e la sua infallibilità.

2. La recezione a lungo termine

A lungo termine la recezione della Pastor Aeternus si è dovuta misurare


con le quattro difficoltà già evidenziate nel corso del presente commento
al testo. A partire dall'opera di Vacant il problema dell'estensione dell'in-
fallibilità pontificia non ha smesso di occupare i teologi. Rilanciata da un
passo dell'enciclica Humani generis in cui si parla dell'insegnamento ordi-
nario dei papi e delle loro encicliche 101 , questo aspetto è stato discusso,
dopo il concilio Vaticano II, in occasione degli interventi romani nell'am-
bito della morale 102 e, più recentemente, in occasione della lettera aposto-
lica Ordiantio sacerdotalis che proibisce l'ordinazione delle donne 103 • Pri-
ma di soffermarci su questi dibattiti è il caso di sottolineare il loro carat-
tere molto limitato, nella misura in cui l'interrogativo sull'estensione del-
.l'infallibilità suppone sempre la concezione, talvolta un po' intellettuali-
sta, della rivelazione e della verità, così come la si trova nelle due Costitu-
zioni del Vaticano I.
La Chiesa non può andare oltre questo limite senza dover affrontare i
tre punti di divergenza già comparsi nel dibattito tra minoranza e maggio-
ranza conciliari. Il concilio Vaticano II risponderà, almeno in parte, a
questa esigenza. Il contenzioso più fondamentale, che tra l'altro ha una
grande importanza ecumenica 104 , riguarda il rapporto tra papato e Chie-
sa. Il punto non è solo l'interpretazione dottrinale dello spostamento sto-

100 D:i:S 3113-3116,


101. D:i:S 3885.
102 H. KONG, Infaillible? Une interpellation, (1970) DDB, Paris 1971, pp. 32-60 in riferimento all'en-
ciclica Humanae Vitae (1968) di Paolo VI.
103 Cfr. la spiegazione ufficiale e la risposta della Congregazione per la Dottrina della Fede a un dub-
bio circa la dottrina della Lettera Ordinatio sacerdotalis (28 ottobre 1995), EV 14, nn. 3271-3283.
104 Dal punto di vista ortodosso cfr. E. GHIKAS, Comment «redresser» les de/initions du premier con-
ci/e du Vatican, in «Irénikon», 68 (1995), pp. 163-204.

3 00 CHRlSTOPH THEOBALD
rico del primato (principalitas) della Chiesa di Roma verso l'affermazione
ontologica che il papa è il «capo» o il principio (principium) e fondamento
dell'unità ecclesiale, ma quello di una pratica primaziale, legittimata da
questo spostamento, che non concorda poi sempre con le dichiarazioni
ufficiali più restrittive e prudenti a riguardo dell'esercizio del primato.
Un altro punto, accennato nel nostro commento, riguarda il rapporto
tra «potere di giurisdizione», «potere di insegnamento» e «ordine sacra-
mentale». Su questo terreno storico-pratico che rappresenta l'espressione
simbolica per eccellenza di ciò che la Chiesa dice di se stessa nel suo rela-
zionarsi al Vangelo o alla verità, il Vaticano II ha apportato un nuovo e
singolare equilibrio si cui si dovrà ritornare.
L'ultimo punto è anche quello più controverso: riguarda lo stesso pro-
cesso della ricerca della verità e della sua recezione, di cui il Vaticano I
non mantiene, nella sua definizione dell'infallibilità pontificia, che l'aspet-
to giuridico di decisione ultima o di obbedienza. Infatti è il rapporto tra
rivelazione o diritto divino e storia ad essere in causa quando si riflette
sullo spazio da dare ai «mezzi umani» nell'interpretazione autentica delle
Scritture e della Tradizione. Su questo punto il Vaticano II ha portato a
delle grandi aperture.
Si potrebbe quindi pensare, anticipando leggermente l'analisi dei testi,
che il concilio del xx secolo avrebbe risposto alle speranze di un Newman
che faceva sue, nella Lettera al Duca di Nor/olk, queste righe del Molina:
«È il. ruolo dei concili seguenti quello di interpretare e di definire più
ampiamente e con maggiore esattezza ciò che i concili precedenti hanno
definito in modo meno chiaro, meno completo e meno esattamente» 10~.
Dopo il Vaticano II alcuni sarebbero arrivati fino al punto di riprendere
ciò che questo o quello pensavano già nel 1870 nel leggere la Costituzio-
ne 106 , tanto da poter dire che a vincere sia stata piuttosto la minoranza
divenuta maggioranza nel Vaticano II.
Non è certo che il rapporti tra i due concili possano pensarsi in questi
termini. Tutto lascia pensare che la pratica di Roma dopo il concilio si
fondi, almeno sui punti controversi, più sulle ispirazioni del concilio Va-
ticano I che non sul loro «reinquadramento» da parte del Vaticano II. Si
potrebbe pensare che la persistenza di un certo paradigma apocalittico nel
cattolicesimo, a cui si è fatto riferimento a più riprese nel corso del com-
mento, e il sentimento di vivere in rapporto alla modernità occidentale in
uno stato di permanente urgenza, portino poi a delle reazioni che si situa-

10~ J. H. NEWMAN, Lettera al Duca di Norfolk.


106 Cfr. K. ScHATZ, Vaticanum I, III, cit., p. 299, dove si cita una lettera di Dinkd dd 15.11.1870 al
cardinale Schwarzenberg. ·

Vll . PRIMA COSTITUZIONE DOGMATICA SULLA CHIESA DI CRISTO 301


no piuttosto dalla parte di una riaffermazione della sovranità giurisdizio-
nale e magisteriale del romano pontefice, definita nei capitoli III e IV della
Pastor Aeternus. Bisognerà in ogni modo verificare questa ipotesi al mo-
mento in cui presenteremo la visione più sapienziale della storia nei testi
del concilio Vaticano IL
In ogni caso, dal momento che il cattolicesimo si sente nuovamente
minacciato nella sua identità, si ritrova necessariamente il problema del-
l'interpretazione, già incontrata a proposito della Costituzione Dei Filius:
questo «testo di compromesso» fa fatica ad articolare la prospettiva dog-
matico giuridica dei principali redattori e la visione dogmatico-storica di
un certo numero di Padri provenienti dal tradizionalismo moderato. Nel-
la Costituzione Pastor Aeternus una stessa «indeterminazione» è stata se-
gnalata in rapporto alle due parti del capitolo IV. Questo compromesso
fa presagire la possibilità di diverse reazioni in una situazione di crisi.

3 02 CHRISTOPH THEOBALD
Capitolo Ottavo

«La questione biblica»


Dalla dottrina della Providentissimus Deus
alla recezione dell'esegesi storico-critica
da parte della Divino a//lante Spiritu

Il «reinquadramento» delle decisioni del Vaticano I in un'altra prospet-


tiva è passato da una serie di crisi tra cui la prima è conosciuta sotto il
nome di «crisi modernista» 1• Già covata da un certo tempo, essa si mani-
festa prima di tutto - a partire dal 1893 - come la «questione biblica» 2 •
Con questa si arriva in fretta a toccare il punto più significativo del-
1' «edificio dottrinale» del Vaticano I, ossia il rapporto tra Chiesa e Vange-
lo. Questo interrogativo produrrà, anche attraverso altre crisi che ormai si
profilano all'orizzonte, dei frutti promettenti. A partire da quest'epoca
questo movimento investe molti campi di conflitto: le relazioni tra catto-
lici e protestanti, l'opposizione del cattolicesimo al liberalismo sotto le
vesti dell' «esegesi liberale» e il problema del rapporto tra le diverse disci-
pline in seno alle Facoltà di- teologia poste sotto lautorità ecclesiastica o
statale. È necessario presentare brevemente questo contesto globale della
questione biblica) prima di entrare nell'analisi della serie di risposte dot-
trinali del magistero romano.

I. LA PREISTORIA DELLA «QUESTIONE BIBLICA»

Indicazioni bibliografiche: F.D.E. SCHLEIERMACHER, Hermeneutik und Kritik mit besonde-


rer Beziehung auf das Neue Testament, Slimmtliche Werke, Berlin 1834-1864; D.F. STRAUSS,
Das Leben Jesu, kritisch bearbeitet, 2 voli., Osiander, Tiibingen 1835-1836; E. RENAN, Vita di

I Cfr. ]. RivrÈRE, Le modernisme dans l'Église. Étude d'histoire religieuse contemporaine, l..etouzey,
Paris 1929 e E. PouLAT, Histoire, dogme et critique... , con la premessa alla 3' edizione.sotto il titolo di
Permanence et actualité du modernisme.
2 Cfr. Mons. D'Hur.sr, La Question biblique, in «l..e correspondant», 134 (1893), pp. 201-251, artico-
lo che fu l'occasione prossima della pubblicazione della Providentissimus Deus.
) Circa la preistoria della «questione biblica», cfr. CHR. THEOBALD, Sens de l'Écriture du xvm au xx
siècle, in: DBS, XII, pp. 470-514.

Vlll - «LA QUESTIONE BIBLICA» 303


Gesù (1863), Rizzali, Milano 1992; E. TROELTSCH, Ober historische und dogmatische Methode
in der Teheologie (1898), in Gesammelte Schri/ten Il, J.C.B. Mohr, Tiibingen 1922', pp. 729-
753; M.J. LAGRANGE, La méthode historique, Lecoffre, Paris 1904'; Le Père Lagrange au service
de la B1ble. Souvenirs personnels, Cerf, Paris 1967; L'Écriture en Église, Choix de portraits et
d'exégèses spirituelle (1890-1937), presentato da M. Gilbert, Cerf, Paris 1990; A. Lorsv, Il
vangelo e la chiesa. Intorno a un piccolo libro, Astrolabio, Roma 1975; A. SCHWEITZER, Von
Reimarus zu Wrede (1906) o Geschischte der Leben.fesu-Forschung (1913'), 2 voli., Siebenstern,
Miinchen-Hamburg 1966; K. BARTH, Epistola ai Romani (1919), Feltrinelli, Milano 1989; R.
BuLTMANN, Credere e comprendere, Queriniana, Brescia 1986'; E. POULAT, Histoire, dogme et
critique dans la crise moderniste (1962), Albin Miche!, Paris 1996'; P.M. BEAUDE, L'accomplisse-
ment des Écritures. Pour une histoire critique des systèmes de représentation du sens chrétien, Cerf,
Paris 1980; CHR. THEOBALD, L'exégèse catholique au moment de la crise moderniste, in Cl. Savart
eJ.N. Aletti (a cura di), Le monde contemporain de la Bible, Beauchesne, Paris 1986;}.R. ARMo-
GATHE (a cura di), Le Grand Siècle et la B1ble, Beauchesne, Paris 1989; P.M. BEAUDE, Sens de
l'Écriture de Divino Afflante Spiritu à nos jours, in DBS XII, pp. 514-536; F. LAPLANCHE, La
Bible en France entre mythe et cn'tique (XVI-XIX siècle), Albin Miche!, Paris 1994; B. MONTAGNES,
Exégèse et obéissance. Correspondance C.Ormier-Lagrange (1904-1916), Gabalda, Paris 1989; La
méthode historique, succès et revers d'un manifeste, in AA.Vv., Naissance de la méthode cn'tique.
Colloque du Centenaire de l'École biblique et archéologique de Jérusalem, Cerf, Paris 1992; Le
Père Lagrange (1855-1938). L'exégèse catholique dans la crise moderniste, Cerf, Paris 1995.

1. ERMENEUTICA GENERALE ED ERMENEUTICA SPECIALE

Preparata da lungo tempo, la distinzione tra un'ermeneutica generale o


filosofica ed un'ermeneutica speciale delle Scritture s'impone a partire da
Schleiermacher (1768-1834). Questo è un primo aspetto della «questione
biblica». Dal momento che le varie ermeneutiche si trovavano legate a
degli ambiti determinati (teologia, giurisprudenza, storia, ecc.) esse cade-
vano per questo sotto la giurisdizione delle corrispondenti discipline dog-
matiche. Ormai i fondamenti delle ermeneutiche speciali erano trattate
dalla Facoltà di filosofia. L'ermeneutica filosofica «l'arte di comprendere
correttamente il discorso altrui, e principalmente il discorso scritto» 4, si
interroga, per la prima volta, sulla «comprensione del senso» in quanto
tale e tenta di coglierne le regole globali, «fondate immediatamente sulla
natura del pensiero e del linguaggio» 5 • La feconda idea di Schleiermacher
è quella di articolare il linguaggio o più precisamente il discorso con il
pensiero. Si abbandona del tutto la concezione razionalista di una univo-
ca relazione tra la parola (segno) e il suo senso (la rappresentazione indi-
pendente e comune a tutti gli uomini), a vantaggio di un insieme più com-
plesso in cui il senso non è più fissato semplicemente da una convenzione

4 F.D.E. SCHLE!ERMACHER, Hermeneutik und Kritik mit besonderer Bez.iehung auf das Neue Testament,
Siimmtliche Werke, I/7, Berlin 1834-1864, p. 3.
5 lo., Lo studio della teologia (1810-1830), Queriniana, Brescia 1978, n. 133.

304 CHRISTOPH THEOBALD


linguistica, ma è pure il risultatq della molteplicità delle utilizzazioni indi-
viduali di questo o quel valore linguishco. Schleiermacher fa riferimento
qui al «circolo ermeneutico» secondo cui la totalità del senso si compren-
de sempre a partire dai suoi elementi, mentre la comprensione di ogni
elemento suppone già la possibilità di cogliere una totalità sensata. La lin-
gua o il discorso implica quindi al suo centro una sorta di oscurità, in cui
l'esistenza di una spontanea incomprensione accede qui, per la prima volta,
ad uno statuto fondamentale 6 • Così diventa necessaria la «comprensione»
non più come esercizio spontaneo, ma come arte metodica e generale.
L'ermeneutica speciale della Bibbia applica queste regole globali e le
precisa in funzione della situazione propria del canone biblico. Si situa
nell'orizzonte della «teologia storica», al punto di confluenza della «teo-
logia esegetica» e della «teologia dogmatica», nel luogo stesso in cui si
tocca il problema della «particolare essenza del cristianesimo» 7 • In regi-
me cattolico, la si ritroverà nella teologia fondamentale, e più precisamen-
te nella demonstratio catholica.

2. Il metodo storico

Il fatto poi che questa ermeneutica speciale si sia ormai sviluppata nel
quadro di una «teologia storica» costituisce il secondo aspetto della «que-
stione biblica». Dopo una lenta preparazione costellata da viaggi di ricer-
ca in Medio Oriente per tutto il secolo dei Lumi, l'archeologia e la lingui-
stica bibliche conoscono nel XVIII secolo un nuovo vigore: viene fondata
in Francia la Scuola nazionale delle lingue orientali nel 1795, creazione
dell'Institut d'Égipte al tempo della campagna napoleonica del 1798, uni-
tamente alla scoperta della storia dei Persi di Silvestro di Sacy e ali' opera
grammaticale di Gesenius in Germania, ecc. Il punto critico di tutto que-
sto percorso lo si tocca a partire dal 1850, quando la scoperta e la decifra-
zione di un certo numero di testi ha come conseguenza la nascita dell'egit-
tologia e dell'assiriologia. In tal modo viene costruita, a partire da questi
ambiti, con nuovi dati, una scienza delle religioni che introduce la Bibbia
in un vasto programma di comparazione in cui si tratta il suo testo come
un documento riducendo il suo senso letterale al senso storico.
La scuola protestante di Tubinga, soprattutto conosciuta per la Vita di
Gesù, di D.F. Strauss (1835-1836) la cui traduzione francese si deve al E.
Littré, doterà queste ricerche di un vero programma metodologico 8, che
6 Cfr. In., Hermeneutik ..., cit., pp. 122ss.
7 In., Lo studio della teologia, cit., n. 137 e n. 84.
8 Cfr. F. CHR. BAUR, An He"n Dr Kart Hase. Beantwortung des Sendschreibens «Die Tubinger Schule»,
Fues, Tiibingen 1859.

Vlll • «LA QUESTIONE BIBLICA>> 305


sarà precisato sul lavoro di A. Kuenen sui Metodi critici (1880) 9 e che rag-
giungerà la sua piena maturità storico-filosofica nel celebre lavoro di E.
Troeltsch (1865-1923) Sul metodo storico e dogmatico in teologia (1900) rn.
Questo testo magistrale, commentato spesso 11 , dimostra l'incompatibilità
del «comparatismo>; con una visione soprannaturalista del mondo suppo-
sta dalla dogmatica. Troeltsch fonda i tre principi di ogni critica: lo spo-
stamento verso uQ giudizio di probabilità, il principio di analogia, che
implica «l'omogeneità dell'insieme dei processi storici» e il principio di
correlazione, che indica «l'azione reciproca di tutti i fenomeni della vita
spirituale e storica» 12 . L'ideale di una scienza esente da ogni preambolo,
formulato da Strauss nella sua Vita di Gesù n, rimane di fatto sullo sfondo
di quella che, in seguito, sarà chiamata esegesi «storicista». Indubbiamen-
te, Kuenen e Troeltsch sonq maggiormente consci delle incertezze della
ricerca storica e insistono sul principio di probabilità. Ma suppongono
pure che il contatto empirico con la storia produca di fatto la sua propria
filosofia. Scrive Troeltsch nel 1900:
Molto chiaramente nella sua genesi questo metodo [storico] non è stato indipen-
dente dalle teorie generali. Non è il caso per nessun metodo. Ma l'essenziale è la
conferma e la fecondità di un metodo, il suo affinamento a contatto degli oggetti
e la sua capacità di produrre comprensione e coerenza 14 .

Dopo le due grandi figure che intrapresero una mediazione speculativa


tra lo spirito critico e la teologia, Schleiermacher e Hegel, e dopo il colpo di
freno che annuncia ormai la dissohp:ione della sintesi hegeliana (la cui poste-
rità sarà divisa tra «sinistra» e «destra»), l'esegesi si riferisce ormai ad una
pratica storica, giudicata capace di rendere da sola i suoi oggetti «meraviglio-
samente vivi e intelligibili» 15 e di stabilire così <<l'essenza del cristianesimo».

3. Separazione tra l'esegesi dei due Testamenti


Ma per il fatto che diventa sempre più difficile per dei singoli padro-
neggiare la ricchezza di materiale, si impone una separazione nella pratica
tra due differenti discipline, una che si occupa dell'Antico e l'altra del

9 A. KuENEN, Kritische Methoden (1880). in: GeJammelte Abhandlungen zur biblischen WiJJenJchaft,
J. C. B. Mohr, Freiburg-Leipzig 1894, pp. 4-43.
10 E. TROELTSCH, Uber historischeund dogmatische Methode in der Teheologie (1898), in: Gerammelte
Schriften, II, J.C.B. Mohr, Tiibingen 19222, pp. 729-753.
11 Cfr. la nostra analisi in: Hirtoire et théologie chez E. Troeltsch, P. Gisd (a cura di), Labor et Fides,
Genève 1992, pp. 243-268.
12 E. TROELTSCH, Ober hirtorische... , II, cit., pp. 731-734.
n D.F. STRAUSS, Dar Leben Jeru, kritirch bearbeitet, 2 voli., Osiander, Tiibingen 1835-1836, I, p. 87.
14 E. TROELTSCH, Ober historische... , II, cit., p. 734.
15 lbid., p. 735.

306 CHRISTOPH THEOBALD


Nuovo Testamento. Questo è un terzo aspetto della «questione biblica».
La tendenza a questa separazione si manifesta per la prima volta in G.L.
Bauer 16 • Questo modo di fare ha come conseguenza, salvo eccezioni, una
svalutazione dell'Antico Testamento, in virtù dell'influsso sotterraneo di
Schleiermacher sull'ermeneutica biblica. In ogni modo diventa sempre più
difficile parlare del senso delle Scritture. D'altronde, non è impossibile
scorgere nella separazione dei Testamenti un rapporto negativo di questa
ermeneutica «storicista» col giudaismo.

4. L'aspetto teologico-politico dell'esegesi storico-critica

Con l'affermarsi del nazionalismo, il limite confessionale tra due teorie


del senso, decisivo durante il secolo dei Lumi 17, si raddoppia per la com-
parsa di una nuova frontiera. Cosi in Francia si parlerà, a partire dagli
anni trenta, della «critica tedesca». Questo aspetto teologico-politico co-
stituisce un quarto aspetto della «questione biblica». Il concetto di nazio-
ne svolge soprattutto una funzione interna in quella che è la determina-
zione del senso delle Scritture. Quando J. Wellhausen (1844-1918) affer-
ma, ad esempio, che «la nazione è creata da Dio più certamente che non
la Chiesa e che Dio opera con più forza nella storia delle nazioni che non
in quella della Chiesa» 18 , non solo in tal modo egli taglia il legame tra i
Testamenti, tra il giudaismo profetico che gode dell'indipendenza nazio-
nale e il giudaismo tardivo, matrice apocalittica del Vangelo, che ha defi-
nitivamente perduta, ma soprattutto costui accantona le «Chiese cristia-
ne», come la religione giudaica, nella «sfera confessionale», facendo or-
mai della Bibbia un «classico» tra altri, un patrimonio della nazione e
dell'umanità che vi possono leggere all'interno una tappa della loro pro-
pria evoluzione storica.
Il «paradigma liberale» giunge alla sua maturità al tempo della pubbli-
cazione del Sillabo (1864). Per l'Antico Testamento, ci si può riferire al
libro di Kuenen 19 tradotto in francese da Renan, che fa del profetismo un
vero modello di umanità. Questi si radica in uno «slancio di entusiasmo
per la libertà, per la religione, attribuita alla diretta azione di J éhovah» e
situata, in linea di principio, «al di sopra della restaurazione del culto di
Jéhovah e della teocrazia israelita nelle loro forme puramente esteriori» 20 •

16 G.L. BAUER, Theologie des Alten Testaments (1796); Biblische Theologie des Neuen Testaments
(1800-1802)
17 Cfr. CHR. THEOBALD, Sens de l'Écn'ture .. ., cit. pp. 470-484.
18 J. WELLHAUSEN, [srae4 in: EBrit del 1879.
19 A. KUENEN, Histoire critique del livres de l'AT, (1861-1865) in 2 volumi tradotti in francese da E."
RENAN, I: Les livres histon·ques, M. Lévy, Paris 1866; II: Les livres prophétiques, Calmann-Lévy, Paris 1879.
20 !bili., II, pp. 29 e 26.

VIII - «LA QUESTIONE BIBLICA» 307


L'altra faccia del «paradigma liberale» riguarda la ricostruzione della Vita
di Gesù. Certo a causa della sua prospettiva critica che resiste ad ogni
costruzione positiva, l'opera di D.F. Strauss (1835) non può essere conte-
stuata nell'ambito liberale. Ma l'autore pubblica, nel 1864, un anno dopo
la Vita di Gesù di E. Renan 21 , una seconda opera con lo stesso titolo «per
il popolo tedesco», che in tal caso risponde perfettamente allo spirito li-
berale, in cui si fa di Gesù un maestro paziente che avrebbe separato la
religione dalla politica e dall'aspetto cultuale e predicato un cammino
verso la pace interiore con se stessi e con Dio 22 •
Si rammenti che Strauss e molti altri avevano sostenuto l'ideale di una
scienza senza nessun preambolo. Un simile ideale si rivela illusorio. Pur
appoggiandosi su delle procedure critiche, il «paradigma liberale» propo-
ne una nuova visione del mondo e della storia dell'umanità.

5. Una complessa geografia delle posizioni

Queste implicazioni teologiche e filosofico-politiche si diffrangono sul


campo esegetico in posizioni diverse. Questo è il quinto aspetto della
«questione biblica». L'esegesi cattolica resiste, in tutta Europa, ai presup-
posti del liberalismo biblico. Queste opposizioni scoppiano altrove a più
livelli, manifestando così la crescente complessità dell'accesso al senso:
accetta.zione o rifiuto delle regole critiche, appartenenza dei biblisti a del-
le istituzioni diverse, controllate dallo Stato o dal magistero cattolico; in-
fine opposizione tra le corrispondenti «visioni del mondo» che si affron-
tano sul terreno della Bibbia. Tuttavia non bisogna ridurre queste tensioni
ad un'opposizione a due termini, poiché, di fronte alla dottrina biblica del
cattolicesimo, si deve distinguere l'approccio liberale di una scienza delle
religioni che si vuole indipendente da ogni pregiudizio confessionale.
L'esegesi cattolica, rappresentata in Francia da qualche grande profes-
sore di San Sulpizio come M. Garnier (dal 1803 al 1845), M. Le Hir (dal
1846 al 1868), che fu il professore di Renan, M. Vigouroux (dal 1868 al
1903 ), e dall'abbé J.B. Glaire, allievo di Garnier e professore alla Sorbo-
na, ha saputo segnare la cultura biblica di questo secolo mediante manua-
li di grande qualità, con delle introduzioni bibliche accompagnate da let-
teratura apologetica. L'attacco del senso letterale lanciato dalla «scienza
tedesca», la quale pretende di riscrivere la storia biblica, obbliga gli ese-
geti cattolici a organizzare la difesa. Si lotta soprattutto contro il sedicente

21 E. RENAN, Vita di Gesù, Rizzoli, Milano 1992.


22 D.F. STRAUSS, Das Leben Jesu /ur das deutsche Volk bearbeitel, F.A. Brockhaus, Leipzig 1864.

308 CHlUSTOPH THÉOBALD


«senso mitico» della scuola protestante di Tubinga, che Vigouroux defi-
nisce così: «La parola mito indica, in opposizione con la storia reale, una
sorta di storia finta o immaginaria, una specie di favola di cui ci si serve
come si un involucro per esprimere come si fa nelle opere di immagina-
zione e di finzione, delle idee e delle teorie religiose e metafisiche o anche
fisiche» 23 • L'esegesi cattolica si ritrova qui dinanzi allo spinoso problema
dell'inerranza della Bibbia, ampiamente identificata con il suo carattere
storico, mentre l'errore si trova dalla parte del «mito». La riposta del
«buon senso critico» e di una «sana ermeneutica» è in tal caso senza ap-
pello alcuno. Domanda J.B. Glaire:
Si è forse dimenticato che questi scritti hanno per autore dei testimoni oculari o dei
contemporanei, che erano presenti al tempo dei fatti che riportano? [. .. ] È evidente
che non si possono ammettere dei miti nei miracoli di cui san Matteo e san Giovan-
ni, ad esempio, erano stati testimoni; poiché come si conviene che questi erano pie-
ni di sincerità e molto lontani dal fingere, essi ce li hanno raccontati così come li
hanno visti; e siccome dal loro racconto semplice e na"if, questi fatti non sono natu-
rali, ma del tutto miracolosi, è così che noi dobbiamo intenderli 24 •

Il. LE RISOLUZIONI DEL MAGISTERO ROMANO


NEL XIX SECOLO

Indicazioni bibliografiche: LEONE XIII, Enciclica Providentisrimur Deur, 18.11.1893 sullo


studio della Sacra Scrittura, in Enchiridion Biblicum, nn. 81-134; Lettera apostolica Vigilan-
tiae, 30.10.1902 Commissione per la promozione delle scienze bibliche, Ib1d., nn. 137-148.

1. La dottrina biblica dell'enciclica Providentissimus


La prima reazione del magistero cattolico nei confronti dell'esegesi li-
berale la si trova nel Sz"llabo, pubblicato nel 1864, un anno dopo la Vita di
Gesù di Renan e nello stesso anno di quella di Strauss. La proposizione 7
condanna la tesi secondo cui «Le profezie e i miracoli esposti e narrati
nelle sacre Scritture, sono invenzioni di poeti e nei libri dei due Testa-
menti sono contenute invenzioni mitiche: e lo stesso Gesù Cristo è una
finzione mitica» 25 • La Costituzione dogmatica del Vaticano I sulla fede

23 F. V1GOUROUX, Manuel biblique ou courr d'Écriture Sainte à l'urage de Séminairer, I: Ancien Terta-
ment (1879), Roger et Chernoviz, Paris 18993, p. 281.
24 J.B. GLAIRE, Abrégé d'introduction aux livrer de l'Ancien et du Nouveau Tertamenl (1846), Leroux-
Jouby, Paris 18786, p. 153.
25 DzS 2907.

VIII - «LA QUESTIONE BIBLICA» 309


cattolica riprende questa condanna 26 iscrivendola però nel quadro più
vasto della sua dottrina sulla Scrittura.
Uno sviluppo più completo di questa dottrina si trova nell'enciclica
Providentissimus Deus di Leone XIII sullo studio della Sacra Scrittura, che
nel 1893 apre, come già era awenuto per altri ambiti, la serie «moderna»
dei testi dottrinali in materia biblica. Il carattere inaugurale dell'enciclica
è fortemente sottolineato da una rilettura della storia dell'esegesi all'inizio
del testo. Quest'ultimo s'ispira, per i tempo moderni, al prologo della Dei
Filius, in cui si era già evidenziata la conseguenza paradossale e «catastro-
fica» del rifiuto protestante del magistero in nome della sola scriptura, vale
a dire la trasformazione del «giudizio privato» in razionalismo biblico,
distruttore alla fine della purezza del libro considerato in tal caso come
l'«unica fonte» 27 • L'occasione immediata dell'enciclica è senza dubbio l'ar-
ticolo che mons. d'Hulst, primo rettore dell'Institut Catholique de Paris,
aveva redatto, dopo la morte di Renan nel 1892, sulla questione biblica.
Questi distingueva tra due scuole, all'interno stesso dell'esegesi cattolica
«quella che accoglie come storia vera, infallibile in virtù dell'ispirazione,
ogni narrazione che non ha il carattere evidente di una parabola», e quel-
la, chiamata «scuola larga» che ritiene di poter fare una cernita nei rac-
conti biblici a partire dai metodi della critica storica» 28 . Prevista da molto
tempo, la pubblicazione dell'enciclica fu indubbiamente affrettata, appun-
to, al fine di condannare questa «scuola larga» che veniva considerata
come un compromesso inaccettabile con la «scienza libera» 29 • Leone XIII
riafferma, proprio all'inizio del testo e facendo riferimento al concilio Va-
ticano I, l'asse centrale della dottrina biblica della Chiesa:
Questo certamente, riguardo ai libri dell'uno e dell'altro Testamento, sempre ha
ritenuto e apertamente professato la chiesa: ben noti sono gli importantissimi
documenti antichi, nei quali si afferma che Dio, il quale parlò prima per mezzo
dei profeti, poi egli stesso e quindi per bocca degli apostoli, è anche autore delle
Scritture che sono chiamate canoniche e che sono oracoli e locuzioni divine, una
lettera inviata dal Padre celeste trasmessa per mezzo degli autori sacri al genere
umano, peregrinante lontano dalla patria;o.

La tradizionale distinzione dei tre tempi della Parola di Dio farà sì che
questo testo arrivi a ciò che si chiama il «finalismo» dell'esegesi biblica: il
senso vero, secondo il giudizio dottrinale della Chiesa, circola, secondo

26 Dei Filius, cap. III, cait 4.


27 LEONE XIII, Providentissimus Deus (18. 11. 1893), EB, n. 100. Alla fine di questa prima pane, Leo-
ne XIII indica chiaramente gli stessi avversari che aveva di mira la Costituzione.Dei Filius: i razionalisti.
28 Mons. D'HUIST, La question biblique, cit., p. 228.
29 Providentissimus Deus, EB, n. 101.
}0 lbid., 81.

310 CHRlSTOPH THEOBALD


un movimento ininterrotto e sempre attratto dal suo fine, ossia si va dal-
1'Antico verso il Nuovo Testamento, che segna di ritorno il senso del primo
Testamento, come pure il Nuovo Testamento si muove verso l'«edificio
dottrinale» stabilito dalla Chiesa che è interprete della Bibbia. La Providen-
tissimus Deus esplicita questa dottrina in una prospettiva duplice: «la dzfesa
e l'interpretazione dei libri divini», questi due approcci, apologetico e dog-
matico, sono comunque il sottinteso di una preoccupazione pastorale o spiri-
tuale più globale tanto che «Ci sentiamo mossi a desiderare che in modo
sempre più sicuro e abbondante si renda manifesta per l'utilità del gregge
del Signore questa fonte della rivelazione cattolica» 31 •

La prospettiva spirituale
Questa prospettiva spirituale della lettura biblica viene sviluppata all'ini-
zio e alla fine del testo pensando soprattutto ai «ministri» e viene riferita,
seguendo l'autorità del Salmista; alla relazione intrinseca tra l' «oscurità»
della visuale del testo e l'attitudine del soggetto della lettura, al fine di
comprendere ed esporre il senso, «con l'intervento dello Spirito Santo»
che «dobbiamo implorare con umile preghiera e custodire in noi con la
santità della vita» 32 • Le «istituzioni e le leggi» della Chiesa trovano pro-
prio in questa prospettiva spirituale la loro vera giustificazione, anche se
queste vengono esposte solo in seguito, in una breve storia dell'esegesi
ecclesiale, al fine di giustificare, nei confronti degli acattolici e degli av-
versari, la «previdenza» della Chiesa JJ.
La finalità spirituale dell'intervento magisteriale si traduce fondamen-
talmente in termini apologetici e dogmatici. Questo punto si esprime
nella posizione ambivalente del documento in relazione ai «sensi spiri-
tuali» della Scrittura. Questi infatti non conosce se non il senso allego-
rico e il senso tropologico. La loro necessità si presenta a causa dell'oscu-
rità del testo:
Talvolta con un senso ben più ampio e recondito di quanto non sembri espriritere
la parola o indicare le leggi dell'ermeneutica, e certamente lo stesso senso letterale
richiama poi altri sensi, sia per illustrare i dogmi, sia per raccomandare precetti di
vita pratica 34 •

Evocata semplicemente come punto di passaggio alla lettura dogmati-


co-morale della Scrittura, l'applicazione dei «sensi spirituali» viene poi

3t Ibid., 82.
32 Ibid., 89.
n Ibid., 91-99.
J4 Ibid., 108.

Vlll - «LA QUESTIONE BIBLICA» 311


limitata dalla regola agostiniana del primato del «senso letterale», che ri-
sulta necessaria «in così grande smania di novità e libertà di opinioni»
unitamente alla finalità devozionale e morale 35 •

La prospettiva dogmatica
L'accento più forte della dottrina biblica della Providentissimus Io si
trova quindi nella prospettiva dogmatica e apologetica della lettura delle
Scritture, dedotta, anch'essa, dalla loro «religiosa oscurità» e riaffermata,
al seguito di Ireneo, dai concili di Trento e del Vaticano I:
Non bisogna perciò negare che i sacri Libri non siano avvolti da una certa religio-
sa oscurità, per cui nessuno può accedere ad essi senza una qualche guida. [... ] e
perché comprendessero soprattutto che Dio affidò le Scritture alla chiesa, della
quale debbono servirsi come di sicurissima guida e maestra nel leggere e trattare
le sue parole. Infatti già s. Ireneo insegnava che si deve apprendere la verità là,
ove sono posti i carismi del Signore, e che senza alcun pericolo vengono.esposte
le Scritture da coloro presso cui si trova la successione apostolica 36•

Questo principio fondamentale della lettura ecclesiale della Scrittura,


che si fonda sul «finalismo biblico» interpretato dal Vaticano I, esposto
nuovamente proprio alla fine dello sviluppo del discorso sull'esegesi dog-
matica, dà vita ad una formula che, più tardi, sarà ripresa da Benedet-
to XV (1920) e dal Vaticano II (1965):
È poi grandemente desiderabile e necessario che l'uso della divina Scrittura do-
mini in tutta la scienza teologica e ne sia quasi l'anima 37 .

Indubbiamente, secondo la tradizione tomista, autentificata dalla Ae-


terni Patris (1879) 38 , il corpo dottrinale ed ecclesiale ha una propria con-
sistenza. Leone XIII stesso sembra ammettere una certa riduzione della
formazione dei seminaristi alla «scienza dei dogmi» e alla capacità di
«trarne le conseguenze». È compito del «grave e dotto teologo» di im-
pegnarsi a non «trascurare la stessa dimostrazione dei dogmi dedotta
dall'autorità della Bibbia» 39 , come se si trattasse per coloro che collabo-
rano, da vicino o da lontano, al giudizio dottrinale del corpo ecclesiale
di fare un'operazione simile a quella di una genealogia di questo corpo
che essi abitano di già.

35 lbid., 112.
36 lbid., 108.
37 Ibid., 114; cfr. CHR. THEOBALD, L'Écriture time de la théologie..., in: I.E.T., L'Écriture time de la
théologie, Brepols, Bruxelles 1990, pp. 111-132. ·
38 Cfr. infra, cap. X.
39 Providenlissimus, EB, n. 114.

312 CHRISTOPH TIIEOBALD


Per quanto riguarda il concretò stabilirsi del senso della Scrittura. l'en-
ciclica indica allora una netta frontiera tra i punti il cui senso autentico è
stato fissato dagli stessi scrittori o da parte del giudizio della Chiesa - sia
mediante un giudizio solenne, sia mediante il magistero ordinario e univer-
sale - , e «gli altri punti» su cui si può esercitare la libertà rendendo pos-
sibile un vero progresso della ricerca esegetica. Si noti soprattutto il rifiu-
to di ogni contraddizione, sia tra gli autori ispirati, sia tra gli interpreti e
la dottrina della Chiesa.

La prospettiva apologetica
Si tocca così il versante apologetico del «finalismo biblico», molto pre-
sente nell'enciclica e reso esplicito nella sua ultima parte. Non si possono
non riconoscere nelle immagini bellicose del testo e nell'utilizzo della
metafora del combattimento tratta dalla lettera agli E/esini 40 , quegli ele-
menti apocalittici propri del cattolicesimo integrale. L'argomento apolo-
getico, che ripropone il circolo della «dimostrazione dei dogmi a partire
dalle autorità bibliche» 41 , riguarda in ultima istanza la legittimità di quan-
ti hanno la missione di giudicare circa il senso dottrinale del testo biblico:
Rimane tuttavia un'altra parte da farsi e di ben grande importanza, come pure di
grande lavoro e cioè che si sostenga il più validamente possibile l'integra autorità
degli stessi Libri sacri. Intento che in nessun altro modo potrà universalmente e
pienamente conseguirsi se non per mezzo del vivo e legittimo magistero della
chiesa, la quale, «per se stessa e cioè per la sua ammirabile propagazione, per l'esi-
mia sua santità e inesauribile fecondità in ogni opera buona, per la sua cattolica
unità e invitta stabilità è un grande e perpetuo motivo di credibilità e testimonio
irrefragabile del suo divino mandato» (Dei Filius, cap. III). Poiché il divino e inef-
fabile magistero della chiesa poggia anche sull'autorità della sacra Scrittura, biso-
gna perciò in primo luogo sostenere e rivendicare a questa una fede almeno uma-
na: e da questi libri, come dai testimoni veraci a tutta prova dell'antichità, si met-
tano in evidenza e al sicuro la divinità e la missione del Cristo Signore, l'istituzio-
ne della chiesa gerarchica, il primato conferito a Pietro e ai suoi successori 42 •

Questo «circolo apologetico» 43 permette di capire le riserve dell' en-


ciclica nei confronti della «critica superiore», o letteraria, secondo cui,
«in base a sole ragioni interne, [... ] dovrebbero scaturire l'origine, l'in-
tegrità, l'autorità di ogni libro», si riferisce «unicamente alle prove in-
trinseche» dimenticando che «valgono sopra tutte le testimonianze sto-

40 Ibid., 100-101e114-117, ecc.


41 Ibid., 114.
42 Ibid., 116.
43 Soggiacente alla struttura stessa della Pastor Aeternus.

Vlll · «LA QUESTIONE BIBLICA» 3 13


riche». La critica letteraria viene così avvertita come una minaccia per
l'argomento apologetico - «profezie, miracoli e tutto ciò che supera l'or-
dine naturale» - dal momento che essa rischia di veicolare una «vana
filosofia» 44 •
La vera punta apologetica del testo è la questione epistemologica che,
nelle sue ultime pagine, tratta del rapporto tra il senso della Scrittura,
da una parte, e la conoscenza scientifica della natura e la conoscenza
storica dei documenti dell'antichità dall'altra. L'enciclica precisa a que-
sto punto il principio dottrinale dell'inerranza delle Scritture, fondata
sulla loro ispirazione:
Ma non è assolutamente permesso o restringere l'ispirazione soltanto ad alcune
parti della Scrittura, o ammettere che lo stesso autore sacro abbia errato. Infatti
non è ammissibile il metodo di coloro che risolvono queste difficoltà non esitan-
do a concedere che l'ispirazione divina si estenda alle cose riguardanti la fede e i
costumi, e nulla più, stimando erratamente che, trattandosi del vero senso dei
passi scritturali, non tanto sia da ricercare quali cose abbia detto Dio, quanto piut-
tosto il soppesare il motivo per cui le abbia dette 45 •

Il motivo dottrinale che viene invocato nella continuazione del testo


capovolge il movimento dell'argomentazione contenuta nel II capitolo
della Dei Filius. Mentre infatti questo documento rifiuta· di fondare la
canonicità delle Scritture sulla loro approvazione da parte dell'autorità
ecclesiale e sulla loro inerranza, giungendo quindi di conseguenza a fon-
darla direttamente sulla loro ispirazione e su Dio in quanto autore di esse,
l'enciclica invece parte dall'ispirazione dei libri biblici per arrivare alla loro
inerranza:
Infatti tutti i libri e nella loro integrità, che la chiesa riceve come sacri e canonici,
con tutte le loro parti, furono scritti sotto l'ispirazione dello Spirito Santo, ed è
perciò tanto impossibile che la divina ispirazione possa contenere alcun errore,
che essa, per sua natura, non solo esclude anche il minimo errore, ma lo esclude
e rigetta cosl necessariamente, come necessariamente Dio, somma verità, non può
essere nel modo più assoluto autore di alcun errore 46 •

Una volta stabilito questo principio, per risolvere le difficoltà concrete,


il testo non rimanda soltanto alle regole del linguaggio, ma pure alla di-
stinzione tomista tra l'essenza della fede e le opinioni di un'epoca. Provi-
dentissimus s'ispira qui al «prospettivismo» del IV capitolo della Dei Fi-
lius, che suppone l'impossibilità di una reale contraddizione tra i vari

44 Providentissimus, EB, n. 119.


4' Ibid., 124.
46 Ibid.

314 CHRISTOPH THEOBALD


ambiti e addebita quelle che potrebbero sorgere in occasione di qualche
dibattito alla trasgressione dei rispettivi limiti:·
Quantunque sia certamente compito dell'interprete dimostrare che le cose pro-
poste come certe per mezzo di argomenti certi dagli studiosi di scienze naturali
non contraddicono affatto le Scritture, se rettamente spiegate, non deve tutta-
via sfuggire all'interprete questo fatto e cioè, che talora avvenne che alcune cose
date come certe furono poi poste in dubbio e quindi ripudiate. Che, se poi gli
scrittori di scienze naturali, oltrepassati i confini della propria disciplina, inva-
dessero con errate opinioni il campo della filosofia, l'interprete teologo doman-
di ai filosofi di confutarle 47 •

Qui viene fuori l'ultima coerenza dell'insegnamento di Leone XIII, con


il suo riferimento alle «norme di una provata e solida filosofia» 48 , insensi-
bile alla distinzione di Schleiermacher tra «ermeneutica generale» ed «er-
meneutica speciale». Supponendo come acquisita la dottrina biblica di
sempre, la regolazione magisteriale si concentra sulla difesa di una certa
«visione del mondo» legata intimamente alla filosofia tomista e lasciando
una relativa libertà allo stesso esercizio delle tecniche esegetiche.
Si capisce allora il fatto che Leone XIII istituisse nel 1902, con la sua
lettera Apostolica Vigilantiae 49 , una «Commissione biblica» presso la San-
ta Sede, a cui viene dato come obbiettivo quello di tenersi al corrente dei
progressi dell'esegesi, di difendere l'autorità della Scrittura e la sua lettura
ecclesiale e, infine, di esporre il «senso autentico» del testo biblico, che
esige circa il punto in questione il rispetto dell'analogia della fede. Le 14
risposte della Commissione, date tra il 1905 e il 1915, riguardano essen-
zialmente dei problemi al limite tra la ricerca storica, l'autenticità, la sto-
ria dei libri biblici e l'apologetica biblica'0• Forse si può ritrovare qui l'ispi-
razione di Vigouroux che fu, dal 1903 al 1915, uno dei due segretari della
Commissione. Lagrange, chiamato nel 1903 come consultore, nota nei
suoi Souvenirs personnels i vantaggi e le difficoltà di un «tribunale della
fede». Egli scrive: ·
Condividevo l'avversione di M. Loisy verso una scienza amministrativa. [. .. ] I
consultori dovevano dunque dirsi, sin dall'inizio, che si domandava loro soltan-
to di pronunciare in nome dei principi rivelati e della teologia in quale misura
gli esegeti fossero liberi di sollevare e di risolvere le questioni. [ ... ] Il lampo di
genio di Leone XIII mi pareva essere quello di aver posto il principio di compe-

47 Ibid., 122; a questo passo fa seguito un'affermazione che ha fatto scorrere fiumi di inchiostro; sarà
ripresa da Benedetto XV e da Pio XII, Divino of/lante Spiritu: «questo principio, sarà utile applicarlo alle
scienze vicine, specialmente alla storia».
48 Ibid., 114.
49 Cfr. EB, nn. 137-)48.
io Cfr. L. PIROT, Commission biblique, in: DBS, II (1934), pp. 103-113.

VIII - «LA QUESTIONE BIBLICA» 315


tenza. [ ... ]L'estrema varietà delle opinioni rappresentate nella commissione [... ]
è un vantaggio immenso per uil tribunale di fede; in quanto se tanti uomini di
opinioni così diverse dichiarano che la fede è in gioco, nessuno può ragionevol-
mente rifiutare il verdetto di uomini competenti. [ ... ] Dimenticavo soltanto che
precisamente sul punto di sapere ciò che appartiene alla fede, quali limiti siano
imposti alla critica dal dogma dell'ispirazione, la Commissione era divisa in due
gruppi abbastanza uguali 5 1.

2. L'esegesi tra ermeneutica e teologia biblica

Ciò che dividerà gli esegeti cattolici dopo la pubblicazione della Provi-
dentissimus sarà proprio l'argomento apologetico. I «teologi critici» 52
potevano ben credersi oggetto dei rimproveri della Providentissimus e
della Lettera enciclica ai vescovi e al clero di Francia (1899), rivolti a
quanti prendono in proprio gli argomenti degli avversari". Alcuni, come
A. Loisy (1857-1940), rifiutano effettivamente i presupposti biblici della
demonstratio catholica; altri, come M. J. Lagrange (1855-1940) pensano
invece di salvarli. Ma bisogna prendere in considerazione tutte le dimen-
sioni di questa bipartizione che implica anche la frontiera, per il momento
invalicabile, tra una presa in carico della «questione ermeneutica» eredi-
tata dall'Illuminismo (Loisy) e una «teologia biblica» che s'ispira a Pascal
e alla tradizione patristica (Lagrange). La distanza inoltre non fa che raf-
forzarsi all'inizio del xx secolo, nonostante il fatto che una delle sue cau-
se, lo storicismo latente della pratica «liberale» del metodo storico, tenda
a scomparire, specialmente con i lavori di Weiss e di Gunkel che lasciano
le loro tracce nell'esegesi cattolica.

Il dibattito apologetico
Sin dal 1897 A. Loisy contesta la validità dell'argomento apologetico
che si fonda, a suo parere, su un triplice postulato:
In forza del postulato teologico, si ammette che le idee religiose fondamentali,
cominciando dall'idea di Dio, sono state essenzialmente invariabili dall'origine del
mondo fino ad oggi, almeno in una parte scelta dell'umanità. In forza del postu-
lato messianico, si ammette che Gesù e la Chiesa sono stati oggetto di predizione
formale e chiara nell'Antico Testamento, predizioni che sono state confermate e
rinnovate nel Nuovo Testamento in rapporto alla Chiesa. In forza del postulato

51 Le Père Lagrange au service de la Bible. Souvenirs personnels, Cerf, Paris 1967, pp. 128-130.
'2 L'espressione la si trova in L. DE ç;RANDMAISciN, Théologiens scolastiques et théologiens critique, in
«Études», 74 (1898), p. 28.
n LEONE XIII, Depuis le jour (8.9.1899), EE 3, nn. 1442-1449.

316 CHRISTOPH TiffiOBALD


ecclesiastico, si ammette che la Chiesa con i suoi gradi essenziali e la sua gerar-
chia, i suoi dogmi fondamentali e i sacramenti del suo culto, è stati istituita diret·
tamente dal Cristo. Ora questi tre postulati su cui poggia tutto l'edificio delle
credenze e del sistema cattolico, non sono soltanto [. .. ] indimostrabili ma sono
dimostrati falsi dalla storia 54 .

Quest'affermazione tocca direttamente il versante apologetico del «fi-


nalismo biblico», nella misura in cui Loisy concepisce la scienza storica
come assolutamente indifferente in rapporto ad ogni dimostrazione in
materia di fede. Secondo lui, la «crisi apologetica» non è il risultato di
qualche difficoltà di dettaglio ma dall'incapacità da parte dell' «esegesi
che pretende di essere la tradizionale» di accettare lo «spirito scientifi-
co» e la mentalità («il buon senso») che la storia suppone 55 • E così l'au-
tore propone, per uscire dalla crisi, «una possibile trasposizione nella sua
realtà storica di ciascuno dei tre postulati, realtà che era una possente
evoluzione, più intelligente e più soddisfacente, in un certo senso, an-
che per la fede stessa, che non un tessuto di miracoli» 56 • Con ciò collega
la difesa del senso delle Scritture con l'intelligibilità del testo in una vi-
sione del mondo segnata dall'evoluzionismo e sposta il problema apolo-
getico verso la questione dell'interpretazione attuale della Bibbia. Non
è in gioco la regola di fede in quanto tale, almeno secondo Loisy, ma il
diritto degli esegeti e dei teologi di partecipare a questo processo di in-
terpretazione 57 •
Lo stesso Lagrange prende a sua volta posizione nel 1904 a riguardo
dell'argomento apologetico: .
Si obbiettava che l'autorità della Scrittura si fonda sull'autorità della Chiesa e
quella della Chiesa su quella della Scrittura: circolo vizioso. [. .. ] Nelle sue gran-
di linee, ritengo che l'argomento è sempre solido, ed è su questo che penso di
separarmi nettamente da M. Loisy secondo cui la storia è incapace di provare
questi fatti 58 •

Lagrange accetta prima di tutto la tesi di Loisy secondo cui «gli evan-
gelisti non sono degli storiografi ordinari» in quanto essi «suppongono la
fede e desiderano farla nascere». Dimostra in seguito, che nelle sue «gran-
di linee» 59 , il confronto tra i quattro vangeli può ridare un certo credito
agli evangelisti al cospetto dello storico pronto ad accettare che «l'affer-

54 A. LOISY, Mémoires, r,' pp. 448ss.


55 In., Il vangelo e la Chiesa. Intorno a un piccolo libro, Astrolabio, Roma 1975, pp. 226ss.
56 Io., Mémoires, I, p. 449.
57 In., Il vangelo e la Chiesa. Intorno a un piccolo libro, cit., pp. 216ss e 224ss.
58 M. J. LAGRANGE, La méthode historique, Lecoffre, Paris 19042, pp. 245ss.
59 Ibid., 246 e 253.

Vlll · <<LA QUFS'TIONE BIBLICA~ 317


mazione della fede quanto al significato dei [fatti] non cambia le condi-
zioni dell'esame del fenomeno», e che gli evangelisti «non perdono nulla
del loro valore di testimoni per il fatto di essere in parte organi [della
Chiesa]». Questa «doppia formalità» 60 secondo Lagrange nelle sue «gran-
di linee» è sempre valida per gli evangelisti. Nonostante i dati della critica
biblica, si permette così di evitare il circolo vizioso dell'andirivieni «apo-
logetico» tra la Scrittura e la Chiesa.
Se rimane difficile ricostruire una vita di Gesù a partire da ogni evan-
gelista, lo storico ha tutto l'interesse a criticare la sua propria soggettivi-
tà. Al posto di confidare sulle proprie «idee circa l'evoluzione storica»,
è «più oggettivo in questo caso prendere come guida la tradizione eccle-
siastica» 61 • Quest'affermazione rimanda all'aspetto propriamente teolo-
gico o ecclesiale della «doppia formalità» degli scritti biblici. Lagrange
esige dai teologi che essi trovino supporto sulle «grandi linee» della ri-
cerca storica, cosa che necessita da parte loro di una capacità a «stabili-
re una separazione e una distinzione opportune tra la verità dogmatica
contenuta nel testo biblico, tra l'interpretazione di questo testo da parte
della Chiesa, e l'opinione più o meno probabile, l'interpretazione più o
meno autorizzata e accettabile di questo testo, esposta e difesa da que-
sto e quell'esegeta» 62 •
Contrariamente a Loisy, Lagrange conserva il concetto classico della
«doppia formalità» come pure la differenza tra l'argomento apologetico
e l'interpretazione del testo biblico che esso implica. Quando Lagrange
distingue tra la verità dogmatica di questo testo e l'opinione di qualche
esegeta, egli difende senza dubbio la competenza interpretativa del bi-
blista. Ma mettendo sullo stesso piano il senso autentico della Scrittura
e il senso più o meno autorizzato degli esegeti, distinguendoli tra loro
solo per il loro grado di certezza o di oggettività, l'autore non si permet-
te di intendere la questione ermeneutica così come viene posta da Loisy.

Teologia biblica e questione ermeneutica


L'oscurità della Scrittura non solo richiama al ricorso della «guida»
ecclesiale 6\ ma suscita pure, secondo la Providentissimus, un'interpreta-
zione dogmatica o spirituale del «finalismo biblico». Lagrange, nel 1897,
utilizza ancora il vocabolario del «senso figurativo» per dare ragione di

60 Ibid., pp. 252-254 e 245.


61 Ibid., p. 251.
62 RB, 1 (1B92), p. 15.
6J RB, 9 (1900), pp . .135-142.

318 CHRISTOPH THEOBALD


ciò che definisce «un modo di scrivere che non era fatto per quadrare esat-
tamente e che perseguiva un altro oggetto» 64 :
Davanti a Dio tutto è presente: ogni affermazione divina è essenzialmente vera
sia che riguardi il passato che il futuro. Ogni profezia ispirata è quindi pure ver~
come ogni storia ispirata; ma chi va a cercare una realtà storica nelle profezie di
Ezechiele circa la restaurazione di Israele? Alla lettera non si è realizzato nulla,
tutto si è realizzato secondo lo spirito. Era: come uno schizzo del regno di Dio.
Perché non immaginare che un contemporaneo, contando d'altronde su dei fatti
autentici, abbia conferito alla storia antica questa regolarità che la rendeva adatta
a diventare la figura del futuro 65 ?

Spinto dal rischio del circolo vizioso di un argomento profetico che non
poteva essere ricevuto che da colui che già crede nel compimento delle
Scritture, Lagrange più tardi abbandona il senso figurativo a vantaggio di
ciò che chiama il «senso religioso» del testo. «Secondo noi questo senso
che prova è in realtà il senso letterale, ma il senso letterale considerato
sotto il suo aspetto religioso» 66 • Questo passo costituisce, nella teoria dei
sensi della Scrittura, una svolta di cui si troveranno delle tracce perfino
nell'enciclica Divino a/flante (1943).
Partendo dal comparatismo della scienza delle religioni e dall'interesse
per la lettera della Scrittura e i suoi generi letterari, Lagrange stabilisce
prima di tutto l'unicità religiosa del profetismo biblico. La sua critica sto-
rica del circolo vizioso dell'argomento profetico lo porta in seguito a sfu-
mare l'aspetto della predizione nell'insieme del «finalismo biblico» a van-
taggio di una struttura religiosa, che collega la «condiscendenza» di Dio e
il «desiderio» dell'uomo in una medesima «oscurità». Dalla parte di Dio,
si situa la promessa di una salvezza religiosa e l'introduzione di una spe-
ranza nel «corso naturale delle cose che egli non ha voluto turbare tutto
ordinandolo ad un fine più alto» 67 • Dalla parte dell'uomo, si trova la scel-
ta fondan;ientale tra la «cupidigia» e la «carità», suscitata da un «fine ulti-
mo» nascosto nella contingenza degli avvenimenti:
In materia religiosa, niente è chiaro per coloro che hanno un certo desiderio di tro-
vare Dio. [ ... ] Bisogna avere, per giudicare in questa materia, un certo sentimento di
ciò che Dio è per noi e di ciò che noi dobbiamo essere verso di Lui; bisogna pene-
trare in qualche modo nei suoi pensieri o almeno augurarsi di conoscerli in modo
da ispirare ad essi la propria vita. Senza un certo sentimento religioso [... ], è inutile
accostarsi all'esegesi delle profezie; non vi si troverà nessuna luce 68 .

64 Le Père Lagrange au service de la Bible.. ., cit., p. 56.


65 M.J. LAGRANGE, Les sources du Pentateuque, RB, 7 (1898), p. 31.
66 Io., Pascal et !es prophéties messianiques, RB, 3 (1906), pp. 541ss. e 549ss.
67 Ibid., pp. 556ss.
6S Jbid., p. 559.

VIII - «LA QUESTIONE BIBLICA» 319


L'oscurità della lettera serve quindi a proteggere il «finalismo biblico»
da un provvidenzialismo ingenuo che non rispetterebbe la contingenza
storica di ogni profezia, e contro l'impressione di un inganno divino che
consisterebbe nel sovraeccitare l'attesa temporale nell'Antico Testamento
per smentirla poi nel Nuovo. L'oscurità apre quindi uno spazio per il
desiderio dell'uomo e per la sua ricerca del senso divino.
Si capisce allora come Lagrange ritenga, al pari di Pascal, che le profe-
zie compiute siano «un miracolo sussistente». «Esse conservano per noi
tutta la loro forza» 69 • Fondata su una struttura antropologica che reinter-
preta il «finalismo», la teologia biblica può sottovalutare una certa distan-
za storica tra la Scrittura e il suo lettore attuale e contentarsi, per quanto
riguarda il fondamento storico dell'argomento profetico, di una ripresa
delle «grandi linee» della ricerca.
A. Loisy pratica allo stesso modo il comparatismo del metodo storico
ma giunge ad un risultato teologico sensibilmente diverso. Se Loisy insiste
tanto sulla continuità tra il messianismo ebraico e l'annuncio del Regno
fatto da Gesù 70 , è per garantire l'intelligibilità del Vangelo nel contesto
delle sue origini:
Se [Gesù] non avesse parlato del Regno, e se avesse parlato dell'unione con Dio,
con le parole mistiche del quarto Vangelo, [ ... ] ma si fosse rivolto ai suoi uditori
come il Verbo incarnato, nessuno l'avrebbe capito 71 .

Una medesima continuità, costatata nel passaggio dall'Antico verso il


Nuovo Testamento, si ritroverà tra le Scritture e la loro interpretazione
ecclesiale:
Non si notano fratture fra l'evento e la sua interpretazione, la quale non è una fin-
zione estranea all'evento. Reciprocamente, l'evento evangelico ben compreso non è
contro l'interpretazione teologica presa nella sua realtà e non la demolisce 72 •

Si trova, tra la Scrittura situata storicamente e le diverse figure della


sua interpretazione, un rapporto di tipo strutturale che è constatabile da
parte dello storico:
Le forme particolari e mutevoli di questo sviluppo, in quanto mutevoli, non sono
l'essenza del cristianesimo, ma esse si susseguono, per così dire, in un quadro le
proporzioni generali del quale, per essere variabili, non smettono tuttavia d'essere
equilibrate, in maniera che se cambia la figura il suo tipi non varia, né la legge che
governa la sua evoluzione 73 •

69 lbid., p. 553.
10 A. Lo1sv, Il vangelo e fa Chiesa. Intorno a un piccolo /zbro, cit., p. 92.
71 lbtd., p. 259.
72 lbid., pp. 260ss.
73 lbid., p. 77.

320 CHRISfOPH THEOBALD


Loisy propone così un approccio strutturale del «finalismo biblico» che
si fonda come quello di Lagrange, su una certa regolarità nella lettera stes-
sa dei testi. Egli si serve ugualmente del paradigma della «Condiscenden-
za divina» per dimostrare che il concatenamento storico non si oppone
alla presenza di Dio come se si potessero «tracciare nella Scrittura [ ... ]
divisioni tra l'assoluto e il relativo» 74 • Ma sotto uno stesso vocabolario si
nasconde una differenza importante. Una pratica del comparatismo, più
sensibile alle differenze, porta Lagrange ad un apprezzamento più sfuma-
to della «comunicazione»:
Non una parola [in Loisy] delle considerevoli differenze che tanto facilmente
si potrebbero rilevare tra l'ideale di Ezechiele e quello del secondo Isaia, tra
Geremia e Daniele, non una parola sulle speranze popolari di un regno so-
prattutto temporale che avrebbero potuto creare un profondo malinteso tra
Gesù e i suoi uditori 75 .

È la dottrina dell' «oscurità religiosa» della lettera biblica che è in que-


stione in tale nota circa il malinteso. Loisy conosce bene ciò che egli chia-
ma la «relatività metafisica» delle rappresentazioni; ma il suo interesse
principale riguarda la «relatività storica» che suscita un «lavoro incessan-
te dell'intelligenza credente per appropriarsi di questa rappresentazione
difettosa e adattarla alle nuove condizioni del pensiero umano» 76 •
A questo punto per Loisy si pone la questione ermeneutica che si può
capire anche senza sottoscrivere la sua modalità di applicazione pratica.
Tale questione viene posta da Loisy negli ambiti più sensibili dell'inter-
pretazione delle Scritture:
Quanto venne accertato è accertàto. Il Cristo per la fede è Dio. Ma oggi il mondo
ci domanda di spiegare Dio e il Cristo, perché le nostre definizioni in parte usano
un linguaggio diverso dal comune. È necessaria una traduzione 77 •

Resta possibile il fatto che il malinteso principale tra Lagrange e Loisy


venga dall'idea di «trasformazione». Mentre il primo vi scorge un'altera-
zione dell'essenza del cristianesimo, il secondo mette nel modello della
traduzione tutta la sua sensibilità per le differenze culturali.

Il superamento del paradigma liberale


Alla fine dell'ultimo secolo, l'esegesi biblica comincia a darsi i mezzi
per superare lo storicismo soggiacente al trattamento «liberale» del sen-
so delle Scritture. Lagrange pone il problema del «malinteso» nella co-

74 lbid., p. 263.
75 RB, 12 (1903), pp. 306 e 309.
76 A. LorSY, Il vangelo. e la Chiesa. Intorno a un piccolo libro, cit., p. 282.
77 lbid., p. 268.

VIII - «LA QUESTIONE BIBLICA» 321


municazione; la suà concezione del dogma e dell'opinione esegetica sem-
brano impedirgli la comprensione della questione ermeneutica. Loisy,
da parte sua, formula invece l'esigenza ermeneutica della traduzione e
della comprensione; ma il suo latente evoluzionismo e la sua difficoltà a
reperire la funzione del malz'nteso gli impediscono l'accesso ad una vera
ermeneutica biblica. A dispetto di queste difficoltà, che provengono in
gran parte da una carenza filosofica, la pratica esegetica sui due Testa-
menti realizza qualche maggiore spostamento proprio in rapporto al
paradigma liberale. Ma sarà necessario del tempo prima che queste ini-
ziative che si danno in ordine sparso conducano verso un nuovo equili-
brio della teoria dei sensi.
Per l'Antico Testamento, H. Gunkel (1862-1932) mette irì atto una vera
rottura, sia dal punto di vista del metodo che da quello del mito o della
leggenda e del profetismo. Gunkel fa parte, assieme ad altri studiosi (A.
Eichqorn, W. Wrede, W. Bousset, E. Troeltsch), della scuola di storia
delle religioni formatasi a partire dal 1870 a Gottingen. Ma la vera sfida
metodologica della sua ricerca vetero-testamentaria è quella del supera-
mento della critica letteraria in favore del progetto di una storia della let-
teratura biblica. Il collegamento ormai divent.ato. tradizionale tra la deco-
struzione letteraria dei libri biblici nella loro forma attuale (manuali di
introduzione) e la ricostruzione di un~ storia di Israele (manuali di storia
biblica) viene ormai sentita come troppo immediata e irrispettosa del te-
sto nella sua densità letteraria ed estetica; insoddisfazione che porta
Gunkel a ciò che egli chiama una storia dei generi letterari e delle forme
della vita religiosa.
Quando Loisy s'interessa, nel suo commentario al Quarto Vangelo
(1903), alla «natura stessa del libro biblico», quando Lagrange si interessa
invece ai «modi di scrivere» reperibili nell'Antico Testamento, essi opera-
no una passaggio analogo. Ma è merito di Gunkel averne spiegata l'im-
portanza 78 • Il punto essenziale del suo percorso è il rispetto della distanza
tra il testo e il col)testo storico, diventato non solo più ampio ma soprat-
tutto più complesso. Certo, il comparatismo è più che mai all'ordine del
giorno; ma la confusione tra il comparare e la spiegazione genetica scom-
pare, almeno parzialmente, a vantaggio di una nuova distinzione fra la
sincronia testuale di questa o quella forma letteraria, perfettamente com-
piute, e la sua tradizione. Il principale frutto di questo spostamento verso
un'analisi del genere letterario e la valutazione della situazione a cui cor-
risponde (Sitz im Leben) risulta essere una nuova intelligenza del fenome-

78 H. GUNKEL, Die Grundprobleme der israelitischen Literaturgeschichte (1906), in: Reden und Aufsiit-
ze, Vandenhoeck & Ruprecht, Gottingen 1913, pp. 29-38.

3 22 CHRISTOPH THEOBALD
no della tradizione orale e scritta, ampiamente occultata se non persino
discreditata dall'individualismo del paradigma liberale.
Il primo campo di applicazione della storia dei generi e delle tradizioni
religiose è il celebre commento alla Genesi (1901 e 1910). Gunkel parte
dall'ipotesi che <<la Genesi sia una collezione di leggende (Sage)» per arri-
vare poi ad esibire una classificazione precisa dei «diversi tipi di leggen-
de» 79 • Teniamo in considerazione la demarcazione precisa che viene fatta
tra storia, leggenda e mito. Sapere poi se la Genesi appartiene alla storia o
alla leggenda, «per lo storico moderno non è più un problema», per il
fatto che la stesura scritta della storia è apparsa ad uno stadio preciso e
relativamente tardivo della civilizzazione umana. I miti vengono definiti
come «storia degli dei, in opposizione alle leggende nelle quali gli attori
sono degli uomini. [. .. ] La linea fondamentale della religione di Y ahvé non
è certo favorevole ai miti, per il fatto che questa religione sin dagli inizi
tende al monoteismo» 80 • Lagrange dal canto suo riconosce che <<l'opera di
Gunkel fa entrare in una nuova fase la critica letteraria della Genesi». Ma
la riserva critica che gli è propria riguarda il fatto che <<il problema impor-
tante è forse meno quello di sapere se la Genesi appartiene al genere let-
terario delle leggende quanto più di sapere .se si tratta di una leggenda
storica o meno»B 1, mostrando così di ritrarsi di fronte alle conseguenze
della scelta metodologica propria di Gunkel. La sua conferenza di Tolosa
(1902) sulla Storia primitivaB2 rivela le medesime esitazioni.
Un altro campo di applicazione della storia delle tradizioni si trova
nell'introduzione di Gunkel al commentario di H. Schmidt sui profeti
maggiori (1914). L'analisi dei diversi generi profetici permette di situare
questi personaggi, che erano al centro dell'approccio liberale, in un con-
testo più ampio come pure di concentrare il principale interesse dell'ese-
gesi sulla loro parola. Gunkel, chè aveva cominciato la sua ricerca biblica
con un lavoro su L'influsso dello Spirito Santo secondo la concezione popo-
lare dell'epoca apostolica e secondo l'insegnamento di Paolo (1888), non ha
mai smesso di dimostrarsi molto interessato ai punti di passaggio tra i due
Testamenti. È su questo punto che ritorna, nonostante i suoi presupposti
metodologici, al paradigma liberale. Lo studioso condivide con Wellhau-
sen l'idea di uno stacco decisivo tra i profeti, che «sono delle potenti per-
sonalità, profondamente individuali e radicate nel loro tempo, e capaci di
parlare ai loro contemporanei a partire da ciò che appartiene loro» e gli
apocalittici, che «ignorano la grande originalità dei profeti e non osano

79 Io., Genesis, Vandenhoeck & Ruprecht, Gi:ittingen 1910', pp. VII.XIII e XIII-XXVI.
BO Jbid., pp. VII e XIV.
BI RB, 10 (1901), pp. 619 e 617c
B2 M.J. LAGRANGE, La méthode historique, cit., pp. 208-220.

Vlll - «LA QUESTIONE BlBLlCA» 323


neppure dire il loro proprio nome». Il suo deprezzamento dell'apocalitti-
ca, motivato dalla storia delle tradizioni religiose, è sostenuto da un giudi-
zio secondo cui «il giudaismo postesilico è sempre più sottomesso ad al-
cune religioni straniere» 83 •
Un nuovo apprezzamento dell'apocalittica ed una valutazione della
sua presenza nell'itinerario del «Gesù storico» hanno, tuttavia, come
conseguenza un passaggio proprio al limite del paradigma liberale del
senso, che si manifesta in due opere maggiori: La predicazione di Gesù
sul Regno di Dio (1892) di J. Weiss e la Storia delle ricerche sulla vita di
Gesù (1906, 191}2) di A. Schweitzer. Il dibattito sulle vite di Gesù della
teologia liberale fa vedere quanto la ricerca esegetica sia stata tentata di
cancellare il carattere «estraneo» dell'idea di Regno accomodandolo alle
evoluzioni immanenti della storia. Weiss e Schweitzer presentano Gesù
come un apocalittico che annuncia la venuta imminente di un Regno so-
pramondano, rappresentazione drammatica che mette singolarmente in
crisi la visione liberale del mondo.
Loisy e Lagrange si sono separati sulla questione che tocca da vicino il
cuore stesso della Scrittura: la coscienza messianica o divina del Cristo.
Mentre Loisy adotta a partire dal 1896 l' «escatologia conseguente» di
Weiss, sottolineando comunque l'unicità della figura di Gesù e la legitti-
mità dello sviluppo cristologico, Lagrange abbozza a partire dal 1904 una
ricerca sul messianismo biblico e il messianismo di Gesù:
Rimane da sapere se l'idea del Messia fosse tanto ristretta quanto ora si vorrebbe
che fosse e se Gesù stesso non avesse coscienza che la sua missione e la sua per-
sona oltrepassassero l'attesa generale del suo tempo 84 •

Il biblista di Gerusalemme vuole superare la teoria dell' «escatologia


conseguente» al fine di salvaguardare, con Wellhausen e Harnack, la
presenza nascosta del Regno, che non si ridurrebbe così ad un prossimo
avvento sulle nubi del cielo, e la coscienza filiale del Figfio confessata in
Mt 11, 27 85 •
Il superamento del paradigma liberale si avvia quindi verso quelle tra-
sformazioni metodologiche che si congiungono con un'attenzione del tut-
to nuova sull'apocalittica e sulla visione drammatica che questa ha del
mondo. Essa si manifestava già, in modo più estrinseco ma da molto tem-
po, nell'apologetica biblica del cattolicesimo integrale. Ora essa riemerge
nell'approccio esegetico della Bibbia sentita tutto d'un tratto come estra-

83 H. GuNKEL, Schopfung und Chaor in Urzeit und Endzei, Vandenhoeck & Ruprechr, 1895,
pp. 210 e 292.
84 M.J. LAGRANGE, La métbode hirtorique, cit., p. 259.
85 Ibid., p. 259 e 242-245; RB, 12 (1903), pp. 307 e 305ss.

324 CHRISTOPH THEOBALD


nea alla società moderna. Nei due casi questa presa di coscienza esige una
revisione ulteriore della teoria dei sensi della Scrittura che fa fatica ad
integrare la comprensione di ciò che le è estraneo.

III. IL MAGISTERO ROMANO


NELLA PRIMA METÀ DEL XX SECOLO

Indicazioni bibliografiche: BENEDETTO XV, Enciclica Spiritus Paraclitus (15.9.1920) in oc-


casione del XV centenario della morte di san Girolamo, EB nn. 440-495; Pro XII, Enciclica
Divino afflante Spiritu (30.09.1943) sugli studi biblici, EB nn. 538-569.

1. La dotttina biblica della Spiritus Paraclitus


La prima guerra mondiale (1914-1918), l'entrata degli Stati Uniti nel
conflitto e la rivoluzione russa ebbero come conseguenza una vera frattu-
ra nella coscienza europea, registrata da E. Troeltsch nel 1922 nella sua
celebre opera sullo Storicismo e i suoi problemi 86 • Nessun dubbio sul fatto
che allo stesso tempo si arrivi ad una cesura nella lettura della Bibbia, che
certuni datano proprio con la prima edizione della Lettera ai Romani di
K. Barth nel 1919 e che, invece, altri situano già alla fine del secolo prece-
dente. Dal punto di vista cattolico, si va ormai facendo un grande sforzo
per colmare il ritardo accumulato in materia di ricerca biblica. La Chiesa
aveva fondato, it1. Francia, a Gerusalemme (1890) e a Roma (1909), sue
proprie istituzioni per formare dei professori e dei ricercatori, come pure
per difendere il «finalismo biblico» e le sue proprie prerogative nell'inter-
pretazione delle Scritture. La fine delle risposte della Commissione bibli-
ca all'inizio del pontificato di Benedetto XV non significa comunque an-
cora la fine delle «Ostilità» tra ricerca storica e apologetica biblica. Ma
ormai, il magistero cercherà di reintegrare la sua dottrina sulla Scrittura
in una pratica della lettura biblica che include e supera allo stesso tempo la
spiegazione storica del testo e che si impegna in una sorta di trasformazio-
ne dei soggetti lettori.
Questo tipo di orientamento ancora esitante caratterizza l'enciclica
Spiritus Paraclitus di Benedetto XV, pubblicata in occasione del 15° cen-
tenario della morte çli san Girolamo (1920) e considerata come la seconda
enciclica biblica. Vi si legge prima di tutto, dopo un rapido schizzo della

86 E. TROELTSCH, Der Historismus und seine Probleme (1922), Gesammelte Scri/ten, III, Aalen Scientia
Verlag, 1977.

Vlll · «LA QUESTIONE BIBLICA» 325


vita e dell'opera di Girolamo, che viene presentato come un maestro, un
lungo sviluppo apologetico sull'eccellenza e la verità della Scrittura, che
sviluppa gli insegnamenti corrispondenti di Leone XIII. Una nuova istan-
za viene evidenziata circa la particolarità umana di ogni autore e dei suoi
scritti (ordine del materiale, vocabolario, qualità e forma dello stile) all'in-
terno comunque di un'ispirazione divina comune a tutti 87 • Il testo con-
danna quanti, a partire dalla Providentissimus, arrivano a dire «che le parti
storiche delle Scritture si appoggiano non sulla verità assoluta dei fatti,
ma soltanto sulla loro verità relativa, come essi la chiamano, e sul modo
volgarmente comune di pensare» 88 .
La seconda parte riguarda le attitudini spirituali dei soggetti che si ac-
costano alla Scrittura e le pratiche differenti attorno al testo biblico: lettu-
ra spirituale, studio esegetico e ministero della Parola. L'ultima parte in-
fine propone un'articolazione molto fine di queste tre pratiche e dei sensi
della Scrittura 89 •
L'esposizione comincia con le regole che concernono il senso della
Scrittura e riguardano prima di tutto lo studio esegetico del testo. Bene-
detto XV esprime qui la riserva, già formulata nella Provz'dentz'ssimus, cir-
ca le «interpretazioni allegoriche» alle quali Girolamo «ha subito sacrifi-
cato più del dovuto» 90 , per introdurre al «senso pieno» (sensus plenus) a
partire dalla base solida del senso letterale o storico. Acquisita questa
prima riserva, tutta la parte finale dell'enciclica si concentra sul senso
spirituale della Scrittura, in collegamento alla predicazione 91 e ai «frutti»
della lettura quotidiana del testo. Vi si trova pure una presentazione del-
l'itinerario spirituale del lettore, orientato dai sensi del testo biblico: invi-
to ad una certa discrezione «affinché il desiderio della ricchezza del senso
spirituale non sembri farci disprezzare la povertà del senso storico» con il
riferimento all' «esempio di Cristo e degli apostoli» nel modo di usare la
figura (signi/icatio typica) 92 e di esporre le tappe del compimento delle
Scritture nel soggetto spirituale, la Chiesa e la loro intima unione a Cristo.
Uno studio attento di queste pagine fa vedere il cambiamento soprag-
giunto in rapporto alla Providentissimus. Senza abbandonare la regolazio-
ne dogmatica e il riferimento apologetico, il testo delinea nuovamente il
movimento pneumatologico del «finalismo biblico», insistendo sull'itine-

87 BENEDE.ITO XV, Spiritus paraclitus (15.9.1920), EB, nn. 440-458.


88 Ibid., 455ss.; questa interpretazione dell'enigmatica affermazfone di Leone XIII si oppone proba-
bilmente ad una vecchia posizione di Lagrange (cfr. Le Père Lagrange au service de la Bible, cit., pp. 96ss.).
89 Spiritus paraclitus, EB. nn. 463ss.
90 Ibid.
91 Ibid., 484-486.
92 Ibid., 486.

326 CHRISTOPH THEOBALD


rario dei soggetti, reso possibile da qualche pratica comprovata 93 • In que-
sto senso la Spiritus Paraclitus contiene già in germe la struttura della Dei
Verbum del concilio Vaticano II.
La fine dell'enciclica, che fa riferimento in un clima apocalittico(!) alle
«nazioni cristiane che hanno avuto la sventura di staccarsi dalla chiesa»
come pure al flagello che minaccia «di distruggere tutte le istituzioni
umane» 94 , permette di situare la questione fondamentale di un'epoca di
ricerca biblica che abbraccia una larga parte del XIX secolo e della prima
metà del xx. Dopo essere stato nel corso dei secoli il Libro della cristiani-
tà, divisa in seguito in diverse confessioni, la Bibbia subisce, a partire dal
xx secolo, il contraccolpo dei cambiamenti sopravvenuti nelle società eu-
ropee. Ormai la Bibbia si pone tra la Chiesa e la società civile: mentre la
prima vi scorge un bene affidatole da Dio, la seconda gliela sottrae per
farne un «classico» tra gli altri. Questo dibattito, all'inizio molto violento,
si orienta, a partire dal 1920, verso un nuovo equilibrio.

2. L'emergenza del testo


e la sua interpretazione teologica

Più elementi caratterizzano il periodo che si apre dopo la prima guerra


mondiale. Sul piano metodologico si assiste a partire dalla fine del secolo
precedente a ciò che si può definire come l' «emergenza del testo» e una
svolta verso le analisi propriamente «intra-testuali».

La complessità del senso letterale


Nella linea dell'ermeneutica di Schleiermacher, prima di tutto si colle-
ga il senso letterale all' «intenzione dell'autore» che, già nella Spiritus Pa-
raclitus, comincia a prendere tutto il suo spazio all'interno di un sistema
dottrinale in cui Dio stesso viene considerato come autore principale del-
le Scritture. Ma ciò che, soprattutto, cambia l'accesso al senso, è l'analisi
delle procedure di stesura, delle forme e dei generi letterari, che relativiz-
za in modo considerevole il ruolo degli individui a vantaggio di insiemi
più ampi che-determinano anche il senso del testo. L'esegesi biblica segue
infatti l'evoluzione delle scienze umane, delle ricerche letterarie e della
linguistica, molto p.resto animate da un interesse sociologico e dall'analisi

9J Si trova qui per la prima volta l'augurio che i Vangeli e gli Atti degli apostoli siano letti «quotidia-
namente e intensamente» ([bid., 477).
94 Ibid, 494.

VIII · «LA QUESTIONE BIBLICA» 327


di situazioni istituzionali (Sitz im Leben), oppure da una prospettiva psi-
cologica nell'approccio dello stile di questo e quell'autore. Il testo diventa
allora la scena su cui l'esegeta mette in luce un lavoro infinitamente com-
plesso, compiuto non solo da individui, ma pure da gruppi o da comuni-
tà, all'interno di certe «visioni del mondo» (come l'apocalittica, la gnosi,
lo stoicismo) di cui si cominciano a percepire i contorni storici e le com-
binazioni.
La critica letteraria, unificata a livello ideologico nel xrx secolo, ormai
si differenzia in varie scuole: la storia delle forme (Formgeschichte), la sto-
ria delle tradizioni e delle istituzioni (Tradz'tionsgeschischte), la storia della
redazione (Redaktionsgeschichte), ecc., tanto da fare entrare l'insieme del-
la disciplina esegetica in una sorta di esitazione a riguardo di alcuni aspet-
ti significativi.
Questo procedimento di «complessificazione» dei metodi pone subito
il problema di un'articolazione corretta tra le prospettive intra-inter- ed
extra-testuali per stabilire il senso. La combinazione degli approcci intra-
e inter-testuali risulta fondamentale quando si tratta di affrontare questio-
ni dottrinali collegate al «finalismo biblico», tipo i rapporti controversi
tra i due Testamenti. L'affinamento analitico delle ricerche poi non faci-
lita l'enucleazione di qualche regola elementare per giungere ad una vera
teologia biblica. D'altronde, il rapporto del testo o dei testi con la storia
(extra-testuale) è diventata disperatamente complesso.
Una seconda esitazione riguarda precisamente la presenza della storia
nel testo. Spiritus Paraclitus polemizzava contro quanti negano «che le
parti storiche delle Scritture si fondano sulla verità assoluta dei fatti». Lo
storicismo del XIX secolo riteneva di poter ricostruire «dietro e contro» il
testo biblico, considerato come un trompe-l'oeil, la vera versione dei fatti.
Ormai l'esegesi distingue più chiaramente tra la «sincronia» del sistema
testuale, che propone a partire da una prospettiva credente la sua visione
della storia, e l'accesso più problematico alla «diacronia storica».
Queste distinzioni epistemologiche rivelano anche una terza esitazio-
ne, questa volta di ordine filosofico, che riguarda l'ideale di trasparenza
intellettuale, eredità dell'illuminismo. Questo ideale domina l'esegesi det-
ta scientifica del XIX secolo ma qon può più essere ratificata dalle scienze
umane sempre più sensibili all'impossibilità di ridurre il senso del testo
all'intenzione del suo autore. Tutto avviene come se l'esegesi si aprisse
passo passo una nuova strada verso l'oscurità o la non-trasparenza del
testo biblico, lavoro già affrontato dai Padri della Chiesa.
Il rapporto tra l'edificio dottrinale della Chiesa e le Scritture sarà toc-
cato profondamente da queste evoluzioni. Da molto tempo, la dimostra-
zione dei dogmi si era abituata al fatto che la ricerca storica contesti le

328 CHRISTOPH THEOBALD


autorità bibliche. Ma il periodo che si apre porta ad una contestazione
più radicale della lettura dottrinale delle Scritture, nella misura in cui l'ese-
gesi ormai critica di meno questo o quel dogma quanto l'ideale di traspa-
renza che domina, a partire dal XIX secolo, la «dogmatica» come tale.

Dal senso letterale al senso pieno o al senso spirituale


Nel corso della prima metà di questo secolo, l'esegesi esplora infatti
dei cammini assai diversi per onorare, a partire dall'umanità delle Scrittu-
re, la fede in base alla quale Dio è il loro autore. Questo problema dottri-
nale si pone soprattutto al cuore del «finalismo biblico», quando si tratta
di pesare, davanti al/oro della storia, il valore dell'argomento profetico. Si
possono distinguere in proposito quattro diverse posizioni.
La stragrande maggioranza degli esegeti e dei teologi biblisti protestan-
ti (W. Eichrodt, O. Proschk, L. Koehler, A. Schlatter e Th. Zahn) pro-
pongono una visione oggettiva, se non oggettivante, della storia biblica,
costruita a partire da qualche concetto chiave come quello di alleanza
(Eichrodt). In questo quadro, i rapporti tra Antico e Nuovo Testamento
spesso vengono pensati in termini di «tipologia» 9'. Dal punto di vista cat-
tolico la difesa della dottrina biblica conserva tutta la sua importanza 96 •
L'oggettivismo che soggiace all'argomentazione apologetica e che vuole
evitare il circolo vizioso del «finalismo biblico», fondando quest'ultimo
sul senso letterale o storico, si ritrova anche nella teoria del senso pieno.
L'espressione <<Sensus plenior» probabilmente fu lanciata da A. Fernandez
nel 1927 97 • Ma la realtà di quest'espressione è precedente. Così scrive Grelot:
Il senso pieno non è eterogeneo al senso letterale. Inoltre a parlare in modo ap-
propriato non è neppure un altro senso. È lo stesso senso letterale colto ad un
secondo grado di profondità. [ ... ] L'espressione del mistero della salvezza nei te-
sti dell'Antico Testamento si trova limitata in diversi modi. Ora proprio sotto
quest'espressione imperfetta il teologo ritrova il mistero nella sua integralità. O
piuttosto, conoscendo il mistero attraverso il Nuovo Testamento, il teologo lo
proietta sui testi scoprendo così un senso «più pieno e più profondo» in formule
di cui la critica gli ha fatto conoscere i limiti. Quando san TomlJlasO parla del
sensus litteralis della Scrittura vi integra infatti questa pienezza del senso [ .. .] 98 •

9' Cfr. H.J. KRAus, Die biblische Theologie. Ihre Geschichte und Problematik, Neukirche!ll'r Verlag.
Neukirchen-Vluyn 1970. .
96 Cfr. P. M. BEAUDE, L'accomplissement des Écritures. Pour une histoire critique des systèmes de repré·
sentation du sens chrétien, Cerf, Paris 1980, pp. 81-194; Io., Sens de l'Écriture de Divino Afflante Spiritu
à nosjours, DBS, XII (1993), pp. 514-536.
97 A. FERNANDEZ, Insitutiones biblicae, Roma 19272, p. 306; cfr. P.M. BEAUDE, art. cit., pp. 523ss.
98 P. GRELOT, Sens chrétien de l'Ancien Testament. Esquisse d'un traité dogmatique, Desclée, Paris
Tournai 1962, p. 450.

Vlll · «LA QUESTIONE BIBLICA» 329


Supponendo ciò che si è già detto circa il legame tra senso letterale e
intenzione dell'autore, i sostenitori di questa teoria fondano il carattere
oggettivo del «senso pieno» sulla coscienza più o meno esplicita dei pro-
feti e degli scrittori per quanto riguarda ciò che li impegna circa il futuro;
posizione sempre meno sostenibile, dal momento che la categoria dell'in-
tenzionalità è relativizzata dal fatto di stabilire il senso.
L'esegesi protestante sarà durevolmente segnata dalla reazione anti-li-
berale di K. Barth - dopo il 1919 - e dal suo dibattito con R. Bultmann
negli anni venti. Per questi teologi, appunto, stabilire il senso passa attra-
verso una nuova comprensione del «circolo ermeneutico», nella linea di
Schleiermacher o, al contrario, opponendosi ad essa. In margine alla mag-
gioranza dei biblisti del tempo, Bultmann e Barth introducono il senso
del testo nel circolo della comprensione e prendono le difese - contro il
metodo storico-critico (Barth) o assegnando a questo metodo uno spazio
limitato (Bultmann) - del carattere inoggettivabile della Parola di Dio e
del soggetto credente. Pertanto non bisogna affatto minimizzare le loro
divergenze in cui si ritrova il punto di separazione tra una «dogmatica
biblica ed ecclesiale», da una parte, che lascia alla Parola un'iniziativa
assoluta 99 , e un' «ermeneutica biblica», dall'altra parte, messa a punto da
Heidegger partendo dalla differenza tra l'esistenza credente e la storia 100•
Questo grande dibattito ai limiti dell'esegesi, della filosofia e della teolo-
gia, ancora marginale all'epoca, preannuncia delle ulteriori prese di co-
scienza nella teologia protestante e, più tardi, in quella cattolica. Ci vorrà
del tempo perché l'esegesi biblica scopra che lo statuto empirico-trascen-
dentale in rapporto alla Scrittura - il «circolo ermeneutico» - è sempre
minacciato da una dissoluzione empirista e storicista o dalla fredda tra-
sformazione in un circolo apologetico, ed accetti alfine ciò che P. Ricoeur
chiamerà il «conflitto delle interpretazioni».
Nell'esegesi cattolica della prima metà di questo secolo esiste la stessa
distanza tra alcuni rimasugli del positivismo critico e un ripiegamento
sull'apologetica biblica. Ma questo periodo è pure segnato da una lenta
riscoperta della teoria del «sensi spirituali» già noti all'antichità. Si posso-
no quindi reperire su questo terreno dimenticato, ma comunque già ela-
borato dalla Spiritus Paraclitus, le prime manifestazioni di un rinnovato
interesse della teologia per la relazione tra il lettore e il testo, concepito
come un itinerario di trasformazione che non si lascia affatto ridurre al-
1' approccio tecnico della lettera biblica.

99 Cfr. K. BARTH, Dar Wort und die Theologie. Gesammelte Vortriige, Kaiser, Miinchen 1924, p. 28:
«La Bibbia non contiene i giusti pensieri dell'uomo su Dio ma i pensieri giusti di Dio sull'uomo».
100 R. BULTMANN, Credere e comprendere, Queriniana, Brescia 19862. p. 11: «La scienza storica non
può assolutamente recare un qualsiasi frutto che possa servire da base alla fede, poiché tutti i suoi risultati
hanno un valore soltanto relativm>.

330 CHRISTOPH THEOBALD


3. La dottrina biblica della Divino ajflante Spiritu

Paradossalmente saranno proprio gli attacchi dell'esegesi detta «spiri-


tuale» contro la ricerca storica, diventata ormai maggioritaria nell'esegesi
cattolica, a suscitare la reazione del magistero cattolico. Nel 1941, una
lettera della Commissione biblica prende le difese dello «studio scientifi-
co delle Sacre Scritture» e del «senso letterale» «e fu un grave eccesso
della scuola alessandrina di voler trovare dappertutto un senso simbolico,
anche a danno del senso letterale e storico» 101 • Data la diversità delle po-
sizioni dottrinali e le esitazioni appena ricordate, questa affermazione sin-
tomatica indica molto bene da che parte, al momento, penda la bilancia.
Di fronte al movimento di fondo della critica biblica, il fronte apologetico
si è quasi disciolto totalmente. L'enciclica Divino afflante Spiritu (1943)
uscita in piena guerra per celebrare il cinquantesimo anniversario della
Providentissimus (1893), si mette alla guida di quanti pensano che tutti i
risultati della ricerca storica, «acquisiti non senza una disposizione segre-
ta della Provvidenza, invitano in qualche modo gli interpreti delle Sacre
Scritture a fare buon uso di così grande luce per scrutare più profonda-
mente le divine parole» 102 •
L'introduzione è la prima parte del testo delineano nuovamente la sto-
ria degli atti di Leone XIII e dei suoi successori a favore della ricerca bi-
blica. Senza passare sotto silenzio i punti problematici (comprensione
dell'ispirazione delle Scritture e della sua inerranza in opposizione al ra-
zionalismo biblico), Pio XII propone una lettura più positiva e più ottimi-
sta delle evoluzioni recenti, e rinuncia, per la prima volta, agli «accenti
apocalittici» che si sono riscontrati nel documenti precedenti a partire dal
Vaticano I.

Le regole del!' ermeneutica biblica


La seconda parte del testo riguarda lo «stato attuale degli studi bibli-
ci» 10i. Un primo capitolo stabilisce la necessità di ricorrere ai testi origina-
li, adottando d'altronde il pregiudizio (liberale) dell'epoca secondo cui
«l'originale» ha più peso di ciò che viene prodotto effettivamente dalle
sue diverse riletture 104 • L'enciclica è anche obbligata a distinguere chiara-

101 Cfr. EB, n. 524.


102 Pro XII, Divino afflante Spiritu (30.9.1943), EB, n. 561; cfr. il commento di LEVIE, L'encyclique sur
/es études bibliques, estratto della NRT, Castermann, Tournai 1946.
lOJ Divino afflante Spin'tu, EB, nn. 546-568.
104 lbid., 547: «occorre spiegare qud testo originale, che, per essere immediato prodotto dd sacro
autore, ha maggiore _autorità e maggior peso di qualunque traduzione, antica o moderna che sia, per quan-
to ottima».

Vlll - «LA QUESTIONE BIBLICA» 331


mente l' «autenticità giuridica» della Volgata «affatto immune da errore in
tutto ciò che tocca la fede e i costumi» 105 - dall' «autenticità critica» delle
Scritture, che è da giustificare in funzione dei testi originali. Su questo
punto significativo, il livello giuridico del discorso dottrinale, tanto valo-
rizzato dal Vaticano I, si trova ad essere limitato e relativizzato dalla storia
e dai suoi interessi «archeologici» per l' «originale».
Il capitolo II si occupa del tema dell'interpretazione dei libri santi, fon-
data sul «senso letterale», considerato in tutta la sua estensione, filologica,
archeologica e storica «ma principalmente teologica» 106 • Questo «senso
teologico» resta accantonato nel classico quadro della «dottrina teologica
di ciascun libro o testo intorno alla fede e ai costumi» e viene così riaffer-
mato lo statuto ancillare dell'esegesi in rapporto all'esposizione del dog-
ma, all'insegnamento della dottrina cristiana e ad una vita cristiana che sia
degna di questo nome. Quanto al «senso spirituale» non può certo essere
escluso in quanto legato al «finalismo biblico» 107 • Ma, con spirito raziona-
le, l'enciclica ripete gli awertimenti - del 1893 e del 1920 - rivolti agli
esegeti e ai predicatori:
si guardino invece scrupolosamente dal presentare come genuino senso del-
la sacra Scrittura altri valori figurativi delle cose. Può bene essere utile, spe-
cialmente nella predicazione, lumeggiare e raccomandare le cose della fede e
della morale cristiana con uso più largo del sacro testo in senso figurato, purché
si faccia con moderazione e sobrietà; ma non bisogna mai dimenticare che
un tale uso delle parole della sacra Scrittura è ad essa quasi estrinseco e
avventizio 108 •

Ma la fine del capitolo pende verso una riconciliazione tra la «dottrina


e soave unzione degli antichi con la più vasta erudizione e progredita arte
dei moderni» 109 •
Con il terzo capitolo, si entra nella trattazione delle questioni attuali,
che ha rappresentato un vero sollievo nell'ambiente esegetico. Il testo
registra che «i teologi cattolici, seguitando la dottrina dei santi padri e
principalmente del dottore angelico e comune, con maggior precisione
e finezza, che non si era soliti fare nei secoli andati, hanno esaminata ed
esposta la natura dell'ispirazione biblica e i suoi effetti» 110 • L'argomento

105 Ibid., 549.


106 lbid., 550-551 e la riabilitazione del comparatismo.
101 Ibid., 552ss.: «poiché ·quello che nell'Antico Testamento fu detto o fatto, venne da Dio con somma
sapienza ordinato e disposto in tal modo, che le cose passate prefigurassero le future da awerarsi nel nuovo
Patto di grazia».
108 Ibid., 553.
109 Ibid., 554.
110 lbid., 556.

332 CHRISTOPH THEOBALD


centrale sarà riprodotto quasi letteralmente al capitolo III della Dei
Verbum:
In effetti, come il Verbo sostanziale di Dio si è fatto simile agli uomini in tutto,
«eccetto il peccato» (Eb 4, 15), così anche le parole di Dio, espresse con lingua
umana, si sono fatte somiglianti all'umano linguaggio in tutto, eccettuato l'errore.
In questo consiste quella condiscendenza (sunkatabasis) del provvido nostro dio,
che già san Giovanni Crisostomo con somme lodi esaltò e più e più volte asseverò
trovarsi nei sacri Libri u1.

L'umanità delle Scritture emerge qui con forza sul piano dottrinale.
Non è affatto esagerato localizzare a questo punto un vero «cambiamento
di paradigma» 112 • Ciò si manifesta prima di tutto con l'uso dottrinale della
teoria dei generi letterari, difesa poc'anzi da Lagrange, e la sua iscrizione
in una problematica di «distanza ermeneutica»:
L'interprete deve inoltre quasi tornare con la mente a quei remoti secoli del-
l'Oriente, e con l'appoggio della storia, dell'archeologia, dell'etnologia e di altre
scienze, nettamente discernere quali generi letterari abbiano voluto adoperare
gli scrittori di quella remota età. [ ... ] Quali esse siano l'esegeta non lo può sta-
bilire a priori, ma solo dietro un'accurata ricognizione delle antiche letterature
d'Oriente 113 •

Questo rifiuto di un a priori viene applicato in modo particolare al


momento in cui l'enciclica si occupa della stesura della storia biblica, an-
ch'essa tributaria degli «usi di parlare e di scrivere presso gli antichi>> 114 • E
lo si ritrova infine quando il testo esalta il lavoro dei «laici cattolici» nel-
1' ambito delle scienze profme 115 •
Il quarto capitolo è stato letto poco; tuttavia proprio questo capitolo
dà alla Chiesa e ai ricercatori una vera «regola di libertà». Il testo infatti
riconosce che la storia apporta, nel suo corso, nuovi problemi e che alcu-
ne difficoltà rimarranno forse insolubili. Si ritrova a questo punto, ancora
una volta, l'antica dottrina dell'«oscurità delle Scritture», così refrattaria
ad ogni ideale di trasparenza:
Non vi sarebbe pertanto motivo di meravigliarsi se a questa o quell'altra que-
. stione non si avesse mai a trovare una risposta appieno soddisfacente, perché si
ha da fare più volte con materie oscure e troppo lontane dai nostri tempi e dalla

111 Ibid., 559.


112 Cfr. CHR. THEOBALD, «Les changements paradigmatiqueS» dans l'histoire de l'exégèse catholique et
le statut de la verité en théologie, RICP, 24 (1987), pp. 79-111.
m Divino a/flante Spiritu, EB, n. 558.
114 Ibid 560
115 Ib1i'.561:

Vlll - «LA QUESTIONE BIBLICA» 333


nostra esperienza, e perché anche l'esegesi, come le altre più gravi discipline,
può avere i suoi segreti, che rimangono alle nostre menti irraggiungibili e chiusi
ad ogni sforzo umano 11 6.

Ma in questo caso, l'argomento della difficoltà non viene utilizzato a


favore dell'autorità ecclesiale, come si faceva nella Providentissimus, ma
per suscitare la libertà di ricerca. L'enciclica capovolge persino l'utilizzo
tradizionale della «distinzione tra la dottrina riguardante la fede e i costu-
mi e tutti gli altri punti»:
Tutti devono guardarsi da quel non molto prudente zelo, per cui tutto ciò che sa
di novità si crede per ciò stesso doversi impugnare o sospettare. Tengano presen-
te, soprattutto, che nelle norme e leggi date dalla Chiesa si tratta della dottrina
riguardante la fede e i costumi e che tra le tante cose contenute nei sacri Libri
legali [... ] poche sono quelle, di cui la chiesa con la sua autorità ha dichiarato il
senso, né in maggior numero si contano quelle, intorno alle quali si ha l'unanime
sentenza dei padri. Ne restano dunque molte, e di grande importanza, nella cui
discussione e spiegazione si può e si deve liberamente esercitare l'ingegno e l'acu-
me degli interpreti cattolici 117 •

L'ultimo capitolo aggiunge un certo numero di d.isposizioni pratiche.


Si deve ricordare, per finire, il commovente riferimento alla seconda guer-
ra mondiale che dimostra come in queste questioni bibliche, apparente-
mente lontane dall'attualità storica, Pio XII non perda di vista il «momen-
to presente», insegnando «il senso della parola divina in questo tempo di
guerra: consolazione degli afflitti e via di giustizia per tutti» us.

Conclusione
Tuttavia non tutto è risolto con questo vibrante appello alla «vera li-
bertà dei figliuoli di Dio» 119 • Troppi problemi infatti rimangono sospesi.
In particolare i sostenitori dell'esegesi patristica troveranno qualche anno
più tardi - nel 1950 - un difensore qualificato nella persona di H. de
Lubac la cui celebre opera su Origene 120 esalta proprio il «senso spiritua-
le» della scuola alessandrina, così duramente criticato dalla Commissione
biblica nel 1941.
In. ogni modo il rispetto della dimensione umana delle Scritture è or-
mai un dato acquisito. L'esperienza del loro carattere particolare sia a li-
vello storico che culturale rappresenta una piccola garanzia di un rinno-
11 6 Ibid., 563.
117 Ibid., 564-565; cfr. anche Gn 3, 1.
118 Ibid., 568. Si ritornerà su questo tema, infra, pp. 392ss.
ll9 Ibid., 565.
120 H. DE LuBAC, Storia e Spirito, Jaca Book, Milano 1985.

334 CHRISTOPH THEOBALD


vato rispetto della diversità delle culture .umane. La Parola di Dio entrerà
in tal modo nell' «edificio dottrinale del cattolicesimo», modificando di
non poco nel proseguio i rapporti tra Vangelo e Chiesa.
Ma saranno necessari ancora altri scossoni affinché <<la pratica delle
Scritture», sempre da farsi all'interno del corpo ecclesiale, produca un
vero rinnovamento e persino una reformatio. Secondo la Dei Verbum «lo
studio delle Scritture» sarà «l'anima del corpo» dottrinale ed ecclesiale,
solo nella misura in cui essa rinunci ad una modalità di autogiustificazio-
ne del corpo ma sviluppi le sue potenzialità critiche a vantaggio e a servi-
zio di «un consolidamento e di un ringiovanimento» della teologia e della
pratica ecclesiale 121 •
Su questo terreno, si ritrova, negli anni che vanno dall'enciclica del
1943 all'apertura del Vaticano II nel 1962, le novità dottrinali già incon-
trate: una teologia biblica fondata sul «senso pieno»; il vigoroso ingresso
del problematicismo ermeneutico ereditato da Barth e da Bultmann nella
teologia cattolica, e, infine, il rinnovamento dell'esegesi patristica. Ma
questi approcci, poco armonizzati, sono pure segnati dai terribili avveni-
menti che hanno interessato l'insieme della società europea: la seconda
guerra mondiale che interroga di nuovo il nazionalismo soggiacente al
«paradigma liberale» ancora vivo; l' «olocausto» che esige un serio esame
di coscienza sui rapporti tra ebraismo e cristianesimo così come si deline-
ano al punto di confluenza tra i due Testamenti; i rapporti sempre più
frequenti tra confessioni cristiane, che portano a mettere in questione i
presupposti di ciascuna parte nella definizione del senso delle Scritture.
Insomma il periodo che precede il Vaticano II metterà un po' a mal par-
tito il bell'ottimismo della Divino afflante Spiritu, suscitando interrogativi
circa le implicanze filosofiche e teologiche della modernità occidentale,
soggiacenti all'avventura dell'esegesi contemporanea.

121 Cfr. Dei Verbum 24.

VIII - «LA QUESTIONE BIBLICA» 335


Capitolo Nono

«Che cos'è un dogma?»


La crisi modernista e le sue ripercussioni
sul sistema dottrinale del cattolicesimo

Indicazioni bibliografiche: sulla storia dei dogmi: A. von HARNACK, Leherbuch der Dog-
mengeschichte (1886-1891) in 3 voll.; Histoire des dogmes (1889-1891), Cerf, Paris 1993;
L'essenza del cristianesimo (1900) Queriniana, Brescia 1992'; J. TIXERONT, I-listoire des dogmes, I:
La théologie ancienne; II: De saint Athanase à saint Augustin (318-430); III: La fin de l'tige
patristique (430-800), Lecoffre, Paris 1905, 1909, 1919; E. TROELTSCH, Die Soziallehren der
christlichen Kirchen und Gruppen (1911), Gesammelte Schriften, I, Scientia Verlag Aalen,
Tiibingen 1922.
Storia, filosofia e dogma: J.H. NEWMAN, Lo sviluppo della dottrina cristiana (1845), Il Mu-
lino, Bologna 1967; M. BLONDEL, Lettera sull'apologetica (1896), Queriniana, Brescia 1990; Sto-
ria e dogma. Le lacune filosofiche del!'esegesi moderna (1904), Queriniana, Brescia 1992; A.
SABATIER, Esquisse d'une philosophie de la religion d'après la psychologie et l'histoire, Fischba-
cher, Paris 1897 (riedito 1969); A. LrnsY, Il Vangelo e la Chiesa. Intorno a un piccolo libro
(1902-1903), Astrolabio, Roma 1975; E. LE Ifov, Qu'est-ce qu'un dogme?, in La Quinzaine 63
(16.4.1905) pp. 495-526; Dogme et critique, Bloud, Paris 1907; R MARLÉ (a cura di), Au coeur
de la crise moderniste. Le dossier inédit d'une controverse, Aubier, Paris 1960.
Studi sulla crisi:]. RiVIÉRE, Le modernisme dans l'Église. Étude d'histoire religieuse contem-
poraine, Letouzey, Paris 1929; O. CHADWICK, From Bossuet to Newman. The idea of Doctrinal
Development, Univ. Press, Cambridge 1957; E. PoULAT, Histoire, dogme et critique dans la crise
moderniste (1962) A. Michel, Paris 1996' (bibliografia); H. HAMMANS, Die neueren katholischen
Erkliirungen der Dogmenentwicklung, Ludgerus-Verlag, Essen 1965; D. DUBARLE (a cura di),
Le modernisme, Beauchesne, Paris 1980; CHR. THEOBALD, Maunce Bionde! und das Problem
der Modernitiit; Beitrag zu einer epistemologischen Standortbestimmung zeitgenossischer Funda-
mentaltheologie, Knecht, Frankfurt 1988; art.: Loisy, in Dictionnaire du monde religieux dans
la France contemporaine, voi. 9, Beauchesne, Paris 1996, pp. 426-431.

«Che cos'è un dogma?». Il problema si è posto per la prima volta in


questi termini nel 1905, nel momento più critico della crisi modernista,
ed è stato sollevato da un laico e filosofo cattolico, Edouard Le Roy
(1870-1954'). Preparata dalla «questione biblica» stava, in effetti, per
cominciare una seconda fase della crisi proprio con la pubblicazione dei
due libri rossi di A. Loisy, L'Évangile et l'Église (1902) e Autour d'un

336 CHRISTOPH THEOBALD


petit liv re I ( 1903): il primo VOleva essere UOa replica alla teologia libera-
le esposta da L'essenza del cristianesimo di Harnack, il secondo propo-
neva invece più esplicitamente una nuova teoria delle origini e della sto-
ria cristiane, già presente ne Il Vangelo e la Chiesa. In queste due opere,
il problema del dogma cattolico è accostato e iscritto in una riflessione
più globale sulla tradizione che comporta lo «sviluppo gerarchico, dog-
matico e cultuale della Chiesa» 2 •
Da quel momento il dibattito è ampiamente aperto: M. Blondel vi par-
tecipa co.n i suoi articoli sulla Storia e dogma (1904) }; intervengono pure i
sostenitori di una «teologia positiva» a Tolosa (Loisy lo chiamava il «sin-
dacato Battifol-Lagrange»)4; L. de Grandmaison, della rivista Études,
prende posizione 5 e tanti altri ancora 6 . La crisi assume una connotazione
internazionale.: se la Francia rimane l'epicentro essa comunque riguarda
anche l'Inghilterra 7 , l'Italia e la Germania. Un laico «europeo», il barone
Friedrich von Hiigel, nato da padre austriaco e da madre scozzese, da
molti anni funge da collegamento tra le componenti di tutto questo mon-
do. L'intervento di E. Le Roy cadde così su un terreno ben preparato. In
seguito ad un'inchiesta di La Quinzaine, «gli articoli piovono come gran-
dine»8, segno che la maturazione dell'esperienza critica e la sua diffusione
in ulteriori ambiti dopo la Bibbia portano ad una vera «precipitazione»
della crisi.
L'ampiezza dei problemi affrontati appare improwisamente enorme.
Loisy, con i suoi due libri rossi, è uscito dal terreno proprio dell'esegesi e
della storia per impegnare la sua responsabilità su problemi filosofici e
teologici fino ad esigere dai -teologi una revisione significativa del loro si-
stema dottrinale. Dietro ai suoi libri, come nel retroterra dei lavori di Le
Roy, si delinea prima di tutto la questione epistemologica del rapporto tra
le diverse discipline e le loro rispettive competenze. Ma dal punto di vista
della teologia fondamentale, sono anche implicati altri problemi: il rappor-
to tra la rivelazione, l'atto di fede e il suo contenuto dogmatico; tra la cri-

1 Loisy ha attinto per la composizione di questi due libri da una sorta di somma redatta durante il suo
ritiro a Neuilly con il titolo La crise de la foi dans le temps présent. Essais d'histoire et de philosophie rel1:
gieuse, da cui aveva già tratto sei articoli (1898-1900) sotto lo pseudonimo di Firmin. Cfr. A. LOJSY, Mé-
moires pour servir /'histoire religieuse de notre temps, I (1857-1900), Nourry, Paris 1930, pp. 438-477.
2 A. LO!SY, Il Vangelo e la Chiesa. Intorno a un piccolo libro, Astrolabio, Roma 1975, pp. 168-191.
J M. BLONDEL, Storia e dogma. Le lacune filosofiche dell'esegesi moderna (1904), Queriniana, Brescia
1992, pp. 103ss.
4 P. ·BATI1FOL, L'Évangile et /'Église, BLE, 4 (1903), pp. 3-15; M.J. LAGRANGE, L'Évangile et l'Église,
RB, 12 (1903), pp. 292-313'.
5 L. DE GRANDMAISON, L'Évangi/e et /'Église, in «Études», 94 (1903), pp. 145-174 ..
6 Cfr. E. POULAT, Histoire, dogme et critique dans la crise moderniste (1962), A. Miche!, Paris 19963,
pp. 125-160 e 190-243.
7 Cfr. soprattutto l'opera di G. Tyrrell (1861·1909).
B H. BREMOND - M. BLONDEL, Correspondance, II (1905-1920), Aubier, Paris 1971, p. 22.

IX - «CHE COS'È UN DOGMA?» 337


tica storica e le teorie dell'interpretazione che servono a salvaguardare la
continuità della tradizione cattolica; la stessa nozione di dogma e il suo
legame con l'autorità ecclesiale.
Prima di presentare il ventaglio delle posizioni tenute nel corso della
crisi modernista, ritorniamo alle cause del dibattito dottrinale provocato
dalle ricerche positive della giovanissima disciplina della storia dei dogmi.
Si finirà con una breve analisi degli interventi di Pio X nel 1907.

l. LA STORIA DEI DOGMI

Alla svolta del xx secolo, questa disciplina sta proprio per nascere an-
che se la sua preistoria risale alla Riforma e al lavoro ammirabile dei gran-
di eruditi del XVI, XVII e XVIII secolo. Il rimprovero mosso dal protestante-
simo al dogma cattolico di essere relativamente nuovo e di essere stato
ignorato dalla Scrittura e dai Padri, suscita in effetti da questa parte un
esame minuzioso delle dottrine dell'Antichità che viene fatto, in Francia,
dal gesuita Denis Petau e dall'oratoriano Louis Thomassin 9• Tuttavia I' at-
to di nascita della disciplina propriamente detta si collega agli inizi delle
scienze storiche del XIX secolo. In primo piano si deve porre la scuola
protestante di Tubinga e in particolare F. Chr. Baur (1792-1860). Il fon-
datore della scuola non rappresenta soltanto il legame intimo tra esegesi
del Nuovo Testamento e storia dei dogmi 10, ma simboleggia pure il pas-
saggio da una comprensione hegeliana dell'evoluzione del dogma (primo
periodo) al tentativo (secondo periodo) di stabilire positivamente, attra-
verso la pratica storica, l'essenza del cristianesimo. Si è già fatto notare
come Hegel ha avuto un ruolo determinante nell'idea che si facevano del
dogma la scuola cattolica di Tubinga oppure dei teologi come Giinther.
Ma la svolta decisiva si consuma dopo il 1880. Nel mondo protestante,
gli studiosi si rapportano alla figura di A. Ritschl (1822-1889), discepolo
di Baur, che fonda (dopo il 1856) una sua propria scuola li da cui verran-
no fuori A. von Harnack (1851-1930) e, più tardi, E. Troeltsch (1865"
1923). Con il suo Manuale (1886-1890) e il suo Compendio della storia del
dogma (1889-1891), il primo dei due, rappresentante perfetto del «para-
9 D. PErAU, Des dogmes théologiques, 1643-1650; L.THOMASSIN, Trat~és théo/ogiques et dogmatiques,
1680-1689.
10 Cfr. F. CHR. BAUR, Kn~ische Untersuchungen uber die kanonischen Evangelien, ihr Verhiiltnis zuei-
nander, ihren Charakter und Ursprung, L. F. Fues, Tiibingen 1847; Lehrbuch der cbristlichen Dogmenge-
schichte, Bechers, Stuttgan 1847.
li Cfr. M. 0HST, Entre Baur et Harnack: Albrecht Ritschl, théoricien de l'histoire des dogmes, in: AA.Vv.,
A. Ri'tschl. LA théologie en modernité: entre religion, morale et positivité historique, Labor et Fides, Genève
1991, pp. 135-155.

338 CHRISTOPH TiffiOBALD


digma liberale», si presenta come il vero fondatore della disciplina. Alla
sua ricerca seguono i grandi manuali di F. Loofs 12 e di R. Seeberg ll. Da
parte cattolica, si trovano i lavori storici di Louis Duchesne 14. e gli Studi
teologici positivi (1892-1906) di Th. de Régnon sulla Trinità 15 • Ma ad apri-
re una nuova epoca saranno i tre volumi della Storia dei dogmi di]oseph
Tixeront. Si d.ovrà pure ritornare su E. Troeltsch le cui celebri Dottrine
sociali 16 del 1911 non solo suonano il campanone per indicare la morte
del «paradigma liberale», ma annunciano una comprensione del tutto
diversa della storicità del cristianesimo.

1. Adolf von Harnack

Tutta la Storia dei dogmi del celebre professore di Berlino si fonda sulla
distinzione tra «il Vangelo» e il «Vangelo nella storia», vale a dire - a
partire dalla bipartizione delle sue conferenze del 1899-1900 su L'essenza
del cristianesimo - la forma dogmatica che il Vangelo ha assunto nel corso
del II secolo. Non riguarda la responsabilità dello storico quella di premu-
nire la Chiese contro la duplice illusione che consiste nel «concepire il
dogma come la pura esposizione del Vangelo» e il pensare «che il dogma
è sempre stato lo stesso in seno alle Chiese, di cui si è di conseguenza
sempre attenti a spiegare e a partire da cui la teologia ecclesiastica non ha
avuto altro compito se non quello di sviluppare un dogma sempre identi-
co, e di confutare le eresie che venivano da fuori» 17 ? Harnack tratta quin-
di successivamente del Vangdo di Gesù Cristo a partire dalla testimonian-
za del Vangelo e quelle invece del cristianesimo primitivo e della storia
dei dogmi. Ma lo studioso spera che la separazione tra il Vangelo e la for-
ma dogmatica da questo assunta da una concezione del mondo che non è
più la nostra, renderà possibile di salvare i suoi elementi «atemporali»
come si fa tra il nocciolo e la scorza (secondo un'immagine a lui cara):
Ci sono soltanto due possibilità: o l'evangelo è identico, in ogni sua parte, alla
sua forma originaria, ed allora dal tempo è venuto e con il tempo se ne è andato;
oppure contiene elementi sempre validi in forme storicamente mutevoli. Que-

12 F. LooFS, Leit/aden zum Studium der Dogmengeschichte (1889), Niemeyer, Halle 19064.
13 R SEE.BERG, Lehrbuch der Dogmengeschichte (1895), 2 voli., Deichert, Leipzig 1908-19102.
14 L. DUCHESNE, Ler Origines chrétiennes, Chauvin, Paris 1878-1879 e 1880-1881; A. Hol1l1N ha fatto
di mons. Duchesne il «padre del modernismo», mettendo alla sua «sinistra» A. Loisy e lo storico del dogma
J. Turme! e alla sua «destra ·progressista» L. Battifol e anche J. M. Lagrange.
15 TH. DE RÉGNON, Études de théologie positive sur la Sainte Trinité, 4 voli., V, Retaux, Paris 1892
e 1898.
16 E. TROE~TSCH, Die Soziallehren der christlichen Kirchen und Gruppen (1911), Gesammelte Schri/ten,
Scientia Verlag Aalen, Tiibingen 1922, I, p. 1922.
17 A. VON HARNACK, Hirtoire des dogmes, (1889-1891), Cerf, Paris 1993, p. X.

IX - «CHE COS'È UN DOGMA?~ 33 9


sta seconda ipotesi è quella giusta. La storia della chiesa mostra, già nei suoi
primi passi, che il «cristianesimo delle origini» dovette tramontare affinché il
cristianesimo perdurasse, e così anche in seguito si sono succedute ulteriori me-
tamorfosi 18 .

Questi elementi «atemporali» del Vangelo sono il Regno di Dio e la


sua venuta, Dio Padre e il valore infinito dell'anima umana, la giustizia
superiore e il comandamento dell'amore. Il primo di questi elementi fa
problema: la tesi di Harnack secondo cui, delle tre accezioni possibili di
«Regno» nazionalista, escatologico e interiore, solo l'ultima è ritenuta da
lui originale, è stata molto discussa dai sostenitori dell'apocalittica neo-
testamentaria, J. Weiss, A. Schweitzer e A. Loisy.
Harnack non contesta affatto l'idea che «il contenuto della religione»
debba essere formulato <<in articoli di fede»; ma altresì reputa essenziali
pure «gli sforzi tentati per provare che questi articoli sono veri in rappor-
to alla conoscenza del mondo e con la storia>> 19 • Secondo lo studioso è
proprio in questo che consiste il problema principale del cristianesimo
ossia nel fatto che <<VUole esprimere il suo carattere assoluto anche nella
sfera della conoscenza» per definizione «relativa»:
La soluzione più efficace trovata fino a questo momento è quella del cattolicesi-
mo; le Chiese della Riforma l'hanno accolta pur facendo tutta una serie di riserve.
Ecco questa soluzione: si considerarono di origine divina una serie di scritti cri-
stiani o anteriori al cristianesimo, come pure alcune tradizioni orali e se ne trasse-
ro fuori degli articoli di fede concatenati tra di loro; in seguito si formularono
questi articoli in un modo astratto e con precisione nell'intento di trattarne dal
punto di vista scientifico e apologetico. Il contenuto di questi articoli era relativo
alla conoscenza di Dio, del mondo e delle operazioni salvifiche di Dio. Questo
insieme di dogmi fu allora proclamato come il riassunto del cristianesimo ed ogni
membro significativo della Chiesa fu obbligato ad accettarlo fedelmente come
condizione preliminare esigita per ottenere la salvezza offerta dalla religione 20 •

Proprio a partire da questa definizione preliminare della «dogmatizza-


zione» come processo intellettuale, Harnack stabilisce il compito della
storia dei dogmi appunto come descrizione della formazione del cristia-
nesimo dogmatico e del suo sviluppo. Teoricamente questo sviluppo è
illimitato, ma praticamente è chiuso: per la Chiesa greca dalla fine dell'ico-
noclastia; per la Chiesa cattolica dai concili di Trento e del Vaticano I in
cui è stato sostituito il motivo originale del cristianesimo dogmatico come
delle realtà completamente nuove, arrivando a precisare il suo dogma «per

18 Io., L'euenuz del crirtianerimo, Queriniana, Brescia 19922, p. 73.


19 lo., Hirtoire der dogmes, cit., p. VII.
20 Ibid., p. VIII.

340 CHRISTOPH TiffiOBALD


ragioni politiche e col fine di farne un ordinamento giuridico che esige
prima di tutto l'obbedienza e solo in seguito una coscienza di fede»; così
pure per le Chiese evangeliche, infine, che hanno abolito l'antica conce-
zione dogmatica del cristianesimo pur conservando per esso un certo at-
taccamento. È quindi la definizione stessa della dogmatizzazione e il suo
rapporto con il Vangelo che conduce: «a trattare la storia dei dogmi come
una disciplina abbastanza chiusa>> 21 •
La tesi centrale di Harnack è allora questa: «l'esame della storia prova
che il cristianesimo dogmatico, che i dogmi nella loro concezione e nella
loro struttura, sono l'opera dello spirito greco sul terreno del Vangelo» 22 •
Proprio questa ellenizzazione è principalmente l'opera dei teologi:
La storia dimostra [ ... ] che la teologia ha formato il dogma, ma che la Chiesa è
sempre stata obbligata a velare in seguito l'opera dei teologi, tanto che questi si
sono trovati ad essere in una brutta posizione. Nei casi più favorevoli le loro pro-
duzioni intellettuali furono valutate come utili adattamenti del V angelo togliendo
loro la parte più cospicua di merito; ma in generale la regola è stata che la storia
li ha fatti cadere sotto i colpi di decisioni dogmatiche di cui essi stessi avevano
posto i fondamenti. [. .. ] Nella misura in cui la storia è andata avanti, il dogma ha
sempre divorato i suoi antenati 23 .

Gli apologeti greci e Origene hanno impresso in modo definitivo il loro


marchio su questo sviluppo; Agostino e Lutero hanno apportato delle
modifiche valorizzando una nuova concezione del cristianesimo «che si
avvicina di più al Vangelo e che è determinato fondamentalmente dall'in-
segnamento di Paolo». Ma mentre Agostino ha «piuttosto messo le cose
le une accanto alle altre, cose' antiche e cose nuove», «Lutero ha tentato
ben questa revisione ma non l'ha portata fino alla fine» 24 :
Lutero ha rimesso sul candelabro la luce del Vangelo subordinando a questo il
dogma. Bisogna conservare e proseguire l'opera da lui cominciata 25 •

Con queste parole programmatiche si conclude una Storia dei dogmi


senza la quale la crisi modernista sarebbe impensabile. Loisy ha tentato di
rifiutare la teoria di un cristianesimo senza dogma nel suo Il Vangelo e la
Chiesa. Ma non è poi così agevole contestuare esattamente il punto del
suo disaccordo con Harnack, in quanto è evidente una certa prossimità
metodologica tra il protestante e il cattolico. E. Poulat ha ragione di rite-

21 Ibid, pp. IX e X.
22 Ibid, p. X.
2J Ibid., pp. Xss.
24 Ibid., p. XI.
2~ Ibid., p. 450.

IX. «CHE COS'È UN DOGMA?» 341


nere che le loro differenze si fondano sul piano religioso: «Essi non ap-
partengono alla stessa famiglia di spiriti religiosi» 26 • Il primo infatti, da
buon protestante, si interessa alla libertà della coscienza individuale senza
escludere con questo la Chiesa, mentre il secondo considera precisamente
la Chiesa come il Vangelo in opera al servizio di una lenta educazione
dell'umanità, senza per questo minimizzare il ruolo della coscienza. Ma la
divergenza fondamentale consiste nell'opposizione storica e religiosa di
Loisy allo «schema fissista» del cattolicesimo e allo schema protestante
dell' «alterazione», in virtù della quale la storia dei dogmi serve piuttosto
a liberare l'intuizione centrale del cristianesimo 27 :
Lo storico potrà trovare che l'essenza del cristianesimo è stata più o meno salva-
guardata nelle diverse comunioni cristiane; non la crederà compromessa a causa
dello sviluppo delle istituzioni, dei credenti e del culto, fintanto che questo svi-
luppo sarà governato dai principi che sono stati verificati sin dall'inizio. Non pen-
serà di certo che questa essenza sia stata realizzata in modo assoluto e definitivo in
un. momento qualsiasi dei secoli passati; crederà che essa si realizzi .più o meno
perfettamente sin dall'inizio e che continuerà a realizzarsi così, sempre di più, fin-
tanto che vivrà il cristianesimo 2s.

2. Joseph Tixeront
La teologia cattolica aveva trov::i.to, proprio al cuore della cns1
modernista, uno storico di tutto rispetto nella persona di un dotto
discepolo di mons. Duchesne. Questi era ben al corrente non solo dei
dati rilevanti dell'antichità ma pure delle recenti controversie in seno
alla nuova disciplina. Sono altri a priori, il contrario di quelli di
Harnack, che, implicitamente, determinano una ricerca che si vuole
esente da ogni interesse apologetico. J. Tixeront distingue prima di tut-
to tra dogma, dottrina e teologia, utilizzando implicitamente le defi-
nizioni del Vaticano I:
Se si prendono le cose rigorosamente, il dogma cristiano si distingue dalla dot-
trina cristiana. Il primo suppone un intervento esplicito della Chiesa che si pro-
nuncia su un punto preciso della dottrina; la seconda abbraccia un campo un
po' più vasto e comprende non solo i dogmi definiti ma pure gli insegnamenti
propri di una predicazione ordinaria e corrente, con la sicura approvazione del
magistero 29 •

26 E. POULAT, Histoire, dogme et critique dans la crise moderniste, A. Miche!, Paris 19963, p. 94.
27 Cfr. A. LorsY, Il Vangelo e la Chiesa. Intorno a un piccolo libro, cit., pp. 77-78.
28 Ibid., p. 77 (le sottolineature sono nostre).
29 J. T!XERONT, Histoire des dogmes, I, Lecoffre, Paris 1905, p. 2; accezione questa che elimina il pro·
blema della visione particolare del mondo.

342 CHRISTOPH TIIEOBALD


Quanto alla storia della teologia che «espone la nascita e lo sviluppo
dei sistemi e delle visioni proprie a teologi particolari» 30 , essa si distingue
chiaramente dalla storia dei dogmi di cui ecco l'obbiettivo:
La storia dei dogmi ha quindi per oggetto quello di esporci l'intimo lavoro del
pensiero cristiano sui dati primitivi della rivelazione, lavoro in base a cui essa ne
assume una più completa padronanza. La storia dei dogmi li chiarisce, li feconda,
li sviluppa e li coordina infine in un sistema armonioso e dotto, senza tuttavia
alterarne la sostanza - questa è la pretesa cattolica -, e senza modificarne i fonda-
menti dottrinali J 1•

La differenza in rapporto ad Harnack si impone. Ma non basta in que-


sto caso invocare il postulato cattolico della continuità. Harnack introdu-
ce nella stessa definizione del dogma una visione particolare del mondo
- lo spirito greco sul terreno del Vangelo -, definizione elaborata dai teo-
logi e spesso censurata nel seguito del processo di dogmatizzazione. Di
contro Tixeront distingue tra il teologico e il dottrinale e comprende il
dogma secondo la sua accezione strettamente giuridica come <<Verità rive-
lata e definita come tale da parte della Chiesa» 32 •
Detto ciò, il cattolico non è certo meno storico di Harnack. Pur men-
zionando nel primo tomo (1905) le teorie dello sviluppo di Vincenzo di
Lérins, di Newman e di Loisy («nonostante la condanna dei suoi due li-
bri») Tixeront opta decisamente per trattare a posteriori il problema «del-
l'immutabilità sostanziale del dogma» «raccogliendone i risultati che si
evincono da uno studio accurato dei fatti» 33 • È precisamente questa mes-
sa in opera del metodo storico che distingue la storia dei dogmi dalla teo-
logia storica che, per quanto la riguarda, ha per fine quello di provare l'au-
tenticità del fondamento degli insegnamenti cristiani attuali:
Il problema a cui bisogna dare una risposta tecnica e adeguata è questo: in che
casi un'idea o una dottrina, rapportata ad un'altra idea o ad un'altra dottrina, non
ne è che un semplice sviluppo, e in quali casi invece ne è un'alterazione o una
sostanziale trasformazione l4?

In che modo Tixeront fa onore al suo programma? Ne delinea le due


difficoltà più importanti che riguardano il terminus a quo e il terminus ad
quem del processo di sviluppo, con il procedimento normale usato in una
distinzione tra, discipline. Pur collegando i dogmi, secondo la loro stessa
definizione, «all'atto o alla serie di atti rivelatori», e la «loro sostanza, il loro

JO lbid., p. 4.
Jt Ibid., p. 3.
i2 Ibid., p. 2.
JJ Ibid., p. 7 (nota).
l4 Ib1d., p. 8 (nota).

IX · «CHE COS'È UN DOGMA?» 343


stato originario, agli insegnamenti dell'Antico Testamento e a quelli di Gesù
Cristo e degli apostoli, alla teologia dell'Antico e del Nuovo Testamento»,
preferisce comunque non sconfinare nel terreno dell'esegesi e dell'apologe-
tica: «La cosa migliore è di non entrarci nemmeno e di non occuparsi affat-
to - appunto in una storia dei dogmi - della provenienza iniziale del loro
contenuto» 3 ~. L'altra difficoltà riguarda il periodo post-tridentino:
Non è più ormai questo o quel dogma che è in questione, ma l'esistenza della
Chiesa come autorità docente e dello stesso dogma nella sua definizione (prote-
stantesimo liberale); è l'esistenza del soprannaturale e della rivelazione (razionali-
smo); è il credere in Dio, il valore della ragione umana (ateismo e soggettivismo)
che vengono attaccati. Se, nel corso di questo periodo il dogma si è sviluppato
[. .. ] in realtà si è soprattutto difeso. L'apologia, nelle sue diverse forme, ha avuto
il primo posto 36 •

Questo terminus ad quem cade allo stesso modo sotto la cesura della
distinzione delle discipline, in quanto Tixeront non tratterà che il primo
periodo, che arriva fino a Giovanni Damasceno (t verso il 750) in Oriente
e ad Alcuino (t 804) in Occidente. I problemi trattati da Harnack riman-
gono quindi fuori del suo campo, saggiamente delimitato, pur essendo
posti in quanto problemi. La sua sintesi, per esempio, dell'insegnamento
di Giovanni non fa che riprodurre da vicino, pur con qualche sfumatura,
ciò che ne aveva già detto Loisy nel suo commento al quarto Vangelo e
nel suo Attorno a un piccolo libro 37 • Si ritrova persino, proprio nella pagi-
na seguente, il· problema dell'ellenizzazione:
L'ellenismo si è limitato a fornire ai Padri e ai concili degli eccitanti e delle forme
per il loro pensiero, dei termini per il loro insegnamento, oppure esso è penetrato
fino al cuore stesso di questo insegnamento per introdurvi poi delle nozioni in-
conciliabili con lo stesso? In poche parole i cristiani di oggi, credono sempre in
Gesù e in Paolo o in Aristotele e Platone: sono cristiani o greci? È il problema che
la storia dei dogmi deve aiutare a risolvere, ma la cui soluzione da parte della sto-
ria soltanto - lo si capisce - richiede un'infinita delicatezza nell'analisi e una ret-
titudine nella valutazione 38 •

Non si può affermare che Tixeront risponda alla domanda. Ma egli


propone, per due volte, un bilancio dottrinale della sua storia, alla vigilia

n Ibid., p. 6.
J6 Ibid., p.11.
J7 A. Lo1sv, Il Vangelo e la Chiesa. Intorno a un piccolo libro, cit., pp. 231-249. Loisy ritiene che «Non
è ancora venuto il tempo in cui l'autore del quarto Vangelo sarà giudicato il primo e il maggiore dei mi-
stici cristiani, non l'ultimo storiografo del Cristo» (p. 248) e TIXERONT conclude: «Giovanni - scrittore
ispirato e organo della rivelazione divina - è in effetti il primo quanto al tempo, e indubbiamente il più
grande teologo della Chiesa» (Histoire des dogmes, I, cit., p. 114).
JS Ibid., I, p. 60.

344 CHRISTOPH THEOBALD


dell'arianesimo e alla fine dell'vrrr secolo 39 . Questi bilanci seguono, alme-
no nel primo caso, la grande classificazione della dogmatizzazione neo-
scolastica della fine del XIX secolo: Scrittura, Tradizione, Trinità, incarna-
zione, redenzione, mariologia, peccato originale e grazia, ecclesiologia,
sacramenti e morale. L'ultimo tomo finisce con una citazione del Commo-
nitorium di Vincenzo di Lerins, già commentato nel corso dell'opera 40 • È
allora che Tixeront riprende la dottrina del capitolo IV della Dei Fzlius,
senza però citarla, dimostrando come per Vincenzo di Lérins <<l'immuta-
bilità di fondo» del dogma cristiano non escluda per nulla «un certo pro-
gresso, un certo sviluppo» 41 •

3. Ernst Troeltsçh

Abbiamo già incontrato lo studioso che aveva accettato di essere con-


siderato come il sistematico della «scuola della storia delle religioni» di
Gottingen 42 • Nel 1903 anche Troeltsch reagisce alle celebri conferenze di
Harnack su L'essenza del cristianesimo, dando uno spazio rilevante alla
posizione di Loisy 43 • Sono le sue altrettanto celebri Dottrine sociali del
1911 che ci interessano nel quadro di questa presentazione delle origini
della storia dei dogmi. Benché vengano concepite come in «parallelo alla
Storia dei dogmi di Harnack», in realtà esse suppongono una visione della
storia completamente diversa, infatti scriverà nel 1922: «parlare di un pura
storia dei dogmi e delle idee cristiane era ormai diventato impossibile» 44 •
L'incontro poi con M. Weber e il dibattito con la teoria marxista del
«riflesso» dell'infrastruttura nella superstruttura modificarono l'idea che
Troeltsch si era fatto, almeno in un primo tempo, del metodo storico-cri-
tico. Infatti riflettendo, nella conclusione delle Dottrine sociali, sul risulta-
to della sua ricerca lo studioso afferma che l'accoglienza di un nuovo cam-
po di causalità. «non rappresenta niente di nuovo a livello di principio, ma
comporta in pratica un sensibile cambiamento dell'immagine» del cristia-
nesimo. In cosa consiste questo <<nuovo modo di vedere?». Troeltsch
modifica il concetto di «Causalità correlativa», parlando di un «condizio-
namento reciproco degli elementi fondamentali della vita» 45 • Il campo di
applicazione di questo nuovo concetto è il rapporto tra la superstruttura

J9 Ibid., I, pp. 453-460 e III, pp. 548-553.


40 Ibid., III, pp. 324-334.
41 Ibid., III, p. 332.
42 Cfr. supra, 306ss.
4J E. TROELTSCH, Was heisst «Wesen des Chn'stentums»?, in: Gesammelte Schnften, II, pp. 386-451.
44 Io., Meine Biicher, Gesammelte Schriften, IV, 1lss.
45 Io., Die Soziallehren .., I, cit., pp. 976-977.

IX - «CHE COS'È UN DOGMA?» 345


ideologica e l'infrastruttura socio-economica della realtà: la storia delle
idee cristiane, lo sviluppo del dogma e dell'etica sembrerebbero ormai in
correlazione con la storia delle formazioni sociali dello Stato, dell'econo-
mia e della famiglia. L'analisi del loro «reciproco condizionamento» pas-
sa attraverso delle «Categorie miste» come il sacramento, il culto e il sim-
bolo, e «le forme cristiane della socializzazione» 46 , che corrispondo grosso
modo a ciò che il concilio di Trento chiama i mores.
Ritornando quindi alla sua intuizione fondamentale della complessità ini-
ziale della figura cristiana (convinzione che lo separa dal paradigma libera-
le) 47 , Troeltsch mostra che <<l'idea cristiana» pona in sé la potenzialità di tre
·organizzazioni comunitarie almeno, il cui dispiegarsi e la cui combinazione
storica hanno degli effetti retroattivi sullo sviluppo dell'etica e del dogma:
La Chiesa è un'istituzione che, avendo ricevuto in seguito all'opera della redenzione
il potere di dispensare la salvezza e la grazia, può aprirsi per questo alle masse e
adattarsi al mondo; poiché essa può, in una certa misura, fare astrazione dalla san-
tità oggettiva nell'interesse dei beni oggettivi che sono la grazia e la redenzione.
La setta è una libera aJJociazione di cristiani austeri e ben consci che, in quanto
veramente rigenerati, si riuniscono insieme, si separano dal mondo e si chiudono
nei loro piccolo cerchi. Questi sottolineano di più la legge cristiana dell'amore
che non la grazia: tutto ciò per preparare e attendere la venuta del Regno di Dio.
La mistica interiorizza e rende immediato l'universo delle idee sclerotizzate sotto la
forma dei dogmi e dei culti in vista del loro possesso veramente personale e intimo
nell'anima. Essa non può quindi raccogliere che dei gruppi instabili che sono
strutturati unicamente per via di legami personali, mentre al contrario tendono a
diluirsi il culto, il dogma e i legami con la storia. Questi tre tipi preesistono sin
dalle origini e continuano a manifestarsi in modo compresente in tutte le confes-
sioni fino ai nostri giorni, intrattenendo ogni sorta di rapporti e di scambi 48 .

È quindi in correlazione con queste tre forme di socializzazione, ana-


lizzate secondo le loro trasformazioni e le loro combinazioni storiche, che
Troeltsch decifra lo sviluppo differenziato del dogma cristiano e del dog-
ma centrale (Ur-dogma) della divinità del Cristo (esplicitato in dogma tri-
nitario). Questo dogma si radica nella celebrazione e risponde alla neces-
sità di raccogliere la nuova comunità dello Spirito: «Il culto di Cristo e il
polo organizzativo di una comunità cristiana è il creatore del dogma cri-
stiano» 49. Che poi questo dogma assuma una figura leggermente diversa a
seconda che lo si reperisca sul terreno proprio delle Chiese, delle sette o
nella mistica, è questo un risultato importante proprio dell'analisi storica.

46 ID., Ideologische und soiiologische Methoden in der Geschichtsforschung, in: Gesammelte Schriften,
IV, p. 722.
47 Cfr. P. VALLIN, Ernst Troeltsch et la théologie /ibérale, RSR, 72 (1984), pp. 359-380.
48 E. TROELTSCH, Die Soiiallehren .. ., I, cit., p. 967.
49 Ibid., I, p. 968.

346 CHRISTOPH THEOBALD .


Ma, pur avendo coscienza del carattere astratto della sua tipologia - «i
diversi tipi si mescolano [. .. ] nella realtà» - Troeltsch è convinto che que-
sta «astraziorie» permette di «capire la storia dei dogmi più chiaramente e
più facilmente di quanto sia stato possibile fino ad ora». In rapporto a
Harnack questo «nuovo modo di vedere» relativizza il ruolo dei teologi, a
livello individuale, in quella che è la formazione del dogma e la loro re-
sponsabilità nella cosiddetta ellenizzazione del cristianesimo:
La storia dei dogmi non è né lo sviluppo immanente dell'idea cristiana di Dio, né
un amalgama di antica mitologia e di filosofia speculativa, né una somma di dot-
trine ecclesiastiche, né l'espressione diretta di questo o quel sentimento cristiano.
La dottrina religiosa è infatti contemporaneamente l'espressione della vitalità re-
ligiosa che si concentra nel culto e che ne promana, come pure il prodotto del
pensiero nella misura in cui il pensiero è necessario a questo fine. Ogni elemento
filosofico e puramente dogmatico risulta secondario. [. .. ] Che poi questo o quel
pensatore si sia immerso in questi arcani [. .. ] non è che naturale; tuttavia, [... ] il
loro pensiero è pur sempre [. .. ] interessato dal carattere sociologico del tipo di
comunità che si troya nel retroterra del loro pensiero 50 •

Il principio di questa differenziazione interna del cristianesimo che si at-


tua contemporaneamente dal punto di vista delle forme di socializzazione e
da quello della dogmatica si trova, alla fine, nell' «ethos cristiano», vale a
dire nel rapporto del credente ad un'altra vita che pure lascia le sue tracce
storiche nella sua maniera di gestire i rapporti della sua fede alla cultura:
Il problema del soprannaturale come quello dell'ascesi, che ne deriva,[. .. ] riman-
gono ancora oggi il problema fondamentale dell'ethos cristiano che, pertanto, non
si può comprendere semplicèmente come negazione del mondo e dell'io. Il se-
condo problema fondamentale è quindi la correzione di questa accentuazione
unilaterale attraverso un'etica della cultura, che le sia compatibile. La Chiesa ha
ricevuto questo complemento della filosofia dalla tarda antichità sotto la forma
della legge morale naturale. La setta, nella misura in cui vi ha rinunciato, _si è in-
vece ritirata ai margini della civiltà e ha perduto ogni pertinenza a livello cultura-
le, mentre la mistica si trasformava in una forma di rassegnazione solitaria. Tutta-
via, tutte le volte in cui l'uno o l'altro di questi movimenti hanno acquisito una
certa pertinenza, hanno ugualmente fatto uso, ciascuno a suo modo, dei comple-
menti culturali. Ma nella situazione totalmente nuova che è quella della nostra
civiltà odierna, questi antichi complementi non sono più validi, e la necessità di
nuovi complementi si fa strada 5 t.

La «storia della cultura cristiana ed ecclesiale», così come Troeltsch


la concepisce, delinea nuovamente lo sviluppo di questa configurazione
matrice che è appunto nata nella Chiesa antica. È nel cattolicesimo me-

so Ibid., I, p. 969.
ll Ibid., I, pp. 974ss.

IX · «CHE COS'È UN DOGMA?• 347


dievale che il tipo della Chiesa trova la sua forma compiuta, e ciò avvie-
ne fondandosi sull'integrazione della dottrina stoica della «legge n'atura-
le» per creare una «cultura ecclesiale unificata» 52 • Inoltre questa rice-
zione e l'attuazione delle sue implicazioni teologico-politiche risale tut-
tavia alla Chiesa antica e ali' apostolo Paolo:
Nella teoria cristiana del diritto naturale, il diritto naturale puro dello stato di
origine opposto al diritto naturale relativo dello stato di peccato, il diritto posi-
tivo che implica spesso le peggiori atrocità e, infine, il potere teocratico che
comunica la vera misericordia si scontrano di continuo, a dispetto di ogni dirit-
to. In quanto teoria scientifica questa visione è miserabile e confusa; ma come
dottrina pratica essa è di alta importanza culturale e storico-sociale. Essa è il
vero dogma culturale della Chiesa e, a questo titolo, non meno importante del
dogma trinitario o di altri dogmi fondamentali 53 •

L'insieme di questa storia dei dogmi, certamente originale, è chiara-


mente segnata da un'acuta percezione della situazione attuale della Chie-
sa. A partire da Troeltsch, l'etica o i mores potrebbero fornfre il punto
di partenza per una ricostruzione possibile di una «dogmatica lesiona-
ta»54. Alla fine delle Dottrine sociali l'autore delinea un quadro in cui si
riscontrano dei valori di una certa durata, «nella certezza di riconoscer-
vi la ragione assoluta, nella sua rivelazione all'uomo e nella sua congiun-
tura attuale». Ma l'altra parte dell'impegno attuale dell'autore: «più ur-
gente di tutti i compiti della dogmatica» è l'ordine «sociologico» e ri-
guarda, appunto, la ridefinizione dell'appartenenza ecclesiale. L'approc-
cio sociologico relativizza la dogmatica come cemento comunitario e
porta a cercare altri mezzi di unione. Il «minimo ecclesiale»i5 che deve
sussistere in una futura ricomposizione dei tre tipi di socializzazione
cristiana sarà infatti sempre il ri.sultato di un «COmpromesso» 56 •

Il. PROBLEMI DI TEOLOGIA FONDAMENTALE

Questi diversi modi di approccio alla storia dei dogmi implicano delle
prese di posizione conseguenti nell'ambito della teologia fondamentale e,
prima di tutto, circa i rapporti tra le discipline storiche e teologiche. In tal
modo esse toccano la dogmatizzazione dei fondamenti della fede.
n Ibid., I, pp. 178-185.
5; Ibid., I, p. 173. Si ritornerà su questa tesi che Troeltsch precisa ulteriormente nei suoi lunghi di-
scorsi circa il tomismo, ibid., I, pp. 252-358; cfr. infra, pp. 371·383.
54 ID., Grundprobleme der Ethik. Erortert aus Anlass von Hermanns Ethik, in: Gesammelte Schriften,
Il, pp. 552-672 e 564.
55 lo., Die Soziallehren ..., I, cit., pp. 978, 982 e 983.
56 lo., Grundprobleme der Ethik, II, cit., pp. 661-669.

348 CHRISTOPH TIIEOBALD


1. Il problema epistemologico

Inevitabilmente lo storico si serve di modelli interpretativi che veicola-


no spesso delle posizioni dottrinali. Loisy fa vedere, ad esempio, quanto
la Storia dei dogmi di un Harnack o lo Schizzo di una filosofia della religio-
ne di A. Sabatier sono marcati da un a priori protestante che si esprime
sotto le uscite di un approccio psicologico e individualista del cristianesi-
mo, mentre lo stesso favorisce l'ingresso della sociologia nella storia, che
viene ritenuta più in sintonia con la sua ecclesialità cattolica:
La religione non è mai stata concepita come un affare del tutto personale dell'in-
dividuo, come un semplice lavoro psicologico di cui ciascuno sarebbe il soggetto
e l'arbitro[ ... ]. Chi dice religione dice il contrario di individualismo. La religione
[... ] ha sempre perseguito lo scopo dell'unione degli uomini in Dio, non soltanto
l'unione dell'uomo con Dio. E ciò che si può dire di ogni religione, lo si deve dire
soprattutto del cristianesimo. Perciò tutto ciò che nella storia ha portato il nome
di religione è stato, in un modo o in un altro, un'istituzione 57 •

Pertanto Troeltsch, che entra nella storia anch'egli attraverso la sociolo-


gia, non si avvicina affatto al cattolicesimo. Il suo modello gli permette tut-
tavia di sfumare considerevolmente le sue riserve circa la Chiesa cattolica.
Questa prima distinzione si incrqcia con il problema cruciale dei rappor-
ti tra storia e dogma. Prima di tutto seguiamo M. Blondel per presentare il
ventaglio delle posizioni epistemologiche presenti a partire, appunto, dalla
sua distinzione tra l' estrinsecismo e lo storicismo. Per l' estrinsecismo la storia
non ha nessun altro valore se non quello di servire ad entrare nell'edificio
dottrinale («il torrione dogmatico») che viene gestito da persone diverse
dallo storico. Non ci si interessa dunque ai fatti per se stessi, né ci si interes-
sa al loro contenuto originale o alla loro relazione con l'ambiente in cui sono
venuti alla luce; li si utilizza per provare che Dio ha agito e parlato e non per
esaminare ciò che ha detto e fatto attraverso degli <<Strumenti umani»:
Così dunque, estrinseca la relazione del segno alla cosa significata, estrinseca il
rapporto dei fatti con la dogmatica che vi è sovrapposta, estrinseca la connessione
del nostro pensiero e della nostra vita con le verità che si propongono loro dal di
fuori; tale è, nella magrezza della sua nudità, l'estrinsecismo, che mancando di
forza per fare circolare la vita dai fatti ai dogmi o dai dogmi ai fatti, li lascia volta
a volta ricadere tirannicamente gli uni sugli altri 58 •

Lungi dall'essere una caricatura, questo primo tipo domina ampiamen-


te l'apologetica cattolica alla svolta del secolo. Ma un medesimo positivi-
smo lo si trova dopo Blondel da parte dello storicismo che non è altro che

" A. LoISY, La théon'e individualiste de la religion, RCF, 17 (1899), pp. 203ss.


l8 M. BLONDEL, Storia e dogma, cit., p. 50.

IX. «CHE COS'È UN DOGMA?» 349


un estrinsecismo al contrario. Mentre l'uno si atteggia come se la storia
dovesse dipendere assolutamente dal dogma, il suo fratello nemico pre-
tende che il dogma debba procedere esclusivamente dalla storia ed esser-
vi subordinato. Supponendo che la «storia reale è fatta da vite umane» e
che «la vita umana è metafisica in atto», Blondel pensa che lo storicismo,
«sotto il pretesto di una neutralità impossibile, si lascia dominare da partiti
presi» 59 • Invece di tenere aperto il mistero della storia, si confonde la sua
spiegazione determinista con la stessa realtà, erigendo così impercettibil-
mente la sua costruzione in apologetica o in teologia.
Si tratta di un ideale tipico estremo, che si può facilmente ritrovare in
qualche opera precisa 60 • Ma in ogni modo diventa più difficile classifica-
re le posizioni «intermedie» che rispettano più o meno la consegna di
Blondel che richiede di rimanere attenti al condizionamento reciproco
degli aspetti oggettivi della ricerca storica e degli aspetti soggettivi del
processo interpretativo, marcate dalle convinzioni metafisiche degli stu-
diosi. Il liberalismo e lo stesso Harnack potrebbero rivendicare il merito
di aver coniugato il lavoro dello storico con l'interesse normativo del
dogmatico, anche se la loro determinazione dell' «essenza» del cristiane-
simo era considerato già all'inizio di questo secolo molto contestabile 61 •
Loisy che, in seguito, sarà accusato di «modernismo» e scomunicato nel
1908 distingue, almeno in linea di principio 62 , tra questi due processi o
«i due sensi della storia, quello iniziale e quello finale» 63 • Lo studioso
insiste molto sullo statuto profano della ricerca storica e sulla sua indi-
pendenza nei confronti del magistero ecclesiale che può tuttavia «rive-
stire>> la storia profana con una interpretazione cristiana. Inoltre la di-
stinzione di questi due ambiti viene compresa in termini kantiani, scom-
ponendo il reale in «fenomeni» e «fondo inconoscibile delle cose» 64 • Ma
in pratica da storico prende una certa distanza critica in rapporto alla
visione dogmatica della storia nell'apologetica cattolica, che viene giudi-
cata inadatta alla concezione moderna del mondo. Inoltre propone an-
che una reinterpretazione positiva del dogma cristiano che si confonde
alla fine con la sua teoria dello sviluppo religioso universale di cui la
Chiesa cattolica «educatrice dell'umanità» rimane il fermento. Sebbene
Loisy insista molto sulla relatività del lavoro storico e di ogni formula

l9 Ibid., p. 57.
60 Si può pensare in proposito aJ. TuRMEL (1859-1943), autore di una Storia dei dogmi (1933) oppure
a A. HoUTJN (1867-1926).
61 Cfr. E. TROELTSCH, Was heisst «Wesen des Christentums?», II, cit., p. 433.
62 Cfr. A. LotSY, Il Vangelo e la Chiesa. Intorno a un piccolo libro, cit., pp. !95ss., che in tal senso
rispetta ciò che la Dei Filius afferma circa il duplice ordine della conoscenza.
63 M. BLONDEL, Storia e dogma, cit., p. 44.
64 A. Lo1sY, Il Vangelo e la Chiesa. Intorno a un piccolo libro, cit., pp. 198-199.

350 CHRISTOPH THEOBALD


teorica (o dogmatica), non si può negare che egli s'impegni altresì in
quanto storico sul terreno propriamente dogmatico e vi propone delle
«trasformazioni strutturali» 65 •
Ma è ancora E. Troeltsch che chiarifica al meglio la posta in gioco dei
rapporti tra storia e dogma, quando confessa che la determinazione di
un' «essenza del cristianesimo» da parte della ricerca storica implica una
presa di distanza relativa in rapporto ad un'identità dogmatica che defini-
sce «la Chiesa come la comunità di coloro che credono in dogmi giuri-
dicamente obbligatori e immutabili» 66 • Il concetto di essenz~ è infatti un
concetto critico (e profetico) che deve servire a discernere nella totalità
dei fenomeni tra ciò che gli corrisponde e ciò che lo trasforma o lo de-
teriora. Troeltsch è perfettamente conscio che si tratta allo stesso tempo
di un concetto ideale che implica il lavoro interpretativo dello storico,
impegnandosi qui personalmente per il presente e per il futuro della fede
cristiana 67 • Che la distanza poi in rapporto all'identità dogmatica non
sia che relativa, anche Troeltsch lo sottolinea, insistendo sull'obbiettivo
di creare «unità e consenso» in una cultura in cui l'autorità del dogma e
il dogma dell'autorità vacillano, per il fatto che la verità è diventata og-
getto di ricerca.
Blondel stesso è poi testimone del fatto che la concezione cattolica dei
rapporti tra dogma e storia non si lasciano ridurre per nulla all'estrinseci-
smo autoritario. Si rispetta certo la loro distinzione a livello epistemologi-
co ma si insiste, al contempo, sul circolo che le collega. A suo parere, l'ap-
parenza del circolo vizioso viene evitata mediante il concetto di Tradizio-
ne68. Questa concezione delle cose avrà un futuro teologico in quanto la si
ritroverà nella costituzione Dei Verbum del Vaticano II. La forza della sua
argomentazione viene dal fatto che essa si fonda vigorosamente sulla dif-
ferenza, evidenziata dal Vaticano I, tra la dottrina «definita con un giudi-
zio solenne» e il «consenso universale»; apertura che impedisce formal-
mente un'identificazione tra dogma e tradizione:
In opposizione all'idea comune, ma d'accordo con la pratica costante della Chie-
sa, si deve dire che la Tradizione non è un semplice sostitutivo dell'insegnamento
scritto; non ha lo stesso oggetto di questo; non proviene soltanto da lui e non
finisce affatto per fondersi con lui. Essa sa conservare del passato non tanto
l'aspetto intellettuale quanto la realtà vitale. Anche là dove esiste la Scrittura, essa
ha dunque sempre qualcosa da aggiungervi, e da lei viene preso ciò che passa a
poco a poco negli scritti e nelle formule. Essa si fonda certamente sui testi, ma si

65 Cfr. Ibid., pp. 269ss. in cui si nota come il proposito di Loisy sia ambiguo; cfr. supra, p. 316 e
pp. 320-321.
66 E. TROELTSCH, Was heisst «Wesen des Chnstentums1», II, cit., p. 438.
67 Cfr. lbid., pp. 432·448.
68 M. BLONDEL, Storia e dogma, cit., pp. 103~s.

IX - «CHE COS'È UN DOGMA/,, 351


fonda insieme e anzitutto su qualcos'altro, su un'esperienza sempre in atto che le
permette di rimanere, in un certo senso, padrona dei testi invece di esserne stret-
tamente dominata 69.

La differenza tra «esperienza di fede» e «formula dogmatica», implica-


ta nel processo di dogmatizzazione cosl come Blondel lo legge nei testi
del Vaticano I, si fonda al contempo su una nuova sensibilità filosofica che
gli permette di articolare la ricerca tecnica dello storico al pensiero della
storia intesa come attivo appello ad una memoria che anticipa l'avvenire
in quelle che sono le crisi di crescita:
Insomma, ad ogni istante in cui è necessario richiamare la testimonianza della
Tradizione per risolvere le crisi di crescita che attraversa la vita spirituale dell'uma-
nità cristiana, la Tradizione conduce alla coscienza chiara elementi fino ad allora
trattenuti nelle profondità della fede e della pratica, piuttosto che espressi, riferiti
e riflessi. Dunque questa forza conservatrice e preservatrice è al tempo stesso
educatrice ed iniziatrice. Rivolta amorevolmente verso il passato dov'è il suo teso-
ro, essa va verso il futuro dov'è la sua conquista e la sua luce 70 •

L'inizio del racconto storico (in senso tecnico) e delle formule dogma-
tiche non vanno verso un «ambito inconoscibile» (il noumeno kantiano),
ma in direzione. del campo sperimentabile di una Tradizione che anticipa
il futuro e permette, infine, di ripensare il ruolo dei diversi autori ecclesia-
stici dell'interpretazione, ciò che si trova al cuore della questione episte-
mologica:
(La Tradizione) non deve affatto innovare, poiché possiede il suo Dio e il suo
tutto; ma deve continuamente insegnarci del nuovo, poiché fa continuamente
passare qualcosa dall'implicito vissuto all'esplicito conosciuto. Per lei insomma
lavora chiunque viva e pensi cristianamente, tanto il santo, che perpetua Gesù in
mezzo a noi, che l'erudito che risale alle pure sorgenti della Rivelazione, o il filo-
so/o che si sforza di aprire le strade dell'avvenire e di preparare la continua crea-
zione dello Spirito di novità. E questo lavoro sparso delle membra contribuisce
alla salute del corpo, sotto la direzione del capo che solo, nell'unità di una co-
scienza divinamente sorretta, ne organizza e ne stimola il progresso 71 •

A partire da questi dibattiti epistemologici viene fuori una difficoltà


straordinaria ad articolare correttamente due tipi di processi, fondamen-
talmente diversi e, pertanto, intimamente legati e che aprono sullo stesso
terreno: quello della storia profana che si interessa alla stupefacente capa-

69 lbid., pp. 107-108.


10 lbid.; p. 108; L'Action (1893), PUF, Paris 1950, pp. 412ss.
71 M. BLONDEL, Storia e dogma, cit., p. 108; è questa una delle allusioni, durante la crisi modernista,
all'infallibilità pontificia; cfr. lbid., p. 114 dove si trova un commento «aperto» al cap. IV della Pastor
Aeternus.

352 CHRISTOPH THEOBALD


cità degli individui e delle collettività a dare senso alla loro esistenza in un
dato contesto storico e quello invece della dogmatizzazione che si rifà ad
un giudizio di verità. Questa differenza è raddoppiata dalla distinzione tra
le «autorità», vale a dire quelli che analizzano la produzione del senso e
quanti esprimono il giudizio di verità 72 • Nella misura in cui l'impegno
interpretativo nella storia dei dogmi è percepito più chiaramente da parte
di pensatori che si oppongono ad una concezione positivista della storia
venivano pure alla luce i presupposti dogmatici dei loro lavori come pure
i loro giudizi circa i fondamenti della fede.

2. Rivelazione e dogma

Il primo problema che emerge è allora quello di sapere se la fede cri-


stiana è costitutivamente legàta a un contenuto o ad un criterio norma-
tivo chiamato dogma. Questo problema rimanda a quello della defini-
zione del concetto di rivelazione. La difficoltà proviene dalla storicità di
un certo modo di vedere il mondo e da una percezione più acuta del
legame tra il dogma cristiano ed una concezione greca dell'universo che,
certo, non è più quella dell'uomo moderno. La falla, già intravista dalla
Dei Filius, tra il «deposito della fede» e la sua «espressione dogmatica»
si apre ampiamente e provoca una problematizzazione circa l'identità di
ciascuno dei poli. Ci si trova così al cuore della crisi modernista. Per
l'apologetica cattolica dell'epoca, che insiste sul carattere dottrinale del-
l'oggetto rivelato]), il problema non si pone (oppure si provocano delle
strategie d'immunizzazione), né tantomeno il problema si pone per il
razionalismo che nega pari pari la possibilità stessa di una rivelazione.
Presentiamo quindi il ventaglio delle posizioni «intermedie» sostenute,
limitandoci prima di tutto alle relazioni tra rivelazione e dogma.
Il liberalismo distingue diverse concezioni della rivelazione: «L'idea
della rivelazione ha attraversato tre fasi nella storia, scrive A. Sabatier: la
fase mitologica, la fase dogmatica e la fase critica» 74 • La tradizione biblica
si è progressivamente liberata dalla nozione mitologica, adatta all'infanzia
dell'umanità; «spogliandosi sempre di più degli elementi estranei ed infe-
riori, l'idea di rivelazione si è ritrovata ad essere più umana di quanto lo
fosse prima, più interiore, più costante, più strettamente morale e religio-

72 Cfr. CHR. THEOBALD, Maurice Bionde/ und das Problem der Modernitiit, cit., pp. 413·420.
7l Cfr. R. LATOURELLE, Teologia della rivelazione, Cittadella, Assisi 1991.
74 A. SABATIER, Esquisse d'une philosophie de la religion d'après la psychologie et l'histoire, Fischba-
cher, Paris 1897 (riedito 1969) p. 35.

IX· «CHE COS'È UN DOGMA?» 353


sa» 75 • Questa «nozione psicologica», quella dell'apostolo Paolo fedele in-
terprete dell'esperienza di Cristo, si adatta molto bene al tempo critico
che alla fine è all'altezza della concezione del Nuovo Testamento:
La Chiesa cattolica preoccupata di fondare la sua autorità e non potendovi riusci-
re se non riandando all'idea di una rivelazione esterna, la fa così consistere soprat-
tutto in regole e in dogmi, e, attraverso questo cambiamento, arrivò a trasformare
in modo del tutto naturale la nozione mitologica della rivelazione in una nozione
dogmatica che non è per nulla diversa a livello essenziale 76 •

Il liberalismo che era polemico sia con il carattere intransigente e auto-


ritario della «nozione dogmatica» di rivelazione sia contro l'amalgama
operata tra un «giudizio intellettuale e scientifico», tributario dell'igno-
ranza delle leggi della natura, e un «giudizio di ordine religioso, che im-
plica una fiducia assoluta in Dio totalmente buono e onnipotente per ri-
spondere alla preghiera dei suoi figli»: «fare del dogma, ossia di un dato
intellettuale, l'oggetto della rivelazione, corrisponde prima di tutto apri-
varlo del suo carattere religioso ed equivale inoltre a metterlo in contrasto
irriducibile con la ragione» 77 • Il liberalismo conserva quindi unicamente il
giudizio interiore per definire la rivelazione, identificando in ultima istan-
za i tre concetti di religione, di rivelazione e di coscienza.
Questo punto è essenziale sia nel dibattito che nelle reazioni da parte
del magistero cattolico. Sabatier infatti abolisce volontariamente «le di-
stinzioni stabilite tra la rivelazione soprannaturale e la rivelazione natura-
le, tra ciò che i teologi definiscono come immediato e ciò che ritengono
mediato, tra una rivelazione universale e una rivelazione speciale>> 78 • In-
dubbiàrnente con ciò non si afferma che tutte le religioni si equivalgano,
né che non ci sia più alcuna differenza tra i credenti di tutte le religioni, i
profeti e il Cristo. Ma, pur evidenziando l' «ineguaglianza dei doni», lo
studioso insiste sulla «solidarietà nell'opera comune», riconducendo il
criterio di verità a quello di un'umanizzazione che è allo stesso tempo
individualizzazione e interiorizzazione:
Con quale criterio riconoscete nei libri che leggete e nelle cose che v'insegnano,
un'autentica rivelazione di Dio? Ascoltate: un solo criterio è infallibile e sufficien-
te: ogni rivelazione divina, ogni esperienza religiosa veramente buona per nutrire
e sostenere la vostra anima, deve potersi ripetere e continuarsi come rivelazione
attuale ed esperienza individuale nella vostra coscienza 79 •

75 lbid., p. 40.
76 lbid., p. 41.
77 lbid., pp. 74 e 43.
78 lbid., p. 60.
79 lbid., p. 58.

354 CHRISTOPH lHEOBALD


P. Colin nota che «la religione di Sabatier prende il posto della fede
razionale di Kant», ma «se ne distingue per un carattere molto più religio-
so» che rende semplicemente obsoleta la distinzione conciliare tra una
conoscenza naturale o razionale ed una conoscenza soprannaturale di
Dio 80 • L'enciclica Pascendi identificherà questo concetto liberale di rivela-
zione con quello dei «modernisti»:
Dinanzi a questo inconoscibile, o sia esso fuori dell'uomo oltre ogni cosa visibile,
o si celi entro l'uomo nelle latebre della subcoscienza, il bisogno del divino, senza
verun atto previo della mente, secondo che vuole il fideismo, fa scattare nell'ani-
mo già inclinato a religione un certo particolare sentimento; il quale, sia come
oggetto sia come causa interna, ha implicata in sé la realtà del divino e congiunge
in certa guisa l'uomo con Dio. A questo sentimento appunto si dà dai modernisti
il nome di fede, e lo ritengono quale inizio di religione. Ma non è qui tutto il filo-
sofare, o, a meglio dire, il delirare di costoro. Imperocché in siffatto sentimento
essi non riscontrano solamente la fede: ma colla fede e nella fede stessa quale da
loro è intesa, sostengono che vi si trova altresì la Rivelazione 81 •

L'enciclica stessa riconosce questo amalgama: «I modernisti si distm-


guono dai razionalisti, ma per cadere nella dottrina dei protestanti e degli
pseudo-mistici» 82 •
Al/red Loisy comunque reagisce a partire dal 1900 con fermezza alle
nozioni liberali di rivelazione e di dogma e protesta contro l'amalgama tra
l'idea mitologica e la concezione cattolica della rivelazione 8). Il principio
della sua argomentazione è la distinzione classica tra «verità>> e «dottri-
na». In una brevissima analisi che conserva ancora la sua validità, lo stu-
dioso distingue tra quattro fasi dello sviluppo che parte dalla professione
battesimale dei cristiani:
Questa professione di fede battesimale non è stata proposta prima di tutto come
un'adesione formale dell'intelligenza a tre tesi di dottrina[ ... ]. 1) Consisteva invece
innanzitutto nella consacrazione del candidato al Dio a cui Gesù Cristo lo riconcilia-
va, e a cui lo Spirito doveva unirlo. 2) La formula di questa consacrazione implicava
una triplice asserzione di fede in Dio creatore, in Gesù salvatore, nello Spirito san-
tificatore, senza che vi fosse una spiegazione teorica della creazione, della salvez~ e
della grazia. 3) Questa spiegazione, che è il risultato del lavoro del pensiero cristiano
sull'assenso di fede, costituisce, proprio la dottrina teologica, 4) e nel momento in
cui questa dottrina è ufficialmente sanzionata dalla Chiesa diventa dogma 84 ••

BO P. CoLIN, Le kantisme. dans la crise moderniste, in: Le modernisme, D. Dubarle (a cura di), Beauche·
sne, Paris 1980, pp. 44ss. e 48ss.
81 Pio X, Pascendi dominici gregis (1907) in: Tutte le Encicliche dei Sommi Pontefici, Corbaccio, Mila·
no 1940, pp. 731-732.
82 lbid., pp. 735ss ..
8) A. Lrnsv, L'idée de la Révélation, RCF, 21 (1900), pp. 250-271.
84 lbid., pp. 252ss.; siamo noi a sottolineare e a numerare.

IX - «CHE COS'È UN DOGMA?» 355


Sulla base di questa osservazione Loisy porta fino alle ultime conse-
guenze la distinzione tra rivelazione e dogma.
Così scrive nel 1900:
Si capisce facilmente come la rivelazione abbia come oggetto proprio e diretto
le semplici verità contenute nelle asserzioni della fede non invece i dogmi in
quanto tali: dottrine e dogmi sono ritenuti rivelati perché le verità rivelate per-
mangono nelle spiegazioni autorizzate che sono la dottrina e il dogma della
Chiesa. [... ] La dottrina e il dogma servono come base alla vita cristiana sempre
come asserzioni di fede; nella forma di teoria dottrinale o teologia dogmatica
essi servono piuttosto a mantenere l'armonia del credo religioso con lo sviluppo
scientifico dell'umanità 8'.

Quindi nel 1900 Loisy cerca di salvaguardare la nozione tradizionale


di rivelazione contro il liberalismo: si rifiuta di ridurre la rivelazione alla
«coscienza che Dio prende di se stesso nell'uomo»; conserva invece la
«distinzione essenziale di Dio e dell'uomo», dell' «azione di Dio, trascen-
dente e immanente all'anima» e del suo effetto che sarebbe «la cono-
scenza religiosa tutta penetrata dallo Spirito divino che è il risultato di
questa azione». L'elemento intellettuale si fa presente nell' «intuizione
soprannaturale e nell'affermazione della fede» 86 , a motivo del quale sa-
rebbe impossibile di rendere conto delle diverse tappe dello sviluppo
dottrinale che ne deriva. Loisy esplicita questo punto che lo distingue
ancora dal liberalismo facendo riferimento al trattato Sulla profezia di
san Tommaso 87 . Utilizzando poi l'approccio psicologico, Loisy insiste
con san Tommaso sul fatto che «l'originalità della dottrina [. .. ] risiede
nel giudizio che mette insieme le rappresentazioni o visioni, e che,
riunendole le trasforma e le ingrandisce; è in questo giudizio, nella luce
che lo fa sorgere e in quella che ne promana che si trova la rivelazione
propriamente detta». Di contro, l'autore sottolinea in modo del tutto
diverso da san Tommaso la relatività storica delle rappresentazioni o
visioni: «La rivelazione è un insegnamento divino proporzionato alla
nuova condizione intellettuale degli uomini a cui è stata destinata innan-
zitutto»88. .
A questo punto preciso Loisy discute l'identificazione liberale tra re-
ligione e rivelazione che egli, appunto, contesta, per il fatto che porte-
rebbe a «negare l'errore e l'abuso in materia religiosa» e a sbarazzarsi
del problema della «vera religione», la quale non esclude per nulla che

85 Ibid., p. 253.
86 Ibid., pp. 251, 254 e 257.
87 Cfr. supra, pp. 99ss.
88 A. Lo1sv, L'idée de la Révélation, cit., pp. 263-265.

356 CHRISTOPH THEOBALD


«tutte le religioni abbiano conservato e conservino della rivelazione ciò
che in esse vi è di vero e santificante» 89 • Quando - tre anni più tardi _
Loisy utilizza nuovamente l'articolo del 1900, contesta ancora più ra-
dicalmente la distinzione tra conoscenza naturale e conoscenza soprari-
naturale, che - a suo parere - è poco pertinente all'ambito della storia 90.
Si sente l'eco dell'argomentazione del tradizionalismo moderato duran-
te il Vaticano I contro <<la priorità logica della dimostrazione razionale»,
anche se Loisy ha una concezione più storica della ragione e della verità
la quale non vede ormai che «direzioni permanenti [...] si potrebbe dire
invariabili» 91 •
Che la sua difesa del dogma cattolico non sia stato recepito è dovuto,
in parte, alle reazioni di un'altra famiglia di spiriti nel cattolicesimo
dell'epoca in cui si ritrovano personalità molto diverse come Bion-
de!, Laberthonnière, Wehrlé, de Grandmaison, Lagrange e Gardeil.
Mentre Loisy è soprattutto sensibile all' <<incompatibilità latente» tra la
visione del dogma sottesa al dogma, e la conoscenza attuale del mondo
e dell'uomo che necessita di una reintèrpretazione, questi pensatori
invece percepiscono nello stesso dogma ciò che si potrebbe chiamare
la struttura fondamentale e normativa della rivelazione che rimane
invariabile attraverso la storia, cosa che d'altronde Loisy non nega
formalmente.
Maurice Bionde! è l'esempio migliore di questa nuova sensibilità con
un ricco avvenire. Con questa non solo si sposta il concetto di dogma
verso le «formule abbreviate» che sono le professioni di fede e i simbo-
li92, ma soprattutto il contenuto dèlla rivelazione e del dogma viene spo-
stato verso la loro forma: «a fare da ostacolo non è l'oggetto o il dono,
ma la/orma e il fatto del dono» 9'. Nella Lettera sull'apologetica che, in
filigrana commenta la costituzione Dei Filius, si trova la nozione tradi-
zionale - «sintesi logica del dogma cattolico» 94 - e il riferimento struttu-
rale al duplice ordine, «distinzione assoluta del naturale e del sopranna-
turale» e «vista nella profondità del loro collegamento» radicata in ciò
che Bionde! chiama un «dogma implicito, l'Emmanuele, causa finale del
disegno creatore» 95 • Lo slittamento risulta ancora più chiaro nella Storia
e dogma in cui il filosofo propone un breve studio della genesi dei dog-
mi. Dal principio _stesso della rivelazione - che è la misteriosa relazione

89 Ibid., pp. 258-261.


90 Io., Il Vangelo e la Chiesa. Intorno a un piccolo libro, cit., pp. 283ss.
91 Ibid., p. 283.
92 L. DE GRANDMA!SON, Qu'est-ce qu'un dogme?, BLE, 6 (1905), pp. 189 ss.
93 M. BLONDEL, Lettera sull'apologetica, Queriniana, Brescia 1990, p. 68.
94 Ibid., p. 118.
95 Ibid., pp. 112 e 135-138.

IX· «CHE COS'È UN DOGMA?» 357


d'amore tra Gesù e i suoi discepoli 96 - fino alla sua espressione dogma-
tica, è operante sempre una stessa struttura fondamentale:
E, caso ancora diversamente meraviglioso, non solo queste tesi dogmatiche, nate
da uomini differenti, coincidono tra loro, ma esse coincidono con i fatti (storici
o immaginari, poco importa qui) per adattarsi a tutti i particolari, al punto da
colmare le forme più accidentali della vita di Cristo di una teologia sempre in
atto; o meglio esse coincidono con la nostra stessa vita, al punto di rinnovare il
nostro essere interiore con pratiche sconosciute che subito l'esperienza mostra
come praticabili e benefiche: sicché dogmi, storia del Cristo, vita dell'uomo,
formano un tutto per così dire indivisibile: mihi vivere Christus est 97 •

Blondel chiama questa struttura fondamentale «esercizio regolato e


ripetuto della pratica cristiana», «scienza del discernimento degli spiriti
e della direzione spirituale di cui gli uomini diventano capaci già a
livello individuale e, a maggior ragione, la società santa che ne rias-
sume l'esperienza collettiva», o detto in breve «teologia fondamen-
tale» 98 • Il dogma non è quindi niente altro che questa «regolazione»
di una pratica evangelica che Bionde! osa ricondurre alla semplicità
di un solo problema, quello «della relazione, in Cristo, dell'uomo a
Dio, e, di conseguenza anche, quello della relazione di Cristo con cia-
scuno di noi» 99 •
Il filosofo di Aix è il primo ad aver operato questo slittamento dei con-
tenuti dogmatici verso la/orma «dogmatica» della rivelazione, intesa qua-.
le complessa regolazione di un processo storico, spiritualmente aperto e
al contempo fedele alle sue origini storiche. Il cammino inverso, ossia dalla
forma fondamentale verso i contenuti dogmatici è ancora difficile da per-
correre.L'opposizione tra storici (Harnack e Loisy) - ancora sensibili alla
vecchia visione del mondo veicolata appunto dai dogmi - e alcuni filosofi
e teologi che fanno slittare lo stesso concetto di dogma verso la forma
fondamentale della rivelazione cristiana impedisce, al momento, una vi-
sione più chiara di questo argomento. Si capisce quindi la domanda un

96 Cfr. Io., Storia e dogma, p. 76: «Non si risponda qui che, se il Cristo avesse avuto la piena
coscienza dclla sua Divinità, e la chiara visione del futuro, avrebbe espresso, come l'uomo di genio
che si sforza di svelare l'intero segreto della sua anima, parole più decisive la cui eco ci sarebbe conser-
vata nelle profondità stesse del Vangelo: si dimenticherebbe così[ ... ] che il mistero di Dio non potrebbe
essere violato dalla rivelazione stessa; si trascurerebbe che la dignità di Dio consiste nel rivelarsi alla
buona volontà con atti di potenza senza sforzo e di bontà senza limite, piuttosto che all'intelligenza con
dichiarazioni prive di ombre; si trascurerebbe che Gesù ha cercato e ottenuto non di essere anzitutto
compreso come un tema teologico, ma di essere amato al di sopra di tutto>>. Questo testo prelude alla
trasformazione del concetto di rivelazione (schema di comunicazione) operato durante il Vaticano II
nella DV n. 2.
97 Ibid., p. 87.
98 Ibitl., p. 122.
99 lbid., p. 132.

358 CHRISfOPH THEOBALD


po' inquieta che]. Wehrlé poneva proprio all'indomani della pubblica-
zione dell'articolo di E. Le Roy:
Si o no, quando si cerca di definire la natura del dogma si ha ragione o torto di
ritenerlo come l'espressione intelligibile e, di conseguenza, intellettuale, di un in-
sieme di realtà o di fatti che appartengono all'ordine della religione rivelata? [. .. ]
Biso~na saper se la rivelazione ha da dire qualche cosa 100 •

3. La teoria dello sviluppo


Il secondo presupposto degli studiosi di storia di quest'epoca è la con-
tinuità della tradizione cattolica. Una volta riconosciuta la storicità delle
espressioni dogmatiche, istituzionali e cultuali in che modo giustificarne
la legittimità? Come stabilire l'omogeneità di una stessa rivelazione a par-
tire dalle sue diverse figure storiche iot? La giustificazione classica, sia nel-
la neo-scolastica che nella scuola romana, fa assegnamento sulla «spiega-
zione» di ciò che è implicitamente contenuto nel «deposito della fede» che,
in quanto oggetto di conoscenza, rimane intangibile. È in questo senso
che si interpreta l'ultimo paragrafo della Dei Filius 102, che si conclude con
la celebre citazione del Commonitorium di Vincenzo di Lérins. Vacant
intende i tre termini usati da Vincenzo, intelligenza, scienza e sapienza,
come le tre fasi della spiegazione del dogma: l'intelligenza come compren-
sione di un problema nuovo, la scienza che ritorna a partire da questo
punto alla Scrittura e alla Tradizione, e, infine, la sapienza che si manife-
sta nella conclusione dogm~tica da parte del magistero infallibile della
Chiesa 1 Questa comprensione dello sviluppo rimane tuttavia accanto-
0}.

nata nell'ambito concettuale: obbedisce inoltre ad un ideale di trasparen-


za nella misura in cui lo sviluppo tenda e illuminare progressivamente ciò
che rimane ancora oscuro nel deposito.
Due personaggi,J.A. Mohler (1796-1838) eJ.H. Newman (1801-1890)
sono stati in grado tuttavia di sottrarsi molto preso a questa concezione
«intellettualistica». Lo studio poi di Newman sullo sviluppo della dottrina
cristiana ha avuto un influsso considerevole durante la crisi modernista
come pure oltre. Apparsa nel 1845 104, quest'opera precoce apre ciò che
H. Gouhier chiama «l'era newmaniana» dello sviluppo del dogma 105 •
100 J. WEHRLÉ, ·De la nature du dogme, RB, 2 (1905), p. 336.
101 Cfr. H. HAMMANS, Die neueren katholischen Erkliirungen der Dogmenentwicklung, Ludgerus-Ver-
lag, Essen 1965. ·
102 Cfr. A. VACANT, Études théologiques sur les Constitutions du conci/e du Vatican, cit., pp. 288ss.
lOJ Ibùl., pp. 313ss.
104 Sette anni prima del The Development'shypothesisdi H. Spencere 14 anni prima del On the Origin
o/ species di Darwin ..
105 H. GouHIER, Tradition et développement à l'époque du modernisme, in: Herméneutique et tradi-
tion, E. Castelli (a cura di), Vrin, Roma-Paris 1963, pp. 75-99.

lX. «CHE COS'È UN DOGMA?» 359


Per pensare la storia del dogma, Newman si serve di un modello bio-
logico o vitalista la cui caratteristica essenziale è quella di valorizzare una
vera crescita, fondata sul continuo scambio tra la fede e il suo ambiente:
«Questo criterio ci è spontaneamente suggerito dall'analogia offertaci
dall'accrescimento fisico, in cui le parti e le proporzioni del corpo che si
è sviluppato corrispondono, nonostante il mutamento sopravvenuto, a
quelle della sua fase rudimentale» 106 • Si è così ben lontani da una
comprensione meccanicistica o matematica, che concepisce appunto lo
sviluppo secondo una logica di deduzione interna come pure da una
concezione analitica che cerca di fare distinzione tra il nocciolo e la
scorza. Per distinguere gli sviluppi autentici del dogma cristiano dalle
corruzioni dottrinali, Newman elabora sette note di autenticità, che pro-
va nelle parti storiche della sua opera: la preservazione del «tipo», la
continuità dei principi, la forza dell'assimilazione, la conseguenza
logica, l'anticipazione del futuro, la conservazione del passato e la forza
perdurante.
A. Loisy scopre l'opera del cardinale solo verso il 1895, ma trova in
questi un potente alleato per dare un fondamento scientifico al suo pro-
getto di apologetica storica. Ai suoi occhi, osserva H. Gouhier, «il princi-
pio newmaniano dello sviluppo preserva la storia dal controllo teologico e
la teologia dalla minaccia storica» 107 • Questo perché il cardinale ricerca
una «teologia del cristianesimo cattolico» che potrebbe ricoprire la fun-
zione della dogmatica tradizionale, pur permettendo di trovare un accor-
do tra la fede e il relativismo storico dei moderni.
Le riserve di Loisy in rapporto al Saggio di Newman, formulate in modo
attenuato nel 1898, dimostrano come la sua lettura è già determinata da
un diverso tipo di rapporto con la storia e da una modalità leggermente
diversa di comprendere le relazioni tra rivelazione e dogma:
Per dare alla teoria dello sviluppo tutta l'ampiezza che essa comporta, ampliando-
ne la base storica di cui non può certo fare a meno, sarebbe necessario estenderne
più chiaramente il principio e applicarlo, più in dettaglio di quanto non faccia lo
stesso Newman, a tutta la storia della religione dalle origini dell'umanità in poi.
[. .. ] Newman non è così esplicito circa il modo in cui la rivelazione stessa entri
nello sviluppo e vi si colleghi. Certo non è che egli abbia paura di affrontare il
problema, piuttosto ciò si spiega a partire dal fatto che il problema n·on si è posto
per lui in quei termini in cui si pone alla teologia contemporanea, dopo il lavoro
critico di questi ultimi cinquant'anni 10s.

106 NEWMAN, Lo sviluppo della do/Irina cristiana, Il Mulino, Bologna 1967, p. 184.
J.H.
107 H.
GOUHIER, Tradition et développement à l'époque du modernisme, cit., p. 87.
108 A. LoISY, Le développement chrétien d'après le Cardinal Newman, RCF, 17 (1898), pp. 12-13; cfr.
anche Mémoires, cit., I, pp. 45 lss.

360 CHRISTOPH THEOBALD


Non è certo che Blondel abbia percepito questo versante della ricer-
ca storica di Loisy, la quale sottintende molto ampiamente l'uso «strate-
gico» della teoria newmaniana dello sviluppo. In ogni modo possiamo
affermare che spinge sempre fino in fondo, nel suo dibattito ccin l'ese-
geta, la sua propria distinzione tra i «due sensi della storia», il senso
tecnico (storia-scienza) e il senso reale (storia-realtà), facendo corrispon-
dere loro due tipi di continuità: l'evoluzione, o l' «effetto di pressioni
esterne o di influssi incrociati» e lo sviluppo (nel senso newmaniano del
termine), la «creazione continua a partire da un germe che assimila i suoi
alimenti» 109 •
La differenza fra questi due livelli consiste nella presenza di una «idea
direttrice» dello sviluppo profondamente legata all'impegno dell'interpre-
te. Questo impegno può essere implicito oppure frutto di un partito pre-
so come nel caso dello storicista (questi confonde la storia-scienza e la
storia-realtà) oppure, al contrario, esplicito come nella pratica storica del-
la Chiesa.
Gli studi susseguenti sullo sviluppo del dogma faranno molta fatica a
integrare il paradigma ermeneutico che si è imposto con più facilità nel-
1' esegesi biblica. Bisognerà aspettare il 1963 perché ci si interroghi sulla
«fine dell'era newmaniana», causato secondo Gouhier dal «senso del pe-
ricolo che minacciava dall'interno la perpetuità della fede» 110 • La difficol-
tà è ora tµtta incentrata sulla definizione del concetto di «dogma». Que-
sto terzo presupposto delle ricerche storiche emerge come questione fon-
damentale, a partire da quando si fa distinzione tra la rivelazione e le sue
espfessioni dogmatiche e ci si lascia interpellare dal problema di un con-
tinuo collegamenti tra le due.

4. Che cos'è un dogma


L'articolo di E. Le Roy, apparso proprio al momento della separazione
tra Chiesa e Stato in Francia (1905), è indubbiamente da annoverarsi tra
i fattori principali che suscitarono le reazioni del magistero romano di
fronte al «modernismo cattolico». L'articolo svela chiaramente i fili ag-
grovigliati del dibattito che ora cercheremo di rintracciare. Il suo primo
risultato è che «la concezione intellettualistica oggi corrente rende insolu-
bili la maggior parte delle obbiezioni che vengono sollevate dall'idea stes-
sa di dogma» 111 • Queste difficoltà ampiamente esposte e discusse, si rias-

109 M. BLONDEL, Storia e dogma, cit., p. 90.


110 H. GOUHIER; Tradition et développement à l'époque du modernisme, cit., p. 98.
111 E. LE Rov, Qu'est-ce qu'un dogme?, in: Dogme et critique, Bloud, Paris 1907, p. 34.

· IX - «CHE COS'È UN DOGMA?» 361


sumono in tre aporie: 1. la contraddizione tra un «appello alla trascen-
denza dell'Autorità pura» dal punto di vista delle proposizioni dogmati-
che e il principio generatore della vita dello spirito che è il «principio di
immanenza»; 2. il riferimento del dogma a linguaggi indissolubilmente
legati ad una situazione spirituale storicamente data e che non corrispon-
de più a quella odierna; 3. infine l'inevitabile oscillazione tra l'antropo-
morfismo e l'agnosticismo, al momento in cui si voglia precisare il senso
di questo o quell'enunciato dogmatico - per esempio del Dio personale,
della risurrezione di Gesù e della presenza reale-. Le Roy dimostra allora
che solo «una dottrina del primato dell'azione permette[. .. ] di risolvere il
problema senza abbandonare nulla né dei diritti del pensiero, né delle
esigenze del dogma» 112 :
Un dogma ha soprattutto un senso pratico. Esso enuncia infatti prima di tutto una
prescrizione di ordine pratico. E vale più di ogni formula enunciata da una regola
di condotta pratica iu

Questa definizione è nuova sotto tre punti di vista. Prima di tutto spo-
sta il centro di gravità dal «dogmatico» verso il pratico. Lungi dall'esse-
re una conseguenza del pensiero, il senso pratico del dogma così come
l'intreccio di relazioni che esso implica risulta primario, pur esigendo la
funzione regolatrice del pensiero.
Dal punto di vista della conoscenza questa definizione significa che
l'enunciato dogmatico non dice nulla su ciò che Dio è in se stesso ma
soltanto sul come egli divenga una realtà per noi e come noi dobbiamo
rapportarci con lui: "'
«Dio è personale» vuol dunque dire «comportatevi nelle vostre relazioni con
Dio come nelle vostre relazioni con una persona umana». Parallelamente, «Gesù
è risorto» vuol dire siate in rapporto a Lui come sareste stati nei suoi confronti
prima della sua morte, come se foste davanti à un contemporaneo 114 •

Questa insistenza sul senso relazionale del dogma, che, secondo Le Roy,
risolve le maggiori difficoltà dell'uomo moderno, implica alla fine che, dal
punto di vista strettamente intellettuale, venga considerato come il so-
lo legittimo proprio il suo senso negativo e proibitivo: «li dogma esclude
e condanna certi errori piuttosto che determinare positivamente la ve~
rità» m.

m Ibid., p. 34.
l!J Ib1d., p. 25; proposizione condannata sotto la sua forma esclusiva da Lamentabili 26 (cfr.
Di.S 3426).
1!4 Ibid., pp. 25ss.
li~ lbid., p. 19.

362 CHRISTOPH THEOBALD


Questo punto, il più discusso all'epoca, ha suscitato laccusa di agno-
sticismo. Le Roy precisa quindi il suo pensiero nel 1907 distinguendo nella
formula dogmatica tra il valore di significazione e il valore di rappresenta-
zione:
La formula mette in luce prima di rutto l'esistenia di una realtà oggettiva,
che essa determina attraverso la condotta e l'attitudine che, da parte nostra, si
deve assumere e seguire al fine di orientarsi verso l'oggetto in questione, per
entrare così in rapporto con lui in modo conforme alla sua vera natura; in
una parola la formula è rivelatrice [ ... ]. Che la formula poi da questo punto
di vista parli alla nostra intelligenza, non lo contesto affatto [. .. ]. Quanto al
valore di rappresentazione, riguardante ciò che la realtà è ontologicamente in
sé, non lo nego di certo. Soltanto sottolineo la sua duplice relatività metafi-
sica e storica LL 6.

L'approccio di Le Roy è interessante in quanto congiunge la proble-


matizzazione storica e ermeneutica di un Loisy con lo slittamento, di Blon-
del, del dogmatico verso Ja pratica cristiana e la sua regolazione. Il filoso-
fo e matematico cattolico parte dalla sua concezione anti-scientista delle
scienze, che insiste sul carattere convenzionale e rivedibile delle teorie
scientifiche e la loro intenzione di mettere in relazione le cose tra loro
piuttosto di definirne l'essenza. Le Roy insiste con Blondel sullo statuto
regolatore delle formule dogmatiche. Questa riserva epistemologica· che
Le Roy esprime anche in termini di duplice relatività metafisica e storica
apre non solo il campo della ricerca storica ma pure dei tentativi di rein-
terpretazione. .
Blondel si potrebbe riconoscere in questa definizione di dogma m?
Fedele alle intuizioni di un «realismo superiore», già presente ne L'Action
(1893 ), egli, progressivamente, si separa da un pensiero pragmatico che si
rischia di confondere con il suo. Dopo aver letto l'opera di Le Roy distin-
gue il suo proprio «pragmatismo metafisico» da quello di Le Roy, che
arriva a definire come «pragmatismo agnostico» us, limitato, a suo parere,
ad una semplice attitudine morale che porta verso la dottrina del-
l'«inconscio inconoscibile». Nel 1905, è]. Wehrlé che interviene al suo
posto sulla Revue biblique; nel 1907 poi Blondel prende pubblicamente le
distanze 119 •

ll6 Io., Dogme et venté, RCF, 52 (1907), p. 219.


117 Cfr. O. KONIG, Dogma als Praxis und Theorie, Graz 1983, pp. 270·282.
llB H. BREMOND - M. BLONDEL, Comspondance, II (1905-1920), Aubier, Paris 1971, p. 22.
ll9 Lettera al Direttore della RCF, RCF, 50 (1907), pp. 545ss. Cfr. anche i 5 articoli di L. LABERTIION-
NIÈRE su Dogme .et théologie, APhC, (1907-1909) che sono ripresi in: Dogme et théologie, Duculot, Paris
1977 con le discussioni di J. Lebreton e P. Rousselot.

lX - <<CHE COS'È UN DOGMA?» 363


Ili. GLI INTERVENTI DEL MAGISTERO ROMANO

I11dicazioni bibliograficbe: Decreto del Sant'Uffizio sul modernismo Lamentabili (3 .7 .1907)


in DzS 3401-3466; Pro X, Enciclica sulle dottrine moderniste Pascendi dominici gregis
(8.9.1907) DzS 3475-3500; Giuramento antimodernista (1.9.1910) DzS 3537-3550: l'insieme
di questi documenti in A. VERMEERSCH, De modernismo. Tractatus et notae canonicae cum actis
S. Sedis a 17 aprilis 1907 ad 25 septembris 1910, Beyaert, Bruges 1910.

Oltre alle scomuniche 120 , bisogna distinguere tre tipi di interventi ma-
gisteriali: il Decreto del Sant'Uffizio sul modernismo, Lamentabili, del
1907 che condanna 65 proposizioni tratte per la maggior parte dalle ope-
re di Loisy 121 , a cui seguì ben presto l'enciclica sulle dottrine dei moderni-
sti, Pascendi dominzà gregis, e, infine, il giuramento antimodernista del
1° settembre 1910.

1. Il ritratto del modernista

Imitando lontanamente il Contro le eresie di sant'Ireneo 122 , l'enciclica


si propone di smascherare il «modernismo» 12' e di dimostrare la sua in-
consistenza razionale:
E poiché è artificio astutissimo dei modernisti (ché con siffatto nome son chiama-
ti costoro a ragione comunemente) presentare le loro dottrine non già coordinate
e raccolte quasi in un tutto, ma sparse invece e disgiunte l'una dall'altra, allo sco-
po di passare essi per dubbiosi e come incerti, mentre di fatto sono fermi e deter-
minati; gioverà innanzi tutto raccogliere qui le dottrine stesse in un solo quadro 124 •

Pascendi delinea una sorta di «ritratto-robot>> del modernista 125 • L'insi-


stenza poi del testo sul carattere sistematico della dottrina condannata fa
rammentare il procedimento soggiacente alla Dei Filius: il paragone rivela
che il sistema che viene rifiutato è l'inverso del «sistema dottrinale» del
cattolicesimo 126, cosa che, viste le molte citazioni della Costituzione del
Vaticano I, costituisce una nuova interpretazione di questo testo. Secon-
do l'enciclica, il «sistema modernista» si fonda sulla «dottrina filosofica»

120 Specialmente quella di Loisy nel 1908.


12 1 Cfr. il commento di E. POULAT, Histoire, dogme et critique.. ., cit., pp. 103-112.
122 Cfr. supra pp. 30ss.
12J La parola <<modernismo» non esiste nel vocabolario cattolico prima del 1904; ma dopo questa
data conosce una rapida diffusione a partire dal momento in cui Pio X lo consacra nella sua enciclica.
124 Pascendi, p. 728.
m In ogni modo il testo distingue tra le «dottrine» e le «intenzioni il cui giudizio è riservato a Dio»
(lbid., p. 727).
· 126 Cfr. P. COLIN, Le kantisme dans la crise moderniste, cit., pp. 23-27.

364 CHRISTOPH THEOBALD


dell'agnosticismo 127 • Più precisamente, il «modernista» apparirebbe come
il tentativo disperato di conciliare l'agnosticismo e la fede cristiana. In che
cosa consiste questo agnosticismo?
La ragione umana è ristretta interamente entro il campo dei fenomeni, che è
quanto dire di quel che apparisce e nel modo in che apparisce: non diritto, non
facoltà naturale le concedono di passare più oltre. Per cui non è dato a lei di
innalzarsi a Dio, né di conoscerne l'esistenza, sia pure per intromessa ddle cose
visibili. E da ciò si deduce che Dio, riguardo alla scienza, non può affatto es-
serne oggetto diretto; riguardo alla storia non deve mai riputarsi come soggetto
storico 128 .

Quindi l'enciclica intende per agnosticismo la teoria che relega Dio, e


più in generale tutte le affermazioni metafisiche, nell'ordine dell'incono-
scibile. Quando si stupisce del modo in cui i «modernisti» siano potuti
passare dall' «agnosticismo», che, dopo tutto, non è altro che ignoranza»,
ad un «ateismo scientifico e storico» 129 , il testo dimostra la difficoltà che
ha il magistero nel capire lo statuto secolarizzato delle scienze. Non si
rende conto che l'agnosticismo di cui si parla, non per caso in Francia
negli anni a partire dal 1870, è già una reazione di tipo religioso ad uno
stretto positivismo no.
Comunque sia, Pascendi coglie chiaramente il pericolo che l'agnostici-
smo fa pesare sull'interpretazione «stretta» (bisognerebbe dire forse
«estrinsecista»?) ili delle affermazioni sulla conoscenza naturale di Dio
dell'ultimo concilio, citato a questo punto. L'enciclica si ispira alla gene-
alogia dei tempi moderni ~he si trova nel prologo della Dei Filius, nel
momento in cui fa vedere che l'agnosticismo tende, come il razionalismo,
verso il panteismo prima e l'ateismo poi ll2, i quali rappresentano un terri-
bile pericolo per la Chiesa e le società umane.
In questo contesto apocalittico di opposizione ad oltranza tra dottrina cat-
tolica e disgregamento sociale e intellettuale, il magistero rifiuta ogni concilia-
zione con l'agnosticismo: non è infatti una dottrina che si può prendere o
lasciare. Ma è proprio ciò che il «modernismo» si propone di fare (come in
altri tempi aveva cercato di fare il semi-razionalismo). Perciò non solo è pe-
ricoloso ma è anche inconsistente a livello intellettuale, perché esso svilup-

127 Pascendi, pp. 726-730; il _termine di agnosticismo risale probabilmente a Th.H. Huxley (1869).
128 lbid., p. 729.
129 Ibid., pp. 729ss.
IJO Cfr. P. CouN, Le kantisme dans la crise moderniste, cit., pp. JJ.J5.
Ili Desta stupore il fatto di leggere qui per la prima volta l'espressione «esterna rivdazione» (Pascen·
di, p. 729) quando la Dei Filius parla invece di «Segni esteriori» (DiS JOJJ).
ll2 Pascendi, pp. 768ss ..

lX. «CHE COS'È UN DOGMA?» 365


pa - sempre secondo l'enciclica - due «espedienti>> che lo tengono sulla lama
del rasoio che porta dall'agnosticismo verso il panteismo e l'ateismo.
Il primo è di ordine epistemologico: la distinzione tra l'oggetto della
scienza e l'oggetto della fede ripropone la distanza tra il conoscibile e l'in-
conoscibile. Separando questi du:e ambiti, il «modernista» cerca di salva-
guardare, allo stesso tempo, i diritti di una scienza atea e i diritti della
fede, che si trova come subordinata alla scienza divenuta, nel frattempo
arbitra di questo gioco di relazioni m. Questo primo espediente ne impli-
ca un secondo, più dottrinale, in quanto la separazione dei due ambiti non
è possibile che a prezzo di una rifusione completa dell'atto di fede. Tale è
il nodo del concetto che il magistero ha del «modernismo». Pascendi di-
scerne una duplice trasformazione della concezione cattolica della fede.
Affermando che l'intelligenza rappresenta la via oggettiva verso Dio,
l'agnosticismo non lascia alla fede che la via soggettiva dell'esperienza, e,
più precisamente, quella del sentimento. Il modernismo quindi separa la
fede/sentimento e le formulazioni della fede che sono interessate da una
inesorabile relatività. Si è già notata la somiglianza tra il modernismo cat-
tolico (così come lo percepisce l'enciclica) e il protestantesimo liberale.
Ciò che viene rimproverato ai «modernisti», e perciò stesso ai liberali, è
l'andatura kantiana della loro architettura teologica: il regime di separa-
zione tra scienza e fede in cui «la fede della ragione», giudicata come trop-
po razionalista dai liberali (giudizio ripreso dalla Pascendi), viene rimpiaz-
zata dalla «religione», vale a dire dal «sentimento di dipendenza» che in-
globa la fede e implica la rivelazione.
Pascendi usa un nome preciso per questa rifondazione della fede: la
dottrina dell' «immanenza religiosa» n4 , con cui si nega ogni rivelazione
esterna per ridurla semplicemente ad un'esperienza umana del «Dio inte-
riore». Secondo l'enciclica, una simile dottrina dissolve la differenza cri-
stiana e il carattere soprannaturale del. cristianesimo, per il fatto che, se-
condo questa dottrina, tutte le religioni si equivalgono 135 • Indubbiamente
le religioni si distinguono per la loro configurazione esterna ma, alla radi-
ce, tutte implicano una medesima esperienza, un medesimo sentimento di
dipendenza di fronte a ciò che rimane inconoscibile.
La seconda trasformazione si inserisce sulla prima e riguarda il caratte-
re evolutivo dell'abbigliamento esterno della fede/sentimento: vale a dire
il carattere storico del dogma cattolico, del culto e delle regole di vita:
Con ciò, nella dottrina dei modernisti, ci troviamo giunti ad uno dei capi di mag·
gior rilievo, all'origine cioè e alla natura stessa del dogma. [... ] A conoscere però
bene la natura del dogma, è uopo ricercare anzi tutto qual relazione passi fra le

m Ibid., pp. 744ss.


lbid., p. 730.
134
m Ibid., p. 732.

366 CHRISTOPH TIIBOBALD


formule religiose ed il sentimento religioso. Nel che non troverà punto difficoltà,
chi tenga fermo, che il fine di cotali formule altro non è, se non di dH modo al
credente di rendersi ragione della propria fede. Per la cosa stanno esse formule
come di mezzo fra il credente e la fede di lui; per rapporto alla fede, sono espres-
sioni inadeguate del suo oggetto e sono dai modernisti chiamate simboli. [... ] Non
è lecito pertanto in nessun modo sostenere che esse esprimano una verità assoluta
[. .. ]. E poiché questo sentimento, siccome quello che ha per oggetto l'assoluto,
porge infiniti aspetti, dei quali oggi l'uno domani l'altro può apparire; e similmen-
te colui che crede può passare per altre ed altre condizioni, ne segue che le for-
mule altresì che noi chiamiamo dogmi devono sottostare ad uguali vicende ed
essere perciò variabili. Così si è aperto il varco alla intima evoluzione dei dogmi 136 •

Si tocca qui il punto più sensibile del «sistema dottrinale», laddove si


sente minacciato da parte di una modernità liberale che eleva il cambia-
mento al livello del principio. Pascendi ripete semplicemente le condanne
del Sillabo:
Per detto dunque e per fatto dei modernisti nulla [ ... ] vi deve essere di stabile, nulla
di immutabile nella Chiesa. Nella qual sentenza non mancarono ad essi dei precur-
sori, quelli cioè dei quali il Nostro predecessore Pio IX già scriveva: «Questi nemici
della divina rivelazione, che estollono con altissime lodi l'umano progresso, vorrebbe-
ro, con temerario e sacrilego ardimento, introdurlo nella cattolica religione, quasi che
la stessa religione fosse opera non di Dio ma degli uomini o un qualche ritrovato filo-
sofico che con mezzi umani possa essere perfezionato» (Qui pluribus) m.

Il modernismo è quindi, secondo Pascendi, il tentativo disperato di


conciliare l'agnosticismo della società moderna e la fede cattolica trasfor-
mando quest'ultima in un sentimento il cui aspetto esteriore rimane sot-
tomesso alle trasformazioni ·della società.

2. A chi si rivolge?
Non è facile l'identificazione di questo «ritratto-robot», anche perché il
carattere sistematico della dottrina che viene condannata aumenta l'artifi-
cio. La condanna di «proposizioni», nel decreto Lamentabtlz; permetteva
agli autori di non riconoscervisi, per il fatto che queste proposizioni erano
estrapolate dal loro contesto ns. L'argomentazione inversa può invece valere
per l'enciclica. Ma il «tipo-ideale» proposto da questa, in una sistematizza-
zione apocalittica che prendeva molto dall'atmosfera che si respirava ali' epo-
ca, mirava a suscitare il riconoscimento da parte di tutti che si rasentava

IJ6 lbid., pp. 735-736


m Ibid., p. 756.
IJB Cfr. ad esempio A. Lo!SY, Simples réflexions sur le décret di Saint-Office «Ùmentabili sane exitu»
et sur l'encyclique «Pascendi dominici gregt's», Ceffonds, presso l'autore, 1908.

IX - «CHE COS'È UN DOGMA?» 367


l'abisso, e da parte degli intellettuali un'adesione e, infine, una rifondazione
del pensiero di quanti si riconoscevano nella dottrina condannata.
Detto ciò, l'enciclica identifica il «modernismo» nel suo insieme con il
protestantesimo liberale, accreditando così la tesi di J Fontaine che par-
lava, già nel 1901, delle «infiltrazioni protestanti» 09 . Ma proprio questa
identificazione che precisa l'orizzonte della condanna riapre anche il di-
battito, se si tiene conto della distinzione finale del testo tra «modernisti
integralisti» e «modernisti moderati»:
E qui di nuovo siamo costretti a lamentarci gravemente che non mancano catto-
lici i quali, benché rigettino la dottrina dell'immanenza come dottrina, pure se ne
giovano per l'apologetica; e ciò fanno con sì poca cautela, da sembrare ammettere
nella natura umana non pure una capacità od una convenienza per l'ordine so-
prannaturale [... ] ma una stretta e vera esigenza. A dir più giusto però, questa
esigenza della religione cattolica è sostenuta dai modernisti più moderati 140 •

Questa formula relativamente prudente si riferisce, evidentemente, al


<<metodo immanentista» di M. Blondel, esposto nella Lettera sulle esigenze
del pensiero contemporaneo in materia di apologetica 141 . Il filosofo di L'Ac-
tion (1893) sa ciò a cui si mira: «Ciò che è condannato, e giustamente, è la
tesi dell' e/ferenza, la religione che nasce interamente dalle profondità della
coscienza. [. .. ]Ma noi non abbiamo mai sostenuto nulla di simile» 142 •

3. Cultura cattolica e società moderna


L'inconsistenza intellettuale, che l'enciclica rawisa nei tentativi di con-
ciliazione, porta alla difficoltà più significativa che la cultura cattolica
dell'epoca, cultura unificata in tutti i suoi elementi, provava di fronte alla
diversificazione interna delle società in via di modernizzazione 14J. Il testo
ritiene di poter distinguere nel «modernista» vari personaggi: <<Vale a dire
di filosofo, di credente, di teologo, di storico, di critico, di apologista, di
riformatore» 144 • Queste distinzioni determinano pure il piano dell'encicli-
ca. Esse si attaccano infatti ad un certo «prospettivismo epistemologico»
che corrisponde al processo di differenziazione, in una società liberale,
delle istituzioni che regolano in maniera autonoma il loro particolare ap~
proccio (scientifico, filosofico o teologico). L'opposizione dell'enciclica ci

D9 J. FoNTAINE, Les infiltrations protestantes et le e/ergé français, Retaux, Paris 1901.


140Pascendi, p. 766.
141M. BLONDEL, Lettera sull'apologetica, cit., pp. 65-77.
M. BLONDEL - L. LABERTHONN!ÈRE, Co"espondance philosophique, Seui!, Paris 1961, pp. 201ss.
14 2
14l Cfr. soprattutto F. X. KAUFMANN, Religion und Moderni/a/. Sozialwissenscha/tliche Perspektiven,
Mohr, Tubingen 1989.
144 Pascend1; p. 729.

368 CHRISTOPH THEOBALD


sembra faccia slittare la punta della costituzione Dei Filius che riconosce
l'importanza del duplice ordine della conoscenza (cap. IV), che non viene
mai nominato nel testo di Pascendi.
Per il cattolicesimo integrale e anti-liberale la forma che assume la dif-
ferenziazione moderna risulta inaccettabile e non può che essere giudica-
ta che come una tattica perfida e distruttrice. Così i più grandi rimproveri
vengono indirizzati proprio al «modernista-riformatore» che vuole trasfor-
mare il cattolicesimo dall'interno. Ecco qualche estratto di un simile pro-
gramma così come viene riportato dalla Pascendi:
Strepitano a gran voce perché il regime ecclesiastico debba essere rinnovato per
ogni verso, ma specialmente per il disciplinare e il dogmatico. Perciò pretendono
che dentro e fuori si debba accordare colla coscienza moderna, che tutta è volta
a democrazia; perché dicono doversi nel governo dar la sua parte al clero infe-
riore e perfino al laicato e decentrare [ ... ]. - Le Congregazioni romane si devo-
no svecchiare: e, in capo a tutte, quella del Sant'Uffizio e dell'Indice. - Deve
cambiarsi l'atteggiamento dell'autorità ecclesiastica nelle questioni politiche e
sociali, talché si tenga essa estranea dai civili ordinamenti, ma pur vi si acconci
per penetrarli del suo spirito. [ ... ] - Chiedono che il clero ritorni all'antica
umiltà e povertà; ma lo vogliono di mente e di opere consenziente coi precetti
del modernismo. - Finalmente non mancano coloro che, obbedendo volentieris-
simo ai cenni dei lor maestri protestanti, desiderano soppresso nel sacerdozio lo
stesso sacro celibato. - Che si lasci dunque d'intatto nella Chiesa, che non si deb-
ba da costoro e secondo i loro principii riformare? 14s

4. Conclusione
Di questo breve percorso sulla parte dottrinale dell'enciclica riteniamo
tre punti più importanti. Prima di tutto Pascendi riconduce il <<moderni-
smo» alla sua radice filosofica, criticata in termini neo-scolastici come «falsa
filosofia». Ma il testo ha chiara coscienza del fatto che «i modernisti>> sono
piuttosto degli storici e degli esegeti, degli analisti e degli attori della vita
sociale e politica. Si riduce così l'aspetto interdisciplinare, che si basa su una
triangolazione tra le scienze umane, la filosofia e la teologia, a solo due poli.
Inoltre la definizione di <<modernismo» come «incontro di tutte le ere-
sie» 146 stupisce non poco: se tutte le eresie sono presenti «all' appuntamen-
to» in questo tempo preciso del cristianesimo, allora la fine è arrivata.
Questa «deriva verso il limite» del concetto stesso di eresia, corrisponde
alla visione apocalittica del mondo e segnala al contempo la difficoltà che
si ha di analizzare con il vocabolario classico dell'eresia un processo di

14S Ibid., p. 767.


t46 Ibid.

IX . «CHE COS'È UN DOGMA?• 369


trasformazione storica che non riguarda più un aspetto della dottrina cri-
stiana ma il rapporto che una cultura diversificata intrattiene o può intrat-
tenere con la totalità del mistero cristiano.
Infine bisogna dire che Pascendz; come già il Sillabo nel 1864, parte da
una luttura bipolare della storia: la società liberale e il cattolicesimo inte-
grista visti in un'opposizione invalicabile, a meno di una vittoria «utopi-
stica» dell'ultimo. Da ciò il «modernismo» risulta essere niente altro che ·
un protestantesimo liberale che si adatta alla modernità. Questa lettura
domina la storiografia fino al 1960. Cattolici e non-cattolici concordano
grosso modo sull'idea secondo cui il cattolicesimo è, per sua essenza, anti-
moderno e moderno in modo diverso. Si arriva a giustificare quindi stori-
camente la fondatezza delle condanne romane che insistono sul carattere
bastardo del modernismo. Alcuni storici, come J. Rivière, non riconosco-
no la responsabilità di alcune personalità, come M. Bionde!, che ritengo-
no non essere oggetto delle condanne. L'orizzonte cambia a partire dal
1960: non si parla più di <<modernismo nella Chiesa», titolo della grande
opera di J. Rivière (1929), me della «crisi modernista». Le condanne ro-
mane non hanno più che il ruolo di sintomo, forse privilegiato, ma in ogni
modo sintomo di una crisi che si estende su tutta un'epoca.
La sorprendente «violenza istituzionale» che circonda il movimento
modernista indica in effetti quanto profonda sia la ferita. L'effetto della
parte disciplinare dell'enciclica poi si dimostra ben temibile. Dopo
il 1907 aleggia sulla Chiesa un'atmosfera di sospetto e di denuncia; si
destituiscono dai loro incarichi i professori di seminario sospettati di
avere qualche segreta simpatia per il modernismo. Dal 1910 fino al 1967,
quanti rimangono al loro posto devono prestare il giuramento anti-mo-
dernista. La reazione integrista al modernismo è stata dura e, a parere di
molti, la Chiesa non ha mai vissuto periodi più traumatizzanti di questo.
Concludiamo con questa sorprendente testimonianza di M. Bionde! in
una lettera a L. Laberthonnière:
Mi chiedo con apprensione, se, in questa desolante enciclica Pascendi dominici
gregis, non si debba ancora e sempre cogliere, nella sua abiezione misteriosa e
mortificante, l'umanità del Salvatore, se abbiamo il diritto, a dispetto dei «lamen-
tabili» metodi di lavoro, di sbagli evidenti nei confronti del senso morale e cristia-
no, dei procedimenti ingiuriosi, e del bisogno di esercitare il potere che vi si mette
in mostra, di rifiutarla con collera e disgusto senza impararvi nulla, senza adorarsi
questo Signore ·che rimane il Dio terribile e impenetrabile, che in questo mondo
possiamo approcciare solo con una sorta di sacro terrore. Per osare levarsi quale
giudice che fa le sue rimostranze, bisognerebbe, come lei dice, essere un santo 147 •

147 M. BLONDEL - L. LABERTHONNI~RE. Correspondance... , cit., p. 208.

370 CHRISTOPH TIIEOBALD


Capitolo Decimo

La ragione e la civiltà
Dalla canonizzazione del tomismo
all'affermazione
del fondamento divino del diritto

Indicazioni bibliografiche: LEONE XIII, Enciclica sulla filosofia cristiana Aeterni Patrz:S
(4.8.1879) EE 3, nn. 49-110; Pio X, Lettera all'episcopato francese sul <<5illon» (25.8.1910), in
Actes de S.S. Pie X, t. V, Bayard, pp. 124-140; Pio XI, Enciclica sulla pace di Cristo nel regno
di Cristo Uhi arcano (23.12.1922) EE 5, nn. 1-62; Enciclica per l'istituzione della festa di Cri-
sto Re Quas primas (11.12.1925) EE 5, nn. 140-163; Enciclica sulla situazione della Chiesa nel
Reich tedesco Mit brennender Sorge (14.3.1937) EE 5, nn. 1144-1196; Enciclica sul comuni-
smo ateo Divini redemptorz"s (19.3.1937) EE 5, nn. 1197-1280; Pro XII, Summi ponti/icatus
(20.10.1939) EE 6, nn. 1-84.
M. BLONDEL, La semaine sociale de Bordeaux et le monophorisme, Bloud, Paris 1910; J.
MARITAIN, Umanesimo integrale, Borla, Roma 1980'; E. Gn..SON, Le philosophe et la théologie,
Fayard, Paris 1960; R AUBERT, Aspects divers du néo-thomisme sous le pontifica! de Léon XIII, in
G. ROSSINI (a cura di), Aspetti della cultura cattolica nell'età di Leone XIII, 5 Lune, Roma 1960;
J. CARON, Le Sillon et la démocratie chrétienne. 1894-1910, Plon, Paris 1967; E. PouLAT, Chiesa
contro borghesia, Marietti, Genova 1984; L. MALUSA, Neotom::Smo e intransigentismo cattolico. Il
contributo di G.M. Corno/di per la rin'ascz~a del Tomismo, Isitituto Propaganda Libraria, Milano,
1986; Gli scritti inediti di G.M. Cornoldz; vol. 2, 1989; P. VALLIN, L'dme comme «forme» du corps.
Une controverse entre philosophes jésuites au XIX siècle, in AA.Vv., La guérison du corps, Mé-
diasèvres, Paris 1992, pp. 17-55; L. de VAUCELLES, Théologie politique et doctrz"nes républicaines
en France de 1875-1914, in RSR 82 (1994), pp. 9-37; J.M. MAYEUR et alii (a cura di), Histoire du
Christianz:Sme, t. 11: Libéralisme, industrial::Sation, expansion européenne (1830-1914), Desclée,
Paris 1995; t. 12: Guerres mondiales et totalitarismes (1914-1958), 1990.

Dopo l'enciclica Pascend~ la radice intellettuale del «modernismo» si


ritrova in una sorta di ignoranza e quasi in una sorta di «odio verso il
metodo scolastico». In conformità alle direttive di Leone XIII, Pio X
impone come primo rimedio in tutte le istituzioni di insegnamento che «a
fondamento ·degli studi sacri si ponga la filosofia scolastica» 1• Difatti
Leone XIII aveva già notato nell'enciclica Providentissimus (1893) l'im-
portanza delle «regole di una buona e sana filosofia» per la «dimostrazio-

1 Pio X, Pascendi dominici gregis; in: Tutte le encicliche dei Sommi Pontefici, Corbaccio, Milano 1940,
p. 777.

X - LA RAGIONE E LA CIVILTÀ 371


ne dei dogmi», e aveva riprovato nella sua Lettre au clergé de France
(1899), forse per opporsi alla Lettre sul!'apologetica di M. Blondel (1896),
«queste dottrine che della vera filosofia hanno soltanto il nome e che, fran-
tumando la base stessa del sapere umano, conducono logicamente allo
scetticismo e alla irreligione». Se la prende poi col kantismo quando cri-
tica una filosofia che nega alla ragione «il diritto di affermare qualsiasi cosa
al di là delle sue proprie operazioni, sacrificando così ad un soggettivismo
radicale tutte le certezze che la metafisica tradizionale [... ] dava come ne-
cessarie e incrollabili fondamenta» 2 • L'interpretazione ecclesiale delle
Scritture e lo sviluppo del dogma non si basano forse su una «Costante»
umana, fornita dal «buon senso» o «senso comune» e ratificata dal reali-
smo della metafisica scolastica?
La sfida della restaurazione di questa metafisica è ancora più vasta. Il
fratello di Leone XIII (1878-1903), Giuseppe Pecci, gesuita fino al 1848
ed elevato al cardinalato nel 1879, aveva presentato durante la fase prepa-
ratoria del concilio Vaticano I un Votum, che si conclude con la proposi-
zione di raccomandare la filosofia di san Tommaso come rimedio a tutti i
mali della società moderna 3 • Il Pecci vede esaudito il suo voto da una delle
prime encicliche del nuovo Papa, Aeterni Patris, proprio sulla filosofia
cristiana (1879) 4, a cui fanno seguito altri atti come la lettera Jampridem
sulla costituzione dell'accademia romana di san Tommaso (1879), la lette-
ra su san Tommaso «celeste patrono degli studi eccellenti» (1880) e un
Breve relativo allo studio della Somma teologica'. Si misura l'importanza
di questi interventi quando si legge la retrospettiva fatta da Leone XIII
stesso, il 19 marzo 1902, in occasione del XXV anniversario della sua ele-
zione. Questa rilettura del pontefice mette l'enciclica sulla filosofia cri-
stiana al primo posto in un insieme di nove atti più significativi del pon-
tificato 6, con cui si delineano i contorni di ciò che E. Gilson ha chiamato
«il Corpus Leoninum della filosofia cristiana» 7 •
È nell'orizzonte di questa visione leoniana di un ordine globale del
mondo che bisogna contestuare la condanna del «modernismo sociale»
da parte di Pio X nel 1910 e dell'Action française da parte di Pio XI nel

2 LEONE XIII, Enciclica ai vescovi e al clero di FranciaDepuis lejour (8 settembre 1899), EE 3, n.1457.
J Cfr. il testo del Votum Pecci nel!' Appendice di H.J. PoITMEYER, Der Glaube vor dem Anspruch vor
dem Anspruch der Wissenscha/t. Die Konstitution iiber den katholischen Glauben «Dei Filius» des Ersten
Vatikanischen Konzils und die unveroffentlichten Voten der vorbereitenden Kommission, Herder, Freiburg
1968, pp. 471e25*.
4 L'edizione tipica arrtpliò il titolo originale che diceva: De Philosophia christiana ad menlem sancii
Thomae Aquinatis [.. .] in scholis catholicis instauranda, AAS, I, p. 255.
' Cfr. Divi Thomae Aquinatis Summa Theologica, Indices, Lexicon, Documenta, Roma 1894. La lettera
Jampridem ampliò nuovamente il proposito parlando appunto di «filosofia cattolica>>.
6 LEONE XIII, Annum ingressi (1902), EE 3, nn. 2146-2184.
7 E. Gn.soN, Le philosophe et la theologie, Fayard, Paris 1960, p. 236.

372 CHRISTOPH THEOBALD


1926. Le esperienze dell'Azione cattolica al tempo di quest'ultimo papa e
la riflessione di Pio XII sui fondamenti del diritto all'inizio della seconda
guerra mondiale non cambieranno per nulla la struttura dottrinale della
«filosofia cattolica», ma prepareranno le ulteriori trasformazioni che si
attueranno al momento del Vaticano II.

I. L'ENCICLICA AETERNI PATRIS

L'introduzione dell'enciclica si iscrive nella logica del rispettivo prolo-


go delle due Costituzioni del Vaticano I, accentuandone ancora di più il
carattere universale della missione della Chiesa, «comune e suprema ma-
estra dei popoli» e allargandola competenza del suo «magistero perpetuo»
alla «religione» in quanto tale, minacciata «dalla filosofia e vuoti raggiri»
(Col 2, 8) 8• Con questo presupposto Leone XIII indica quali siano i due
ambiti del suo intervento: vigilanza epistemologica perché «secondo la
norma della fede cattolica fossero dovunque insegnate tutte le discipline
umane, ma specialmente la filosofia da cui dipende in gran parte la retta
comprensione di tutte le altre»; e attenzione del tutto particolare ali' in-
flusso degli intellettuali nella società:
Si .scopre certamente che la causa feconda dei mali che ci affliggono e di quelli
che ci sovrastano, è riposta nelle colpevoli dottrine che sulle realtà divine e umane
vennero pronunciate prima dalle scuole dei filosofi e si insinuarono poi in tutti gli
ordini della società, accolte da. moltissimi 9 •

Questa eccessiva stima del ruolo degli intellettuali nella società, simme-
trica alla preponderanza conferita al dato «dottrinale» in questa fase della
storia dei dogmi, si collega con la logica apocalittica di continua degrada-
zione con cui ci si è imbattuti all'inizio della Dei Filius, e che si ritrova più
volte nel corso del testo:
Infatti sotto lo stimolo degli innovatori del secolo XVI nacque il piacere di filoso-
fare senza il minimo riguardo alla fede, chiesta e data scambievolmente la facoltà
di escogitare tutto ciò che piacesse o si volesse. Com'era naturale, le varie maniere
di filosofare si moltiplicarono più del dovuto e sorsero tesi diverse e contradditto-
rie, anche su quelle cose che sono capitali nel sapere umano. Dalla molteplicità
delle tesi si p·assò assai spesso alle incertezze è ai dubbi: quanto poi sia facile per
l'uomo precipitare dal dubbio nell'errore non c'è chi non lo veda 10•

8 LEONE XIII, Aelerni Patris (4. 08. 1879), EE 3, nn. 49-50.


9 Ibid., 50-51.
IO Ibid., 95.

X - LA RAGIONE E LA CIVILTÀ 373


La buona comprensione del testo richiede che si distinguano le sue tre
parti: un primo sviluppo riguarda il livello dei principi; una rilettura della
storia della filosofia conduce alla canonizzazione della filosofia di san
Tommaso e, infine, vengono date alcune indicazioni disciplinari.

1. Il principio
La prima parte si fonda sul principio paradossale, uscito dal tomismo e
codificato dalla Dei Filius, secondo cui la «sottomissione della ragione
umana alla divina autorità» 11 non la umilia ma, al contrario, la perfeziona:
Infatti non per niente Dio ha acceso nella mente umana il lume della ragione; ed
è molto lontano dalla verità ritenere che la luce della fede aggiunta (superaddita) 12
alla ragione ne spenga le capacità o la affievolisca, poiché anzi la perfeziona, e
accresciutane la potenzialità, la rende adatta a cose superiori.

Su questa base Leone XIII distingue quattro <<Usi ben regolati della fi-
losofia».
1. Espressa sotto diverse forme (istituzione preparatoria alla fede cri-
stiana, preludio e ausiliaria del cristianesimo, pedagogo che conduce al
Vangelo) la sua prima funzione consiste a «spianare e a preparare la stra-
da della vera fede, e a preparare convenientemente gli animi dei suoi alun-
ni a ricevere la rivelazione» n. La Aeterni Patris a questo punto ricorda
l'inizio della lettera ai Romani (1, 20 e 2, 14ss.) 14 e l'interpretazione che ne
fa il capitolo II della Dei Filius. Ma trasforma significativamente e in modo
strategico: ciò che il testo diceva in riferimento alla necessità della Rivela-
zione - «nella presente condizione del genere umano» 15 - non riducendo
più questa necessità solo al tempo dopo Cristo 16 ; ma si accentua soprat-
tutto il significato anti-tradizionalista del paragrafo in questione, eclissan-
do così nuovamente il carattere formale e giuridico delle affermazioni del
concilio circa le possibilità della ragione naturale, a vantaggio di una fran-
ca attestazione della loro realizzazione storica nella filosofia pagana:
Ne deriva che alcune verità o divinamente rivelate, o strettamente connesse con.
l'insegnamento della fede 17 , furono conosciute, per mezzo della ragione naturale,
anche dai filosofi pagani, e dagli stessi dimostrati e difesi con argomenti propri.

11 Cfr. Ibid., 50.


12 È qui che si abbozza il rischio di una comprensione estrinsecista dei rapporti tra «natura» e «SO·
prannaturale» (lbid., 52).
Il Ibid., 53.
14 La seconda citazione circa la legge scritta nei cuori dei pagani era assente nella Dei Filius.
" Cfr. supra, pp. 247ss.
16 EE 3, nn. 55ss.
17 L'enciclica riprende l'argomentazione di Franzelin sulle cose «connesse>> (cfr. supra, p. 250).

374 CHRISTOPH THEOBALD


A questo punto l'enciclica cita l'inizio della lettera ai Romani che assu-
me con ciò stesso un valenza storica.
È quindi assai opportuno utilizzare al meglio e a vantaggio della rivelazione que-
ste verità, conosciute dagli stessi filosofi pagani, per mostrare concretamente che
anche la sapienza umana e gli stessi avversari rendono favorevole testimonianza
alla fede cristiana 18.

2. La seconda funzione della filosofia è propriamente apologetica (cfr.


capp. I e III della Dei Filius): la dimostrazione dell'esistenza di Dio vie-
ne seguita dalla presentazione delle sue perfezioni e, in particolare, del-
la: sua identità con la verità (non può ingannare né ingannarsi), «da ciò
chiaramente ne consegue che la ragione umana con le sue prove procu-
ra pienissima fede e autorità alla parola di Dio»; in seguito viene la
dimostrazione della «dottrina del Vangelo» attraverso mirabili segni e
la presentazione della Chiesa quale «grande e perenne motivo di
credibilità».
3-4. È ancora il ricorso alla filosofia a far sì che «la sacra teologia
assuma e rivesta natura, forma e carattere di vera scienza». Questa
terza funzione (esposta nello spirito del cap. IV della Dei Filius)
viene completata (quarta funzione) da un ultimo appello alla difesa
della dogmatica cattolica che si deve tenere sullo stesso terreno della fi-
losofia: ·
Siccome i nemici del nome cattolico, volendo combattere la religione, il più
delle volte prendono dalla filosofia le armi da guerra, così i difensori del-
la sacra dottrina traggano molte cose dalla filosofia in difesa delle verità
rivelate 19•

Questa prima parte termina con una sorta di regola generale tratta dal
cap. IV della Dei Filius:
Quanto poi a quei capi di dottrina, che l'intelligenza umana può naturalmente
comprendere, è giustissimo che la filosofia usi nei loro confronti il suo metodo,
i suoi principi e argomenti: non però in modo che sembri volersi audacemente
sottrarsi alla divina autorità. Anzi, essendo indubbio che le cose manifestate per
mezzo della rivelazione sono infallibilmente vere e che quelle che contraddico-
no la fede contraddicono anche la retta ragione, il filosofo cattolico sappia che
farebbe ingiuria alla fede, se abbracciasse una conclusione riconosciuta contra-
ria alla dottrina rivelata 20 •

18 Aeterni Patris, EE 3, n. 55.


19 lbid., 62.
20 lbid., 64.

X· LA RAGIONE E LA QVILTA 375


2. La storia della filosofia e il dottore angelico

Leone XIII considera il percorso storico della seconda parte come una
dimostrazione dei principi appena esposti. Dopo un lungo excursus sul
periodo dei Padri (i quali «intrapresero a studiare profondamente i libri
degli antichi filosofi [ ... ] prudentemente sceverandole, tennero per sé
quelle che vi trovavano espresse secondo verità e saggiamente pensate,
correggendo e rifiutando le altre») 21 , passa ad un secondo sviluppo sui
«dottori del Medioevo che vanno sotto il nome di scolastici» che «intra-
presero un'opera di immensa mole, vale a dire raccogliere con diligenza la
feconda e ubertosa messe di dottrina sparsa nei moltissimi volumi dei santi
padri, e dopo averla raccolta la riposero come in un solo luogo, a uso e
vantaggio dei posteri» 22 •
A questo punto, riferendosi alla Bolla Triumphantis di Sisto V (1588),
Leone XIII fa il suo celebre elogio di san Bonaventura e, soprattutto, di
Tommaso che «come annota il cardinale Gaetano "perché tenne in som-
ma venerazione gli antichi sacri dottori, per questo raggiunse in certo qual
modo la conoscenza di tutti"»:
Tommaso raccolse le loro dottrine come membra dello stesso corpo sparse qua e
là e ne compose un insieme organico, le dispose con ordine meraviglioso e le ac-
crebbe con grandi aggiunte così da meritare di essere considerato eccellente pre-
sidio e gloria della chiesa cattolica 23 •

Può sorprendere il fatto che il nome di san Tommaso non compaia


prima dell'inizio dell'ultimo terzo di un'enciclica destinata alla «restaura-
zione» della sua filosofia. Un esame attento del testo dimostra tuttavia che
il «corpo dottrinale» della prima parte trova proprio in lui la sua espres-
sione più perfetta. Ma soprattutto il Dottore universale «che ha ereditato
l'intelligenza di tutti» viene messo da Leone XIII, a motivo del reafismo
del suo pensiero e della sua capacità di combattere gli errori, in una posi-
zione quasi «trans-storica»:
A ciò si deve ancora aggiungere che il dottore angelico speculò le conclusioni fi-
losofiche nelle intime ragioni delle cose e nei principi universalissimi, che nel loro
seno racchiudono i semi di verità pressocché infinite, che a tempo opportuno e
con abbondantissimo frutto sarebbero poi stati fatti germogliare dai futuri mae-
stri. Avendo egli usato tale modo di filosofare anche per confutare gli errori, riu-
scì da solo a debellare tutti quelli dei tempi passati e fornì potentissimi mezzi per
mettere in rotta quelli che coil'perpetuo awicendarsi sarebbero sorti dopo di lui 24 •

21 Ibid., 69.
22 Ibid., BO.
2J Ibid., 83.
24 Ibid., 85.

376 CHRISTOPH THEOBALD


Non sorprende forse il fatto che il percorso storico si trasforma qui in
storia della ricezione della filosofia di san Tommaso da parte della Chie-
sa? L'enciclica conclude la sua rilettura ricordando l'onore risèrvato solo
a questo Dottore da parte dei Padri del concilio di Trento che «in mezzo
all'aula delle adunanze, insieme ai codici della sacra Scrittura e ai decreti
dei romani pontefici [vollero] stesse aperta anche la Somma di Tommaso
d'Aquino per ricavarne consigli, ragioni e sentenze» 2'. Partendo da que-
sto punto di non ritorno il testo mette fine alla sua breve lettura della
decadenza della filosofia moderna, ritornando così al suo punto di par-
tenza e al prologo della Dei Filius.
La terza parte - peraltro breve - espone quattro motivi che depongono
a favore della restaurazione della filosofia tomista: l'educazione dei giova-
ni per la difesa della religione, la conversione di quanti «professano di
avere come maestro e guida la sola ragione», il rovesciamento di «quei
principi del nuovo diritto che sono dannosi per la tranquillità dell'ordine
sociale e il benessere pubblico» e, infine, la promozione di tutte le scienze
umane. Per quanto riguarda il terzo motivo vi si trova già in esso tutto il
programma di Leone XIII. Sul terreno dell'epistemologia, il papa insiste
non solo sull'assenza di contraddizione tra la fisica moderna e i principio
filosofico della Scolastica, ma pure sul fatto che queste scienze avrebbero
un sicuro vantaggio da una restaurazione dell'antica filosofia 26 •

3. Valutazione

Dopo le due Costituzioni del Vaticano I, l'enciclica Aeterni Patris che


completa la costruzione del sistema dottrinale del cattolicesimo, è il testo
che ha maggiormente pesato in questa fase di dogmatizzazione dei fonda-
menti della fede. Più di un punto deve essere attentamente ritenuto:
1. Si è sottolineato a proposito della Dei Filz'us e della Pastor Aeternus
la difficoltà che ebbero i Padri conciliari ad armonizzare il carattere for-
male e giuridico delle loro principali affermazioni dottrinali e l'orienta-
mento più concreto e più storico, introdotto da parte del «tradizionali-
smo moderato». Nell'enciclica Aeterni Patris, queste due prospettive sono
distinte e distrjbuite su due parti diverse del testo, senza essere armoniz-
zate tra loro più di tanto. La prima ha il predominio. In uno spirito anti-
tradizionalista, l'argomentazione formale è spinta, qua e là, in direzione
dell'estrinsecismo.: la possibilità (Dei Filius) della ragione naturale di pro-

2> Ibid., 93.


26 Ibid., 100-106.

X · LA RAGlONE E LA CIVILTÀ 377


vare l'esistenza di Dio e la credibilità del fatto evangelico, come pure della
Chiesa, vengono trasformate in dimostrazione effettiva. La difesa di una
figura realista della ragione è iscritta in una lotta «apocalittica>> con la fi-
losofia moderna. Questo stile scoraggia ogni tentativo di opporre i due
pontificati di Pio IX e di LeoneXIII 21 •
Detto ciò, l'aspetto storico è ugualmente presente: il papa non smette
di evocare l'opera della Provvidenza che, attraverso il Cristo «virtù e sa-
pienza di Dio» (1 Cor 1, 24), «nel quale sono nascosti tutti i tesori della
sapienza e della scienza» (Col 2, 3), restaura la scienza umana 28 • In questa
seconda prospet.tiva, più sensibile alla presenza di Dio nella totalità della
storia, il testo non si accontenta di affermare che, tra i filosofi senza fede,
anche i più sapienti in molte cose errarono miseramente 29 ma dimostra
anche positivamente come la sapienza si fa strada nei dottori della Chiesa,
portando finalmente al Medioevo e a Tommaso d'Aquino, ad «aver con-
giunto tra loro con strettissimo vincolo la scienza umana e quella divina» 30 •
Ma pur facendo uso del <<metodo della Provvidenza» che opera nella sto-
ria, è ai princìpi che alla fine si viene ricondotti: alla concezione strategica
di una ragione il cui realismo consiste nel riconoscere i suoi limiti e ad
aprirsi da se stessa all'autorità divina.
Roger Aubert, a cui si deve il primo tentativo di contestuare l'enciclica
nella storia della filosofia cattolica del XIX secolo 31 , ritiene che la sua op-
posizione e quella del neo-tomismo al tradizionalismo è stata <<molto più
rispettosa delle possibilità della ragione umana», anche se riconosce come
«lo spirito con cui si procede è molto simile: è uno spirito di reazione con-
tro il disastro prodotto dall'individualismo dello spirito umano lasciato a se
stesso» 32 • Questa visione è stata corretta da P. Vallin il quale ritiene invece
che <<la restaurazione autoritaria della scolastica e del tomismo in particola-
re rappresenta una regressione in rapporto alla più grande ricchezza intel-
lettuale dei primi del XIX secolo» pur notando che «si inserisce in un mÒvi-
mento più ampio, in cui il militantismo cattolico esce dall'agitazione politi-
ca per occuparsi di più di un'azione sociale profonda»)). Precisando i con-
torni del gruppo da cui l'enciclica è venuta fuori (G. Pecci, alcuni gesuiti

27 Cfr. anche E. POULAT, Modernistica. Horizons, physionomies, débats, Nelles éd. latines, Paris 1982,
p. 86.
28 Cfr. Aeterni Patris, EE 3, nn. 69ss.
29 Ibid., 68.
JO Ibid., 82.
Jl R. AUBERT, Aspects divers du néo-thomisme sous le pontificai de Léon XIII, in: Aspetti della cultura
cattolica nell'età di Leone XIII, G. Rossini (a.cura di), Cinque Lune, Roma 1960. Questo testo analizza la
recezione dell'enciclica e la riorganizzazione dell'insegnamento filosofico sotto Leone XIII.
J2 Ibid., p. 152.
JJ P. VALLIN, Indications de recherche, Le Centenaire de l'enc:yclique «Aeterni Patris», in: Nouvelles de
l'ICP (marzo 1980), p. 69; J. CHATILLON, Les origines de l'enc:yclique «Aeterni Patris» et la renaissance tho·
miste du XIX sz'ècle, ibid., pp. 16-30 e P. VALLIN, L'Jme comme «forme» du corps. Une controverse entre
philosophesjésuites au XIX siècle, in: AA.Vv., La guérison du corps, Médiasèvres, Paris 1992, pp. 71ss.

378 CHRISTOPH THEOBALD


de La Civiltà Cattolica, C. Mazella e G. Cornoldi), Vallin fa vedere come
agli occhi di Cornoldi (1822-1892), uno dei più influenti difensori del neo-
tomismo, il fatto di adottare la tesi dell'ilemorfismo stretto 34 rappresenta-
va la «prova risolutiva di ortodossia», perché essa permetteva di afferma-
re, in nome dell'unione del composto umano, la giurisdizione della filoso-
fia cattolica sulle scienze e anche sulla politica n. Tutto ciò spiegherebbe
le indicazioni piuttosto «concordiste» in materia epistemologica e politi-
co-sociale della terza parte dell'enciclica.
2. Detto ciò, non si può negare che il testo distingue tra i princìpi e la
figura storica di una certa filosofia tomista. Nel 1914 sotto Pio X, la Con-
gregazione degli studi imporrà alle Facoltà 24 tesi di filosofia tomistal 6 •
L'enciclica, più aperta, canonizza soltanto - secondo l'espressione di E.
Gilson - «un genus philosophandi, la maniera di filosofare inaugurata dai
Padri del II secolo dell'era cristiana»l 7 • A motivo dell'universalità del mes-
saggio cristiano, questo modo di procedere potrebbe comprendersi a par-
tire dall'esigenza di tradurre il messaggio cristiano: «Contrariamente a ciò
che fu definito "preambula fidei", e sottintendendo questi profondamen-
te, la fede richiede delle costanti che, in ogni uomo, e perché sia uomo,
condizionano lo stesso funzionamento dell'intelletto. Si trova così, corri-
spondente alla cattolicità della fede, una vera cattolicità della ragione»l 8 •
Si capisce allora che l'intelligenza di questo principio porta alcuni cattoli-
ci come Blondel, Laberthonnière e altri, a prendere le distanze in rappor-
to al tomismo adottando una prospettiva diversa, più vicina alle intuizioni
del «tradizionalismo moderato» e al «metodo della Provvidenza», al fine
di rassodare i legami tra ragione e storia. La relativa indeterminazione
dell'enciclica permette indubbiamente una simile lettura di questo testol 9 ,
che nondimeno porta quanti la fanno nella tormenta del combattimento
con la filosofia tomista circa il realismo metafisico.
3. Distinguere così tra una filosofia, nel caso quella di san Tommaso, e
i principi di un modo di fare della filosofia in relazione alla fede, rende
più sensibili al carattere strategico dell'impresa leoniana, sentita dalla

H Tesi aristotelica secondo cui i composti concreti vanno analizzati secondo l'unione di una materia
prima e di una/orma, (l'anima spirituale per l'uomo).
J5 P. VALLIN, lndications de recherche, cii., pp. 7lss.
J6 DxS 3601-3624 con una lettera di Benedetto XV (1917) al Generale dei gesuiti sull'obbligo di ac-
cettare l'orientamento pur conservando la libertà in rapporto a qualche tesi.
J7 E. GILSON, Le philosophe et la théologie, cii., p. 215.
JS S. BRETON, La philosophie dans la cité chrétienne, in: Nouvelles de l'Insttlut catholique de Paris (apri-
le 1980) p. 63.
J9 Cfr. ad esempio L. 0LLÉ-LAPRUNE, Ce qu'on va chercher à Rome, in: La Quinzaine (15 aprile 1895),
p. 391: «L'enciclica era liberante. Si è pensato che essa preparasse un nuovo asservimento. Che la si legga
tutta intera. Essa vuole che si rifaccia in questo secolo ciò che san Tommaso fece nd suo».

X - LA RAGIONE E LA CIVILTÀ 379


maggior parte dei commentatori odierni come estranea e contraria al-
1' esperienza filosofica propriamente detta 40 • Ma il richiamo alla cattolicità
della ragione non è solo subordinata a degli interessi dottrinali, ma veico-
la anche e soprattutto una concezione del sociale e del politico che fa un
po' fatica a misurare l'alterità stessa della ragione.

II. FILOSOFIA CRISTIANA


E FONDAMENTI DELLA SOCIETÀ

L'esposizione dei principi di una modalità cristiana di fare filosofia ri,


marrebbe effettivamente astratta, se si dimenticasse la sua portata sociale
e politica che è quella di «procurare una pace più perfetta e una sicurezza
più grande» 41 • Si arriva così a toccare l'ultimo passo della dogmatizzazio-
ne dei fondamenti, che a partire dal Vaticano I ingloba pure «i fonda-
menti della società» secondo lo schema apocalittico per nulla cambiato
dai tempi di Pio IX e che si ritrova al cuore della retrospettiva di Leo-
ne XIII sui suoi 25 anni di pontificato:
Da quel sistema di ateismo pratico doveva necessariamente derivare, e derivò, una
profonda perturbazione dell'ordine morale, per essere la religione il precipuo
fondamento della giustizia e dell'onestà, come pure intravidero famosi savi del-
l'antichità pagana. Poiché rotti i vincoli che legano l'uomo a Dio, assoluto e uni-
versale legislatore e giudice, non si ha più che una parvenza di morale. [... ] E fa-
tale conseguenza è quella di costituire l'uomo legge a se stesso. Il quale [. .. ] non
cercherà che un pasto terreno nella somma dei godimenti e degli agi della vita
[... ] ingenerando infine il disprezzo delle leggi e della pubblica autorità e una
generale licenza di costumi, che trae con sé un vero decadimento della civiltà. 1[ ... ]
La realtà che tocchiamo con mano conferma anche troppo le nostre deduzioni,
ed è visibile che, se non si ripara in tempo, le basi della civile convivenza vacilla-
no, scardinandosi anche i sovrani principi dei diritto e della morale eterna 42 •

1. La visione leoniana di un ordine globale

In questa retrospettiva, Leone XIII redige una lista di nove atti del suo
pontificato, elencati secondo una distribuzione sistematica 43 , l'enciclica
Aeterni Patris (1879) sulla filosofia cristiana viene citata proprio all'inizio

40 Cfr. ad esempio S. BRETON, La philorophie dans la cité chrétienne, cit., pp. 51-68.
41 LEONE XIII, Aeterni Patrir, EE 3, nn. 102ss.
42 Io., Annum ingressi, EE 3, nn. 2155-2156.
" Ibid., 2167.

380 CHRISTOPH TIIEOBALD


dell'elenco. Subito dopo viene un documento di antropologia cristiana,
l'enciclica Libertas praestantissimum (1888) «sulla libertà umana» 44 , e
un'altra «sulla società domestica di cui il matrimonio è la base e il princi-
pio», l'enciclica Arcanum divinae sapientiae (1880) 45 • Il quarto documen-
to, l'enciclica Humanum genus (1884) 46 , propone una lettura della storia
che si basa sulle due città di cui parla sant'Agostino. I due testi seguenti,
l'enciclica Diuturnum (1881) «sull'origine del potere civile» 47 e l'enciclica
Immortale Dei (1885) «sulla costituzione cristiana degli Stati» 48 , si oppon-
gono alle concezioni contrattuali dell'origine e del funzionamento dei pote-
ri, riaffermando invece l'origine divina di ogni autorità. Da parte sua l'enci-
clica dell'adesione alla Repubblica francese, Au milieu des sollicitudes
(1892), che non compare nell'elenco del 1902, ridice prima di tutto la tesi
cattolica dei due precedenti documenti per riconoscere in seguito «è un
fatto scolpito cento volte nella storia che il tempo, questo grande trasforma-
tore di tutto quaggiù, opera nelle loro istituzioni politiche profondi muta-
menti>> 49 • Questo riconoscimento di fatto delle istituzioni politiche esistenti,
in nome del principio del minor male è accompagnato da una controffensi-
va sulla questione sociale ' 0 che si trova nell'enciclica Quod Apostolici Mune-
ris (1878) «sul socialismo» 51 e nell'enciclica Rerum Novarum (1891) «sulla
condizione degli operai»n. Questo insieme dottrinale si conclude con l'en-
ciclica Sapientiae christianae (1890) «sui principali doveri fondamentali dei
cittadini cristiani»'3 , autentico sunto di antropologia individuale e sociale
che contestua i doveri dei soggetti (l'obbedienza in particolare) nella dupli-
ce appartenenza alla società ecclesiale e alla società nazionale.
Non è questo l'ambito in cùi attraversare questo corpus filosofico mol-
to complesso. Riteniamo soltanto qualche caratteristica collegata alla dog-
matizzazione dei fondamenti. Il punto centrale è l'insistenza sull'unità di
questa visione globale' 4 che, indubbiamente, ammette una differenza ge-

44 LEONE XIII, Enciclica sulla libertà umana, Libertas praestantissimum (20.6.1888), EE 3, nn. 590-
669.
45 Io., Enciclica sul matrimonio cristiano, Arcanum divinae sapientiae (10.2.1880), EE 3, nn. 111-181.
46 Io., Enciclica sulla frammassoneria, Humanum genus (20.4.1884). EE 3, nn. 381-432.
47 Io., Encielica sull'origine del potere civile, Diuturnum (29.6.1881), EE 3, nn. 221-256.
48 Io., Enciclica sulla costituzione cristiana degli stati, Immortale Dei (1.11.1885), EE 3, nn. 445-525.
49 lo., Enciclica al clero francese e a tutti i cattolici, Au milieu des sollicitudes (16.2.1892), EE 3, nn.
970-1013.
50 L. DE VAUCELLES, Théologie politique et doctrines républicaines en France de 1875-1914, RSR, 82
(1994), pp. 9-37. .
51 LEONE XIII, Enciclica sugli errori moderni, Quod Apostolici muneris (18.12.1878), EE3, nn. 21-48.
52 Io., Enciclica sulla éondizione degli operai, Rerum novarum (165.1891), EE 3, nn. 861-938.
53 lo., Enciclica sui doveri fondamentali dei cittadini cristiani, Sapientiae christianae (10.1.1890), EE
3, nn. 732-794.
54 Cfr. Libertas praestantissimum che introduce l'immagine fondamentale dell'unione del corpo e
dell'anima per stabilire l'accordo tra il potere civile e il potere sacro.

X· LA RAGIONE E LA CIVILTÀ 381


rarchica di livelli di realtà, una certa autonomia delle scienze e del potere
civile ad esempio, ma rifiuta la loro emancipazione in rapporto all' autori-
tà divina. Il concetto di «natura» gioca qui, sotto la figura della <<legge
naturale», della «ragione naturale» o della «retta ragione», una funzione
essenziale, che permette il rispetto dei diversi ambiti e il loro inserimento
in uno schema gerarchico di diritti, opposto «all'anarchia della ragione
emancipata della fede» 55 •
Un secondo aspetto riguarda la relativa flessibilità di questo sistema,
sottolineato da E. Troeltsch che ha sempre rifiutato di concentrare il cat-
tolicesimo nell'opposizione alla modernità. Così egli scrive nel 1909: «La
chiusura [dei gruppi religiosi in rapporto alla modernità] è sempre relati-
va e rimangono soprattutto collegati alla vita quotidiana per mezzo di
molti canali» 56 • La distinzione tra «tesi» e «ipotesi» è effettivamente un
metodo tipicamente cattolico per adattare il sistema dottrinale alle circo-
stanze variabili, senza ritornare sui principi 57 • È su questo che si opera
pure, durante il pontificato di Leone XIII, uno spostamento del ricono-
scimento di/atto delle istituzioni politiche verso un interesse crescente per
la questione sociale: falla nella civiltà moderna, che apre, lo si spera, un
nuovo modo di comprovare la credibilità delle esigenze del cattolicesimo
all'interno della modernità.
Il terzo aspetto di questa visione leoniana del mondo è invece di ordine
strategico. Si volge alla restaurazione dell'armonia delle forze opposte nei
confronti del ritorno al cattolicesimo:
Al grembo del cristianesimo deve dunque tornare la traviata società, se le sta' a
cuore il benessere, il riposo, la salute. [. ..) Il cristianesimo non entra nella vita
pubblica di uno stato senza rinvigorirla nell'ordine [. .. ] Se trasformò le genti pa-
gane [. .. ] egli saprà ugualmente, dopo le terribile scosse dell'incredulità, ricom-
porre nell'ordine gli stati e i popoli odierni. Ma non è detto tutto: il ritorn6 al
cristianesimo non sarà rimedio verace e compiuto, se non significa ritorno e amo-
re alla chiesa una, santa, cattolica e apostolica. Poiché il cristianesimo si attua e si
immedesima nella chiesa cattolica, società sovranamente spirituale e perfetta, che
è il mistico corpo di Gesù Cristo ed ha per suo capo visibile il romano pontefice,
successore del primo degli apostoli 58 •

55 LEoNE XIII, Armum ingressi, EE 3, n. 2152.


56 E. TROELTSCH, Der Modernismus (1909) in: Gesammelte Schri/ten II, Mohr, Tiibingen 1922, p. 65.
57 Cfr. la notizia storica diJ. LECLER, Àpropos de la distinction de «la thèse» et de «l'hypothèse», RSR,
41 (1953), pp. 530·534. La prima traccia si trova in un articolo de «La Civiltà Cattolica>> del 2 ottobre 1863:
«Queste libertà moderne, in quanto tesi, vale a dire come principi universali che riguardano la stessa na-
tura umana in se stessa e lordine divino del mondo, sono assolutamente condannabili [ ... ]. Ma a titolo di
ipotesi, vale a dire come disposizioni appropriate alle condizioni speciali di questo o quel paese, possono
invece essere legittime e i cattolici possono simpatizzare per loro e difenderle».
58 LEONE XIII, Annum ingressz; EE 3, nn. 2164-2165.

382 CHRISTOPH TIIEOBALD


L'ultimo aspetto della visione leoniana consiste effettivamente in una
concezione del magistero pontificio che allarga e trasforma i dati del Va-
ticano I. Ci si può riferire a un testo del Corpus Leoninum, l'enciclica Sa-
pientiae christianae (1890), che modella la sua definizione del ruolo del
magistero su un'analisi dell'«obbedienza cattolica» che si fonda d'altron-
de su un lungo passo della Somma. «L'obbedienza deve essere perfetta
perché è richiesta dalla fede stessa, ed 'ha in comune con la fede che non
può essere separata da essa» 59 • Definendo poi «i limiti dell'obbedienza[. .. ]
all'autorità dei pastori e specialmente del vescovo di Roma» Leone XIII
riprende la dottrina del giudizio solenne e del magistero ordinario e uni-
versale, per aggiungere in seguito, riferendosi esplicitamente alla struttura
della Somma una cçmclusione significativa:
Infatti, delle verità contenute nella rivelazione, alcune riguardano Dio, altre l'uo-
mo stesso e le cose necessarie alla salvezza eterna dell'uomo. Ora, questo doppio
ordine di verità, cioè quello che si deve credere e quello che si deve operare, ap-
partiene per diritto divino, come abbiamo detto, alla chiesa e al papa. Per tali
motivi il papa deve poter giudicare con la sua autorità quali siano le cose contenu-
te nella parola di Dio, quali dottrine sono ad esse conformi, e quali no. Allo stesso
modo deve indicare ciò che è onesto o turpe; ciò che si deve fare e cosa sfuggire
per raggiungere la salvezza; altrimenti non sarebbe più il sicuro interprete della
parola di Dio, né guida sicura all'uomo nell'agire 60 •

Questo paragrafo sembra andare nella linea di quanti, dopo la disserta-


zione di J.M.A. Vacant (1887), estendono l'infallibilità al «magistero ordi-
nario» del papa. La prerogativa del pontefice romano di «determinare nei
due ordini ciò che bisogna credere e ciò che bisogna fare» viene qui presen-
tata come condizione perché egli possa esercitare il suo ruolo di <<interprete
infallibile della parola di Dio» e di «guida sicura della vita umana». Quanto
poi all'oggetto del magistero pontificio si inglobano qui i «due ordini>> nella
proposizione positiva di una visione cattolica ed integrale del mondo (in-
trinsecamente legata alla fede) che va largamente oltre ciò che il Vaticano I
afferma del «connesso». Ci si riferisce soprattutto ad una morale che diven-
terà nel xx secolo il campo privilegiato dell'esercizio magisteriale. Indub-
biamente i predecessori di Leone XIII hanno già scritto delle encicliche.
Ma questo genere letterario si è ormai trasformato in un mezzo ordinario
del governo pontificio: utilizzato di frequente e introdotto in seguito in al-
cune serie omÒgenee (encicliche bibliche, morali, politiche, sociali ecc.)
permette di sistematizzare progressivamente la visione dottrinale della Chie-
sa romana, incarnata nella successione dei corpus pontifici.

59 ID., Sapientiae christianae, EE 3, n. 765.


60 Ibid., 766.

X · LA RAGIONE E LA CIVILTÀ 383


2. La «questione sociale» e la teologia fondamentale

La «questione sociale» awertita da molti movimenti ecclesiali in Euro-


pa diventa a partire dalla fine dell'ultimo secolo un «luogo» essenziale
della teologia fondamentale, per il fatto che è in questo settore che si at-
tua concretamente la verifica storica della distinzione tra «tesi» e «ipote-
si» e del «sistema dottrinale» soggiacente. Questa sorta di test pratico
provoca in effetti la «terza fase» della crisi modernista, che culmina nella
condanna del «modernismo sociale» da parte di Pio X nel 1910 e dell'Ac-
tion française da parte di Pio XI nel 1926.
Un testo di M. Blondel su La Semaine sociale de Bordeaux, apparso
nel 1909-1910, precisa molto bene la posta in gioco. Blondel analizza la
pratica del «cattolici sociali» (come si diceva all'epoca) traendone l'im-
plicita filosofia che si basa su tre elementi: il primo è di ordine episte-
mologico e riguarda «il rapporto delle idee con le azioni da cui proce-
dono e a cui tendono», la seconda riguarda «la relazione dei diversi or-
dini che compongono l'armonia del mondo» e il terzo riguarda «la stes-
sa unità della nostra sorte, il rapporto dell'ordine naturale con l'ordine
soprannaturale e, di conseguenza, anche tutta l'attitudine dell'uomo, del
cittadino, del filosofo, del teologo nei loro reciproci doveri» 61 • Di que-
sto lungo testo citiamo il celebre discorso che si suppone rivolto dai
cristiani sociali ai loro contemporanei. L'autore analizza con loro la lo-
gica delle esperienze sociali e gli insegnamenti che fanno spuntare
alcuni errori collettivi, al fine di abbozzare attraverso questa via imma-
nente «il ritorno degli uomini e dei popoli verso il cristianesimo at-
traverso qualcuna di quelle stesse vie che, precedentemente, li avevano
allontanati»:
Noi cerchiamo con voi le soluzioni positive che lo stesso sviluppo della civiltà
scientifica rinnova e complica incessantemente[ ... ]. Ma questa stessa civiltà scien-
tifica si attacca inevitabilmente ad alcune verità superiori senza le quali non pote-
te custodire e sviluppare completamente [... ] nessuno dei vostri inizi di progres-
so, di giustizia fraterna, di solidarietà. Noi vi chiediamo semplicemente di rimare
coerenti, di non diventare nemici di voi stessi smentendo la vostra più vera volon-
tà, la più sincera, la migliore. Di delusione in delusione [... ] voi confessate, alme-
no implicitamente attraverso degli atti espressivi e delle leggi riparatrici, di non
poter sussistere se non accettando alcune di queste verità, [... ] che vi apparireb-
bero ormai in una nuova luce acquistata a caro prezzo. Ebbene! Queste stesse
verità, queste verità vitali, ma frammentarie, non possono radicarsi e fruttificare

61 M. BLONDEL, La Semaine sociale de Bordeaux et lo monopborisme, Bloud, Paris 1910, pp. 20ss.; cfr.
R. VIRGOULAY, Blondel et le modernisme. La pbilosophie de l'action et les sciences religieuses (1896-1913),
Cerf, Paris 1980, pp. 455-501. /

384 CHRISTOPH THEOBALD


se non andate oltre accettando un ordine trascendente e riconoscendo la verità
intera: in tal modo l'equità sociale, la fraternità umana, [. .. ] dovranno avere la loro
piena realtà, feconda e duratura aderendo al cristianesimo che solo ne dà tutta la
giustificazione [. .. ].Ci sono nella vita dei.popoli come delle persone, delle ore di
riflessione e di scelte decisive. Il lavoro nascosto della verità dentro di noi arriva
prima o poi al punto in cui bisogna fare libero uso della sua ragione e della sua
libertà, sia per ridiscendere al di sotto di sé,[ ... ], chiudendosi a certezze e a obbli-
ghi più alti, sia per ascendere alla verità completa di cui la Chiesa cattolica ha il
deposito 62 .

Questo testo importante per capire la storia dell'Azione cattolica si


iscrive perfettamente nella visione leoniana del mondo di cui riproduce i
parametri essenziali: struttura gerarchica degli ordini di realtà, tentativo
di ripartire dai vuoti della civiltà moderna e volontà di ricondurre gli uo-
mini e i popoli verso un cattolicesimo integrale. La filosofia che soggiace
è pertanto differente: Blondel non si ispira al realismo tomista con cui egli
discute in modo più aperto di quanto facesse all'epoca della sua Lettera
sull'apologetica (1896). Il suo «metodo di immanenza» lo fa uscire dalla
distinzione tra «tesi» e «ipotesi» e gli permette di articolare in modo del
tutto diverso la storia e ciò che in essa si presenta come normativo:
Non certo perché ci si pone nel movimento si è perciò stesso obbligati a miscono·
scere i punti fermi che permettono di discernere il senso del cammino e di oppor-
si risolutamente agli orientamenti divergenti. Il ruolo del pensiero riflesso è pro-
prio quello di cogliere, in questo mondo in movimento, le verità fisse, di sottolinea-
re, nel relativo stesso, delle differenze assolute, secondo il rigore della logica for-
male, di trarre fuori nella sua purezza una legge che, per essere profondamente
impegnata al cuore delle cose e delle azioni umane, non per questo conservi meno
la sua incorruttibile e trascendente forza di giudizio 63 .

Ci troviamo qui nell'ambiente del «tradizionalismo moderato». Blon-


del lo dice indirettamente riferendosi all'apologetica del cardinal De-
champs. È proprio questo riferimento che pure gli permette di distri-
carsi chiaramente dalle due posizioni dottrinali estreme che sottolinea-
no - come fa il «modernismo sociale» 64 - la sola immanenza, o - come
fa il cattolicesimo legato a Maurrass - l'esteriorità del soprannaturale,
posizione che il filosofo designa anche con il termine di «monoforismo»,
per il fatto che ricade da sola, dal punto di vista temporale, in un posi-
tivismo autorit~rio. Si è così ben delineato lo sfondo della «terza fase»
della crisi modernista.

62 M. BLONDEL, La Semaine sociale de Bordeaux et le monophorisme, cic., pp. 22-24.


6J lbid., pp. 29ss.
64 Cfr. J. FoNTAINE, Le modemisme sociologique, Lechielleux, Paris 1909.

X. LA RAGIONE E LA CIVILTÀ 385


3. La «terza fase» della crisi modernista

Appena qualche mese dopo la comparsa di questa serie di articoli, il 25


agosto 1910, venne pubblicata la lettera di Pio X all'episcopato francese
con cui si condannava il Sillon. Un gruppo tra gli altri nell'insieme com-
plesso dei «cattolici sociali», il Sillon di Mare Sangnier «rappresenta il
tentativo di introdurre nuovamente il cristianesimo in una società che
ne rifiuta le manifestazioni. La sua ricerca portò a proporre successiva-
mente due forme di inserzione del cristianesimo nel mondo. Ad una
cristianità iscritta nelle istituzioni del paese, si protende a sostituirne
un'altra che si fonderebbe di più sulla vita religiosa interna alle coscien-
ze. [... ] Si tratterebbe allora di promuovere il cristianesimo attraverso la
democrazia. Alla prova dei fatti questa divisa implicita si trasformò in
una diversa: il cristianesimo nella democrazia. Il pluralismo democratico
apriva ai cristiani una strada per introdurre la loro mentalità ed uno
spazio per svilupparla in quanto componente valida e stimata di una
civiltà eclettica che deve al suo rispetto della libertà, appunto, di non
escludere nulla dal suo orizzonte» 6i.
È appunto questo progetto ad essere censurato dal documento roma-
no che non esita a suo riguardo ad arrivare al rimprovero «di infiltrazio-
ni liberali e protestanti» 66 • L'accusa principale riguarda «la pretesa del
Sillon di sottrarsi alle direttive dell'autorità ecclesiastica, adducendo che
si è sviluppato su un terreno che non è quello della Chiesa» 67 • Tale sepa-
razione tra lo «spirituale» e il «temporale» è inammissibile, e la lettera
del papa la condanna, passando poi in rassegna la dottrina sociale del
Sillon, la sua pratica e la sua comprensione del Vangelo.
Facendo riferimento a due encicliche di Leone XIII, Diuturnum
(1881) e Graves de communi (1901), il documento schizza ancora una
volta la dottrina cattolica della civiltà umana per contrapporla alla «filo-
sofia» del Sillon che se ne distaccherebbe almeno su tre punti: «la par-
tecipazione più ampia possibile di ciascuno al governo della cosa pub-
blica», opposta alla dottrina cattolica dell'origine divina dell'autorità; la
superiorità della democrazia a motivo del suo riferimento all'uguaglian-
za come capace di generare una «giustizia migliore», che si oppone alla
dottrina sociale della Chiesa che si rifiuta di privilegiare una forma di
governo; e, infine, una concezione della fraternità universale, fondata,

65 ]. CARON, Le 511/on et la démocratie chrétienne. 1894-1910, Plon, Paris 1967, p. 13; cfr. E. PouLAT,
Chiesa contro borghesia, Marietti, Torino 1984, pp. 126-162 («democrazia ma cristiana»).
66 Pio X, Lettera all'episcopato francese sul Sii/on (25.08.1910), cfr. Actes de S.S. Pie X, t. V, Bayard,
p. 125.
61 Ibid.

386 CHRISTOPH THEOBALD


«al di là di ogni filosofia e di ogni religione sulla semplice nozione di
umanità»:
Non ci può essere vera fraternità al di fuori della carità cristiana, che, mediante
l'amore per Dio e il suo figlio Gesù Cristo nostro Salvatore, abbraccia tutti gli
uomini per sollevarli tutti e per condurli tutti alla stessa fede e alla stessa beatitu-
dine del cielo. Separando la fraternità dalla carità cristiana così intesa, la demo-
crazia, lungi dall'essere un progresso, costituirebbe un disastroso passo indietro
per la civiltà 68 •

In seguito la lettera pontificia critica l'indisciplina del Sillon nei con-


fronti della gerarchia 69 , l'autonomia della sua azione - «ci sono due uomi-
ni in chi aderisce al Sillon : l'individuo che è cattolico e l'aderente al mo-
vimento, l'uomo d'azione, che invece è neutrale» - unitamente alla fonda-
zione di una grande associazione interconfessionale 70 • Ma il punto ritenu-
to come più grave è, alla fine, la dottrina religiosa del Sillon, accusato di
appartenere al «modernismo», questo «grande movimento da apostasia
organizzato per fondare una Chiesa universale che non avrebbe né dog-
mi, né gerarchia, né regola per la vita dello spirito»:
L'esaltazione dei loro sentimenti, la cieca bontà del loro cuore, il !_oro misticismo
filosofico, mischiato con un po' di illuminismo, li hanno trascinati verso un nuovo
Vangelo [... ],a tal punto che essi osano trattare con Nostro Signore Gesù Cristo
con una familiarità molto irrispettosa e [... ] non temono di fare degli accostamen-
ti blasfemi tra.il Vangelo e la Rivoluzione 71 •

La lettera di Pio X è di grande interesse in quanto sotto l'apparenza di


una condanna senza appello fa emergere nel Sillon una sensibilità cristia-
na completamente diversa dalla grande corrente dottrinale venuta fuori
dalla visione leoniana; diversa persino dal cattolicesimo del «Settimane
sociali». Indubbiamente, M. Sangnier si è immediatamente sottomesso,
confermando così il «ritratto dottrinale» delineato dalla lettera; si sarebbe
potuto fare una diversa lettura di questo movimento, che tenga maggior-
mente conto dei ritocchi fatti dai responsabili del movimento ad alcune
loro affermazioni 12 • Ma il peso reale dell'intervento pontificio non si co-
glierebbe in una simile valutazione. La lettera manifesta piuttosto il fatto
che la crisi del sistema dottrinale potrà venire da una pratica socio-politica
che, suscitata· dallo stesso cattolicesimo, sviluppa in seguito la sua logica

68 Ibid.,
pp. 127-132.
69 Ibid.,
p. 133.
10 Ibid.,
pp. 132-137.
11 Ibid.,
p. 137. ·
72 Cfr. l'analisi di]. CARON, Le Sillon et la démocratie chrétienne, cit., pp. 711-726.

X - LA RAGIONE E LA CIVILTÀ 387


propria 73 • Lo stesso M. Sangnier, nel 1906, indica il punto preciso di una
possibile trasformazione:
Osiamo pretendere che inserendo i cattolici negli ambienti sindacali, non perché
si servano del sindacato come uno strumento di propaganda confessionale, ma
perché possano lealmente cooperare al rinnovamento sociale con tutti quelli che
lavorano, si fa in tal modo la più meravigliosa delle opere apologetiche 74 •

Per dare il giusto peso alla posizione dottrinale di Pio X, bisogna ag-
giungere qui che aveva fatto preparare dalla Congregazione dell'Indice,
nel 1913, la condanna di cinque opere di Ch. Maurras e della rivista de
l'Action française. Firmata il 29 gennaio 1914, questo decreto non fu mai
promulgato, né da Pio X né dal suo successore Benedetto XV, a causa di
«forti pressioni 75 », come ebbe a rivelare Pio XI dopo aver ritrovato il
dossier così ben archiviato da ignorarne lui stesso l'esistenza fino al di-
cembre 1926 76 • Rifiutando ogni opposizione tra sé e il suo predecessore
Pio Xl afferma che «Pio X era troppo anti-modernista per non condan-
nare questa specie particolare di modernismo politico, dottrinale e prati-
co, con cui Noi abbiamo a che fare» 77 •
In una lettera precedente indirizzata al medesimo destinatario (1926),
Pio XI aveva già condannato «alcune manifestazioni di un nuovo siste-
ma religioso, morale e sociale, a riguardo della nozione di Dio, dell'in-
carnazione, della Chiesa e generalmente del dogma e della morale cat-
tolica, soprattutto nelle loro necessarie relazioni con la politica, la quale è lo-
gicamente subordinata alla morale. Sostanzialmente, - continua il papa -
vi sono in queste manifestazioni delle tracce di una rinascita del paga-
nesimo a cui si ricollega il naturalismo. n testo distingue, come aveva
fatto già Pio X, tra le «questioni di fede e di morale» a cui si fa riferi-
mento nella condanna e le «questioni semplicemente politiche come
quella della forma di governo». Ma mentre Pio X accusa il Sillon di pri-
vilegiare la democrazia, Pio XI «lascia a ciascuno la giusta libertà» 78 in
questo ambito in cui l'Action /rançaise difende la monarchia 79 • Dopo

73 Cfr. Pro X, Lettera sul Sii/on, ... : «I fondatori del Sii/on non avevano forse l'idea, al momento op·
portuno, di mettere a servizio della condizione operaia truppe fresche? [... ] Le nostre speranze sono state,
in gran parte, deluse»; cfr. E. PoULAT, Chiesa contro borghesia, cit., pp. 9ss. sensibile allo spirito anti-libe-
rale del Sztlon e quindi ad una certa continuità in rapporto al cattolicesimo sociale di Leone XIII.
74 M. SANGNrER, Le Sii/on et l'action syndacale (16.12.1906) in: J. CARON, Le Sii/on et la démocratie .. .,
cit., p. 719.
75 Cfr. E. POULAT, Catholicisme, démocratie et socialisme, Casterman, Tournai 1977, p. 45.
76 Pro XI, Lettera al card. Andrieu, arcivescovo di Bordeaux (5.1.1927).
77 Ibid.
78 Io., Lettera al card. Andrieu (5.9.1926).
79 Cfr. l'opera collettiva diretta daJ. MARITArN (che all'epoca aveva un certo legame con questi spiriti)
su espressa richiesta di Pio XI, P. DoNCOEUR et alii, Pourquoi Romea parlé, Fides, Paris 1927; J. GurLLET,
La théologie catholique en France de 1914 à 1960, Médiasèvres, Paris 1988, pp. 16ss.

388 CHRISTOPH THEOBALD


lunghi anni di rivolta quest'ultima firma davanti a Pio XII, nel 1939, una
dichiarazione di sottomissione, prima di scomparire a causa del suo at-
teggiamento durante gli anni dell'occupazione tedesca.

Ili. IL DIFFICILE RICONOSCIMENTO DOTTRINALE


DELLA DIMENSIONE PROFANA DELLA STORIA

Nonostante la loro ricchezza i due pontificati di Pio XI (1922-1939) e


di Pio XII (1939-1958) non fanno certo avanzare il «sistema dottrinale»
del cattolicesimo, se non attraverso alcune accentuazioni e aggiunte signi-
ficative. Nella prospettiva della dogmatizzazione dei fondamenti, sottoli-
neiamo tre aspetti.

1. Presenza alla storia

La prima enciclica di Pio XI, Ubi arcano: «La pace di Cristo nel regno
di Cristo» (1922), vero discorso programmatico, porta il segno dell'avve-
nimento più significativo di quest'epoca, la prima guerra mondiale. Il pia-
no del testo fa trasparire un metodo apologetico che si distingue dal <<me-
todo della Provvidenza» a causa della sua più grande precisione e per
l'estensione internazionale del suo campo di applicazione:
Gli uomini, le classi sociali, i pòpoli non hanno ancora ritrovato la vera pace dopo
la tremenda guerra [. .. ]. Riconoscere la realtà e la gravità di tanto male e indagar-
ne le cause è la prima cosa e la.più necessaria da affrontare da chi, come Noi,
voglia con frutto studiare e applicare i mezzi per combattere il male stesso effica-
cemente 80.

Ad una prima analisi della situazione storica fa seguito una ricerca del-
la cause della «malattia». Si arriva poi ad un giudizio dottrinale che viene
presentato come lo stesso giudizio di Dio, provato, con un'evidenza senza
precedenti, dagli ultimi avvenimenti:
Della mancata pace .e dei mali che derivano dall'accennata mancanza, vi è una
causa più alta e insieme più profonda; una causa che già prima della grande guer-
ra era venuta largamente preparandosi; una causa alla quale l'immane calamità
avrebbe dovuto essere rimedio, se tutti avessero capito l'alto linguaggio dei gran-
di avvenimenti si.

BO PIO Xl, Ubi arcano, EE 5, n. 6.


8! lbid., 20.

X· LA RAGIONE E LA CMLTA 389


La causa dei mali si trova nell' «esclusione di Dio e di Cristo» dalla ci-
viltà umana, dalla famiglia e dall'educazione. Tributario della visione leo-
niana del mondo, questa valutazione non può che portare alla proposta di
un certo numero di «rimedi». La Chiesa e il suo magistero pontificio han-
no infatti da giocare un ruolo storico come istituzione internazionale che
«detiene la verità e il potere di Cristo» al fine di manifestare il senso della
storia e per condurre le società verso la pace:
E non vi è istituto umano che possa dare alle nazioni un codice internazionale,
rispondente alle condizioni moderne, quale ebbe, nel medioevo, quella vera so-
cietà di nazioni, che fu la cristianità [..,]. Vi è un istituto divino, atto a custodire
la santità del diritto delle genti; un istituto che appartiene a tutte le nazioni, che a
tutte è superiore, che è anche dotato di massima autorità e venerando per pienez-
za di magistero: la chiesa di Cristo [ ... ]. Bisogna che la chiesa [ ... ] nella vita pub-
blica e in quella privata [. .. ] possa esercitare il suo magistero, al quale appunto fu
affidato l'insegnamento di quei precetti. Ora tutto questo si esprime con una sola
parola: «il regno di Cristo» 82 .

Per portare avanti questo programma nello spirito dei suoi predecesso-
ri 83 , Pio XI fa ricorso alla collaborazione dei vescovi, delle opere aposto-
liche e di «quel complesso di iniziative, di istituzioni e di opere che si
radunano sotto il nome di Azione Cattolica, a Noi tanto cara, e a cui ab-
biamo già rivolto sollecite cure» 84 •
Questa presenza della Chiesa alla storia si esprime in modo privilegiato
alla fine del pontificato di Pio XI in due testi, pubblicati nella stessa set-
timana, in un momento estremamente grave: le encicliche Mit brennender
Sorge: «La situazione della chiesa cattolica nel Reich germanico» (14 mar-
zo 1937) e Divini Redemptoris: «Il comunismo ateo» (19 marzo 1937).
Ciascuna riprende la totalità della dottrina cattolica che ingloba i due
ordini della fede e della ragione 85 , organizzando e accentuando la sua
espressione al fine di un combattimento storico con due potenze di cui si
sottolineano più che mai le dimensioni apocalittiche.
Sottolineamo l'idea fondamentale del secondo documento che è pro-
prio quella di opporre ai principi di un comunismo ateo «la vera nozione
della civiltà umana, dell'umana società, quale ce le insegnano la ragione e
la rivelazione per il tramite della chiesa maestra dei popoli (Magistra gen-
tium)» 80. U primo documento, più vicino alla struttura del Simbolo svi-
luppa una critica dettagliata all'idolatria nazista (confusione panteista tra

82 Ibid., 35-37.
83 Ibid., 39: Pio XI fa riferimeno al motto di Pio X (Instaurare omnia in Christo) e a quello di Bene-
detto XV (Recondliandae pads).
84 Ibid., 45.
85 Cfr. Pio XI, Divini Redemptoris, EE 5, nn. 1197ss.
86 Ibid., 1221.

390 CHRISTOPH THEOBALD


Dio e l'universo, sostituzione del Destino al Dio personale, divinizzazione
della razza, del popolo o dello Stato) 87 e mette in luce lo stravolgimento
del linguaggio cristiano fatto dai nazisti 88 • Bisogna soprattutto rimarcare
la forte difesa dell'Antico Testamento 89 , la prima in assoluto di questo
genere che, purtroppo, fa passare sotto silenzio il nome del popolo ebrai-
co e propone una teologia del compimento più che ambigua:
Chi quindi vuole bandita dalla chiesa e dalla scuola la storia biblica e i saggi inse-
gnamenti dell'Antico Testamento, bestemmia la parola di Dio, bestemmia il pia-
no di salvezza dell'Onnipotente ed erige a giudice dei piani divini un angusto e
ristretto pensiero umano. Egli rinnega la fede in Gesù Cristo, apparso nella realtà
della sua carne, il quale prese natura umana da un popolo, che doveva poi croci-
figgerlo in croce. Non comprende nulla del dramma mondiale del Figlio di Dio,
il quale oppose al misfatto dei suoi crocifissori, qual sommo sacerdote, l'azione
divina della morte redentrice e fece così trovare all'Antico Testamento il suo com-
pimento, la sua fine e la sua sublimazione nel Nuovo Testamento 90 .

2. Cristo Re

Questa teologia politica della storia ha la sua più significativa espres-


sione dottrinale e liturgica nell'istituzione della festa di Cristo Re, 1'11
dicembre 1925, che rappresenta la svolta storica e cristologica dell'opera
di Pio XI 91 • Lo sviluppo dell'argomentazione biblica porta ad una prima
conclusione che identifica <<la Chiesa cattolica» con «il Regno di Cristo
sulla terra, destinato naturalmente ad estendersi a tutti gli uomini e a tutte
le nazioni» 92 • Assommando i fre poteri legislativo, giudiziario ed esecuti-
vo, la regalità di Cristo si pone al punto di congiungimento dello spirituale
e del temporale. Questo schema dogmatico 93 costituisce l'acme del testo:
l'enciclica ricorda prima di tutto il carattere spirituale di questo regno,
acquistato da Cristo «a caro prezzo», affinché i credenti vi possano entra-
re facendo penitenza e praticando le beatitudini 9~; ma subito il testo ag-
giunge che: «sbaglierebbe gravemente chi togliesse a Cristo-uomo il pote-
re su tutte le cose temporali» 95 •

87 Pio XI, Mit brennender Sorge, EE 5, nn. 1152ss.


88 Ibid., 1169-1176.
89 Che sarà citata dal Vaticano II nel cap. IV della Dei Verbum.
90 Mit brennender Sorge, EE 5, n. 1162.
91 Nel 1925 la Chiesa commemora pure il XVI centenario del concilio di Nicea che inserendo «nel
simbolo la formula i/ suq regno non avrà fine proclamò la dignità regale di Cristo» (Quas primas, EE 5,
n. 141).
92 Ibid., 145.
93 Cfr. Ibid., 146ss.; il testo ricorda qui la cristologia di Cirillo di Alessandria.
9<I Ibid., 148-149.
95 Ibid., .150.

X . LA RAGIONE E LA CIVILTÀ 391


Pio XI introduce qui di nuovo la visione leoniana della sfera pubblica
e della sfera privata non facendo accenno all'autonomia della sfera tem-
porale 96. Nella parte restante del testo tuttavia la distinzione riemerge per
quanto riguarda il piano temporale quando il carattere condizionale delle
affermazioni fa percepire sempre di più lo statuto «utopico» del Regno
«per quello poi che si riferisce alla concordia e alla pace [. .. ] se il regno di
Cristo come di diritto abbraccia tutti gli uomini, così di/atto veramente li
abbracciasse, perché dovremmo disperare di quella pace che il pacifico
portò in terra?» 97 •
La festa di Cristo Re si situa proprio in questa distanza storica tra il
fatto e il diritto. La festa viene appunto istituita per «far ritorno all'ama-
tissimo nostro Salvatore» 98 • In questa festa «escatologica» si annodano gli
aspetti biblici, dottrinali, liturgici e pastorali di una visione delle cose che
non deve solo raggiungere «pochi uomini eruditi» ma toccare <<non solo
la mente ma anche il cuore, tutto l'uomo insomma» 99 , per il fatto che
Cristo regna sull'intelligenza, la volontà, il cuore e lo spirito 100 •

3. Il diritto naturale
Pio XII che abbiamo già incontrato con la «questione biblica», comin-
cia il suo insegnamento nel 1939, ricordando il cuore della dottrina dei
suo predecessore facendo riferimento alla figura di Cristo Re. La sua en-
ciclica programmatica Summi ponti/icatus che coincide con l'inizio della
seconda guerra mondiale merita di essere ricordata per più motivi. La
costante tesi dei papi che collegano il vacillare dei fondamenti dell'umana
società con «il distacco da quella dottrina di Cristo, di cui la cattedra di
Pietro è depositaria e maestra» 101 , può rivendicare in questo caso una cer-
ta plausibilità:
Forse molti, che non capivano l'importanza della missione educatrice e pastorale
della chiesa, ora ne comprenderanno meglio gli avvertimenti, da loro trascurati
nella falsa sicurezza dei tempi passati. Le angustie del presente sono un'apologia
del cristianesimo, che non potrebbe essere più impressionante 102 •

96 L'enciclica ripete l'esortazione ai Capi di Stato «di prestare pubblica testimonianza di riverenza e
di obbedienza all'impero di Cristo» (lbid., 150).
97 Ibid., 151.
98 Ibid., 154.
99 Ibid., 152.
100 Ibid.
101 Pro XII, Summi ponltficatus (20. 10. 1939), EE 6, n. 22.
102 Ibid., 17.

392 CHRISTOPH TIIEOBALD


La punta dell'argomentazione pontifica è la condanna dell'agnostici-
smo, inteso qui nel senso particolare di un «misconoscimento e oblio del-
la stessa legge naturale»:
Questa legge naturale trova il suo fondamento in Dio, creatore onnipotente e
padre di tutti, supremo e assoluto legislatore, onnisciente e giusto vindice delle
azioni umane. Quando Dio viene rinnegato, rimane anche scossa ogni base di
moralità, si soffoca, o almeno si affievolisce di molto, la voce della natura, che
insegna, persino agli indotti e alle tribù non pervenute alla civiltà, ciò che è bene
e ciò che è male, il lecito e l'illecito, e fa sentire la responsabilità delle proprie
azioni davanti a un Giudice supremo lOJ.

Pur salvaguardando il suo fondamento teologale, l'argomentazione si


sviluppa qui e di nuovo in direzione di una razionalità «naturale» e «Uni-
versale» che pretende il rispetto dei suoi principi al di là delle frontiere
del cristianesimo. Pio XII ne sviluppa due conseguenze che saranno deci-
sive per gli ulteriori dibattiti durante il Vaticano II. La prima riguarda la
«legge di umana solidarietà e carità, che viene dettata e imposta sia dalla
comunanza di origine e dall'uguaglianza della natura razionale in tutti gli
uomini, a qualsiasi popolo appartengano, sia dal sacrificio di redenzione
offerto da Gesù Cristo sull'ara della croce al Padre suo celeste in favore
dell'umanità peccatrice» 104 • Pur riconoscendo il diritto delle particolarità
etniche, il testo dispiega una vera visione della storia universale in cui si
insiste, per la prima volta, sui «doveri derivanti all'umanità dall'unità
d'origine e comune destinazione» 105 • La seconda conseguenza della valo-
rizzazione del diritto naturale è la critica al totalitarismo:
Rinnegata, in tal modo, l'autorità di Dio e l'impero della sua legge, il potere civile,
per conseguenza ineluttabile, tende ad attribuirsi quell'assoluta autonomia, che
solo compete al Supremo Fattore, e a sostituirsi all'Onnipotente, elevando lo sta-
to o la collettività a fine ultimo della vita, a criterio sommo dell'ordine morale e
giuridico, e interdicendo, perciò, ogni appello ai principi della ragione naturale e
della coscienza cristiana 106•

Questo testo, che si pone nella linea dottrinale della Dei Filius e che si
deve al Corpus leoninum, nondimeno inaugura, nel seguito dell'enciclica,
un nuovo tipo di argomentazione che insiste meno sul riferimento esplici-
to dello Stato a Dio e più sulla salvaguardia di un certo numero di diritti
che ne limitano il potere all'interno della società civile 101 •

10} lbid., 21.


104 lbid., 28.
105 lbid., 35.
l06 lbid., 40.
101 lbid., 42ss.

X - LA RAGIONE E LA CIVILTÀ 393


La presentazione dell'enciclica Aeterni Patris sulla filosofia cristiana ha
mostrato il segreto della sua efficacia storica restituendola all'insieme del-
la visione leoniana del mondo. Questa si fonda sulla distinzione dei «due
ordini della ragione e della fede» (cfr. Dei Filius) la. cui articolazione si è
modificata e precisata durante i diversi pontificati del xx secolo, and~ndo
ora nel senso della loro unione e talvolta invece verso una distinzione che
lascia più spazio all'autonomia della sfera temporale. Queste fluttuazioni
sono indubbiamente collegate al destino della cristologia delle due natu-
re, che comporta in questo periodo alcuni effetti sul piano filosofico ed
epistemologico.
Comunque sia il magistero romano non ha mai smesso di opporsi, sulla
base della filosofia tomista, alla logica liberale di emancipazione, che si
ritiene presente anche alla radice del «comunismo ateo». Inoltre si scorge
nella catastrofe delle due guerre mondiali una conferma storica del suo
giudizio sul liberalismo. Questo procedimento apologetico «efficace» che
«incarna» il dottrinale in una visione del mondo e di una storia sempre
più universale accredita allo stesso tempo l'idea che il magistero si fa della
sua missione. Tutto ciò si rende Comprensibile in un quadro giuridico che
distingue soltanto tra «giudizio solenne» e «magist.ero ordinario e univer-
sale»? La qualifica di un magistero detto «ordinario» del romano pontefice,
sconosciuto al Vaticano I, sembra vada precisandosi semplicemente per
forza di cose.
In tutte queste trasformazioni, il filosofo J. Maritain sembrò discernere
nel 1936 il passaggio dalla «cristianità medievale» ad «una nuova cristia-
nità», riferendosi nel suo Umanesimo integrale, ancora una volta alla filo-
sofia tomista. La sua diagnosi ci permette di cogliere al vivo il problema
maggiore di quest'epoca di dogmatizzazione del fondamentale: il difficile
riconoscimento dottrinale della dimensione profana della storia. Per defi-
nire la «_sua concezione profana cristiana del temporale», che si oppone
contemporaneamente «al liberalismo o all'umanesimo disumano dell'epo-
ca antropocentrica» e «all'idea medievale del sacrum imperium>> Maritain
sviluppa cinque note che avranno un grande futuro all'epoca del Vatica-
no Il: la struttura pluralista della civiltà, l'autonomia del temporale, il ri-
spetto delle libertà, una democrazia personalista e una comunità fraterna
da realizzare 108 •

108]. MARITAIN, Umanesimo integrale, Boria, Roma 19808, pp. 197-234.

394 CHRISTOPH THEOBALD


Capitolo Undicesimo

L'enciclica Humani generis (1950)


o la fine di un'epoca
di dogmatizzazione fondamentale

Indicazio1Zi bibliografiche: Pro XII, Enciclica Humani generis (12.8.1950), EE 6, nn. 701-
743.
Y. CONGAR, Chrétiens en dialogue. Contribution catholiques à l'oecuménisme, Cerf, Paris
1964; R.V. Gurnr e H. VORGRJMLER (a cura di), Bilan de la théologie du xx siècle, 2 voll., Ca-
sterman, Paris 1970; E. FOUILLOUX, Les catholiques et l'unité chrétienne du XIX au XX siècle.
Itinéraires européens d'expression /rançaise, Centurion, Paris 1982; La collection «Sources
chrétienneS». Editer !es Pères de l'Èglise au xx siècle, Cerf, Paris 1995; M.-D. CHENU, Une école
de théologie: le Saulchoir (1937) con gli studi di G. ALBERJGO, E. FourLLOUX, J. LADRJÈRE eJ.P.
JossuA, Cerf, Paris 1985; J. GurLLET, La théologie catholique en France de 1914 à 1960, Mé-
diasèvres, Paris 1988 (bibliografia).

Il capitolo precedente ci ha condotti fino alle soglie della seconda guer-


ra mondiale e alla presa di coscienza che una nuova figura di cristianesi-
mo si era venuta formando ·nel corso della prima metà di questo secolo.
Per capire gli atti e le misure disciplinari che contrassegnano la fine del
pontificato di Pio XII bisogna ritornare ai vari «rinnovamenti» che attra-
versano l'Europa a partire dagli anni Trenta. Il loro brusco blocco a causa
dell'enciclica Humani generis (1950) fa sì che ci si ponga la domanda se,
in realtà; essi stiano annunciando una trasformazione più fondamentale
del profilo dottrinale della Chiesa.

l. IL RINNOVAMENTO TEOLOGICO

Agli inizi degli anni Trenta facevano la loro comparsa in Francia e al-
trove i grandi protagonisti del rinnovamento conciliare: nel 1929, H. de
Lubac inaugura il suo insegnamento alla facoltà teologica di Lione; nel
1931, Y. Congar comincia ad insegnare al Saulchoir, vicino Tournai, e nel
1932, M.-D. Chenu vi è nominato rettore degli studi. Il 1930 è anche l'an-

Xl . L'ENCICLICA HUMANI GENERIS (1950) 395


no in cui inizia l'Azione cattolica specializzata t: «Una delle caratteristiche
della nuova generazione di teologi sarà la preoccupazione di assicurare il
contatto con questo mondo vivo dei giovani cristiani in formazione in vi-·
sta del futuro» 2 •

1. Alcune scuole di teologia

È merito dell'ordine domenicano l'aver inaugurato una nuova tappa


della ricerca medievale, che, per la prima volta, reinserisce san Tommaso
nel suo contesto storico. Tra il 1921eil1924, nascono nel convento degli
studi di Saulchoir l'Institut d' études médiévales, la collana Biblz'othèque
thomiste come pure il Bulletin thomiste. Nel 1930, E. Gilson chiede allo
stesso M.-D. Chenu, principale protagonista del rinnovamento, di far par-
tire in parallelo al suo proprio Institute o/ Medieval Studies di Toronto un
Institut d'Ètudes médiévales a Ottawa. Questa intensa ricerca storica non
è avara di frutti nella riorganizzazione degli studi al Saulchoir, che molto
presto entra in concorrenza con la tradizione tomista dell'Angelicum di
Roma (in particolare con il custode della sua ortodossia, il P. Garrigou-
Lagrange) }.
L'avvenimento che innesta, nel 193 7, le ostilità è la conferenza di
M.-D. Chenu al cospetto del Convento degli studi da poco stabilitosi nel-
la regione parigina. Ampliato e pubblicato sotto il titolo Il Saulchoir, una
scuola di teologia, ma non messa in commercio, questo testo espone un
metodo teologico molto distante dai canoni classici. Chenu stabilisce un
parallelo tra la crisi degli inizi del xx secolo e quella del XIII 4 : come si è già
impegnata davanti alla sfida della dialettica, la teologia deve sensibilizzar-
si oggi alla sfida del metodo storico. Come Tommaso d'Aquino e Alberto
Magno si sono familiarizzati col pensiero antico, così
i loro veri discepoli devono procedere allo stesso modo con la storia o la filoso-
fia moderna, e nel caso andando contro il tòmismo chiuso. Le tre condizioni
per una vera libertà in teologia sono: il ritorno ai testi medievali, a dispetto delle
elaborazioni posteriori e spesso[ ... ] posticce; la trasposizione su questi testi del
metodo storico del P. Lagrange e della sua Ècole biblique di Gerusalemme; l'in-

I Cfr. t. III, pp. 450-452.


2 J. GUILLET, L2 théologie catholique en France de 1914 à 1960, Médiasèvres, Paris 1988, p. 26. Per
l'inizio di capitolo ci si ispira qui a questo quaderno.
l Cfr. E. FOUILWUX, Le Saulchoir en procès (1937-1942) in: M.-D. CHENU, Une école de théologie: le
Saulchoir, Cerf, Paris 1985, pp. 39-59; ci riferiremo·a quest'edizione francese allargata ma si tenga conto
che esiste la traduzione italiana: Le Saulchoir una scuola di teologia, Marietti, Casale Monferrato 1982.
4 Cfr. anche M.-D. CHENU, La teologia come scienza nel XIII secolo,Jaca Book, Milano 1985.

396 CHRISTOPH THEOBALO


serimento del lavoro intellettuale in un bagno di spiritualità che faccia scompa-
rire la rottura pregiudiziale tra speculazione e contemplazione 5 .

Da parte gesuita la reinterpretazione del pensiero di san Tommaso co-


mincia con l'opera di J. Marèchal. Professore nello scolasticato d'Eegen-
hoven (Lovanio), dal 1919 al 1935, Maréchal si propone di collegare la
teoria tomista della conoscenza e il rinnovato interesse per l'esperienza
mistica attraverso una ripresa personale del «metodo trascendentale» di
Kant 6 • Il suo impulso speculativo ha segnato fortemente i primi lavori di
K. Rahner su Tommaso d'Aquino, dal 1939 al 1941 7 • In Francia, l'opera
di H. Bouillard, Conversion et grdce chez saint Thomas d'Aquin (1944),
volume inaugurale della collana «Théologie» dello scolasticato gesuita di
Fourvière (Lione), apre una nuova fase nella teologia fondamentale, ispi-
rata dal pensiero di Blondel8.
Un'altra personalità teologica di Saulchoir, Y. Congar, gioca un ruolo
importante nell'avvicinamento di alcuni teologi domenicani e di alcuni
gesuiti di Parigi e dellà Fourvière. Nel 1937, Congar fonda la collana
Unam sanctam, che ha lo scopo di promuovere «una nozione di Chiesa
ampia, ricca, viva, piena di linfa biblica e di tradizione». Il volume inau-
gurale doveva essere la traduzione de L'unità nella Chiesa diJ.A. Mi::ihler
(1796-1838), della scuola cattolica di Tubinga, diventato ormai, dopo il
discorso programmatico di Chenu, il grande punto di riferimento di una
teologia che si fondi sulla realtà storica e spirituale della vita della Chiesa
come luogo autentico della Tradizione:
Questa è verità a se stessa. È prova in questo senso che è la coscienza cristiana
permanente nella Chiesa e serve come criterio per giudicare ogni innovazione [. .. ].
La Tradizione non è un aggregato di tradizioni, ma un principio di continuità
organica, di cui il magistero è lo strumento infallibile, nella realtà teandrica della
Chiesa corpo mistico di Cristo 9•

A causa del ritardo nella traduzione dell'opera di Mi::ihler, Congar pub-


blica prima Cristiani divisi. Principi per un «ecumenismo» cattolico (1937),
opera che aggira «l'unionismo ufficiale» consacrato dall'enciclica Morta-

5 E. FOU!LLOUX, Le Saulchoir en procès, cit., pp. 44ss.


6 ]. MARÈCHAL, Le point de départ de la métaphysique. Leçons sur le développement historique et théo-
rique du problèmè de la connaissance, Cahier I-III e V (1922-1926), Cahier IV (1947), Ed. Univ.-DDB,
Bruxelles-Paris 1944-1947'; Io., Ètudes sur la psychologie des mystiques, 2 voli., Ed. Univ.-DDB, Bruxel-
les-Paris 1924 e 1937.
7 K. RAHNER, Lo opirito nel mondo, 2 voli., Vita e Pensiero, Milano 1989; Io., L'homme il l'écoute du
Verbe. Fondements d'une philosophie de la religion (2 edizione riveduta da }.B. Metz) Marne 1968.
8 Cfr. soprattutto il suo celebre articolo L'intention fondamentale de Maurice Bionde/, RSR, 36 (1949),
pp. 321-402 che ha contribuito alla sua destituzione nel 1950.
9 M.-D. CHENU, Une école de théologie: le Saulchoir, cit., p. 141.

Xl - L'ENCICLICA HUMANI GENERIS (1950) 397


lium animos del 1928. Il Sant'Uffizio proibisce la ristampa ed esige che
venga ritirato dal commercio L'unità nella Chiesa pubblicato nel 1938
(«Unam sanctanw 2). Il terzo volume della collana è la celebre opera di H.
de Lubac Cattolzàsmo. Gli aspetti sodali del dogma (1938). Vi si trovano
già i grandi temi della sua teologia: l'unità e la solidarietà dell'umanità pel
piano divino della creazione e della redenzione, la dimensione storica del
cristianesimo e il senso positivo dello svolgimento della storia, la vocazio-
ne universale e «sacramentale» della Chiesa, il posto di Cristo come com-
pimento dell'Antico Testamento, e simultaneamente dello Spirito, compi-
mento della lettera 10 •
Preceduti da padri più anziani (P. Teilhard de Chardin, A. Valensin, J.
Huby e V. Fontoynont), quattro figure cominciano ad imporsi nella Com-
pagnia di Gesù, a partire dagli anni trenta: H. de Lubac, G. Fessard, Y.
de Montcheuil e P. Chaillet. Ma è soltanto durante la seconda guerra
mondiale che inizia il grande rinnovamento, specialmente patristico, con
la creazione nel 1943 della collana Sources chrétiennes ad opera di V. Fon-
toynont, H. de Lubac e J. Daniélou (oggi sono ormai più di 400 volumi)
e, un anno dopo, il lancio della collana Théologie. Già il primo anno ven-
nero pubblicati cinque volumi che indicano bene quale fosse l'orientamen-
to della Fourvière.
Nel primo volume Conversione e grazia in san Tommaso d'Aquino H.
Bouillard scrive: «Quando lo spirito evolve, una verità immutabile non
si conserva se non grazie ad un'evoluzione simultanea e correlativa di
tutte le nozioni [... ]. Una teologia che non fosse attuale sarebbe una teo-
logia falsa» 11 • Il secondo, Corpus mysticum. L'Eucaristia e la chiesa nel
Medioevo, è firmato da H. de Lubac. Anche in questo caso si tratta di
mettere in luce un'evoluzione non sempre riuscita: l'indebolimento del
pensiero simbolico circa il mistero della Chiesa-Eucaristia sfocia in una
valorizzazione unilaterale della «presenza reale» isolata della Chiesa, e
ancora ad una concezione della Chiesa ereditata dall'individualismo del
diritto romano. Il terzo volume di J. Daniélou su Gregorio di Nissa e il
quarto volume di Cl. Mondésert su Clemente Alessandrino, studiano
due grandi autori spirituali che si adoperano a convertire al cristianesi-
mo il pensiero e la cultura del loro tempo. Il quinto volume, Autorità e
bene comune, di G. Fessard si muove da parte sua all'interno delle cate-
gorie moderne al fine di costruire una filosofia della società ed un'an-
tropologia. A questo elenco già di per sé notevole aggiungiamo due

10 Cfr.]. GUILLET, La théologie catholique en France, cit., p. 33.


Il H. BoUILLARD, Conversion et grJce chez saint Thomas d'Aquin. Ètudes historique, Aubier, Paris 1944,
p. 219.

398 CHRISTOPH THEOBALD


opere maggiori di H. de Lubac, Il Soprannaturale nel 1946 12 che avrà un
ruolo importante nella crisi della Fourvière, e Storia e Spirito. L'intelli-
genza delle Scritture in Origene nel 1950 '>.

2. In collegamento ad altri rinnovamenti

Nel 1964, Y. Congar evoca il clima eccezionale che contrassegnava gli


anni del dopo-guerra: ·
Chi non ha vissuto gli anni 1946-1947 del cattolicesimo francese si è perso uno
dei momenti più belli della vita della Chiesa. Attraverso un lento sottrarsi alla
miseria, si cercava, nella grande libertà di una fedeltà profonda quanto la stessa
vita, di raggiungere evangelicamente un mondo a cui ci si trovava di nuovo me-
scolati in un modo ormai inedito da secoli. Che il futuro della Chiesa sia legato al
futuro del mondo, l'abbiamo riscoperto a partire da questo momento ma era co-
munque un'evidenza data dalla stessa esperienza 14 •

Questo rinnovamento ecclesiale si attua su diversi fronti. Al Saulchoir,


era diventato consueto accogliere regolarmente cappellani e militanti del-
la J.0.C.; i gesuiti dal canto loro fornivano un aiuto spirituale e culturale
ai movimenti specializzati quali la J.A.C e la J.E.C. Nel 1941, il cardinal
Suhard fonda la Mission de France. Due anni più tardi viene pubblicato il
resoconto che l'arcivescovo aveva domandato a due dei suoi preti. L'ope-
ra, La Francia paese di missione, che porta la data del 1943 15 , scuote l'opi-
nione pubblica per il fatto che rivela l'insospettata distanza che separa il
mondo dei lavoratori dalla Chiesa. Da questo choc e dalle esperienze fatte
in Germania da alcuni preti partiti con gli operai requisiti per il Servizio
di Lavoro Obbligatorio (STO), nascono nel 1944 i primi «preti-operai» 16 •
Parallelamente a questo apostolato in ambiente scristianizzato, l'abbé
P. Couturier e il Padre Y. Congar aprono le strade, assieme ad altri, per
un autentico «ecumenismo cattolico» 17 • A questi orientamenti di apertura
si aggiunge il movimento liturgico concepito, a partire dal tempo di guer-
ra, in un senso più pastorale: i domenicani di Parigi fondano nel 1943 il
Centre de pastorale liturgique e lanciano nel 1947 la rivista La Maison-Dieu
la collana Lex orandi, che mettono insieme i rinnovamenti liturgico, bibli-

12 Cfr. t. II, pp. 355-360.


ll Cfr. rupra p. 334.
14 Y. CoNGAR, Chrétzenr en dialogue. Contributionr catholiques à l'oecuménirme, Cerf, Paris 1964,
p. XLIII:
15 H. GomN-Y. DANIEL, La France, pays de mission, L'Abeille, Lyon 1943.
16 Cfr. E. POULAT, Naisrance des pretrer ouvriers, Casterman, Tournai 1965.
17 Cfr. E. FoUILLOUX, Ler catholiques et l'unité chrétienne du XIX au xx siècle. ltinéraires européens
d'exprersion françaire, Centurion, Paris 1982. ·

Xl - L'ENCICLICA HUMANI GENERIS (1950) 399


co e catechetico. Alcune relazioni a livello internazionale tra istituti e rivi-
ste si moltiplicano, in particolare con la Germania e l'Austria, rendendo
possibile una collaborazione che faciliterà di molto la preparazione del
Vaticano II.
I grandi teologi di quest'epoca sono implicati in questo immenso rin-
novamento pratico e pastorale 18 che porterà al superamento di un ~erto
numero di frontiere secolari tra teologia e pastorale, tra cattolici, con altre
confessioni cristiane, ed una società in piena evoluzione, tra chierici (pre-
ti-operai) e laici. Questi movimenti di riforma cercano il loro fondamento
teologico in un ritorno alle fonti bibliche e patristiche, allontanandosi sem-
pre di più dalla più stretta ortodossia tomista. Tutto ciò spiega la reazioni
del magistero romano.

3. Alcune misure disciplinari

Il primo ad essere oggetto di attenzione è il gruppo di Saulchoir, so-


spettato dal 1937 di essere compiacente con il modernismo. Convocato a
Roma nel 1938, M.-D. Chenu firma dieci proposizioni senza riuscire a cal-
mare le apprensioni del magistero. Le accuse continuano e, nel 1942, il
suo opuscolo sul Saulchoir viene messo all'Indice e l'autore destituito dalla
sua responsabilità di Reggente dal P. Thomas Philippe, rappresentante del
Visitatore romano che è il P. Garrigou-Lagrange. Qualche giorno dopo,
mons. Parente pubblica su L'Osservatore Romano un articolo che spiega i
motivi della condanna: è appunto in questo testo che compare per la pri-
ma volta l'espressione <<nouvelle théologie».
E. Fouilloux ha analizzato i documenti e raccolto cinque motivi di la-
gnanza che d'altronde si ritrovano nell'enciclica Humani generis: una col-
pevole mansuetudine di fronte al modernismo, il relativismo filosofico e
teologico che non risparmia san Tommaso, il relativismo delle formule
dogmatiche, la definizione della teologia come una «spiritualità che ha
trovato degli strumenti razionali adatti alla sua esperienza religiosa>> e,
infine, l'insistenza sul ruolo creativo della viva tradizione della Chiesa 19 •
Dopo la guerra i sospetti romani si ampliano. Y. Congar arriva a parla-
re di un «Cambiamento nell'orientamento del pontificato di Pio Xll» 20
nella seconda metà del 1946. Rivolgendosi alla Congregazione generale
dei gesuiti e poi al capitolo generale dei domenicani, il papa mette in guar-
dia contro una «nouvelle théologie» che metterebbe in pericolo i dogmi

18 Cfr. soprattutto Y. CoNGAR, Vraie et faurse réforme danr l'Èglire, Cerf, Paris, 1950.
19 E. FOUILLOUX, Le Saulchoir en procèr, cit., pp. 57ss.
20 Y. CONGAR, Chrétienr en dialogue, cit., pp. XLVss.

400 CHRISTOPH THEOBALD


immutabili della Chiesa cattolica. Una serie di articoli awelenano sempre
di più il clima e, nel giugno 1950, cinque gesuiti vengono allontanati dalla
casa di studi di Lione, nella famosa «carretta di Fourvière»: H. de Lubac,
H. Bouillard, P. Ganne, E. Delaye è A. Durand.

II. L'ENCICLICA HUMANI GENERIS

Pubblicata solo due mesi dopo questi awenimenti, il 12 agosto 1950,


l'enciclica si oppone, secondo quanto recita il titolo, a «false opinioni che
minacciano di rovinare i fondamenti della dottrina cattolica». Il primo
paragrafo allarga il significato del «dottrinale» parlando di attacchi con-
tro «gli stessi principi della cultura cristiana». È molto significativo il fatto
che il testo riesponga le principali affermazioni dei capitolo I-III della Dei
Filius, fissando così la «lettura culturale» di questo testo, così come è sta-
ta esposta sopra. Pur riconoscendo la possibilità per la ragione naturale
«di arrivare ad una conoscenza vera e certa di un Dio personale, che pro-
tegge e governa il mondo con la sua prowidenza, come un legge naturale
infusa dal Creatore nelle nostre anime» 21 , lenciclica spiega la presenza «di
dissensi ed errori fuori della barca di Cristo» a partire dallo «stato attuale
del geòere umano» 22 : «Nel raggiungere tali verità, l'intelletto umano in-
contra ostacoli sia a causa della fantasia, sia per le cattive passioni prove-
nienti dal peccato originale» 23 •
Vengono allora esposti quattro errori: l'utilizzo ideologico della teoria
dell'evoluzione per spiegare «l'origine di tutte le cose» (monismo, pantei-
smo e materialismo dialettico), l'esistenzialismo che «ripudiate le essenze
immutabili delle cose, si preoccupa solo dell'esistenza dei singoli indivi-
dui», «lo storicismo che si attiene solo agli eventi della vita umana e rovi-
na le fondamenta di qualsiasi verità e legge assoluta» e, infine, una teolo-
gia (dialettica?) in base a cui alcuni «quanto più fermamente aderiscono
alla parola di Dio, tanto più sminuiscono il valore della ragione umana, e
quanto più volentieri innalzano l'autorità di Dio rivelatore, tanto più
aspramente disprezzano il magistero della chiesa» 24 • Indubbiamente, i teo-
logi e i filosofi cattolici devono conoscere queste opinioni - l'enciclica lo
sottolinea-, per il fatto che si trovano talora in esse «un po' di verità» che
«spingono la mente nostra a investigare e a scrutare con più diligenza al-

21 Cfr. già Aeterni Patris, EE 3, nn. 49ss. e supra p. 374.


22 Cfr. Dei Filius, cap. II; DzS 3005.
23 Pio XII, Humani generis (12.08.1950), EE 6, n. 702.
24 lbid.' 704-708.

XI - L'ENCICLICA HUMANI GENERIS (1950) 401


cune venta sia filosofiche che teologiche». Ma Pio XII condanna
!'«irenismo» che, sotto il pretesto di riconciliare gli uomini di buona vo-
lontà, non insegna più la «verità integrale»:
Alcuni infuocati da un imprudente .<<irenismo», sembrano ritenere un ostacolo al
ristabilimento dell'unità fraterna, quanto si fonda sulle leggi e sui principi ~tessi
dati da Cristo e sulle istituzioni da lui fondate, o quanto costituisce la difesa e il
sostegno dell'integrità della fede, crollate le quali, tutto viene sì unificato, ma sol-
tanto nella comune rovina 25 •

Questa condanna di un «irenismo» che subordina la difesa della verità


alle istanze della comunicazione e della riconciliazione suppone una certa
comprensione dell' «integrità della fede» come integrità culturale fondata
su un sistema apologetico ed epistemologico. L'enciclica non rifiuta
«l'adattamento [ .. .] alle condizioni e ai bisogni attuali», i;na registra il dif-
ficile faccia a faccia tra le leggi e i principi dottrinali della cultura cattolica
e la moltitudine delle culture umane:
Oggi non mancano coloro che osano arrivare fino al punto di proporre seriamen-
te la questione, se la teologia e il suo metodo, come sono in uso nelle scuole con
l'approvazione dell'autorità ecclesiastica, non solo debbano essere perfezionate,
ma anche completamente riformate, affinché si possa propagare con più efficacia
il regno di Cristo in tutto il mondo, fra gli uomini di qualsiasi cultura o di qualsi-
asi opinione religiosa 26 •

Questo rifiuto di una «riforma completa del metodo teologico» in vista


di una «inculturazione della fede» (come si direbbe oggi) mette in evidenza
i limiti culturali dell'enciclica come di tutta la fase di dogmatizzazione fon-
damentale che essa, appunto, ricapitola e sistematizza per l'ultima volta.

1. La struttura del sistema

Le tre parti del testo delineano la struttura del sistema dottrinale. La


prima espone di nuovo il dispositivo delle tre istanze .di regolazione, cosl
come è precisato durante questa terza fase: dopo un lungo passo dedicato
al «linguaggio dogmatico», si passa alla definizione delle prerogative del
magistero e, finalmente, alla riaffermazione dei principi e delle norme
dell'ermeneutica biblica, fissate dalle tre encicliche Providentissimus
(1893), Spiritus Paraclitus (1920) e Divino afflante (1943), con alla fine una
sorta di piccolo sillabo circa alcuni errori teologici particolari.

2i Ibid., 712.
26 Ibid., 711.

402 CHRISTOPH TI!EOBALD


L'ordine di esposizione, che parte dal dogma, è tanto più significativo
in quanto il culmine di tutta questa parte è culturale e ormai filosofica.
L'enciclica si oppone fortemente ad una concezione ermeneutica del dog-
ma cristiano 27 , che si fonda a partire da questa su tre pilastri: «per ritorna-
re, nell'esporre la dottrina cattolica, alle espressioni (dicendi modum) usa-
te dalla sacra Scrittura e dai santi padri», una risposta «alle odierne neces- ·
sità, a poter esprimere i dogmi con le categorie della filosofia odierna, sia
dell'immanentismo, sia dell'idealismo, sia dell'esistenzialismo o di qualsi-
asi altro sistema», infine la tesi dottrinale secondo cui «i misteri della fe-
de [ ... ] non possono mai esprimersi con concetti adeguatamente veri, ma
solo con concetti approssimativi e sempre mutevoli, con i quali la verità
viene in un certo qual modo manifestata, ma necessariamente anche de-
formata»28. Contro questa posizione, tacciata di «relativismo dogmatico»,
il testo insiste sul legame indissolubile, garantito dal magistero, tra «la dot-
trina tradizionale e i termini con cui essa si esprime»:
È chiaro pure che la chiesa non può essere legata ad un qualunque effimero siste-
ma filosofico; ma quelle nozioni e quei termini, che con generale consenso furono
composti attraverso parecchi secoli dai dottori cattolici per arrivare a ·qualche
conoscenza e comprensione del dogma, senza dubbio non poggiano su di un fon-
damento così caduco. Si appoggiano invece a principi e nozioni dedotte da una
vera conoscenza del creato; e nel dedurre queste conoscenze, la verità rivelata,
come una stella, ha illuminato per mezzo della chiesa la mente umana. Perciò non
c'è da meravigliarsi se qualcuna di queste nozioni non solo sia stata adoperata in
concili ecumenici, ma vi abbia ricevuto tale sanzione per cui non ci è lecito allon-
tanarcene29.

L'insistenza sull'esperienza intellettuale di «parecchi secoli» della Chie-


sa e il carattere «perenne» della sua cultura filosofica, in opposizione alla
rapidità e alla futilità dei cambiamenti nella civiltà moderna, si ritrova nella
seconda parte del testo sulla filosofia cristiana, sulla scorta di Aeterni Pa-
tris (1879), la presentazione dei principi e la difesa della filosofia di san
Tommaso.
Riprendendo prima di tutto le affermazioni del Concilio Vaticano I
circa le possibilità della ragione umana, l'enciclica precisa, per la prima
volta, la posta in gioco teologale del «patrimonio» storico della filosofia
cristiana: la Dei Filius e l'introduzione della Humam· generis riconoscono,
unitamente al tradizionalismo moderato, la necessità morale della rivela-
zione «affinché quelle verità che in materia religiosa e morale non sono

21 Cfr. supra, pp. 359 e 363.


2s Humani generis, EE 6, nn. 714-715.
29 Ibùl., 716. ·

XI . L'ENCICLICA HUMANI GENERIS (1950) 403


per sé irraggiungibili, si possano da tutti conoscere con facilità, con ferma
certezza e senza alcun errore» 30 ; la seconda parte del testo è modellata su
questa affermazione ma aggiunge che:
Ma questo compito potrà essere assolto convenientemente e con sicurezza, se la
ragione sarà debitamente coltivata: se cioè essa verrà nutrita di quella sana filoso-
fia che è come un patrimonio ereditato dalle precedenti età cristiane e che possie-
de una più alta autorità, perché lo stesso magistero della chiesa ha messo al con-
fronto con la verità rivelata i suoi principi e le sue principali asserzioni, messe in
luce e fissate lentamente attraverso i tempi da uomini di grande ingegno 31 •

Si ritornerà su ciò che il testo dice della funzione del magistero. La storia
della filosofia è, in ogni caso, trattata analogamente a ciò che la Dei Filius (cap.
IV) dice dello sviluppo dei dogmi: il seguito del testo propone quindi una de-
finizione della filosofia cristiana e ne esplicita la modalità dello sviluppo:
Questa stessa filosofia, confermata e comunemente ammessa dalla chiesa, difende il
genuino valore della cognizione umana (1), gli incrollabili principi della metafisica
- cioè di ragione sufficiente, di causalità e di finalità - (2), e infine sostiene che si
può raggiungere la verità certa e immutabile (3 ). [...] Qualsiasi verità la mente uma-
na con sincera ricerca ha potuto scoprire, non può essere in contrasto con la verità
già acquisita; perché Dio, somma Verità, ha creato e regge l'intelletto umano non
affinché alle verità rettamente acquisite ogni giorno esso ne contrapponga altre
nuove; ma affinché, rimossi gli errori che eventualmente vi si fossero insinuati, ag-
giunga verità a verità nel medesimo ordine e con la medesima organicità con cui
vediamo costituita la natura stessa delle cose da cui la verità si attinge 32 •

Quanto poi all'obbligo canonico di formare i futuri sacerdoti «secondo


il metodo, la dottrina e i principi del Dottore Angelico» 33, il testo lo di-
fende contro due posizioni critiche che considerano la filosofia tomista
come «antiquata». La prima obbietta che «la filosofia perenne non è che
la filosofia delle essenze immutabili, mentre la mentalità moderna deve
interessarsi alla esistenza dei singoli individui e della vita sempre in dive-
nire»34. L'opposizione a questo tipo di filosofia rivela, in ultima istanza, la
difficoltà fondamentale del magistero, sempre presente a partire dalla cri-
si modernista, ad accettare la storicità delle culture umane come luogo
teologico di una vera intelligenza ermeneutica della fede. Il testo ritorna
quindi del tutto naturalmente all'affermazione principale della prima par-
te: quelli che criticano la filosofia dell'Aquinate «sembrano voler insinua-

JO Ibid., 703.
Jl Ibid., 729; la Dei Filius opponeva, in modo polemico, il «deposito divino» e il «sistema filosofico da
perfezionare» (DzS 3020).
J2 Humani generis, EE 6, nn. 729-730.
JJ Il testo cita il ere (1917), can. 1366, 2.
34 Humani generis, EE 6, n. 732.

404 CHRISTOPH TIIBOBALD


re che tutte le filosofie o opinioni, con l'aggiunta - se necessario - di qual-
che correzione o di qualche complemento, si possono conciliare con il
dogma cattolico. Ma nessun cattolico può mettere in dubbio quanto tutto
ciò sia falso» i'. La seconda posizione filosofica criticata dall'enciclica - e
che è di ordine antropologico - assomiglia al pensiero di Blondel:
Ma altro è riconoscere il potere che hanno la volontà e le disposizioni dell'animo di
aiutare la ragione a raggiungere una conoscenza più certa e più salda delle verità
morali 36 , e altro è quanto vanno sostenendo quei tali novatori: cioè che la volontà e
il sentimento hanno un certo potere intuitivo e che l'uomo, non potendo col ragio-
namento discernere con certezza ciò che dovrebbe abbracciare come vero, si volge
alla volontà, per cui egli possa compiere una libera risoluzione ed elezione fra oppo-
ste opinioni, mescolando malamente così la conoscenza e l'atto della volontà i 7 •

La terza parte dell'enciclica completa il sistema epistemologico, trat-


tando di «quelle questioni che, pur appartenendo alle scienze positive,
sono più o meno connesse (connectantur) con le verità della fede cristia-
na» 38. Il campo del sapere, chiamato «connesso» 39 è infatti l'ambito più
sensibile delle trasformazioni culturali dell'immagine del mondo e l'ambi-
to in cui la libertà dei ricercatori, riconosciuta a livello di principio a par-
tire dalla Dei Filius, incontra le prerogative del magistero. Il testo ram-
menta alcune «regole di prudenza» e la distinzione elementare tra «fatto»
e «ipotesi», senza tener conto della posizione epistemologica delle «teo-
rie» scientifiche, trattate qui come delle «dottrine». Il culmine di questa
parte e il fatto di stabilire una gerarchia all'interno del· campo del «con-
nesso» 40: passando dalla biologia (evoluzione) per l'antropologia (polige-
nismo) verso le scienze storiche (i primi 11 capitoli della Genesi) lo spazio
della libertà si restringe sempre di più.

2. Il ruolo del magistero

Affrontato in modo più specifico nella prima parte, il problema delle


prerogative del magistero attraversa di fatto l'insieme del testo. Effettiva-
mente, Pio XII non difende soltanto l'identità tra la dottrina cattolica e
tutta una cultura da adattare con prudenza «alle nuove questioni, che la

" Ibid. .
l6 Posizione del Dottore comune che l'enciclica riconosce sin dall'introduzione, cfr. supra p. 401.
l7 Humani generis, EE 6, n. 733.
Js Ibid., 735. .
39 Cfr. supra pp. 249ss.; 296ss.; 383ss.
40 Cfr. già l'intervento di mons. Ginoulhiac al Vaticano I, in: H.J. PoITMEYER, Der Glaube vor dem
Anspruch der Wirsenscha/t. Die Konst1~ution uber den katholischen Glauben «Dei Filius» des Ersten Va·
t1kanischen Konzils und die unvero!fentlichten Voten der vorbereitenden Kommirsion, Herder, Freiburg
1968, pp. 4.19 ss.

Xl • L'ENCICLICA HUMANI GENERIS (1950) 405


cultura moderna e il progresso hanno fatto diventare di attualità>> 41 ; ma il
papa pure regola questo processo di adattamento con delle frontiere net-
te «specialmente riguardo ai principi e alle principali asserzioni» che sono
sotto il controllo dell'autorità e quelli che invece «la chiesa lascia alla libe-
ra discussione dei competenti in materia» 42 • ,

La prima parte comincia stabilendo un collegamento tra «questi ama-


tori delle novità che facilmente passano dal disprezzo della teologia scola-
stica allo spregio verso lo stesso magistero della chiesa che ha dato, con la
sua autorità, una così notevole approvazione a quella teologia» 43 • Contro
l'immagine di un magistero che impedisce il progresso e la scienza, il testo
ricorda e precisa tre punti:
1. «Questo sacro magistero debba essere per qualsiasi teologo, in materia
di fede e di costumi, la norma prossima ed universale di verità» 44 • Questa af-
fermazione globale, formulata in questo modo per la prima volta in un testo
del magistero, è seguita da un richiamo alla conclusione della Dei Fi./ius, che
aveva costituito, al momento degli ultimi dibattiti nel 1870, un punto contro-
verso rilevante tra maggioranza e minoranza che temeva un'anticipazione ta-
cita della definizione dell'infallibilità pontificia 45 : i fedeli «hanno il dovere di
rifuggire pure da quegli errori che in maggiore o minore misura si avvicinano
all'eresia, e quindi osservare anche le costituzioni e i decreti, con cui queste
false opinioni vengono dalla Santa Sede proscritte e proibite» 46 •
2. Il testo precisa allora lo statuto delle encicliche ponendole nell'ambito
del «magistero ordinario» (essendo scomparso il «e universale»), senza im-
pegnare pertanto il «potere supremo», vale a dire l'infallibilità pontificia:
Non si deve ritenere che gli insegnamenti delle encicliche non richiedano, per sé,
il nostro assenso, col pretesto che i pontefici nOn vi esercitano il potere del loro
magistero supremo. Infatti questi insegnamenti sono del magistero ordinario, di
cui valgono pure le parole: «Chi ascolta voi ascolta me» (Le 10, 16); e per lo più,
quanto viene proposto e inculcato nelle encicliche, è già per altre ragioni patrimo-
nio della dottrina cattolica. Se poi i sommi pontefici nei loro atti emanano di pro-
posito una sentenza in materia finora controversa, è evidente per tutti che tale
questione, secondo l'intenzione e la volontà degli stessi pontefici, non può più
costituire oggetto di libera discussione tra i teologi 47 •

H Humani generis, EE 6, n. 743.


42 Ibitl., 730.
4J Ibid., 718.
44 Ibid.
45 Timore fugato dalle spiegazioni di Mons. Gasser (Mansi 51, 424) il quale afferma che questa di-
chiarazione non cambia nulla al grado di obbligazione dovuto agli atti della Santa Sede.
46 Humani generis, EE 6, n. 718.
47 Ibid, 720. Questa precisazione viene ripresa nella «professione di fede» del 1989; questa parte vie-
ne anche citata nell'Istruzione su La vocazione ecclesiale del teologo, EV 12, nn. 244-305.

406 CHRISTOPH TIIBOBALD


3. Sulla base di queste due precisazioni, l'enciclica definisce·il ruolo dei
teologi, situando il loro lavoro con a monte e a valle il dato del giudizio
magisteriale. La libera discussione sulle problematiche discusse in teolo-
gia scompare quando il giudizio del magistero ferma il dibattito 48 , affin-
ché i teologi possano esercitare il <<loro compito di indicare come gli inse-
gnamenti del vivo magistero si trovino sia esplicitamente sia implicitamen-
te nella sacra Scrittura o nella divina tradizione>>. L'enciclica fa comparire
qui la «teoria delle due fonti» 49 , proseguendo col dire che «ambedue le
fonti della rivelazione contengono tale e tanti tesori di verità da non po-
tersi mai, di fatto, esaurire» 50 • La regola che viene allora data ai teologi è
quella di spiegare ciò che rimane oscuro a partire dalle decisioni prese dal
magistero:
Se poi la chiesa esercita questo suo ufficio [. .. ] con l'esercizio sia ordinario che
straordinario di questo medesimo ufficio è evidente che è del tutto falso il metodo
con cui si vorrebbe spiegare le cose chiare con quelle oscure; anzi è necessario che
tutti seguano l'ordine inverso 51 .

Quanto poi all'estensione delle prerogative del magistero, sarebbe ne-


cessario raccogliere delle indicazioni che si trovano disperse nell'insie-
me del testo: esse riguardano in particolare le «nozioni filosofiche» ne-
cessarie ali' «espressione delle verità di fede» (ad esempio quella di «tran-
sustanziazione») 52 unitamente ai «principi e alle principali asserzioni»
della filosofia:
Tutti dovrebbero essere ossèquienti verso il magistero della chiesa, che per
istituzione divina ha la missione non solo di custodire e interpretare il de-
posito della rivelazione, ma anche di vigilare sulle stesse scienze filosofiche
perché i dogmi cattolici non abbiano a ricevere alcun danno da opinioni
non rette 53 •

Quanto poi a trattare del «connesso» nelle scienze positive l'enciclica


esige la sottomissione di principio al «giudizio della Chiesa» 54 a cui spetta
stabilire la concordanza o meno di questa o quella ipotesi scientifica con
il deposito della fede.

48 Humani generis, EE 6, n. 721.


49 Cfr supra pp. 164ss. .
50 Humani generis, EE 6, n. 721; contrariamente alla prudenza della Dei Filius, il testo identifica rive-
lazione e dottrina. •
n Ibid.
n Ibid., 717.
5J Ibid., 734.
54 Ibid., 735.

Xl - L'ENCICLICA HUMANI GENERIS (1950) 407


3. Questioni particolari

Occupandosi essenzialmente della struttura del «metodo teologico»,


l'enciclica mette a punto una lista di alcuni errori particolari che si posso-
no raggruppare sotto quattro titoli:
1. Una prima serie riguarda alcuni problemi di teodicea e di etica, vale
a dire «il valore della ragione umana, alla quale spetta il compito di dimo-
strare con certezza la esistenza di un solo Dio personale» 55 , temi già trat-
tati dal Vaticano I nella Dei Filius (capp. I-II).
2. Di seguito viene la difesa del senso letterale o storico delle Scritture,
in opposizione «ad una nuova esegesi, chiamata simbolica o spirituale» o
all'interpretazione mitologica dei primi 11 capitoli della Genesi. Il motivo
di questa difesa, prudente, è dottrinale:
I medesimi capitolo con parlare semplice e metaforico, adatto alla mentalità di un
popolo poco civile, riferiscono sia le principali verità che sono fondamentali per
la nostra salvezza, sia anche una narrazione popolare dell'origine del genere uma-
no e del popolo eletto.

Un certo numero di problemi si raccolgono attorno a questa visione


lineare della storia dell'umanità: la condanna del poligenismo, collegata
al problema del peccato originale, l'affermazione della gratuità della
vita soprannaturale e la difesa della teoria della soddisfazione vicaria di
Cristo 56 •
3. Un terzo punto, riguardante l'Eucaristia, riguarda pure la sostituzio-
ne del linguaggio tradizionale della Chiesa sulla transustanziazione con un
linguaggio simbolico, «in modo da ridurre la presenza reale di Cristo nel-
1'eucaristia ad un simbolismo, per cui le specie consacrate non sarebbero
altro che segni efficaci della presenza di Cristo e della sua intima uniqne
nel corpo mistico con i membri fedeli»)7.
4. Un ultimo punto riguarda il fatto che «il corpo mistico di Cristo e la
chiesa cattolica romana sono una sola identica cosa (unum idemque esse)»:
«Alcuni riducono ad una vana formula la necessità di appartenere alla vera
Chiesa per ottenere l'eterna salute» 58 •

55 lbid.,
729, 734.
56 lbid.,
726, 735-738.
51 lbid.'
726.
58 Ibid.,
727; su quest'ultimo punto cfr. la lettera del Sant'Uffizio all'arcivescovo di Boston (1949)
contro un'interpretazione rigorista di questo adagio; cfr. t. III, 453.

408 CHRISTOPH THEOBALD


4. Valutazione

L'enciclica fu causa di un vero choc tra quanti, da ormai vent'anni,


cercavano di rinnovare il metodo teologico. Era a tutti chiaro che si mira-
va alle «novità francesi»; la destituzione dei professori lionesi ne era la
prova 59 •
Ma il testo è tuttavia, in sé, prudente accumulando le distinzioni e
lasciando a ciascuno di rettificare le sue posizioni. La Nouvelle Revue
Théologique e la Revue thomiste la pubblicano corredata in ambedue i
casi di un commento moderato. Les Recherches de science religieuse e la
Revue des science philosophique et théologique non ne parlano. Ma i te-
ologi in causa sono condannati al silenzio sui punti caldi. H. de Lubac si
mette a lavorare sul buddhismo. Y. Congar è oggetto della condanna di
«falso irenismo»? Lo si rassicura ma gli si proibisce di editare di nuovo
Vera e falsa riforma nella Chiesa (1950) 60 • Tra le misure che segnano la
fine del pontificato di Pio XII la più significativa è la proibizione dei
preti-operai nel gennaio 1954. Già prevista nel 1942, le province dome-
nicane di Francia attraversano una nuova prova: teologi, responsabili
degli studi e domenicani operai devono tutti dimissionare; tutti accetta-
no, Y. Congar è mandato a Gerusalemme, poi in Inghilterra, M.-D. Che-
nu a Rouen 61 •
· Questa tempesta sulla Francia non può tuttavia spiegare completa-
mente le dimensioni e il carattere molto accurato dell'enciclica. Oggi
si sa che Pio XI e Pio XII avevano sognato di convocare un concilio.
Pio XI, nel 1923, consulta l' èpiscopato universale senza dare seguito al
progetto; Pio XII, su proposta del card. Ruffini, intende continuare il
concilio Vaticano I per opporsi agli errori moderni. La commissione
preparatoria, diretta da mons. Ottaviani, si riunisce per la prima volta
nel marzo 1948; la commissione conciliare centrale viene nominata
nel febbraio 1949. Nel gennaio 1951, il papa decide di rinunciare al
progetto, indubbiamente a motivo di divergenze rilevanti io seno alla
commissione. Ma il papa ha utilizzato per la sua enciclica del materiale
già preparato dalla commissione conciliare 62 •

59 Cfr. la lettera del RP. J.B. }ASSENS, Generale dei gesuiti, De exsecutione Encyclicae «Humani gene-
ris» (11.2.1951), ARSJ, XII (l95!), pp. 47-72 e 72-94: «L'enciclica si è occupata di un movimento di idee
molto complesso a cui hanno partecipato molti dei Nostri, e in cui alcuni di noi hanno avuto un ruolo
preponderante», p. 47. I:a lettera faceva passare in primo piano il sillabo degli «errori particolari».
60 Per maggiori dettagli cfr. Y. CoNGAR, Chrétiens en dialogue, cit.
61 Cfr. F. LEPRIEUR, Quand Rome condamne. Dominicains et pretres ouvriers, Plon-Cerf, Paris 1989.
62 Cfr. Il Concilio Vaticano II, G. Caprile (a cura di), I, I: L'annunzio e la preparazione: 1959-1960, La
Civiltà Cattolica, Roma 1966, pp. 15-35 e soprattutto p. 28.

XI - L'ENCICLICA HUMANI GENERIS (1950) 409


5. Transizione: fine e inizio
Parlare di una «fine» è suggerito da ciò che abbiamo appena detto cir-
ca la preparazione segreta di un nuovo concilio e da ciò che sappiamo dal
seguito della storia. Più profondamente, l'ipotesi di una fine implica e.erto
già una lettura del Vaticano II e della sua ricezione, come pure rappresen-
ta una presa di posizione circa la continuità e la discontinuità tra i due
concili.
Si potrebbe pure, al fine di comprendere l'evoluzione del dogma catto-
lico nei secoli XIX e xx, utilizzare la teoria del «cambiamento paradigma-
tico», sviluppata specialmente da Th.S. Kuhn per comprendere la storia
delle scienze (senza averla applicata alle scienze umane o alla stessa teolo-
gia) 63 ? Focalizzando l'attenzione sul profondo collegamento tra lo svilup-
po socio-storico delle scuole scientifiche e i cambiamenti concettuali delle
loro teorie 64 , Kuhn distingue tra lo stato di una «scienza normale» legata
ad una visione del mondo, le «crisi» che essa subisce in seguito ad alcune
scoperte inattese e difficili da integrare, e il «cambiamento paradigmati-
co» che allora può prodursi; tuttavia ciò può darsi a certe condizioni, dal
momento che la storia delle scienze non si fa per accumulo né segue una
evoluzione lineare, ma conosce dei conflitti tra «paradigmi concorrenti».
Ogni gruppo si fonda allora sulle sue proprie regole per difendere il pro-
prio paradigma. Ma l'argomentazione logica che funziona tranquillamen-
te all'interno di una «scienza normale» incontra il suo limite al momento
in cui si tratta di accettare o di rifiutare l'ingresso in un nuovo paradigma.
Compaiono allora ogni sorta di discorsi di persuasione, accompagnati da
fenomeni di violenza, di censura o di reciproca scomunica. Così la scuola
teologica del Saulchoir o, più ampiamente, i sostenitori della «nouvelle
théologie» proponevano un nuovo paradigma teologico in opposizione al
tomismo romano che, rifiutandosi di riconoscersi come scuola, difende la
sua identità con il magistero supremo 65 •
Questa identità si fonda giustamente sulla lunga evoluzione che abbia-
mo ora percorsa. Una «scienza normale» si è effettivamente costituita, e
come perfetta simbiosi tra un certo tipo di teologia e ciò che ormai viene
considerato come «dogma cattolico» che va da una dottrina delle Scrittu-

63 Cfr. CHR. THEOBALD, Le «ehangements de paradigmes» dans l'histoire de l'exégèse et le statut de la


vérité en théologie, RICP, 24 (1987), pp. 79-111 e H. KONG, Une théologie pour le 3' millénaire, Seui!,
Paris 1989, pp. 173-235.
64 A partire da Kuhn la nozione di «paradigma» indica un modello o una prospettiva globale di com-
prensione, legata ad una visione del mondo o ad un immaginario; il «paradigma>> costituisce l'oggetto
teorico degli studiosi, l'identità del loro gruppo e la maniera di riprodursi (ad esempio mediante dei ma-
nuali).
65 Cfr. E. FOUILWUX, Le Saulchoir en procès, cit., p. 59.

410 CHRISTOPH THEOBALD


re, attraverso una definizione del dogmatico, verso una visione del mondo
basata sulla filosofia tomista. Non avendo discusso la seconda Costituzio-
ne sulla Chiesa, il Vaticano I aveva lasciato aperto il problema dell'esten-
sione dell'infallibilità ecclesiale e pontificia. Ed è proprio su questa inde-
terminazione che si modellano gli ulteriori ampliamenti che sono stati qui
segnalati: fondandosi sul legame ormai acquisito tra primato di giurisdi-
zione e sovranità dottrinale, il magistero delinea l'interpretazione esclusi-
va del «quando parla ex cathedra» sostenendone l'autorità sulla visione
del mondo e allargandone sempre di più l'ambito del «definitivo» che
viene sottratto alla libera discussione tra teologi e filosofi.
Questa «scienza normale» subisce diverse «crisi» che si attuano a tutti
i livelli del sistema, nell'interpretazione delle Scritture, nei rapporti tra
dogma e storia e nei problemi culturali e filosofici, che portano alla for-
mazione di più paradigmi concorrenziali: i paradigmi liberale, ermeneuti-
co e quello del «tradizionalismo moderato», una sorta di nebulosa in cui
si ritrovano delle correnti molto diverse tra loro come la scuola romantica
di Tubinga e dell'apologetica di M. Blondel. Le loro differenze non fanno
che renderle tutte fragili di fronte all'imponente teologia romana. Dopo
la crisi modernista e a partire dagli anni Trenta, è soprattutto il paradig-
ma del «tradizionalismo moderato» che comincia a prendere corpo, an-
cor prima che anch'esso subisca, nel 1950, la censura romana.
Queste ripetute crisi awengono indubbiamente per fare qualcosa nella
costruzione delle «fortificazioni» del sistema, chiamati dagli storici «stra-
tegia di immunizzazione». Ma bisogna soprattutto sottolineare che due
guerre mondiali hanno reso àmpiamente credibili queste difese, risultato
delle preoccupazioni del magistero dinanzi alle minacce apocalittiche che
pesano sui fondamenti della società. Del resto, non si può neppure negare
che le diverse sotto-culture confessionali, e specialmente quella cattolica,
nate proprio dopo il Congresso di Vienna (1815), hanno saputo rendere,
nel XIX secolo e nel corso della prima metà del xx secolo, degli autentici
servizi: hanno saputo innestarsi sugli effetti perversi della prima fase di
modernizzazione (industrializzazione e trasformazioni sociali); si sono re-
lazionate con queste ultime offrendo ai loro membri un insieme di dati
che hanno permesso loro di vivere queste prime fratture delle società eu-
ropee66. Se l'insieme delle società europee ha effettivamente subito, du-
rante la prima metà di questo secolo, il terribile giudizio della storia, ci si
può altresì chiedere·se le «crisi» di cui abbiamo parlato non erano presa-
gio di un altro «giudizio» e questa volta all'interno stesso della Chiesa.

66 ar. F.X. KAUFMANN, Religion und Modernitiit. Sozialwissenscha/tliche Perspektiven, Mohr, Tiibin·
gen 1989, pp. 216-222.

XI · L'ENCICLICA HUMANI GENERIS (1950) 411


FASE QUARTA

IL CONCILIO VATICANO II
E LE SUE CONSEGUENZE
Bernard Sesboué e Christoph Theobald
Capitolo Dodicesimo

Il Concilio e la «forma pastorale»


della dottrina
Christoph Theobald

Indicazioni bibliografiche: GIOVANNI XXIII-PAOLO VI, Discorsi al concilio, EV 1/26"" -4 75'';


Costituzioni; Decreti e Dichiarazioni del Concilio Vaticano II, EV l/lss; Acta Synodalia Sacro-
sancti Condlii oecumenici Vaticani II, Typis Polyglottis Vaticanis, Roma 1970-1980.
R. LAURENTIN, Bilancio del concilio, IPL, 1968; R. ROUQUEITE, La fin d'une chrétienté,
2 voli., Cerf, Paris-1968; PH. LEVILLAIN, La mécanique politique de Vatican II. La majorité et
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XXIII devant l'histoire, Seuil, Paris 1989; Ecclesiologia in divenire. A proposito di «concilio
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F. GUILLEMETIE, Théologie des conférences épiscopales. Une herméneutique de Vatican Il, Bel-
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tican II, voi. I: Announcing and Preparing Vatican Council Il. Toward a new Era in Catholicism,
Orbis-Peters, Meryknoll-Leuven 1995.

L'avvenimento si dà nella basilica di San Paolo fuori le mura, il 25 gen-


naio 1959, festa della Conversione di san Paolo: eletto da soli tre mesi,
Giovanni XXIII (1959-1963) annuncia davanti a un piccolo gruppo di
cardinali il suo progetto di convocare un sinodo diocesano per la città di
Roma, di celebrare un concilio ecumenico e di cominciare una riforma
del Codice di diritto canonico del 1917. Del tutto inatteso l'annuncio di un
concilio suscita un immenso entusiasmo nei cattolici che sentono di tro-
varsi a un crocevia della storia.
Siamo all'epoca della guerra fredda tra i due blocchi dell'Est e del-
l'Ovest: nell'agosto del 1961, il mondo libero assiste passivamente alla
costruzione del muro di Berlino, ma resiste l'anno seguente all'impero
sovietico durante la crisi di Cuba. Parallelamente la decolonizzazione è al
suo apogeo: nel 1962 finisce la guerra di Algeria. Nell'emisfero nord, l'in-

XII. IL CONCILIO E LA «FORMA PASTORALE» DELLA DOTTRINA 415


dustrializzazione fa un ulteriore passo in avanti e i mezzi di comunicazio-
ne influenzano sempre di più le mentalità. Nei paesi in via di sviluppo, si
manifestano i primi segni di un'opposizione all'economia di sfruttamento
da parte dei paesi ricchi:
Anzi, facendo Nostra la raccomandazione di Gesù di saper distinguere «i segni
dei tempi» (Mt 16, 14), Ci sembra di scorgere, in mezzo a tante tenebre, indizi
non pochi che fanno bene sperare sulle sorti della chiesa e dell'umanità 1•

Ponendo il futuro concilio come all'aurora di un'epoca nuova dell'uma-


nità e della Chiesa, Giovanni XXIII non fuga immediatamente i dubbi
circa l'orientamento esatto del suo progetto. Ci vorrà un po' di tempo
perché il fine del nuovo concilio si precisi nel suo proprio spirito e perché
si possa articolare il suo desiderio ecumenico dell'unità di tutti i cristiani
e la necessità di una profonda riforma del cattolicesimo 2 • Nessun modello
presente nella tradizione conciliare della Chiesa sembra essere adatto. Ma
il papa riprende l'immagine guida di una «nuova Pentecoste» 3 che si im-
pone all'attenzione del papa sin dal primo anno per onorare «il carattere
eccezionale della congiuntura storica attuale» e <<l'obbligo per la Chiesa
di affrontarla con un radicale rinnovamento» 4 •
Il fatto che il concilio si chiami Vaticano II è il segno di questa novità'.
Mettendo fine in modo ufficiale il concilio Vaticano I, questa denomina-
zione lascia tuttavia spazio a qualche dubbio circa la loro reciproca rela-
zione.
Dopo ampie consultazioni (organizzate da una commissione anti-pre-
paratoria, istituita per la Pentecoste 1959), il papa costituisce, per la Pen-
tecoste 1960, dieci commissioni preparatorie e tre segretariati che corri-
spondono ad una Congregazione o ad un organismo della Curia, ad ecce-
zione dell'apostolato dei laici e dell'unità dei cristiani che di fatto rappre-
sentano la grande novità di questo organigramma. L'insieme viene coor-
dinato da una Commissione centrale. Indubbiamente Giovanni XXIII

1 GIOVANNI XXIII, Humanae salutis (25.12.1961), EV 1, n. 4*.


2 Ecco che cosa scriveva R. Rouquette nell'ottobre 1959: «Sembra quindi che il pensiero di Giovan-
ni XXIII sia ancora esitante tra due concezioni dei fini dcl concilio: o farne un modello di unità nella
purezza dottrinale e disciplinare, che sia incitamento per i non-cattolici a cercare un'unità più reale che
tenda alla riunificazione con la Chiesa romana; cosa che si evince più spesso dalle parole del papa; oppure,
forse, fare già del concilio uno strumento più diretto di unificazione della cristianità», R. RouQUEITE, La
fin d'une chrétienté, I, Cerf, Paris 1968, p. 33.
J Cfr. il messaggio al clero delle Tre Venezie del 21.4.1959 (cfr. Discorsz; messaggi, colloqui del Santo
Padre Giovanni XXIII, I, Tipografia Poliglotta Vaticana 1963, pp. 897-905) come pure le omelie tenute
per la Pentecoste del 1959 e del 1960.
4 Cfr. G. ALBERIGO-]. A. KoMONCHAK, History of Vatican II, I: Announcing and Preparing Vatican
Council II. Toward a new Era in Catholicism, Orbis-Peters, Meryknoll-Leuven 1995; p. 42.
' Già deciso nel luglio 1959 (cfr. ibid., p. 50) viene pubblicato nel motu proprio Supemo Dei nutu
(5.6.1960) con cui si apre la fase preparatoria del concilio: «Abbiamo pure deciso che, a partire dal luogo
dove si svolgerà, il futuro concilio si chiamerà Vaticano Il» (cfr. Discorsz~ messaggi. .., II, cit., pp. 39lss.).

416 CHRISTOPH TIIEOBALD


rafforza il carattere internazionale di queste istanze e insiste sulla «distin-
zione» tra la «Struttura e l'organizzazione del concilio ecumenico» e «le
funzioni ordinarie e caratteristiche dei diversi dicasteri e Congregazioni»
romane 6 • Ma questa distinzione si rivela ben presto impossibile da mante-
nere: questo sarà il problema più grande del futuro concilio e ancor prima
della sua preparazione che si mette in moto a partire dal 1960 secondo
due logiche sempre più divergenti 7 •
Forse orientate un poco dall'annuncio concomitante di una riforma del
diritto canonico, le Commissioni, che lavorano nel più assoluto segreto,
perseguono effettivamente e nonostante la resistenza di alcuni dei loro
stessi componenti, la dinamica dottrinale e disciplinare del Vaticano I, rie-
mersa nel 1948 e interrottasi tre anni dopo 8 • Tutto ciò verrà fuori proprio
all'inizio del concilio, quando la maggior parte degli schemi preparati
verranno rifiutati dalla maggioranza dei Padri. Parallelamente l'annuncio
del 1959 e i vari gesti di Giovanni XXIII provocano l'entusiasmo in una
larga parte del popolo cristiano e suscitano talune attese e innumerevoli
iniziative nella linea dei vari rinnovamenti già attuati9. Questa manifesta-
zione del sensus fidei 10 si riconosce nell'orientamento pastorale dei primi
discorsi del papa che relaziona la propria missione a quella del Buon Pa-
store (Gv 10, 4) 11 •
Il suo progetto di un concilio pastorale che rinnovi l'esperienza della
Pentecoste mediante l'annuncio del Vangelo nelle circostanze attuali del-
la storia 12 obbedisce ad una logica del tutto diversa da quella che anima il .
lavoro delle Commissioni. Questa trova una sua prima formulazione nella
bolla di convocazione (Natale 1961) che ne.indica almeno il principio: «di
mettere a contatto con le energie vivificatrici e perenni dell'Evangelo il
mondo moderno» 13 •
Ma al momento i protagonisti di questa seconda prospettiva non han-
no che un'idea molto vaga di ciò che la riforma tanto desiderata del catto-
licesimo implichi poi nella realtà. Y. Congar lo fa notare arrivando persi-
no a pensare che il concilio arrivasse con vent'anni di anticipo, a partire
dall'immobilismo della cultura cattolica così fortemente centralizzata e
gerarchizzata.
Anche per questo motivo nessuno dei movimenti che avevano lavorato

6 Cfr. DC, 57 (1960), pp. 705-710 e 809ss., la citazione a p. 803.


7 Questa è la tesi di G. Alberigo in: History ofVatican II, I, cit., p. 506.
8 Cfr. supra, p. 410.
9 Cfr. supra, pp. 399·400.
IO Cfr. G. ALBERIGO- J.k KOMONCHAK, History ..., I, cit., p. 506.
li Cfr. l'omelia di Giovanni XXIII nel giorno della sua incoronazione (4.11.1958) in: Discorsi, messag-
gi... , cit., pp. 10-14.
12 Cfr. Ibid., pp. 123ss.
IJ GIOVANNI XXIII, Humanae salutis, EV 1, n. 3*.

XII. IL CONCILIO E LA «FORMA PASTORALE» DELLA DOTI'RINA 417


per il rinnovamento ecclesiale, ad eccezione dei liturgisti, riesce a pesare
in modo efficace sui lavori della Commissioni romane. Il Cardinale Bea,
esegeta e già rettore dell'Istituto Biblico di Roma ne è perfettamente con-
scio e il Segretariato per l'Unità è l'unico ambito conciliare in cui comin-
cia ad essere elaborato un pensiero alternativo. Esso inviterà nel t962 le
Chiese Ortodosse e il Consiglio Ecumenico delle Chiesa ad inviare degli
osservatori ufficiali che influiranno a loro modo sulle deliberazioni del
concilio.
Giovanni XXIII sembra che lasci tranquillamente che queste due logi-
che si sviluppino. Certi vescovi (Frings, Léger, i vescovi olandesi) e teologi
(Rahner, Schillebeeckx) della futura maggioranza cominciano a reagire in
rapporto a ciò che filtra dalle Commissioni preparatorie ma troppo tardi.
Ciò spiega le difficoltà incontrate in seguito nell'elaborazione, dopo il rifiu-
to degli schemi preparatori, di testi veramente nuovi.
Lo scenario del concilio comincia così a dispiegarsi 14 con il negoziare tra
i diversi protagonisti, non solo tra il concilio (rapidamente diviso in mag-
gioranza e minoranza) e il papa, ma pure tra queste due istanze e la curia
romana, depositaria di molti dei testi preparatori. L'opinione pubblica poi
esercita una pressione sempre più forte via via che si avvicina la data del-
l'apertura.
Il nocciolo di questo dibattito è il complicato emergere di un nuovo
modo di rapportarsi al patrimonio dogmatico del cattolicesimo. Ne presen-
teremo qui il primo schizzo, così come .appariva almeno, dopo una lunga
preparazione, nel discorso di apertura del concilio, pronunciato da Gio-
vanni XXIII 1'11 ottobre 1962. Dopo ciò ne ritracceremo l'evoluzione
durante i quattro periodi del concilio, prima di interrogarci sul progetto
globale del Vaticano II e di presentarne gli assi portanti che ne manifesta-
no la teologia fondamentale.

I. L'APERTURA

Nel discorso dell'll ottobre 1962 Gaudet mater ecclesia, vera «magna
charta» del concilio, si delinea con chiarezza la trasformazione del «dog-
matico» di cui abbiamo parlato.
Giovanni XXIII contestualizza il Vaticano II nella storia dei concili, ne
richiama l'origine in un'ispirazione personale e dà un triplice orientamen-
to ai suoi lavori.

14 G. ALBERIGO- J.A. KoMONCHAK, History ..., I, cit., pp. 506-508.

418 CHRISTOPH THEOBALD


1. Un nuovo spirito

Manifestando il suo «dissentire da cotesti profeti di sventi.Ira, che an-


nunziano eventi sempre infausti, quasi che incombesse la fine del mon-
do» 15, Giovanni XXIII propone invece una lettura «sapienziale» della sto-
ria umana:
Nel presente momento storico, la Provvidenza ci sta conducendo ad un nuovo
ordine di rapporti umani, che, per opera degli uomini e per lo più al di là della
loro stessa aspettativa, si volgono verso il compimento di disegni superiori e inat-
tesi; e tutto, anche le umane avversità, dispone per il maggior bene della Chiesa 16 .

Ci si rammenta del modello apocalittico sottostante al prologo della Dei


Filius e ad altri testi di quest'epoca. Gaudet mater ecclesia vi pensa 11 ?
Questo discorso in ogni modo veicola una visione del mondo completa-
mente diversa che si ritroverà in uno degli ultimi testi del concilio, la
Costituzione pastorale Gaudium et spes (GS).
L'assoluta fiducia nella presenza di Dio nella storia dell'umanità di
unisce nello spirito del papa con una nuova attenzione verso la capacità di
apprendimento degli uomini:
Sempre più essi·vanno convincendosi che la dignità della persona umana, del suo
perfezionamento e dell'impegno che esige è affare della massima importanza. Ciò
che più conta, !'esperienza ha loro appreso che la violenza inflitta altrui, la potenza
delle armi, il predominio politico non giovano affatto per una felice soluzione dei
gravi problemi che li travagliano 18 .

Un simile rispetto davanti all'autonomia della storia va di pari passo


con una comprensione meno «esteriore» e più modesta del ruolo della
Chiesa che, «ritiene di venire incontro ai bisogni di oggi mostrando la
validità della sua dottrina, piuttosto che rinnovando condanne» 19 •

2. La dottrina cristiana

Sarà la principale preoccupazione del futuro concilio. Ma Giovanni XXIII


conferisce a questo compito un nuovo quadro. Prima di tutto si propone una
«concentrazione» del mistero cristiano, una sorta di formula abbreviata, at-

15 GIOVANNI XXIII, Gaudet mater ecclesia, EV !, n. 41*.


16 Ibid., 42. ,
17 Cfr. Ibid., 40: «Nei tempi moderni essi non vedono che prevaricazione e rovina; vanno dicendo che
la nostra età, in confronto a quelle passate, è andata peggiorando».
18 Ibid., 57*; cfr. la prima comparsa di questo tema (ibid., 40*) nel paragrafo che riguarda i profeti di
sventura che «si comportano come se nulla abbiano imparato dalla storia».
19 Ibid., 57*.

XII. IL CONCILIO E LA «FORMA PASTORALE» DELLA DOTIRINA 419


torno al suo fondamento antropologico («abbraccia l'uomo intero») e il suo
orientamento escatologico («e di conseguire il fine stabilito da Dio») 20 :
In realtà, nella Chiesa ci furono sempre, e ci sono tuttora coloro, che cercando
con tutte le forze la pratica della perfezione evangelica, non trascurano di render-
si utili alla società: di fatto, dal loro esempio di vita, costantemente praticll.to, e
dalle loro iniziative di carità prende vigore e incremento quanto di più alto e no-
bile c'è nella umana società 21 •

A questo primo approccio che preannuncia alcuni testi chiave del con-
cilio circa il legame tra la dignità dei figli di Dio e l'umanizzazione della
vita umana, fa seguito un breve sviluppo del discorso circa il rapporto di
questo mistero col momento attuale della storia:
Ma perché tale dottrina raggiunga i molteplici stadi dell'attività umana, che si rife-
riscono ai singoli, alle famiglie, e alla vita sociale, è necessario anzitutto che la Chie-
sa non si discosti dal sacro patrimonio della verità, ricevuto dai padri; e al tempo
stesso deve anche guardare al presente, alle nuove condizioni e forme di vita intro-
dotte nel mondo odierno, che hanno aperto nuove strade all'apostolato cattolico 22 •

È proprio il «mirabile progresso delle scoperte dell'umano ingegno di


cui oggi facciamo uso (saltato nella trad. it.)» che portano la Chiesa a ridire
il fondamento antropologico e l'orientamento escatologico della sua dot-
trina apostolica. Su questo doppio fondamento, Giovanni XXIII, defini-
sce solennemente «il compito dottrinale del XXI Concilio ecumenico»
assegnandogli un nuovo principio ermeneutico. Che questo testo, redatto
in italiano, sia stato poi corretto nella versione latina 23 è il segno della sua
difficile ricezione nell'ambiente curiale.
Indubbiamente si tratta di «trasmettere la dottrina cattolica nella sua
integrità, senza indebolirla né alterarla». Ma il papa esclude del tutto due
malintesi che riguardano questa integrità dottrinale: quello di confonder-
la con l'immobilismo rivolto al passato o quello di non concepire che uno
sviluppo ripetitivo o fatto per sedimentazione successiva:
Lo scopo principale di questo Concilio non è, quindi, la discussione di questo o
quel tema della dottrina fondamentale della Chiesa, in ripetizione diffusa dell'in-
segnamento dei Padri e dei Teologi antichi e moderni quale si suppone (c'è qui
una nota umorisitica) sempre ben presente e familiare allo spirito. Per questo non
occorreva un concilio ecumenico 24.

20 Ibid., 4647*.
21 Ibid., 48*.
22 Ibid., 49*.
2l Cfr. l'edizione critica di A. MELLONI, in G. ALBERIGO et alii, Fede, tradizione, profezia. Studi su Gio-
vanni XXIII e sul Vaticano II, Brescia 1984, pp. 239-283; cfr. pure il resoconto di R AUBERT, R!IE, 81
(1986), pp. 776ss.
24 Gaudet mater ecclesia, EV I, nn. 54*-55*.

420 CHRISTOPH THEOBALD


Questa nota che contraddice - quasi di passaggio - la logica della pre-
parazione del concilio visto in continuità con il Vaticano I, introduce ciò
che si potrebbe chiamare un «cambiamento di ordine» o «paradigmati-
co». Si passa prima dal contenuto della dottrina alla sua ricezione, fondata
su una rinnovata attenzione alla sua forza di trasformazione spirituale:
Dalla rinnovata serena e tranquilla adesione a tutto l'insegnamento della Chiesa
nella sua interezza e precisione, quale ancora splende negli atti conciliari da Tren-
to al Vaticano I, lo spirito cristiano, cattolico ed apostolico del mondo intero,
attende un balzo innanzi verso una penetrazione dottrinale e una formazione del-
le coscienze 25 .

Confermata l'importanza della ricezione della dottrina il discorso pro-


pone di seguito il principio di interpretazione ripreso qui secondo la sua
versione originale {italiana):
È necessario che questa dottrina certa ed immutabile sia approfondita e presenta-
ta seguendo i metodi di ricerca e il modo di trasmissione usati dal pensiero moderno.
Altra cosa è infatti il deposito della fede [... ] e altra cosa è la formulazione che la
riveste; [. .. ]. Bisognerà attribuire molta importanza a questa forma e, se sarà ne-
cessario, bisognerà insistere con pazienza nella sua elaborazione: e si dovrà ricor-
rere ad un modo di presentare le cose, che più corrisponda al magistero, il cui
carattere è preminentemente pastorale 26 •

Questo principio si pone chiaramente in una duplice distanza in rappor-


to alla Dei Filius (cap. IV): non solo afferma per la prima volta la differenza
fondamentale tra il deposito della fede, preso qui come un tutt'uno senza
riferimento al suo pluralismo interno che è insito nella stessa espressione, e
la forma.storica che assume in questa o quell'epoca. Ma insiste pure - come
implicazione di questa concezione ermeneutica della fede - sulla funzione
fondamentalmente pastorale del magistero ecclesiale.
Ed è appunto lo statuto pastorale del magistero che il discorso esplicita
infine in un terzo paragrafo. Il magistero «solenne» o «straordinario» 27
comporta, secondo la definizione giuridica del Vaticano I, la funzione di
esprimere un «giudizio dogmatico» in un contesto di opposizione a que-
sta o quell'eresia; implica quindi anatemi e condanne. Ma Gaudet mater
ecclesia dice chiaramente per ben due volte che il concilio Vaticano II è,

2' Ibid., 55*.


26 Ibid.: la versione latinà curata dalla Curia omette di menzionare i «metodi di ricerca» e <<li modo di
trasmissione del pensiero moderno»; e soprattutto fa glissare la distinzione più storica tra «la sostanza del
deposito» e <<la fonnulazione che la riveste» verso qualcosa di più vicino al Vaticano I tra «il deposito
stesso della fede, vale a dire le verità contenute nella nostra dottrin11>> e <<la forma con cui quelle vengono
enunciate (si noti il plurale)»; infine il latino aggiunge il canone di Vincenzo di Lérins citato dal Vatica-
no I: «conservando ad esse tuttavia lo stesso senso e la stessa portata» (DzS 3020).
2 7 È la terminologia della Humani generis.

XII. IL CONCILIO E LA «FORMA PASTORALE» DELLA DOTIRINA 421


come tutti i concili ecumenici, una «manifestazione del magistero straor-
dinario della Chiesa» 28 • Ma al contempo il papa rinuncia ad ogni condan-
na, a motivo della sua fiducia nella capacità di cambiamento degli uomini:
«Non già che manchino dottrine fallaci, opinioni e concetti pericolosiJ ... J
ma ormai gli uomini da se stessi sembra siano propensi a condannarli».
Su questa base e riferendosi alle Sacre Scritture, un nuovo modo di con-
cepire il magistero straordinario, detto pastorale, comincia a delinearsi:
Al genere umano, oppresso da tante difficoltà, essa, come già Pietro al povero,
che gli chiedeva l'elemosina, dice: «lo non ho né oro né argento: ma ti do quello
che ho: nel nome di Gesù Cristo Nazareno, levati e cammina» (At 3, 6). La Chie-
sa, cioè, agli uomini di oggi non offre ricchezze caduche, non promette una feli-
cità solo terrena, ma partecipa ad essi i beni della grazia divina, che, elevando gli
uomini alla dignità di figli di Dio, sono validissima tutela ed aiuto per una vita più
umana; apre la fonte della sua vivificante dottrina, che permette agli uomini illu-
minati dalla luce di Cristo di ben comprendere quel che essi realmente sono, la
loro eccelsa dignità, il loro fine 29 •

3. L'unità di tutti i cristiani e della famiglia umana


Il fine ultimo di questa missione pastorale del concilio è l'unità di tutti
i cristiani e di tutta la famiglia umana. Il discorso del papa offre a questo
punto un primo segno del triplice ecumenismo che sarà tanto caro a Pao-
lo VI. Radicata nella storia dell'umanità, la dottrina cristiana non ha altro
compito se non quello di trasformare questa umanità e di orientarla verso
il suo fine escatologico:
La sollecitudine della Chiesa nel promuovere e difendere la verità, deriva dal fat-
to che, secondo il disegno di Dio, «che vuole che tutti gli uomini siano salvi e
giungano alla cognizione della verità» (1 Tm 2, 4), non possono gli uomini senza
l'aiuto dell'intera dottrina rivelata, raggiungere una completa e salda unità degli
animi, cui è congiunta la vera pace e l'eterna salute3°.

Quale il rapporto di questo progetto così sorprendentemente nuovo


come le precedenti assisi della cristianità e in particolare con i concili di
Trento e del Vaticano I? La risposta a questa domanda non è facile ed è
rimasta implicitamente aperta durante tutto il concilio e anche dopo. Ma
Gaudet mater ècclesia dà una prima risposta con il suo modo di fare onore

2B Gaudet mater ecclesia, EV 1, n. 28*: «Si è proposto di affermare, ancora una volta, la continuità del
Magistero Ecclesiastico, per presentarlo in forma eccezionale, a tutti gli uomini del nostro tempo, tenendo
conto delle deviazioni, delle esigenze, delle opportunità della età contemporanea».
29 Ibid, 58*. .
Jo Ibid., 59*.

422 CHRISTOPH THEOBALD


al contesto storico e di contestuare alla loro articolazione reciproca il
«dogmatico» al di là di una falsa alternativa tra una dottrina avulsa d~lla
pastorale o di una pastorale senza dottrina: superando la distinzione tri-
dentina tra fides e mores (dottrina e disciplina), il papa insiste, insieme
alla teologia moderna, sulla forma della fede cristiana, pur tuttavia facen-
dola muovere dalla sua credibilità razionale (Vaticano I) verso il suo radi-
camento storico-pratico (Vaticano II).

II. I QUATTRO PERIODI DEL CONCILIO

1. Il primo periodo (11 ottobre - 8 dicembre 1962)


Fatta l'elezione dei componenti le dieci commissioni conciliari, aggior-
nata un poco grazie all'intervento inatteso del cardinal Liénart di Lilla, il
concilio affronta cinque scherni, sulla liturgia, le due fonti della rivelazio-
ne, i mezzi di comunicazione sociale e il progetto Ut unum sint preparato
dalla Commissione delle Chiese orientali, e infine la Chiesa. È il dibattito
sulle due fonti (14-20 novembre) che mette in luce, tutto d'un colpo, i tre
problemi principali del primo periodo e dell'insieme dei lavori conciliari:
1. Il problema di/on do è rappresentato dalla coabitazione, sin dalla fase
preparatoria, di due logiche fondamentalmente diverse. Chiaramente op-
poste all'aggiornamento del discorso dottrinale, così come era stato ab-
bordato dal discorso papale del'll ottobre, il testo della Commissione
dottrinale si mantiene al livello di una concezione intellettualistica della
rivelazione'1, che si basa, per fondare le «verità da credere», su una se-
conda fonte accanto a quella della Scrittura, la Tradizione. Una simile
concezione determina le relazioni tra dogma ed esegesi biblica a svantag-
gio delle Scritture e risulta essere una minaccia alla preoccupazione ecu-
menica di Giovanni XXIII, rappresentata dal Segretariato per l'unità e gli
osservatori presenti nell'aula del concilio.
2. Da un punto di vista istituzionale, questa divergenza di fondo si ri-
trova nella supremazia esercitata, sin dalla fase preparatoria, dalla Com-
missione dottrinale, diretta dal Cardinal Ottaviani, presidente del sant'Uf-
fizio (suprema congregatio) e nello spazio limitato lasciato, nella linea delle
tesi della Humani generis, alle iniziative degli esperti teologi ed esegeti.
L'opposizione tra· la Commissione e un buon numero di questi ultimi si

li Cfr. G. RuGGIERI, La lotta per la pastoralità della dottrina: la recezione della «Gaudet Mater Ecclestiw
nel primo periodo del Concilio Vaticano II, in: W. WEISs, Zeugnis und Dialog. Die katholische Kirche in der
neuzeitlichen Welt und das II. Vatikanische Konzil, Echter, Wtirzburg 1996, pp. 118-137.

XII. IL CONCILIO E LA «FORMA PASTORALE» DELLA DOTfRINA 423


precisa nei giorni precedenti al dibattito sulle due fonti: cominciano a cir-
colare dei progetti alternativi, che provengono soprattutto dagli ambienti
franco-tedeschi del concilio (Rahner, Congar, Daniélou).
Il regolamento del concilio fa vedere allora i suoi limiti. Pubblicato alla
vigilia della sua apertura'2, questo è in continuità con quello del Varica-
no rn affidando come quest'ultimo la parte esplorativa dei lavori al papato
che, oltre al diritto di indizione, esercita pure quello di proposizione (jus
proponendz) sempre più concentrato nelle sue mani attraverso la messa a
punto di schemi preparatori, una trentina al Vaticano I e settanta al Vatica-
no II. Certo, il regolamento stabilisce nel suo articolo 33 che «ogni Padre
può esprimere il suo parere su tutto lo schema presentato per chiedere la
sua approvazione, il suo rifiuto, o la sua correzione»H. Ma nessuna proce-
dura «parlamentare» è prevista al fine di permettere un consenso negativo,
vale a dire il rifiuto di uno schema dopo un dibattito generale. Affermando
tacitamente il legame stretto (spirituale) tra il papato e il concilio e negando
ogni separazione dei poteri, il regolamento induce a pensare quindi che il
testo proposto beneficia già globalmente dell'accettazione del papa che ha
istituito lui stesso la Commissione preparatoria'5 • Si vedrà nel capitolo se-
guente come è stato risolto il primo blocco, provocato da una opposizione
massiccia alle due fonti, che però non riuscì ad ottenere il ritiro del testo.
Giovanni XXIII intervenne direttamente e nominò una commissione mista,
formata dai membri della Commissione dottrinale e del Segretariato per
l'unità, al fine di preparare un nuovo schema. Questo atto mette fine, a li-
vello di principio, alla supremazia di una gestione del «dogmatico» che si
creda esente dalle condizioni storiche della sua recezione.
3. Allo stesso tempo si pone il problema dell'insieme del programma
conciliare, gestito dopo la scomparsa della Commissione centrale con la
fine della fase preparatoria, dal Consiglio di presidenza. Certo il principio
di una riforma della Chiesa è un dato acquisito. Ma esso si esprime secon-
do un <<metodo parcellizzato» 36, in un insieme di testi che riflettono la
struttura amministrativa della Curia. Inoltre solo pochissimi Padri hanno
una visione globale dei lavori, che sola permetterebbe di contestualizzare
ogni testo nel suo insieme più vasto e i dibattiti mostrano l'assenza del
consenso sullo stesso principio di aggiornamento. Queste difficoltà rilan-

32 Motu proprio Appropinquante Concilio (6.8.1962) cfr. DC, 59 (1962), 1223-1238.


n Cfr. supra pp. 220ss.; per un confronto dei due regolamenti e della loro correzione da parte di Pio
IX e di Paolo VI, cfr. PH. LEVILLAIN, La mécanique politique de Vatican II, Beauchesne, Paris 1975, pp.
107-170.
l4 Cfr. DC, 59 (1962) 1232.
35 Cfr. PH. LEVILLAIN, La mécanique politique de Vatican II, cit., pp. 114-121 e 158ss.
36 Ibid., p. 120. .

424 CHRISTOPH THEOBALD


ciano, già durante il dibattito sulla liturgia, il problema di un coordina-
mento tra i diversi schemi. Giovanni XXIII risponde alla difficoltà il 5 e 6
dicembre, limitando il numero degli schemi a venti e istituendo una Com-
missione di coordinamento 37 • Nel suo discorso di chiusura (8 dicembre
1962), il papa fa un bilancio dei primo periodo, orienta i lavori dell'inter-
sessione e ricorda, un'ultima volta prima della sua morte, l'immagine di-
rettrice di una «nuova Pentecoste» 38 •

2. La gestione del concilio da parte di Paolo VI

Eletto il 21 giugno 1963 Paolo VI ( 1963-197 8) fissa come data della


ripresa del concilio il 29 settembre. Il suo discorso di apertura permette al
contempo di constatare la continuità tra il primo periodo e i tre successivi
come pure di scorgere i cambiamenti che si opereranno sotto il suo pon-
tificato. Il papa comincia col riprendere la parte dottrinale del discorso di
apertura di Giovanni XXIII, insistendo tuttavia sulla continuità tra i due
concili del Vaticano. Così Paolo VI rivolgendosi al suo predècessore:
Tu, non sollecito da alcun terreno stimolo, da alcuna particolare cogente circo-
stanza, ma quasi divinando i consigli celesti e penetrando negli oscuri e tormenta-
ti bisogni dell'età moderna, hai raccolto il filo spezzato del Concilio Vaticano
primo, e hai cosl disingannato spontaneamente la diffidenza a torto da alcuni
derivata da quello, quasi bastassero oramai i supremi poteri riconosciuti come
conferiti da Cristo al Romano Pontefice per governare la Chiesa senza l'aiuto dei
Concili ecumenici 39.

La parte centrale del discorso di Giovanni XXIII viene poi citata nella
versione latina e secondo un ordine un po' diverso, in modo che la cele-
bre distinzione tra «la sostanza del deposito della fede» e <<la formulazione
di cui è rivestito» non vi compare più 40 • Sottolineando poi la continuità
dottrinale e legislativa tra i due concili 41 , Paolo VI sposta contem porane-
amente il culmine dogmatico del discorso di Giovanni XXIII verso la
prospettiva ecclesiologica:
Hai chiamato i fratelli, successori degli apostoli, non solo a continuare lo studio
interrotto e la legislazione sospesa, ma a sentirsi col Papa in un corpo unitario per

37 Cfr. DC, 60 (1963) pp. 21-24; il testo comincia con un ampio estratto della parte dottrinale del
discorso dell'll ottobre.
38 GIOVANNI XXIII, Discorso a chiusura del primo periodo del concilio, EV 1, n. 124•.
39 PAOLO VI, Discorso in apertura del secondo periodo del concilio, lbid., 138''.
40 Cfr. il discorso del 6.9.1963 sul senso delle parole «aggiornamento» e «pastorale», DC, 60 (1963),
1265-1270.
41 Cfr. il Discorso in apertura del terzo periodo del concilio, EV 1, nn. 246*-249*.

XII. IL CONCILIO E LA «FORMA PASTORALE» DELLA DOITRINA 425


essere da lui diretti affinché il sacro deposito della dottrina cristiana sia custodito e
insegnato in forma più efficace 42 •

Non c'è quindi alcuna sorpresa nel trovare alla fine dell'introduzione di
questo discorso un nuovo «principio» organizzativo per i lavori conciliari:
'
Se noi venerabili fratelli, poniamo davanti al nostro spirito questa sovrana conce-
zione: essere Cristo nostro Fondatore, nostro Capo, invisibile, ma reale, e noi tut-
to ricevere da lui così da formare con lui quel «Christus totus» di cui parla
S. Agostino e la teologia della Chiesa è tutta pervasa, possiamo meglio compren-
dere gli scopi principali di questo Concilio, che per ragione di brevità e di miglio-
re intelligenza noi indicheremo in quattro punti: la conoscenza, o, se così piace
dire, la coscienza della Chiesa, la sua riforma, la ricomposizione di tutti i cristiani
nell'unità, il colloquio della Chiesa col mondo contemporaneo 43 .

Già durante l'inter-sessione, la Commissione di coordinamento, istitui-


ta da Giovanni XXIII, aveva fatto un grosso lavoro di riorganizzazione
del materiale fino a ridurre i venti schemi che erano stati distribuiti a di-
ciassette. In questi quattro punti, Paolo VI ordina il tutto secondo una
struttura a tre cerchi concentrici, ispirata dal suo predecessore: la Chiesa
in se stessa, l'azione ecumenica e il mondo. Dietro questo programma che
è stato qualificato come «pan-ecclesiocentrico» 44 si delinea una notevole
articolazione tra la pratica conciliare sotto Paolo VI e la dottrina della
«collegialità episcopale», che sarà affermata nel 1964 nella Costituzione
Lumen gentium (LG III, 22-23). A partire dal discorso di chiusura della
seconda sessione (4 dicembre 1963), il papa precisa su questo punto l'ar-
ticolazione tra i due concili del Vaticano:
Vuole mettere nella debita luce, secondo il pensiero di nostro Signore e secondo
l'autentica tradizione della Chiesa, la natura e la funzione, divinamente istituite,
dell'Episcopato, dichiarando quali siano le sue potestà e quale debba essere il loro
esercizio, sia rispetto ai singoli Presuli, sia nel loro insieme, in modo che venga
degnamente illustrata l'altissima posizione dell'Episcopato stesso nella Chiesa di
Dio, non come ente indipendente, né separato, né tantomeno antagonista riguar-
do al sommo Pontefice di Pietro, ma con lui e sotto di lui cospirante al bene comu-
ne e al fine supremo della Chiesa medesima 45 •

Oramai Paolo VI interverrà sempre più spesso nei dibattiti come ve-
scovo di Roma o membro del collegio, e sovente per proteggere la mino-
ranza del concilio. Al.contempo dirigerà i lavori in nome del magistero

42 Ibid., 139* la parte in corsivo è la citazione di Giovanni XXIII.


4) Ibid., 148*.
44 Cfr. t. III, pp. 455ss.
4~ PAOLO VI, Discorso di chiusura del secondo periodo del concilio, EV 1, n. 221*.

426 CHRISTOPH TIIBOBALD


supremo, in particolare la sua prima enciclica Ecclesiam suam (6 agosto
1964) in cui espliciterà il suo programma conciliare e attraverso i suoi
viaggi in alcuni luoghi simbolici, strettamente legati a questo o quel
punto dell'opera conciliare: in Terra santa dopo il secondo periodo, in
Oriente dopo il terzo e all'ONU alla fine del concilio. Allo stesso tempo
Paolo VI dà alla collegialità episcopale un'espressione più «parlamenta-
re» che trova la sua espressione in una modifica del regolamento conci-
liare che tiene conto delle numerose deroghe e dei vuoti giuridici del
primo periodo e istituisce un nuovo organo di direzione, il collegio dei
quattro moderatori («i quattro Evangelisti») con il compito di rendere i
lavori più efficaci.

3. Gli ultimi tre periodi del concilio


Secondo il desiderio di Paolo VI 46 , il tema principale del secondo pe-
riodo (29 settembre - 4 dicembre 1963) è la Chiesa. I dibattiti riguarda-
no quindi la Costituzione LG e il Decreto Christus Dominus (CD) che
tratta del compito pastorale dei vescovi. A partire poi dalla metà di no-
vembre il concilio affronta pure lo schema sull'ecumenismo e i due testi
molto attesi sulla libertà religiosa e l'ebraismo, redatti sotto la stessa
responsabilità del Segretariato per l'unità. L'avvenimento più significa-
tivo di questo secondo periodo è un doppio voto orientativo, quello del
29 ottobre che porta a unire lo schema sulla Vergine Maria alla Costitu-
zione sulla Chiesa e quello del 30 ottobre 47, che riguarda cinque proble-
mi ecclesiologici (la sacramentalità dell'episcopato, la collegialità e il
diaconato).
Infine, il 4 dicembre, i primi due schemi arrivano alla promulgazione
solenne: la Costituzione sulla sacra liturgia, Sacrosanctum concilium (SC) e
il Decreto sui mezzi di comunicazione sociale, Inter mirifica (IM), i due testi
sono introdotti da una nuova formula ricca di significato dottrinale e con-
trastanti con l'introduzione delle Costituzioni del Vaticano I 48 : «Paolo,
Vescovo, servo dei servi di Dio, unitamente (una cum) ai Padri del Sacro
Concilio a perpetua memoria».
Il terzo periodo (14 settembre - 21 novembre 1964) è segnato dalla
conclusione dei dibattiti ecdesiologici. Il 21 novembre vengono promul-
gati tre testi: la Costituzione dogmatica sulla Chiesa (LG), il Decreto sulle

46 Discorso di apertura del secondo periodo del concilio, lbid., 161".


47 Cfr. t. III, p. 529.
48 Cfr. supra pp. 230-231.

XII. IL CONCILIO E LA «FORMA PASTORALE» DELLA D01TRINA 427


Chiese orientali cattoliche, Orientalium ecclesiarum (OE) e il Decreto «vi-
cino» sull'ecumenismo, Unitatis redintegratio (UR).
Ormai numerosi interventi dell' «autorità superiore» cercano di ricon-
ciliare le due «logiche dottrinali» presenti sin dagli inizi della fase prepa-
ratoria. Questi arbitraggi riguardano soprattutto alcuni problemi litigiosi.
nell'ambito della teologia e dell'ecclesiologia fondamentale, già affrontati
dal magistero durante la fase di dogmatizzazione della teologia fondamen-
tale (1870-1950). L'esempio più eloquente è la celebre Nota praevia che
interpreta la dottrina della collegialità episcopale in funzione delle prero-
gative pontificie definite dalVaticano I 49 • Inoltre alla vigilia della promul-
gazione solenne, diciannove emendamenti vengono introdotti nel Decreti
sull'ecumenismo. Altri interventi riguardano il testo sulla libertà religiosa,
discusso contemporaneamente allo schema sull'ebraismo diventato una
Dichz'arazione sulle religioni non-cristiane, e alla Costituzione sulla rivela-
zione divina, rimessa all'ordine del giorno dopo il dibattito traumatico del
primo periodo 50 •
Il quarto periodo (14 settembre - 8 dicembre 1965) è di gran lunga il
più pesante. In tre Congregazioni pubbliche il concilio non promulga
meno di undici testi: il 28 ottobre vi è la celebre Dichiarazione sulle rela-
zioni della Chiesa con le religioni non-cristiane, Nostra aetate (NA) 51 , uni-
tamente a quattro testi disciplinari, i Decreti sull'ufficio pastorale dei Ve-
scovi; Christus Dominus (CD), Sul rinnovamento della vita religiosa, Per-
fectae caritatis (PC) e Sulla formazione sacerdotale, Optatam totius (OT)
così pure la Dichiarazione sull'educazione cristiana, Gravissimum educatio-
nis (GE). Il dibattito sulla Rivelazione divina (DV) si conclude il 18 no-
vembre, dopo un ultimo intervento di Paolo VI sulla questione delle due
fonti 52 • Lo stesso giorno il concilio promulga anche un Decreto sull'apo-
stolato dei laicz; Apostolicam actuositatem (AA).
L'ultima sessione pubblica è del 7 dicembre alla vigilia della chiusura del
concilio. Sono pubblicati altri due Decreti pastorali sul Ministero e la vita
sacerdotale, Presbyterorum ordinis (PO), e su L'attività missionaria della
Chiesa, Ad gentes (AG). La Dichiarazione sulla libertà religiosa, Dignitatis
humanae (DH) - testo molto delicato riguardante contemporaneamente la
teologia della fede e alcuni problemi politici - insieme alla Costituzione pa-
storale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, Gaudium et spes (GS), apro-
no infine l'opera ecclesiologica del concilio sulle società moderne.

49 Cfr. t. III, pp. 461-462.


50 Due problemi furono ritirati da Paolo VI dal dibattito conciliare: il cdibato dei preti e la contrac-
cezione.
51 Cfr. infra, pp. 510-527.
52 Cfr. infra, pp. 474-475.

428 CHRISTOPH THEOBALD


Ritenuta per un certo tempo come «il cimitero dei settanta schemi»,
GS è effettivamente il solo testo del concilio la cui redazione non pote-
va fondarsi su un progetto preciso, preparato da una Commissione pre-
conciliare. È la totalmente nuova Commissione di coordinamento che,
durante la sua prima sessione nel gennaio 1963, decide della sua elabora-
zione. Stimolata da due encicliche, Pacem in terris di Giovanni XXIII
(11aprile1963) ed Ecclesiam suam di Paolo VI (6 agosto 1964), la reda-
zione va avanti molto lentamente e la Costituzione pastorale arriva davan-
ti all'assemblea soltanto il 26 ottobre 1964 (terzo periodo): ormai essa
viene ritenuta, dopo la Costituzione dogmatica LG, come il secondo polo
dell'opera conciliare.
Altri due atti di grande importanza simbolica e dottrinale segnano an-
cora quest'ultima sessione pubblica del concilio: la cancellazione degli
anatemi tra Roma e Costantinopli (1054) e la trasformazione della Sacra
Congregazione del Sant'Uffizio in Congregazione per la dottrina della
fede:
Ma poiché la carità «esclude il timore» (1 Gv 4, 18), alla difesa della fede ora si
provvede meglio col promuovere la dottrina, in modo che, mentre si correggono
gli errori e soavemente si richiamano al bene gli erranti, gli araldi del vangelo ri-
prendono nuove forze. Inoltre il progresso· della cultura umana, la cui importanza
nel campo religioso non dev'essere trascurata, fa sì che i fedeli seguano con mag-
giore adesione ed amore le direttive della chiesa, se, per quanto è possibile in
materia di fede e di costumi, vengono fatti loro intendere con chiarezza i motivi
delle definizioni e delle leggi 53.

III. LA STRUTTURA POLICENTRICA


DEL CORPO CONCILIARE

Questa breve panoramica storica degli avvenimenti mostra che il pro-


getto globale del concilio è maturato lentamente. Nel 1962, Giovan-
ni XXIII aveva dotato l'assemblea di un nuovo «principio ermeneutico»
che sposta i dibattiti dal contenuto dogmatico verso la sua/orma pastorale.
Questo «principio» incontra una forte resistenza da parte della Commis-
sione dottrinale; perciò si attua un cambiamento ad opera di Paolo VI,
nel 1963, verso un approccio più attento alla complementarità dei conte-
nuti dogmatici ed ecclesiologici dal Vaticano I al Vaticano II. Questa «esi-
tazione» sul se9so del «dottrinale», vale a dire del «dogmatico», si ritrova

5J PAOLO VI, I~tegrae servandae (7. 12. 1965), EV 2, n. 481.

Xll. IL CONCILlO E LA «FORMA PASTORALE» DELLA DOITRINA 429


molto chiaramente a livello delle organizzazioni successive dell'insieme de-
gli schemi. Essa rende difficile e conflittuale la recezione o l'interpretazione
dell'attuale insieme dei documenti che è vasto e che non occupa meno di
un terzo della recente edizione dei decreti dei concili ecumenicP~.

1. La struttura progressiva del corpus


Si possono distinguere cinque stadi diversi nella progressiva struttura-
zione dell'opera conciliare:
1. Prima di tutto bisogna ricordare i dati della terza fase di questo tomo,
inerenti alla dogmatizzazione della teologia fondamentale (1870-1950) che
a partire da Leone XIII, ha sempre di più allargato il campo del dogma-
tico a tutta una visione del mondo. Il carattere incompiuto della dottrina
del Vaticano I e l'assommarsi senza precedenti di grandi collezioni di
encicliche non sono altro che un richiamo alla ripresa e alla sintesi dottri-
nale. Le Commissioni preparatorie hanno lavorato proprio in questo sen-
so, fondandosi del resto sulla loro istituzione da parte di Giovanni XXIII
e su un passo della Bolla di indizione che suppone una bipartizione dei
lavori - prossima alla struttura mentale del Vaticano I - tra la missione
soprannaturale della Chiesa (i problemi riguardanti la sacra Scrittura, la
Tradizione, i sacramenti e le preghiere della Chiesa, la disciplina ecclesia-
stica, le opere di carità e di assistenza, l'apostolato dei laici, le missioni) e
l'efficacia di questo ordine di cose sull'ordine temporale:
La Chiesa sa quanto giovino al bene dell'anima quei mezzi che sono atti a rendere
più umana la vita ai singoli uomini che devono essere salvati. [... ] Di qui la pre-
senza viva della Chiesa oggi estesa agli organismi internazionali, di diritto o di
fatto; e di qui l'elaborazione della sua dottrina sociale riguardante la famiglia, la
scuola, il lavoro, la società civile, e tutti i problemi connessi, che ha elevato ad un
prestigio altissimo il suo magistero; come la voce più autorevole, interprete ed
assertrice dell'ordine morale, e vindice dei diritti e dei doveri di tutti gli esseri
umani e di tutte le comunità politiche 55 •

2. Una seconda strutturazione dell'opera conciliare, già presente nella


Bolla di indizione, si precisa nel discorso dell'll ottobre 1962. Ispirando-
si al Vangelo e fondandosi di conseguenza su una concezione pastorale o
storico-pratica della dottrina, Giovanni XXIII propone, indubbiamente,
un'organizzazione a tre cerchi concentrici (la Chiesa, l'unità della famiglia

H Cfr. l'elenco delle abbreviazioni del COD.


' ' GIOVANNI XXIII, Humanae salutis, EV 1, n. 11 •.

430 CHRISTOPH THEOBALD


cristiana, l'unità della famiglia umana), tripartizione che non bisogna tut-
tavia isolare dalla sua visione escatologica della storia umana.
3. Alla fine del primo periodo alcune voci autorevoli si fanno sentire
per chiedere una concentrazione degli schemi. Il 4 dicembre 1962, il car-
dinal Suenens, appoggiato l'indomani dal cardinal Montini, propone una
ristrutturazione rilevante del materiale, appoggiandosi sul messaggio di
Giovanni XXIII al mondo intero Ecclesia Christi lumen gentium (11 set-
tembre 1962), testo ispirato a sua volta ad una lettera pastorale di Sue-
nens e ad un rapporto chiesto dal papa al cardinale di Malines. Il messag-
gio di Giovanni XXIII e il «piano Suenens» del 4 dicembre obbediscono
effettivamente ad uno stesso schema di distribuzione bipartita tra la vita-
lità della Chiesa ad intra (la struttura interna della Chiesa) e la sua vitalità
ad extra (l'annuncio del Vangelo al mondo moderno) 56 • Per ciò che riguar-
da invece l'altro versante dell'opera conciliare, il cardinale indica anche
un certo numero di temi che si ritroveranno nella GS. Ma è solo al mo-
mento delle due prime sessioni della Commissione di coord~namento
(gennaio e marzo 1963) che ci si avvicina, sulla base del «piano Suenens»
alla struttura attuale: una serie di diciassette schemi, che ormai rappresen-
tano fordine del giorno dei periodi futuri, si apre con lo schema sulla ri-
velazione che è seguito dallo schema dogmatico sulla Chiesa e quello su
Maria madre della Chiesa. Tredici schemi pastorali (vescovi, Chiese orien-
tali, missioni, ecumenismo, clero, stati di perfezione, apostolato dei laici,
liturgia, cura delle anime, sacramento del matrimonio, formazione dei
seminaristi, scuole cattoliche, mezzi di comunicazione sociale) si riallac-
ciano a quello della Chiesa, l'insieme poi si conclude con il nuovo schema
sulla presenza della Chiesa nel mondo moderno. D'altronde, la preoccu-
pazione della recezione post-conciliare, già presente nella fase preparato-
ria Y7, comincia a farsi sentire attraverso una distinzione più netta tra Costi-
tuzioni e Decreti conciliari, documenti post-conciliari e Commissione di
revisione del diritto canonico (istituita il 28 marzo 1963).
4. Ispirandosi ai tre cerchi concentrici di Giovanni XXIII e del «piano
Suenens», Paolo VI distingue quattro parti nell'opera conciliare: il lavoro
dogmatico sulla Chiesa, il rinnovamento della Chiesa (i decreti pastorali),
l'unità di tutti i cristiani (il decreto sull'ecumenismo) e il dialogo della
Chiesa con gli uomini di oggi (la Costituzione pastorale).

56 Cfr. il discorso del card. Suenens in Acta ..., cit., I-4, pp. 222-227, che non fa più menzione di Gau-
det mater ecclesia. ·
57 Cfr. DC, 57 (1960). 802ss.

XII. IL CONCILIO E LA «FORMA PASTORALE» DELLA DOTIRINA 431


5. Il corpus definitivo si distingue in qualche punto significativo dalla
strllttura precedente. In modo più giuridico, raggruppa prima di tutto le
quattro Costituzioni 58 , a cui aggiunge nove Decreti e tre Dichiarazioni.
Questa organizzazione della materia è un po' ambigua: si mettono infatti
dei testi di grande importanza dottrinale come DH (libertà religiosa) e NA
(religioni non-cristiane) alla fine, mettendole insieme a GE (educazione
cristiana) sotto la denominazione canonicamente inedita di Dichiarazio-
ne59. Inoltre, DV perde la sua posizione inaugurale che aveva nel 1963, e
si ritrova con SC (liturgia) tra le due Costituzioni sulla Chiesa. Quest'or-
dine rafforza la struttura «pan-ecclesiologica>> del corpus. I nove decreti,
infine, vengono ordinati secondo due categorie, cinque riguardano le di-
verse funzioni o stati di vita, e quattro le relazioni all'interno della Chiesa
o con altri. Questa struttura giuridica nasconde evidentemente le evolu-
zioni storiche all'interno di un corpus in cui i testi redatti per ultimo, spes-
so di minore valore canonico, hanno potuto approfittare di un'esperienza
e di una riflessione più approfondita. ·

2. Alcuni p1·obletni di interpretazione

Che questo corpus a struttura «policentrica», che non comunica più una
visione coerente (come faceva il «corpus leoniano») 60 , pone dei problemi
all'interpretazione e alla recezione post-conciliare dei testi, ciò si evince
dalla prospettiva proposta fin qui. Ne indichiamo due per il fatto che sono
strutturalmente legate ali' opera del Concilio:
1. Bisogna comprendere la «recezione» 61 secondo la logica dell'applica-
zione prefigurata dalla distinzione giuridica tra Costituzione dogmatica e
decreto di applicazione o attuata nelle iniziative ufficiali o «kerigmati-
che» 62 che partono dal centro romano e si trasmettono gerarchicamente
alle Chiese particolari? O bisogna piuttosto insistere - forse al contem-
po - su un'altra logica fondata più esplicitamente sul «senso soprannatu-
rale della fede di tutto il popolo» e sulle «chiese particolari che godono di
tradizioni proprie» 63 e su una pratica di rinnovamento e di riforma fondata

58 Cfr. l'denco dei documenti in COD, p. XXI.


59 Cfr. infra, pp. 492-493 nota 3.
60 Cfr. supra, pp. 372 e 380-383.
61 Per un'analisi delle diverse concezioni della «recezione», cfr. G. RotJrHIER, La réception d'un con-
cile, Cerf, Paris 1993.
62 Cfr. ibid., pp. 87ss.
6l LG II, 12 e 13; COD, pp. 858-859.

432 CHRISTOPH THEOBALD


sull'ecclesiologia della LG 64 ed esplicitata nel Decreto sull'ecumenismo?
Allora il secondo gruppo di decreti sul rinnovamento - la relazione all'in-
terno della Chiesa e con gli altri - assume un'importanza decisiva. Parten-
do da una distinzione netta tra un «rinnovamento» (renovatio) che mira
ad una fedeltà teologale sempre più grande al Vangelo ed una «riforma>>
(re/ormatio) che si applica a trasformare alcune strutture della vita eccle-
siale, divenute deficienti a causa del peccato, ecco come precisa UR:
Siccome ogni rinnovamento della chiesa consiste essenzialmente nell'accresciuta
fedeltà alla sua vocazione, esso è indubbiamente la ragione del movimento verso
l'unità. La chiesa pellegrinante sulla terra è chiamata da Cristo a questa perenne ri-
forma di cui essa, in quanto istituzione umana e terrena, ha continuo bisogno; così
che, se alcune cose, sia nei costumi che nella disciplina ecclesiastica, sia anche nel
modo di esporre la dottrina - modo che deve essere accuratamente distinto dallo stesso
deposito della fede - sono state osservate poco accuratamente per le circostanze di
luogo e di tempo, siano opportunamente rimesse nel giusto e debito ordine.
Questo rinnovamento ha quindi un'importanza ecumenica singolare. I vari modi
poi attraverso i quali questo rinnovamento della vita della chiesa già è in atto [ ... ]
vanno considerati come garanzie e auspici che felicemente preannunziano i futuri
progressi dell'ecumenismo 65 •

Secondo questo passo importante che apre il corpus alla storia post-con-
ciliare, la recezione del concilio deve portare ad una pratica di rinnovamen-
to e di riforma, inaugurata già da molto tempo in alcuni movimenti (sospet-
tati di irenismo dal tempo della Humani generis) che coniugano in modo
effettivo il dialogo con altri e la loro propria conversione 66 • Impegnandosi
in questo tipo di pratica storica, si perviene non solo a distinguere allo stes-
so interno del corpus conciliare ciò che riguarda la morale, la disciplina ec-
clesiastica, ma soprattutto si arriva a discernere il complesso lavoro che si è
compiuto tra <<la formulazione e il deposito della fede». Che si ritrovi sol-
tanto qui il discorso d'apertura dell'll ottobre 1962, spesso censurato in
seguito 67 , è il segno che siamo al punto in cui si ricollegano il «principio»
del corpus, la sua organizzazione interna e la sua recezione.
2. Quando ci si interroga, con il testo che si è appena citato, sul senso
del «dottrinale», si manifesta un secondo problema di interpretazione. La
struttura di facciata del corpus conciliare è bipolare, teso tra la prospettiva
ad intra e il rapporto ad extra della Chiesa, tensione che segnerà gli anni
post-conciliari. Il breve percorso storico presentato sopra ha mostrato che

64 LG I, 4; COD, p. 850. LG I, 8: «La chiesa invece comprende nel suo seno i peccatori, è santa e
insieme ha bisogno di purificazione, perciò si dà alla penitenza e al rinnovamento» (COD, p. 855).
M UR II, 6; COD, p. 913.
66 Cfr. supra, pp. 399-400 e 40lss.
6 7 Lo stesso discorso viene anche citato in GS 62, ma nella sua versione latina corretta e completata.

XII. IL CONCILIO E LA «FORMA PASTORALE» DELLA DOTIRINA 433


i primi dissensi nell'assemblea riguardano proprio alcuni problemi di
teologia fondamentale e scoppiano proprio a riguardo del testo della Com-
missione dottrinale sulle due fonti della rivelazione. Questo tipo di dibatti-
to praticamente scompare durante il secondo periodo fino a quando rie-
merge durante il terzo e il quarto, quando viene sottoposto da Paolo VI ad
una rigorosa strategia di compromesso. Nel corpus definitivo i testi di teolo-
gia fondamentale sono integrati in un'ecclesiologia inglobante.
Ma un'analisi dettagliata mostra che costituiscono un terzo polo nel-
l'opera conciliare, che si potrebbe d'altronde rappresentare come una
sorta di asse perpendicolare al piano ecclesiologico (cfr. schema). In rap-
porto all' «intellettualismo» del Vaticano I, questo asse delinea una «ma-
niera nuova» di concepire la rivelazione e la fede: awenimento storico di
comunicazione 68 , la relazione tra Dio e l'uomo si radica nella coscienza e
nella libertà che questa relazione conduce al loro compimento umano. I
Padri hanno trovato prima di tutto la traccia di questo «tema» complesso,
che attraversa l'insieme dell'opera del concilio, nella «sacra tradizione e la
sacra Scrittura dell'uno e dell'altro Testamento» che «sono come uno
specchio nel quale la chiesa pellegrina in terra contempla Dio, dal quale
tutto riceve, finché giunga a vederlo faccia a faccia com'è (1 Gv 3, 2)» 69 •
Tutto awiene come se i problemi post-conciliari di recezione 70 fossero
legati alla difficoltà del concilio a pensare fino in fondo i problemi di teo-
logia fondamentale, che pure erano all'ordine del giorno, e di pensarli in
collegamento con una pratica storica di interpretazione delle Scritture e di
recezione del patrimonio dogmatico, compresa come rinnovamento e ri-
forma. Giovanni XXIII aveva comunque indicato la direzione nel suo
discorso dell'ottobre 1962 circa la «pastoralità» della dottrina.
Due commissioni conciliari affrontano in modo più particolare questi
problemi. Prima di tutto il Segretariato per l'unità, responsabile non solo
del Decreto sull'ecumenismo ma anche delle due Dichiarazioni sulle reli-
gioni non-cristiane e la libertà religiosa (inizialmente collegata all'ecume-
nismo). Dopo il 20 novembre 1962, questo Segretariato partecipa pure, in
una Commissione mista, all'elaborazione del nuovo schema sulla rivela-
zione. Questo Segretariato è quindi una sorta di seconda Deputazione sui
fondamenti della fede, per riprendere il vocabolario del Vaticano I, che fa
valere come principi ermeneutici, all'occorrenza contro la Commissione
dottrinale, la fonte evangelica (<<la Scrittura come anima della teologia» 11 )
e la presenza degli altri (dei fratelli separati, dell'ebraismo e delle altre

68 Cfr. infra, pp. 466-467.


69 DV II, 7; COD, p. 974.
10 Su cui si ritornerà nel capitolo quindicesimo.
11 DV VI, 24; COD, p. 980.

434 CHRISTOPH THEOBALD


Il corpus testuale del Vaticano II

Dio si è rivelato personalmente

Scrittura Tradizione DV
I
i
ateismo, incredulità
I I

Chiesa religioni no* cristiane1 NA /


I I
~'sacramento dell'umi_:·o~n~e~----+--__,, 1
" popolo di Dio / / /
LG se I
1
i
1
I
,
strutturazione interna i I i I
CD, PO, OT, PC, AA : Chiesa particolare OE I i I
I I G,S,AG
I I I
I I i I
I i I
ecumenismo UR I 1 1
I I I
I I I
questione sociale IM, GEt
I I I
1 / / Lo Stato
/ /
Atto di fede DV libertà religiosa DH / / / /

Coscienza

Costituzioni: Lumen gentium (LG), Dei Verbum (l;lV), Sacrosanctum concilium (SC), Gaudium et spes (GS).
Decreti: Christus Dominus (CD), Presbyterorum ordinis (PO), Optatam totius Ecclesiae renovationem (OT),
Perfectae caritatis (PC), Apostolicam actuositatem (AA), Ad gentes (AG), Unitatis redintegratio (UR), Orienta-
lium Ecclesiarum (OE), Inter mirifica (IM). Dichiarazioni: Dignitatis Humanae (OH), Nostra aetate (NA), Gra-
vissimum educationis monumentum (GE).

religioni} nell'interpretazione del deposito della fede. L'altra Commissio-


ne che si oCC).lpa di problemi di teologia fondamentale è quella incaricata
di elaborare la Costituzione pastorale GS 72 • Essa pone improvvisamente
la spinosa questione del rapporto tra il «dottrinale» e «il pastorale». Si
affronta il problema dell'ateismo che porta l'assemblea conciliare nefset-

72 Per il suo sinuoso itinerario, cfr. AA.Vv., Vatican II. L'Église dans le monde de ce lemps, 3 voli.,
Cerf, Paris 1967.

XII. IL CONCILIO E LA .FORMA PASTORALE» DELLA DOTIRINA 435


tembre 1965 verso un ultimo grande scontro, il cui arbitro fu il presidente
del nuovo Segretariato per i non-credenti, il cardinale Konig. GS parla
infine del significato escatologico della storia umana e del rapporto tra i
due ordini naturale e soprannaturale. Fino alla fine questa Costituzione
rimarrà un occasione di controversia tra l'episcopato francese e qq_ello
tedesco, divisi su uno schema che veniva pertanto considerato come un
progetto franco-belga-tedesco. Che l'episcopato latino-americano e in
particolare il suo segretario Dom H. Camara abbia giocato un ruolo im-
portante (difendendo dal 1962 con il cardinal Lercaro il tema di una
Chiesa dei poveri), fa già presagire i dibattiti post-conciliari attorno alla
teologia della liberazione.
Il Vaticano II è un concilio sulla teologia fondamentale? Certamente no!
L'onnipresenza del paradigma della fase di dogmatizzazione della fonda-
mentale (1870-1950) faceva sì che il dibattito su questi problemi fosse diffi-
cile. Il clima che regnava nell'assemblea ha portato il concilio a parcellizzare
il trattamento di questi problemi e a fermarsi su dei compromessi. Prima di
commentare nei capitoli seguenti i tre testi prindpali, è bene mettere insieme
questi punti di teologia fondamentale e mettere in prospettiva il loro ruolo
nel «cambiamento paradigmatico» che si annuncia nell'opera conciliare.

IV. L'ASSE FONDAMENTALE

Questi punti controversi si situano in una traiettoria che va dalla questione


della verità verso la concezione dell'uomo, passando attraverso l'auto-com-
prensione del magistero ecclesiale e la relazione della Chiesa con gli altri.

1. «Gerarchia delle verità»


e «proclamazione appropriata della parola rivelata»

A conclusione del dibattito sulle due fonti, il 19 novembre 1962, mons.


De Smedt propone in nome del Segretariato per l'unità una lunga rifles-
sione su «CÌÒ che è richiesto nella dottrina e nello stile di uno schema
perché possa realmente servire a condurre ad un dialogo migliore tra i
cattolici e i non-cattolici». Perciò egli introduce una duplice distinzione
tra «l'unica fonte che è il Cristo» e «il modo secondo cui la verità viene
presentata»:
Tutti coloro che si onorano di portare il nome di cristiani sono d'accordo sul fatto
che essi riconoscono Gesù Cristo. Tutto ciò che ci è stato comunicato dal Signore
stesso costituisce il deposito della fede ed è la nostra salvezza. È quindi a que-

436 CHRISTOPH TIIEOBALD


st'unica fonte che attingiamo noi tutti, cattolici e non-cattolici. Ma quando si trat-
ta del modo secondo cui accediamo al Cristo allora comincia la discordia. [. .. ] Ciò
che la caratterizza è che essa non ha soltanto la preoccupazione della verità, ma
pure del modo secondo cui la verità viene esposta in modo che essa venga compre·
sa esattamente da parte degli altri 7 J.

Pur riconoscendo contro un falso irenismo la necessità di esporre chia-


ramente la «dottrina integrale», mons. De Smedt insiste contemporanea-
mente sul profondo collegamento tra verità e comunicazione o compren-
sione. Questo principio ermeneutico, che corrisponde perfettamente alla
parte centrale della Gaudet mater ecclesia, trova una duplice espressione
nell'opera del concilio.
1. La si ritrova prima di tutto, quasi letteralmente, in UR (II, 11), col-
legata a ciò che il testo dice di una riforma «in materia morale, nella disci-
plina ecclesiastica, o anche nella formulazione della dottrina, che bisogna
accuratamente distinguere dal deposito della fede» 74 • Ma il decreto sul-
l'ecumenismo aggiunge qui, su istanza di mons. Pangrazio, l'idea di una
gerarchia delle verità:
Inoltre nel dialogo ecumenico i teologi cattolici, restano fedeli alla dottrina della
chiesa, nell'approfondire con i fratelli separati i divini misteri devono procedere
con amore della verità, con carità e umiltà. Nel mettere a confronto le dottrine si
ricordino che esiste un ordine o piuttosto una «gerarchia>> delle verità della dot-
trina cattolica, essendo diverso il loro nesso col fondamento della fede cristiana.
Così si preparerà la via, nella quale, per mezzo di questa fraterna emulazione, tutti
saranno spinti verso una più profonda conoscenza e una più chiara manifestazio-
ne delle insondabili ricchezze di Cristo (cfr. E/ 3, 8) 75 •

Questo testo riprende l'idea di una pluralità di «verità», presente già


nel Vaticano I; ma stabilisce pure un ordine gerarchico, precisandone il
«criterio», già discretamente presente nella Dei Fzlius (cap. IV), che parla
dei «legami che collegano i misteri tra di loro e con il fine ultimo dell' uo-
mo» 76 • Nel decreto sull'ecumenismo, i «fondamenti della fede» vengono
identificati con «le insondabili ricchezze di Cristo». Così mons. Pangrazio
aveva distinto tra «alcune verità che sono dell'ordine dei /in~ quale la co-
noscenza della Trinità [. .. ], e delle altre che sono dell'ordine dei mezzi,
come la stru):tura gerarchica della Chiesa [ ... ]». E aveva aggiunto che
«queste verità riguardano i mezzi dati da Cristo alla Chiesa per il suo

1i Cfr. R. Rououan, La/in d'une chrétienté, I, cit., p. 252.


74 Cfr. supra, p. 433.
1' COD, pp. 914-915.
76 Cfr. supra, pp. 270ss.

Xll. IL CONCILIO E LA «FORMA PASTORALE» DELLA DOTIRINA 43 7


pellegrinaggio terrestre: dopo questo infatti cesseranno» 77 • Il testo del
decreto insiste, anch'esso, sulla trascendenza o «carattere insondabile» del
mistero in rapporto alla sua conoscenza e alla sua espressione; ciò esclu-
de, in materia di verità, ogni attitudine di possesso e richiede una dispo-
nibilità alla «ricerca» 78 • Per il fatto che questa ricerca si fa insieme - e «.con
i fratelli separati» secondo l'espressione paradossale del testo-, si realizza
in un'«emulazione» animata da una «maniera di fare» o per mezzo di
«virtù» che devono corrispondere a ciò che viene cercato: «amore della
verità, con carità e umiltà» 79 •
Questo nuovo modello che incarna il vero in uno stile di comunicazio-
ne è la base strutturante dell'intero decreto e del capitolo II della LG che
ne è la base dottrinale? Infatti si può ritrovare la «gerarchia delle verità»
nella definizione «graduata» dell'appartenenza ecclesiale, così come viene
presentata all'inizio di UR e nella LG:
Sono incorporati pienamente alla società della chiesa coloro che, avendo lo Spirito
di Cristo, accettano l'intero ordinamento e tutti i mezzi di salvezza in essa istituiti,
e dentro questo suo corpo visibile sono congiunti a Cristo mediante i vincoli della
professione di fede, dei sacramenti, del governo ecclesiastico e della comunione:
organismo che Cristo dirige attraverso il sommo pontefice e i vescovi. Colui però
che, pur incorporato alla chiesa, non perseverasse nella carità rimanendovi soltan-
to col corpo ma non col cuore, costui non si salva 80 •

Questa definizione, rimaneggiata più volte, tiene conto dell'orienta-


mento gerarchizzato degli «elementi dottrinali e disciplinari» 81 e del-
1' «incorporazione» progressiva dei credenti verso il loro «centro», il Cri-
sto e il suo Spirito, che hanno la loro sede in questo luogo misterioso che
è il «cuore» dell'uomo. Ma nello stesso tempo un altro modello più con-
centrico (quello proprio dell'enciclica Ecclesiam suam) si sovrappone al
primo, <<limitando» così il movimento della ricerca e dell'emulazione. Pur
riconoscendo la distanza che separa la Chiesa cattolica dalla pienezza del-
la cattolicità 82 , il concilio tuttavia distingue tra «quelli che sono pienamen-
te incorporati alla società che è la Chiesa», quelli «che con la Chiesa si
sentono uniti per varie ragioni» e quelli che «sono ordinati al Popolo di
Dio» 83 • Il carattere «pan-ecclesiologico» di questo schema situa la Chiesa

77 Acta... II-6, p. 34. Mons. Pangrazio aggiunge: «Le differenze dottrinali tra cristiani riguardano meno
queste verità fondamentali che concernono l'ordine dei fini e più invece l'ordine dei mezzi che, indubbia-
mente, sono subordinati alle prime. La vera unità tra cristiani consiste precisamente nella fede comune e
la professione della verità che riguarda l'ordine dei fini».
78 Si ritrova quesra stessa connessione tra <<Verità» e «ricerca» in DH I, 3.
79 Per quanto riguarda questa maniera e questo stile, cfr. anche DH I, 1, 1.3 e llss.
80 LG II, 14-16; COD, p. 860 (le sottolineature sono nostre).
81 Cfr. pure LG I, 8; COD, p. 854.
82 Cfr. URI, 4; COD, p. 911.
8J. LG II, 13. 14-15; COD, pp. 859-861; cfr. pure URI, 3.

438 CHRISTOPH THEOBALD


cattolica al centro del sistema e non permette che si attui il modo «aper-
to» della comunicazione, così come viene supposto nel paragrafo della
teologia fondamentale sulla «gerarchia delle verità», che orienta tutti in
un'emulazione reciproca verso l'«unica fonte».
2. Una seconda eco del discorso di mons. De Smedt sulla «maniera se-
condo cui accediamo al Cristo» e «la maniera in cui viene presentata la
verità» si trova alla fine del primo paragrafo della Costituzione pastorale
GS e riguarda la figura culturale della «verità rivelata» 84; testo importante
che si fonda, anch'esso, sull'autorità dottrinale di LG 8':
E tale adattamento (accomodata) della predicazione della parola rivelata deve ri-
manere legge di ogni evangelizzazione. Così, infatti, viene sollecitata in ogni popo-
lo la capacità di esprimere secondo il modo proprio il messaggio di Cristo e al
tempo stesso viene promosso uno scambio vitale tra la chiesa e le diverse cu.lture
dei popoli. Allo scopo di accrescere tale scambio, soprattutto ai nostri giorni in
cui i cambiamenti sono così rapidi e tanto vari i modi di pensare, la chiesa ha
bisogno particolare dell'aiuto di coloro che, vivendo nel mondo, sono esperti nelle
varie istituzioni e discipline, e ne capiscono la mentalità, si tratti di credenti o di
non credenti. È dovere di tutto il popolo di Dio, soprattutto dei pastori e dei te-
ologi, con l'aiuto dello Spirito Santo, di ascoltare attentamente, discernere e inter-
pretare i vari linguaggi del nostro tempo, e di saperli giudicare alla luce della
parola di Dio, perché la verità rivelata sia capita sempre più a fondo, sia meglio
compresa e possa venire presentata in forma più adatta 86 .

Questo testo che non parla più di «dottrina» ma di «Vangelo», di «pa-


rola rivelata» o di «verità rivelata», riconosce, almeno a livello di princi-
pio, l'esistenza di un problema che la teologia cattolica si pone dalla crisi
modernista in avanti: la storicità di una verità irrimediabilmente «plura-
lizzata» a causa delle varie culture e lingue del mondo, senza che la sua
unità e la sua universalità siano direttamente accessibili in una dottrina
trans-storica o esente da ogni radicamento linguistico e culturale 87 • È pro-
prio per rispondere a questa difficoltà che il testo introduce, in forma
conclusiva, la verità rivelata in un processo di interpretazione o di discer-
nimento che porta simultaneamente alle lingue e alla verità rivelata. Il
soggetto di questo lavoro, aiutato dallo Spirito, è «tutto il popolo di Dio
e specialmente [. .. ] pastori e teologi».
L'architettura globale di GS si fonda su questo procedimento erme-

84 GS I, 44 è l'unico paragrafo che parli deli'«aiuto che la Chiesa riceve dal mondo contemporaneo»
dopo altri tre paragrafi circa l'aiuto che la Chiesa cerca di dare ad ogni uomo (41), alla società (42) e
all'attività umana (43): a questo titolo il testo salvaguarda la reciprocità dei rapporti.
8' Cfr. LG II, 13 e 17.
86 GS I, 44; COD, p. 1098; cfr. pure II, 57-59 e 62.
87 Cfr. supra, pp. 351·353 e 361-363.

XII. IL CONCILIO E LA «FORMA PASTORALE» DELLA DOTTRINA 439


neutico che collega «inseparabilmente» l'esposizione dottrinale sull'uomo
e il mondo (I parte) e l'approccio storico e contingente alla vita e alla socie-
tà contemporanee (II parte). La Costituzione si considera pure come il ri-
sultato del discernimento formalizzato alla fine della I parte. Una nota spie-
ga all'inizio del testo la sua struttura e - fatto unico nell'insieme del corpus
conciliare - spiega persino il senso che si dà al termine «pastorale»:
La Costituzione pastorale sulla chiesa nel mondo contemporaneo, si divide i_ due
parti ma fa un tutt'uno. Viene chiamata Costituzione «pastorale», perché, fon-
dandosi su alcuni principi dottrinali, intende esprimere i rapporti della Chiesa con
il mondo e gli uomini di oggi. Per questo l'intenzione pastorale non manca nella
prima parte né l'intenzione dottrinale nella seconda 88.

Come nel caso della «gerarchia delle verità», l'intima unione tra dottri-
na e contesto storico - che supera la distinzione tradizionale tra «dogma-
tico» e «connesso» - non è però osservata in modo consequenziale stret-
to. I due passi citati rimangono eccezionali nell'insieme dell'opera. conci-
liare. Alcuni altri paragrafi - anche nella GS - lasciano sussistere una cer-
ta esteriorità tra storia e messaggio evangelico, oppure considerano il lin-
guaggio e le culture dei «mezzi» o degli «strumenti» che servono a comu-
nicare una «verità» da salvaguardare nella sua propria autonomia. Un at-
tento esame di altri testi conciliari metterebbe in luce una grande diversi-
tà di posizioni 89 •
Quelli che sono stati commentati finora mostrano soprattutto che i due
versanti della problematica ermeneutica, l'approccio confessionale della
dottrina, centrato secondo una prospettiva biblica e patristica sull'unità
interna del mistero, e l'approccio culturale, sensibile piuttosto alla plura-
lità dei linguaggi cristiani, non sono affatto unificati. Questa indetermina-
zione fondamentale sarà una prima fonte di quelli che saranno i conflitti
post-conciliari.

2. Un magistero a carattere soprattutto pastorale

Questi problemi che riguardano i rapporti tra verità e storia, dottrina e


modo di esporla toccano pure lo statuto proprio di quanti hanno l'autori-
tà per discernere, interpretare e giudicare. Ma per capire le trasformazio-
ni del «sistema» dottrinale e magisteriale dal Vaticano I al Vaticano II,
non basta andare al capitolo III della LG che tratta di questi problemi di

88 GS Proemio, nota 1; COD, p. 1069.


89 Cfr. ad esempio DV III, 12 che parla della stessa questione nell'ambito della teoria dei «generi
letterari».

440 CHRISTOPH TIIEOBALD


teologia fondamentale, ma è meglio contestuare prima di tutto questo
capitolo nell'insieme della Costituzione.
1. Si è già insistito sull'«ecclesiocentrismo» del Vaticano 190 • Già il di-
scorso di apertura del secondo periodo del Vaticano II comporta un vero
«decentramento» della Chiesa in rapporto alla sua unica fonte: Cristo 91 • Il
primo capitolo della LG su «Il mistero della Chiesa» registra questo dato
ponendo la Chiesa come sacramento 92 tra il Cristo e i popoli, e, infine, di~
stinguendo la Chiesa confessata come «una, santa, cattolica e apostolica»
dalla Chiesa cattolica, l'una «sussistente (subsistit in)» nell'altra. Questa di-
stinzione fonda la necessita di un «rinnovamento» e di una «riforma» co-
stante unitamente al dialogo ecumenico. Il secondo capitolo continua que-
sto movimento di «decentramento» in una prospettiva escatologica propo-
nendo la definizione di un'appartenenza «per gradi» al «popolo di Dio».
2. Solo allora il capitolo terzo su «la costituzione gerarchica della chie-
sa e in particolare dell'episcopato» riprende e completa l'insegnamento
del Vaticano I, citando ampiamente il prologo della Pastor Aeternus 9}:
Il sacro sinodo ripropone a tutti i fedeli da credersi fermamente questa dottrina
circa l'istituzione, la perpetuità, il valore e il carattere del sacro primato del roma-
no pontefice e del suo magistero infallibile; e, proseguendo nello stesso intento,
ha deciso di professare pubblicamente e di esplicitare la dottrina sui vescovi suc-
cessori degli apostoli, i quali, insieme col successore di Pietro, che è il vicario di
Cristo e il capo visibile di tutta la chiesa, dirigono la casa del Dio vivente 94 •

La continuazione del testo trasforma profondamente l'economia della


Pastor Aeternus in particolarè con la presentazione di un dossier scritturi-
stico meno monolitico che fa tesoro di un nuovo modo di rapportarsi alle
Scritture. Così il n. 19 delinea in modo nuovo l'istituzione dei Dodici (cfr.
Pastor Aeternus I) introducendo, attraverso la polisemia della metafora
della «roccia» e della terminologia del «fondamento», una sottilissima
distinzione nel «collegio» degli apostoli che «radunano così la chiesa uni-
versale che il Signore ha fondato sugli apostoli e edificato sul beato Pietro
loro capo, mentre ha come sua pietra angolare suprema lo stesso Gesù
Cristo (cfr. Ap 21, 14; Mt 16, 18; E/2, 20)» 95 • Senza utilizzare il vocabo-

90 Cfr. i capp. VI e VII qui sopra.


91 Cfr. EV 1, nn. 133ss.
92 LG I, l; il Vaticano I parla della Chiesa come «segno innalzato tra le nazioni» che «per se stessa è
un grande e perenne mptivo di credibilità e una testimonianza chiara della sua missione divina» (dr. supra
pp. 265-266.
9J Senza fare riferimento al contesto apocalittico.
94 LG III, 18; COD. p. 863.
95 LG III, 19; COD, p. 863.

XII. IL CONCILIO E LA «FORMA PASTORALE» DELLA DOTIRINA 441


lario della «perpetuità», il n. 20 si preoccupa di stabilire la «permanenza»
del ministero apostolico (cfr. Pastor Aeternus II), riflettendo nuovamente
sul senso dogmatico e storico della successione, fondandola - decisione
notevole in una prospettica ecumenica - sul Vangelo:
Questa divina missione affidata da Cristo agli apostoli dovrà durare fino alla 'fine
dei secoli (cfr. Mt 28, 20), perché il vangelo da trasmettere è per la chiesa princi-
pio di tutta la sua vita in ogni tempo. Poiché la chiesa è una società gerarchica-
mente organizzata, gli apostoli si preoccupano di istituire dei successori. [ ... ].
[e dopo aver sviluppato l'argomento storico, il testo conclude:] Perciò il santo
sinodo insegna che per istituzione divina i vescovi sono succeduti agli apostoli
quali pastori della chiesa; chi ascolta loro ascolta Cristo, chi disprezza loro disprez-
za Cristo e chi lo ha inviato (Le 10, 16) 96.

3. I tre numeri seguenti apportano dei notevoli cambiamenti alla pro-


spettiva globale del capitolo III della Pastor Aeternus («potere e natura
del primato di san Pietro»), in particolare su due punti essenziali: la sacra-
mentalità dell'episcopato e la collegialità. Per quanto riguarda il primo
punto non bisogna dimenticare che durante il concilio Vaticano I il dibat-
tito era incentrato sul rapporto tra potere giurisdizionale e potere magiste-
riale, bipartizione questa che suppone già una separazione anteriore tra
l'ordine sacramentale e l'ordine giurisdizionale 97 , essendo il primo legato
al sacramento dell'ordine, il secondo trasmesso dall'alto per via gerarchi-
ca. Il n. 21 supera proprio questa separazione «insegnando che, con la
consacrazione episcopale, viene conferita la pienezza del sacramento del-
l'Ordine» 98 :
Oltre alla funzione di santificare, la consacrazione episcopale conferisce anche le
funzioni di insegnare e governare, le quali per loro natura non possono essere
esercitate se non nella comunione gerarchica col capo e con le membra del col-
legio 99.

Questa decisione supera la problematica troppo stretta dei «poteri» e


collega l'episcopato alla sacramentalità della Chiesa che si manifesta pure
nel dono sacramentale che sono i suoi «pastori». È proprio la terminolo-
gia «pastorale» che determina la teologia del ministero e la triplice respon-
sabilità di santificare, di insegnare e di governare, al pari di quanto aveva
già fatto per il vocabolario dottrinale e dogmatico. Ma come indica la ter-
minologia della «comunione gerarchica», <<l'ordine giuridico» non è esclu-
so: è solo dari-posizionare. Il dibattito conciliare e molti dei conflitti post-

96 LG III, 20; COD, pp. 863-864.


97 Cfr. supra, pp. 284-286 e 290-292.
98 Cfr. t. III, pp. 228-231.
99 LG III, 21; COD, p. 865.

442 CHRISTOPH THEOBALD


conciliari riguardano effettivamente proprio questo punto, che d'altronde
viene precisato nella Nota praevia, che ha lo scopo di salvaguardare il
punto di vista «giurisdizionale» 100 • Commentando il testo appena citato la
Nota scrive:
Volutamente è usata la parola funzione, e non potestà, perché quest'ultima voce
potrebbe essere intesa come di potestà liberamente esercitabile. Ma perché si ab-
bia tale libera potestà, deve accedere la determinazione canonica o giuridica da
parte dell'autorità gerarchica 101.

Il secondo punto riguarda il senso della «comunione gerarchica», che


viene precisata nei nn. 22-23 sulla collegialità. Ritornando alla problema-
tica giuridica, il testo della LG afferma che ci sono nella Chiesa due sog-
getti che hanno «pieni poteri»: quello «pieno, supremo e universale» del
romano pontefice «che può sempre esercitare liberamente» e quello del-
l'ordine dei vescovi che «è pure, insieme col romano pontefice suo capo,
e mai senza questo capo, soggetto di piena e suprema potestà su tutta la
chiesa» 102 • Mentre però la Nota praevia accentua di nuovo, nello spirito
giuridico del Vaticano I, l'asimmetria tra questi due poteri 103 , il testo pro-
prio di LG invita a passare su un altro piano, riconoscendo che «lo Spirito
santo conclida continuamente la struttura organica e la concordia» 104 •
Effettivamente è su questo piano pneumatologico ed ecclesiologico che si
situa il senso ultimo della collegialità che suppone una singolare rifusione
della prospettiva fondamentale della Pastor Aeternus, che viene citata an-
cora una volta 105 :
L'unione collegiale appare anche nelle mutue relazioni dei singoli vescovi con le
loro chiese particolari e con la chiesa universale. Quale successore di Pietro, il
romano pontefice è il perpetuo e visibile principio e il fondamento dell'unità sia
dei vescovi sia della moltitudine dei fedeli. I singoli vescovi invece sono il princi-
pio visib.ile e il fondamento dell'unità nelle loro chiese particolari, le quali sono
formate a immagine della chiesa universale: in esse e a partire da esse esiste l'una
e unica chiesa cattolica 106,

Questa nuova istanza su una struttura «policentrica» della Chiesa ri-


lancerà dopo il Vaticano II il dibattito su delle strutture giurisidzionali

100 Cfr. soprattutto J. GROOTAERS, Primauté et collégialité. Le dossier de Gérard Philips sur la «Nota
explivativa praevia», Presses Univ., Louvain 1986.
101 Nota praevia, 2; COD, p. 899.
102 LG III, 22; COD, p. 866.
lOJ COD, pp. 899·900.
104 LG III, 22; COD, p. 866.
l05 Si tratta di un passo del prologo che fa del solo Piecro «il principio e il fondamenlo della doppia
unicà Ira i vescovi e la ·molcicudine dei fedeli» (cfr. supra, p. 278). ·
106 LG III, 23; COD, p. 867.

Xll. IL CONCILIO E LA «FORMA PASTORALE» DELLA DOTI'RINA 443


che fanno fatica a ritrovare la loro posizione in funzione del «cambiamen-
to paradigmatico» che è stato appena delineato in questi nn. 21-23.
4. In questa prospettiva è molto significativo il fatto che lo sviluppo sul
magistero (cfr. Pastor Aeternus, cap. IV) venga collocato nei numeri che
parlano delle tre funzioni del vescovo. Il n. 25 107 conferisce a questo ma-
gistero tutto il suo senso biblico o kerigmatico, in totale conformità con
ciò che è stato detto sopra circa la «pastoralità» della dottrina: «Tra le
funzioni principale del vescovo eccelle la predicazione del vangelo». I
vescovi sono dunque chiamati qui «annunciatori della fede» e «dottori
autentici», per il fatto che la fede che essi predicano è al contempo per se
stessi e per i fedeli «regola di pensiero e di condotta» 108 • Il testo si compo-
ne di quattro paragrafi che obbediscono ad un'economia di progressive
distinzioni. Molti dei punti controversi tra maggioranza e minoranza del
Vaticano I si trovano così risolti. Li evidenziamo qui brevemente sottoli-
neandone alcune indeterminazioni.
Il primo paragrafo parla, in modo inglobante, del magistero autentico
dei vescovi, di ciascun vescovo e del romano pontefice, il nuovo aggettivo
autentico indica la condizione fondamentale di questo magistero, vale a
dire del fatto che esso sia «provvisto dell'autorità di Cristo». Senza fare
ancora distinzione tra «magistero ordinario-e-universale» e «magistero
straordinario», il testo esige da parte del fedeli il «religioso ossequio della
volontà e dell'intelletto» in /unzione di ciò che viene espresso e, nel caso
del papa, «in conformità all'intenzione e alla volontà che egli ha fatte co-
noscere; queste poi si fanno palesi nella natura dei documenti, nel frequen-
te riproporre la stessa dottrina e nel tenore delle parole usate» 109 • La ter-
minologia dell' «obbedienza religiosa» è globalizzante e non si limita sem-
plicemente ali' aspetto «dogmatico». Ma le «regole di interpretazione» che
permettono di discernere il grado di obbligo vengono lasciate aperte.
È invece nel secondo paragrafo che si ritrovano le distinzioni tradizio-
nali del Vaticano I, che riguardano prima di tutto il magistero infallibile
dei vescovi. Vengono previsti due casi. In primo luogo quello che viene

l07 Cfr. il commento di K. RAHNER in: LThK, Das zweite vatikanische Konzil I (1966), pp. 235-242 e
Mons. PHILIPS, L'Église et son mystère au II conci/e du Vah'can. Histoire, texte et commentaire de la Consti-
tution Lumen gentium, I, Desclée, Paris 1967, pp. 320-337.
1os LG III, 25; COD, p. 869.
l09 lbid. Nel 1° schema (cfr. Constitutionis dogmaticae LG synopsis historica, a cura di G. Alberigo e
F. Magistretti, Ist. per le Scienze Rei., Bologna 1975, p. 297), questo passo si concludeva con la citazione
della Humani genen's: «Tutti capiscono che questa materia nel pensiero e nella volontà dei sovrani pon-
tefici non è più ormai da considerarsi come argomento di libera discussione tra i teologi» (cfr. supra, p. 406).
Questa affermazione è stata criticata e corretta durante la sessione della Commissione centrale del
19.6.1962 tra gli altri da parte del card. Frings: «Il pensiero in questione non potrebbe essere oggetto di
discussione tra i teologi salvo gravi motivi» (Acta et documenta, oecumenico Vaticano II apparando, ser. II,
voi. II, pars IV, p. 638).

444 CHRISTOPH THEOBALD


sottinteso dal vocabolario classico di «magistero ordinario-e-universale»:
si tratta qui - in modo più restrittivo che nel 1870 - di vescovi che «anche
sparsi nel mondo ma conservando il vincolo di comunione fra loro e col
successore di Pietro, nel loro insegnamento autentico in materia di fede e
di morale si trovano concordi su una sentenza da ritenersi come definiti-
va, allora essi propongono infallibilmente la dottrina di Cristo» 110 • Il crite-
rio che viene dunque dato è quello dell'umanimità della proposizione,
anche se il testo non dice il come questa unanimità di un «atto collegiale»
può essere prodotta o constatata. L'altro caso è quello del «magistero stra-
ordinario» dei vescovi che si esercita in un concilio ecumenico m.
Il terzo paragrafo, più complicato, tratta del «magistero straordinario» 112
del papa collegandolo però a quello dei vescovi, per quanto riguarda lo sta-
tuto proprio delle sentenze o definizioni. Così il testo riprende prima di
tutto la dottrina del Vaticano I sull'estensione dell'infallibilità çhe è propria
della Chiesa tutta intera 113, prima ancora che essa si esprima attraverso il
magistero del collegio episcopale unito al successore di Pietro o attraverso
il magistero del sommo pontefice. È notevole il fatto che il concilio conservi
su questo punto la stessa apertura del Vaticano I: il paragrafo precedente
parla infatti di «una dottrina che deve essere da tutti tenuta (e non creduta)
definitivamente» (nel caso del magistero ordinario-e-universale) e di «defi-
nizioni a cui bisogna aderire con l'obbedienza della fede» (nel caso del ma-
gistero straordinario del concilio). Il paragrafo attuale limita l'infallibilità al
«deposito della divina rivelazione che deve essere custodito santamente ed
esposto fedelmente». Queste formule sono volutamente aperte, non esclu-
dendo (senza per questo inclùderlo esplicitamente) il campo del «connes-
so», mentre lo schema preparatorio del 1962 proponeva a questo punto
alcune distinzioni che ampliavano l'estensione dell'infallibilità al «connes-
so» e chiaramente all'interpretazione della «legge naturale» 114 • Tuttavia si
ritroveranno queste distinzioni in alcuni documenti post-conciliari del ma-
gistero romano. La continuazione del testo riprende la definizione dell'in-
fallibilità pontificia della Pastor Aeternus introducendo su questo o quel
punto i commenti ufficiali di mons. Gasser. Così la fine del paragrafo è com-
posta in modo tale che la spiegazione (11 luglio 1870) del celebre canone
antigallicano (l'irreformabilità delle definizioni pontificie per se stesse e non

110 Cfr. LG III, 25; COD, p. 869.


n1 LG III, 22; COD, p. 866.
112 Il n. 25 evita questo vocabolario che pertanto è comodo per classificare gli atti magisteriali.
113 LG III, 25; COD, p. 870.
11 4Cfr. Constitutionis dogmaticae LG synopsis historica, cit., p. 129; dr. pure DH 14 in cui si distin·
gue tra la funzione della Chiesa di esprimere ed insegnare la verità e quella di «dichiarare e di confermare
con la sua autorità i.principi dell'ordine morale che scaturiscono dalla stessa natura umana» (COD,
p. 1010): i due ultimi verbi hanno una qualificazione teologica meno forte dei primi due.

XII. IL CONCILIO E LA «FORMA PASTORALE» DELLA DOTfRINA 445


in virtù del consenso della Chiesa), caratterizza contemporaneamente le de-
finizioni del capo del collegio e quelle del «corpo dei vescovi in unione con
il successore di Pietro»:
E a queste definizioni non può mai mancare l'assenso della chiesa, grazie all'azio-
ne dello Spirito Santo che conserva e fa progredire nell'unità della fede tut'to il
gregge di Cristo 115 .

Come già nel n. 22 sulla collegialità, il testo passa qui dal piano giuridi-
co al livello della storia e della pneumatologia. In tal modo l'ultimo para-
grafo introduce il riferimento ai «mezzi umani» insistendo sul «dovere»
del romano pontefice e dei vescovi di ricorrervi, senza comunque formu-
lare una «legge» che potrebbe obbligare il magistero a presentarsi davanti
a «un altro tribunale» che se stesso:
Rivelazione che [ ... ] viene conservata religiosamente nella chiesa ed esposta con
fedeltà grazie alla luce dello Spirito di verità. Nell'esplorare convenientemente
questa rivelazione e nell'enunciarla correttamente, il romano pontefice e i vesco-
vi, coscienti del loro compito e secondo la gravità del caso, si impegnano con di-
ligenza e si awalgono dei mezzi appropriati 116 •

Questo lungo paragrafo che non soddisfaceva totalmente i desideri della


minoranza del Vaticano I, riuscì tuttavia ad aggirare la difficoltà posta dal
rifiuto di far: entrare i «mezzi umani» e il «consenso» nella definizione giu-
ridico-dogmatica dell'infallibilità pontificia. La valorizzazione del «senso
soprannaturale della fede» del popolo di Dio che <<non può sbagliarsi nella
fede», il senso attivissimo dato alla «recezione» 117 e l'ingresso della collegia-
lità nell'esercizio del magistero hanno aiutato molto. Il punto più importan-
te è la profonda riorganizzazione della Pastor Aeternus (cap. IV), che porta
ad introdurre i paragrafi più giuridici che vengono ormai a trovarsi nel
mezzo dello sviluppo (e non più alla fine) nel quadro di una nuova teologia
del Vangelo e della rivelazione che anticipa già la Costituzione DV.

3. La relazione della Chiesa con gli altri


e la sua concezione dell'uomo

Il senso del «dottrinale» e il «ruolo» dato al magistero evolvono, alla


fine, in funzione del posto «lasciato» all'altro, sia che si tratti di che crede
in modo diverso o perfino dell'ateo. Su quest'ultimo punto qualche ag-

115 LG III, 25; COD, p. 870.


116 lbid.
m LG II, 12; COD, p. 858.

446 CHRISTOPH THEOBALD


giunta permetterà di andare fino alla fine della traiettoria fondap-ientale
del concilio, dalla questione della verità verso la concezione dell'uomo,
per così comprendere i tentennamenti dell'epoca post-conciliare. Si è già
fatto riferimento allo schema concentrico che struttura l'insieme dell'ope-
ra conciliare e in particolare la Costituzione sulla Chiesa. Esistono ben
altri modelli di comunicazione, per esempio nei testi redatti sotto la re-
sponsabilità del Segretariato per l'unità e in certi passi della GS.
Ma il punto essenziale emerge nella LG (cap. II), quando il concilio
definisce la «necessità della Chiesa per la salvezza» 118 , riprendendo una
dottrina tradizionale riaffermata già nel quadro della Dei Filius (cap.
III). Tutto il seguito di questo «insegnamento» è organizzato in modo
tale da valorizzare, simultaneamente, questa necessità «di un corpo» e la
«frontiera» ecclesiale che attraversa ogni essere umano: se si può appar-
tenere «come corpo» al seno della Chiesa, senza esserne partecipi a li-
vello di «cuore» - per il fatto di non perseverare nella carità» -, si può
anche - nella prospettiva della salvezza - esserne partecipi a livello «di
cuore» senza appartenervi «come corpo». È ciò che il testo dimostra di
seguito, parlando prima di tutto di quelli che hanno la fede in Cristo e
poi di « tutti gli uomini senza alcuna eccezione che la grazia di Dio chia-
ma alla salvezza». È solo alla fine che l'argomento rivela tutte le sue
implicazioni:
I~fatti coloro che ignorano il vangelo di Cristo e la sua chiesa senza loro colpa,
ma cercano sinceramente Dio, e sotto l'influsso della grazia si sforzano di compie-
re fattivamente la volontà di Dio conosciuta attraverso il dettame della coscienza,
essi possono conseguire la salvezza. Anche a coloro che senza colpa personale non
sono ancora arrivati ad una conoscenza esplicita di Dio, ma si sforzano, non senza
la grazia divina, di condurre una vita retta, la provvidenza divina non rifiuta gli
aiuti necessari alla salvezza 119 .

Il ricorso alla coscienza è in effetti il riferimento ultimo dell'antropolo-


gia conciliare. La si ritrova chiaramente nel decreto sulla libertà religiosa,
collegata con «ricerca della verità» e «il dovere dell'uomo nei confronti
della vera religione» 120 • Ma la GS ne fa la teologia:
La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell'uomo, dove egli si trova solo
con Dio, la cui voce risuona nell'intimità propria. Tramite la coscienza si fa cono-
scere in modo mirabile quella legge, che trova il suo compimento nell'amore di
Dio e del prossimo m.

118 LG n, 14: coo,' p. 860.


119 LG II, 16; COD, p. 861.
120 Cfr. infra, p. 502.
121 GS I, 16; COD, pp. 1077-1078.

XII. IL CONCILIO E LA «FORMA PASTORALE» DELLA DOTTRINA 447


Ma bisogna riconoscere che questo «centro» diventa oggetto di inter-
pretazioni molto diverse. In effetti, nella Costituzione pastorale, la pre-
sentazione di questo altro che è l'ateo viene seguita, per motivi cristologi-
ci e pneumatologici, dall'affermazione che ogni uomo può essere salvato,
«nel modo che Dio conosce» 122 , come se l'incontro della coscienza altrui
implichi una riserva rispettosa che invita la Chiesa allo stesso «decentra-
mento» operato in essa dal mistero di Dio m.
Ma questa medesima Costituzione introduce la «coscienza», secondo
una logica diversa, in una struttura fondamentalmente religiosa attraverso
il percorso dei preambula fidez; il cui modello rinnovato si trova nell' espo-
sizione preliminare circa «la condizione dell'uomo nel mondo contempo-
raneo» 124 • Questo tipo di argomentazione sottintende almeno in parte il
decreto sulle relazioni della Chiesa con le religioni non-cristiane. Si pro-
lunga perfino nel giudizio dottrinale sull'ateismo:
La chiesa crede che il riconoscimento di Dio non si oppone in alcun modo alla
dignità dell'uomo, dato che questa dignità trova proprio in Dio il suo fondamento
e la sua perfezione. [ ... ] Al contrario, invece, se manca il fondamento divino e la
speranza della vita eterna, la dignità umana viene lesa in maniera assai grave, come
si constata spesso al giorno d'oggi, e gli enigmi della vita e della morte, della colpa
e del dolore rimangono senza soluzione, tanto. che non di rado gli uomini spro-
fondano nella disperazione 121 .

Probabilmente questo verdetto ci mette di nuovo di fronte all'alterna-


tiva, evocata da Giovanni XXIII nel suo discorso di apertura del concilio:
a partire dal modo di rapportarsi alla coscienza altrui e alla storia come
«maestra di vita», si comprende il ruolo del magistero e della dottrina della
Chiesa in una prospettiva di «giudizio» o piuttosto secondo uno spirito di
«auto-limitazione». Ne risentirà la pace e l'unità del genere umano che la
Chiesa intende promuovere.

122 GS I, 22; COD, p. 1082.


12l Si coglie qui l'ampiezza della trasformazione tra la teologia politica di Leone XIII e di Pio XI,
espressa con la festa di Cristo Re (cfr. supra 391-392) e la cristologia universalistica di GS che si costruisce
progressivamente alla fine dei quattro capitoli della sua prima parte. Cristo Re viene qui evocato per fon-
dare l'unità umano-divina della storia dell'umanità: «Qui sulla terra il Regno è già presente, in mistero; ma
con la venuta del Signore giungerà a perfezione» (III, 39).
124 GS I, 4-10; COD, pp. 1070-1075.
IV GS I, 21; COD, p. 1080.

448 CHRISTOPH TiffiOBALD


Capitolo Tredicesimo

La comunicazione
della Parola di Dio: Dei Verbum
Bernard Sesboué

Indicazioni bib/iogi·aficbe: PONTIFICIA COMMISSIONE BIBLICA, La verità storica dei Vangeli,


EB, pp. 682-697; H. FRIES, La rivelazione, in: I fondamenti d'una dogmatica della storia della
salvezza, Mysterium Salutis. Nuovo corso di dogmatica come teologia della storia della salvez-
za, a cura diJ. Feiner-M. Liihrer, I, Queriniana, Brescia 1972'. pp. 225-339; R. LATOURELLE,
La révélation et sa transmission selon la Costitution «Dei Verbum», in «Gregorianum», 47
(1966), pp. 5-40; Io., Teologia della rivelazione, Cittadella, Assisi s.d.; J. RATZINGER ·
A. GR!LLME!ER . B.. RIGAUX, dogmatische Konstitution uber die gottliche Offenbarung, in:
LThK, Dar zweite vatikaniche Konzil, Herder, Freiburg, II, pp. 497-583; La révélation divi-
ne, Constitution dogmatique «Dei Verbum», texte latin et traduction française, commentaire
par de nombreux collaborateurs, a cura di B.-D. Dupuy, 2 voi., Cerf, Paris 1968 [in partico-
lare il commento al Proemio e al I capitolo di H. de Lubac, I, pp. 157-302]; AA.VV., Révé-
lation de Dieu et langages des hommes, Cerf, Paris 1972; G. DEFOIS, Révélation et société. La
constitution «Dei Verbum» et !es /onctions socia/es de l'Écriture, RSR, 63 (1975), pp. 457-
504; H. WALDENFELS, Manuel de théologie fondamentale, Cerf, Paris 1990; C. Duouoc,
Alleanza e rivelazione, in: AA.Vv., Iniziazione alla pratica della teologia, II, Queriniana, Bre-
scia 19892, pp. 7-86; J. DORÉ, La révélation, in: AA.Vv., lntroduction à l'étude de la théolo-
gie, II, Desclée, Paris 1992, pp. 283-337.

La storia della redazione del testo


Già prima dell'apertura del concilio la questione della rivelazione era
ritenuta centrale, tanto a causa della dottrina cattolica, quanto in ragione
della sua rilevanza ecumenica. Il problema del rapporto tra Scrittura e
Tradizione era difatti uno dei temi maggiori del contenzioso tra cattolici e
protestanti. La_parola del concilio doveva dunque essere decisiva nei con-
fronti del compito di riconciliazione ecumenica che gli aveva affidato
Giovanni XXIII. Nella raccolta degli schemi preparatori, la rivelazione era
situata in apertura. Nell'affrontare le questioni, tuttavia, lo schema sulla
liturgia venne trattato per primo e permise al concilio di trovare una certa
unanimità insieme ad un orientamento globale. Quando, dopo questo
primo episodio felice, il concilio affrontò lo «schema della Costituzione

XIII. LA COMUNICAZIONE DELLA PAROLA DI DIO: DEI VERBUM 449


dogmatica sulle fonti della rivelazione», preparato prima della riunione
del concilio, si aprì un dibattito rude e difficile che manifestò subito l'esi-
stenza di una maggioranza e di una minoranza. Lo schema proposto era
infatti steso con una mentalità teologica, non soltanto uscita dal concilio
di Trento, ma portatrice di una interpretazione semplificata e irrigidita
dei testi di quel medesimo concilio. Nel frattempo, la rilettura di Trento
operata dal Vaticano I aveva contribuito a diffondere la dottrina delle
«due fonti» della rivelazione come una dottrina praticamente dogmatica e
aveva posto in quel rilievo che sappiamo il ruolo del magistero 1• Racco-
gliamo qualche punto saliente di questo schema che, d'altra parte, non
diceva niente circa l'atto stesso della rivelazione di Dio di cui il vertice è
la persona di Gesù Cristo:
C.I La duplice fonte della Rivelazione n. 4. La Chiesa ha sempre creduto e cre-
de che l'intera rivelazione sia contenuta non nella sola Scrittura, ma, come in
una duplice fonte, nella Scrittura e nella Tradizione, tuttavia in modo differente.
[ ... ] Quanto la divina Tradizione contiene per se stessa non deriva dai libri,
ma dall'annuncio vivente nella Chiesa, dalla fede dei fedeli e dalla prassi della
Chiesa.[ ... ]
n. 6. Affinché ambedue le fonti della rivelazione contribuiscano concordemente e
più efficacemente alla salvezza degli uomini, il provvido Signore le ha affidate,
come un unico deposito della fede da custodire, proteggere e autenticamente in-
terpretare, non ai singoli fedeli, pur eruditi, ma al solo vivo magistero della Chie-
sa. Appartiene dunque al magistero della Chiesa, in quanto prossima e universale
norma del credere, non solo giudicare, [... ] per qud che riguarda direttamente o
indirettamente la fede o i costumi, sul senso e sull'interpretazione tanto della Sa-
cra Scrittura quanto dei documenti e dei reperti con i quali nel corso dei tempi è
stata consegnata e manifestata la Tradizione, ma anche spiegare e sviluppare quan-
to è racchiuso in forma oscura o implicita in ambedue le fonti 2 •

Questo testo è intessuto di espressioni tridentine, ma le supera di mol-


to e veicola l'interpretazione offerta fino ai nostri giorni da Bellarmino e
da molti manuali. Innanzitutto passa da «le tradizioni>> a «la Tradizione».
Suppone poi che il concilio del XVI secolo abbia insegnato il famoso <<par-
tim ... partim... » e che dunque vi siano delle verità della fede che non si
possano fondare che sulla Tradizione della Chiesa e non per mezzo delle
sole Scritture). «Per concludere, vi è insufficienza non solo formale, ma
materiale della Scrittura. La Tradizione si estende al di là della Scrittu-

ICfr. supra, pp. 251 e 252-253.


2Schema di Costituzione dogmatica sulle fonti della rivelazione, testo latino in: AA.Vv., La Costituzione
dogmatica sulla divina Rivelazione, LDC, Torino-Leumann 1967, pp. 73·74.
J Cfr. supra, pp. 128·132.

450 BERNARD SESBOOÉ


ra» 4 • Il testo non fa alcuna menzione della «purezza del Vangelo», consi-
derata da Trento come la fonte di ogni dottrina. D'altra parte cerca di
stabilire, nella linea del Vaticano I, una concezione del magistero come
interprete della Scrittura e della Tradizione, la cui autorità sia posta in
una relazione immediata con quella della rivelazione.
Appena questo schema venne conosciuto, provocò la costernazione. Da
parte cattolica, esso faceva tabula rasa di una riflessione teologica più che
secolare che aveva avuto origine con Mèihler e con Newman e ripresa nel
XX secolo da J.R. Geiselmann e da Y. Congar. Voltava le spalle anche a
tutta l'attitudine ecumenica. Un protestante poteva scrivere: «Questo te-
sto non diceva neppure ciò che il concilio di Trento aveva dichiarato: ele-
vava a progetto di decreto il modo con cui si era interpretato Trento, vale
a dire che vi sono due fonti della rivelazione divina, la Scrittura e la Tra-
dizione, e che, in ultima analisi, la Tradizione è più ampia e più importan-
te della Scrittura» 5 • Questo testo costituiva dunque un regresso nei con-
fronti dei più validi risultati della ricerca teologica.
A Roma le controversie furono vivaci tanto all'interno che all'esterno
del concilio. Si fece luce una letteratura di combattimento, con uno o l'al-
tro articolo-pamphlet 6, diretto spesso contro Geiselmann e Congar. Al-
l'interno del concilio, fu un momento di grande crisi e di vera e propria
battaglia. Per indiscrezione il testo dello schema era stato reso pubblico.
Incominciavano a circolare dei contro-progetti, firmati da grandi teologi
(K. Rahner, Y. Congar) 7 • Il cardinal Ottaviani difese in aula lo schema,
assecondato dai cardinali Siri, Ruffini e Browne, che furono immediata-
mente contraddetti dai cardinali Alfrink, Bea, Frings, Léger, Liénart,
Koenig, Suenens e in parte da Tisserant.
Si venne anche a sapere da mons. De Smedt che la commissione prepa-
ratoria aveva rifiutato di tener conto di una domanda del papa che la in-
vitava a consultare sulle tematiche ecumeniche le altre commissioni 8 •
Una prima votazione orientativa ebbe luogo il 20 novembre. Una larga
maggioranza dei padri rifiutò lo schema come base di partenza della di-
scussione, ma non raggiunse esattamente i due terzi. Secondo il regola-
mento conciliare, occorreva proprio la maggioranza dei due terzi perché

4 Cfr. B.D. DuPUY, Historique de la Constitution, in: La révélation divine, Constitution dogmatique
«Dei Verbum», texte latin et traduction /rançaise, commenta1re par de nombreux collaborateurs, a cura
di B.-D. Dupuy, I, Cerf, Paris 1968, p. 72, che riassume questa tesi.
5 Pastore R!CHARD-MOLARD, citato da H. HO!STEIN, Le «deuX» sources de la révélation, RSR, 57 (1969),
p. 415.
6 Cfr. P. BoYER, Traditions apostoliques non écri~es, in «Doctor Communis», XV (1962), pp. 5-21.
7 Testi in: La révélation divine .. ., cit., II, pp. 577-593.
8 J. RATZINGER in: J. RATZINGER - A. GRILLMEIER. B. RIGAUX, Dogmatische Konstitution uber die gottli-
che Of/enbarung, in: LThK, Das zweite vatikaniche Konzil, II, Herder, Freiburg, p. 500.

Xlll. LA COMUNICAZIONE DELLA PAROLA DI DIO: DEI VERBUM 451


uno schema fosse a diritto rifiutato: mancavano cento voti. Il testo restava
dunque ancor valido. Non era stata prevista nessuna procedura per un
caso del genere.
Giovanni XXIII decise allora di ritirare lo schema e nominò una Com-
missione mista, co-presieduta dai cardinali Ottaviani e Bea, per rivedere il
testo prima di proseguire i lavori conciliari. Impose così su di un punto
dottrinale importante una collaborazione tra il primo dicastero, il Santo
Ufficio, che si vedeva in tal modo privato del monopolio in materia, e il
recentissimo Segretariato per l'unità, la cui funzione era di mantenere
l'apertura ecumenica dei testi preparati. In dicembre il cardinal Bea pote-
va dire: «Ci siamo trovati d'accordo su tutto, salvo su di un solo proble-
ma, quello del rapporto tra la Scrittura e la Tradizione» 9• In altri termini
i redattori dello schema primitivo volevano mantenere la tesi delle due
fonti con la formula «La Tradizione ha un'estensione più larga della Scrit-
tura». Ritenevano che la Tradizione poteva da sola fondare nella rivela-
zione divina certi punti della dottrina cattolica. Questa ambiguità conti-
nuerà a pesare sui dibattiti e sulla redazione del testo. Non era in causa la
complementarietà tra la Scrittura e la Tradizione, ma si trattava di sapere
se questa complementarietà fosse quantitativa - ciò che non si trovava da
una parte, si poteva trovarlo dall'altra - oppure qualitativa: Scrittura e
Tradizione sono due canali solidali di comunicazione della medesima fon-
te, dal momento che la Tradizione viva costituiva il movimento di trasmis-
sione della rivelazione che si era espressa nella Scrittura.
Lo schema rivisto dalla Commissione mista venne approvato il 27 mar-
zo 1963 e venne inviato ai Padri che reagirono con diverse osservazioni.
Sensibili all'incontestabile progresso compiuto, rimasero critici su di un
certo numero di punti. Sembrava dunque che questo schema potesse ser-
vire di base per la discussione conciliare. Questa non fu posta nel pro-
gramma del secondo periodo del concilio. Numerosi Padri, tuttavia, ave-
vano espresso il desiderio che la Commissione mista riprendesse il suo
lavoro per migliorare lo schema sulla base delle ossevazioni ricevute. In
effetti, questo nuovo compito venne affidato alla Commissione teologica
del concilio, mentre il cardinal Bea conservava il diritto di intervento sul
risultato finale. Teologi come Y. Congar, che aveva pubblicato parecchio
sull'argomento, poterono così partecipare a questi lavori. Una nuova re-
dazione venne terminata nell'aprile 1964: lo schema aveva assunto la sua
configurazione quasi definitiva. Aveva un carattere più biblico, affrontava
la rivelazione prima di tutto come un atto di comunicazione di se stesso
da parte di Dio che ha il suo culmine in Gesù Cristo, prima di considerar-
la come un insieme di verità trasmesse. La trascendenza della Parola di Dio

9 Citato da B.-D. DuPUY, i.A révélation divine .. ., I, cit., p. 82.

452 BERNARD SESBOÙÉ


nei confronti della Chiesa viene messa chiaramente in rilievo. La Tradi-
zione è nominata prima della Scrittura dal momento che la Scrittura stes-
sa è il frutto di un atto di Tradizione della generazione apostolica. La fun-
zione propria del magistero è sviluppata come una sottomissione alla Scrit-
tura trasmessa dalla Tradizione.
Il dibattito riprese nell'autunno del 1964 durante il terzo periodo del
concilio. Mise a fuoco il problema della relazione tra Scrittura e Tradizio-
ne attorno all'espressione «Tradizione costitutiva». La difficoltà rimaneva
ancora la stessa: vi sono dei punti della fede che non sono costituiti tali
che a partire dal solo fondamento della Tradizione? Ma nel corso di que-
sto periodo il testo non poté giungere ad un voto conclusivo. Fu compito
del quarto periodo conciliare di ricevere gli ultimi emendamenti. All'ulti-
mo momento si venne a sapere che il papa aveva imposto un ultimo emen-
damento per soddisfare alcune richieste della minoranza e questo gettò
un'ombra sulla soddisfazione di molti davanti al risultato finale. Il testo
venne votato ali' «unanimità morale» di 2344 sì contro 6 no nel corso della
solenne assemblea del 18 novembre 1965. Così questo documento, messo
in cantiere sin dall'inizio del concilio e che aveva dato occasione alla sua
.prima crisi, lo tenne col fiato sospeso fin quasi alla fine. Ma al termine,
l'unanimità conciliare si era ritrovata.
Attualmente disponiamo di un buon numero di commentari alla Dei
Verbum. Questi hanno utilizzato l'edizione integrale degli Atti del conci-
lio e molte carte di archivio, ma non gli archivi conciliari. Di fatto non
abbiamo, come per il Vaticano I, una seconda generazione di opere, re-
datte con una maggiore distanza dagli avvenimenti e tali quindi da per-
mettere di cogliere in ulteriore profondità il senso degli orientamenti pre-
si. Questo sarà uno dei limiti del commento che proponiamo.

l. LA RIVELAZIONE IN SE STESSA (CAP. I)

1. Il Proemio (n. 1)
In religioso ascolto della Parola di Dio (Dei Verbum) e proclamandola con ferma
fiducia, il Sacrosanto Concilio aderisce alle parole di san Giovanni, il quale dice
«Vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi,
quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche
voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo
Gesù Cristo» H Gv 1, 2-3) (n. 1) 10•

10 COD, p. 971: Le altre citazioni della DV, indicate secondo il loro n. e capoverso, si trovano alle
pp. 97I-98I della medesima edizione.

XIII. LA COMUNICAZIONE DELLA PAROLA DI DIO: DEI VERBUM 453


«Dei Verbum»: questa espressione-titolo riassume il contenuto del do-
cumento. Essa evoca in una maniera inclusiva la parola di Dio, dunque la
rivelazione, e il Verbo di Dio, Gesù Cristo, che è questa stessa parola fatta
carne. Il seguito del testo preciserà questa articolazione. Questa espres-
sione può essere considerata come l' «indicatore» dello sviluppo. ,
Il concilio si proclama innanzitutto «in religioso ascolto della Parola di
Dio» e intende obbedirgli. Questo ascolto giustifica la sua sicurezza nella
proclamazione che ne deve fare. Il tono è immediatamente diverso da
quello del Vaticano I. Il testo non insiste sull'autorità della Chiesa, né sulla
proposta autoritaria di verità cui credere, ma sull'obbedienza e sull'atto
missionario della proclamazione. Sin dalla prima battuta il concilio, e
dunque il magistero della Chiesa, si situano sotto l'autorità di questa Pa-
rola, la cui trascendenza divina viene chiaramente affermata.
La citazione di 1 Gv 1, 2-3 unisce nell'annuncio della rivelazione il
vedere e l'udire, perché in Gesù, !'«esegeta» di Dio (Gv 1, 18), noi vedia-
mo ed insieme udiamo Dio. Gesù è la «teofania di Dio» 11 • Nella prospet-
tiva giovannea, la fede non è solamente un «udire»; essa è anche un «ve-
dere». Evocando «la comunione tra noi e la nostra comunione con Dio»,
il concilio introduce uno schema centrale del testo, quello della comuni-
cazione del dono: non si tratta semplicemente della «comunicazione di
verità», ma della comunicazione e del dono personale di Dio agli uomini
che fonda la comunione di vita tra gli uomini. La rivelazione è infatti di
già salvezza: essa è ordinata alla «vita eterna».
In un'ultima frase del proemio, il testo dichiara di seguire «le orme dei
concili Tridentino e Vaticano l» 12 : questa formula, destinata a tranquilliz-
zare le inquietudini dei Padri più conservatori, sottolinea la preoccupa-
zione del concilio di rimanere in continuità con i lavori dei due concili
precedenti. «Seguire le orme», però, non significa «fermarsi a». Il Vatica-
no Il non contraddirà in alcun modo né Trento né il Vaticano I, ma que-
sto non gli impedisce di esprimere meglio, in maniera complementare e in
una prospettiva più larga e più equilibrata quanto è stato veramente inse-
gnato da quei concili, proponendo una «rilettura» di affermazioni che
verranno spesso citate u. In effetti, i concili hanno sempre affermato la loro
fedeltà ai concili precedenti. Ed infine, il lavoro conciliare si presenta se-
condo la sua finalità pastorale: vuole far intendere l'annuncio della salvez-
za affinché «il mondo intero ascoltando creda, credendo speri, sperando
ami».

11 J. GUILLET, citato da H. DE LUBAC, LA révélation divine... , I, cit., p. 162.


12 Cfr. il commento critico di K. BARTII a proposito di questa espressione in: LA révélaticn divine .. ., II,
cit., pp. 513-522.
!) J. RAnINGER, Dogmatische Konstitution uber die gottliche Of/enbarung, cit., P· 505.

454 BERNARD SESBOÙÉ


In questo modo il proemio indica i due temi maggiori del documento:
la rivelazione e la sua trasmissione. Distinzione fondamentale, perché l'ini-
ziativa di Dio sarà onorata in se stessa e in seguito chiarirà le condizioni per
la sua trasmissione. Senza chiudersi nella problematica dello schema prepa-
ratorio, il concilio intende risalire a monte per descrivere concretamente
l'evento della rivelazione e proporne una concezione che superi il contenu-
to delle «verità della fede» e tratti dell' «atto di Dio che si rivela>> 14 •
Il primo capitolo tratterà della rivelazione, gli altri capitoli dei differen-
ti aspetti della sua trasmissione alle origini e nel tempo della Chiesa.

2. La rivelazione: Dio conversa con i suoi amici (n. 2)


Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare se stesso e far conoscere il miste-
ro della sua volontà (cfr. E/ 1, 9), mediante il quale gli uomini per mezzo di Cri-
sto, Verbo fatto carne, nello Spirito Santo hanno accesso al Padre e sono resi
partecipi della divina natura (cfr. E/2, 18; 2 Pt 1, 4). Con questa rivelazione infat-
ti Dio invisibile (cfr. Col l, 15; 1 Tm 1, 17) per il suo immenso amore parla agli
uomini come ad amici (cfr. Es 33, 11; Gv 15, 14-15) e.si intrattiene con essi (cfr.
Bar 3, 38), per invitarli e ammetterli alla comunione con sé (n. 2).

Questa descrizione globale della rivelazione si esprime secondo la du-


plice prospettiva della comunicazione e di una «concentrazione cristolo-
gica» cara a K. Barth 15 • La prima frase del Vaticano II riprende la seconda
del Vaticano l1 6 • Questa inversione indica sin dall'inizio una differente
problematica: lo scopo-non è di contraddistinguere formalmente rivela-
zione naturale e rivelazione soprannaturale, ma di esporre in modo trini-
tario, non più i «decreti», ma il mistero - che traduce il vocabolo latino
sacramentum -, della «autorivelazione» di Dio per il Cristo e riel suo Spi-
rito. Questo annuncia una concentrazione sulla persona del Cristo, sacra-
mento di Dio. Il disegno di Dio è di dare agli uomini un accesso e una
partecipazione alla vita trinitaria.
Per fare questo, Dio si rivolge agli uomini come a degli runici (vocabolo
preferito a quello di «figli» e che fa riferimento a Es 33, 11 e a Gv 15, 14-15).
Questa espressione crea un clima: non si situa più nella prospettiva del-
1' apologetica, ma con serenità ritorna ad un'esposizione dottrinale. Non
ricorda l'obbedienza che l'uomo deve a Dio che si rivela, come nel Vati-
cano I 17 • Adopera il linguaggio della comunicazione, dell'incontro, della

14 H. BoUILLARD, Révélation de Dieu et !angage des hommes, ... , p. 43.


15 Citata da H. DE LUBAC, La révélation divine ... , I, cit., p. 182.
t6 Cfr. COD, p. 806.
17 Cfr. supra, pp. 254-255.

XIII. LA COMUNICAZIONE DELLA PAROLA DI DIO: DEI VERBUM 455


relazione e dell'invito alla comunione. Attraverso la rivelazione, Dio, a
immagine della Sapienza, «conversa con gli uomini» (Bar 3, 38) 18 • Uno
schema dialogico si sostituisce allo schema dell'autorità e dell'obbedien-
za. L'intero documento ne sarà segnato.
Questa economia della rivelazione avviene con eventi e parole intimamente con-
nessi tra loro, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza,
manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, e le parole
proclamano le opere e illuminano il mistero in esse contenuto (n. 2).

L'economia della rivelazione passa attraverso dei gesti e delle parole


secondo la solidarietà del vedere e dell'ascoltare evocati nel proemio.
Questo legame rinvia a quello del gesto e della parola nei sacramenti. Ma
si tratta qui proprio del «sacramento» fontale della rivelazione. I gesti
confermano le parole e le parole dicono il senso dei gesti. I gesti sono le
meraviglie compiute da Dio nell'Antico Testamento per il suo popolo.
Sono anche la vita, gli atti, la morte e la resurrezione del Cristo, opere
rivelatrici e apportatrici di verità. Da parte sua, la parola di Dio ha una
efficacia propria: essa è in se stessa atto (nel senso ebraico di dabar) che
rivela e allo stesso tempo compie la salvezza.
Questa rivelazione di tipo sacramentale si attua nella storia e passa at-
traverso dei gesti e delle parole umani. Un tempo si opponeva la rivelazio-
ne naturale compiuta attraverso degli atti alla rivelazione soprannaturale
che si attuava attraverso delle parole 19 • Una tale prospettiva mutila la pie-
nezza della rivelazione divina. Questa insistenza corrisponde alla riscoper-
ta ali' epoca del concilio della teologia della storia della salvezza 20 • Il parà-
grafo già le fa riferimento.
La profonda verità [ ... ] su Dio e sulla salvezza degli uomini, per questa rivelazio-
ne risplende a noi nel Cristo, il quale è insieme il mediatore. e la pienezza di tutta
la rivelazfone (n. 2)

Il Cristo in persona, «parola sostanziale di Dio», è il culmine di questa


rivelazione. Egli ne è ad un tempo il mediatore, il rivelatore, «il messagge-
ro [e] il contenuto del messaggio» 21 • Questa è un'originalità tra le religio-
ni che si fondano su una rivelazione: né Maometto, né Zoroastro, né il
Buddha si sono proposti come oggetti di fede per i loro discepoli 22 • Qui al

18 L'espressione sarà nuovamente usata al n. 25.


19 Cfr. H. DE LUBAC, La révélation divine ... , I, cit., p. 182.
20 Cfr. le conversazioni su questo tema durante il concilio tra O. Cullmann e Paolo VI e la creazione
dell'Istituto ecumenico di Tantur (Gerusalemme) fondato con lo scopo di una riflessione sulla storia della
salvezza.
21 H. DE LUBAC, La révélation divine ... , I, cit., p. 180.
22 Cfr. il testo di P. RouSSELOT, citato in ibid., p. 181.

456 BERNARD SESBOUÉ


contrario «è il Cristo che ne è l'Autore, l'Oggetto, il Centro, il Culmine, la
Pienezza e il Segno. Il Cristo è la chiave di volta di questa prodigiosa cat-
tedrale i cui archi sono i due Testamenti» 23 • Definire la rivelazione iden-
tificandola con la persona del Cristo le dà una portata completamente
diversa che ricondurla ad una trasmissione di verità. Questa affermazione
sarà ripresa e sviluppata al n. 4 del documento.

3. La rivelazione è una lunga storia (n. 3)

La rivelazione è ormai presentata nel quadro della storia della salvezza.


Essa progredisce allo stesso modo di questa stessa storia e in forma soli-
dale con essa: più Dio si rivela, più si dà, più salva.
1. Vi sono delle tappe storiche in questa rivelazione: la prima, che resta
fondamento delle seguenti, è quella della rivelazione cosmica, legata sin
dall'origine a una rivelazione personale e gratuita di Dio:
Dio, il quale crea e conserva tutte le cose per mezzo del Verbo (cfr. Cv 1, 3), offre
agli uomini nelle cose create una perenne testimonianza di sé (cfr. Rm 1, 19-20).
Inoltre, volendo aprire la via della salvezza celeste, fin da principio manifestò se
stesso ai progenitori (n. 3).

Queste affermazioni non sono storiche, ma sono propriamente teologi-


che: fanno risalire all'origine l'intelligenza della rivelazione data dalla sto-
ria della salvezza 24 • Il Vaticano II riprende il punto di vista del Vaticano I
sulle due forme della rivelazione, ma al posto di distinguere in modo
astratto la loro duplicità, le presenta come articolate l'una all'altra in una
unità concreta 25 , sin dall'origine della storia e nella prospettiva della cre-
azione continua, presentata, nella stessa prospettiva giovannea, come com-
piuta dal Verbo. Questo sposta l'affermazione del Vaticano I, che sottoli-
neava l'opera della creazione da parte di un Dio unico che poteva essere
riconosciuto dalla ragione, secondo il punto di vista dei «preamboli della
fede». Il concilio ha rifiutato di unire al riferimento al prologo di Giovan-
ni altri testi cristologici (Col 1, 16; 1 Cor 8, 6; Rm 11, 36, Eb 1, 2) che si
spingono più lontano, dal momento che attribuiscono la creazione non
soltanto al Verbo, ma al Cristo. Questa omissione è dovuta a prudenza,
ma l'aspetto cristologico non è escluso. Il termine Verbum rinvia infatti

2J R. LATOURELLE, La révélation et sa transmission se/on la Costitution «Dei Verbum», in «Gregoria-


num», 47 (1966), p. 40.
24 H. WALDENFELS, Manuel de théologie fondamentale, Cerf, Paris 1990, pp. 275-276.
25 Cfr.]. RATZINGER, Dogmatische Konstitution iiber die gottliche O/fenbarung, cit., p. 508.

Xlll. LA COMUNICAZIONE DELLA PAROLA DI DIO: DEI VERBUM 457


alla Sapienza dell'Antico Testamento, letta nel Nuovo come un annuncio
della persona di Gesù. Questo riferimento al Verbo sottolinea allora la
solidarietà tra creazione e salvezza: la creazione è il primo momento della
salvezza allo stesso modo che la salvezza assume la forma di una nuova
creazione.
Dal momento che la storia della salvezza inizia con la creazione del-
l'uomo, quest'ultimo è da una parte beneficiario della rivelazione cosmi-
ca26, vale a dire di quella rivelazione che passa attraverso le opere della cre-
azione, secondo Rm 1, 19-20; questa creazione è delle origini, ma è anche
permanente. L'uomo è d'altra parte l'oggetto di una prima automanifesta-
zione di Dio che gli apre la via della salvezza. Il termine di rivelazione so-
prannaturale non è impiegato, e appositamente, per evitare di entrare nelle
distinzioni del linguaggio scolastico. L'idea della assoluta e gratuita trascen-
denza di questa rivelazione viene tuttavia evocata discretamente dal richia-
mo ad una via di salvezza che viene «dall'alto» (supernae) 27 • .

Parlando dei «progenitori», vale a dire degli uomini delle origini della
creazione, il testo non vuole affatto impegnarsi nel dibattito sulla storicità
dei racconti della Genesi. Sin dalla sua origine l'umanità è stata destinata-
ria non soltanto di una vocazione («soprannaturale») alla comunione con
Dio, ma già di una rivelazione dello stesso ordine. Il disegno di Dio è
dunque da subito quello della sua comunicazione personale agli uomini.
Non c'è stato un tempo di creazione «naturale» seguito da un tempo di
«elevazione soprannaturale».
Si tratta inoltre già di salvezza prima ancora della caduta. La salvezza
cristiana supera dunque le necessità provocate dal peccato. L'uomo non
può giungere al suo fine «celeste» senza che questo gli venga dato. Dal
fatto stesso della sua creazione, egli è nel «bisogno della salvezza».
2. La seconda tappa di questa storia va dalla caduta delle origini ad
Abramo:
Dopo la loro caduta, con la promessa della redenzione, li risollevò nella speranza
della salvezza (cfr. Gn 3, 15), ed ebbe costante cura del genere umano, per dare la
vita eterna a tutti coloro che cercan9 la salvezza con la perseveranza nella pratica
del bene (Rm 2, 6-7) (n. 3).

Dopo la caduta, Dio promette una redenzione, come lo lascia intrave-


dere il «protovangelo» di Gn 3, 15. Dio continua a prendersi «costante»

26 L'espressione, assente nel testo, è impiegata da J. Danielou, R Latourelle e H. e Lubac nei loro
contributi a: La révélation divine .. ., cit; cfr. ad esempio, pp. 199s.
21 Espressione antecedente l'uso medievale di «soprannaturale». Cfr. J. DoRÉ, La révélation, in:
AA.Vv., Introduction à l'étude de la théologie, II, Desclée, Paris 1992, p. 327.

458 BERNARD SESBOUÉ


cura del genere umano, per dare la vita eterna a coloro che lo cercano. Il
peccato dell'uomo non gli ha dunque fatto perdere la sua vocazione a
vedere Dio in una comunione di vita, e da parte sua, Dio è all'opera per
la salvezza di «coloro che cercano la salvezza con la perseveranza nella
pratica del bene». Questo richiamo fa riferimento a Rm 2, 7: «Vita eterna
a coloro che perseverando nelle opere di bene cercano gloria, onore e
incorruttibilità». Subito dopo, il testo paolino (2, 15) richiama che
«quanto la legge esige è scritto nei loro cuori» e che la loro coscienza
tiene in loro il posto della legge 28 • Dio continua a proporre la sua grazia
e quindi una certa forma di rivelazione, espressione della sua universale
volontà salvifica affermata da san Paolo (1 Tm 2, 4). In ogni tempo e in
ogni luogo, attraverso la diversità delle situazioni, Dio «ebbe cura» del
genere umano per condurlo verso un'unica salvezza: la vita eterna in
Gesù Cristo.
Questa affermazione non vale soltanto per la lunghissima e misteriosa
epoca che si estende dalla creazione alla vocazione di Abramo, ma vale
anche per tutti i popoli che oggi non hanno nessun legame con Abramo.
Questo è stato sottolineato nel dibattito dai vescovi di quei paesi in cui
l'implantazione del cristianesimo è più recente 29 • Nella Bibbia è anche il
tempo dell'Alleanza noachica 30 •
3. La terza tappa va da Abramo al Vangelo:
A suo tempo chiamò Abramo, per fare di lui un popolo .numeroso (cfr. Gn 12,
2-3), che dopo i patriarchi ammaestrò per mezzo di Mosè e dei profeti, affinché
lo riconoscesse come il solo·Dio vivo e vero, Padre provvido e giusto giudice, e
stesse in attesa del salvatore promesso. In tal modo preparò lungo i secoli la
via al vangelo.

Vi è qui riassunta tutta l'economia dell'Antico Testamento. Essa passa


attraverso i patriarchi (Abramo, Isacco e Giacobbe), Mosè e i profeti. Dio
sceglie un popolo, di questo fa l'oggetto di una elezione, che non è un
privilegio rivolto solamente verso di lui, ma una missione a lui confidata.
Questa pedagogia di preparazione alla salvezza passa attraverso la Legge
e i profeti. È una storia rivolta verso la venuta del Cristo il quale ne è il
vertice. E la preparazione immediata al Vangelo.

28 Questa <<legge di natura>> non deve venir confusa con la religione naturale deista che esclude la
religione rivelata.
29 Cfr. gli intervénti di mons. J. Comelis (Léopoldville), mons. Nguyen-van-Hien (Dalat), cardinal
Doepfner (Monaco), mons. J. Serrano (Panama); cfr. H. DE LUBAC, La révélation divine ... , I, cit., p. 208.
30 J. Ratzinger ritiene che qui il concilio si è lasciato portare.dall'<<0ttimismo pastorale di un'epoca>>
non sottolineando asufficienza il peso del peccato dell'uomo e del giudizio di Dio a suo riguardo. Cfr.
J. RATZINGER, Dogmatische Konstitution uber die gott!iche O!fenbarung, cit., p. 509.

XIII. LA COMUNICAZIONE DELLA PAROLA DI DIO: DEI VERBUM 459


4. La rivelazione compiuta nel Cristo (n. 4)

Questo numero riprende e sviluppa l'affermazione fatta alla fine del


n. 2, inserendola a sua volta nella storia della rivelazione. È una nuova
tappa, in un certo modo la quarta, ma è anche l'ultima e la definitiva, il
compimento di tutto il processo.
Dio, dopo avere a più riprese e in più modi parlato per mezzo dei profeti, «ul-
timamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio» (Eb 1, 1-2).
Mandò infatti suo Figlio, cioè il Verbo eterno, che illumina tutti gli uomini,
affinché dimorasse tra gli uomini e ad essi spiegasse i segreti di Dio (cfr. Gv 1, 1-8).
(n. 4, 1).

La citazione di Eb l, 1, ripresa dal Vaticano I, esprime in maniera so-


lenne il legame con le tappe precedenti. Sottolinea la continuità ed insie-
me il contrasto tra i Testamenti. Dopo i servitori, il Figlio ci porta ogni
novità dando se stesso}!: dopo la diversità, l'unicità, dopo le rivelazioni
parziali, il rivelatore assoluto, la «Parola riassuntiva» (verbum abbrevia-
tum). Il Cristo, «l;esegeta» del Padre (Gv 1, 18), ci fa il «racconto» delle
profondità di Dio 32 • In questi frasi Dio era il soggetto che introduce il
Verbo; d'ora in poi sarà il Cristo stesso ad essere soggetto delle afferma-
zioni":
Gesù Cristo dunque, Verbo fatto carne, mandato come «uomo agli uomini», «pro-
ferisce le parole di Dio» (Gv 3, 34) e porta a compimento l'operà di salvezza af-
fidatagli dal Padre (cfr. Gv 5, 36; 17, 4). Perciò egli, vedendo il quale si vede an-
che il Padr·e (cfr. Gv 14, 9), con tutta la sua presenza e con la manifestazione di sé,
con le parole e con le opere, con i segni e con i miracoli, e specialmente con la sua
morte e la gloriosa resurrezione di tra i morti, e infine con l'invio dello Spirito di
verità, porta a compimento e a perfezione la rivelazione e la corrobora con la te-
stimonianza divina, che cioè Dio è con noi per liberarci dalle tenebre del peccato
e della morte e risuscitarci per la vita eterna (n. 4).

Il rivelatore è il Verbo fatto carne, <<inviato come uomo verso gli uomi-
ni»H. «Questa storia umana del Cristo è la rivelazione pura ed assoluta di
Dio stesso», scriveva già K. Rahner 35 • In Gesù, Dio è contemporaneamen-
te il rivelatore e il rivelato. Il Verbo viene inviato all'interno di una missio-

31 Cfr. IRENEO DI LIONE, Contro le eresie, IV, 34, 1, in: Contro le eresie e gli altri scritti, a cura di E.
Bellini, Jaca Book, Milano 1981, p. 382.
32 Cfr. R. LATOURELLE, Teologia della riv~lazione, Cittadella, Assisi s.d., p. 328.
33 H. WALDENFELS, Manuel .. ., cit., pp. 280-281.
34 Questa bella espressione, tratta dalla Lettera a Diogneto, implica un'ambiguità sul ·senso originale
della formula. Cfr. H. DE LUBAC, La révélation divine .. ., I, cit., p. 220.
35 K. RAHANER, Problemi della cristologia d'oggi, in: Saggi di cristologia e di Man'okigia, Edizioni Pao·
line, Roma 1965, p. 28.

460 BERNARD SESBOÙÉ


ne trinitaria: viene dal Padre, che gli dà l'opera da realizzare ed egli a sua
volta invia lo Spirito. Questa concentrazione cristologica avvicina la dot-
trina della rivelazione a quella dell'incarnazione.
Presenza, parole, opere: Gesù rivela Dio innanzitutto attraverso la sem-
plice sua presenza (parousia) e la manifestazione di se stesso. Qui è stato
preferito il termine di presenza a quello di persona, sovraccarico di senso
in cristologia. «Presenza» è più concreto e più biblico, perché mette in
primo piano l'essere di Gesù. Il cristianesimo non è innanzitutto un inse-
gnamento o un programma: è qualcuno, il Cristo stesso; è il peso concreto
dell'esistenza e del comportamento di Gesù; è l'accordo senza incrinature
tra ciò che questi dice, ciò che fa e ciò che è. È il suo modo di vivere e di
morire che gli dà l'autorità e dice a noi chi è Dio e che cosa vuol dire
essere Dio. In lui Dio ha ormai per noi un volto: «Chi ha visto me ha visto
il Padre» (Gv 14, 9). Questo volto e questa presenza vogliono entrare in
relazione personale con gli uomini. Egli è dunque la figura personificata
della rivelazione. Tutta l'esistenza di Gesù e testimonianza; è il Segno per
eccellenza che Dio ci dà. «L'accesso a Gesù Cristo resta un accesso antro-
pologico» '6 poiché il Verbo incarnato è un uomo che si rivolge come
uomo agli uomini. Questa presenza sostiene tutto ciò che viene enumera-
to nelle coppie semantiche.
Innanzitutto ritroviamo la coppia del n. 2: parole ed opere, - quella di
At l, 1 - ma in ordine inverso. Le parole di Gesù sono essenziali alla sua
rivelazione: sono le predicazioni del Regno, le parabole le parole sul mi-
stero di Dio e della salvezza_37 • Le sue opere sono le grandi iniziative verso
i peccatori, l'invito a mangiare alla sua mensa, le guarigioni e i segni. D'al-
tra parte vi è una vicendevole interiorità in Gesù tra parole e opere. Le
sue parole sono degli atti e i suoi atti sono delle parole proposte sotto
un'altra forma. .
I segni e i miracoli sono una esplicitazione delle opere: il concilio usa
qui i termini dei sinottici (miracoli, dynameis) e di Giovanni (segni semeia).
Il termine segno ha d'altra parte una valenza più ampia dal momento che
tutti i segni compiuti da Gesù nella sua vita non sono necessariamente dei
miracoli. I miracoli non sono richiamati per la loro portata apologetica,
ma per la loro portata rivelatrice.
Specialmente la sua morte e la sua resurrezione: al modo di vivere di
Gesù corrisponde _il suo modo di morire che provoca la fede del centuria-

36 H. WALDENFELS, Manuel .. ., cit., p. 282.


37 Nd contesto, il concilio non entra nella spinosa questione delle parole veramente pronunciate dal-
lo stesso Gesù (ipsirsima verba Jesu).

XIII. LA COMUNICAZIONE DELLA PAROLA DI DIO: DEI VERBUM 461


ne. Da ultimo, la resurrezione è il segno per eccellenza, e nello stesso tem-
po, la firma divina di tutto il suo itinerario. Essa è rivelazione della poten-
za di Dio in Gesù per la nostra salvezza. Morte e resurrezione di Gesù
sono al cuore dell'economia sia della rivelazione che della salvezza: esse
ne sono il segno e l'annuncio e, ad un tempo, il primo dono di Dio eh~
vuole essere «con noi». Esse aprono all'invio dello Spirito e sono per noi.
La salvezza viene indicata in maniera negativa e positiva: liberazione dal
peccato e dalla morte, resurrezione per la vita eterna.
La Chiesa non viene qui menzionata tra i segni, come avviene nel Va-
ticano I, per la duplice ragione che il testo si colloca nel momento del-
1' atto rivelatore di Dio in Gesù e a monte della fondazione della Chiesa,
e che la prospettiva è quella della rivelazione e non quella dell'apolo-
getica dei segni. La rivelazione compiuta in Gesù Cristo è inoltre de-
finitiva: .
L'economia cristiana dunque, in quanto è alleanza nuova e definitiva, non.pas-
serà mai, e non è da aspettarsi alcuna nuova rivelazione pubblica prima della
manifestazione gloriosa del Signore nostro Gesù Cristo (cfr. 1 Tm 6, 14 e
Tt 1, 13) (n. 4, 2).

Il Nuovo Testamento è l'ultimo (novissimum): è l'Alleanza definitiva.


Non vi potrà essere una terza rivelazione pubblica fino al ritorno (parou:
sia) del Cristo. Il concilio ha voluto fermarsi a questa affermazione fonda-
mentale che riguarda levento del Cristo e non usare la formula classica:
«la rivelazione è chiusa con la morte degli Apostoli» che si presta a diffe-
renti interpretazioni e appartiene già alla trasmissione della rivelazione.
Un bel testo di san Giovanni della Croce, evocato al concilio da monsi-
gnor Zoungrana}8, aveva espresso questa cosa dentro una sviluppo ispira-
to da Eh 1, 1:
Dio [... ] non ha parlato oltre, poiché ciò che prima in parte ci ha detto, [... ],ce
l'ha detto ormai interamente, dandoci il tutto, cioè suo Figlio.
Perciò chi oggi volesse interrogare Dio, o volesse qualche visione o rivelazione,
non solo commetterebbe una sciocchezza, ma recherebbe offesa a Dio, non po-
nendo i propri occhi totalmente in Cristo, senza desiderare alcun'altra cosa o ve-
rità.
Dio potrebbe infatti rispondergli in questo modo: «Se già ti ho detto tutto nella
mia Parola, cioè mio Figlio, e non ne ho un'altra, come posso ora risponderti o
rivelarti qualcosa di più grande? Poni i tuoi occhi in lui solo, poiché in lui tutto ti
ho detto e rivelato e in lui troverai più di quanto tu chiedi e desideri>> 39•

JS Cfr. H. DE LuBAC, La révélation divine... , I, cit., p. 238.


J9 GIOVANNI DELLA CROCE, Salita al Carmelo, II, 22; in: Opere, UTET, Torino 1993, pp. 221-222.

462 BERNARD SESBOUJ!


5. La fede, risposta dell'uomo alla rivelazione (n. 5)
A Dio che rivela è dovuta l'obbedienza della fede (cfr. Rm 16, 26; rif. Rm 1, 5;
2 Cor 10, 5-6), con la quale l'uomo si abbandona tutto a Dio liberamente, pre-
stando «il pieno ossequio dell'intelletto e della volontà a Dio che rivela» e assen-
tendo volontariamente alla rivelazione data da lui (n. 5).

L'articolazione tra la rivelazione e la fede riprende l'essenziale di quan-


to detto dal Vaticano 1 40 , ma in modo selettivo e in un clima completa-
mente diverso. È certo, la rivelazione richiede «l'obbedienza della fede»,
espressa qui in termini paolini, ma la prospettiva rimane quella dell'in-
contro interpersonale e del dialogo, in «un atto integrale dell'uomo attra-
verso il quale quest'ultimo pone sulla bilancia la sua intenzione, la sua
volontà e il suo "cuore"» 41 • Il testo si ispira all'enciclica di Paolo VI Eccle-
siam suam. Quando una parola è stata indirizzata, è opportuno risponder-
le. Da ciò nasce il dialogo: tutta la fede cristiana è un dialogo tra Dio e
l'uomo, è un dialogo di salvezza:
L'origine trascendentale del dialogo [... ] si trova nell'intenzione stessa di Dio. La
religione è di natura sua un rapporto tra Dio e l'uomo. La preghiera esprime a
dialogo tale rapporto. La rivelazione, cioè la relazione soprannaturale che Dio
stesso ha preso l'iniziativa di instaurare con l'umanità, può essere raffigurata in un
dialogo, nel quale il Verbo di Dio si esprime nell'incarnazione e quindi nel vange-
lo. Il colloquio paterno e santo, interrotto tra Dio e l'uomo a causa del peccato
originale, è meravigliosamente ripreso nel corso della storia 42 •

Questa prospettiva non elimina l'obbedienza dovuta a Dio nell'atto di


fede. Il concilio lo afferma chiaramente, anche se rinuncia all'espressione
del Vaticano I: «a causa dell'autorità di Dio stesso, che [. .. ] rivela», pur
integrandola in una prospettiva equilibrata. Allo stesso modo che per la
rivelazione, il concilio non nomina la Chiesa né il suo magistero a propo-
sito della fede, perché la riflessione si colloca al livello del rapporto imme-
diato del credente con Dio nel Cristo. La descrizione della fede deve va-
lere tanto per gli apostoli che per noi: Pietro infatti «non credeva sulla
testimonianza di Pietro» 0 . La prospettiva è insieme «biblica e personali-
sta» (card. Dopfner).
Il grande dibattito del concilio sulla fede aveva messo a confronto le
due concezioni classiche. Una considera innanzitutto la fede viva, l'atto

40 Si tratta, dice J.
Ratzinger, di «Un condensato dei corrispondenti testi del Vaticano 1": J. RATZIN-
GER, Dogmatische Konstltution uber die gottliche Offenbarung, cit., p. 512.
41 H. WALDENFELS, Manuel... , cit., p. 482.
42 PAOLO VI, Ecclesiam Suam, EV 2, p. 263.
4) H. DE LUBAC,La révélation divine ... , I, cit., p. 242.

Xlll. LA COMUNICAZIONE DELLA PAROLA DI DIO: DEI VERBUM 463


essenziale attraverso cui l'uomo pone la sua fiducia in Dio, si abbandona
a lui e gli ad~risce. La fede è un atto personale che si [ivolge al Cristo
come a Dio. E la fede «per la quale si crede» (fides qua). E l'aspetto su cui
insisteva, tra gli altri, Lutero e la tradizione protestante. L'altra concezio-
ne vede nella fede un assenso intellettuale a un corpo di verità rivelate.
Essa insiste sulla dimensione volontaria e obbediente della fede e sul con-
tenuto di quest'ultima. È la fede «che è creduta» (fide quae), sulla quale
insiste tradizionalmente la teologia cattolica, l'aspetto esclusivamente con-
siderato al Vaticano 144. Il concilio ha voluto menzionare insieme ambe-
due gli aspetti, iniziando dall'abbandono totale dell'uomo a Dio. Ciascu-
na delle due concezioni è infatti parziale e può mutarsi in errore: la fede-
fiducia non può essere senza contenuto; la fede-assenso alla dottrina non
può diventare una fede spersonalizzata.
Alcuni teologi hanno voluto opporre su questo punto l'Antico e il
Nuovo Testamento: il primo presenterebbe una concezione della fede-fi-
ducia; il secondo quella della fede-assenso. H. Urs von Balthasar ha cercato
tuttavia di dimostrare che questa opposizione non ha fondamento, perché i
due aspetti sono presenti nei due Testamenti e perché si può parlare di una
fede del Cristo in Dio suo Padre 45 • Da parte sua, H. de Lubac trova che
dall'Antico al Nuovo è mutato l'accento, semplicemente perché il Cristo è
l'oggetto stesso della rivelazione: l'aspetto di assenso intellettuale è più gran-
de proprio a causa del «cristocentrismo» 46 • Ma sottolinea ancora che si trat-
ta di una conoscenza concreta, nel senso biblica. Non si dovrebbe dunque
opporre i due aspetti, come lo mostra E. Schillebeeckx:
Nella Sacra Scrittura la «fides fiducialis» è sempre accompagnata da una professio-
ne di fede. Detto diversamente, l'atto personale, esistenziale della fede come scelta
fondamentale non può mai essere separato dalla «fede dogmatica», dove la presa di
posizione personale è interamente dominata dalla realtà salvifica che si presenta.
Ma l'opposto è altrettanto verp: la professione di fede dogmatica non può essere
isolata dall'atto di fede esistenziale, come lo mostrano Mt 8, 5-13 [... ] e Eb 11, 4-38
[. .. ]. L' «oggetto» del Simbolo non riguarda solo delle cose e degli avvenimenti, fos-
se anche l'avvenimento della salvezza, ma Qualcuno: il Dio vivente come Dio per
noi e con noi, così come si è chiaramente manifestato nell'uomo-Gesù 47 •

La riconciliazione dei due punti di vista deriva dal fatto che l'atto di
fede si rivolge alla persona del Cristo che parla, vale anche a dire «imme-
diatamente a Dio» che rivela 48 ; in un momento secondo, si aderisce alle

44 Cfr. supra, pp. 255-257;


45 H. URS VON BALTHASAR, La foi du Christ, Aubier, Paris 1968, pp. 28-51.
46 H. DE LUBAC, La révé/ation divine ... , I, cit., p. 249.
47 E. SCHILLEBECKX, Approches Théologiques, 1. Révélation et théologie, Cep, Bruxelles 1965, p. 184;
citato da H. DE LUBAC, La révélation divine.. ., I, cit., p. 252.
w
48 H. ALDENFELS, Manuel.. ., cit., p. 483.

464 BERNARD SESBOOÉ


verità che egli afferma. Questo è l'allargamento significativo apportato dal
Vaticano II alla concezione «intellettualistica» del Vaticano I. D'altra par-
te, viene qui esclusa ogni prospettiva apologetica. L'insistenza del Vatica-
no I sugli argomenti tratti dai miracoli e dalle profezie è assente. L'atto di
fede viene semplicemente definito dottrinalmente.
Il nostro testo ritorna poi sul movimento del cuore aiutato dallo Spirito
e sull'aspetto personale e dialogico della fede:
Perché si possa prestare questa fede, è necessaria la grazia di Dio che previene e
soccorre e gli aiuti interiori dello Spirito santo, il quale muova il cuore e lo rivolga
a Dio, apra gli occhi della mente, e dia «a tutti dolcezza nel consentire e nel cre-
dere alla verità». Affinché poi l'intelligenza della rivelazione diventi sempre più
profonda, lo stesso Spirito santo perfeziona continuamente la fede per mezzo dei
suoi doni (n. 5).

L'azione dello Spirito Santo viene indicata sotto la forma di un aiuto


che «apra gli occhi dello spirito» 49 , vale a dire l'intelligenza. Questa for-
mula si ispira al II concilio di Orange (529, can. 7) ed era stata già ripresa
dal Vaticano !5°. Il testo aveva prima menzionato la grazia «che previene
e soccorre», sottolineatura tratta dal Vaticano I che sembra ripetersi nel-
l'espressione che segue, ma che permette di connotare anche la forma
esteriore della grazia (predicazione, testimonianza, gli stessi miracoli o
segni). Questo dato è tradizionale: si tratta dell'unzione dello Spirito che
permette al cuore di convertirsi (metanoia evangelica). I doni dello Spiri-
to Santo riferiti per l'approfondimento della fede risalgono al testo di Is
11, 2: «Su di lui si poserà l~ spirito del Signore, spirito di sapienza e di
intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e di
timore del Signore».

6. Un ritorno al Vaticano I (n. 6)

L'ultimo paragrafo è una specie di appendice il cui tono stride un po'


con l'insieme dello sviluppo precedente. Riprende quasi testualmente tre
affermazioni del capitolo I della Dei Filius che non facevano parte della
nuova logica di questa esposizione della rivelazione. L'articolazione è
operata tuttavia con prudenza. Il concilio resta fedele all'opzione di evita-
re il vocabolario scolastico della riatura e del soprannaturale. Le due af-
fermazioni maggiori sono inoltre espresse in senso inverso: prima si dice

49 Questo ricorda le prospettive di P. Rousselot sugli «occhi della fede». Cfr. RSR, 1 (1910), pp. 241-
259 e 444-475.
~o Cfr. DzS 3 77.

XIII. LA COMUNICAZIONE DELLA PAROLA DI DIO: DEI VERBUM 465


la portata unica della rivelazione gratuita di Dio nella storia; ma il tem1ine
«rivelarsi» usato dal Vaticano I viene qui raddoppiato e chiosato in «ina-
nifestarsi» e «comunicarsi» 51 , e quest'ultimo vocabolo ritorna all'idea di-
rettrice del capitolo. In seguito si risale all'affermazione della possibilità
della conoscenza naturale di Dio con le forze della ragione. Da ultimo si
ridice l'implicazione sussidiaria della rivelazione propriamente divina'per-
ché l'uomo possa conoscere con certezza ciò che non è di per se stesso
inaccessibile alla ragione. Ma non si conserva a questo proposito la for-
mula «moralmente necessario». Il commento di questi paragrafi è stato
fatto a proposito della Dei Filius 52 •
Questo paragrafo ha una finalità «rassicurante», dal momento che ri-
prende quasi alla lettera la dottrina del Vaticano I. Ma la stessa differenza
nell'ordine delle affermazioni e la selezione delle formule riprese marcano
uno spostamento. Si tratta di una dimostrazione della sostanziale conti-
nuità dei concili e della correzione apportata circa un punto di vista anco-
ra troppo stretto.

7. Con elusione

Si sarà colta la posta in gioco di questo capitolo consacrato alla storia


della rivelazione e concentrato sulla persona del Cristo. Il suo presentarsi
in apertura della Costituzione è una vittoria della nuova maggioranza con-
ciliare dal momento che il tema non era neppure affrontato nello schema
preparatorio.
Ricordiamone i tre punti più importanti e tra loro connessi.
In primo luogo, il clima delle due redazioni del Vaticano I e del Vati-
cano II è profondamente diverso. Il primo concilio si pone sul piano di-
fensivo della teologia fondamentale; le sue proposizioni sono guidate da
alcune eresie o da alcune tendenze teologiche pericolose; sottolinea che è
la Chiesa che afferma le verità della fede; le categorie scolastiche sono
all'opera e i riferimenti biblici si riducono spesso a mere illustrazioni.
L'esposizione del Vaticano II mette in rilievo la trascendenza dell'atto di
Dio in rapporto alla parola della Chiesa; è profondamente biblico dal
momento che espone la rivelazione secondo la storia della salvezza.
In secondo luogo, occorre notare la differenza tra gli schemi direttivi
del Vaticano I e del Vaticano IL Il primo concilio rimane ad uno schema
autoritario: la rivelazione di Dio esige l'obbedienza della fede. Il secondo

51 Cfr. J. RATZINGER, Dogmatische Konstitution uber die gollliche Offenbarung, cit., p. 515.
52 Cfr. supra, pp. 242-251.

466 BERNARD SESBOOÉ


si iscrive nello schema dialogico e «di comunicazione» tra dei partner.
Non elimina il primo, ma lo situa all'interno di un quadro più fondamen-
tale. Dal punto di vista pastorale. questa differenza risulta essenziale. La
dimensione di chiamata è profondamente evangelica: Gesù «invòca» l'as-
senso credente dei suoi contemporanei mentre si dà loro, si consegna per
loro. Gli avvertimenti sulla posta in gioco della fede o della non fede sono
presenti, ma posti all'interno di questa chiamata. La Chiesa dei tempi
moderni ha senza dubbio troppo insistito sull'aspetto obbligatorio della
fede - legata al raddoppiamento autoritario del suo insegnamento -, di-
menticando di farla desiderare. I nostri contemporanei sono sensibili al
linguaggio del desiderio, meno a quello dell'obbligo. Il calore sfumato
dell'esposizione cerca di far sentire la bellezza del disegno di Dio.
Da ultimo, la rivelazione è innanzitutto e soprattutto una persona: Gesù,
il Cristo, è la rivelazione assoluta di Dio su Dio e del suo disegno sull'uomo.
Egli è il testimone fedele. Vi è dunque trascendenza della sua persona e della
sua parola rispetto ad ogni altro discorso della Chiesa. La rivelazione non è
un catalogo di verità, fossero pure organizzate; l'insieme delle verità è se-
condo e prende senso in riferimento a questa persona. Anche la Scrittura
non è immediatamente rivelazione: non ne è che l'attestazione privilegiata e
che ne fa fede. Così dunque questo capitolo non propone ancora una teo-
logia della Scrittura. Ci situa a monte, al livello stesso dell'iniziativa gratuita
di Dio in Gesù Cristo. Tutto questo si trova in piena armonia con l'afferma-
zione della «gerarchia delle verità» del decreto UR ' 3 •
A Trento si parlava non della rivelazione, ma del Vangelo e del Vangelo
vivente, come potenza di salvezza. Era il linguaggio di Paolo (Rm 1, 16).
Origene è l'autore di una teologia del Vangelo degna di nota. Per lui il
contenuto del Vangelo è Gesù e la sua resurrezione. Egli chiama il Cristo
«il Regno di Dio in persona» (autobasilez'a). Il Vaticano II ritorna a questa
prospettiva nella sua presentazione del Cristo come culmine della rivela-
zione di Dio.

Il. LA TRASMISSIONE DELLA DIVINA RIVELAZIONE


(CAP. VIII) .

Il dibattito conciliare, lo abbiamo visto, si è concentrato innanzitutto


sul rapporto tra la Scrittura e la Tradizione: dobbiamo riconoscere in esse
«due fonti» della rivelazione, o, al contrario, concepirle in prospettiva di

53 Cfr. supra, p. 437.

XIIl LA COMUNICAZIONE DELLA PAROLA DI DIO: DEI VERBUM 467


una complementarietà qualitativa? Il dettato del titolo di questo capitolo,
che mette in evidenza il vocabolo di trasmissione, è già un modo di ri-
spondere che annuncia gli assi principali del discorso. Tematizza la ricon-
ciliazione che è intervenuta tra i punti di vista che si erano opposti alla
Commissione mista. Il vecchio problema Scrittura e Tradizione viene (i-
preso in maniera concreta, non innanzitutto dal punto di vista delle cose
trasmesse, ma da quello dell'atto della trasmissione; si tratta della tradi-
zione attiva. In quest'atto unico della trasmissione attiva si distingueranno
le differenti modalità della trasmissione. Proprio per questo, l'ordine del
capitolo non seguirà il classico movimento «Scrittura, Tradizione, Magi-
stero», ma partirà dalla Tradizione attiva come quella realtà che ingloba il
tutto. Il concilio non attua dunque un ritorno al scriptura sola della Rifor-
ma: valorizza la Tradizione riprendendo la prospettiva di un Ireneo.

1. Gli apostoli e i loro successori,


araldi del Vangelo (n. 7)

Questo numero tratta degli agenti e dei portatori della Tradizione atti-
va in quanto quest'ultima nel suo oggetto si identifica al Vangelo. Gesù
infatti non ha scritto: il cristianesimo non è una religione del libro. Gesù
ha affidato il suo Vangelo a dei testimoni, dapprima gli apostoli e poi i
loro successori. Così le due parti del testo:
Dio con somma benignità ha disposto che quanto egli aveva rivelato per la salvez-
za di tutte le genti rimanesse sempre integro e venisse trasmesso a tutte le genti.
Perciò Cristo Signore, nel quale trova compimento tutta la rivelazione del sommo
Dio (cfr. 2 Cor 1, 20 e 3, 16 - 4, 6), ordinò agli apostoli di predicare a tutti, comu-
nicando loro i doni divini, come la fonte di ogni verità salutare e di ogni regola
morale, il vangelo che, prima promesso per mezzo dei profeti, egli stesso ha adem-
piuto e promulgato con la propria bocca (n. 7, 1).

Perché la rivelazione sia ricevuta e custodita occorre che essa venga


trasmessa. Essa lo sarà rispettando le leggi della comunicazione tra gli
uomini, come fu anche nella sua comunicazione originaria. Il Cristo, nel
quale la rivelazione di Dio trova compimento, è anche all'origine della sua
trasmissione. Su questo argomento il concilio riprende le formule di Tren-
to, ma in modo molto diverso rispetto al Vaticano I; infatti ritorna pro-
prio alle prime parole del decreto Sacrosancta 54 , lasciate cadere dal conci-
lio Vaticano I, e utilizza la trilogia dei profeti, del Signore e degli apostoli.

54 Cfr. supra, pp. 124-126.

468 BERNARD SESBOÙÉ


Qui il Signore vien messo all'inizio, perché l'intera trasmissione del Van-
gelo parte dall'ordine di annunciare, così come si esprime nelle finali dei
Sinottici. Questo Vangelo, e non la Scrittura né la Tradizione, è la fonte.
Si ritorna al meglio di Trento che nell'interpretazione corrente era stato
dimenticato. Tuttavia, il Vaticano II ha sostituito «le tradizioni» di Tren-
to con «la Tradizione», concetto senza dubbio più astratto 55 , ma il singo-
lare era imposto dal passaggio dall'idea delle «Cose trasmesse» a quella di
«trasmissione attiva». Possiamo allora dispiacerci che il concilio non ab-
bia offerto una definizione del termine Tradizione. Come gli apostoli tra-
smettono il Vangelo?
[L'ordine del Cristo] venne fedelmente eseguito, tanto dagli apostoli, i quali nella
predicazione orale, con gli esempi e le istituzioni trasmisero sia ciò che avevano
ricevuto dalla bocca, dal vivere e dalle opere di Cristo, sia ciò che avevano impa-
rato per suggerimento dello Spirito santo, quanto da quegli apostoli e dalle perso-
ne della cerchia apostolica, i quali, sotto l'ispirazione dello Spirito santo, misero
in iscritto l'annunzio della salvezza (n. 7, 1).

Questa trasmissione è passata innanzitutto attraverso la predicazione


orale, la quale non comporta soltanto delle parole (verba), ma anche degli
esempi e delle istituzioni, allo stesso modo che le opere del Cristo trova-
vano il loro posto accanto a delle sue parole. Per istituzioni bisogna inten-
dere l'ambito del culto, dei sacramenti e del comportamento morale. Si
tratta di una predicazione concreta e viva. L'oggetto di questa predicazio-
ne è quanto gli apostoli hanno imparato dal Cristo nel corso della loro
esperienza di piena condivisione con Gesù (parole, vita e opere) e quanto
lo Spirito Santo ha loro ricordato (cfr. Gv 15, 26). La rivelazione è dun-
que l'evento articolato dell'azione visibile di Gesù e dell'azione interiore
dello Spirito.
In secondo luogo - anche se il testo non presenta un «innanzitutto» e
un «in seguito» 56 - viene la consegna per iscritto, sotto l'ispirazione dello
stesso Spirito, del messaggio della salvezza. La messa per iscritto è avvolta
nello stesso movimento generale della predicazione originaria. Non pos-
siamo fare a meno di confrontare le affermazioni conciliari con il testo di
Ireneo che le ha ispirate:
Il Signore di tutte le cose dette ai suoi apostoli il potere di annunziare il Vangelo
e, attraverso di loro abbiamo conosciuto la Verità, cioè l'insegnamento del Verbo
di Dio. [... ] Quel Vap.gelo essi allora lo predicarono, poi per la volontà di Dio ce
lo trasmisero in alcune scritture [... ].

55 Cfr. J. RATZINGER, Dogmatische Konstitution iiber die gottliche Offenbarung, cit., pp. 517-518.
56 «In seguito» si trova al n. 18.

XIII. LA COMUNICAZIONE DELLA PAROLA DI DIO: DEI VERBUM 469


Infatti, dopo che il Signore fu resuscitato dai morti ed essi furono rivestiti della
potenza dall'alto grazie alla discesa dello Spirito Santo, [... ],andarono [ ... ] fino
all'estremità della terra a predicare il Vangelo dei beni che ci vengono da Dio e ad
annunciare agli uomini la pace celeste [.. .].
Così Matteo tra gli Ebrei pubblicò nella loro stessa lingua una forma scritta del
Vangelo, mentre a Roma Pietro e Paolo predicavano il Vangelo e fondavanò la
Chiesa. Dopo la loro morte, Marco, discepolo e interprete di Pietro, ci trasmise
anch'egli per iscritto ciò che era stato predicato da Pietro. Quindi anche Luca,
compagno di Paolo, conservò in un libro il Vangelo da lui predicato. Poi anche
Giovanni, il discepolo del Signore, quello che riposò sul suo petto, pubblicò an-
ch'egli il Vangelo [... ] 57.

Nel testo conciliare e in quello di Ireneo si trovano numerose analogie:


il medesimo riferimento alla conclusione dei sinottici, la stessa nozione di
un Vangelo vivente, la priorità dell'insegnamento orale sulla stesura per
iscritto e che Ireneo formalizza con l' «allora» e il «poi», il medesimo rife-
rimento all'evento del Cristo e al dono dello Spirito. Per la stesura per
iscritto il Vaticano II parla di apostoli e di «persone della cerchia aposto-
lica>>; Ireneo mostrava che i vangeli sono stati scritti sia da alcuni apostoli
(Matteo e Giovanni) sia da alcuni collaboratori e discepoli di apostoli,
fedeli al loro insegnamento (Marco, discepolo di Pietro; Luca discepolo
di Paolo). Lo schema è il medesimo nell'uno e nell'altro teso: si tratta di
un movimento di trasmissione che passa attraverso la predicazione viven-
te per fissarsi in seguito in alcune Scritture.
Il secondo capoverso del testo conciliare affronta il secondo tempo
della trasmissione, quello che intercorre dagli apostoli ai loro successori, i
vescovi, affinché il Vangelo sia custodito intatto e vivente:
Gli apostoli poi, affinché il vangelo si conservasse sempre integro e vivo nella
chiesa, lasciarono come successori i vescovi, ad essi «trasmettendo la propria mis-
sione di magistero» 58 • Questa sacra tradizione dunque e la sacra Scrittura dell'uno
e dell'altro Testamento sono come uno specchio nel quale la chiesa pellegrina in
terra contempla Dio, dal quale tutto riceve, finché giunga a vederlo faccia a faccia
com'è (cfr. 1 Gv 3, 2) (n. 7, 2).

La trasmissione di un Vangelo vivente e del mandato dell'insegnamen-


to ricevuta dal Cristo passa attraverso la costituzione di successori degli
apostoli a capo delle Chiese. Il riferimento alla medesima sezione del te-
sto di Ireneo è qui formale. Il secondo momento della trasmissione fun-
ziona come il primo. La concretizzazione maggiore e fondamentale di
questa Tradizione è la Scrittura, ma in quanto quest'ultima è sostenuta da

57 IRENEO DI LIONE, Contro le eresie, III, Pr e 1, 1, in: Contro le eresie e gli altri scrilli, cit., pp. 216-217.
'a Ihid., III, J, 1, p. 218.

470 BERNARD SESBOUÉ


una testimonianza vivente. Ireneo invocherà i successori degli apostoli
come coloro che hanno ricevuto «il carisma sicuro della verità» e sono
capaci di dare delle Scritture «una lettura senza frode» 59 •
La Tradizione e la Scrittura - sempre nominate in questo ordine - sono
come lo «specchio» della divina rivelazione nel quale la Chiesa contempla
Dio e tutto riceve. Questo esprime il faccia a faccia trascendente entro
Tradizione e Scrittura da una parte e Chiesa dall'altra. Tradizione e Scrit-
tura, come veicoli del Vangelo, sono al di sopra della Chiesa e costituisco-
no la sua norma. Questa affermazione implica anche il carattere normati-
vo della Tradizione apostolica in rapporto alla tradizione post-apostolica
o ecclesiale.

2. La santa Tradizione (n. 8)

Il tema stesso si sviluppa, iniziando dalla Tradizione. Questa è sempre


vista nella sua origine apostolica, che si estende comunque a tutta la vita
della Chiesa.
Pertanto, la predicazione apostolica, che è espressa in modo speciale nei libri ispi-
rati, doveva essere conservata con successione continua fino alla fine dei tempi.
Gli apostoli perciò, trasmettendo ciò che essi stessi hanno ricevuto, ammoniscono
i fedeli di conservare le tradizioni che hanno appreso sia a voce sia per lettera (cfr.
2 Ts 2, 15) e di combattere per la fede ad essi trasmessa una volta per sempre (cfr.
Gd 3 ). Ciò che fu trasmesso dagli apostoli, poi, comprende tutto quanto contribui-
sce alla condotta santa e all'incremento della fede del popolo di Dio. Così la chie-
sa, nella sua dottrina, nella sua vita e nel suo culto, perpetua e trasmette a tutte le
generazioni tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede (n. 8, 1).

La Tradizione attiva, che ingloba la Scrittura, ma che si esprime in


maniera privilegiata nei libri ispirati, è un atto di trasmissione continua. Il
termine «trasmettere» ritorna quattro volte in questo capoverso. La Tra-
dizione si origina nella predicazione degli apostoli che la invocano loro
stessi nelle loro lettere (cfr. 2 Ts 2, 15 a cui si può aggiungere 1 Cor 11, 2.
3. 23; 2 Ts 3, 6). L'idea è capace di fondare la o le tradizioni nella testimo-
nianza delle Scritture. L'oggetto di «ciò che fu trasmesso dagli apostoli»
abbraccia non soltanto la dottrina, ma anche la vita e il culto, vale a dire
tutto ciò che permette l' «incremento della fede».
Dopo gli apostoli questa Tradizione continua nella Chiesa mèdiante
successione ininterrotta. È allora la Chiesa che trasmette, attraverso la sua
dottrina, la sua vita, il suo culto: vale a dire attraverso un'attività viva al

59 lbid. IV, 26, 2e 33, 8, pp. 361e377. Circa la successione apostolica, cfr. t. I, pp. 48-53.

Xlll. LA COMUNICAZIONE DELLA PAROLA DI DIO: DEI VERBUM 471


cui cuore avviene la trasmissione dei libri ispirati. Ciò che il testo non dice
abbastanza è che la Tradizione ecclesiale è sottomessa alla Tradizione
apostolica e, ben inteso, alla sua essenziale espressione che è la Scrittura.
La cesura tra Tradizione apostolica e tradizione ecclesiale, o post-aposto-
lica, vien meno sottolineata della continuità. Lo sviluppo passa insensibil-
mente dall'una all'altra, come lo mostra il capoverso seguente, consacrato
al «progresso» della Tradizione:
Questa tradizione, che trae origine dagli apostoli, progredisce nella chiesa sotto
l'assistenza dello Spirito santo: cresce infatti la comprensione, tanto delle cose
quanto delle parole trasmesse, sia con la contemplazione e lo studio dei credenti,
i quali le meditano in cuor loro (cfr. Le 2, 19 e 51), sia con la profonda intelligen-
za che essi provano delle cose spirituali, sia con la predicazione di coloro i quali
con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma certo di verità. La chie-
sa, cioè, nel corso dei secoli, tende incessantemente alla pienezza della verità divi-
na, finché in essa giungano a compimento le parole di Dio (n. 8, 2).

Il progresso evocato è dell'ordine della recezione, della comprensione


e della penetrazione, sotto l'assistenzii dello Spirito Santo, della Tradizio-
ne apostolica. Questo progresso è affare della Chiesa presieduta: di tutta
la Chiesa, poiché è l'affare di tutti i credenti nella loro meditazione; ma
sotto la garanzia della successione episcopale e in legame con coloro che
sono incaricati di predicare la parola, dal momento che essi hanno ricevu-
to «un carisma certo di verità>> 60 • Il concilio ha preferito così parlare del
progresso della Tradizione, piuttosto che della questione dibattuta a par-
tire dal XIX secolo dello «sviluppo del dogma».
Il capoverso seguente tratta delle attestazioni della Tradizione, in par-
ticolare nei Padri della Chiesa, e delle sue ricchezze che segnano la vita
pratica e cultuale della Chiesa. Allo stesso modo, la determinazione del
canone delle Scritture è opera della Tradizione ecclesiale. (Forse sarebbe
stato opportuno incominciare proprio da qui!). La fine del paragrafo ri-
torna su alcuni dei temi maggiori della Costituzione, il dialogo, qui dive-
nuto «colloquium», e il Vangelo vivente nella Chiesa:
Dio, il quale ha parlato in passato, dialoga senza sosta con la sposa del suo Fi-
glio diletto, e lo Spirito santo, per mezzo del quale la viva voce del vangelo ri-
suona nella chiesa, e per mezzo di questa nel mondo, introduce i credenti a tutta
intera la verità e fa dimorare in essi abbondantemente la parola di Cristo (cfr.
Col 3, 16) (n. 8, 3 ).

J. Ratzinger si dispiace che in questo numero il concilio abbia rinun-


ciato a esprimere la necessità di una critica della tradizione e dell'elabo-

60 Ibid. IV, 26, 2, p. 361.

472 BERNARD SESBOÙÉ


razione di criteri della tradizione legittima che la distinguano da una
tradizione inautentica: per questo fatto si è mancata una possibilità per
il dialogo ecumenico 6 l.

3. Il mutuo rapporto della Tradizione


e della Scrittura (n. 9)

Arriviamo al punto cruciale che ha polarizzato i dibattiti conciliari tra


maggioranza e minoranza. Ciò che è stato detto nei primi numeri della
costituzione conciliare implica già una concezione del rapporto tra Tradi-
zione e Scrittura. Ma era necessario tematizzare questo rapporto in modo
esplicito. Questo numero lo fa in due tempi, esplicitando prima questo
rapporto secondo la logica già iscritta nel documento e che rappresenta la
posizione della maggioranza, riprendendo poi, su domanda della mino-
ranza, delle formule che sembrano propendere verso la linea delle «due
fonti»:
La sacra tradizione e la sacra Scrittura sono dunque strettamente congiunte e
comunicano tra loro. Ambedue infatti, scaturendo dalla stessa divina sorgente,
formano in un certo qual modo una cosa sola e tendono allo stesso fine.
Infatti la sacra Scrittura è parola di Dio in quanto è messa per iscritto sotto l'ispi-
razione dello Spirito santo; invece la sacra tradizione trasmette integralmente la
parola di Dio, affidata da Cristo Signore e dallo Spirito santo agli apostoli, aì loro
successori, affinché questi, illuminati dallo Spirito di verità, con la loro predica-
zione fedelmente la conservino, la espongano e la diffondano (n. 9).

Il concilio ha sempre rifiutato di canonizzare la tesi della sufficienza


della Scrittura. Pone il legame tra Tradizione e Scrittura soltanto in modo
qualitativo e noh quantitativo. Non vi è che una fonte divina della Scrittu-
ra e della Tradizione, le quali formano un tutto unico, «comunicano tra
loro» e non hanno che un medesimo fine: la Scrittura è la parola di Dio
(/ocutio Dei) in quanto consegnata per iscritto; la Tradizione trasmette la
Parola di Dio (verbum Dei) integralmente. Esse hanno il medesimo rap-
porto con la Parola di Dio e sono coestensive. La loro differenza consiste
nel modo della trasmissione, lo scritto da una parte, l'oralità vivente dal-
l'altra. La Parola della rivelazione, affidata dal Cristo e dallo Spirito agli
apostoli, viene trasmessa ai successori secondo il principio della continui-
tà. La Tradizione trasmette ciò che è la Scrittura come contenuto e la
Scrittura è sempre trasmessa e ricevuta in una continuità vivente di fede.
Si sente in questo svolgimento l'influsso della Scuola di Tiibingen e della

61 J. RATZINGER, Dogmatische Konstitution iiber die gottliche Offenbarung, cit., pp. 519-520.

XIII. LA COMUNICAZIONE DELLA PAROLA DI DIO: DEI VERBUM 473


teologia di Y. Congar. Ma alla fine del testo si aggiunge un'altra conside-
razione, un po' ambigua nella sua formulazione, e che getta un'ombra sul-
l'insieme:
In questo modo la chiesa attinge la sua certezza su tutte le cose rivelate non dalla
sola sacra Scrittura. Perciò l'una e l'altra devono essere accettate e venerate con
pari sentimento di pietà e di rispetto (n. 9).

Si è parlato di «pentimento»: questo testo è l'emendamento (modus) di


111 Padri della minoranza, i quali hanno ottenuto da Paolo VI che egli
stesso ne domandasse al concilio l'inserimento 62 • L'espressione dà adito a
due interpretazioni: se vi è complementarietà qualitativa tra i due canali
della trasmissione, è normale che la Scrittura non sia sufficiente a creare
la certezza. Ma la formula può anche essere compresa nel senso di una
insufficienza materiale della Scrittura, secondo la formula rivendicata sino
alla fine dalla minoranza: «La Tradizione ha un'estensione pili vasta della
Scrittura». Ed è proprio il senso più appariscente alla prima lettura e che
verrebbe quindi a «correggere» le precedenti affermazioni. La ripresa
della formula di Trento sul «pari sentimento di pietà e di rispetto» (pari
pietatis a//ectu) spinge nella medesima direzione. Nel frattempo, poi, si è
anche passati dalle «tradizioni» di Trento alla «Tradizione», fatto che
carica ancor più la formula.
Si è visto già quanto il testo sattolinea la continuità tra la Tradizione
apostolica e la tradizione ecclesiale, senza però indicare con ugual chia-
rezza la discontinuità che si attua nel momento del passaggio alla genera-
zione post-apostolica. Dobbiamo rammaricarci che il concilio sia rimasto
troppo confuso nella sua concezione della Tradizione vivente. Se è natu-
rale mettere sullo stesso piano Scrittura e Tradizione apostolica, risulta
importante segnalare il varco quando si tratta della tradizione ecclesiale.
È bene, come ha fatto Y. Congar, insistere sull'atto di trasmissione attiva
e vivente, ma bisogna riconoscere con lui che essa trascina un po' di tutto
e che la tentazione cattolica è quella di accostare la tradizione ecclesiale
all'esercizio del magistero 6'.
In definitiva, il concilio, attraverso formule non bene armonizzate, non
ha mai voluto pronunciarsi sulla questione della sufficienza materiale del-
la Scrittura, allo stesso modo di come aveva fatto a suo tempo il concilio
di Trento. In quei casi in cui vi è ambiguità delle formule, le due interpre-
tazioni teologiche restano legittime, a condizione tuttavia che non si invo-
chi il concilio per fondare la propria opzione su un piano dogmatico. Del

62 Su questo dibattito cfr. ibid., pp. 525-526.


6l Cfr. supra, pp. 194-196.

47 4 BERNARD SESBOOÉ
resto, la cosa più saggia è tener conto del centro di gravità del discorso
conciliare che con chiarezza si esprime in favore di una complementarietà
qualitativa.
K. Barth vi ha visto un «infarto» del concilio 64, «capitolo oscuro» che
rovina un documento verso il quale egli è per altro molto benevolo. Si
dispiace che il Vaticano II abbia ripreso <<la frase più discutibile del con-
cilio di Trento». D'altra parte egli comprende la formula in modo arbi-
trario. È possibile, si chiede, «attenersi con un'identica convinzione al-
l'evangelista Matteo e, per esempio, a Tommaso da Kempis o Ignazio di
Loyola come interpreti degli evangelisti»? Questo errore di interpreta-
zione, comunque, è causato dal testo stesso che non fa sufficientemente
distinzione tra l'autorità della Tradizione apostolica e quella della tradi-
zione ecclesiale.

4. La relazione della Scrittura e della Tradizione


con la Chiesa e il Magistero (n. 10)
La sacra Tradizione e la sacra Scrittura costituiscono un solo sacro deposito della
parola di Dio affidato alla chiesa. Aderendo ad esso tutto il popolo santo, unito ai
suoi pastori, persevera costantemente nell'insegnamento degli apostoli e nella
comunione, nella frazione del pane e nelle orazioni (cfr. At 2, 42 gr), in modo che,
nel ritenere, praticare e professare la fede trasmessa, si crei una singolare unità di
spirito tra vescovi e fedeli (n. 10, 1).

Questo primo c·apoverso ricorda che Tradizione e Scrittura, che costi-


tuiscono un unirn deposito, sono sostenute da un popolo al quale sono
state affidate. Si tratta di un popolo «unito ai suoi pastori» - espressione
tratta da san Cipriano -, poiché la Chiesa è una comunità ordinata. Que-
sto popolo «aderisce» alla Parola, la custodisce, la pratica e la professa.
Tutta la Chiesa è dunque chiamata in causa. Si è molto discusso negli sche-
mi preparatori del ruolo del «senso dei fedeli» (sensus fidelium), che si
trova affermato nella LG 12. Il concilio, prima di affrontare il ruolo del
magistero, afferma quello del popolo di Dio strutturato dalla relazione tra
pastori e fedeli che restano legati in una «singolare unità». La custodia del
«deposito» è dunque il compito di tutti, secondo un costante movimento
di comunicazione e di scambio che si realizza nella storia tra pastori e
fedeli. Questo insegnamento si distanzia molto nettamente da quello di

64 K. BARTH; Condliorum Tridentini et Vaticani I inhaerens vestigiis, in La révélation divine.. ., Il, cit.,
pp. 517-520.

Xlll. LA COMUNICAZIONE DELLA PAROLA DI DIO: DEI VERBUM 475


Pio XII nella Humani generis 65 • Ma questo fondamentale aspetto non to-
glie nulla al ruolo specifico del magistero:
La funzione poi di interpretare autenticamente la parola di Dio scritta o trasmessa
è stata affidata al solo magistero vivo della chiesa, la cui autorità è esercitata nel
nome di Gesù Cristo. Questo magistero però non è al di sopra della parola di Dio,
ma al suo servizio, insegnando soltanto ciò che è stato trasmesso, nella misura in
cui, per divino mandato e con l'assistenza dello Spirito santo, piamente l'ascolta,
santamente la custodisce e fedelmente la espone, e, da questo unico deposito della
fede, attinge tutto ciò che è da credere come rivelato da Dio (n. 10, 2).

L'interpretazione della Parola - «scritta o trasmessa»: non vi è qui un


lapsus inconscio? Non bisognava forse dire «e»? - è affidata al solo magi-
stero vivo. Si tratta della dottrina del Vaticano I e della Humani generis.
Tuttavia, per la prima volta in un testo conciliare, questo magistero viene
posto a quel livello subordinato che gli è proprio. Paradossalmente, egli è
l'autorità di un'obbedienza. Non è al di sopra della Parola: le è sottomesso
e la serve, <<nella misura» (quatenus) in cui la ascolta e attinge da quest'uni-
co deposito della fede «tutto ciò che è da credere come rivelato da Dio».
Questa formula riprende il passo in cui il Vaticano I definisce ciò che è
oggetto di fede divina e cattolica 66 • Il concilio dunque insiste con forza sul-
1' obbedienza del magistero alla parola di Dio nella sua attestazione scritta e
trasmessa. L'espressione <<nella misura>> indica la condizione e il limite della
sua autorità. Quest'ultima non può venir esercitata se non nell'ascolto (cfr.
la dichiarazione del prologo) obbediente della Parola, allo scopo di mante-
nere nella medesima obbedienza alla medesima Parola il popolo fedele.
Il terzo capoverso ricorda la solidarietà inviolabile della Tradizione,
della Scrittura e del magistero sotto l'azione dello Spirito santo, in modo
tale «da non poter sussistere indipendentemente l'uno dall'altro». In bre-
ve, esse stanno o cadono insieme. Si tratta dell'antica solidarietà delle
Scritture, della Tradizione del Credo e della successione episcopale.

III. LA SACRA SCRITI1JRA,


ATIESTAZIONE DELLA RIVELAZIONE (CAPP. III-VI)

I capitoli che seguono sono consacrati alla Scrittura. La loro redazione


ha conosciuto un itinerario analogo a quello dei due primi capitoli, par-
tendo da un testo che canonizzava le posizioni delle scuole e della scola-

65 Cfr. DzS 3886.


66 Cfr. supra, pp. 261-263.

476 BERNARD SESBOÙÉ


stica, le cui connotazioni erano chiaramente apologetiche, per giungere
ad una stesura dottrinale serena che fa avanzare il complesso insieme dei
punti che girano attorno alla «questione biblica».

1. Dall'ispirazione all'interpretazione della Scrittura (cap. III)

Il capitolo III affronta i problemi dell'ispirazione, della verità delle


Scritture e della loro interpretazione, per la quale viene formalmente rico-
nosciuto il ruolo degli esegeti.

L'ispirazione della Scrittura (n. 11)


Le verità divinamente rivelate, che nei libri della sacra Scrittura sono contenute e
presentate, furono messe per iscritto sotto l'ispirazione dello Spirito santo. Infatti
la santa madre chiesa, per fede apostolica, ritiene sacri e canonici tutti interi i libri
sia dell'Antico sia del Nuovo Testamento, con tutte le loro parti, perché scritti
sotto l'ispirazione dello Spirito santo (cfr. Gv 20, 31; 2 Tm 3, 16; 2 Pt 1, 19-21; 3,
15-16), hanno Dio per autore e come tali sono stati consegnati alla chiesa (n. 11).

Il testo, che è opportuno paragonare a quello parallelo del Vatica-


no 167 , da cui attinge molte espressioni associandole ad alcune tratte da
Trento, affronta l'ispirazione dei libri sacri dal punto di vista della tra-
smissione della rivelazione. Le classiche affermazioni sono riprese: l'ispi-
razione dello Spirito Santo fa sì che i libri biblici abbiano Dio come auto-
re nella loro totalità e a questò titolo sono riconosciuti come canonici. La
fede nell'ispirazione fa parte del deposito apostolico. I testi scritturistici
invocati come riferimento sono quelli classici. Ma il documento evita di
parlare di Dio come «autore principale», vale a dire «causa efficiente prin-
cipale» in linguaggio scolastico 68 • Allo stesso modo, l'attività degli scritto-
ri sacri, sotto l'influsso della ispirazione, comporta un elemento nuovo ri-
spetto al Vaticano I:
Per la composizione dei libri sacri, Dio scelse degli uomini che usò, servendosi
delle loro facoltà e capacità, affinché, agendo egli in essi e per loro mezzo, scrives-
sero come autori tutte le cose e soltanto quelle che egli voleva (n. 11).

Questo testo, influenzato sia dalla Providentissimus che dalla Divino


a/flante 69 , non preseqta più come schema soggiacente quello della «causa
strumentale secor;idaria» - il vocabolo «strumento» era stato tolto dagli

67 Cfr. supra, pp. 251-252.


68 Cfr. P. GREwr, I.a révélation divine... , II, cit., pp. 361-362.
69 Cfr. supra, p. 314 e p. 331.

XIII. LA COMUNICAZIONE DELLA PAROLA DI DIO: DEI VERBUM 477


schemi precedenti-, anche se alcuni termini evocano l'idea di Dio «che si
serve» degli uomini. L'attività letteraria degli autori viene infatti presa in
considerazione e il concilio evita di attribuire a Dio la qualità di scritto-
re 70 • Gli scrittori sacri sono a tutti gli effetti degli «autori» che usano le
loro proprie risorse. Si è lontani dalla concezione della «dettatura». Que-
sta attività degli autori umani, come conseguenza, comporta la necessità
della interpretazione.

La «verità» delle Scritture


Poiché dunque tutto ciò che gli autori ispirati, cioè gli agiografi, asseriscono, è da
ritenersi asserito dallo Spirito santo, si deve professare, per conseguenza, che i libri
della Scrittura insegnano fermamente, fedelmente e senza errore la verità che Dio, in
vista della nostra salvezza, volle fosse messa per iscritto nelle sacre lettere (n. 11).

Il documento sostituisce la problematica della verità a quella classica


della inerranza che prestava il fianco a troppe critiche. Negli schemi pre-
paratori si vede che il vocabolo di inerranza lascia progressivamente spa-
zio a quello di verità. L'espressione «senza errore» non viene mantenuta
che una sola volta per spiegare l'affermazione della verità. La questione è
dunque affrontata in modo positivo e un simile linguaggio permette di
riconoscere che vi sono diverse maniere per accedere alla verità e che
quest'ultima comporta dei campi distinti. Proprio per questo il concilio
stabilisce l'estensione della verità alle affermazioni o agli insegnamenti
stabili degli autori sacri. Infatti, non ogni informazione data dalla Scrittu-
ra corrisponde ad un'affermazione trasmessa e proposta alla fede. Ma
questo importante principio restrittivo pone da se stesso dei seri problemi
riguardanti il discernimento su tali affermazioni.
D'altra parte, di quale ordine di verità si tratta? Della verità salvifica,
della verità religiosa. Non bisogna dunque cercare nella Scrittura verità
scientifiche, cosmologiche, geografiche, botaniche, come si fece nel-
l'epoca del concordismo. Questi argomenti vengono trattati nella Bib-
bia in funzione delle conoscenze del tempo. Più delicata è la questione
della verità storica. È possibile infatti trovare nella Scrittura degli errori
storici: gli scrittori sacri non avevano il senso di una storiografia «scien-
tifica». La rivelazione divina tuttavia si coinvolge nella storia ed è legata
a dei fatti. Il concilio ha cercato la soluzione del problema non nella
natura dei diversi contenuti materiali, ma nella prospettiva propria degli
scrittori sacri. La verità che essi insegnano è una verità che riguarda la
salvezza degli uomini.
70 Cfr. P. GRELOT, u révélation divine .. ., II, cit., p. 363.

478 BERNARD SESBOOÉ


Il concetto di «verità salvifica» - che deriva dal concilio di Trento;
ma che qui viene impiegato con un senso diverso - permette di portare
un giudizio sull'oggetto formale della Scrittura e di discernere, secondo
questo criterio, la sua verità. «Il punto di vista della salvezza caratte-
rizza tutte le asserzioni della Scrittura, qualunque sia il campo che le
riguarda, poiché anche la stessa rivelazione non ha altro oggetto forma-
le» 11 • La verità salvifica non è un elemento tra gli altri, eventualmente
soggetti all'errore: la verità salvifica è l'aspetto formale della verità di
tutta la Scrittura 72 • Questa verità non viene intesa in un senso esclusiva-
mente intellettualistico, come nel Vaticano I, ma in un senso biblico e
concreto: essa è la verità che fa vivere dal momento che viene dal Dio
viventen.

L'interpretazione della Scrittura (n. 12)


Le precedenti considerazioni conducono quasi ovviamente al proble-
ma dell'interpretazione di una Scrittura in cui la Parola di Dio passa attra-
verso delle parole umane. Il compito dell'esegesi consiste nel discernere
ciò che gli scrittori sacri «realmente hanno inteso indicare e che cosa a
Dio è piaciuto manifestare con le loro parole» (12, 1). Vi sono dunque
due livelli del senso: l'intenzione divina deve essere compresa attraverso
«l'intenzione degli agiografi», ma la supera.
Vengono quindi esposti due gruppi di regole ermeneutiche. Il primo
riguarda la ricerca del senso letterale, il secondo i principi che devono
operare sul piano della totalità e dell'unità della Scrittura, vale a dire della
«teologia biblica» 74 • Questa distinzione non deve essere compresa in un
modo troppo semplice, dal momento che questi due livelli di senso comu-
nicano tra di loro. La determinazione di un senso letterale ha già una
portata teologica; da parte sua poi il senso teologico non può svilupparsi
senza far riferimento al senso letterale. Tra i due opera il processo media-
tore di «rilettura» delle Scritture le une alla luce delle altre.
1. Questa ricerca dunque passa dapprima attraverso la considerazione
dei generi letterari, storici, profetici, poetici o altro. La ricerca dell'esegeta
deve spingersi all'ambiente storico prossimo all'agiografo per poter stabi-
lire ciò che per lui significa parlare. Su questo argomento il concilio ri-

71 Jbid., p. J67.
72 Sulla relazione nella Scritrura tra verità salvifica e affermazioni profane cfr. A. GR!ilMEIER, Dogma-
tische Konstitution iiber die géittliche Offenbarung, cit. p. 458s.
73 Cfr. I. DE LA POITIRIE, La Vérité de la sainte Ecriture et l'histoire du salut d'après la Constitution
dogmatique DV, NR.T, 88 (1966), pp. 149-169. . ·
74 Cfr. A. GRJLLMEIER, Dogmatische Konstitution iiber die gottliche Of!enbarung, cit., pp. 55)-556.

Xlll. LA COMUNICAZIONE DELLA PAROLA DI DIO: DEI VERBUM 479


prende sostanzialmente l'insegnamento di Pio XII nella Divino afflante
(1943 )75, evitando comunque la sua polemica contro i «sensi spirituali».
2. L'esegesi tuttavia non può fermarsi allo studio del significato di
ogni libro, ma deve anche «badare con non minore diligenza al conte-
nuto e all'unità di tutta la Scrittura, tenendo debito conto della viva
tradizione di tutta la chiesa e dell'analogia della fede» (12, 4). Il concilio
evita nel contesto la discussa categoria di «senso pieno» 76 , parlando comun-
que di «più profonda intelligenza ed esposizione del senso» (penitius).
Indica poi alcuni elementi raccolti sotto questa espressione: considera-
zione dell'unità globale della Scrittura, dei dati dottrinali della Tradizio-
ne e dell'analogia della fede. In conformità con l'argomento di fondo,
l'esegeta deve tener conto dell'unità dello Spirito che da un capo all'al-
tro ha ispirato la Scrittura. Queste affermazioni ci portano a un muta-
mento di piano: si tratta ormai di un'esegesi che si fa «teologia biblica»
a partire dal presupposto della fede cristiana; esegesi non solo legittima,
ma necessaria al servizio della fede, a condizione che rispetti i risultati
riconosciuti della esegesi letterale. Essa deve restare «scientifica», nel
senso secondo il quale la teologia deve avere un'ambizione di scienza;
ma lo sarà in un senso diverso, dal momento che nel suo cerchio erme-
neutico intervengono dei nuovi criteri che possono essere estranei a chi
affronta i testi come puro storico.
Il documento abbozza quindi un procedimento attraverso il quale
il lavoro dell'esegeta deve far maturare il giudizio della Chiesa, alla
quale resta in definitiva sottomessa l'interpretazione, quando«adempie
il divino mandato e il ministero di conservare e interpretare la parola
di Dio» (12, 4).

La condiscendenza divina (n. 13)


Il tema della condiscendenza divina era presente alla fine della Divino
afflante e faceva riferimento a Giovanni Crisostomo 77 • Esso costituisce l'ul-
timo paragrafo del capitolo III. Come il Verbo si è fatto carne con tutte le
debolezze di quest'ultima, così la Parola di Dio si è fatta parole umane, è
divenuta simile al linguaggio umano. Nell'uno e nell'altro caso Dio ha
voluto mettersi alla portata degli uomini. Una «condiscendenza» simile
era necessaria perché il paradossale dialogo tra Dio e gli uomini potesse
realizzarsi.

n Cfr. supra, pp. 331-334.


76 La problematica sull'argomento è già stata esposta: cfr. supra, pp. 329-330.
77 Cfr. supra, p. 333.

480 BERNARD SESBOÙÉ


2. La dottrina cristiana dell'Antico Testamento (cap. IV)

Il quarto capitolo è consacrato all'Antico Testamento. Dapprima lo


descrive così com'è, mostra poi la sua funzione pedagogica di preparazio-
ne alla venuta del Cristo, conclude sottolineando la profonda unità dei
due testamenti.

Dall'economia della salvezza ai libri (n. 14)


Il paragrafo procede considerando l'Antico Testamento innanzitutto
come un tempo dell'economia generale della salvezza. Questo tempo è quel-
lo di una rivelazione della parola orale e vivente di Dio, che dà luogo in
seguito ad una stesura per iscritto e alla costituzione di libri. <<L'evento di-
viene Parola; la parola viene raccolta nel libro» 78 • Ciò che costituisce l'og-
getto della riflessione non è dunque unicamente una raccolta di libri; si trat-
ta di una storia nel duplice senso della parola, «dell'avvenimento che diven-
ta storia» e della «Storia, come interpretazione, registrata nei libri» 79 •
In perfetto accordo logico con il primo capitolo, la rivelazione è affer-
mata come iscritta in una storia concreta che passa attraverso avvenimen-
ti: l'elezione di un popolo, la conclusione di un'Alleanza con Abramo e
con Mosè e l'insegnamento dei profeti. In questa storia, Dio si rivela, nel-
lo stesso tempo, «con parole ed eventi» - tratto decisamente caratteristico
della Costituzione - e fa fare al popolo eletto l'esperienza delle sue vie.
Nel corso di questi avvenimenti, Dio fa udire la sua voce, in una parola
vivente ed orale. Questo tempo della parola orale viene valorizzato per
l'Antico Testamento come lo era stato già per il Nuovo. Senza pronun-
ciarsi direttamente sulla ispirazione di queste parole orali, il testo forse
apre discretamente la via alla distinzione tra dei «sacri autori» che «an-
nunciavano», «raccontavano» e «spiegavano» l'economia della salvezza e
gli «Scrittori» propriamente detti 80 • Questo processo permette un appro-
fondimento nell'intelligenza della rivelazione. Così, le parole scritte nei
libri dell'Antico Testamento sono l'espressione della <<Vera parola di Dio»,
fatto che conferisce loro lll1 <<Valore perenne».

La preparazione della venuta del Cristo (n. 15)


L'Antico Testamento è una concreta economia di preparazione alla ve-
nuta del Cristo. Ecco perché l'interpretazione cristiana di questi libri li
considera come una «pedagogia di Dio» la quale, sebbene contenga «an-

78 L. ALONSO-ScHOKEL, La révélation divine .. ., II, cit., p. 386,


79 Ibid. p. 387.
80 Ibid. p. 385.

XIII. LA COMUNICAZIONE DELLA PAROLA DI DIO: DEI VERBUM 481


che cose imperfette ed effimere» e tenendo conto della «condizione del
genere umano nel tempo che precedette» quella venuta, rende più fami-
liare il popolo eletto con una conoscenza autentica di Dio. Questa prepa-
razione si compie attraverso delle profezie e viene indicata «attraverso
varie figure (typis)», che simboleggiano l'evento definitivo della salvezza.
È infatti l'insieme dell'Antico Testamento che viene rivestito del carattere
profetico. Questa prima rivelazione di Dio «giusto e misericordioso» e i
suoi tesori spirituali (in particolare la preghiera dei Salmi) hanno dunque
un valore definitivo. I libri dell'Antico Testamento conservano tutto il loro
valore per i fedeli cristiani.

L'Antico e il Nuovo Testamento (n. 16)


Vi è dunque una grande unità tra l'Antico e il Nuovo Testamento, dal
momento che Dio è l'unico ispiratore dei due. Il discorso si situa ora in
relazione ai libri scritti: anche se riporta che il «Cristo ha fondato la nuo-
va alleanza nel suo sangue», evocando implicitamente lo statuto dell'anti-
ca Alleanza, il testo considera innanzitutto la validità cristiana dei libri
dell'Antico Testamento.
Riprende una celebre formula di Agostino: «Il Nuovo è nascosto nell' An-
tico, l'Antico diventa chiaro nel Nuovo» (Novum in Vetere late!; Vetus in
Novo patet) 81 • Tra i due Testamenti vi è un movimento di chiarificazione
reciproca: da una parte, i libri dell'Antico trovano «il loro pieno significa-
to» - il conciliò evita appositamente l'espressione di «senso pieno» (sensus
completus) - nel messaggio evangelico che li assume; dall'altra, essi «illumi-
nano e [. .. ] spiegano» il Nuovo. Questa ripresa dell'argomento profetico e
della corrispondenza tra i due Testamenti è sgombra da ogni intenzione
apologetica. Viene espressa all'interno stesso della fede secondo la teologia
di Paolo-il Nuovo Testamento toglie il velo fino ad allora steso sull'Antico
(cfr. 2 Cor 3, 14 - e dei Padri della Chiesa. Questa prospettiva dottrinale
non toglie nulla alla necessità di praticare un'esegesi letterale di ogni testo.

3. La dottrina del Nuovo Testamento (cap. V)


Anche il quinto capitolo è il frutto di una lunga evoluzione che ha eli-
minato a poco a poco le preoccupazioni apologetiche o polemiche. Ri-
prende un certo numero di tematiche già evocate nei primi due capitoli a

81 Cfr. AGOSTINO, Questioni sull'Ettateuco, 2, 73; a cura di L. Carrozzi (NBA XVl), Città Nuova,
Roma 1997, p. 655.

482 BERNARD SESBOÙÉ


proposito della rivelazione e della sua trasmissione, poiché l'intero pro-
cesso della formazione del Nuovo Testamento vi è coinvolto. Partendo
dall'evento del Cristo, il documento tratta dei vangeli e, da ultimo, degli
altri scritti apostolici.

L'evento di rivelazione compiuto in Gesù Cristo (n. 17)


Questo bel testo ricapitola l'insieme dell'evento di Gesù, iscritto nel di-
segno divino: incarnazione del Verbo, instaurazione sulla terra del regno di
Dio, rivelazione del Padre, manifestazione di se stesso «con opere e parole»
- sempre lo stesso binomio -, compimento della sua opera con la sua mor-
te, la sua resurrezione e l'invio dello Spirito. Questo mistero è stato svelato
«ai suoi santi apostoli e profeti» (E/3, 4-6), prece essi «predicassero il van-
gelo», «suscitassero la fede» e «riunissero la chiesa>> 82 • Di questi fatti «gli
scritti del Nuovo Testamento sono testimonianza perenne».
L'essenziale di queste affermazioni ripete un po' quanto detto ai nume-
ri 4 e 7 83 della Costituzione e non necessitano un nuovo commento. Esse
sono tuttavia utili per ricondurre l'insieme delle Scritture neotestamenta-
rie alla loro sorgente, vale a dire alla persona stessa di Gesù e al movimen-
to di trasmissione che ne condizionerà la loro apparizione.

L'apostolicità dei quattro vangeH (n. 18)


In accordo con tutta la tradizione cristiana, il concilio rieonosce un
primato ai quattro vangeli rìei confronti degli altri documenti biblici a
causa del loro oggetto, la testimonianza resa alla vita e alle parole del
Verbo incarnato. Origene si era impegnato un tempo a mostrare come i
vangeli siano le primizie di tutte le Scritture 84 •
Il concilio rende allora testimonianza all'origine apostolica dei quattro
vangeli usando l'espressione: «La chiesa ha sempre e ovunque ritenuto e
ritiene»; il verbo «credere» è stato evitato per non mettere sullo stesso
piano l'apostolicità fondamentale dei vangeli e la loro attribuzione a Mat-
teo, Marco, Luca e Giovanni. Ai nostri giorni si riconosce in effetti la
complessità della storia della redazione dei vangeli. Il problema della loro
apostolicità e della loro canonicità non dipende dall'unica attività di un
redattore definitivo. Come nel capitolo II, la Costituzione si rifà alla dot-

82 Il testo non dicé che Gesù ha fondato la Chiesa, ma che ha inaugurato il regno di Dio. Cfr. X.
LEON-DUFOUR, La révélation divine ... , II, cit., pp. 405-406.
BJ Cfr. supra, pp. 459-462 e 467-471.
84 0RIGENE, Commentario su san Giovanni, I, 1, 1-15, 89, ed. fr. a cura di C. Blanc (SC 120) 1966,
pp. 57-105. .

XIII. LA COMUNICAZIONE DELLA PAROLA DI DIO: DEI VERBUM 483


trina di Ireneo che offre la prima attestazione del Vangelo quadriforme
con il nome dei suoi autori e riprende il movimento del testo del Contro
le eresie (III, 11, 8) già ricordato. Il Vangelo ha un'origine apostolica per-
ché «per mandato di Cristo» è stato dapprima predicato e in seguito (po-
stea) 85 scritto sia da alcuni apostoli si da «persone della cerchia apostoli-
ca». Questi Vangeli sono stati scritti «per ispirazione dello Spirito divino»
(divino afflante Spiritu), espressione che costituisce un rimando all'enci-
clica di Pio XII.

La storicità di un genere letterario kerigmatico (n. 19)


Più importante resta la descrizione proposta del genere letterario «van-
gelo», che costituisce «il cuore del capitolo» 86 • A partire dal momento in
cui era stato messo in luce il loro carattere di testimonianza ordinata alla
fede, il loro valore storico era stato messo in discussione. Il dibattito degli
schemi preparatori era stato segnato dalla Istruzione della Pontificia Com-
missione Biblica, pubblicata nel maggio 1964, il cui tono molto aperto
applica i principi della Divino a/flante Spiritual Nuovo Testamento e «ri-
conosce, senza giri di parole, che esistono sfumature di una certa consi-
stenza nel genere letterario storico» 87. L'istruzione espone minuziosamen-
te le tre tappe della trasmissione del messaggio evangelico: la predicazio-
ne del Cristo, la predicazione orale degli apostoli, la stesura per iscritto
dei vangeli.
Sarebbe stato opportuno dire l'originalità del proposito dei vangeli, dal
momento che la loro redazione prende la fotma del racconto. La Chiesa
afferma «senza esitazione la storicità» fedele di questi racconti a ciò che
Gesù «effettivamente operò e insegnò per la [. .. ] salvezza eterna» degli
uomini. Questa storicità viene messa in relazione, come più sopra la veri-
tà, alla finalità della salvezza eterna. Questo è infatti l'oggetto formale che
dà senso e verità a questi racconti; questo è dunque il punto di vista dal
quale conviene giudicare della loro veracità storica. Questa veracità so-
stanziale non esige che i vangeli siano d'accordo nei particolari, come già
lo avevano riconosciuto i Padri della Chiesa, e Agostino in particolare, e
lascia spazio alla discussione sulla storicità propria di certe pericopi.
Il documento, che evita di utilizzare il vocabolo di storia, non vuole
impegnarsi nelle questioni controverse attorno a questo vocabolo (storia-
avvenimento, storia-scienza) e non si pronuncia sulla varietà dei racconti

85 Il termine manca nel n. 7.


86 B. RIGAUX, Dogmatische Konstitution iiber die gii1tliche Of/enbarung, cit., p. 566.
87 X. LEON-DUFOUR, La révélation divine... , Il, cit., pp. 418.

484 BERNARD SESBOÙÉ


evangelici (per esempio, i racconti dell'infanzia). Ha preferito parlare glo-
balmente di una «storicità» che deriva dal fatto che gli apostoli-testimoni
hanno insegnato, dopo l'Ascensione, le opere e i detti del Cristo alla luce
dello Spirito Santo. La stesura per iscritto dei Vangeli è avvenuta in un
secondo tempo a seguito di un processo di «rimemorizzazione» delle pa-
role ascoltate da loro stessi o da testimoni oculari, a partire anche dalle
prime stesure scritte parziali. L'utilizzo della formula «cose vere e auten-
tiche», volendo significare con il primo aggettivo l'oggettività del detto e
con il secondo la soggettività di colui che dice, ricorda la problematica
apologetica della prima metà di questo secolo, quando la difesa della sto-
ricità dei vangeli era condotta a partire dalla tesi che gli autori sacri fosse-
ro «ben informati e sinceri» 88 •
Dopo esitazioni nel corso del dibattito, i redattori tuttavia riconoscono
anche con franchezza che gli autori sacri hanno voluto dare una testimo-
nianza di fede, «conservando infine il carattere di predicazione (praeco-
nit) ai loro scritti. Questa forma del loro dire non si oppone affatto al loro
valore storico. «I vangeli non sono dei documenti storici leggermente in-
fluenzati dal kerigma, ma sono dei documenti kerigmatici con delle impli-
cazioni storiche» 89 •
Gli altri scritti apostolici sono oggetto di un corto paragrafo (n. 20),
che si limita a dire che in essi «è confermato ciò che riguarda Cristo Si-
gnore», «è ulteriormente spiegata la sua autentica dottrina» attraverso la
presentazione di una teologia sempre più approfondita del suo mistero, e
«sono narrati gli inizi [. .. ] della chiesa». La valutazione della dottrina pao-
lina avrebbe meritato forse una più diffusa trattazione. Il concilio ha inol-
tre rinunciato a dare una lista completa dei libri canonici del Nuovo Te-
stamento.

4. La Scrittura nella vita della Chiesa (cap. VI)

La preoccupazione di questo ultimo capitolo è pastorale. Si tratta del


ruolo che deve avere la Scrittura nei differenti aspetti della vita ecclesiale,
tipico punto di vista degli orientamenti del Vaticano II. La rivelazione non
si riduce a un insegnamento d'ordine puramente intellettuale, è una Parola
vivente che deve animare una vita. Nella tradizione conciliare un tale punto

88 Il mantenimentcl di questa espressione provocò un dibattito nel corso del quale la minoranza fece
appello al papa.
89 Intervento di Dom Butler; cfr, X. LEON-DUFOUR, La révélation divine ... , II, cit., pp. 420. [N.d.T.:
Diversamente dall'italiano che traduce con «predicazione» il termine praeconii, il testo francese lo traduce
con kerigma, permettendo cosl il richiamo con le parole citate].

XIII. LA COMUNICAZIONE DELLA PAROLA DI DIO: DEI VERBUM 485


di vista è decisamente nuovo. Dei veri precedenti sono da trovare nei decre-
ti di riforma del concilio di Trento, dove si insiste con frequenza sulla ne-
cessità di insegnamenti sulla Scrittura e di predicazioni nella Chiesa 90 •
Il tema del capitolo è dunque consacrato alla sola Scrittura. Un'inten-
zione simile fu sospettata di operare un ritorno al sola Scriptura protestan-
te. Un certo numero di Padri, a più riprese, propose che si ritornasse qui
sul rapporto tra la Tradizione e la Scrittura. La commissione teologica
mantenne fermo il suo punto di vista - insieme al titolo del capitolo -
dicendo che quell'argomento era già stato trattato al capitolo II e che era
comunque chiaro che la Scrittura era sempre vista nel suo legame con la
Tradizione. Una medesima formula lo ricorderà due volte: la Parola di
Dio scritta «insieme con la sacra tradizione» (una cum sacra traditione, n.
21 e n. 24). Nel linguaggio del concilio, la formula una cum viene molte
volte impiegata in simili casi durante i quali è in gioco un dibattito con il
protestantesimo: essa occupa il posto della classica formula et ... et... , evi-
tando così la problematica della semplice giustapposizione.

Le due tavole del pane: la Parola e l'Eucarestia (n. 21)


La Chiesa ha sempre venerato le divine Scritture come ha fatto per il
corpo stesso del Signore, non mancando mai, soprattutto nella sacra litur-
gia, di nutrirsi del pane di vita dalla mensa sia della Parola di Dio sia del
corpo di Cristo, e di porgerlo ai fedeli.
La trattazione inizia con un parallelo tra la Parola di Dio e il corpo
eucaristico di Cristo, Figlio di Dio. L'immagine è tratta dalla liturgia: sono
due tavole che offrono il medesimo pane che è il Cristo. Questo accosta-
mento - fondato sul discorso sul pane di vita di Gv 6 e ripreso da Girola-
mo e da Agostino 91 - ha dato adito ad alcune difficoltà da parte di quei
Padri che vi leggevano il rischio di una riduzione della «presenza eucari-
stica a un puro simbolismo» 92 • Questo testo ha l'accento di una professio-
ne di fede dal momento che le Scritture sono per la Chiesa, «insieme con
la sacra Tradizione» «la regola suprema della propria fede». Sono dunque
l'oggetto di una venerazione, linguaggio di rispetto e di sottomissione che
rimanda a quello della recezione.
La Costituzione invita dunque a una comprensione «sacramentale»
della parola, sottolineando la sua attiva presenza nella lettura e nella pro-
clamazione delle Scritture. «Efficacia e potenza» sono insite alla Parola di

90 Cfr. t. III, pp. 168-169.


91 J. RATZINGER, Dogmalirche Konrlilulion uber die gollliche Offenbarung, cit., p. 572.
92 Cfr. A. GRILLMEIER, La rainte Ècriture danr la vie de l'Eglire, in: La révélation divine .. , II, cit.,
p. 439.

486 BERNARD SESBOÙÉ


Dio, che è «vivente ed efficace» (secondo Eb 4, 12), «sostegno e vigore
della Chiesa» e «cibo dell'anima». Queste caratteristiche sono quelle di
un sacramento. D'altra parte, il testo presenta la Parola e il sacramento
come delle «realtà inclusive» 93 , vale a dire che, se la parola è in un certo
suo modo sacramento, il sacramento include sempre la parola. Rinvia alla
coppia della parola e dell'azione nell'evento di Gesù: «Questa unità della
parola e dell'azione nell'economia della salvezza trova la sua attuale
espressione nell'unità della parola e del sacramento» 94 •
La conseguenza viene immediatamente tratta: «È necessario [... ] che
tutta la predicazione ecclesiastica [ ... ] sia nutrita e diretta dalla sacra Scrit-
tura». Le Scritture, date «una volta per sempre», rimangono nella vita
della Chiesa il luogo immutabile in cui il Padre «viene con molta amore-
volezza incontro ai suoi figli ed entra in conversazione con loro». Grazie
ad esse, la «conversazione», inaugurata con la rivelazione (n. 2), continua
lungo tutta la storia dell'umanità.

L'accesso alle Scritture: le traduzioni (n. 22)


«È necessario che i fedeli cristiani abbiano largo accesso alla Sacra
Scrittura»: questa proclamazione abolisce tutte le antiche reticenze - an-
cora espresse al concilio - nel mettere tra le mani dei fedeli la Bibbia. La
prima condizione di questo accesso è che vengano proposte delle buone
traduzioni in tutte le lingue, secondo il venerabile esempio dato dalla tra-
duzione greca dei Settanta e dalla Vulgata di san Girolamo. Queste due
traduzioni non sono più ricordate da un punto di vista della loro giustifi-
cazione 95 , ma richiamate come il modello di ciò che si deve fare «in ogni
tempo», partendo «preferibilmente dai testi originali», in una prospettiva
missionaria. Viene addirittura prospettato che queste traduzioni possano
essere fatte «in collaborazione con i fratelli separati». Questo suggerimen-
to, all'epoca giudicato da alcuni irrealista, è stato rapidamente messo in
cantiere in diverse lingue e, per il francese, con la Traduction Oecumeni-
que de la Bible (TOB).

Il ruolo degli esegeti e dei teologi (nn. 23-24)


Il concilio ·a questo punto mostra le diverse maniere per far vivere nella
Chiesa l'insegnamento delle Scritture. Si rivolge innanzitutto agli esegeti
(n. 23) con una çordialità insolita e li incoraggia nel loro lavoro di ricerca,
93 Ibid., p. 440.
94 Ibid., p. 441
95 Come a Trento, che considera «autentica» la Volgata.

XIII. LA COMUNICAZIONE DELLA PAROLA DI DIO: DEI VERBVM 487


insistendo sulla sua dimensione apostolica. Essi aiutano la Chiesa nella sua
ricerca di «una intelligenza sempre più profonda delle sacre Scritture»
mettendo in atto gli strumenti appropriati «sotto la vigilanza del sacro
magistero»; essi hanno il ruolo di presentare i loro risultati «in modo che
il più gran numero possibile di ministri della divina parola possano offrire
con frutto al popolo di Dio l'alimento delle Scritture». L'esegesi deve
dunque evitare di chiudersi in una tecnica che rischierebbe di divenire
sterile.
Dopo gli esegeti è la volta dei teologi (n. 24). La «parola di Dio scritta»
è il «fondamento perenne» della riflessione teologica. Quest'ultima, ritor-
nando sempre ad esso, si fortifica e «si ringiovanisce». È qui che compare
la formula divenuta presto celebre: «Lo studio della sacra pagina sia dun-
que come l'anima della sacra teologia». Questa espressione in realtà è at-
tinta dalle encicliche di Leone XIII e di Benedetto XV%, ma il concilio gli
dà un valore programmatico 97 • Questo richiamo comporta un'implicita
critica alla concezione della teologia come scienza puramente speculativa,
incaricata di portare a delle nuove «conclusioni teologiche», dove il rife-
rimento alle Scritture viene ridotto a delle «citazioni probanti» (dieta pro-
bantia). Questo invito vale per tutto l'intero ministero della Parola: predi-
.cazione, catechesi e omelia. W. Kasper commenta con vigore questo inse-
gnamento:
La teologia cattolica può e deve misurare il suo dogma con la norma della Scrit-
tura? A questa questione si dovrà rispondere con un puro e semplice sì. [ .. :] La
predicaziorn: della Chiesa, nel corso dei tempi, deve sempre volgersi indietro ver-
so questa origipe apostolica per porsi in suo ascolto ed esaminare il suo messaggio
alla luce del kerigma primitivo. Il dogma non deve soltanto essere letto e interpre-
tato a partire dalla Scrittura. Deve essere completato, approfondito e sviluppato a
partire dalla Scrittura 98.

La Scrittura nel ministero della Parola (nn. 25-26)


Un ultimo richiamo viene dvolto ai preti e a coloro che hanno una re-
sponsabilità nel ministero della parola: essi devono dedicarsi a una <<lettu-
ra [ ... ] assidua» e ad uno «studio accurato» delle Scritture, ed ascoltarla

%. LEONE XIII, Providentissimus Deus, EB, n. 114, e BENEDETTO XV, Spiritus paraclitus, EB, n. 483.
97 La formula si trova anche nel decreto sulla fonnazione sacerdotale: PO, n. 16, COD, p. 955.
98 W. KAsPER, Schri/t, Tradition und Verkiindigung, in: TH. FILTifAUT, Umkehr und Ermeuerung, Kir-
che nach dem Konzil, M. Griinewald, Mainz 1966, p. 37: cfr. A. GRJLLMEIER, in: LA révélation divine... , Il,
cit., p. 455.
99 GIROLAMO, Commento su Isaia, Prologo, in: PL 24, 17; la preoccupazione era già emersa negli inse·
gnamemi pontifici precedenti: cfr. BENEDETTO XV, Spiritus paraclitus, EB, nn. 475-480 e Pio XII, Divino
aff/anto, EB, n. 544.

488 BERNARD SESBOÙÉ


dentro .di sé prima di comunicarla ai fedeli. Questo invito si allarga allora
a «tutti i fedeli cristiani, soprattutto i religiosi», perché vi attingano «la
sublime scienza di Gesù Cristo» (Fz'l 3, 8). San Girolamo non diceva che
«l'ignoranza delle Scritture, infatti, è ignoranza di Cristo» 99 ? Viene loro
raccomandatb, oltre all'accostarsi-ad esse attraverso la liturgia, la lettura e
la preghiera, di ricevere ins'egnamenti a questo scopo, «affinché possa
svolgersi il colloquio t.ra Dio e l'uomo». L'accenno alle istituzioni e agli
strumenti «che con lapprovazione e a cura dei pastori della chiesa lode-
volmente oggi si diffondono dappertutto» costituisce un riconoscimento
ufficiale del movimento biblico cattolico 100 • Notiamo la novità di questo
invito a tutti i fedeli, che ha provocato le reticenze di quanti lo trovavano
pericoloso e avrebbero preferito la p.l.lbblicazione di florilegi biblici. È
compito dei vescovi aiutare i fedeli in questo cammino, in particolare con
delle edizioni della Scrittura valide, annotate ed accessibili anche ai rion
cristiani.
L'ultimo paragrafo (n. 26) conclude il capitolo e la Costituzione evo-
cando la «corsa della parol11 di Dio» (cfr. 2 Ts 3, 1) nel cuore degli uomini
e riprendendo il parallelo tra la frequenza del mistero eucaristico e la ye-
nerazione della parola che «rimane in eterno» (1 Pt 1, 23-25).

5. Una recezione in corso


Indicazioni bibliografiche: FEDE E CosTITIJZIONE, La Scrittura, la Tradizione e le tradizioni,
Montréal 1963, ed. fr. in La révélation divine... , cit., II, pp. 599-612.; Portée oecuménique de la
Constitution, in La révélation divine .. ., cit., II, pp. 463-566 (i contributi sono di R Shutz, M.
Thurian, J.L. Leuba, Ed. Schlink, K. Barth, A. Kniazeff, B.-D. Dupuy).; PoNT!FICIA CoMM!S-
SIONE BIBLICA, L'interpretazione della Bibbia nella Chiesa, EV 13, pp. 1554-1733.

Se il processo di ricezione della DV è ampiamente avviato, non è anco-


ra concluso dopo trent'anni. Ciò è dovuto alla natura stessa della recezio-
ne, processo che, come regola generale, supera lo spazio di una genera-
zione e riillarie sempre imprevedibile. È certo che questa Costituzione
nel mondo teologico ha capovolto il rapporto tra i fautori delle «due fon-
ti» e coloro che sostengono un rapporto tra la Tradizione e la Scrittura
insieme qualitativo e inclusivo. Il loro insegnamento è ormai divenuto
corrente.
Proprio per questo, uno dei magg_iori punti di contesa tra cattolici e
protestanti è praticamente crollato. E opportuno sottolinea~e l'impatto
ecumenico della Costituzione su di un punto particolarmente rilevante.

100 A. GRILLMEIER, in: La révélation divine .. ., II, cit., p. 458.

XIII. LA COMUNICAZIONE DELLA PAROLA DI DIO: DEI VERBUM 489


Un'assemblea di Fede e Costituzione si era infatti riu_nita a Montréal nel
1963 e aveva elaborato un rapporto su «La Scrittura, la Tradizione e le
tradizioni» 101 • Un confronto tra questo testo e la DV rivela delle decisive
convergenze su due punti, come lo ha mostrato J.L. Leuba: l'affermazio-
ne che il magistero è sottomesso alla rivelazione e dunque alla testimo~
nianza delle Scritture, e l'articolazione qualitativa proposta fra la Tradi-
zione e le Scritture. La problematica dunque non si pone più nei termini
del xvi secolo. È stata l'esegesi protestante moderna che paradossalmente
ha messo in luce per prima il fatto che le Scritture sono il frutto di un
processo di tradizione. La Tradizione vivente precede dunque le Scritture
e le avvolge in modo permanente nella predicazione della Parola di Dio
attraverso la loro interpretazione. Il punto di vista cattolico è passato dal
et ... et ... al una cum (insieme con), proprio mentre il punto di vista prote-
stante superava il sola scriptura nella medesima direzione 102 • Il documento
di Montreal verte prioritariamente sulla Tradizione:
Possiamo così dire che noi esistiamo come cristiani grazie alla Tradizione del
Vangelo (la paradosis del Kerygma), testimoniata nella Scrittura e trasmessa nella
Chiesa e attraverso di essa, per la potenza dello Spirito santo. Considerata da
questo punto di vista, la Tradizione è attualizzata nella predicazione della Parola,
nella amministrazione dei sacramenti, nel culto, nell'insegnamento cristiano; nella
teologia, nella missione e nella testimonianza resa al Cristo con la vita dei membri
della Chiesa 10}

Non tutto è comunque risolto perché nessuno dei due documenti ha


dato una definizione un po' rigorosa della Tradizione, tanto che K. Barth,
lo abbiamo visto, ha potuto parlare di «infarto» a proposito delle ultime
righe del n. 9 della DV. I teologi della Riforma hanno espresso un certo
numero di riserve e si sentono ancora a disagio davanti all'importanza,
ritenuta eccessiva, data alla Tradizione. Ma E. Schlink dà un giudizio più
equilibrato dicendo «Non bisogna sottovalutare la rilevante portata ecu-
menica dell'idea di rivelazione espressa in questa Costituzione» 104 •
Una valida verifica della recezione del documento conciliare da parte
di una istanza ufficiale della Chiesa cattolica è offerta dal recente docu-
mento della Pontificia Commissione Biblica (1993) dal titolo: «L'interpre-
tazione della Bibbia nella Chiesa» e pubblicato in occasione del centena-
rio della Providentissimus (1893 ). Questo lungo documento fa il punto su
cento anni di riflessione intorno alla «questione biblica» e si riferisce an-

lOl FEDE E CosnruzIONE, La Scrittura, la Tradizione e le tradizioni, Montréal 1963, ed. fr. in: La révé-
lation divine... , Il, cit., pp. 599-612.
102 J.L. LEUBA, La révélation divine ... , II, cit., P- 483.
103 FEDE E COSTITIJZIONE, La Scrittura, la Tradizione e le tradizioni, 45, cit., p. 601.
104 E. SCHLINK, La révélation divine... , II, cit., p. 510.

490 BERNARD SESBOOÉ


che alla Divino a//lante a alla DV (26 volte). Colloca le sue prese di posi-
zione circa l'esegesi biblica nell'insegnamento del Vaticano II. Si dedica
dapprima a~ una lunga descrizione della diversità dei metodi esegetici:
metodo storico-critico, nuovi metodi letterari e linguistici, approcci che
fanno appello alla tradizione o alle scienze umane, approcci contestuali e,
da ultimo, la lettura fondamentalista. Ognuno di questi metodi venne
presentato con obiettività e appr:ezzato ciiticamente con cordialità. Il te-
sto allarga dunque in modo notevole la considerazione dei metodi inau-
gurati dalla Divino afflante e ripresi dalla DV. Distingue poi, a livello er-
meneutico, il senso letterale «espresso direttamente dagli autori umani
ispirati», il «senso spirituale», che non è eterogeneo al precedente e che
può addirittura confondersi a volte con quello, e da ultimo, sempre oggetto
di discussioni, il «senso pieno» che si manifesta quando il senso letterale
viene ripreso in un altro contesto di rivelazione (per esempio, Is 7, 14), o
quando la Chiesa si è pronunciata sul senso dottrinale di una pericope
(cfr. Rm 5, 12-21 e il peccato originale). Il senso pieno è un altro modo
per designare il senso spirituale. Il testo fa poi la storia dell'interpretazio-
ne della Scrittura nella Chiesa cattolica, per giungere al compito attuale
degli esegeti e dei teologi e affrontare da ultimo i problemi dell'attualizza-
zione e dell'inculturazione della Bibbia.

XIII. LA COMUNICAZIONE DELLA PAROLA DI DIO: DEI VERBUM 491

,\'
Capitolo Quattordicesimo

La Chiesa cattolica e «gli altri» 1

La libertà religiosa
e le religioni non cristiane
Bernard Sesboué

La preoccupazione di collocare la Chiesa cattolica in rapporto a coloro


che sono fuori da essa è stato uno degli ambiti più innovativi del Vatica-
no IL Con questo concilio ha fine una forma di «ecclesiocentrismo» che
aveva caratterizzato i Tempi moderni. La maggior parte dell'umanità non
appartiene infatti alla Chiesa cattolica romana. Al di fuori di essa vi sono
innanzitutto le Chiese di Oriente e di Occidente sorte dalle differenti se-
parazioni della storia. È a proposito di loro e per fon.dare un nuovo tipo
di relazioni con loro che venne redatto il decreto Unitatis redintegratz'o
(UR) sull'ecumenismo. Ma vi son pure tutti i credenti delle altre religioni
e di queste la valutazione positiva è proposta nella dic.hiarazione Nostra
aetate (NA). Da ultimo, ma al di sopra di tutto, si poneva con acuità un
preoccupante problema che riguarda tutti gli «altri», cristiani e non cri-
stiani, quello della libertà religiosa. La Chiesa cattolica su questo argo-
mento era rimasta sino ad allora impigliata nell'ambiguità della dottrina
della tesi e dell' «ipotesi» 2 e sospettata dai suoi partner di non essere favo-
revole alla libertà religiosa che per i suoi membri e di non rivendicarla che
là dove essa era minoritaria. Su questo argomento, dunque, era attesa la .
parola del concilio e le altre dichiarazioni sarebbero state poco credibili
all'esterno se questo tema non fosse stato trattato con la chiarezza e la
fermezza necessarie. Dopo dibattiti lunghi e difficili, la Dichiarazione'

I Questo punto di vista, già affrontato nel t. III, pp. 480-483, viene ora considerato di nuovo, ma nella
prospettiva della teologia fondamentale.
2 Secondo la «tesi», lo Stato ideale è cattolico, proclama il cattolicesimo religione di Stato e difende la
verità di questa religione ad esclusione di ogni altra (intolleranza dogmatica); ma, poiché la realtà non
corrisponde a questa situazione, l' «ipotesi>> autorizza la tolleranza pratica delle altre religioni, mentre la
Chiesa cattolica rivendica per sé la libertà religiosa. Sul disagio creato da questa distinzione dal momento
stesso della sua formulazione, cfr. Co"espondance entre Ch. de Montalembert et A. Decbamps, 1863-1870,
a cura di R Aubert, Nauwelaerts, Bruxelles 1993.
J Sulla distinzione tra l'autorità di una <<Costituzione>>, di un <<Decreto» e di una «Dichiarazione>> cfr.
Y. CoNGAR in: La liberté religieuse. Déclaration «Dignitatis humanae personae», a cura di J. Hamer e

492 BÈRNARD SESBOÙÉ


Dignt'tatis humanae (DH) giunse a compimento proprio alla fine del con-
cilio. Questi due documenti appartengono al campo della teologia fonda-
mentale dal momento che riguardano la coscienza che la Chiesa cattolica
ha del suo rapporto con la verità religiosa che le è stata affidata e il modo
con cui essa valuta che gli «altri>> possano partecipare a questa verità. Essi
costituiscono un rinnovamento decisivo del classico trattato della teologia
fondamentale intitolato «Della vera religione» (De vera religione). E non
sono importanti solo per quello che dicono, ma anche per il contraccolpo
che determinano all'interno della stessa dogmatica cattolica.
Il decreto sull'ecumenismo è stato evocato a proposito della «gerarchia
delle verità» 4: qui tratteremo dunque della Dichiarazione sulla libertà re-
ligiosa, la cui portata ecumenica è forse più decisiva che per il decreto
UR 5, e di quella sulle religioni non-cristiane.

I. LA DICHIARAZIONE DIGNITATIS HUMANAE


SULLA LIBERTA RELIGIOSA

Indicazioni bibliografiche: J. LECLER, Histoire de la tolérance au siècle de la Réforme, Au-


bier, Paris 1955; P. PAVAN, Libertà religiosa e pubblici poteri, Milano 1965; La liberté relt~
gieuse. Déclaration «Dignitatis humanae personae», a cura di J. Hamer e Y. Congar, Cerf,
Paris 1967; p. PAv AN, 'Erkliirung uber die Religionsfreiheit, in: L ThK, Das zweite V(ltikaniche
Konzil, Herder, Freiburg, II, pp. 704-747; lo., La liberté religieuse. Déclaration Dignitatis ·
huma_nae, Marne, Tour 1967; R. COSTE, Teologia della libertà religiosa. Libertà di'coscienza -
libertà di religione, EDB, Bologna 1972; PH .•I. AND~·VlNCENT, La liberté religieuse, droit
fondamenta!, Paris 1975; B. SESBOM, La doctrine de la liberté religieuse est-elle contraire à la
révélation chrétienne età la tradition de l'Église?, in «Documents Episcopat», 15 (1986), pp.
1-19.; Paolo VI e il rapporto chiesa-mondo al Concilio, Istituto Paolo VI, Brescia 1991; D.
GONNET, La liberté religieuse à Vatican II. La contribution de John Courtney Murray s.j., Cerf,
Paris 1994 [Bibliografia abbondante per quanto riguarda la Dichiarazione conciliare, esau·
stiva per l'opera di J.C. Murray]; B.R. VALUET', La liberté religieuse et la tradition catholi-

Y. Congar, Cerf, Paris 1967, pp. 47 ·52. Nel linguaggio della Curia romana una «Dichiarazione» è «Un atto
attraverso cui lautorità rende nota la sua decisione». Il termine è stato utilizzato da alcune Assemblee
religiose (Assemblea del clero francese del, 1682) o politiche (Dichiarazione dei diritti dell'uomo del,
1789). L'uso del termine per dei documenti conciliari è una innovazione del Vaticano II. Per i due docu·
menti studiati in questo capitolo, la scelta di questo termine deriva dal fatto che essi riguardano anche gli
«altri», che non possono essere oggetto di un «decreto». Questa precisazione non significa poi che la
Dicliiarazione non comporti alcun peso dottrinale o che esprima un minore impegno dell'autorità del
concilio. ·
4 Cfr. supra, pp. 436·'139.
5 Cfr. mons.]. WIL~EBRANDS, La liberté religieuse et l'oecuménisme, in: La liberté religieuse ... cit.,
pp. 237-251. ..
6 Questa tesi ricca ed erudita, ma anche scolastica e giuridica, redatta da un monaco dell'Abbazia di
Barroux, riconosce l'autorità dottrinale della DH, ma interpreta il suo insegnamento in una prospettiva
tradizionalista, integrando il tema della libertà religiosa al sistema della tesi e dell'ipotesi e all'idea della
tolleranza. ·

XIV - LA CH)ESA CATIOLICA E «GLI ALTRI» 493


que: un cas de développement doctrinal homogène dans le magistère authentique 1. Systemati-
que; 2. Chronologique; 3. Alphabétique [Bibliografia], 3 voi., Ateneo Romano Santa Croce,
Roma 1995.

1. Le tappe della redazione


Quando al concilio venne posto il problema della libertà religiosa, la
dottrina della tesi e dell'ipotesi, ereditata dal XIX secolo, poteva avvalersi
di una specie di consenso derivante da una impossibilità pratica per la
teologia di elaborare un'altra prospettiva 7 • J.C. Murray ne aveva fatto
esperienza personale 8 • Ma restare su questa posizione avrebbe avuto un
effetto catastrofico e avrebbe invalidato quanto il concilio diceva altrove
con il suo discorso il più possibile aperto.
Il problema della libertà religiosa si poneva con una nuova pregnanza
in un quadro storico e politico complesso. Da una parte, le Chiese del
silenzio erano private dei diritti elementari della pratica della loro fede
nei paesi di obbedienza ·comunista. Verso di loro la Chiesa rivendicava
delle forti esigenze di libertà religiosa. D'altra parte, la Spagna viveva nel
regime di un concordato dove la Chiesa cattolica fruiva dei privilegi della
«religione di Stato» a detrimento della libertà di espressione pratica degli
altri culti. La Spagna rappresentava agli occhi di molti la realizzazione
della «tesi». Inoltre la libertà religiosa faceva parte delle grandi rivendica-
zioni sui diritti dell'uomo promosse da alcune istituzioni internazionali
come l'ONU e il Consiglio Ecumenico delle Chiese (CEC). Questo pro-
blema dottrinale presentava, da ultimo, un'evidente dimensione politica e
la sua trattazione doveva fare appello alla filosofia politica. Per tutte que-
ste ragioni cui si aggiungeva l'opposizione dei sostenitori della tesi e del-
l'ipotesi, la preparazione del documento ha percorso un itinerario parti-
colarmente complesso e conflittuale. Oltre ai due documenti preparatori,
furono necessarie, per arrivare a termine, non meno di sei redazioni.

Dal documento di Friburgo


alla prima redazione conciliare
Il punto di partenza della riflessione conciliare è stato il documento
detto «di Friburgo», elaborato nel 1960 da un piccolo gruppo 9 e che
portava il titolo <<la tolleranza», considerata nella prospettiva dell'amore.

7 Questa dottrina della tesi e dell'ipotesi è in logica coerenza con la concezione classica ed estrinseca
dd rapporto tranatura e soprannatura, come ha dimostrato H. de Lubac. Cfr. D. GONNET, La liberté
religieuse à Vatican Il. La contribution de John Courtney Mu"ay s.j., Cerf, Paris 1994, p. 310.
a Cfr. lbid, pp. 39-102
9 Mons. Charrière, mons. De Smedt, il canonico Bavaud e il p. J. Hamer o.p.

494 BERNARD SESBOOÉ


Il testo critica l'espressione «diritti della verità», poiché, in senso proprio,
un concetto astratto non può essere soggetto di diritti. Sono le persone e
le società che queste formano ad essere soggetti di diritti. In questo senso,
la verità non ha diritti. Il documento riprende la distinzione fatta da Leo-
ne XIII nella Immortale Dei et Sapientiae christianae tra la competenza
temporale dello Stato e la competenza spirituale della Chiesa: esse non
possono essere confuse senza un ritorno alla teocrazia. Lo Stato deve ri-
conoscere i propri limiti. Il documento, da ultimo, ritiene che la distinzio-
ne tra tesi e ipotesi debba essere evitata: «Essa non è chiara; suggerisce un
ideale da realizzare molto simile alla teocrazia dell'Antico Testamento; ci
espone continuamente al rimprovero di opportunismo e di mancanza di
lealtà» IO.
Due anni dopo venne pubblicato uno schema ufficiale, ma preconcilia-
re, ad opera del Segretariato per l'Unità dei cristiani, presieduto dal car-
dinale Bea. Decisamente ispirato al documento di Friburgo, abbandona-
va il termine di «tolleranza» per parlare di «libertà religiosa». Vi si vede
già comparire la definizione di libertà religiosa come «immunità dalla
costrizione». Questa libertà non riguarda solo gli individui, ma anche i
gruppi religiosi. Il documento distingue la Chiesa dalla «società civile»,
espressione preferita al termine Stato. Nello stesso tempo però, la com-
missione teologica proponeva un altro testo che trattava «delle relazioni
tra Chiesa e Stato e della tolleranza religiosa>>. La sua ispirazione era molto
diversa da quella dello schema proposta dal Segretariato per l'Unità 11 , e
questo non venne recepito. Durante il primo periodo del concilio non si
parlò di libertà religiosa. .
Nell'aprile del 1963 J.C. Murray venne nominato esperto per il Segre-
tariato dell'Unità, proprio nel momento in cui appariva l'enciclica di Gio-
vanni XXIII Pacem in terris, la cui redazione era attribuita a mons. Pietro
Pavan. Murray l'apprezza subito molto positivamente. I due uomini ini-
ziano a lavorare di concerto a causa della vicinanza delle loro vedute, e
avranno un ruolo centrale nelle tappe della Dichiarazione DH. Il primo
schema conciliare era stato redatto prima della nomina di Murray ad
esperto. Ma mons. De Smedt gli aveva affidato la redazione delle note al
testo che offrono un certo numero di riferimenti ai documenti pontifici
da Leone XIII a Giovanni XXIII. Vi si sente la preoccupazione di Mur-
ray per mostrare che la libertà religiosa è un erogresso che si iscrive nella
linea degli insegnamenti pontifici precedenti. E questo uno degli argomen-
ti principali n?Ia sua discussione contro i sostenitori della «tesi». Inoltre,

10 Gr. J. HAf,\ER, ÙJ liberté religieuse.. ., cit., p. 56.


li lbid., p. 60.

XIV. LA CHIESA CATIOLICA E ,«;LI ALnU» 495


Murray redasse una Ratio schematis allo scopo di aiutare mons. De Smedt
nella preparazione della sua Relazione orale davanti al concilio. Faceva
riferimento alla Pacem in terris, per sottolineare l'idea di continuità nel-
l'insegnamento pontificio «che porta in modo coerente all'accento posto
sulla "dignità" della persona umana» 12 , preoccupazione che risale a Leo-
ne XIII, e citava dell'enciclica questa frase a favore della libertà religiosa:
«Ognuno ha il diritto di onorare Dio secondo la retta regola della coscien-
za e di professare la sua religione nella vita privata e in quella pubblica>>n.
«La Ratio Schematis rappresenta la matrice dei dibattiti futuri» 14 •
Nel novembre 1963, alla fine del secondo periodo, mons. De Smedt
proponeva questo primo schema conciliare, destinato per il momento a
costituire il capitolo V del decreto sull'ecumenismo. Il testo conservava
soltanto il primo capitolo dello schema preconciliare e introduceva uno
sviluppo sulla teologia della coscienza. Metteva tuttavia in primo. piano il
problema della coscienza erronea, che non toglie alcuno dei diritti della
persona. Questo nuovo parametro della riflessione, «la libertà senza la
verità», rimarrà fino al terzo schema. «Il punto di partenza è l'a priori che
tale coscienza è fuori dalla. verità. Una simile posizione conduceva a un
vicolo cieco perché era impossibile fondare un diritto che non avesse un
fondamento vero» 15 • J.C. Murray chiarirà questo punto.
La presentazione fatta oralmente da mons. De Smedt al concilio, pro-
fondamente ispirata alla Ratio Schematis di Murray, fece grande impres-
sione. Il problema da risolvere per superare la convinzione dei Padri reti-
centi e attaccati al sistema della «tesi», era quello della conciliazione tra la
dottrina proposta e le prese di posizione apparentemente contraddittorie
di Gregorio XVI e di Pio IX, che consideravano come un delirio l'idea
che «la libertà di coscienza e dei culti essere diritto proprio di ciascun
uomo, che si deve con legge proclamare e sostenere in ogni società bene
costituita» 16 • Mons. De Smedt fece un breve panorama storico delle prese
di posizione dei pontefici degli ultimi cento anni, iscritto in un'argomen-
tazione fondata sulla duplice regola della continuità e del progresso, un
progresso che, secondo Murray, comporta «un'evoluzione dottrinale e
pastorale molto lunga» 17 • Precisava inoltre in quale senso ipotetico la li-
bertà di coscienza fosse stata rifiutata nel XIX secolo in quanto solidale con

12 D. GONNET, La liberté religieuse à Vatican II... , cit., p. 110.


13 Pacem in terris, EE 7, p. 387. ·
14 D. GoNNEr, La liberté religieuse à Vatican II..., cit., p. 113.
1 ~ Ibid., p. 103.
16 Pio IX, Quanta cura (1864), EE 2, p. 505.
17 D. GONNET, La liberté religieuse à Vatican II..., cit., p. 121. Cfr. J. HAMER in: La liberté religieuse ... ,
cit., p. 68.

496 BERNARD SESBOÙÉ


una ideologia razionalista che favoriva «l'indifferentismo». La dottrina era
stata capace tuttavia di progressi, compiuti prima da Leone XIII, che di-
stingueva precisamente la Chiesa dalla società civile, poi da Pio XI, che si
era scontrato con i totalitarismi politici del nazismo e del comunismo, e
infine da Pio XII, che, nei suoi interventi, aveva messo in primo piano la
nozione di persona. Quest'ultimo aveva addirittura aperto già una falla
nel sistema della tesi e dell'ipotesi:
L'affermazione: il traviamento religioso e morale deve essere sempre impedito,
quando è possibile, perché la sua tolleranza è in se stessa immorale - non può
valere nella sua incondizionata assolutezza. D'altra parte, Dio non ha dato nem'
meno all'autorità umana un siffatto precetto assoluto e universale, né nel campo
della fede né in quello della morale. Non conoscono un tale precetto né la comu-
ne convinzione degli uomini, né la coscienza cristiana, né le fonti della Rivelazio-
ne, né la prassi della Chiesa 18 •

E da ultimo, l'enciclica di Giovanni XXIII Pacem in Terris metteva in


valore, in nome del diritto naturale, «il dettame della retta coscienza» e
«il diritto al culto di Dio privato e pubblico» 19 che doveva essere rispetta-
to dai poteri pubblici. La retta coscienza è decisamente molto più della
coscienza erronea. Nonostante l'eco favorevole di questo intervento, il
dibattito generale non fu ancora in grado di recepire questo tema. Si limi-
tò all'ecumenismo e quanto riguardava il ebraismo e la libertà religiosa
veniva rimandato ad un avvenire vago e incerto.

La seconda e la terza redazione conciliare


Poco tempo dopo l'apparizione della prima redazione conciliare, Mur-
ray pubblicò sulla rivista America un articolo che riscosse un'ampia riso-
nanza poiché poneva il problema della libertà religiosa sul piano del dirit-
to costituzionale 20 • Secondo l'autore non è sufficiente affermare questo
diritto a livello etico e religioso, occorre anche fondarlo sulla radicale in-
competenza dello Stato in materia religiosa. Allo stesso modo, l'appello al
bene comune per porre delle restrizioni alla libertà religiosa costituisce
un grave pericolo verso un ritorno alla «ragion di stato» o alla ragione
della maggioranza 21 • Bisogna dunque affermare che lo Stato non deve mai
oltrepassare-l'ordine della sua competenza fosse pure per servire la Chie-

18 Pio XII, Ci riesce, AAS, 45 (1953). 798. .


19 Pacem in tems, EE 7, p. 387. Questa argomentazione viene ripresa da J. C. MURIIAY, La liberté
religieuse... , cit., pp. 111-147.
20 ].C. MURIIAY, On Religious Liberty, in «America», 109 (1963), pp. 704-706.
21 Cfr. D. GoNNET, La liberté religieuse à Vatican II..., cit., p. 123.

XIV · LA CHIESA CATIOLlCA E «GLI ALTRI» 497


sa cattolica 22 • Un diritto non può durare senza il suo riconoscimento giu-
ridico e il suo quadro politico. Murray in effetti stava domandando il ri-
conoscimento universale della situazione americana.
Murrity venne allora incaricato non di redigere un nuovo schema, ma
di valutare le reazioni dei Padri inviate al Segretariato per l'Unità. Identi-
fica due principali posizioni, cercando di superare il dibattito tra progres-
sisti e conservatori, e ripropone il problema costituzionale come terreno di
riconciliazione. Tutti riconoscono che il potere politico deve avere un'at-
titudine positiva verso la religione: la differenza deriva dal fatto che, per
gli uni, la merita solo la Chiesa cattolica, mentre per gli altri, essa deve
riguardare tutte le religioni.
Nel 1964 venne proposta una seconda redazione conciliare sulla base
dei numerosi emendamenti ricevuti. Come fondamento della argomenta-
zione essa faceva intervenire un concetto nuovo, quello della «vocazione
divina dell'uomo». In nome di questa vocazione «gli uomini hanno il do-
vere e l'onore di seguire in campo religioso la volontà del Creatore e del
Salvatore secondo il dettato della loro coscienza>> 2}. Ormai si cercherà con
sempre maggior acribia un argomento «unico» per fondare la libertà reli-
giosa.
· Sulla base di questo nuovo testo, finalmente si aprì il 23 settembre 1964
il primo dibattito conciliare sulla libertà religiosa. Esso fu relativamente
confuso. Se l'assemblea facilmente si trovava unanime nel proporre delle
affermazioni pratiche in funzione della situazione religiosa del mondo
contemporaneo, si trovava subito divisa quanto al fondamento dottrinale
della cosa. Una dichiarazione pratica sarebbe restata sempre iscritta nella
dottrina della tesi e dell'ipotesi e non avrebbe contraddetto il sospetto di
opportunismo o di cattiva fede. Ma l'argomento fondato sulla vocazione
divina dell'uomo non ottenne l'assenso dei Padri.
Il 17 novembre 1964 venne distribuita ai Padri una terza redazione
conciliare, profondamente riveduta. La organizzazione di questo schema,
veramente nuovo, mette in primo piano l'argomento razionale, filosofico
e politico e non affronta che in seguito gli argomenti di tipo dottrinale. Il
concilio ha voluto così collocare in apertura quegli argomenti suscettibili
d'essere compresi al di fuori della çhiesa da dove gli giungeva una pres-
sante domanda. Inoltre, viene abbandonato l'argomento della vocazione

22 Cfr. la domanda dd nuniio a Parigi, trasmessa al congresso americano da B. Franklin, per scegliere
la città del primo vescovado cattolico americano. Questa fu la risposta: «Poiché largomento della doman-
da presentata [dal nunzio] al Dottor Franklin è puramente d'ordine spirituale, non rileva dalla giurisdizio-
ne e dai poteri del Congresso che non ha alcuna autorità per accoglierla o respingerla>>, cfr. D. GoNNET,
La .liberté religieuse à Vatican II..., cit., p. 124.
2} Cfr. J. HAMER, La liberté religieuse... , cit., p. 74.

498 BERNARD SESBOÙÉ


divina dell'uomo a vantaggio di quello «della dignità della persona uma-
na» che costituisce ormai il vero fondamento dottrinale della Dichiarazio-
ne. Questa affronta anche i due limiti dell'esercizio della libertà religiosa:
questo diritto non deve portar pregiudizio ai diritti delle altre persone;
non deve creare gravi turbamenti all'ordine pubblico.
Era prevista una votazione prima della fine del periodo del 1964 per
lasciar apparire un accordo di principio. Invece, sulla richiesta di alcuni
Padri della minoranza, venne aggiornata, portando come motivazione la
ristrettezza di tempo per poter studiare in modo approfondito un testo
sensibilmente diverso dal precedente. Questa decisione generò una im-
mensa delusione nell'Assemblea.

Le ultime tre redazioni


Nel corso del IV e ultimo periodo del concilio furono necessarie anco-
ra tre redazioni per arrìvare al documento finale. La quarta, modificata a
par.tire dal primo dibattito e dai modi scritti, venne presentata da mons.
De Smedt il 21 e 22 settembre 1965. li nuovo dibattito fece emergere i
seguenti desiderata: alcuni Padri domandavano di sostituire l'espressione
«libertà religiosa» con quella di «libertà civile e sociale in materia religio-
sa» per ridurre il rischio di indifferentisn.io o di «falso irenismo». Era
desiderato che scomparisse la parte consacrata alla coscienza e che fosse
ridotta la parte scritturistica. Veniva domandato anche di sottolineare
l'obbligo, che è rivolto ad ogni uomo; di cercare la verità. Per la prima
volta si diede corso a una votazione nella quale 1997 furono i placet con-
tro i 224 non placet. Il testo aveva ormai acquisito valore giµridico. Dopo
la votazione, mons. Ancel fece un'importante dichiarazione nella quale
chiedeva che si fondasse ontologicamente la libertà religiosa sull'obbligo
di cercare la verità. Questa libertà non si appoggia su di una disposizione
soggettiva, ma sull'oggettività concreta della stessa natura umana e ha un
valore universale. Questo principio, spesso affermato nelle Scritture, dà
una risposta a coloro che temono il soggettivismo e l'indifferentismo 24 •
Un mese dopo, venne proposta una quinta redazione: essa non com-
porta che due sole parti che resteranno definitive: 1. Gli aspetti generali
della libertà religiosa; 2. La libertà religiosa alla luce della rivelazio.ne.
L'espressione· richiesta di «libertà sociale e civile in materia religiosa» vi è
integrata. L'affermazione che l'unica sola vera religione «sussiste» nella
Chiesa cattolica e alcune considerazioni analoghe vengono a rafforzare
l'introduzione. Da ultimo, la richiesta di mons. Ancel ottiene risposta per

24 Ibid., pp. 94-95.

XIV - LA CHIESA CATTOLICA E «GLI AL1RI» 499


quanto riguarda il fondamento della libertà religiosa nella natura dell'uo-
mo. La relazione della libertà religiosa con la rivelazione biblica e con la
storia della salvezza trova posto in alcune notazioni di minor rilievo. Un
nuovo dibattito perviene a delle votazioni parziali largamente favorevoli.
La sesta ed ultima redazione non fa che integrare i modi di alcuni Padri
per poter allargare il consenso conciliare. Si sottolinea così la continuità
dell'insegnamento della Chiesa e si ritorna sulla considerazione del bene
comune e dell'ordine pubblico. Il documento viene allora definitivamen-
te approvato in una sessione pubblica alla presenza del papa Paolo VI: la
votazione ottiene 2308 plaçet contro 70 non placet. È doveroso ricordare
che due uomini hanno svolto un ruolo centrale in questa lunga elabora-
zione, il teologo americano J.C. Murray e mons. P. Pavan.

2. La ricerca dell'argomento decisivo

Questa breve panoramica della storia del decreto ha mostrato che il


punto più delicato è stato di discernere il buon argomento à favore della
libertà religiosa. I precedenti dottrinali sul problema avevano condotto a
riflettere in un primo momento a partire dai «diritti della coscienza erro-
nea». Ma questa prospettiva si era rivelata senza vie di uscita. Inoltre, un
tale argomento pregiudicava in una maniera troppo semplicistica il rap-
porto degli «altri» con la verità: sin dal prùno momento li costringeva
nell'errore. Essa restava nell'ordine della tolleranza e non perveniva al
«rispetto» (consideratio) dell'altro già menzionato nel documento di Fri-
burgo25. In seguito, l'argomento morale che partiva dal valore «dell'obbe-
dienza alla coscienza [. ..] considerata come la manifestazione in ogni
uomo della legge divina» 26 venne ugualmente abbandonata.
Un altro problema, però, veniva posto dalla riflessione di Murray. Non
poteva bastare il fatto di situare la libertà religiosa sul piano filosofico e
teologico, dato che essa si pone anche sul piano giuridico, politico e costi-
tuzionale. Questo diritto non può «esistere senza il suo inserimento socia-
le, il suo riconoscimento giuridico e il suo quadro politico» 27 . A questo
punto le posizioni conciliari si divisero in tre gruppi. La minoranza conti-
nuava a pensare in termini di «tesi» e di «ipotesi» e si mostrava ossessio-
nata dal rischio dell' «indifferentismo». La maggioranza, da parte sua, «si
diffrange in "due scuole di pensiero", l'una teologica, l'altra costituziona-
le»28. La prima, con predominanza francese, voleva in effetti privilegiare

2' D. GONNET, La liberté religieuse à Vatican II. ., cit., p. 192.


26 Ibid., p. 190.
21 Ibid., p. 124. .
2s Ibid., p. 128, che cita J.C. Murray.

500 BERNARD SESBOÙÉ


gli argomenti propriamente teologici, come si è visto nell'intervento di
mons. Ancel e con la sua preoccupazione per «l'argomento di verità» 29 ,
ma restare anche nella tradizione delle argomentazioni conciliari; l'altra si
atteneva soprattutto ali' argomento politico, sull'iniziativa di Murray e
nello spirito della Costituzione americana. Senza entrare nel dettaglio di
questo acuto dibattito interno alla maggioranza, è possibile dire che la
posizione di Murray servì per conciliare la minoranza con la maggioranza.
Quanti parteggiavano per la «tesi» erano sensibili a un argomento politi-
co che non sembrava reggersi ai grandi principi, mentre quelli che parteg-
giavano per l'argomento di verità cercavano di iscrivere l'argomento poli-
tico dentro una più ampia riflessione razionale con una connotazione teo-
logica.
«"Persona, Vangelo o Società": su che cosa fondare la libertà religio-
sa?»; questa formulazione di D. Gonnet3° riassume bene l'antagonismo
tra teologia e filosofia morale (persona), rivelazione (Vangelo) e filosofia
politica e diritto (società). In effetti questi tre argomenti sono in egual
misura necessari e solidali. «L'argomento politico fornito da Murray sem-
bra essere il più propizio per riunire queste tre dimensioni estremamente
collegate» 31 •
È stato così che, attraverso i suoi successivi spostamenti di redazione in
redazione, la dichiarazione ha preso la sua forma definitiva, sviluppando
dapprima un insieme di argomentazioni razionali, includendo l'argomen-
tazione politica, e riferendosi solo dopo alla rivelazione cristiana. Questa
sequenza, sorprendente in un documento conciliare, è il segno di un
mutamento di metodo nella teologia. Invece di incominciare col dedurre
le proprie affermazioni dai principi cristiani, il testo propone innanzitutto
delle riflessioni che possono costituire con facilità l'oggetto di un assenso
della coscienza culturale alla quale si rivolge. Mostra poi l'accordo di
questa visione con l'insegnamento della rivelazione.

3. «Aspetti generali della libertà religiosa»


Il documento prende avvio dalla «dignità della persona umana», dalla
sua libertà e dalla sua responsabilità. Questa libertà deve essere rispettata
nella società e dallo Stato; essa deve esserlo anche nel campo del-
1'«esercizio della religione nella società». Queste espressioni ;mnunciano
il centro di gravità del documento.

29 Nello stesso senso sono stati gli interventi di mons. Elchinger e di mons. Dubois. Cfr. anche il di-
battito dell'estate 1965 tra G. de Broglie e J.C. Murray, lbid., pp. 172-176.
)0 lbid., pp. 178-179.
)I lbid., p. 184.

XIV - LA CHIESA CATTOLICA E «GLI ALTRI» 501


La vera religione «sussiste» nella religione cattolica
Prima di entrare nelle tematiche degli argomenti, il concilio intende
tuttavia garantirsi contro il sospetto di «relativismo» religioso, bestia nera
dei Padri della minoranza. Era dunque necessario che dichiarasse che
questo insegnamento non toglieva nulla alla «pretesa» della verità che
abita la Chiesa cattolica. I termini scelti per dirlo sono istruttivi:
Pertanto il sacro sinodo anzitutto professa che Dio .stesso ha fatto conoscere al
genere umano la via, attraverso la quale gli uomini, servendolo, possono in Cristo
divenire salvi e beati. Crediamo che questa unica vera religione sussiste nella (sub-
sistit in) chiesa cattolica e apostolica, alla quale il Signore Gesù ha affidato il com-
pito di comunicarla a tutti gli uomini [ ... ].E tutti quanti gli uomini sono tenuti a
cercare la verità, specialmente per quanto riguarda Dio e la sua chiesa, e una volta
conosciuta abbracciarla e custodirla (1. 2) 32 •

L'uso della formula «sussiste nella» (subsistit in) è ripresa intenzional-


mente dalla LG 8 33 • Se la Costituzione sulla Chiesa dice che «la Chiesa di
Cristo» sussiste nella Chiesa cattolica, la Dichiarazione afferma che
l' «unica vera religione>> sussiste in essa: la medesima intenzione soggiace
da una e dall'altra parte., la convinzione che la Chiesa cattolica ha di se
stessa non esclude che altre religioni possano partecipare all' «unica vera
religione>> e comportare degli elementi di verità. Questa apertura rende
possibile un dibattito e un dialogo con le «altre» religioni.
Nel ricordare inoltre il dovère di coscienza che obbliga ogni uomo alla
ricerca della verità, il concilio può con ciò stesso concludere che la dottri-
na della libertà religiosa che sta proponendo <<lascia intatta la dottrina tra-
dizionale sul dovere morale dei singoli e delle società verso la vera religio-
ne e l'unica Chiesa di Cristo» ( 1. 3).

Natura della libertà religt'osa: una doppia immunità


Questo sinodo Vaticano dichiara che la persona umana ha diritto alla libertà reli-
giosa. Tale libertà consiste in questo, che tutti gli uomini devono essere immuni
dalla coercizione da parte sia dei singoli, che dei gruppi sociali e di qualsivoglia
potestà umana, così che in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la
·sua coscienza né sia impedito, entro debiti limiti, di agire in conformità alla sua
coscienza privatamente o pubblicamente, in forma individuale o associata (2. 1).

Questo testo definisce la libertà religiosa come una duplice immunità


di fronte ad ogni coercizione: 1. non essere costretti ad agire contro la

n COD, p. 1002. 'Le altre citazioni della DH, indicate secondo il loro n. e capoverso, si trovano alle
pp. 1001-1011 della medesima edizione.
JJ Cfr. t. III, p. 460 e supra, pp. 440-441.

502 BERNARD SESBOÙÉ


propria coscienza; 2. non essere impediti, nei limiti richiesti, d'agire in
conformità a quella. Si tratta dunque della libertà del credente nella socie-
tà, che sia cattolico, cristiano o no, e di quella della Chiesa e di ogni rag-
gruppamento o istituzione religiosa di fronte allo Stato. Non si tratta dun-
que della «libertà cristiana» nel senso paolino del termine, o della libertà
evangelica, ma del diritto civile ad esercitare liberamente la propria reli-
gione nella società 34 •
La· vera novità del documento sta nel non rivendicare tale libertà sol-
tanto per la Chiesa cattolica e per i suoi fedeli, in nome della verità ogget-
tiva del cattolicesimo, ma di rivendicarla pubblicamente per gli «altri», in
nome della verità cristiana che prende in considerazione la dignità di ogni
persona umana e la libertà necessaria ad ogni adesione religiosa. La Chie-
sa esce qui dal suo «io», per parlare nel nome di una vera universalità.

L'argomento della verità


Inoltre [il concilio] dichiara che il diritto alla libertà religiosa si fonda realmente
sulla stessa dignità della persona umana, quale si conosce sia per mezzo della
parola di Dio rivelata sia tramite la stessa ragione. Questo diritto della persona
umana alla libertà religiosa deve essere riconosciuto nell'ordinamento giuridico
'della società cosl che divenga diritto civile (2.1 fine).

In conformità con le richieste di mons. Ancel, il documento pone come


primo argomento quello della verità, ma congiungendolo subito con l'ar-
gomento .politico. La vera natura umana, che sia raggiunta o meno dalla
rivelazione o dàlla ragione, ·comporta il diritto alla libertà religiosa che
deve essere riconosciuto nella società civile. Questa è la matrice dell'argo-
mentazione che sta per svilupparsi, incominciando dall'esposizione del-
1'argomento di verità:
A motivo della loro dignità tutti quanti gli uomini, in quanto sono persone, cioè
dotati di ragione e di libera volontà e perciò investiti di responsabilità personale,
sono spinti dalla loro stessa natura e sono tenuti per obbligo morale a cercare la
verità, in primo luogo quella concernente la religione. [... ] Però gli uomini non
possono soddisfare a questo obbligo in modo rispondente alla loro natura, se non
godono della libertà psicologica e nello stesso tempo anche della immunità dalla
coercizione esterna. Il diritto alla libertà religiosa non si fonda quindi su una dispo-
sizione soggettiva della persona, ma sulla sua stessa natura. Per cui il diritto a que-
sta immunità perdura anche in coloro che non soddisfano all'obbligo di cercare la
verità e di aderire 'ad essa; il suo esercizio non può essere impedito, purché sia
rispettato il giusto ordine pubblico (2. 2).

34 Anche se tra queste due libettà esiste un'analogia.

XIV - LA CHIESA CATIOLICA E «GLI ALTRI» 503


Il rapporto dell'uomo alla verità è espresso tenendo conto della sua
situazione fondamentale: egli è nello stato della ricerca. L'uomo libero non
nasce in possesso spontaneo della verità, altrimenti non avrebbe più la
libertà per aderirvi. Una considerazione fondamentale arriva a modificare
il meccanismo troppo immediato della opposizione tra verità ed errore.
Tutti gli uomini, tanto i cattolici che gli altri, sono in comunione per que-
sto medesimo diritto e questo medesimo obbligo del cercare la verità.
Per questo il diritto alla libertà religiosa è un diritto oggettivo della
coscienza, in quanto essa è creata da Dio libera, e ha valore universale.
Questo è il fondamento «ontologico» a lungo cercato. Non è il riconosci-
mento del diritto delle disposizioni soggettive di una coscienza che po-
trebbe scegliersi la sua propria verità, ciò che sarebbe la negazione del-
l'idea stessa di verità e condurrebbe all'indifferentismo. Questo nodo del-
1' argomentazione risulta essenziale per rispondere ai sospetti di relativi-
smo religioso. Questo diritto dunque permane anche in coloro che l'uti-
lizzano male senza cercare la verità: essi rimangono comunque uomini.

L'argomento della legge divina


L'argomento che segue è più complesso perché fa intervenire tre ele-
menti in rapporto tra loro, legge divina/religione/libertà 35 :
Ciò appare ancor più chiaramente a chi considera che norma suprema della vita
umana è la kgge divina, eterna, oggettiva e universale, per mezzo della quale Dio
con un disegno di sapienza e amore ordina, dirige e governa tutto il mondo e le
vie della comunità umana. E Dio rende partecipe l'uomo della sua legge, cosicché
l'uomo [.. .] possa sempre più conoscere l'immutabile verità. Perciò ognuno ha il
dovere e quindi il diritto di cercare la verità in materia religiosa [ ... ] ( 3, 1).

L'argomento di verità risale qui sino alla stessa legge divina che è l'ori-
gine e la norma della libertà religiosa. Questo diritto si fonda dunque su
un dovere. Ma subito l'argomento si allarga alla considerazione sociale
dell'uomo. La «natura sociale» di quest'ultimo esige che questo dovere e
questo diritto possano venir esercitati collettivamente e fruendo di un ri-
conoscimento sociale:
L'esercizio della religione, per sua stessa natura, consiste anzitutto in atti interni
volontari e liberi, con i quali l'uomo si mette in relazione direttamente con Dio:
atti di tal genere non possono essere né comandati né proibiti da un'autorità
meramente umana. ·Però la stessa natura sociale esige che egli esprima esterna·
mente gli atti interni di religione, che li comunichi con altri in materia religiosa e
che professi la propria religione in modo comunitario (3, 4).

n D. GoNNET, La liberté religieuse à Vatican II..., cit., p. 196.

504 BERNARD SESBOÙÉ


In questo modo l'argomento politico è già annunciato e si radica nella
stessa legge divina. Questi due primi argomenti sono razionali, in quanto
parlano della persona umana in termini largamente acquisiti oggi, e nello
stesso tempo teologici, nella misura in cui vogliono trovare fondamento
nella tradizione dottrinale della Chiesa cattolica.

L'argomento politico
Inoltre gli atti religiosi, con i quali in forma privata e pubblica glì uomini con
decisione interiore si dirigono a Dio, trascendono per loro natura l'ordine terreno
e temporale delle cose. Quindi il potere civile, il cui fine proprio è di attuare il
bene comune temporale, deve certamente riconoscere la vita religiosa dei cittadi-
ni e favorirla; ma bisogna affermare che esce dai limiti della sua competenza se
presumesse di dirigere o di impedire gli atti religiosi (3, 5).

Introdotto con un «inoltre», l'argomento politico sembra giocare il


ruolo del parente povero e di un semplice complemento. Esso viene
espresso in termini rapidi e Murray, alla fine del concilio, si è premurato
di svilupparlo e a farne il punto di integrazione dell'insieme degli argo-
menti 36 • E tuttavia espresso con precisione, affermando nello stesso tem-
po la responsabilità positiva del potere civile nel «riconoscere la vita reli-
giosa dei cittadini e favorirla», e i limiti della sua autorità: non deve arro-
garsi il diritto «di dirigere o di impedire gli atti religiosi». Era questo l'og-
getto delle rivendicazioni fondamentali di Murray.
Ma l'esposizione di questo argomento non si limita a questo breve pa-
ragrafo. I numeri 4-7 della bH ne sviluppano i differenti elementi e le
conseguenze per quello che riguarda la dimensione sociale ed esteriore
della libertà religiosa. I gruppi religiosi hanno il diritto di «Scegliere [... ] i
propri ministri» (4, 3 ), «di insegnare [... ] pubblicamente la propria fede a
voce o per iscritto», senza alcun <<Sapore di coercizione» (4, 4), di «libera-
mente riunirsi e dar vita ad associazioni» (4, 5). Allo stesso modo, le fami-
glie possono deciderç «determinare la forma di educazione religiosa da
impartire ai propri figli» e «scegliere, con vera libertà, le scuole» (n. 5).
Il bene comune della società compete a tutti: cittadini, gruppi sociali,
poteri civili e comunità religiose' (6, 1), mentre il dovere proprio del pote-
re civile consi_ste nell'«assumersi efficacemente [ .. .] la tutela della libertà
religiosa di tutti i cittadini>> (6, 2), senza nulla imporre «con la violenza o
con il timore oppure con altri mezzi» (6, 5). La libertà religiosa comporta
comunque dei limiti: possono verificarsi alcuni «abusi». Il potere civile ha
quindi il diritto di reagire, in conformità a norme giuridiche sane, per

l6 In una conferenza del 1966: cfr. ibid., pp. 200-203.

XIV - LA CHIESA CAITOLICA E «GLI ALTRI» 505


. assicurare la «pace pubblica» e salvaguardare la «pubblica moralità». La
regola generale tuttavia è che «all'uomo va riconosciuta la libertà più
ampia possibile, e non deve essere limitata se non quando e in quanto è
necessario» (7, 3)

4. «La libertà religiosa alla luce della rivelazione»

La seconda parte della Dichiarazione DH comprende due insiemi: «il


primo raccoglie alcuni elementi che si possono trovare nella Scrittura ri-
guardo alla libertà religiosa, il secondo riguarda la libertà della Chiesa»n.
Questa seconda parte interessa anche quanti sono al di fuori della fede
cattolica dal momento che manifesta che le posizioni prese non sono una
condiscendenza o un accomodamento congiunturali e interessati della
Chiesa cattolica agli argomenti all'ordine del giorno - esse sarebbero ri-
maste nell'ordine dell'«ipotesi» -, ma l'espressione di una convinzione
«radicata» nella sua dottrina e nella sua tradizione più propria, al livello
della «tesi».

I dati della Scrittura e della teologia


La prima affermazione viene espressa con prudenza e con modestia 38 :
la dottrina della libertà religiosa che «ha il fondamento sulla dignità della
persona, [. .. ] affonda le radici nella rivelazione divina», poiché, se questa
rivelazione non la insegna esplicitamente, <<mostra il rispetto di Cristo
verso la libertà dell'uomo nell'adempimento di credere alla parola di Dio»
(n. 9). Per manifestare questo «radicamento», vengono considerati due
esempi più importanti: la libertà dell'atto di fede e la maniera di agire del
Cristo e degli apostoli.

La libertà del!' atto di fede


Un capitolo fondamentale della dottrina cattolica, contenuto nella parola di Dio
e costantemente predicato dai padri, è che l'uomo deve rispondere a Dio creden-
do volontariamente; che nessuno quindi può essere costretto ad abbracciare la
fede contro la sua volontà. Infatti l'atto di fede è volontario per sua stessa natura,
giacché l'uomo, redento da Cristo salvatore e chiamato in Cristo Gesù ad essere
figlio adottivo, non può aderire a Dio che si rivela, se attratto dal Padre non pre-

37 lbid., p. 287.
38 Il richiamo alla Scrittura è staro oggetto di opposte decisioni nel corso della elaborazione della
Dichiarazione e si è cosl giunti ad un testo volontariamente ridotto; cfr. lbid., pp. 293-298.

506 BERNARD SESBOÙÉ


sta a Dio un ossequio di fede ragionevole e libero. È quindi pienamente risponden-
te alla natura della fede che in materia religiosa si escluda ogni forma di coercizione
da parte degli uomini (10).

Il testo pone una «analogia» tra la libertà teologale, l'aspetto volontario


dell'atto di fede, e la libertà religiosa. A riguardo dell'atto di fede, ripren-
de un'affermazione dottrinale tradizionale, che da sempre appartiene al
trattato di teologia fondamentale circa la fede, e dal quale si era da molto
tempo fatta derivare la conseguenza che non si può imporre la fede cri-
stiana con la forza. Anche qui la novità del testo consiste nell'estendere ad
ogni religione quello che era riconosciuto nei confronti dell'adesione alla
fede cristiana. L'affermazione acquisita, infatti, riguardava l'antropologia
della fede e ha valore qualunque sia la fede concreta professata; concede-
re liberamente la propria fede secondo. la luce della propria coscienza è
un diritto della coscienza religiosa come tale.
Sembra possibile una istanza negativa: se c'è spazio per la libertà reli-
giosa, dirà una mentalità corrente, è solo perché non vi è certezza ogget-
tiva sull'argomento. Al contrario, invece: da un punto di vista cristiano
non è l'apparente debolezza della verità religiosa che fonda la libertà nei
suoi confronti; sono piuttosto la sua grandezza, il suo valore e il suo cari-
co di conseguenze per l'esistenza dell'uomo che esigono che l'assenso da
porgerle sia fondamentalmente libero. ID. questo campo la costrizione este-
riore non ha alcuno spazio perché si tratta del santuario dove nessuno può
decidere per un altro. La tesi tradizionale della libertà dell'atto di fede ha
sempre cercato di render ragione di questa connessione.

Il modo di agire del Cristo e degli apostoli


Il modo di agire del Cristo e degli apostoli conferma questo dato: in
nessun caso Gesù ha preteso di esercitare una costrizione sui suoi udito-
ri nell'annunciare la fede. Si è rifiutato di divenire <<UD messia politico e do-
minatore con la forza>>. Il suo metodo è quello dell'invito, della proposta,
dell'invocazione quasi, rifiutando di spegnere «il lucignolo fumigante»
(Mt 12, 20). I suoi richiami stessi davanti all'incredulità riservano <<la puni-
zione a Dio nel giorno del giudizio», ordinando di lasciar crescere la zizza-
nia insieme al grano sino alla mietitura finale (Mt 13, 30. 40-42). Allo stesso
modo Gesù «riconobbe il potere civile e i suoi diritti [. .. ] (Mt 22, 21 )» (11. 1)
Questi esempi dell'atteggiamento del Cristo riprendono lo schema della
comunicazione ainichevole di Dio agli uomini presente nella DV'9•

J9 Cfr. supra, p. 455.

XIV - LA CHIESA CATTOLICA E «GLI ALTRI» 507


Gli apostoli di Gesù hanno seguito lo stesso «esempio di mansuetudi-
ne e di modestia di Cristo», affidandosi alla sola «forza della parola di
Dio». Hanno manifestato il loro rispetto per «i deboli anche se erano
nell'errore». Rièonoscono <<la legittima autorità civile» (cfr. Rm 13, 1-2),
pur resistendo al potere pubblico nel caso in cui quest'ultimo si fosse
opposto alla volontà di Dio (11, 2). Questa linea di condotta è ben testi-
moniata nel Nuovo Testamento.

La testimonianza e la libertà della Chiesa


Prima di affrontare il tema della libertà della Chiesa, il testo affronta
un delicato problema: la Chiesa è stata sempre fedele a questa via traccia-
ta dal Cristo e dagli apostoli? La risposta, pur se positiva, è sfumata:
Quantunque nella vita del popolo di Dio, pellegrinante attraverso le vicissi-
tudini della storia umana, di quando in quando si sia avuto un comporta-
mento poco conforme allo spirito evangelico, anzi contrario, tuttavia ha sempre
perdurato la dottrina della chiesa che nessuno dev'essere costretto ad abbrac-
ciare la fede (12, 1).

Il riconoscimento delle debolezze storiche della Chiesa in questo cam-


po resta discreto: si poteva sperare più circostanziato per quel che riguar-
da le responsabilità, ma tuttavia esso è chiaro e preciso. La pratica della
Chiesa ha potuto contraddire lo spirito del Vangelo: non è cosa da poco.
s.ul piano della dottrina, tuttavia, non ci son state debolezze. È stato ne-
cessario comunque del tempo perché il «fermento evangelico» agisse per
far maturare il senso della dignità della persona umana e l'idea della liber-
tà religiosa (12, 2).
Segue a questo punto una vivace rivendicazione della libertà della Chie-
sa, espressione istituzionale della libertà cristiana: «Questa infatti è la li-
bertà sacra, di cui l'unigenito Figlio di Dio ha arricchito la chiesa acqui-
stata con il suo sangue» (13, 1). Il documento sulla libertà religiosa ritorna
dunque alla libertà della Chiesa. Riconosciuta ormai per tutti la libertà
religiosa, è in effetti legittimo dire la specificità cristiana e «teologale» della
libertà rivendicata dalla Chiesa nel compiere la sua missione di predicare
il Vangelo ad ogni creatura (13, 2). La Chiesa, «maestra di verità», riven-
dica con vigore il suo compito «di annunziare ed insegnare in modo au-
tentico la verità che è Cristo, e nello stesso tempo di dichiarare e confer-
mare con la sua autorità i principi dell'ordine morale che scaturiscono
dalla stessa natura umana» (14, 3). Nella conclusione il documento si ral-
legra che la libertà religiosa sia proclamata da numerose Costituzioni, ma
deplora lesistenza di regimi in cui essa è gravemente ostacolata.

508 BERNARD SESBOÙÉ


3. Le conseguenze della Dichiarazione

La Dichiarazione sulla libertà religiosa ci fa assistere a una svolta del


modo in cui la Chiesa pensa se stessa, svolta i cui effetti, viste le sue conse-
guenze dottrinali e pastorali, oltrepassano loccasione che l'ha permessa.
A livello dottrinale, la Dichiarazione ha posto in modo nuovo il proble-
ma, sempre delicato, dello sviluppo del dogma, non soltanto sul punto
della sua continuità «omogenea» - meno armoniosa di quanto fino ad
allora si era detto -, ma anche perché la nuova affermazione non era
motivata dalla coerenza della dottrina anteriore, ma da una richiesta vigo-
rosa proveniente dalla cultura esterna alla Chiesa. Questa ha dunque ac-
cettato di «accogliere» una esigenza proveniente dalla storia profana -
anche se questa storia è stata essa stessa fermentata dal <<lievito» del van-
gelo. «Si tratta di una "nuova disponibilità della Chiesa insegnante, che la
fa volge verso la storia per imparare da essa qualcosa su di se stessa e sul-
l'uomo"» 40 • È un salto a proposito del quale si è potuto parlare di «rivo-
luzione copernicana» 41 • Ne hanno fatto esperienza i Padri del concilio
proprio nella difficoltà a trovare il vero argomento capace d'essere fonda-
mento alla libertà religiosa. Hanno scoperto che la verità si poteva trovare
attraverso lo scambio e il dialogo proprio perché il dialogo interno era in
una certa parte riflesso del dialogo con gli «altri>>. L'accesso alla verità si
realizza attraverso e dentro il dibattito e la mutua comunicazione. Col tem-
po e attraverso un rude lavoro di confronto, così si pongono in luce dei dati
che, alla fine appaiono quasi evidenti. La Chiesa prende così atto d'essere
ormai situata in un mondo pluralista, in mezzo agli «altri», e che la dottrina
sua propria deve far spazio a quello <;he vivono e pensano gli altri.
A livello pastorale 42 la Chiesa smette di considerare l'umanità, cattolica
o no, come un popolo di minori che ha bisogno di vivere sotto tutela e
d'essere condotto con fermezza verso la verità, attraverso vigorose prote-
zioni sociali, ed accetta di riconoscerla come un popolo adulto nel quale
ciascuno deve coinvolgere la sua libertà. Secondo la vecchia «tesi», essa
dava per inteso che lo Stato l'assecondasse nell'inquadrare i popoli per
mantenerli nella verità. Ormai essa si appoggia sulla libera decisione delle
persone e sulla forza della verità come tale. n suo atteggiamento evange-
lizzatore deve esserne profondamente segnato attraverso un più grande
rispetto dell'altro e il desiderio di un dialogo rispettoso dei legittimi plu-

40 D. GoNNET, Ùl !ioerté religieuse à Vatican II... , cit., p. 305, che cita J.C. Murray. Cfr. anche pp.
303-309.
41 Cfr. Ibid., p. 334.
42 Cfr. mons. E. DESMEDT, Les conséquences pastora/es de la déclaration, in: La liberté re/igieuse.. ., cit.,
pp. 215-235.

XIV - LA CHIESA CATIOLICA E «GLI ALTRI» 509


ralismi. Più che mai l'esercizio della sua autorità non deve assumere una
forma autoritaria.
La Dichiarazione DH ha evitato deliberatamente di affrontare il pro-
blema della libertà nella Chiesa. P~r un contraccolpo legittimo, i princi-
pi fondati sulla libertà religiosa e la ricerca della verità non possono
tuttavia non cercare di prendere corpo anche, mutatis mutandis, nella
vita interna della Chiesa. Un esempio concreto di ciò è offerto dall'emer-
gere del tema della «recezione», molte volte ricordato in quest'opera,
che mette in gioco la libertà dell'insieme dei fedeli nella loro adesione
agli insegnamenti della Chiesa.

Il. LA DICHIARAZIONE NOSTRA AETATE


SULLE RELIGIONI NON CRISTIANE

Indicazioni bibliografiche: K. RAHNER, Das Christentum und die nicht-christlichen Religio·


nen, in: Schri/ten zur Theologie, V, Benzinger Verlag, Einsiedeln 1964'; E. CORNELIS, Valeurs
chrétiennes des religions non-chrétiennes. Histoire du salut et histoire des religions. Christiani-
sme et Bouddhisme, Cerf, Paris 1965; H. MAURIER, Teologia del paganesimo, Gribaudi, Torino,
1968; lo., Le paganisme, Desclée-Novalis, Paris 1988; G. THILS, Propos et problèmes de la théo-
logie des religions non-chrétiennes, Casterman, Paris 1966; Les relations de l'Église avec les re-
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Jui/s à Vatican II, Casterman, Toumay 1967;}. 0ESTERREICHER, Commentaire de Nostra Aetate,
in: LThK, Das zweite vatikaniche Konzil, Herder, Freiburg, Il, pp. 406487.; H.R SCHLETIE,
Pour une «théologie des religions», DDB, Paris 1971; W. STROLZ - H. WALDENFELS, Christliche
Grunlagen des Dialogs mit den Weltreliginen, Herder, 1983; H. TIESSER, La mission de l'Église,
Desclée, Paris 1985; C. GEFFRÉ, La théologie des religions non-chrétienne vingt ans après Vatz~
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Aubier, Paris 1985; }. RIES, Les chrétiens parmi !es religions, Desclée, Paris 1987; J.T.
PAWLIKOWSKI, Judentum und Christentum, in TRE 17, 1988; The Theology of the Churches and
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rencontre d'Assise, in «Unité chrétienne», 96 (1989), pp. 5-37; M. RuoKAMEN, The Catholic
Doctrine of Non-Christian Religions according Seaind Vatican Couna1, Brill, Leiden 1992; F.
A. SuLLIVAN, Salvation outside the church? Tracing the history of the catholic Response, Paulist
Press, New York 1992.

Niente aveva preparato il concilio Vaticano II a prender posizione nei


confronti delle religioni non cristiane. Secondo la tradizione, i concili
parlavano delle cose riguardanti la fede e la Chiesa. Quando accennavano
alle altre religioni, lo facevano perlopiù con un atteggiamento apologeti-
co, e a volte polemico, per difendere la «vera religione». La dichiarazione
Nostra Aetate sulle religioni non cristiane è tipica della conversione com-

51 Ù BERNARD SESBOÙÉ
piuta, attraverso numerosi dibattiti e tensioni, sollevati tanto all'interno
del concilio quanto dalle pressioni esterne, a causa delle interpretazioni
politiche date a questo progetto. Questo documento appartiene allo stes-
so movimento che ha ispirato il Decreto sull'ecumenismo e la Dichiara-
zione sulla libertà religiosa. Esso tratta un argomento verso il quale è sen-
sibile il clima contemporaneo, come lo ha dimostrato l'attenzione punti-
gliosa dei media. Questo documento va addirittura più lontano della DH,
perché considera in modo innanzitutto positivo le religioni non cristiane e
mette in rilievo i legami che la Chiesa intrattiene con alcune di esse. Il
concilio non si è dunque accontentato del Decreto sull'attività missiona-
ria della Chiesa, ma ha avuto a cuore considerare per se stessa la realtà
plurireligiosa del nostro tempo.

1. La genesi del documento

Come sempre, l'analisi della genesi di un documento è indispensabile


per la sua giusta comprensione. All'inizio, molti elementi congiunturali
hanno contribuito a far emergere l'idea della sua opportunità, e poi della
sua necessità. Vi era innanzitutto la pregnanza del problema posto dalla
recente persecuzione degli ebrei durante la seconda guerra mondiale in
paesi di tradizione cristiana. Ma le relazioni con gli ebrei si trovavano par-
ticolarmente complicate dalla realtà politica ancora nuova dello Stato
d'Israele, allora sempre ostacolato dai paesi Arabi. Ma durante la seconda
guerra mondiale, mons. Roncalli, nunzio a Istanbul, aveva agito in favore
degli ebrei. Una volta papa, ne era stato ringraziato dalle organizzazioni
mondiali ebraiche e aveva ricevuto diverse visite,· come, nel giugno del
1960, quella dello storico Giulio Isaac le cui precise richieste lo avevano
impressionato. Molto presto aveva compiuto, già nel 1959, il simbolico
gesto di ritirare l'aggettivo <<Perfidi» che caratterizzava gli ebrei nella pre-
ghiera del Venerdì Santo 43 • Era anche oggetto di «diverse iniziative per
invitarlo a portare davanti al concilio il problema dell'atteggiamento cri-
stiano nei confronti degli ebrei>> 44 • Decise quindi di far preparare dal car-
dinal Bea - primo compito conciliare affidato al nuovo Segretariato per
l'unità dei cristiani 45 - uno schema di decreto sugli ebrei. A causa di indi-
screzioni, questo testo sollevò molto presto l'opposizione dei paesi arabi,

43 Che si cercava di comprendere nel senso di «infedeli» (nonostante i dizionari latini classici), ma che
era divenuto peggiorativo e veniva preso nel senso di «perfidi».
44 G.M. CornER, in: Les relations de l'Église avec /es religiom non-chrétiennes, a cura di A.·M. Henry,
Cerf, Paris 1966, p. 39,
45 Gr. R UURENTIN, L'Églire et /es Jui/s à Vatican Il, Casterman, Toumay 1967, p. 11.

XIV - LA CHIESA CATIOLICA E «GLI ALTRI» 511


dovuta a motivi politici. Venne dunque ritirato per motivi di opportunità
dalla Commissione centrale.
Ma il clima del consesso conciliare poneva più ampiamente il proble-
ma delle altre religioni: «Per la prima volta dopo venti secoli, scrive A.-M.
Henry, un concilio riuniva vescovi non solo del bacino Mediterraneo
orientale, come avvenne per i concili cristologici del IV-VII secolo, e nep-
pure soltanto dell'Europa occidentale come avvenne a partire dai concili
del Laterano, ma del mondo intero. Questo ebbe un immenso significa-
to» 46 • Ormai, la coscienza conciliare si formava a partire da culture diffe-
renti. Molti tra i Padri vivevano nelle loro Chiese una situazione minorita-
ria di fronte alla realtà predominante di altre religioni, in Asia e in tutte le
zone di espansione dell'Islam. Questo punto di vista si fece sentire con
forza e spiega I'evoluzione da un progetto di documento che non trattava
che degli ebrei alla Dichiarazione sulle religioni non cristiane.

Dall'ebraismo all'insieme delle religioni non cristiane


Nel corso del secondo periodo conciliare del 1963, il testo emendato
del Segretariato per l'Unità costituiva il capitolo IV dello schema sull'ecu-
menismo, mentre il capitolo V era consacrato alla libertà religiosa. Il pas-
saggio dalla preoccupazione ecumenica alla preoccupazione interreligiosa
si esprimeva così:
Dopo aver trattato dei principi dell'ecumenismo cattolico, non vogliamo passare
sotto silenzio il fatto che questi medesimi principi, tenuto conto della diversità di
condizione, devono venir applicati quando si tratta del modo di dialogare e di
cooperare con gli uomini non cristiani e che tuttavia onorano Dio, o almeno, ani-
mati da buona volontà, si studiano di osservare, secondo la loro coscienza, la leg-
ge morale iscritta nella natura dell'uomo. Questo poi vale innanzitutto quando si
tratta degli ebrei, poiché sono legati alla Chiesa di Cristo da un vincolo speciale 47 •

Pili sopra si è visto che il dibattito non affrontò çhe i capitoli riguar-
danti l'ecumenismo. Il cardinal Bea, tuttavia, fece una relazione per pre-
sentare ai Padri questo schema. Si dichiarava consapevole degli ostacoli
politici verso una simile dichiarazione. Sottolineava che l'intenzione del
testo era esclusivamente religiosa e rifiu.tava radicalmente ogni valore po-
litico. Questo punto verrà ricordato spesso senza mai conviricere total-
mente dal momento che né la tradizione ebraica né la tradizione musul-
mana concepiscono una reale separazione tra lo spirituale e il temporale.

46 A.-M. liENRY, in: Les relations de l'Église avec !es religions... , cit., p. 12.
47 Testo I dello schema che allora portava il titolo «La relazione dei cattolici con i non cristiani e in
panicolare con gli ebrei>>. Cfr. G.M. CornER, Les relations de l'Églùe avec !es religions..., cit., p. 12.

512 BERNARD SESBOOÉ


La relazione del cardinal Bea affrontava di fatto esclusivamente il proble-
ma delle relazioni della Chiesa con il popolo ebraico nonostante l'intitola-
zione del capitolo: «Sulla relazione dei cattolici con i non cristiani e so-
prattutto gli ebrei». Parlava del posto del popolo ebraico nella storia della
salvezza, dell'eredità della rivelazione dell'Antico Testamento per la Chie-
sa, e del rifiuto dell'accusa ingiusta di «popolo deicida» che nel corso della
storia venne rivolta agli ebrei. Ma questo intervento non fece diminuire le
principali obiezioni: ,il concilio non deve occuparsi se non dei cattolici;
non può parlare che accidentalmente delle altre religioni; non è il caso di
parlare di una religione non cristiana piuttosto che di un'altra; le intenzio-
ni del testo presteranno il fianco a interpretazioni politiche che nuoceran-
no alle minorità cristiane di alcune regioni. A queste obiezioni sollevate
dai Patriarchi e dai Vescovi del Medio Oriente - che con tenacia richiede-
ranno il ritiro del testo - si univano quelle dei vescovi dell'Asia e dell' Afri-
ca che non comprendevano perché veniva in tal modo privilegiata l'atten-
zione al popolo ebraico ed esprimevano il desiderio che il testo trattasse
anche del Buddhismo, del Confucianesimo, dell'Animismo e dell'Indui-
smo. Ma, dal momento che non vi era stata alcuna votazione riguardo gli
ultimi due capitoli dello schema sull'ecumenismo, il loro statuto per l'av-
venire restava incerto. Il progetto di un documento riguardante gli ebrei
e le religioni non cristiane trovava una seria resistenza tra alcuni Padri del
concilio.
Nel periodo che intercorse tra questa e la successiva sessione, differen-
ti avvenimenti contribuirono al cambiamento delle mentalità nella dire-
zione di un allargamento del 'testo. Ci fu inizialmente il viaggio in Terra
santa di papa Paolo VI che sottolineò la portata puramente spirituale del
suo «pellegrinaggio» e si astenne da qualunque dichiarazione che avrebbe
potuto essere interpr~tata come un passo verso il riconoscimento politico
dello Stato d'Israele. Da Betlemme egli indirizzava un messaggio di pace
che ricordava il monoteismo degli eredi di Abramo. Il 17 maggio 1964, la
sua preoccupazione per le altre religioni si concretizzò nella creazione di
un nuovo Segretariato per le religioni non cristiane. Infine, il 6 agosto 1964
Paolo VI pubblicò la sua prima enciclica, Ecclesiam suam, dove si trova
largamente sviluppato il tema del dialogo. Nei diversi cerchi concentrici
dove tale dialo_go deve prender posto, il papa ricorda i fedeli delle religio-
ni non cristiane:
Poi intorno a noi vediamo delinearsi un altro cerchio, immenso anche .questo, ma
da noi meno lontano: è quello degli uomini innanzi tutto che adorano. il Dio uni-
co e sommo [ ... ];alludiamo ai figli, degni del nostro affettuoso rispetto, del popo-
lo ebraico, fedeli alla religione che noi diciamo dell'Antico Testamento; e poi agli
adoratori di Dio secondo la concezione della religione monoteistica, di quella mu-

XIV - LA CHIESA CATIOLICA E «GLI ALTRI» 513


sulmana specialmente, meritevoli di ammirazione per quanto nel loro culto di Dio
vi è di vero e di buono; e poi ancora i seguaci delle grandi religioni afroasiatiche.
Noi non possiamo evidentemente condividere queste varie espressioni religiose,
né possiamo rimanere indifferenti, quasi che tutte, a loro modo, si equivalessero
...
[ ]
Ma noi non vogliamo rifiutare il nostro rispettoso riconoscimento ai valori spiri-
tuali e morali delle varie confessioni religiose non cristiane; vogliamo con esse
promuovere e difendere gli ideali, che possono essere comuni nel campo della
libertà religiosa, della fratellanza umana, della buona cultura, della beneficenza
sociale e dell'ordine civile. In ordine a questi comuni ideali un dialogo da parte
nostra è possibile; e noi non mancheremo di offrirlo là dove, in reciproco e leale
rispetto, sarà benevolmente accettato 48

Verso un linguaggio strettamente controllato. Gli schemi II-IV


All'inizio del terzo periodo conciliare (1964), il concilio approvò il ca-
pitolo II dello schema sulla Chiesa nel quale si affronta il problema dei
non cristiani (n. 16). Di loro si dice che sono «ordinati al popolo di Dio in
vari modi». Ebrei e musulmani vengono ricordati. Coloro che, senza loro
colpa, ignorano il Cristo e la Chiesa possono essere salvati. <<Infatti tutto
ciò che di buono e di vero si trova presso di loro, la chiesa lo considera
come una preparazione evangelica, come un dono concesso da colui che
illumina ogni uomo, perché abbia finalmente la vita». Questo riferimento
alla teologia di Eusebio di Cesarea, autore nel IV secolo di un libro intito-
lato La preparazione evangelica 49, teologia che si ricollega a quella dei
«semi del Verbo» presenti nell'umanità 50 , conduceva ad una considera-
zione positiva delle altre religioni. La
strada verso la dichiarazione NA,
fino ad ora molto intralciata, sembrava ormai essere sgombra.
Il nuovo testo presentato dal cardinal Bea dà sempre agli ebrei la prio-
rità: essi sono nominati per primi nel titolo. Ma molti Padri favorevoli al
progetto rimasero sorpresi nel costatare la scomparsa di alcuni termini
chiave della precedente versione: il rifiuto dell'accusa di deicidio è scom-
parso nella sua forma e la parola di persecuzione è stata sostituita con
quella di vexatio. Il cardinal Bea sottolineava tuttavia la posta in gioco con
questo documento presso l'opinione pubblica: «Dalla approvazione o
meno di questa Dichiarazione, molti diranno che il concilio è buono o
cattivo» 51 • Spiegava lo schema ormru strutturato in due parti più o meno.

48 PAOW VI, Ecclesiam sua, EV 2, p. 289.


49 Cfr. supra, pp. 33-35.
50 Cfr. AG, 11 e 15; GS, 3 e 18.
51 Citato in: R. LAURENTIN, L'Église et !es ]utfs à Vatican II, dt., p. 10.

514 BERNARD SESBOÙÉ


uguali, una riguardante gli ebrei, l'altra le altre religioni. Si esprimeva con
vigore sul rifiuto dell'accusa di deicidio e si asteneva dal giustificare la sua
scomparsa nel testo, pur impiegando l'espressione nel corso della sua re-
lazione52. Respingeva che potesse essere incriminata la totalità degli ebrei
del tempo di Gesù, dispersi in una ampia diaspora, e meno ancora gli ebrei
di oggi. Quanto ai capi religiosi che hanno chiesto la morte di Gesù, que-
sti stesso li scusa in una certa maniera «perché non sanno quello che fan-
no»; allo stesso modo Pietro e Paolo parlano di una ignoranza (At 3, 17;
13, 27) 53 •
Il dibattito poté riprendere. I Patriarchi orientali chiesero ancora che
la Dichiarazione fosse ritirata. Dalla parte opposta si chiedeva la reinte-
grazione della condanna esplicita del deicidio. Ci si lamentava che il tono
del testo fosse meno caloroso che nella precedente versione. L'insieme
degli interventi rese tuttavia evidente un largo consenso e molte richieste
positive. Veniva domandato che il brano riguardante i musulmani venisse
ampliato, che ricordasse la venerazione dei musulmani verso Gesù e verso
Maria e che si ricordasse in modo analogo l'animismo, il buddhismo e l'in-
duismo.
Sulla base di queste richieste il testo venne rivi.sto e presentato di nuo-
vo al concilio. Aveva preso la sua figura definitiva quanto al titolo, al con-
tenuto e alla forma. La struttura è nuova dal momento che tratta prima
delle diverse religioni non cristiane, poi dell'Islam e da ultimo dell'ebrai-
smo, vale a dire nell' «ordine di una crescente prossimità nei confronti del
cristianesimo» 54 . Presentandola il cardinal Bea poteva dire:
A questa Dichiarazione possiamo applicare l'immagine biblica del granello di se-
nape. All'inizio infatti si trattava di una breve dichiarazione sull'atteggiamento dei
cristiani nei confronti del popolo ebraico. Col passare del tempo, e soprattutto
grazie agli interventi conciliari, questo granellino è quasi diventato un albero pres-
so il quale ormai molti uccelli trovano il loro nido, vorrei dire che presso di lui
tutte le religioni non cristiane trovano ora il loro posto, almeno in Wl certo qual
modo''·

La Dichiarazione veniva ormai proposta come un'appendice allo sche-


ma sulla Chiesa. L'espressione sul deicidio veniva nuovamente inserita con
la seguente formulazione: «Il popolo ebraico non venga mai indicato come
una nazione. condannata o maledetta o colpevole di deicidio». Venne

52 Cfr. Ibid., p. 23.


53 Cfr. G.M. COT11ER, Les relations de l'Église avec /es religions.. ., cit., pp. 56-60.
54 CHR. THEOBALD, Position de l'Église catholique dan le dialogue inter-religieux. De la déclaration Nosta
Aetate à la rencontre d'Assise, in «Unité chrétienne», 96 (1989), p. 12.
55 Dicorso del 18 novembre 1964, citato in: G .M. CoTIIER, Les relations de l'Église avec /es religions ... ,
cit., pp. 56-60.

XIV · LA CHIESA CATTOLICA E «GLI ALTRI>> 515


sottoposta a votazioni che risultarono molto favorevoli, in particolare sul
conservare l'espressione riguardante il deicidio.
Durante l'ultima intersessione, Paolo VI si recò in viaggio a Bombay
per il 38° congresso eucaristico. Nei suoi discorsi riprese alcuni temi vici-
ni a quelli della Dichiarazione 56 • Nel frattempo vennero espresse anche
nuove critiche al documento: ai sospetti politici provenienti dai paesi ara-
bi corrispondevano delle pericolose interpretazioni che davano al testo un
senso sionista. Da parte dell'Ortodossia, con un'intenzione opposta a
quella del concilio, si valutava che la soppressione dell'accusa di «deici-
dio» facesse cadere in un'eresia di tipo nestoriano. Se a Maria era stato
dato il titolo di Madre di Dio in ragione della comunicazione degli idio-
mP7, era chiaramente necessario parlare di deicidio a proposito della
messa a morte di Gesù, sotto pena di essere in disaccordo con la dottrina
di Efeso.
Il testo finale, presentato nel 1965, tenne conto delle domande di
emendamenti giudicati compatibili con le precedenti votazioni. Proprio
per questo vi furono ancora due importanti abrogazioni. La menzione
dell'accusa di deicidio, sempre oggetto di discussioni, veniva ancora una
volta cancellata. Questa volta il cardinal Bea si adoperò a minimizzarne
l'importanza, considerando che il senso era conservato con le espressio-
ni rimaste: il termine di «deicidio» risulta troppo odioso perché venga
impiegato anche se solo per proscriverlo; inoltre, può prestare il fianco
a false interpretazioni teologiche 58 ; è stato tolto per ragioni di «pruden-
za pastorale e di carità cristiana». Questa cancellazione rimane comun-
que sorprendente dato che la reinserzione della espressione era stata
votata con una molto larga maggioranza. Inoltre, mentre il testo prece-
dente dichiarava che il concilio «deplora e condanna» (deplorat et dam-
nat) la persecuzione degli ebrei, il secondo verbo era stato tolto a van-
taggio del solo e debole «deplora». La ragione addotta era un purismo
di linguaggio dottrinale: «Si condannano le eresie, non i peccati o i cri-
mini». Spiegazione poco credibile che fu sostituita con la generale affer-
mazione che il concilio rifiutava di esprimere qualsiasi condanna. Que-
sto argomento non è migliore se si considera che la GS condannerà «la
mostruosità della guerra» (77, 2 e cfr. 79, 2 e 80, 3-4). La Dichiarazione
venne definitivamente votata il 7 dicembre 1965, .ma, per ragioni con-
traddittorie, con emozioni confuse.

56 Cfr. DC, 62 (1965), p. 6.


57 Cfr. t. I, pp. 338-346.
58 Cfr. G.M. CornER, Les relations de l'Église avec /es religions .. ., cit., p. 76; R LAURENTIN, L'Église et
/es ]ui/s .. ., cit., p. 34.

516 BERNARD SESBOÙÉ


2. Le importanti affermazioni della Dichiarazione

L'elaborazione di questa Dichiarazione ha mostrato i suoi legami con


l'ecclesiologia della LG, con la problematica del Decreto sull'Ecumeni-
smo ed anche con il problema della libertà religiosa che ne «rappresenta,
per così dire, il suo risvolto politico» 59 • Il suo titolo contiene l'espressione
di «relazioni con» (habitudo ad): tutto il significato dell'espressione sarà
offerto dalla conclusione del testo:
Non possiamo [. .. ] invocare Dio Padre di tutti, se ci rifiutiamo di comportarci
da fratelli verso alcuni uomini che sono creati a immagine di Dio. L'atteggia-
mento dell'uomo verso Dio Padre e quello dell'uomo verso gli uomini fratelli
sono così connessi che la Scrittura dice: «Chi non ama, non ha conosciuto Dio»
(1 Gv 4, 8) (5, 1) 60.

La solidarietà tra la relazione degli uomini con il Padre e la relazione


degli uomini tra di loro è la stessa dei due primi comandamenti. Le due
relazioni si condizionano reciprocamente. La Chiesa non può dimentica-
re il secondo senza negare il primo; ma così essa annuncia anche che
<<l'unità del genere umano è, in ultima istanza, religiosa» 61 •
Il proemio (n. 1) e la conclusione (n. 5) parlano della «religione>> in
generale e dell'unità religiosa fondamentale dell'umanità, mentre i nn. 2,
3 e 4 affrontano il caso concreto delle religioni. Ali' opposto dell' approc-
cio dell'enciclica Ecclesiam suam, che prospettava il dialogo secondo una
serie di cerchi concentrici a partire dalle religioni che si trovano più vicine
al cristianesimo, ordine ripr~so nella LG (n. 16), la dichiarazione parte
dalle religioni più lontane per considerare in seguito le più vicine, l'Islam
e l'ebraismo.

L'unica comunità umana (n. 1)


Nel nostro tempo in cui il genere umano si unifica di giorno in giorno più stret-
tamente e cresce l'interdipendenza tra i vari popoli, la chiesa esamina con mag-
giore attenzione la natura delle sue relazioni con le religioni non cristiane. Nel suo
dovere di promuovere l'unità e la carità tra gli uòmini, e anzi tra i popoli, essa
esamina qui innanzitutto tutto ciò che gli uomini hanno in comune e che li spinge
a vivere insieme (1, 1).

Il punto di. vista è nuovo: la Chiesa si colloca all'interno del genere


umano e considera il suo compito come una responsabilità nei confronti

59 Cfr. CHR. THEOBALD, Position de l'Église catholique... , art. cit., p. 15.


60 COD, p. 971. Le altre citazioni della NA, indicate secondo il loro n. e capciverso, si trovano alle
pp. 968-971 della medesima edizione.
61 Cfr. CHR. THEOBALD, Position de l'Église catholique... , art. cit., p. 24.

XIV - LA CfflESA CATTOLICA E «GLl ALTRI>• 517


della totalità dell'umanità per la promozione dell'unità e della carità. In
questo senso, si considera come una religione tra le altre. Senza dubbio
non abdica in nulla alla sua «pretesa» d'essere portatrice dell'unica
via di verità e di salvezza, che è .il Cristo. Ma rispetta il fondamentale
principio soggiacente ad ogni dialogo: non si può parlare con gli altri
che a partire da ciò che è comune a loro e a noi. Le è necessario allora
precisare la natura di questo legame comune che fonda l'umanità come
.comunità:
Infatti tutti i popoli costituiscono una sola comunità. Essi hanno una sola origine
[. ..]essi hanno anche un solo fine ultimo, Dio[. .. ] (1, 2).

Questo testo è simile a quelli di GS 24, 1 e 92, 5 e di AG 7, 3. Il legame


tra gli uomini consiste nell'unità della loro origine e del loro destino iscritta
in un disegno di Dio. Essa è d'ordine religioso e si esprime nelle religioni:
Gli uomini attendono dalle varie religioni la risposta agli oscuri enigmi della
condizione umana che ieri come oggi turbano profondamente il cuore dell'uo-
mo [... ] (1, 2).

Dalla religione è attesa una risposta trascendente all'enigma della vita


e ai problemi costanti che salgono dal cuore umano circa il senso di
questa vita, circa il bene e il male, la sofferenza, la felicità, la retribuzio-
ne dopo la morte. L'ultima frase evoca la teologia trascendentale di K.
Rahner, quale sia. <<l'ultimo e ineffabile mistero che circonda la nostra
esistenza, dal quale noi traiamo la nostra esistenza e verso cui tendia-
mo». Forse questa concezione globale della religione, proposta da un
punto di vista cristiano, non tiene in dovuto conto la diversità delle re-
ligioni concrete 62 •

Le religioni nel mondo (n. 2)


Il concilio prende in considerazione dapprima la forza dell'attitudine
religiosa che abita l'umanità dai «tempi più antichi>> e spinge gli uomini a
riconoscere la divinità. Constata poi la dinamica di progresso di certe re-
ligioni che, in connessione con la cultura dei popoli, rispondono ai pro-
blemi dell'uomo con «un linguaggio più raffinato». A questo punto carat-
terizza in modo positivo le specificità dell'Induismo e del Buddhismo, con
brevi ma precise formule, rispettose delle loro differenze interne, e tali
che gli interessati possano riconoscersi in esse. A proposito di loro e a
disegno, il termine di Dio, a connotazione personale, è stato evitato. Il

62 Ibid., p. 26 ..

518 BERNARD SESBOOÉ


testo evoca da ultimo in modo generale e molto implicito le altre religio-
ni 6} usando, come per il Buddhismo; il termine di «via»:
Ugualmente anche le altre religioni che si trovano nel mondo intero si sforzano di
superare, in vari modi, l'inquietudine del cuore umano proponendo delle vie, cioè
delle dottrine, dei precetti di vita e dei riti sacri (2, 1).

L'uso del termine di via merita una particolare attenzione: ancor oggi è
il punto di un dibattito. Nella logica del testo, vi sono delle vie e vi è «la
via», vale a dire Gesù Cristo che è anche <<la verità e la vita» (Cv 14, 6),
«in cui gli uomini trovano la pienezza della vita religiosa» (2, 2), Questa
via, considerata come unica, non vieta di riconoscere alle altre religioni la
capacità di proporre vie determinate nelle loro dottrine, nelle loro regole
di vita e nei loro riti. Le vie sono dell'ordine della ricerca umana di Dio e
dell'attesa della sua risposta. La via è il fatto di un dono e di una iniziativa
gratuita di Dio che dà il Cristo come Mediatore tra lui e gli uomini. Il
valore proprio di queste vie viene allora espresso nel apprezzamento di
rispetto pronunciato nei loro confronti:
La chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Essa
considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle
dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede
e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella Verità che illumi-
na tutti gli uomini. Essa però annuncia ed è tenuta ad annunziare incessantemen-
te Cristo che è «la via, la verità e la vita» (Gv 14, 6), in cui gli uomini trovano la
pienezza della vita religiosa e in cui Dio ha riconciliato a sé tutte le cose (2, 2).

Questo paragrafo comporta due affermazioni che occorre tenere insie-


me. Da un lato la Chiesa riconosce la parte di verità che abita queste reli-
gioni 64 • Implicitamente, attribuisce la fonte di questa verità al Cristo stesso
subito dopo nominato come <<la via, la verità e la vita>>. Si tratta di una cauta
ripresa della teologia della «preparazione evangelica>> della LG (n. 16) e di
quella dei «semi del Verbo» (AG nn. 9 e 11). D'altro lato, non rinuncia
comunque ad annunciare il Cristo, in conformità alla missione ricevuta.
Questo annuncio però deve compiersi nel pieno rispetto dell'identità re-
ligiosa dell'altro e nel riconoscimento degli elementi di verità di cui vive.
La Chiesa classifica dunque le altre religioni a partire dalla sua scala di
valore e considerandosi come «la pienezza della vita religiosa».

6J In: Les relations de l'Église avec /es religions ... , cit., si trovano delle analisi sul valore del documento
circa le missioni in Asia ij. Dournes), in Africa (H. Maurier) e circa i valori dell'Induismo e del Buddhi-
smo ij. Masson).
64 Queste verità sono d'ordine religioso e insieme morale, anche se rimane soggiacente al testo una
certa tensione.tra i due aspetti: cfr. M. RUOKAMEN, The Catholic Doctrine o/Non-Christian Religions accor·
ding Second Vatican Council, Brill, Leiden 1992, pp. 55-61.

XIV - LA CHIESA CATIOLICA E «GLI ALTRI» 519


La conseguenza è che la Chiesa e i cristiani devono trovare un nuovo
modo di rapportarsi con i «seguaci>> delle altre religioni, un atteggiamento
di «prudenza e carità», del «dialogo e la collaborazione»: si tratta di testi-
moniare la fede cristiana, ma di riconoscere anche di far progredire <<i beni
spirituali e morali» e «i valori socioculturali» che sono loro propri (2, 3 ).

La religione musulmana (n. 3)


Con i numeri 3 e 4 il riferimento scritturistico del concilio è molto più
sviluppato, perché parla di due religioni che in modo differente hanno
comunque un legame con la rivelazione.
La chiesa guarda con stima anche i musulmani che adorano l'unico Dio, vivente
e sussistente, misericordioso e onnipotente, creatore del cielo e della terra, che ha
parlato agli uomini. Essi cercano anche di sottomettersi con tutto il èuore ai de-
creti nascosti di Dio, come si è sottomesso Abramo, al quale la fede islamica vo-
lentieri si riferisce. Benché essi non riconoscano Gesù come Dio, lo venerano però
come profeta; onorano la sua madre vergine Maria e qùvolta pure la invocano con
devozione. Inoltre attendono il giorno del giudizio quando Dio ricompenserà tut-
ti gli uomini risuscitati. Cosl pure essi hanno in stima la vita morale e rendono
culto a Dio soprattutto con la preghiera, le elemosine e il digiuno (3, 1).

La descrizione dei temi sui quali la fede cristiana e quella musulmana si


incontrano è insistente ed elogiativa. Si appoggia sulle espressioni della
tradizione islamica riguardanti i nomi divini e sui principali pilastri del-
la fede musulmana. Sviluppa la citazione che dell'Islam è fatta nella LG
(n. 16), ma rimane allo stesso modo molto misurata e i suoi silenzi sono
altrettanto significativi che le sue affermazioni 65 • Si tratta innanzitutto del-
la fede nel Dio unico e vivente, assolutamente trascendente, il creatore
che parla agli uomini, chiede loro di sottomettersi a lui nella fede e il giu-
dice finale che li retribuirà risuscitandoli. Vien fatto riferimento ad Abra-
mo, «tipo e modello della fede musulmana» 66 , vale a dire di una fede sot-
tomessa, poi a Gesù riconosciuto come profeta e alla Vergine, sua madre,
oggetto della venerazione musulmana. La fede nella retribuzione e nella
resurrezione finali, aspetto importantissimo della fede islamica, viene sot-
tolineata. Da ultimo sono ricordati il rispetto della morale, la pratica della
preghiera, dell'elemosina e del digiuno che occupano un posto eminente
nella vita musulmana. Si sarà noti.ita tuttavia l'assenza di Maometto come

65 Il testo, come nella LG, non prende posizione sul problema aperto di sapere se l'Islam costituisce
o meno un ramo della tradizione biblica; cfr. R. CASPAll, Les relations de l'Église avec /es religions... , cit.,
pp. 214-215.
66 E non «antenato dei musulmani arabi»; cfr. Ibid., p. 221.

520 BERNARD SESBOÙÉ


profeta di Dio. Questi stessi silenzi, che allora erano parsi minimizzare le
cose, possono oggi prendere un significato massimalista, nella misura in
cui viene presupposta un'identica immagine di Dio tanto nel cristianesi-
mo che nell'Islam. Ma il documento non propone una descrizione esau-
stiva della religione musulmana; tra cristianesimo e Islam sottolinea le
convergenze che ai suoi occhi pongono le loro radici nella rivelazione
ebreo-cristiana.
Il concilio a questo punto ricorda - un po' troppo rapidamente - i
conflitti islamo-cristiani del passato per esortare all'oblio, alla pratica del-
la mutua comprensione e alla collaborazione nel campo di tutti i valori
umani.

La religione ebraica (n. 4)


Questo costituisce il paragrafo più lungo della Dichiarazione, anche
perché ne costituiva il nucleo originario. Lo esigeva la congiuntura della
metà di questo secolo tanto quanto dei dati dottrinali evidenti. «Vedo la
·religione cristiana fondata su una religione precedente», scriveva Pascal 67 •
La lettera agli E/esini parla della Chiesa come della riconciliazione degli
ebrei e dei "gentili" in un solo corpo per mezzo della croce del Cristo (E/
2, 15-17). Un mosaico della basilica romana di santa Sàbina rappresenta
due donne che tengono ciascuna un libro aperto con le iscrizioni: Ecclesia
ex circumcisione, Ecclesia ex gentibus, la Chiesa sorta dalla circoncisione,
la Chiesa sorta dalle nazioni 68 • La relazione con gli ebrei appartiene all' es-
senza della Chiesa. Il concilio doveva nuovamente esprimere questo lega-
me sul fondamento delle affermazioni contenute nella LG (n. 16) e pren-
der posizione di fronte ai problemi cruciali: realizza questo con tre gruppi
di affermazioni.
1. Il primo gruppo riguarda i privilegi d'Israele e «il patrimonio spiri-
tuale comune» che esiste tra gli ebrei e i cristiani 69 : sottolinea non soltanto
l'eredità comune degli ebrei e dei cristiani, ma anche il legame dovuto al
radicamento del cristianesimo nella religione ebraica:
Scrutando il mistero della chiesa, questo sacro sinodo non ha dimenticato il vin-
colo con cui il popolo del nuovo testamento è spiritualmente legato con la stirpe
di Abramo.·

67 B. PASCAL, Pensieri, .Mondadori, Milano 1982'. n. 620, p. 350.


68 CTr. B. SESBOOÉ1 Ecclesia ex circumcisione, Ecclesia ex gentibus, in «Istina», 36 (1991). pp. 182-201.
69 L'espressione patrimonio comune era già stata adoperata a proposito delle altre confessioni cristia-
ne (UR 4, 7; 17, 2; AG 27, 2). Questo particolare sottolinea che, in un certo qual modo, la relazione tra
cristiani e Giudei resta un problema «ecumenico», come lo sottolinea il fatto che queste relazioni sono
sempre curate dal Pontificio Consiglio per l'Unità dei Cristiani.

XIV · LA CHIESA CATIOLlCA E «GLl AL'fRb, 521


La chiesa di Cristo infatti riconosce che gli inizi della sua fede e della sua elezione
si trovano già, secondo il mistero divino della salvezza, nei patriarchi, in Mosè e
nei profeti. Essa afferma che tutti i fedeli cristiani, figli di Abramo secondo la fede,
sono inclusi nella vocazione di questo patriarca e che la salvezza della chiesa è
misticamente prefigurata nell'esodo del popolo eletto dalla terra di schiavitù. Per
questo la chiesa non può dimenticare di avere ricevuto la rivelazione dell'antico
testamento per mezzo di quel popolo .con cui Dio, nella sua ineffabile misericor-
dia, si è degnato di stringere l'antica alleanza, e che essa si nutre della radice del-
l'ulivo buono su cui sono stati innestati i rami dell'ulivo selvatico che sono i popo-
li pagani. La chiesa crede infatti che Cristo, nostra pace, ha riconciliato gli ebrei e
i popoli pagani per mezzo della sua croce e dei due ha fatto uno solo in se stesso.
La chiesa inoltre ha sempre davanti agli occhi le parole dell'apostolo Paolo ri-
guardo agli uomini della sua stirpe, «i quali possiedono l'adozione a figli, la glo-
ria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi; da essi proviene
Cristo secondo la carne» (Rm 9, 4-5), figlio di Maria vergine (4, 1-3).

Questo è il posto del popolo ebraico nel mistero della Chiesa. Vengo-
no qui ripresi come in filigrana dei testi della LG: quello che descrive lo
sviluppo del popolo di Dio a partire dalla costituzione del popolo eletto
della prima alleanza, e afferma che l' «Israele secondo la carne», quando
peregrinava nel deserto, veniva già chiamato «chiesa di Dio» (2 Esd 13, 1;
n. 9, 3); ancora il n. 16 che presenta in primo luogo il
popolo che ha ricevuto le alleanze e le promesse e dal quale è nato il Cristo secondo
la carne (dr. Rm 9, 4-5): popolo carissimo in virtù dell'elezione e a motivo dei suoi
padri, perché i doni e la chiamata di Dio sono senza pentimento (dr. Rm 11, 28-29) 70 •

La Chiesa riconosce che «gli inizi della sua fede» si trovano già presso i
patriarchi, presso Mosè e i profeti. Questo testo si avvicina alle affermazioni
della DV (n. 14) riguardanti la storia della rivelazione 71 • Allo stesso modo, i
cristiani sono «figli di Abramo secondo la fede», vale a dire, dei figli spiri-
tuali, e l'uscita dall'Egitto è una figura della salvezza ricevuta nella Chiesa
(DV n. 15)'. La Chiesa non può dimenticare che ha ricevuto da questo po-
polo la rivelazione dell'Antico Testamento. Ogni volta che il concilio parla
degli Ebrei si appoggia interamente sul discorso di Paolo a proposito del
mistero di Israele, soprattutto in Romani e in Galati: i riferimenti paolini
appaiono dunque con il tema dell'ulivo selvatico innestato sull'ulivo buono,
con la riconciliazione dei Ebrei e dei Gentili attraverso la croce del Cristo
·(E/ 2, 15-16) e con l'enumerazione dei privilegi d'Israele (Rm 9, 4-5). In
conformità con la LG, il testo ricorda che il Cristo, sua madre e gli aposto-
li sono nati dal popolo ebraico.

10 LG 16.
71 Cfr. supra p. 460.

522 BERNARD SESBOÙÉ


2. Il secondo gruppo di affermazioni affronta il tema delicato della
«caduta d'Israele» (cfr. Rm 11, 11), cioè il problema della responsabilità
degli ebrei per il rifiuto del Vangelo e la morte del Cristo:
Come attesta la sacra Scrittura, Gerusalemme non ha conosciuto il tempo quando
è stata visitata; e inoltre gli ebrei, in gran parte, non hanno accettato il vangelo, e
anzi non pochi si sono opposti alla sua diffusione. Tuttavia, secondo l'apostolo,
gli ebrei, in grazia dei padri, rimangono ancora carissimi a Dio, i cui doni e la cui
chiamata sono senza pentimento [. .. ]
E se le autorità ebraiche con i propri seguaci si sono adoperate per la morte di
Cristo, tuttavia quanto è stato commesso durante la sua passione non può essere
imputato né indistintamente a tutti gli ebrei allora viventi né agli ebrei del nostro
tempo. E se è vero che la chiesa è il nuovo popolo di Dio, gli ebrei tuttavia non
devono essere presentati né come rigettati da Dio, né come maledetti, come se ciò
scaturisse dalla sacra Scrittura. Pertanto tutti facciano attenzione nella catechesi e
nella predicazione della parola di Dio a non insegnare alcunché che non sia con-
forme alla verità del vangelo e allo spirito di Cristo (4, 4 e 6).

Il te.sto conciliare vuole rimanere il più vicino possibile ai dati della


Scrittura: se ne serve per limitare il giudizio portato sul rifiuto del Vange-
lo da parte degli ebrei e rifiutare l'ingiusta interpretazione secondo la
quale la stessa Scrittura considererebbe gli ebrei come condannati e male-
detti da Dio. Se è vero che gli ebrei «in gran parte» non hanno accettato
il Vangelo, questo non è stato l'atteggiamento di tutti. Ci si riferisce qui al
tema così importante nell'Antico Testamento del «piccolo resto» che ri-
mane fedele 72 • D'altra parte, secondo san Paolo i doni di Dio sono senza
pentimento e gli ebrei rimangono «carissimi a Dio». La Chiesa attende
dunque il giorno della riconciliazione di tutti i popolo nella invocazione
del medesimo Signore. Il testo si esprime nell'orizzonte di Rm 9-11.
Vi è comunque un problema ancora più grave del rifiuto del· Vangelo:
il ruolo degli ebrei nella morte del Cristo. Il concilio riconosce che le au-
torità ebraiche del tempo si sono adoperate per la morte di Gesù. Questa
è la loro responsabilità storica, che salvaguarda il problema della loro col-
pevolezza davanti a Dio. Ma ·subito il concilio precisa che non si tratta di
tutti gli ebrei del tempo di Gesù e meno ancora degli ebrei di oggi. Gli
ebrei non devono dunque venir presentati come condannati a causa di
una responsabilità collettiva. A questo punto viene rifiutata l'ingiusta ac-
cusa di «popolo deicida», ma non in maniera esplicita, poiché, lo abbia-
mo visto, la formula a lungo controversa è stata tolta per ragioni che son
lontane dall'essere convincenti, ma che testimoniano le tensioni esistenti
nelle fila del concilio stesso.

72 Cfr. G.M. CornER, Les relations de l'Église avec /es religions... , cit., p. 252.

XIV - LA CHIESA CATIOLICA E «GLI ALTRI» 523


Teologicamente parlando, se si vuole conservare il termine di «deici-
dio» a causa dell'unione ipostatica dell'umanità nella persona del Verbo,
allora la causa della morte di Dio è costituita dai peccati di tutti gli uomi-
ni, qualunque essi siano: i pagani rappresentati nei vangeli dal processo
romano, gli ebrei dalle loro autorità, ma anche i discepoli stessi - nei quali
possiamo vedere il riferimento simbolico ai cristiani - che hanno abban-
donato Gesù alla solitudine di condannato. Questa prospettiva viene sug-
gerita dall'ultimo capoverso:
Cristo, del resto, come la chiesa ha sempre sostenuto e sostiene, in virtù del suo
immenso amore, si è volontariamente sottomesso alla sua passione e morte a cau-
sa dei peccati di tutti gli uomini, affinché tutti conseguano la salvezza. È dovere
dunque della chiesa, nella sua predicazione, di annunciare la croce di Cristo come
segno dell'amore universale di Dio e come fonte di ogni grazia (4, 8)73•

3. Nel terzo gruppo di affermazioni il concilio disapprova (reprobat) le


persecuzioni e «deplora» (deplorat) tutte le forme di antisemitismo delle
quali gli ebrei son stati oggetto:
La chiesa inoltre, che condanna (reprobat) tutte le persecuzioni contro qualsiasi
uomo, memore del patrimonio che essa ha in comune con gli ebrei e spinta non
da motivi politici ma da religiosa carità evangelica, deplora (deplora!) gli odi, le
persecuzioni e tutte le manifestazioni dell'antisemitismo dirette contro gli ebrei in
ogni tempo e da chiunque (4, 7).

Dei due verbi principali del capoverso, quello che riguarda le persecu-
zioni in generale è più energico di quello che concerne gli ebrei dal mo-
mento che la coppia «deplora e condanna (deplorat et damnat)» è stata
amputata a vantaggio del solo e debole «deplora». La cancellazione di
<<damnat>> è spiacevole, anche se lo sviluppo del testo conduce a questo
significato. Il fatto è tanto più strano dal momento che un documento del
Sant'Ufficio del 1928 aveva usato il termine della condanna a proposito
dell'antisemitismo:
Il Seggio apostolico sovranamente condanna l'odio contro il popolo anticamente
scelto da Dio, odio che oggi si ha l'abitudine di designare comunemente con il
nome di antisemitismo 74.

Anche Pio XI aveva usato parole molto forti nella sua enciclica Mit
brennender Sorge. E, nella stessa linea, aveva detto in un discorso del 1938:
«L'antisemitismo è inammissibile. Noi siamo spiritualmente semiti» 75

7J Capoverso posto dopo quello riguardante l'antisemitismo.


14 DC; 25 (1928), p. 1077; citato in: G. M. CornER, Les relations de l'Église avec /es religions... , cit., p.
464.
15 DC, 35 (1938), p. 1460. Cfr. supra, p. 390.

524 BERNARD SESBOÙÉ


Nello stesso spirito l'ultimo numero della dichiarazione ritorna sul tema
della fraternità che deve abitare tutti gli uomini senza alcuna discrimina-
zione nel nome stesso dell'amore di Dio. La Chiesa deplora «qualsiasi
discriminazione tra gli uomini o persecuzione perpetrata per motivi di
razza o di colore, di condizione sociale o di religione» (5, 2).

3. Le conseguenze della Dichiarazione


Questa dichiarazione ha una portata dogmatica. Il suo radicamento
nella tradizione non può essere messo in causa. È tuttavia anche restata
molto prudente, come lo hanno dimostrato alcune cancellature finale, e
lascia aperte molte domande, come ad esempio queste: «Qual è la volontà
di Dio sulle religioni? Le religioni sono una mera opera dell'uomo o sono
anch'esse in ultima istanza opera di Dio?» 76 • Inoltre non risolve il proble-
ma del rapporto tra religioso e politico. Questi limiti non possono essere
contestati, ma non possono neppure mettere in ombra la sua assoluta
novità nel linguaggio conciliare e dogmatico della Chiesa, novità capace
di offrire spazi a una riflessione che «permetterebbe a questo punto di
proporre degli elementi di una teologia fondamentale e dogmatica del di-
battito interreligioso» 77 •

Un'attitudine di conversione
Una parola si impone, in ogni caso, per caratterizzare i due documenti
presentati in questo capitofo, a imitazione di quello sull'ecumenismo, ed è
quella di conversione. Durante il Vaticano II la Chiesa cattolica si è con-
vertita non solo verso l'ecumenismo, ma anche verso un nuovo atteggià-
mento nei confronti dell'ebraismo e delle altre religioni. Questa conver-
sione era lentamente maturata negli anni precedenti. Ad un livello perso-
nale, era stata quella di Giovanni XXIII. Al momento del concilio diven-
ne quella dell'assemblea dei vescovi. Un movimento simile supera quello
delle singole coscienze: vi è una dimensione propriamente dottrinale che
appartiene a ciò che si è soliti chiamare teologia fondamentale. Convertir-
si e cambiare nei confronti degli altri suppone un mutamento della co-
scienza che. si ha di se stessi. Le parole nei confronti gli altri sono anche
parole della Chiesa nei confronti di se stessa. Il termine conversione è in
verità il solo adeguato. Infatti, non ci si converte tanto da un errore for-

76 H. WALDENFELS, Das Verstlindnis der Religionen und seine Bedeutungfor die MisSion in katholisher
Sicht, in «Evangelische Mission-Zeischrift>>, 1970, p. 130.
77 CHR. THEOBALD, Position de l'Église catholique... , art. cit., p. 37.

XIV - LA CHIESA CATIOLICA E «GLI ALTRI» 525


male, ma soprattutto da quanto può intaccare e deformare la preoccupa-
zione della ricerca della verità e dell'espressione della carità.
Questi testi hanno evitato, tuttavia, delle confessioni troppo esplicite.
Solo papa Paolo VI ha chiesto formalmente perdono ai cristiani delle al-
tre Confessioni per le mancanze che, nella rottura ecclesiale avvenuta nel
XVI secolo, fossero dovute alla Chiesa cattolica 78 • In questi testi, se si trova
un'ammissione per quanto riguarda la libertà religiosa (DH 12, 1), non vi
è alcun rammarico per quello che riguarda la storia delle relazioni tra cri-
stiani ed ebrei. La Chiesa non ha senza dubbio inventato l'antisemitismo,
che ha conosciuto delle forme pagane. All'epoca patristica ha praticato
nella polemica degli apologisti e nel motivo della competizione tra i due
culti una forma di antiebraismo religioso 79 • In seguito però, i suoi respon-
sabili, senza averne il monopolio, hanno avuto la loro parte in attitudini e
misure veramente antisemite, con segregazioni (ghetti), espulsioni e inter-
dizioni varie. «Questa situazione non durò per qualche generazione, ma
per più di un millennio: il periodo J?iù nero si estende dall'inizio. delle
crociate al XVIII secolo incluso [. .. ] E a quest'epoca che la legislazione
moltiplica le misure vessatorie» 80 • In certi paesi si è arrivati sino alla con-
versione forzata, anche se condannata molte volte dai papi. Periodicamen-
te dei cristiani non hanno esitato davanti alla violenza nei confronti degli
ebrei. Tutto questo è incontestabile, anche se deve essere completato con
il riconoscimento di misure di protezione prese da alcuni papi medievali
nei loro confronti. Nella nostra epoca abbiamo visto in paesi europei di
tradizione cristiana un progetto di sterminio (shoah) simbolizzato con il
nome di Auschwitz. Lo scandalo consiste nell'aver brandito la croce della
riconciliazione come strumento di condanna e di persecuzione nel nome
del deicidio.

Le conseguenze della Dichiarazione


Questo documento non è rimasto senza conseguenze. Ha aperto la stra~
da a numerosi dialoghi e a dichiarazioni tra le quali la più importante è stata
il misurato testo pubblicato nel 1984 dal Segretariato per i non cristiani,
L'atteggiamento della Chiesa difronte ai seguaci di altre religioni. Riflessioni
e orientamenti su dialogo e missione 81 • Questo documento parla della «com-
presenza nella missione dei compiti di evangelizzazione e dialogo» 82 • Mani-
festa un «interesse nuovo per il problema teologico del rispetto delle diffe-

78 PAOLO VI, Discorso di apertura del secondo periodo conciliare, 29 settembre. 1963, EV I, p. 107.
79 Cfr. supra p. 35, nota 33. .
80 R LAURENTIN, L'Église et !es fuifs ... , cit., p. 43.
81 EV 9, pp. 988-1031.
s2 Ibid., p. 994

526 BERNARD SESBOÙÉ


renze» 83, vale a dire il «rispetto per tutto ciò che in ogni uomo ha operato
lo Spirito che soffia dove vuole» 84 • Il problema politico viene anch'esso af-
frontato a partire dalla preoccupazione della pace (n. 21).
Tra le iniziative che si collocano in questa linea, occorre ricordare i vari
incontri voluti da Giovanni Paolo II: la visita in Marocco, nell'agosto
1985, l'incontro alla sinagoga di Roma e, in particolare, l'assemblea delle
grandi religioni del mondo, ad Assisi, per una preghiera a favore della
pace, gesto che significa il «rispetto della differenza religiosa al cuore
dell'umanità» 85 • Secondo l'espressione del papa, non si trattava di «pre-
gare insieme, ma di trovarsi insieme a pregare» 86 • La concezione del mi-
stero divino, troppo differente, non permetteva infatti una preghiera co-
mune: sarebbe stata «sincretista». Proprio per questo l'incontro ha alter-
nato momenti comuni e momenti separati prima del momento di ascolto
reciproco della preghiera degli altri. Il senso profondo di questa giornata
è stato quello di rendere visibile, nel servizio del bene dell'unità del gene-
re umano, il <<fondamento comunè» che esiste tra gli uomini religiosi e
messo in luce nella NA: «Facciamo di questa giornata una prefigurazione
di un mondo in pace» 87 •

83 CHR. THEOBALD, Position de l'Église catholique .. ., art. cit., p. 19.


84 EV 9, p. 1006
85 CHR. THEOBALD, Position de l'Église catholique.. ., art. cit., p. 21.
86 DC, 83 (1986), p. 1066.
87 Giovanni Paolo II, al momento dell'accoglienza dei rappresentanti delle altre religioni, DC, 83
(1986), p. 1071.

XIV . LA CHlESA CATTOLICA E «GLI ALTRI» 527


Capitolo Quindicesimo

Il Vaticano II
e la prova della «recezione»

Indicazioni bibliografiche: CONGREGAZIONE PER LA DOTIRINA DELLA FEDE, Dichiarazione


«Mysterium ecclesiae» sulla dottrina cattolica sulla Chiesa, EV 4, nn. 2564-2589; Formula di
professione di fede e giuramento dz'fedeltà, EV 11, nn. 1190-1195; La vocazione ecclesiale del
teologo, EV 12, nn. 244-305. COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, L'interpretazione dei
dogmi; EV 11, nn. 2717-2811; Textes et documents (1969-1985) Cerf, Paris 1988.
A. GRILLMEIER, Konzil und Rezeption. Methodische Bemerkungen zu einem Thema der oku-
menschen Diskussion der Gegenwart, ThPh. 45 (1970), pp. 321-352; Y. CONGAR, La «récep-
tion» camme réalité ecclésiologique (1972), in Église et papauté. Regards histonques, Cerf, Pa-
ris 1994; AA.Vv., Le magistère. Institutions et/onctionnements, RSR (1983), pp. 1-310; G. AL-
BERIGO - ]. P. JossuA (a cura di), La réception de Vatican II, Cerf, Paris 1985; W. KASPER, La
théologie et l'Église (1987), Cerf, Paris 1990; H. KONG, Une théologie pour le 3 mt1!énaire. Pour
un nouveau départ oecuménique (1987), Seuil, Paris 1989; G. ROUTHIER, La réception d'un còn-
cile, Cerf, Paris 1993; A. NAUD, Un aggiornamento et son éclipse. La liberté de la pensée dals la
/oi et dans l'Église, Fides, Quebec 1996.

Il concilio Vaticano II ha avuto come seguito una prova simile alla crisi
modernista? Nonostante alcune analogie evocate in occasione della sco-
munica di mons. Lefebvre (1988) 1, le differenze tra le due epoche post-
conciliari sono rilevanti. Prima di tutto nei due rispettivi casi, «maggio-
ranza» e «minoranza» non si trovano dalla stessa parte, anche se sarebbe
anacronistico affermare che la minoranza del Vaticano I divenga maggio-
ritaria nel Vaticano II e viceversa. Un consenso molto ampio, impensabile
alla fine del secolo scorso, si impose invece a partire dal 1962: prese le
distanze dal neo-tomismo si ispira, invece, ad una «nouvelle théologie» 2
che, alla lontana, si ricollega alle linee del «tradizionalismo moderato»,
più sensibile ad una visione dogmatico-storica che non ad una concezione

1 Cfr. il Motu proprio ·Ecclesia Dei afflicta (2.7.1988) che dichiara l'avvenuta scomunica di mons.
Lefebvre (EV 11, nn. 1197-1205); questa scomunica è stata messa in relazione con la fondazione della
Chiesa vecchio-cattolica avvenuta dopo il Vaticano I.
2 Cfr. supra, pp. J95-J99.

528 BERNARD SESBOÙÉ


dogmatico-giuridica del cristianesimo cattolico. Intrisi di cultura biblica e
patristica, i suoi sostenitori fanno volentieri riferimento alla scuola roman-
tica di Tubinga, all'apologetica di Blondel e, inoltre, al trascendentalismo
di J. Maréchal. Questo paradigma multiforme è attento alla tradizione
come coscienza storica della Chiesa, ma è al contempo vulnerabile da
parte del meccanismo di opposizione bipolare (Chiesa/mondo), e ha la-
sciato nell'ombra i problemi di teologia fondamentale evocati al capito-
lo XII e vicini ai problemi presentati dal modernismo.
È in questo contesto post-conciliare ancora molto aperto che comincia
a funzionare la differenza di forma tra i testi dei due concili del Vaticano I
e del Vaticano II: mentre il carattere molto preciso ma incompiuto del
testo del 1870 esigeva un reinquadramento in una prospettiva più globale
(portata avanti nell'ultimo concilio), l'insieme dei testi del Vaticano II
comincia a presentare dei problemi di interpretazione, dovuti alla sua
ampiezza e alla sua struttura policentrica. Per tutti coloro che rimangono
attaccati ad una visione unitaria della cultura cattolica e alla sua espressio-
ne nei vari testi pontifici, viene la tentazione di trasformare la lettera del
concilio in un sistema coerente e di concepire la sua recezione ufficiale
secondo le classiche procedure di un'ecclesiologia centraiizzata. Per altri
invece, il carattere aperto della raccolta di testi, l'appello al «senso di fede>>
e il riferimento alle Chiese particolari, comporta l'ingresso in una pratica
multiforme del rinnovamento e della riforma 3, che fa riferimento allo spi-
rito del concilio senza peraltro riuscire a ricollegarsi alla sua lettera. Quin-
di era inevitabile che si ponesse il problema, lasciato aperto, del rapporto
tra il Vaticano II e i concili precedenti, facendo riemergere alla superficie
della coscienza ecclesiale il «principio» stesso dell'opera conciliare e i
problemi della presenza del Vangelo nella storia della modernità.
Questa lenta presa di coscienza viene infine stimolata da un'accelera-
zione, senza precedenti, del processo di modernizzazione, a partire grosso
modo dagli anni che seguono il '68: le società occidentali entrano nell'era
post-industriale e il sistema degli scambi economici, culturali e religiosi
rapidamente assumono una respiro mondiale. I perversi effetti di queste
trasformazioni cominciano a farsi sentire, non soltanto nel terzo mondo
ma pure nell'emisfero nord. Allora l'insieme dei problemi fondamentali 4
vengono nuovamente affrontati a partire dal loro fondamento antropolo-
gico, cominciando dalla giustizia internazionale 5, l'opzione preferenziale

l Cfr. supra, pp .. 432-4J4.


4 Cfr. supra, pp. 4J 6-448.
5 PAOLO VI, Lettera enciclica: Populorum progressio, sullo sviluppo dei popoli (26.J.1967) EV 2,
nn. 1046-11J2; 2' assemblea del sinodo dei vescovi, La promozione della giusitizia nel mondo (6.11.1971),
DC, 69 (1972), pp. 12-18.

Xli - IL VATICANO Il E LA PROVA DELLA <<RECEZlONE» 529


per i poveri 6 e la teologia della liberazione 7 • Inoltre vengono integrati
progressivamente le sfide culturali 8 e i rapporti del cristianesimo con le
religioni non cristiane 9 • In questo nuovo contesto, il problema della «re-
golazione della fede» si presenta in modo ancora più acuto. Ci si trova di
fronte ad una crisi senza precedenti che scuote il cattolicesimo europeo,
che alcuni analizzano come ùn'implosione del suo corpo di rappresentan-
ti, un restringimento impressionante delle sue comunità, quasi un'incapa-
cità a trasmettere la fede alle giovani generazioni e uno spettacolare re-
gresso dell'impatto della Chiesa sull'avvenire delle società moderne. È
innegabile che la grande cultura cattolica, l'immaginario religioso che essa
ha saputo costituire per l'Occidente e il vivente organismo dei suoi agenti
sono sul punto di essere trascinati dalle successive ondate della moderni-
tà. Il sentimento di trovarsi nuovamente in uno stato di urgenza porta il
magistero a rivitalizzare progressivamente il paradigma apocalittico per
dire la sua posizione nella storia della modernità.
Data la prossimità storica di questi avvenimenti, non è possibile deline-
arne ora l'impatto sul processo di recezione del Vaticano II. Questo pro-
cesso è ancora in corso e assomiglia ad una sorta di separazione tra «l'in-
volucro» della cultura cattolica che circondava ancora i lavori conciliari e
un'altra figura storica del Vangelo che sta per nascere. Ci accontentiamo
perciò di offrire qualche indicazione circa la recezione «kerigmatica>> e
«pratica>> dell'ultimo concilio, cercando di far vedere in che modo il ma-
gistero romano gestisce la «regolazione dogmatica» e il suo rapporto al
sistema dottrinale degli anni 1870/1950.

I. l TEMPI DELLA RECEZIONE

1. «Recezione kerigmatica» e «recezione pratica»

«La recezione kerigmatica indica l'insieme .degli sforzi effettuati dal


pastore per far conoscere le decisioni di un concilio e per promuoverle in
modo efficace» 10 • Per ciò che riguarda Roma bisogna distinguere quattro
iniziative più importanti. La primissima è la riforma della Curia: comin-
ciata da Paolo VI nel dicembre 1965 con la trasformazione del Sant'Uffi-

6 Costruire una civiltà dell'~more, Documento dell'episcopato latino•americano sul presente e l'awe-
nire dell'evangelizzazione (1979), Centurion, Paris 1980.
7 CONGREGAZIONE DELLA DOTIRJNA DELLA FEDE, Libertatis nuntius (6.8.1984), EV 9, nn. 866-987.
8 Cfr. GIOVANNI PAOLO Il, Discorso all'UNESCO (2.6.1980), DC, 77 (1980), pp. 603-609.
9 Cfr. L'incontro di Assisi, cfr. DC, 83 (1986), pp. 1065-1083.
10 G. Rrn.1n!IER, La réception d'un conci/e, Cerf, Paris 1993, p. 87.

530 BERNARD SESBOÙÉ


zio in Congregazione per la dottrina della fede, si conclude, nel 1967 (con
i tre Segretariati «conciliari» per l'unità dei cristiani, per i non cristiani e
per i rion credenti), prima di essere messa di nuovo in cantiere da Giovan-
ni Paolo II nel 1988. Il secondo postb è occupato dalla riforma del Codice
di diritto canonico: annunciata da Giovanni XXIII nel gennaio 1959, fu
iniziata dopo il primo periodo del concilio e portata a termine nel 1983 11 •
Essa è stata l'oggetto del primo sinodo dei vescovi 1967.
La storia di quest'ultima istituzione, suggerita dal Decreto sulla respon-
sabilità pastorale dei vescovi 12 e consegnata dal diritto nei limiti di un
consiglio. del papa", permette di seguire al meglio il processo della. rece-.
zione ufficiale: dopo essersi occupato di problemi interni (diritto canoni-
co, rapporto tra il papa e i vescovi) a partire dal 1971 affronta alcuni tem-
pi «pastorali»: giustizia nel mondo, evangelizzazione, con l'importante
esortazione di Paolo VI, Evangelii nuntiandi (1975), e la catechesi nel
mondo moderno. Sotto il pontificato di Giovanni Paolo II i sinodi si pos-
sono distinguere con agio in due serie: dopo aver trattato di due aspetti
particolari (matrimonio e famiglia, penitenza e riconciliazione), il sinodo
straordinario, riunito nel 1985 in occasione del XX anniversario della
chiusura del concilio - che offre· delle regole di interpretazione dei suoi
documenti 14 - apre il seguito dei sinodi sugli «stati di vita»: laici, presbi-
teri, religiosi. Il sinodo straordinario del 1985 presenta un voto «che sia
redatto un catechismo o compendio di tutta la dottrina cattolica sia sulla
fede che sulla morale, che dovrebbe essere come un testo di riferimento
per i catechismi [..,] com posti nei diversi paesi» 15, questo voto era stato
già formulato dal Vaticano I e compiuto trent'anni dopo l'apertura del
concilio Vaticano II, nel 1992 16•
Un ultimo atto da segnalare è l'istituzione di una Commissione Teologi-
ca Internazionale (CTI), richiesta dal sinodo del 1967, affiancata alla Com-
missione biblica, presso la Congregazione per la dottrina della fede 11 •
Voluta per poter avere sott'occhio lo stato della ricerca teologica presso la
santa Sede, è, in linea di principio, «composta da teologi di diverse scuole
e nazioni che si distinguono per la loro scienza teologica e la loro fedeltà
al magistero della Chiesa» 18 • La storia di questa istituzione è un buon

11 A questo va aggiunto il Codice dei canoni delle Chiese orientali promulgato nel 1990, EV 12,
pp. 695ss.
12 CD III, 36.
13 ere, can. 342-348.
I< Sintesi dei lavori del ·sinodo I, 5; DC, 83 (1986), p. 37.
I' Ibid., p. 39.
l6 Catechismo della Chiesa Cattolica, Libreria Editrice Vaticana 1992.
17 Per la storia del CTI, cfr. Textes et documents (1969-1985), Cerf, Paris 1988.
18 Statuti provvisori del 1969, n. 4 (gli statuti definitivi del 1982, n. 3, aggiungono la «prudenza»),
ibid., pp. 413-416.

XV - IL VATICANO Il E LA PROVA DELLA <<RECEZIONE» 531


sismografo per evidenziare le tensioni tra l'unità della fede e il pluralismo
teologico 19 •
Tutte queste riforme istituzionali si ritengono fedeli all'orientamento
fondamentale del Vaticano II, essendo «una realizzazione visibile di que-
sto movimento o circolazione vitale tra la Chiesa universale e le Chiese
particolari che i teologi definiscono come una "pericoresi" o comparano
al movimento di diastole-sistole, attraverso cui il sangue parte dal cuore
per andare verso le estremità del corpo per poi rifluire allo stesso» 20 • Tut-
tavia l'affermazione conciliare della collegialità (LG 23), corrispondente
al fatto che «la Chiesa universale esiste nelle Chiese particolari e a partire
da loro», unitamente all'invito ad aprirsi al «senso soprannaturale della
fede del popolo tutto intero» introducono inevitabilmente una «relazione
d'incertezza» in quello che è il processo di recezione. Non è quindi il caso
di rimanere sorpresi che le istituzioni appena menzionate divengano,
molto presto dopo il concilio, occasioni di conflitto dottrinale e di potere,
manifestandosi così la straordinaria difficoltà ad attuare ciò che era affer-
mato in linea di principio.
La recezione ufficiale viene allora ritardata, talora parassitata secondo
gli uni o corretta secondo gli altri, mediante un recezione pratica 21 che
parte dalla base o dalle tradizioni culturali delle Chiese particolari. Que-
sto tipo di recezione, lungi dal lasdarsi ridurre ad una semplice «applica-
zione», quale oggetto di un «progetto» controllabile da un .meccanismo
strategico, suppone invece un cambiamento di ordine, una trasformazio-
ne delle istituzioni (riforma) e delle mentalità (rinnovamento) che porta-
no a «re-inventare» la stessa esperienza del concilio in uno spazio più cir-
coscritto e culturalmente più inserito. Tutto ciò al fine di permettere
un'adesione interiore all'insieme dei testi che suppone l'esperienza in pri-
ma persona dei soggetti ricettivi.
I «sinodi continentali» come le «conferenze generali dell'episcopato
latino-americano» (Medellin, Puebla, Santo Domingo), la conflittuale
esperienza del «concilio pastorale» dei Paesi Bassi (1966-1970), il «Sino-
do comune delle diocesi della Repubblica federale tedesca» (1971-1975)
o i «sinodi diocesani» in Francia (dal 1985) sono delle manifestazioni di
questo tipi di recezione pratica. Simili assemblee rivelano la difficoltà pro-
fonda del processo di recezione che collega «una maniera di fare» e un

19 Nel 1973 Paolo VI distingue tra un pluralismo accett~bile e un altro inaccettabile che «diminuireb-
be il carattere oggellivo, univoco e unanime che deve avere l'intelligenza della fede [ ... ] cattolica» (ibid.,
p. 389).
20 Secondo la bella formula di Giovanni Paolo II nella sua Costituzione Pastor bonus (28.6.1988)
EV 11, n. 824.
21 Per la definizione di questo termine cfr. G. RoUTHIER, La réception d'un condle, cit., pp. 84-87.

532 BERNARD SESBOÙÉ


nuovo modo di far funzionare la comunicazione nella Chiesa o con la
società e comporta dei problemi dottrinali che sono, integralmente, riser-
vati - almeno in una certa misura - all'autorità magisteriale.

2. Tentativo di definizione e di periodizzazione

È nel 1970 che si comincia a porre seriamente il problema della rece-


zione come problema dottrinale. Ecco la definizione data nel 1972 da Y.
Congar:
Per recezione si intende il processo attraverso cui un corpo ecclesiale fa sua in
verità una determinazione che non viene da se stesso, riconoscendone, nella mo-
dalità in cui è stata promulgata, una regola che va bene per la sua vita. Nella re;
cezione entra in gioco ben altro di ciò che gli scolastici intendòno per obbedienza
[ ... ].La recezione comporta un apporto di consenso, eventualmente di giudizio,
in cui si esprime la vita del corpo che esercita delle ricariche spiritu?li originali 22 •

Y. Congar precisa in seguito l'alternativa tra una concezione giuridica


della recezione basata sulla fede come obbedienza a un «superiore» (obse-
qut'uin), così come è implicata nella dottrina del Vaticano !2\ ed una visio-
ne che si rifà, invece, ad un'ecclesiologia di comunione 24 • Questa si fonda
sulla distinzione tra lo statuto giuridico della decisione e il suo contenuto,
per il quale Congar fa riferimento ad un giurista tedesco del XIX secolo, P.
Hinschius:
La recezione non è costitutiva della qualità giuridica di una decisione. Essa si basa
non sull'aspetto formale dell'atto, ma sul contenuto. Non è la recezion~ che con-
ferisce la validità, essa semplicemente constata, riconosce e attesta che ciò rispon-
de al bene della Chiesa; poiché essa riguarda una decisione (dogma, canoni~ rego-
le etiche) che deve assicurare il bene della Chiesa. Per questo la recezione di un
concilio si identifica praticamente con la sua efficacia ['. ..]. Di contro, come ha
fatto notare P. H. Bacht, la non-recezione non equivale a dire che la decisione
presa sia per questo falsa: significa solo che questa decisione non risveglia nessu-
na forza di vita e quindi non contribuisce all'edificazione 25 •

La concezione giuridica della recezione secondo lo spirito del Vatica-


no I è quindi integrata in un quadro più ampio, anche se ci si può doman-
dare se è poi ·così agevole distinguere il contenuto di una decisione dal

22 Y. CoNGAR, La «réception» come realtà ecclesiologica, in: Église et papauté. Regards bistoriques, Cecf,
Paris 1994, p. 230. '
23 Cfr. supra, pp. 255 e 296-298; Cfr. A. GRILLMEIER, Konzil und Rezeption Metbodiscbe Bemerkungen
zu einem Thema der okumenscben Diskussion der Gegenwart, ThPh, 45 (1970), pp. 343-347 e 350ss.
24 Y. CONGAR, La «réception» .. ., cit., p. 253ss.
25 Ibid., pp. 26lss.

X:V • IL VATICANO II E LA PROVA DELLA «RECEZIONE» 533


suo statuto formale e se la trasformazione del «dogmatico» operata dal
Vaticano II non esiga pure una ridefinizione del suo carattere giuridico.
Data la corposità dei documenti conciliari e la sua struttura policentrica,
il problema della recezione non riguarda soltanto il contenuto della rac-
colta, ma riguarda anche la difficoltà di riconoscere, al cuore dello stesso
processo di recezione, dove si situa la sua normatività.
Questo problema cruciale non è stato direttamente affrontato dal ma-
gistero dopo il 1965. Ma qualche documento si cimenta col problema del
«dogmatico» e dell'articolazione tra le diverse concezioni dei due ultimi
concili. Questa indicazione aiuta a periodizzare il processo di recezione,
anche se tutta la storia post-conciliare non può essere valutata secondo il
metro della teologia fondamentale. Lo storico del Vaticano I, H. J. Pott-
meyer, ha proposto nel 1985 un tentativo di periodizzazione «dialetti-
ca» che ha fatto scuola 26 : una breve «fase di esaltazione» del concilio è
stata seguita da una «fase di delusione - o secondo altri - di verità».
Alla fine di queste due fasi il compito del presente consisterebbe nel-
1' «integrare ciò che nella teologia preconciliare è obbligatorio con il
nuovo dato di un'ecclesiologia di comunione e di un'antropologia cri-
stiana che richiederebbe un certo impegno a favore della dignità uma-
na». Questa «sintesi» sarebbe esigita dalla concezione che la Chiesa cat-
tolica si fa della Tradizione, la quale, «non può accontentarsi di soppri-
mere una fase della sua evoluzione» 27 •
Fatta in mezzo al guado, questa rilettura ha il merito di indicare il suo
proprio priricipio e sembra verificarsi almeno al suo primo livello. Biso-
gna infatti distinguere due grandi periodi di recezione. Il primo, che oc-
cupa grosso modo il pontificato di Paolo VI, vede nascere le istituzioni di
una recezione ufficiale. A partire dalla crisi, il problema della «regolazio-
ne della fede» viene posto una prima volta: è al cuore delle preoccupazio-
ni della CTI28 ed è pure stato trattato nel 1973 in una Dichiarazione della
Congregazione per la dottrina della fede, organo privilegiato di espressio-
ne del magistero romano. La· seconda fase comincia pressappoco con il
sinodo del 1985 e coincide con la fine del dibattito romano sulla teologia
della liberazione ed un nuovo abbozzo del dialogo interreligioso con l'in-
contro di Assisi (27 ottobre 1986). Ben presto i problemi di «morale.fon-
damentale» e «speciale» prenderanno la scena. È in questo contesto che

26 H.J. POITMEYER, Vers une nouvelle phase de réception de Vatican II. Vingt ans d'herméneutique du
Conci/e, in: La réception de Vatican II, cit., pp. 43-64, e W. KAsPER, La théologie et l'Église (1987), Cerf,
Paris 1990, pp. 411·423.
27 Ibid., pp. 5 lss. e 57.
28 CTI, L'unità della fede e il pluralismo teologico (1972), EV 4, nn. 1801-1815; Principi di morale cri-
stiana e le sue norme (1974), EV 5, nn. 1009-1087; Magistero e teologia (1976), EV 5, nn. 2032-2053.

534 BERNARD SESBOÙÉ


si pubblicherà una seconda serie di documenti in cui si tratta dei proble-
mi di regolazione e si fissano i rapporti tra i due ultimi concili.
Indubbiamente, durante questa seconda fase è stato fatto uno sforzo
di «sintesi». Ma bisogna domandarsi in che senso ci si è orientati e, so-
prattutto, se gli avvenimenti evocati all'inizio di questo capitolo non in-
valideranno lo schema storico di una sintesi e il concetto teologico di
Tradizione che vi è sotteso.

Il. PROBLEMI DI TEOLOGIA FONDAMENTALE

1. La dichiarazione Mysterium Ecclesiae (1973)


Il motivo immediato della sua. pubblicazione è l'opera di H. Kiing dal
titolo provocatorio: Infallibile? Una domanda 29• Partendo dall'enciclica
Humanae vitae (1968) come «occasione di un esame di coscienza», Kiing
s'interessa meno direttamente all'esercizio del magistero nell'ambito della
morale e più al problema ecumenico delle «definizioni della fede», e delle
«proposizioni infallibili» 30 , come mezzi per la Chiesa di «rimanere nella
verità», Questo problema viene affrontato nel contesto più ampio del di-
battito post-conciliare sull'autorità ecclesiale, sia che si tratti del rapporto
conflittuale tra il magistero e alcuni teologi oppure delle tensioni tra Roma
e una Chiesa particolare, come la Chiesa di Olanda, che sta per pubblica-
re un catechismo molto discusso (1966).
Preceduta da un certo numero di prese di posizione nazionali, la «Di-
chiarazione sulla dottrina cattolica riguardante la Chiesa per proteggerla
dagli errori di oggi» 31 corrisponde a questo contesto più ampio e alla vi-
sione «pan-ecclesiologica» di Paolo VI. La prima parte di questa dichia-
razione insiste sul fatto che «Unica è la Chiesa e tale Chiesa di Cristo sus-
siste nella Chiesa cattolica» 32 • La seconda parte tratta invece del-
1' «infallibilità della Chiesa» (ME 2-5) e la terza della «Chiesa associata al

29 Apparso in tedesco nel 1970.


30 Cfr. ibid., pp. 153ss. con la tesi centrale del libro secondo cui «Non è provato che la fede abbia
bisogno di proposizioni infallibili». Ma il Vaticano I non parla mai di «proposizioni infallibili» ma cli
«definizioni irreformabili».
31 ME, EV 4, nn. 2564-2589. Una nota precisa il t~rmine «dichiarazione»: questa <<ricorda e riassume
la dottrina cattolica definita o insegnata in alcuni documenti precedenti del magistero della: Chiesa, dan-
done la giusta interpretatione e ne indica i limti e l'importanza». La «dichiarazione» è quiitdi una moda-
lità della «ricezione ufficiale».
32 Questa parte (ME 1) reagisce contro una comprensione minimalista del «subsistit in» che neghe-
rebbe cosl il fatto che «la Chiesa cattolica sia stata arricchita da Dio di tutta la verità rivelata e cli tutti i
mezzi di grazia» (LG 8; UR 4).

XV - lL VATICANO Il E LA PROVA DELLA «RECEZIONE» 535


sacerdozio di Cristo» (ME 6). Ma ciò che ci interessa maggiormente è lo
sviluppo della parte centrale del documento. In conformità alle due costi-
tuzioni DV e LG, il testo abborda il problema dell'infallibilità secondo un
procedimento induttivo: partendo da «l'universalità dei fedeli» che «non
può ingannarsi nel credere» 3i, distingue i diversi organi del magistero e le
sue forme di espressione. La logica di LG 25 viene rispettata perfettamen-
te, precisata o soltanto protetta, in linea con la Pastor Aeternus, su due
punti significativi. Il primo riguarda il problema della recezione (ME 2):
Per quanto, dunque, il sacro magistero si avvalga della contemplazione, della con-
dotta e della ricerca dei fedeli, il suo ufficio non si riduce, però, a ratificare il
consenso da loro già espresso; anzi, nell'interpretazione e nella spiegazione della
parola di Dio scritta o trasmessa, esso può prevenire ed esigere tale consenso.

Il secondo punto riguarda l'oggetto dell'infallibilità del Magistero


(ME 3 ). Per la prima volta, questo documento afferma chiaramente (e in
relativa contraddizione con il commento di mons. Gasser) 34 che l'infalli-
bilità si estende alle <<Verità connesse»:
Secondo la dottrina cattolica, l'infallibilità del magistero della chiesa si estende
non solo al deposito della fede, ma anche a tutto ciò che è necessario perché esso
possa essere custodito od esposto come si deve 35 •

Dopo ciò il testo affronta su questa base le due facce del problema posto
dagli enunciati dogmatici di Kiing. Prima di tutto ci si oppone (ME 4) alla
tesi che «riconosce alla Chiesa soltanto una "fondamentale" permanenza
nella verità, conciliabile con errori qua e là disseminati nelle sentenze in-
segnate come definitive dal magistero della Chiesa>>. Il principale argo-
mento è il collegamento tra l'atto di conversione del fedele, obbediente in
effetti ad i.ma formula breve della fede, e l'obbligo di aderire alla totalità
della dottrina:
È vero, sl, che è mediante la fede salvifica che gli uomini si orientano verso Dio,
rivelantesi nel Figlio suo, Gesù Cristo. Ma a torto da ciò si dedurrebbe che si pos-
sano sminuire o addirittura negare i dogmi della chiesa, che esprimono altri misteri.

Il testo rinvia alla problematica del Vaticano I delle <<Verità da crede-


re», cosa che coglie nel modo di trattare della loro «gerarchia», che è un
passo indietro in rapporto a UR:
Esiste, certo, un ordine e come una gerarchia. dei dogmi della chiesa, dato che
diverso è il loro nesso con il fondamento della fede. Ma questa gerarchia significa

H Cfr. LG II, 12 e IV, 35.


l4 Cfr. supra, p. 296.
3' EV 4, n. 2572

536 BERNARD SESBOÙÉ


che alcuni dogmi si fondano su altri come principali e ne sono illuminati. Tutti i
dogmi, però, perché rivelati, devono essere ugualmente creduti per fede divina 36.

L'altro aspetto del problema degli enunciati è la loro duplice «relativi-


tà» (secondo l'espressione di E. Le Roy) 37 : relatività metafisica o teologale
e relatività storica (ME 5). Il testo affronta 38 , «per la prima volta in modo
così esplicito la condizione storica dell'espressione della Rivelazione» 39 • Si
registra prima di tutto il fatto che il «senso contenuto nelle enunciazioni
di fede dipende, in parte, dalla peculiarità espressiva di una lingua usata
in una data epoca ed in determinate circostanze» e che l'elaborazione dei
dogmi segue un percorso storico segnato da certe. <<Visioni del mondo»
che cambiano. Si riconosce pure che alcuni enunciati possano cadere in
disuso cedendo il posto ad altri. In seguito, la dichiarazione dà ai teologi,
di cui riconosce la libertà di ricerca 40 , alcune regole di ermeneutica dog-
matica: la storicità dei diversi enunciati dogmatici esige che si sforzino di
«delimitare con esattezza qual è l'intenzionalità d'insegnamento che è
propria di quelle diverse formule>> restando salvo il fatto che <<il significato
rimane sempre vero e coerente» senza questo infatti «non si sfuggirebbe
al relativismo dogmatico» 41 •
Questa ermeneutica dogmatica sostituisce l'apertura fatta dalla Divino
afflante nell'ambito dell'ermeneutica biblica e, per la prima volta, abban-
dona l'ideale di trasparenza che domina a partire dal XIX secolo la sfera
del «dogmatico». Risulta tuttavia significativo il fatto che questo sviluppo
si concluda con un riferimento alla Dei Filius circa il «senso dei dogmi» e
alla Gaudet mater ecclesia del 1962, che fissa l'interpretazione di questo
discorso nella sua versione ufficiale:
Poiché il successore di Pietro parla qui di dottrina cristiana certa ed immutabile,
di deposito della fede da identificare con le verità contenute in tale dottrina, e di
verità che devono esser conservate nel medesimo senso, è chiaro che egli ammette
che il senso dei dogmi può essere da noi conosciuto, e che questo è esatto ed
immutabile 42 •

36 Ibid., 2575.
37 Cfr. supra, p. 363.
38 EV 4, nn. 257 6ss.
39 Cfr. B. SESBOOÉ, Le rapport Verité-Histoire dans quelques documents ecclésiastiques récents, RICP,
24 (1987), pp. 116-120.
40 «Inoltre è rivendicata la giusta libertà dei teologi nella loro ricerca: libertà che da una parte non
deve essere guardata con l'ombra del sospetto e dall'altra deve rimanere nei limiti della rivelazione divina,
cosl come essa è interpretata autenticamente dal magistero della Chiesa» (DC, 70 [1973] p. ~71).
41 A questo punto la· dichiarazione si oppone, nei termini della Humani generis, a delle opinioni (mo·
derniste e liberali) secondo cui «le formule dogmatiche non possono manifestare la verità determinante,
ma solo delle sue approssimazioni cangianti, che sono, in certa maniera, deformazioni e alterazioni della
medesima>> (EV 4, n. 2579).
42 Ibid., 2581.

XV - IL VATICANO II E LA PROVA DELLA <<RECEZIONE» 537


·Nonostante un reale passo in avanti, la dichiarazione non fa che fer-
marsi al tentativo di armonizzare gli insegnamenti dei due concili e di due
dìversi modi di concepire la verità dogmatica.

2. La «professione di fede» (1989)


e la «vocazione ecclesiale del teologo» (1990)

Questo punto risulta ancora più chiaro a partire da una serie di docu-
menti che fanno parte di una nuova fase della recezione, volta alla «dog-
matizzazione>> dell'insegnamento morale 43 • Questi si occupano dei rappor-
ti tra magistero e teologi (soprattutto moralisti) e della «fedeltà» di quanti
ricevono certe responsabilità ecclesiali 44 • Per non parlare dell'ambiguità
simbolica di un «giuramento» che viene ad aggiungersi al «sì» o «no» della
professione battesimale (cfr. Mt 5, 37), soffermiamoci sulla «Struttura tri-
partita» ormai stabilizzata nell'organizzazione cattolica delle «verità da
credere o da osservare».
La professione di fede del 25 febbràio 1989 (che sostituisce una prima
redazione risalente al 1967) si divide in due parti. Una è classica e com-
porta il Simbolo niceno-costantinopolitano; l'altra è nuova e consta di tre
paragrafi «ciascuno dei quali enuncia una categoria particolare di verità o
di dottrine, e l'assenso richiesto per ciascuna»: 4~
Credo pure con ferma fede tutto ciò che è contenuto nella parola di Dio scritta o
trasmessa e che la chiesa, sia con giudizio solenne sia con magistero ordinario e
universale, propone a credere come divinamente rivelato.
Fermamente accolgo e ritengo anche tutte e singole le verità circa la dottrina che
riguarda la fede o i costumi proposte dalla chiesa in modo definitivo.
Aderisco inoltre con religioso ossequio della volontà e dell'intelletto agli insegnamenti
che il romano pontefice o il collegio episcopale propongono quando esercitano il loro
magistero autentico, sebbene non intendano proclamarli con atto definitivo 46 •

43 Cfr. t. II, pp.' 42lss. con riferimento all'istruzione Donum vitae (1987) e all'enciclica Veritatis splen-
dor (1993). Ordinatio sacerdotalis (1994) e la sua spiegazione da parte della Congregazione per la dottrina
della fede (1995) che fanno riferimento a questo <muovo modo» cli regolazione.
44 Cfr. CONGREGAZIONE PER LA D0111UNA DELLA FEDE: Professione di fede e Giuramento di fedeltà (EV
11, on. 1191-1195). Per i precedenti post-tridentini del legame tra la «professione dogmatica» e <<l'obbe-
dienza giurata al capo supremo della Chiesa» (1564 e 1594), cfr. P. VALLIN, La nature de l'Église appelle-
t-elle des dogmes uni/iés et clairs?, in «Concilium», 270 (1997) che cita P. PRODI, Il sacramento del potere.
Il giuramento politico nella stona costituzionale dell'Occidente, Il Mulino, Bologna 1992, pp. 3 llss: «La
Chiesa cattolica romana è ormai segnata da una nuova particolarità. La Chiesa non sarà Una soltanto a
partire dalla regola delle fede apostolica e la vocazione battesimale, essa formerà invece ormai un corpo
politicamente istituito, il cui legame sociale è costituito contemporaneamente dall'adesione - giurata - ad
una sistematizzazione dogmatica particolare e dall'obbedienza - promessa sotto giuramento - alla perso-
na del Sovrano».
4~ Commento ufficilae di U. Betti; DC, 86 (1989), p. 380.
46 EV 11, n. 1192. .

538 BERNARD SESBOÙÉ


Questo testo sorprendentemente nuovo non sconvolge soltanto l'eco-
nomia della LG (III, 25), ma aggiunge soprattutto una categoria inter-
media di «verità», che ricopre il vecchio campo del «connesso»: senza
far parte del dato «divinamente rivelato», queste verità sono nondime-
no proposte in maniera definitiva (definitive), distinzione questa ancora
del tutto assente dal Diritto canonico del 1983 47 • Il commentatore uffi-
ciale, U. Betti, propone l'esempio dato nello schema preparatorio della
LG 48 , che ritrova una rinnovata attualità nell'insegnamento morale della
Chiesa: «Può far parte dell'oggetto delle definizioni irreformabili, an~he
se non sono definizioni di fede; tutto ciò che ha a che fare con la legge
naturale, che è pure essa espressione della volontà di Dio» 49 •
Nel 1994 la dottrina sull' «ordinazione sacerdotale riservata esclusi-
vamente a uomini» sembra entrare nella stessa categoria intermedia 50 ;
tuttavia nel 1995 la duplice risposta della congregazione per la dottrina
delle fede a un dubbio circa la lettera Ordinatio sacerdotalz's contestua
questo insegnamento nella prima categoria di verità proposte in modo
infallibile dal magistero ordinario e universale, attribuendo al magistero
detto ordinario del papa «nelle presenti circostanze» la funzione di
proporre «la medesima dottrina con una dichiarazione formale, affer-
mando esplicitamente ciò che si deve tenere sempre, ovunque e da tutti
i fedeli» 51 •
Il fatto poi che questa tripartizione delle «note teologiche» faccia or-
mai parte del «dispositivo» di regolazione risulta anche da un secondo
documento che si occupa de La vocazione ecclesiale del teologo. Deside-
rando superare una contrapposizione sterile tra magistero e teologia, que-
sto documento prima di tutto tratta, nello spirito della LG e della DV,
della «verità, dono di Dio al suo popolo» 52 , prima di riflettere successiva-
mente su «la vocazione del teologo», <<ll magistero dei pastori». e sui rap-
porti tra «magistero e teologia» (collaborazione e dissenso). Lo sviluppo

47 Cfr. i canoni 750 e 752.


48 Cfr. supra, p. 517.
49 DC, 86 (1989), p. 380.
50 Cfr. Ordinatio sacerdotalis, EV 14, nn. 1340-1348; la nota ufficiale di presentazione e il commento
del card. Ratzinger (cfr. DC, 91 [1994), p. 613) mettono in relazione questa categoria intermedia di verità
proposte in maniera definitiva senta essere divinamente· rivelate e il magistero ordinario del Papa.
51 Cfr. EV 14, nn. 3271-3283; con riferimento a LG 25, 2. «È sempre dopo che si constata l'esistenza
di questo tipo di magistero ordinario e universale. Sostenere che un punto della dottrina appartenga a
questa medesima "fede divina" suppone sempre che questa prova si è potuto addurla incontestabilmente»
(B. SESBOO~. Magistère «ofdinaire» et magistère «authentique», RSR, 84 [19%], p. 270). Ed è proprio su
«questa prova incontestabile» che il dibattito continua.
52 Ecco l'affermazione centrale: «La verità ha in sé una forza unificante, libera gli uomini dall'isola-
mento e dalle opposiziohi nelle quali sono rinchiusi dall'ignoranza della verità e aprendo loro la via verso
Dio, li unisce gli uni agli altri» (EV 12, n. 249).

XV - IL VATICANO II E LA PROVA DELLA «RECEZIONE» 539


della seconda parte sulla teologia arriva al punto cruciale del testo, la li-
bertà di ricerca:
In teologia questa libertà di ricerca si iscrive all'interno di un sapere razionale il
cui oggetto è dato dalla rivelazione, trasmessa e interpretata nella chiesa sotto l' au-
torità del magistero, e accolta nella fede. Trascurare questi dati, che hanno un
valore di principio, equivarrebbe a smettere di fare teologia 53 .

Riferendosi alle sue stesse interpretazioni dei documenti conciliari (in


ME, nella Professione di fede e nel Giuramento di fedeltà}, la Congrega-
zione ridefinisce il ruolo del magistero nella Chiesa, sottolineandone in
modo particolare tre punti: il legame intrinseco tra magistero e «predica-
zione della Parola vera» (III, 14), la tripartizione delle «note teologiche»
(III, 15-17) ed una ripartizione delle istituzioni magisteriali che conferisce
un posto particolare - prima del vescovo e deUe Conferenze episcopali -
alla Congregazione per la dottrina della fede (III, 18): «Ne consegue che
i documenti di questa Congregazione, approvati espressamente dal papa,
partecipano al magistero ordinario del successore di Pietro» .. E ciò vale
pure per il presente documento secondo una «conclusione circolare» che
si ispira all'ecclesiocentrismo del Vaticano 154.
Il problema delle «note teologiche» viene affrontata due volte, nel ca-
pitolo sul magistero (III, 15-17) e in quello sul rapporto tra magistero e
teologia (IV, 23). La spiegazione della «categoria intermedia» è partico-
larmente significativa, nella misura in cui essa precisa la competenze del
magistero nell'ambito della «connessione» (ME 3) situando qui «a moti-
vo del legame che esiste tra l'ordine della creazione e quello della reden-
zione» e in riferimento alla Humanae Vitae, l'interpretazione della <<legge
naturale»:
D'altra parte la rivelazione contiene insegnamenti morali che di per sé potrebbe-
ro essere conosciuti dalla ragione naturale, ma a cui la condizione dell'uomo pec-
catore rende difficile l'accesso. È dottrina di fede che queste norme morali posso-
no essere infallibilmente insegnate dal magistero55.

Questo riferimento alla Dei Filius 56 conclude il «reinquadramento»


della dottrina del magistero secondo il Vaticano II nella prospettiva del
Vaticano I. Nell'ultima parte del testo, l'interpretazione «massimalista»
delle competenze magisteriali porta ad una concezione «minimalista»
della funzione teologica 57 , intesa secondo lo spirito dell'enciclica Humani

'3 Ibid., 261.


"' Ibid., 267ss.
" Ibzd., 265.
56 Cfr. supra, pp. 247ss.
57 EV 12, nn. 266ss.

540 BERNARD SESBOÙÉ


generis. Questo punto è collegato ad un'idea «strumentale» dei rapporti
tra fede e ragione. Già la seconda parte (II, 10) aveva moltiplicato le for-
mule che parlano dell' «utilizzo d' acquisizioni filosofiche» o «assumere
dalla cultura del suo ambiente elementi che gli permettano di mettere
meglio in luce l'uno o l'altro aspetto dei misteri della fede» 58 • Fondata sulla
«teoria delle note teologiche», la quarta parte suppone un confine netto
tra i «principi fermi» o il campo del «definitivo» e gli «elementi congettu-
rali e contingenti», limite che era rimasto mobile nell'insegnamento del
Vaticano IP9 • Riconoscendo che «spesso è solo a distanza di un certo tem-
po che diviene possibile operare una distinzione fra ciò che è necessario e
ciò che è contingente», la Congregazione limita «errori» e dibattiti o ten-
sioni feconde tra magistero e teologia all'ambito del «non-irreformabile»
o agli «interventi prudenziali» (IV, 24 e 28-31).
Il passo più lungo di quest'ultima parte è consacrato al problema del
«dissenso». Non si fa alcuna allusione positiva alle istituzioni teologiche,
sia che si tratti di Facoltà canoniche o di Commissioni internazionali (bi-
blica o teologica). Con una notevole continuità con la fase di dogmatizza-
zione (1870/1950), il testo indica ancora una volta «l'ideologia del libe-
ralismo filosofico» come causa di difficoltà, aggiungendo pure una nota
circa il «peso di un'opinione pubblica artificiosamente orientata» e «la
pluralità delle culture e delle lingue, che è in se stessa una ricchezza, ma
può indirettamente portare a dei malintesi, motivo di successivi disaccor-
di (IV, 32). Viene così elencata e rifiutata una serie di sei argomenti che
vengono, abitualmente, utilizzati per giustificare il dissenso 60 : «l' argomen-
to di ordine ermeneutico» secohdo cui <<l documenti del magistero non
sarebbero niente altro che il riflesso di una teologia opinabile», «il plura-
lismo teologico, spinto ·talora fino ad un relativismo che mette in causa
l'integrità della fede» (IV, 34), «un'argomentazione sociologica, secondo
la quale l'opinione di un gran numero di cristiani sarebbe un'espressione
diretta e adeguata del "senso soprannaturale della fede"» (IV, 35), «non
si può pertanto fare appello ai diritto dell'uomo per opporsi agli interven-
ti del magistero» (IV, 36), <<l'argomentazione che si rifà al dovere di segui-
re la coscienza» (IV, 38) e, infine <<non si possono applicare alla Chiesa
puramente e semplicemente, dei criteri di condotta che hanno la loro ra-
gion d'essere nella società civile o nelle regole di funzionamento di una
democrazia» (IV, 39).
Indubbiamente bisognerà equilibrare questa Istruzione abbastanza di-
fensiva con il Docµmento della CTI circa L'interpretazione dei dogmz;
5a Ibid., 258-259.
59 Cfr. supra, pp. 445-446.
60 EV 12, 289ss.

XV - IL VATICANO Il E LA PROVA DELLA <<RECEZIONE» 541


approvata qualche mese prima (ottobre 1989) dal suo Presidente che è al
contempo il Prefetto della Congregazione. Questo testo 61 pur con mag-
giore tecnicità, sviluppa una vera «problematica ermeneutica» indicando-
ne i «fondamenti teologici» e propone delle «riflessioni teologiche siste-
matiche fondamentali» terminando con la presentazione di una serie di
«criteri di interpretazione». Inoltre il testo manifesta una differenza di
tono e di orientamento. Il documento riconosce prima di tutto in modo
positivo l'attuale ampiezza del problema ermeneutico:
Il problema dell'interpretazione si pone non soltanto come quello di una mediazio-
ne tra il passato e il presente, ma anche come l'impegno di trovare la mediazione tra
le diverse tradizioni culturali. o·ggi, una tale ermeneutica transculturale è diventata
una condizione per la sopravvivenza dell'umanità nella pace e nella libertà 62 .

Il testo propone in seguito una lettura equilibrata della dottrina del


Vaticano II che« vede i vescovi soprattutto come gli araldi del Vangelo e
subordina il loro servizio di dottori al loro servizio di evangelizzazione» 63 •
Si riprende «la dottrina delle note teologiche [.. .] in questi ultimi tempi
purtroppo più o meno caduta nell'oblio», rispettando comunque meglio
di quanto lo facciano i due testi precedenti il dettato del Vaticano II circa
<<Una distinzione tra la dottrina della fede e i principi di ordine morale
naturale». Il testo richiede soprattutto che si arrivi ad uno stile nuovo di
presa di posizione da parte del magistero:
In una società caratterizzata dal pluralismo e in una comunità ecclesiale dalle dif-
ferenziazioni più accentuate, il magistero compie la propria missione ricorrendo
sempre più all'argomentazione. In tale situazione, l'eredità della fede può essere
trasmessa solo quando il magistero e le altre persone incaricate di una responsa-
bilità pastorale e teologica sono disposti ad un lavoro in comune di ordine argo-
mentativo. Tenuto conto delle ricerche scientifiche e tecniche degli ultimi tempi,
sembra opportuno evitare prese di posizione troppo precipitose, e viceversa favo-
rire decisioni differenziate e indicanti la direzione da seguire, specialmente in vi-
sta di decisioni definitive del magistcro 64 •

3. Conclusione
Questa breve retrospettiva di trent'anni di recezione conciliare nell'am-
bito della teologia fondamentale presenta un insieme abbastanza confuso.
Due logiche opposte, già notate al momento della preparazione del con-

61 EV 11, nn. 2717-2811.


62 Ibid., 2719.
63 Ibid., 2747.
64 .Ibid., 2753.

542 BERNARD SESBOÙÉ


cilio, continuano a coabitare in un medesimo discorso, senza che si attui
un sensibile cambiamento. Sembra pure che il processo di recezione uffi-
ciale si sia piuttosto orientato verso una lenta «reintegrazione» delle deci-
sioni uniche del Vaticano II nel quadro, ritenuto più ampio, del sistema
dottrinale degli anni 1870/1950. ·
Peraltro alcune grandi trasformazioni post-conciliari cambiano radical-
mente i dati storici di una regolazione della fede più che mai indispensa-
bile: i documenti citati parlano di una presa di coscienza più acuta del
pluralismo culturale, di una mentalità globale segnata dalle regole di fun-
zionamento della democrazia e da un interesse sempre più grande per i
problemi etici che riguardano il mantenimento del legame sociale.
Durante questo periodo sembra si sia come installata nella Chiesa una
certa contraddizione, analizzata talora in termini di «scisma verticale» 65 •
L'inflazione di testi e di organismi ecclesiali, soprattutto dal 1985, e una
propensione a legiferare continuamente non potrebbe essere il segno che
è diminuita la capacità evangelica di concentrazione? A ciò si aggiunge
l'impegno di una parte della gerarchia a rispondere alla minaccia della
modernità sull'antica cultura cattolica mediante il rafforzamento della sua
struttura dottrinale: ma allora perché cercare di trasmettere la novità evan-
gelica dell'ultimo concilio in forme e in modi di fare che si rifanno ad
un'epoca superata, quando invece il vino nuovo esigerebbe degli otri nuo-
vi? Allo stesso tempo, la povertà dei nostri mezzi reali aumenta e diventa
ancora più sproporzionata in rapporto alla ricchezza istituzionale e cultu-
rale che soggiace all'insieme dei documenti del Vaticano II. Pertanto non
si assiste forse ad un ritorno sehza precedenti al Vangelo, che è «per la
Chiesa il principio di tutta la sua vita in ogni tempo» 66 ? Il racconto evan-
gelico si presenta graziosamente alla coscienza di molti individui e comu-
nità cristiane nella sua concentrazione e semplicità elementare.
Un adepto del «metodo della Provvidenza» vi scorgerebbe forse il len-
to lavoro nelle coscienze, preparato da una secolare lettura delle Scrittu-
re, di un «giudizio storico che annuncia la prossima fine di una figura
dogmatica del cattolicesimo, quella che, nel sentimento di una minaccia
apocalittica, si fissa sulle sue «garanzie» giuridiche, mentre il Vaticano II
insisteva già - in modo unificato e prima di ogni distinzione giuridica tra
fede e costumi, tra il deposito e il «connesso» o tra un «definitivo» e un
«contingente» - ·sull'autorità escatologica del «pastore», «predicatore del
vangelo, dottore autentico, rivestito dell'autorità di Cristo» 67 •

65 Cfr. E. B1sER, Glaubensprognose. ·Orientierung in postsiikularistichler Zeit, Styria, Graz 1991.


66 LG III, 20.
67 LG III, 20 e 25.

XV - IL VATICANO Il E LA PROVA DELLA <<RECEZIONE» 543


La credibilità e l' «efficacia» di questa autorità pastorale non dipende
forse, in ultima istanza, dall'immagine di Dio che, nella nostra storia,
essa «mette in scena» attraverso il suo esercizio evangelico? La Chiesa
del Vaticano II non si preoccupa più di proteggere i diritti di un Dio
«sempre più dissomigliante» che assilla, sin dal concilio Lateranense IV
(1215) 68 la coscienza dell'Occidente, ma desidera rendere prossimo il
Dio santo che si rivela «sempre più umano» 69 • La Chiesa rinuncia così
ad un sapere sicuro sulla società per lasciarsi raggiungere dalla vocazio-
ne umana che la supera. Si dà un ruolo più modesto, ad immagine del
Dio di cui è testimone.

68 COD, p. 232.
69 Cfr. LG V, 40 e GS I, 11..

544 BERNARD SESBOOÉ


Conclusione generale
Bernard Sesboué

Ogni tomo precedente si è concluso con una transizione. Al termine di


questo quarto e ultimo tomo conviene offrire una conclusione, sebbene
l'oggetto di questo libro resti incompiuto poiché, a differenza della Scrit-
tura, la storia dei dogmi non conosce chiusura, ma continua e continuerà
al di là delle pagine scritte qui. Abbiamo cercato di entrare, per quanto
possibile, nell'attalità dogmatica, sebbene questi quattro tomi si troveran-
no presto in ritardo rispetto al suo flusso incessante.
In queste condizioni, è possibile fare una transizione verso l'avvenire?
L'apertura al futuro è stata messa in risalto soprattutto in quest'ultimo
tomo. La regolazione della fede avrà sempre il suo posto nella vita della
Chiesa, ma chi può dire quale forma concreta assumerà domani e che cosa
diverrà il concetto stesso di dogma? La recezione del Vaticano II è lungi
dall'essere conclusa e sappiamo che la recezione dei concili può conosce-
re svolte impreviste. Gli ultimi secoli sono stati il teatro di cambiamenti
così importanti e così rapidi che sembra poco verosimile che in un campo
così fluido e sensibile, tanto a proposito della fede che della cultura, la
Chiesa di domani possa assestarsi su un «pacifico possesso» dei .suoi dog-
mi. Appare d'altra parte impossibile spingersi oltre nei pronostici, se non
si vuole uscire dalla storia e scivolare verso una vera e propria profezia.
Qui si è trattato piuttosto di operare un bilancio, provvisorio senza
dubbio, cosl come lo si può fare oggi, con le risorse di una storia ricca, ma
contrastata, e della quale si è cercato di rendere conto, con la stessa since-
rità, delle ombre· e delle luci. Un punto appare immediatamente: se i tre
primi tomi affrontano .successivamente diversi punti del contenuto del
dogma cattolico, l'uJ.timo, in continuità con la precedente impostazione e
col presentare gli insegnamenti magisteriali dei tempi moderni, è stato
sospinto dalla forza delle cose a risalire dal contenuto alla forma del dog-
ma. Questa o quella critica dei primi tomi ha espresso un disagio davanti

CONCLUSIONE GENERALE 545


·alla ripresa ai nostri giorni del genere letterario «storia dei dogmi», giudi-
cato un po' tramontato, come se la nozione stessa di dogma andasse sem-
pre da sé.
Abbiamo preso anzitutto, è vero, il termine dogma in un senso corren-
te, riferendolo principalmente all'insegnamento magisteriale della Chiesa,
secondo le differenti forme che quest'ultimo assumeva nel corso dei seco-
li. La storia stessa ci invitava a farlo, non ponendo in maniera anacronisti-
ca delle questioni moderne e contemporanee alle prime espressioni della
«regola di fede». Lo storico inizia sempre col registrare ciò che è esistito.
Il seguito dei volumi ha mostrato però l'evoluzione della concezione del e
dei dogmi, delle frontiere di questo e delle procedure ecclesiali destinate
ad affermare se e in quale senso un certo punto appartiene alla fede della
Chiesa. Non solo il contenuto del dogma ha una storia, ma la nozione
stessa di dogma ne ha conosciuta una.
Fare la storia del concetto di dogma e dell'insieme delle nozioni che gli
sono correlative è stato il compito principale di questo quarto tomo. Le
questioni che esso include, anche se risalgono di fatto alle origine della
Chiesa, hanno trovato la loro previlegiata tematizzazione nei tempi mo-
derni, col nascere de «la teologia fondamentale» e della sua progressiva
dogmatizzazione. Questa storia è stata condotta in modo critico, perché i
dibattiti a suo riguardo sono stati critici. Questo tema del dogma è ancor
oggi molto attuale, anche se non conosce più un momento di intensa crisi,
come fu quello della crisi modernista.
Un'altra difficoltà, che gli estensori hanno sempre avuto presente, è
quella della distinzione formale tra dogma e teologia. Una storia dei dog-
mi non è una storia della teologia, che, altrimenti, avrebbe dovuto fare
spazio a moltissimi altri autori e temi. Nondimeno, non si possono sepa-
rare, come due dati tra loro estranei, il dogma e la teologia, perché è vero
che le comunicazioni tra l'uno e l'altra sono numerose e che il dogma,
anche ridotto a una affermazione per quanto possibile semplice, si inscri-
ve sempre in una precomprensione teologica e, nei suoi enunciati, fa
spazio alla teologia. Anche se la storia dei concili è stata una referenza
previlegiata del nostro studio, non si è trattato di presentare una
«Denzingertheologie». Così la scelta iniziale dell'opera è stata di trattare
di tutti i punti teologici che, in un'epoca o in un'altra, hanno portato a
una determinazione dogmatica. I punti teologici sono stati recepiti ogni
volta che e nella misura in cui hanno potuto avere un impatto sul dogma.
Per questo, ad esempio, in materia trinitaria, è stata affrontata la riflessio-
ne di un Tertulliano, o, nell'ambito della dottrina sulla Chiesa, sono state
trattate numerose teorie ecclesiologiche, per la semplice ragione che esse
hanno portato, yuoi attraverso una accoglienza, vuoi attraverso un rifiuto,

546 BERNARD SESBOÙÉ


alla dogmatizzazione del mistero della Chiesa. L'ultimo tomo ne ha dona-
to un nuovo e significativo esempio con la dogmatizzazione della teologia
fondamentale. Bisognava dunque operare in modo comprensivo, per spie-
gare certi sviluppi, collocandoli nel loro contesto di pensiero.
Questo quarto tomo ha inoltre sottolineato l'evoluzione del rapporto
tra la Chiesa e il mondo nei tempi moderni. Questo punto era già presen-
te in precedenza: la riflessione dogmatiea della Chiesa si è compiuta già
inizialmente in simbiosi con lo sviluppo culturale del bacino mediterra-
neo e dell'Europa. Tale simbiosi costituisce una delle matrici principali
del nostro mondo occidentale. Il rapporto però della Chiesa col mondo
nei tempi moderni ha assunto una nuova fisionomia. La Chiesa è ormai in
costante confronti:> con la società globale, confronto in cui si alternano e
si coniugano conflitti e consensi, rifiuti e aperture, condanne e simpatie.
Essa incontra parimenti altre «modernità», in America Latina, in Africa,
nell'Asia del Sud-Est, tanto per fare degli esempi, che la sollecitano a con-
frontarsi con nuovi sviluppi. La Chiesa appare dunque in quest'ultimo
tomo come la necessaria partner della lenta genesi della società moderna.
Col Vaticano II, essa ha preso atto del carattere mondiale delle differenti
culture nelle quali si è oramai impiantata. Al di là della sua stessa inten-
zione, il nostro lavoro riveste cosi un interesse nuovo: parla delle grandi
questioni che hanno travagliato la genesi della modernità, divenuta feno-
meno mondiale.
Quest'opera rimane, con tutti i suoi limiti, una storia dei dogmi. Essa
non aveva esplicitamente un'ambizione sistematica. Tuttavia, anche in
questo campo, le cose non si ·possono tagliare col coltello. Gli autori han-
no coscienza di aver parlato nel loro tempo, con la loro propria precom-
prensione e nel quadro di una prospettiva teologica profondamente se-
gnata dal Vaticano II. Essi sono anche dei teologi e, a loro modo, hanno
fatto lo sforzo di ricomprendere i dati della storia all'interno di un proget-
to comune che gli era proposto, pur lasciando a ciascuno la libertà di
apportarvi una interpretazione personale, teologicamente fondata, della
cosa dogmatica. Per questo, al termine dell'opera, essi hanno la semplici-
tà di pensare che il loro lavoro offra elementi per una riflessione propria-
mente sistematica e sperano che sui semi gettati possano fiorire e matura-
re ulteriori saggi di questo genere. In questo senso essi hanno già compiu-
to, in quest'opera di storia, un «atto teologico».

CONCLUSIONE GENERALE 547


Bibliografia generale

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550 BIBLIOGRAFIA GENERALE


Indice dei temi principali

Apologia (della fede): Ispirazione


I, 19-38; Il, 105-116; IV, 177-182; VI, Il, 98-101; VI, 251-252; VIII, 313-316;
230-276; VIII, 296-318 XIII, 477-479
Conc::ili (teologia dei) Libertà religiosa
I, 60-64; Il, 89-92; III, 137-147; IV, 163- XIV, 492-510
167; V, 219-229; VI, 275-276; VII, 29~- Magistero (regolazione della dottrina della fede)
302; XII, 415-448
I, 41-42; Il, 82-94; IV, 157 -159; 192-195;
Dio (conoscenza di) VI, 252-253; Xli, 440-446
Il, 95-97; IV, 182-183; VI, 236-251 Magistero (dd papa)
Dogma 1,64; Il, 92-94; IV, 157-158; VIl,284-298;
I, 57-60; Il, 83-84; III, 144-147; IV, 167. VIII, 309-335; IX, 364~370; XI, 401-411
168; 190-191; V, 203-204; 209-211; 217- Metodologia (teologica e dogmatica)
219; VI, 273-274; IX, 336-370 , I, 39-56; Il, 69-82; III, 147-154; IV, 196-
Eresia 199; XIV, 509-510
I, 29-35; Il, 84-85; 109-113; III, 135-137; Recezione
IV, 157-159; 198-199; VI, 230-236; IX, I, 63-64; III, 119-134; IV, 164-167; VI,
364-370 275-276; VII, 298-302; XIII, 489-491;
Fede (articoli della) XV,530-535
I, 39-40; 44-47; Il, 83-85; III, 119-121; Religioni non cristiane
V, 204-205 XIV, 510-525
Fede (teologia della) Rivdazione
I, 39-40; Il, 101-105; III, 135-137; 144- II, 98-101; IV, 170-172; VI, 242-251; IX,
145; IV, 184-190; V, 204-211; VI, 254- 353-359; XIII, 449-450; 453-467
268; 273; 274; XIII, 463-465
Scrittura
Fede e Ragione I, 47-50; III, 121-133; 134-135; IV, 164-
I, 43-44; 50-51; 53-56; II, 67-82; IV, 168- 167; 175-176; VI, 251-253; VIII, 303-
176; VI, 268-273; X, 373-389; Xl, 401-408 335; XIII, 476-489
Infallibilità Tradizione (e tradizioni)
I, 63-64; Il, 92-94; III, 135-137; 150-151; [dr. t, I, I, 42-62]; I, 39-40; 44-47; 51-
IV, 159-163; VII, 284-298; XII, 440-446; 53; III, 121-132; IV, 164-167; VI, 251-
XV, 535-542 253; XIII, 467-476

INDICE DEI TEMI PRJNCIPALI 551


Indice degli autori

Abbadie J acques: 179 Ance! Alfred: 499, 501


Abelardo: 67, 85, 88, 110 Anselmo di Canterbury (d'Aosta): 74, 75, 76,
Dialogo con un filosofo, un ebreo e un cri- 113, 182
stiano: 72 Cur Deus homo:
Sic et non: 71 Prefazione: 75
A Diogneto (lettera a): I, 1: 75
V, 3: 58 . Lettera sull'incarnazione del Verbo:
X, 1: 27 VI: 75
Agostino: 38, 56, 58, 60, 64, 66, 72, 74, 85, Proslogion: 96
144, 160, 178,341,484,486 Anselmo di Laon: 68
Confessioni: 95 Antonino di Firenze: 288
La dttà di Dio: 36, 37 Aristotele: 72, 76, 80, 182, 344
XIV, 28:.37 Ario:45
La Trinità: Arnauld Antonio: 160, 161
1,1,1:53 Arnobio (il vecchio): 26
I, 1, 3: 54 Atanasio di Alessandria: 43, 53
I, 2, 4: 54 Contro gli Ariani:
V, 9, 10: 55 I, 8: 47
XV,28,51:54,56 I. 8-9: 45
Lo spirito e la lettera: 122 I, 11-12: 48
Questioni sull'Ettateuco: I, 11-13: 51
2, 73: 482 I, 12: 50
Alberto Magno: 77, 396 I, 13: 49
Alcuino: 344 I, 25-28: 47
Alessandro di Alessandria: 44 I, 44: 47
Alessandro III: Lettere a Serapione:
Epistola 1441 bis: 86 I, 3-4: 49
Alessandro VII: I,28: 46,52
Ad sanctam (costitu:t.ione): 161 I, 32: 48
Alessandro VIII: 162 II, 7-8: 46
Alfrink Jan: 451 III, 7: 46
Ambrogio di Milano: 56, 58 Sui Sinodi:
Ambrosiaster: 142 5:61

INDICE DEGLI AUTORI 553


Atenagora: 24 Bayle Pierre: 178
Supplica per i cristiani: Bea Agostino: 417, 452, 495, 511, 512, 513,
3, 11, 1: 58 514,516
Atenogene (martire): 52 Bellarmino Roberto: 90, 160, 163, 165, 288,
Aubert Roger: 224, 275, 378 289,450
Disputationes de controversiis: 164
Bailly Louis: 180 La Parola di Dio: 165
Baio Michele: 158 Benedetto XIV: 193
Balthasar Hans Urs van: 464 Vix pervenit (enciclica): 159
Barnaba (lettera di): Benedetto XV: 312, 388, 488
1, 6: 57 Spiritus Paraclitus (enciclica): 227, 325-329,
9, 7:57 330, 402
10, 1,9:57 Berengario di Tours: UO
Bart Karl: 325, 330, 335, 455, 475, 490 Bergier Nicolas: 165
Basilio &Cesarea: 43, 53, 55, 142, Bernardo di Fontcaude:
Contro Eunomio: Libro contro i Valdesi: 86-87
I, 1: 45 Bertrano J .: 127, 131
I, 4: 45 Betti Umberto: 539
Il, 22: 45 Billuart Charles-René: 163, 195
III,6:48 Bismark Otto van: 300
Lettere: Bionde! Maurice: 81, 179, 211, 275, 349, 358,
210, 3-5: 36 361,370,379,384,411
Lo Spirito Santo: L'azione: 363
I, 3: 45 La settimana sociale di Bordeaux e il mo-
Il-V: 49 noforisma: 384
Il, 4: 49 Lettera sul/'apologetica: 211, 357, 3 68,
Ill,5:50 372,385
IV, 13: 50 Storia e Dogma: 337, 349, 350-352, 357, 361
V, 7: 49 Boezio: 55, 56, 65, 66, 71, 76
VI, 15:49 Come la Trinità è un solo Dio: 71
VII, 16: 48 Bonald Louis, de: 291
X, 26: 46 Bonaventura:70, 77,83,93, 101, 105,376
XI,27;46 Commento alle Sentenze III:
XII, 28: 44 D. 23, a. 2, q. 2c.: 98
XVIII, 47: 58 Bonifacio VIII:
xx, 51: 58 Unam Sanctam (bolla): 92
XXV, 59: 51 Bonnetty Augustin: 188
XXVII,66:58, 130 Annali di filosofia cristiana: 189
XXIX, 71-75: 52 Bonucci Agostino: 130, 131
xxx, 77: 58 BossuetJacques-Bénigne: 162, 209
Prologo VIII sulla fede: Bouillard Henri: 81, 95, 180, 244, 270, 397,
2:50 398,401
Battifol Pierre: 33 7 Boussett Wilhelm: 322
Bauer Georg Lorenz: 307 Browne Michad: 451-
Baur Ferdinand Christian: 338 Brugere Louis-Fernand: 165
Bautain Lotiis-Eugène: 188, 189, 193, 213 Bultmann Rudolf: 330, 335

554 iNDICE DEGLI AUTORI


Caietano (Tommaso de Vio): 249 Congar Yves: 41, 88, 127, 129, 195, 395, 397,
Camara Helder (dom): 436 399,400,409,417,424,451,452,474,533
Canisio Pietro: Cornet Nieolas: 160
Catechismi latini I, 1: 164 Cornoldi Gian Maria: 379
Cano Melchior: 119, 147, 151, 152, 153, 154, Cortes D.: 212
163, 164, 198, 211 Couturier Paul: 399
I luoghi teologici: 268
I, e. 3: 148 Danielou Jean: 424
Il, e. 3: 149 Delaye Emile: 401
Denys di Alessandria: 52
III, e. 7: 149
Denys di Roma: 52
IV, e. 4: 150
Denzinger Henry: 197
VIII, e. 1: 153
Deschamps Vietar: 209, 231, 259, 275, 285,
XII, e. 5: 152
287, 291, 385
XII, e. 11: 153
Entretiens sur la démonstration ... : 259
Cartesio René: 96, 169, 204 Lettres sur l'in/allib11ité: 285
Cassiodoro: 65 De Smedt Emile: 436, 437, 439, 496, 499
Celestino I: 64 Diano: 52
Celestino III: 86 Didachè (La): 39
Chaillet Pierre: 398 13, 3: 57
Chastel Marie-Ange: 189 Diderot Denis: 170
Chateaubriand François-René de: Déilunger Hans-Joseph: 193, 214, 216, 218,
Genie du Christianisme; 181 221,262,299
Chenu Marie:Dominique: 395, 396, 397, 400, Déipfner Julius: 463
409 Drey Johann Sebastian: 181, 203, 271
Chrismann Filippo Neri: 191, 218, 262 Driedo Giovanni: 127
Cicerone: 27 Duehesne Louis: 339, 342
Cipriano di Cartagine: 27, 41, ,58, 278, Duns Seoto Giovanni: 70, 96
475 Dupanloup Felix: 285
Cirillo di Alessandria: 46, 64 Durand Alexandre: 401
Commento al vangelo di Giovanni:
Eieher Peter: 275
21,25:58
· Eichhorn A.: 322
Seconda lettera a Nestorio: 58
Enrico VIII: 129
Sulla retta fede: 52
Enrico A.M.: 512
Cirillo di Gen:isalemme:
Epifanio di Salamina:
Catechesi battesimale:
Panarion: 34
4,2:58 Estrix Gilles: 162, 185
Clarke Sarnuel: 180 Eulogio di Alessandria: 283
Clemente di Alessandria: 32, 67, 398 Eunomio di Cizico: 36, 51
Il Protrettico.: 27 Apologia 5-6: 46
Gli Stromati: 7, 16, 104, 1: 58 Eusebio di Cesarea: 21, 3 3
Clemente Romano: 41, 42, 45 La dimostrazione evangelica: 34
Lettera ai Corinzi: 27, 5: 57 HE:
Clemente XI: I, 3, 12: 58
Vineam Domini (bolla): 162 VII, 5, 5: 58
· Colin Pierre: 355 La preparazione evangelica: 34, 514

INDICE DEGLI AUTORI 555


Fénélon François de: 161, 163, 166 Graziano:
Fernandez Antoine: 329 Decreto: 90, 109, 144
Fessard Gaston: 398 Gregorio di Nissa: 58, 398
Fessler Josef: 299 Gregorio di Rimini: 103
Firrniliano di Cesarea: 52 Gregorio il Taumaturgo: 52
Flavio Giuseppe: 34 Gregorio Magno: 58, 66, 283
Fontaine J.: 368 Gregorio VII: 66, 85, 92, 157
Fontoynont Victor: 398 Gregorio IX: 111
Fouilloux Etienne: 400 Gregorio X: 283
Francesco di Sales: Gregorio XVI (Marco Cappellari): 188, 192,
Le controversie: 164 212,213,496 .
Fransen Piet: 141 Dum acerbissimas: 187
Franzelin Johannes Baptist: 195, 207, Mirari vos (enciclica): 193
217, 219, 223, 246, 248, 249, 250, 252, Grelot Pierre: 329
~275 Grotius Hugo: 179
Freppel Charles-Ernile: 288 Guerrero Pedro: 144
· Freud Sigrnund: 176 Guidi: 289
Frings Joseph: 418, 451 Guglielmo d'Auvergne: 107
Froscharnrner Jakob: 186, 188, 193, 248 Guglielmo d'Auxerre: 78, 101
Guglielmo di Rubrouck: 116
Gadamer Hans-Georg: 139, 140 Gunkel Herrnann: 316, 322, 323
Ganne Pierre: 401 Giinter Anton: 186, 188, 193, 207, 219,
Gardeil Ambroise: 357 223, 237, 240, 241, 248, 264, 270, 274,
Garnier Antoine: 308 338
Garrigou-Lagrange Reginald: 275, 396,
400 Hardouin Jean: 178
Gasser Vincent: 222, 224, 270, 279, 289,
Harnack Adolf von: 228, 324, 337, 338, 339-
290, 294, 295, 296, 297, 298, 445,
341, 342, 344, 345, 349, 350, 358
536
L'essenza del cristianesimo: 340
Gay Charles-Louis: 223
Storia dei dogmi:
GeiselmanJohann: 131, 218, 451
p. VII: 340
Gennaro di Marsilia:
p. X: 339
Libro dei dogmi ecclesiastici: 59
Hasler A.B.: 224
Gerbert d' Aurillac (Silvestro II): 65
Hazard Paul: 172
Gerson Jean: 87
Hefele Kar!Josef: 216, 217, 220, 299
Gesenius Wihlelm: 305
Hegel Georg-Wilhelm: 96, 176, 207, 208,
Gilbert de la Porree: 70, 72, 73, 76, 110
Gilson Etienne: 379 306, 338
Ginoulhiac Jacques: 271, 272, 273 Hermes: 186-188,.193, 207, 236, 237, 240,
Glaire Jean-Baptiste: 308 241,261,264
Go net J ean Baptiste: 163 Hincmar di Reims: 65
Gonnet Dominique: 501 Hinscliius Paul: 533
Gorres J ohann J osef: 212 Hobbes Thomas: 291
Gouhier Henri: 359, 360, 361 Holden Henry: 191
Granderath Théodore: 275 Hooke Luc-Joseph: 180
Grandmaison Léonce de: 337, 357 Huby Joseph: 398

556 INDICE DEGLI AUTORI


Hulst Maurice d': 310 Giovanni XXIII: 227, 274, 416, 417, 419,
1' questione biblica: 310 423, 424, 425, 426, 434, 448, 449, 452,
Hiirter Ugo von: 165 511, 525, 531
Bolla d'indizione: 430
Ignazio di Antiochia: 41 Ecclesia Christi lumen gentium: 431
Ai Magnesi: Gaudet mater ecclesia: 418, 419, 421, 422,
13, 1: 57 537
Ai Romani: Humanae salutis (bolla di convocazione):
Saluto: 42 416
3, 1: 42 Pacem in terris (enciclica): 429, 496, 497
Ignazio di Loyola: 138, 475 Giovanni Paolo Il: 527, 531
Ilario di Poitiers: 56 Ordinatio sacerdotalis (lettera apostolica):
Innocenzo Ili: 82, 89, 110 300,539
Innocenzo IV: 108 Pastor Bonus (costituzione): 157, 531-
Innocenzo X: 160 532
Innocenzo Xl: 162, 184 Girolamo: 134, 325, 486, 487
Ippolito di Roma: 32, 35 Commento su Isaia:
Ireneo di Lione: 32, 35, 41, 42, 52, 125, 312, Prologo: 489
364,468 Giulio lAfricano: 52
Contra hereses: Giulio III: 129
I, 9, 4: 39 Giustino: 22, 25, 28, 30, 31, 41, 67
1,31,3:30 1' Apologia:
II, 30, 2: 30 1: 24
III, praef.: 470 44,1:58
III, 1, 1: 470 Dialogo con Trifone:
111,3, 1:470
19
IV,26,2:471,472
8, 1: 28
IV,33,8:471
84, 2: 21
IV,34, 1:460
lsaac Jules: 511
Kant lmmanuel: 96, 175, 176, 186,. 355,
Isidoro di Siviglia: 60
397
La fede cattolica contro gli ebrei: 115
Critica della facoltà di giudicare: 174
Critica della ragion pratica: 174
Jay o Le Jay Claude: 128, 130, 132
Critica della ragion pura: 174
Giansenio Cornelio: 158, 161
Il conflitto delle facoltà: 207
Giona di Bobbio: 65 La religione nei limiti della ragione semplz~
Giovanni Crisostomo: 480 ce: 175
Giovanni di Damasco: 344 Risposta alla domanda: Chi sono i Lu-
Giovanni di Ragusa: 91 mières ?: 173
Giovanni di Salisburgo: 68 Kasper Walter: 61, 123, 209, 218, 253, 262,
Giovanni di Torquemada: 275, 488
Summa Ecclesiae: 159 Ketteler Wilhelm Emmanuel: 279, 289
Giovanni Scoto Eriugena: 68 Kleutgen Josef: 207, 223, 275
Giovanni XIX: 86 Koenig Franziscus (cardinale): 436, 451
Giovanni XXII: 93, 94 Kuenen Abraham: 306, 307

INDICE DEGLI AUTORI 557


Kuhn Johannes Evangelist von: 258 Le Roy Edouard: 336, 337, 359, 362-363
·Kuhn Thomas S.: 410 Qu'est-ce qu'un dogme?: 361
Kiing Hans: 535, 536 Dogme et verité: 3 63
Lessing Gotthold Ephrai'm: 207
Laberthonniere Lucien: 357, 370 Liebermann Brunon-François-Leopold: 180
Lactance: 34 Lieriart Achille (cardinale): 451
Lafont Ghislain: 81 Loisy Alfred: 227, 315, 316, 317, 321, 324,
Lagr~nge Marie-Joseph: 316, 318, 321, 322, 336,343,344,345,358,360,363,364
337,357,396 Autour d'un petit livre: 317, 320, 336-337,
Ii° metodo storico: 317, 323, 324 344,350,357
Lè sorgenti del Pentateuco: 319 L'Evangile et l'Eglise: 228, 320, 341
La Mennais Félicité de: 213 L'Idée de la Révélation: 3'55, 356
Lecrivain Philippe: 229 Mémoires: 317
Lefebvre Marce!: 528 La théorie individualiste de la religion: 349
Léger Paul-Emile: 418, 451 Loofs Friedrich: 339
Lehir Arthur: 308 Lubac Henri de: 69, 334, 395, 398, 399, 401,
Leibniz Wilheim Gottfried: 96, 206 409,464
Lennerz Heinrich: 141 Lucio III: 111
Leone I, il Grande: 58, 64 Lunello: 130
Leone Xill: 376, 382, 383, 430, 488, 497 Lutero Martin: 87, 121, 122, 143, 194, 341,
Aeterni Patris (lettera apostolica): 220, 464
228, 312, 372, 373, 374, 377, 378, 380,
394, 403 Mabillon Jean: 178
Arcanum divinae sapientiae (enciclica): Maier Adalbert: 216
381 MaistreJoseph, de: 279, 285, 291
In mezzo alle sollecitudini (enciclica): 381 Sul Papa: 212, 213 ·
Dopo il giorno (ebciclica al clero di Fran- Manning Henry-Edward: 299
cia): 316, 372 Marcello II: 125, 129
Diuturnum (enciclica): 381, 386 Marechal Joseph: 397, 529
Graves de communi (enciclica): 386 Maritain J acques: 394
Humanum genus (enciclica): 381 Martin Konrad: 223
Immortale Dei (enciclica): 381, 495 Marx Karl: 176
Lettera Jam pridem: 372 Mazzella Camillo: 379
Lettera su S. Tommaso: 372 Meignan Guillaume-René: 215
Libertas praestantissimum (enciclica): 381 Melezio d'Antiochia: 52
Giunto al 25° anno (lettera apostolica): Mersenne P. Martin: 170
372 Michele VIII Paleologo: 283
Providentissimus Deus: 177, 227, 309-310, Minucios Felix: 27
312, 314, 316, 326, 331, 334, 371, 402, Mohler Johann Adam: 167, 195, 209, 216,
477,490 359, 451
Quod.Apostolici Muneris (enciclica): 381 L'unità nella chiesa: 126, 166, 397
Rerum Novarum (enciclica}: 381 Molina· Louis de: 301
Sapientiae Christianae (enciclica): 381, Montaigne M(chel de: 170
383, 495 Montalembert Charles-René de: 214
Vigilantiae (lettera apostolica): 315 Montcheuil Yves de: 398
Lercaro Giacomo: 436 Moro Tommaso: 129

· 558 INDICE DEGLI AUTORI


Murray John Courcney: 494, 495-500, 501, Evangelii nuritiandii (esortazione aposto-
505 lica): 531
Ratio schematis: 496 Humanae vitae (enciclica): 535, 539
Populorum progressio (enciclica): 529
Nacchianti Giacomo: 130 Pascal Blaise: 209, 316, 320 .
Nestorius: 46, 64 Pensées: 170, 178, 179, 521
Neubam:r Ignace: 180 Passaglia Carlo: 165, 207, 236
Newman}ohn-Henry: 166, 177, 343, 539, 451 Pavan Pietro: 495, 500
Saggio sullo sviluppo, II, 3: 360 Pecci Giuseppe: 372, 378
Lettere al divin di Norfolk: 299, 301 Ferrone Giovanni: 195, 214, 224
Newton Isaac: 173, 175 I luogh(teologici: 210
Nicolas de Cuse: 96 Prelazioni di teologia: 165
Nicola III: 94 Pesch Christian: 165
Decreto «Exzi't»: 93 Petau Denis: 177, 338
Nietzsche Friedrich: 176 Phillips Georg: 212, 224
Pio Luigi: 288
Ockham Guglielmo d': 70, 94, 113 Pierre d'Alliaco: 91,
Olieu o Olivi Pierre-Jean: 93, 94 Pierre Damien: 115
Ollivier Emile: 220 Pierre Lombard: 70, 71, 73, 76, 110
Onorio III: 92 Pierre Marsili: 113
Origene: 32, 39, 41, 67, 127, 334, 341, 467, 483 Pietro il Venerabile: 115
Commento su S. Giovanni: Pio VI: 141, 158
I, I, 1 - XV, 89: 483 Auctorem /idei: 140, 162
I, IV, 26: 125 Pio IX: 194, 195, 225, 226, 262, 263, 288,
I, VI, 33: 125 297, 298, 496
Contro Celso: 27 Inter multiplices (enciclica): 213
1, 7: 58 Lettera Tuas Libenter alt'arcivescovo di
2, 24: 58 Munich: 188, 193
3, 39: 58 Mirabilis illa constantia (lettera ai vescovi
3, 76: 58 teseschi): 300
I principi: 40 Nostis et nobiscum (enciclica): 193
Ormisda: Quanta Cura (enciclica): 194, 214, 219, 220
Libretto della fede: 286 Qui pluribus: 187, 213
Ortigues Edmond: 133 Syllabus: 188, 194, 214, 215, 219, 220,
Ottaviani Alfredo: 452 228, 264, 307, 309, 367, 370
Ozanam Antoine-Frédéric: 213 Pio X: 338, 372, 379, 384
l.Amentabili (decreto): 228, 364, 367
Pangrazio Andrea: 437 Lettera al cardinal Andrieu: 3 88
Paolo III: 157 Lettera al!'episcopato francese sul «Sillon»:
Licet ab initio (bolla): 157 386-388
Paolo VI: 422, 425, 426, 427, 431, 434, 474, Pascendi dominici gregis (enciclica): 228,
500, 516, 530, 534,535 355,364,365,366,367,368,369,370,371
Discorso d'apertqra del 2" periodo concilia- Sapienti Consiglio (riforma della Curia): 157
re: 526 Pio XI: 372, 384, 388, 390, 409, 497
Ecclesiam suam (enciclica): 426, 438, 463, Divini Redempton's (enciclica): 390
513 Mit brenmender Sorge (enciclica): 391, 524

INDICE DEGLI AUTORI 559


Mortalium animos (enciclica): 398 Schmid Franz: 264
Quas primas (enciclica): 391-392 Schmidt H.: 323
Ubi arcano (enciclica): 389 Schmitt Cari: 291
Pio XII: 334, 373, 392, 393, 400, 402, 405, Schrader Clément: 207, 216, 223
409, 497 Schwarzenberg Friedrich: 204
Divino a/flante Spintu (enciclica): 134, 227, Schweitzer Albert: 324, 340
331, 335, 402, 477, 480, 484, 491, 537 Seeberg Reinhold: 339
Humani generis (enciclica): 228, 300, 395, Senùer Johann-Salomon: 205, 206
400, 401-405, 423, 433, 476 Senestrey lgnatius von: 294
Summi pontz/icatus (enciclica): 392 Sevigné Mme de: 179
Platone: 25, 28, 79, 344 Sieben Hermann-Josef: 225
Plotino: 28 Simon Richard: 177, 205
Porfirio: 34 Siri Giuseppe: 451
Pottmayer HermannJosef: 207, 212, 219, 240, Sisto V: 157, 163
248, 249, 270, 271, 275, 285, 534 Bulla Triomphantis: 376
Poulat Emile: 236, 341 Immensa (bolla): 157
Prierias Silvestro: 195 Spinoza Baruch
Lettera 73 a Oldenburg: 172
Rahner Karl: 197, 210, 397, 424, 451, 460, 518 Trattato teologico-politico:
Ratzinger Josef: 472, 473 c. I: 170, 172
Rauscher J osef: 204 c. VI: 171
Raymond Lulle: 116 c. VII: 171
Raymond Marti de Subirats: 116 c. XIV: 170
Raymond de Pefiafort:· 116 c. XVI: 171
Regnon Théodore de: 339 Stael (Madame de): 176
Renan Ernest: 215, 307, 308, 310 Strauss David-Friedrich: 215, 308
Ricard de Mont Croix: 116 La vita di Gesù: 305-306, 309
Richter Jean-Paul: Suarez François: 163, 165, 169
Premier morceau fiorai: 176 Suenens Leo Josef: 431, 451
Ricoeur Paul: 330 Silvestro I: 64
Rivière Jean: 370 Silvestro II: 65
Rizzi Marco: 27
Rosseau Jean-Jacques: 170, 175 Tanqueray Adolphe: 165
Ruffini Ernesto: 451 Tavard George H.: 129
Rupert de Deutz: 115 Taziano
Discorso ai Greci: 26
Sabatier Auguste: 349, 353, 354, 355 27, 1: 58
Sacy Silvestre de: 305 Teodoreto di Cirro: 52
Salzano Thomas Michd: 280 Te ofilo d'Antiochia: 26
Sangnier Mare: 386, 387, 388 Terreni Guido (Guy Terré): 94
Schatz Klaus: 216, 222, 224, 225, 226, 275, Tertulliano: 32, 39, 41, 58
279, 280, 299 Apologetica: 24, 25
Scheeben Matthias-Josef: 207, 271, 299 Contro gli ebrei: 22
Schillebeeckx Edward: 418, 464 Contro le nazioni: 26
Schleiermacher Friedrich, Danid, Ernest: 203, 1, 8, 1: 20
304, 315, 327 La prescrizione contro gli eretici: 32

560 INDICE DEGLI AUTORI


Theilard de Chardin Pierre: 398 Ila-Ilae, q. 106, pro!.: 125
Thils Gustave: 298 Ila-Ilae, q. 171, a. l: 100
Thommasin Louis: 165, 178, 338 Ila-!Iae, q. 171, a. 1, ad 4m: 100
Tillemont Louis le Nain de: 177 Ila-IIae, q. 171, a. 3, ad 3m:.100
Tixeront Joseph: 339, 342-345 Somma contro i Gentili: 113
Tommaso d'Aquino: 70, 72, 77, 80, 81, 82, L. I, eh. 2: 114
88,89,93,94,97, 105, 144,169, 173,228, Tournely Honoré: 163
248, 329, 356, 372, 374, 376, 378, 379, Troeltsch Ernst: 205, 228, 306, 322, 325, 339,
396, 397, 400 345, 346, 348, 349, 351, 382
Commento sulle sentenze:
IV, d. 19, q. 2,a. 2, ad. 4m: 86 Ugo di S. Vittore: 68, 103
Esposizione sul De Trinitate di Boerio: Umberg Johann-B.: 140
Prologo: 56
Lettura dell'epistola agli Ebrei: 104, 105 Vacant Jean-Michel-Alfred: 359, 383
Quodlibeta III, q. 9, ad 3m: 86 Le magistère ordinaire de l'Eglise et ses
S. Th.: 74, 80, 113, 154, 383 organes: 295
la, q. 1, a. 2: 78 Valdo Pietro: 86, 110
la, q. l, a. 8: 79, 112 Valensin Auguste: 398
la, q. 1, a. 8, ad. 2m: 87, 99 Vallin Pierre: 379
la, q. 2, a. 3: 97 Veron François: 191
la, q. 12, a. 12: 96 De la règle de la /oi catholique: 191
la, q. 12, a. 13: 96 Vigoroux Fulcran: 308, 315
la, q. 46, a. 2: 107 Vincent de Lerins: 59, 343
Ila-Ilae, q. 1-16: 101 Commonitorium: 191, 274, 345, 359
Ila-Ilae, q. 1, a. 4: 104 2,5: 59
Ila-llae, q. 1, a. 4, ad 2m: 108 9: 218
Ila-Ilae, q. 1, a. 6: 83 22: 218
lla-Ilae, q. 1, a. 7, ad 4: 99 · 22, 16: 59
Ila-Ilae, q. 1, a. 8, ad 2m: 99 23, 3: 59
Ila-Ilae, q. 1, a. 10: 93 Voltaire Jean-Marie Arouet: 170, 175, 181
Ila-Ilae, q. 2, a. 5: 84, 108
Ila-Ilae, q. 2, a. 7: 84 Ward George: 212
Ila-Ilae, q. 2, a. 9, ad 3m: 104 Weber Max: 345
Ila-Ilae, q. 2, a. 10: 106 Wehrlé Joannès: 357, 363
Ila-Ilae, q. 4, a. 1: 102, 103, 256 De la nature du dogme: 359
Ila-IIae, q. 5, a. 3: 93, 102 Weiss Johann: 316, 324, 340
Ila-llae, q. 6, a. 1: 103 Wellhausen Julius: 307, 323, 324
Ila-Ilae, q. 10, a. 8: 112 Wrede Wilhelm: 322
Ila-IIae, q. 11, a. 2: 85
IIa-IIae, q. 39, a. 2: 83 Zoungrana Paul: 462

INDICE DEGLI AUTORI 561


Indice generale

Abbreviazioni ...... ·...... .. ... .. .. .......... .. ..... .... ......... ............................ ................ .. 5

PRESENTAZIONE (Bernard Sesboiié) ....... .... ... .. .. ......... ..... ............ ......... .. ....... .. 9
Dalle origini al concilio di Trento .................................................................. 10
Da Trento al Vaticano I ............................... ........ .......... ............ ... ..... ............. 11
Dal Vaticano I agli anni '50 ........................................................................... 11
Il concilio Vaticano II e il post-concilio .... ............. .. ... ....... ....... ... .. ... .... ... ...... 12

Fase Prima
DALLE ORIGINI AL CONCILIO DI TRENTO
APOLOGIA DELLA FEDE E METODO DEL DISCORSO DOGMATICO
(Bernard Sesboiié)

Capitolo Primo
APOLOGIA DELLA FEDE E DISCORSO CRISTIANO NELL'EPOCA PATRISTICA ........ .... . 17
.14 testimonianza del Nuovo Testamento ...................................................... 18

I. L'apologia della fede .................................................................................. 19


1. La giustificazione della fede nei secoli II e III ........................................ •.•• 20
I.:apologia scritturistù:a della fede davanti ai Giudei ........ ............... .. .. ... .. ..... 20
I.:apologia razionale della fede davanti· ai pagani ............................. :............ 23
La prova della fede davanti agli eretici .......................................................... 29
2. La giustifìcazio_ne della fede nella Chiesa costantiniana........................... · 33
La persistenza del discorso apologetico ad extra ............................................ 33
I Padri greci: dall'apologia all'interpretazione della fede a partire da se stessa 35
Agostino e La città di Dio .............................................................................. 36

INDICE GENERALE 563


Il. Regole e metodologia della dimostrazione della fede ........................... 39
1. I tre primi secoli prima di Nicea............................................................... 39
La fede cattolica ricevuta dagli apostoli ......................................................... 39
La· regolazione episcopale ............................................................................... 41
Dalla collegialità episcopale ai sinodi locali ................................................... 41
2. Logica e metodo del discorso della fede nel IV secolo in Oriente ............ 42
Il punto di partenza e!'occasione: la contestazione della fede nella Chiesa ...... 43
Primo momento: la confessione ecclesiale della fede ricevuta dalla tradizione
battesimale ........ ..... .. .. .. ... .. ............ .. ... .. .. .. ........... ... .. .. ....... .... ..... .. ...... ........ 44
Secondo momento: l'appello alle Scritture ..................................................... 47
Terzo momento: argomentazione ed elaborazione del linguaggio .................. 50
Quarto momento: emergenza del richiamo ai monumenti della tradizione .. .. . 51
Momento conclusivo: la decisione conaliare ................................................. 52
3. Agostino e i latini: dalle autorità alle ragioni............................................ 53
Un nuovo dibattito culturale sulla ragione .................................................... 53
Primo momento: !'appello alle autorità ........... .............. ............... ................. 54
Secondo momento: l'appello alle ragioni ....................................................... 55
Il giudizio di san Tommaso su Agostino ........................................................ 56
III. IJautorità dogmatica dei concili ............................................................ 57
1. Il concetto di dogma .. ............. ..................... .............................................. 57
2. I concili ecumenici ..................................................................................... 60
Il cammino conciliare ............. ........................ .... .... ....... .... ..... .. .............. ........ 60
!;anatema ....................................................................................................... 62
Dalla recezione di fatto ali'autorità di diritto ................................................ 63
r_:autorità del vescovo di Roma .................. ... .... .. ........... .......................... ...... 64

Capitolo Secondo
ESPOSIZIONE DELLA FEDE E APOLOGIA NEL MEDIOEVO .. .. ............. ... .. .. .. .. .. .. •.. .. 65
I. Le fasi della Scolastica: i problemi e le ragioni ....................................... 67
1. Un nuovo contesto culturale..................................................................... 67
2. Nuove metodologie teologiche................................................................. 69
Dalla lectio alle «sentenze» ....... ................ ......................... ............ ............... 69
La quaestio ......................................................................................... ...... ..... 70
La metodologia della quaestio ...................................................................... 71
La disputatio ............. ...................................................................................... 73
r_: «ordine della dottrina» e le Somme teologiche ........................................... 73
3. Il crescere di una nuova intelligibilità: verso l'avvento della teologia co-
me scienza ......................................................... :............................................. 74
Le «ragioni necessarie» in Anselmo di Canterbury ....................................... 74
!;uso della dialettica nel XII secolo ............................ ,.................................... 76
La teologia come scienza nel XIII secolo ......................................................... 77
Filosofia e teologia ................. ............................................................... ......... 79

564 INDICE GENERALE


4. La regolazione della fede nel Medioevo ................................................... 82
I dogmi e gli articoli della fede ... .. ........ ........... ... .. ... ........... ........ .. .. ............. .. 83
I concetti difede e di eresia ........................................................................... 84
I due «magisteri» ....................................................................................... ;.... 85
Il ricorso alle autorità .. ............ .. ... ... ....... .. .. .. ... ..... .. ... .... ... .. ... .. .. ... .. .. ... ...... ... .. 87
J;autorità dei concili .... ..... ... .. .. ... ..... ... .... ... .. .. ..... ..... ..... .. .. .. .... .... .. .. ... .. .. .. .. .. ... 89
J;autorità dottrinale del papa .. .. ......... ... ... .. .. ...... ....... .... ... .. ... .. .... .. ....... .. .. ..... 92
II. La considerazione di nuovi contenuti dottrinali ... ... ... .. .. .. .. ... .. .. .. .. .... ... 95
1. La conoscenza di Dio .. .. .......... ... .. ... ......... ......... ........ ..... .. ......... ..... .. .. ........ 95
2. La rivelazione ... ....... ... ..... .. ... .. .. ............... .. ................. .. ............ .. ...... .......... 98
3. La teologia della fede ................................................................................. 101

ITI. I.:apologia della fede e il discorso contro gli eretici e i gentili ........... 105
1. I primi lineamenti di una apologia della fede........................................... 106
2. Il Medioevo di fronte ai suoi eretici.......................................................... 109
Le eresie medievali ......................................................................................... 109
I;inquisizione ................................................................................................. 110
Discorsi e censure contro gli eretici ... ... ... ... .. ... .... .. ....... .. ... ... .... .... .. ... ...... .. .... 112
3. I «Gentili» del Medioevo ................... .. .. ...... .... ... .. .. ... .. .. ......... .... ....... .. ..... 113
4. I Giudei e i Musulmani. Le missioni......................................................... 115

Fase Seconda
DA TRENTO AL CONCILIO VATICANO I: UNA NUOVA STAGIONE DELLA TEOLOGIA
DALL'APOLOGETICA ALL'EMERGENZA DEL «MAGISTERO VIVO»
(Bernard Sesboiié)

Capitolo Terzo
SCRITTURE; TRADIZIONI E DOGMI AL CONCILIO DI TRENTO................................. 119
I. La recezione del Simbolo di fede ....... ... ... .. ............ .. .. ......... ..... .... .. .. .. ..... . 119
Il Simbolo «solido e unico fondamento» ................................ .... ................... 120
II. La recezione dei libri santi e delle tradizioni ,........................................ 121
1. La contestàzione della Riforma: il principio scritturistico........................ 121
2. Il decreto Sacrosancta (4a sessione)........................................................... 123
Il Vangelo, unica/onte di verità e di vita ....................................................... 124
I due luoghi di attestazione del Vangelo ........................................................ 126
Loro uguale recezione da parte del concilio ................................................... 128
La Usta dei Libri santi .................................................................................... 132

INDICE GENERALE 565


Riflessioni/inali del concilio ......................................................................... 132
Bilancio .......................................................................................................... 133
3. Il decreto riguardante la Volgata............................................................... 134
III. I concetti dogmatici a Trento .. ....... ... ...... ... ....... .............. ..... ................. 13 5
1. Fede ed eresia............................................................................................. 135
I:intenzione dottrinale del concilio compresa a partire dalle introduzioni
ai decreti ....................................... ..................................... ......................... 13 7
2. Dogmi, «definizioni» e canoni con anatema............................................. 140
Dibattiti rivelatori attorno al progetto di un canone ..................................... 141
Il canone 7 sul matrimonio ........ ~.................................................................. 142
3. «La fede e i costumi» ..... .. .. .. ..... ... ..... ... .. .. .... .. .. ..... .. .. ....... .... ..... ... .... .. ....... . 144
4. L'autorità dogmatica del concilio di Trento.............................................. 145

IV. Melchior Canoe i luoghi teologici ........................................................ 147


1. I dieci <<luoghi teologici» ........................................................................... . 14 7
2. La svolta teologica introdotta da M. Cano ............................................... 153

Capitolo Quarto
DOGMA E TEOLOGIA NEI TEMPI MODERNI.......................................................... 155
I. Il tridentinismo dottrinale nei secoli XVII e XVIII ••••.•..•.•.••••...• ,................ 156
1. Verso l'emergenza del «Magistero vivo»................................................... 157
Il ruolo del magistero romano .... ..... .................................... .. ..... ....... ............ 157
La crescita dell'idea d'infallibilità ................................................................. 159
2. L'interpretazione teologica del concilio di Trento.................................... 163
La teologia controversistica ........................................................................... 164
I:interpretazione magg_iori~ari~ del decreto sulle Scritture e le tradi'zioni ...... 164
Una controco"ente mtnontarta .................................................................... 166
A proposito del canone 7 sul matrimonio ............................... :...................... 167
Una ermeneutica retroattiva ......................................................................... 168
Il. La fede alle prese con la ragione dei lumi ............................................. 168
1. Un nuovo contesto culturale..................................................................... 169
I:autonomia della ragione nel XVII secolo ...................................................... 169
Il XVIII secolo, secolo dei Lumi (Au/kliirunf!) ................................................. 172
La religione entro.i limiti della sola ragione ................ :................................. 173
Dai lumi alla morte di Dio (XIX secolo) ............................... ,......................... 175
2. Scienze teologiche e apologetiche nei tempi moderni ............................ .. 177
«Esegesi» e teologia positiva ......................................................................... 177 ·
I: apologetica dei Pensieri di Pascal................................................................ 178
Genealogia del!'apologetica classica ..... .. .. ..... .......... ... .... ... .. .. ..... ..... ... .. .. .. .. .... 179
I:apologetica romantica ......................................................................... ;......... 181

566 INDICE GENERALE


3. Teologia naturale e rivelazione soprannaturale ........................................ 182
4. La dottrina dell'atto di fede ...................................................................... 184
Tesi lassiste sull'atto di fede ....................................................................... ,.. 184
Il razionalismo d'Hermes ............................................................................... 186
Il fideismo di Bautain ..................................................................................... 188

III. Evoluzione dei concetti dogmatici e nascita del «magistero» moderno


nel XIX secolo .... .. .. ... .. .. .. .. ...... .. .. .. .. .. ... .. ... .. .. .. .. .. .. .. ... .. .... .. .. ... .. ...... .. .. .. .. .. ..... 190
1. Dogma, encicliche e magistero.................................................................. 190
La nuova definizione di «dogma» ................................................................. 191
I:emergere del concetto di «magistero» ..... ........... .. ... .. ........ ... .. ............ ......... 192
La nascita delle encicliche ..................................................................... :........ 193
Dalla tradizione al magistero ......................................................................... 194
2. L'evoluzione della teologia .......................................... ,.............................. 196
Il nuovo statuto della teologia universitaria ....... .. ..... .. .. ...... .......... .. .............. 196
Il successo del Denzinger ................................................................................ 196
L'uso delle note teologiche ............................................................................ 198

Fase Terza
DAL VATICANO I AGLI ANNI 1950: RIVELAZIONE, FEDE E RAGIONE,
ISPIRAZIONE, DOGMA E MAGISTERO INFALLIBILE
(Christoph Theobald)

Capitolo Quinto
LA PROGRESSIVA DOGMATIZZAZIONE DEI FONDAMENTI DELLA FEDE ............ .... .... 203

I. Dal contenuto della fede alla sua forma ............ ....... ......................... ...... 204
1. Dei Lumi insoddisfatti ............................................................................... 205
2. Minaccia ai fondamenti della società uinana ............................................ 208
3. La dogmatizzazione dei fondamenti della fede........................................ 209

II. Il contesto storico diventa «luogo teologieo» ........................................ 211


l.Ilcontestostorico ....................................................................................... 211
2. La storia come genealogia degli errori moderni....................................... 215
3. Coscienza storica e .storia del dogma ........................................................ 217

III. Il Concilio Vaticano I e le sue costituzioni .......................................... 219


1. Convocazione, preparazione e svolgimento.............................................. 220
2. Le due costituzioni del concilio Vaticano I .............................................. 223

INDICE GENERALE 567


3. Le due conclusioni di un concilio incompiuto......................................... 224
4. Dopo il concilio: una serie di crisi ............................................................ 227

Capitolo Sesto
LA COSTITUZIONE DOGMATICA DEI fILIUS DEL CONCILIO VATICANO I ............... 230

I. Il prologo o la genealogia del sistema ..................................................... 230


1. Il «metodo della prowidenza». .. .... .. .. .. ... .... ... .. .. .... ......... .... ... .. .. .. .. ........... 231
2. Il giudizio sulla modernità ..... ;.................................................................. 232
Il prologo della Costituzione "Dei Filius ....... ................. ........... .. ....... .... .... .. . 234
3. La Chiesa «madre e maestra dei popoli».................................................. 236

II. Il capitolo primo: Dio creatore di tutte le cose .... ......................... ........ 23 7
1. L'esistenza e l'essenza di Dio..................................................................... 238
2. La dottrina della creazione........................................................................ 240
3. La dottrina della Prowidenza ............................................................ ~...... 241

m. Il capitolo secondo: la rivelazione .................................. ...................... 242


1. La conoscenza naturale di Dio.................................................................. 244
2. La rivelazione soprannaturale ................................................................... 246
3. La duplice necessità della rivelazione soprannaturale.............................. 247
4. Il luogo della rivelazione: Scrittura e Tradizione...................................... 251
5. L'ispirazione dei libri sacri ........................................................................ 251
6. Dalla Scrittura e dalla Tradizione al Magistero ........................................ 252

IV. Il capitolo terzo: la fede ......................... .... .. .. .. .. ... .. ..... ..... ............ ... ... ... 254
1. La struttura della fede ........................................................... ........... ....... ... 254
Il punto di partenza: la dipendenza dell'uomo da Dio ................................... 254
Una prima definizione della fede .................................................................. 255
La fede: ossequio razionale del!' uomo a Dio ................................................. 258
Le ragioni della credibilità: profezie e mz'racoli .............................................. 259
La fede come opera dello Spirito ................................ ,.................................. 260
2. Il ruolo della Chiesa nell'atto di fede........................................................ 261
La forma dogmatica del contenuto della fede ................................................ 261
I.:obbligo di credere ........................................................................................ 263

V. Il capitolo quarto: la fede e la ragione .... :............................... :............... 268


1. Due ordini di conoscenza.......................................................................... 268
2. Possibilità e limiti della teologia................................................................ 270

568 INDICE GENERALE


3. Nessuna contraddizione possibile tra fede e ragione............................... 271
4. Reciproco aiuto tra fede e ragione ............................................................ 272
5. Verità di fede e dogmi della Chiesa ........................................................ ,.. 273

VI. Recezione e valutazione dogmatica ...................................................... 275

Capitolo Settimo
PRIMA CosmuzIONE DOGMATICA SULLA CHIESA DI CRISTO PASTOR AETERNUS
DEL CONCILIO VATICANO I ················· ... ..... ............. .. ... ... .. ... ... .. ..... ....... ..... .. .... . 277
I. La struttura della Costituzione ................................................................ 278
1. La rilevanza del testo.................................................................................. 278
2. I primi tre capitoli ...................................................................................... 280

Il. Il capitolo IV: il magistero infallibile del romano pontefice .... .. ... .. .. .... 284
1. I quattro punti forti del dibattito .............................................................. 284
2. L'argomento della tradizione..................................................................... 286
3. Infallibilità pontificia e consenso della Chiesa.......................................... 288
4. «Salutare efficacia» e «carisma di verità» ................................................. 292
5. La definizione propriamente detta........................................................... 293
Storia della redazione ................... ..... ............................................................. 294
Il soggetto dell'infallibilità ............................................................................ 295
La finalità dell'infallibilità ............................................................................ 296
I:oggetto dell'infallibilità ........ :...................................................................... 296
I:aggiunta finale ............................................................................................. 298

III. Recezione e valutazione dogmatica ...................................................... 298


1. Il periodo post-conciliare.......................................................................... 299
2. La recezione a lungo termine.................................................................... 300

Capitolo Ottavo
«LA QUESTIONE BIBLICA». DALLA DOTTRINA DELLA PROVIDENTISSIMUS DEUS
ALLA RECEZIONE DELL'ESEGESI STORICO-CRITICA DA PARTE DELLA DIVINO AFFLAN·
TE SPIRITU ...... :................................................................................................. 303

I. La preistoria d~lla «questione biblica» ................................................... 303


1. Ermeneutica generale ed ermeneutica speciale ....................................... 304
2. Il metodo storico ........................................................................................ 305
3. Separazione tra l'esegesi dei due Testamenti............................................ 306

INDICE GENERALE 569


4. L'aspetto teologico-politico dell'esegesi storico-critica ............................ 307
5. Una complessa geografia delle posizioni .................................................. 308

II. Le risoluzioni del magistero romano nel XIX secolo ............................. 309
1. La dottrina biblica dell'enciclica Providentissimus ................................... 309
La prospettiva spirituale ........... ...................................................................... 311
La prospettiva dogmatù:a ............................. ...... .... ......................... .... ............ 312
La prospettiva apologetica .............................................................................. 313
2. L'esegesi tra ermeneutica e teologia biblica.............................................. 316
Il dibattito apologetico ................................................................................... 316
Teologia biblica e questione ermeneutica ...................................................... 318
Il superamento del paradigma liberale .......................................................... 321

IIT. Il magistero romano nella prima metà del xx secolo ........................... 325
1. La dottrina biblica della Spiritus Paraclitus ............................................. . 325
2. L'emergenza del testo e la sua interpretazione teologica.......................... 327
La complessità del senso letterale .................................................................. 327
Dal senso letterale al senso pieno o al senso spirituale .................................. 329
3. La dottrina biblica della Divino afflante Spiritu....................................... 331
Le regole del!' ermeneutica biblica ................................................................. 331
Conclusione .................................................................................................... 334

Capitolo Nono
«CHE COS'È UN DOGMA?». LA CRISI MODERNISTA E LE SUE RIPERCUSSIONI SUL
SISTEMA DOITRINALE DEL CATTOLICESIMO......................................................... 336
I. La storia dei dogmi .................................................................................... 338
1. Adolf von Hamack..................................................................................... 339
2.Joseph Tixeront .......................................................................................... 342
3. Emst Troeltsch ........................................................................................... 345

II. Problemi di teologia fondamentale ................................. ....................... 348


1. Il problema epistemologico....................................................................... 349
2. Rivelazione e dogma ................................................................... ;............... 353
3. La teoria dello sviluppo .............................................................. ~............... 359
4. Che cos'è un dogma..................................................................................... 361

IIT. Gli interventi del magistero romano .................................................... 364


1. Il ritratto del modernista........................................................................... 364
2. A chi si rivolge? .......................................................................................... 367

570 INDICE GENERALE


3. Cultura cattolica e società moderna.......................................................... 368
4. Conclusione................................................................................................ 369

Capitolo Decimo
LA RAGIONE E LA CIVILTÀ. DALLA CANONIZZAZIONE DEL TOMISMO ALL' AFFER-
MAZIONE DEL FONDAMENTO DIVINO DEL DIRITTO .••............•.........••........•.•........ 371

I. L'enciclica Aeterni Patris ......................................................................... 373


1. Il principio.................................................................................................. 374
2. La storia della filosofia e il dottore angelico............................................. 376
3. Valutazione................................................................................................. 377

II. Filosofia cristiana e fondamenti della società ........................................ 380


1. La visione leoniana di un ordine globale.................................................. 380
2. La «questione sociale» e la teologia fondamentale................................... 384
3. La «terza fase» della crisi modernista....................................................... 386

III. Il difficile riconoscimento dottrinale della dimensione profana della


storia .............................................................................................................. 389
1. Presenza .alla storia..................................................................................... 389
2. Cristo Re..................................................................................................... 391
3. Il diritto naturale........................................................................................ 392

Capitolo Undicesimo .
L'ENCICLICA HUMANI GENERIS (1950) O LA FINE DI UN'EPOCA DI DOGMATIZ-
ZAZIONE FONDAMENTALE ........•.•..•..........••••.•.••...•••..••.....•..•.•..•.•.••••.....•..••.•.... :.. 395
I. Il rinnovamento teologico ........................................................................ 395
1. Alcune scuole di teologia .......................................................................... 396
2. In collegamento ad altri rinnovamenti...................................................... 399
3. Alcune misure disciplinari ........................................................................ 400

II. L'enciclica .Humani generis .... ................ ....... ............... ..... .. .... ... ........ ... .. 401
1. La struttura del sistema.............................................................................. 402
2. Il ruolo del magist~ro ................................................................................. 405
3. Questioni particolari................................................................................... 408
4. Valutazione................................................................................................. 409
5. Transizione: fine e inizio............................................................................ 410

INDICE GENERALE 571


Fase Quarta
IL CONCILIO VATICANO Il E LE SUE CONSEGUENZE
(Bernard Sesboiié e Christoph Theobald)

Capitolo Dodicesimo
IL CONCILIO E LA «FORMA PASTORALE» DELLA DOTIRINA (Christoph Theobald) 415

I. L'apertura ................................................................................................... 418


1. Un nuovo spirito........................................................................................ 419
2. La dottrina cristiana................................................................................... 419
3. L'unità di tutti i cristiani e della famiglia umana ...................................... 422

II. I quattro periodi del concilio ................................................................. 423


1. Il primo periodo (11 ottobre - 8 dicembre 1962) ..................................... 423
2. La gestione del concilio da parte di Paolo VI........................................... 425
3. Gli ultimi tre periodi del concilio ............................... .............................. · 427

III. La struttura policentrica del corpo conciliare ...................................... 429


1. La struttura progressiva del corpus........................................................... 430
2. Alcuni problemi di interpretazione .......................................................... 432
Il corpus testuale del Vaticano II................................................................... 435

IV. L'asse fondamentale ................................................................................ 436


1. «Gerarchia delle verità>> e «proclamazione appropriata della parola ri-
velata» ........ :.................................................................................................... 436
2. Un magistero a carattere soprattutto pastorale ....................... ......... ......... 440
3. La relazione della Chiesa con gli altri e la sua concezione dell'uomo...... 446

Capitolo Tredicesimo
LA COMUNICAZIONE DELLA PAROLA DI Dio: DEI VERBUM (Bernard Sesboiié). 449
La storia della redazione del testo ............................ ..................................... 449
I. La rivelazione in se stessa (cap. I) .......................................................... 453
1. Il Proemio (n. 1) .. ...... .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .... ... .. .. .. ... .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. ... .. .. 45 3
2. La rivelazione: Dio conversa con i suoi amici (n. 2) ................................. 455
3. La rivelazione è una lunga storia (n. 3) ........ '. .. ,......................................... 457
4. La rivelazione compiuta nel Cristo (n. 4) ................................................. 460
5. La fede, risposta dell'uomo alla rivelazione (n. 5) ...... ;............................. 463
6. Un ritorno al Vaticano I (n. 6) .................................................................. 465
7. Conclusione ........................................ ,....................................................... 466

572 INDICE GENERALE


II. La trasmissione della divina rivelazione (cap. VIII) ............................. 467
1. Gli apostoli e i loro successori, araldi del Vangelo (n. 7) ......................... 468
2. La santa Tradizione (n. 8) ...................,...................................................... 471
3. Il mutuo rapporto della Tradizione e della Scrittura (n. 9) .................. :... 473
4. La relazione della Scrittura e della Tradizione con la Chiesa e il Magi-
stero (n. 10) .................................................................................................... 475

III. La Sacra Scrittura, attestazione della rivelazione (capp. III-VI) ........ 476
1. Dall'ispirazione all'interpretazione della Scrittura (cap. III) ................... 477
L'ispirazione della Scrittura (n. 11) ............................................................... 477 ·
La «verità» delle Scritture .... .. ..... .. ... ... ..................... ............. .... ....... .............. 478
!.:interpretazione della Scrittura (n. 12) ......................................................... 479
La condiscendenza divina (n. 13) .................................................................. 480
2. La dottrina cristiana dell'Antico Testamento (cap. IV) ............................ 481
Dall'economia della salvezza ai libri (n. 14) .................................................. 481
La preparazione della venuta del Cristo (n. 15) ............................................. 481
!.:Antico e il Nuovo Testamento (n. 16) ........................................................ 482
3. La dottrina del Nuovo Testamento (cap. V)............................................. 482
I.: evento di rivelazione compiuto in Gesù Cristo (n. 17) ............................... 483
I.:apostolicità dei quattro vangeli (n. 18) ....................,.................................. 483
La storicità di un genere letterario kerigmatico (n. 19) ................................. 484
4. La Scrittura nella vita della Chiesa (cap. VI) ............................................ 485
Le due tavole del pane: la Parola e l'Eucarestia (n. 21) ................................. 486
I.:accesso alle Scritture: le traduzioni (n. 22) ................................................. 487
Il ruolo degli esegeti e dei teologi (nn. 23-24) ............................................... 487
La Scrittura nel ministero della Parola (nn. 25-26) ....................................... 488
5. Una recezione in corso............................................................................... 489

Capitolo Quattordicesimo
LA CHIESA CATTOLICA E «GLI ALTRl». LA LIBERTÀ RELIGIOSA E LE RELIGIONI
NON CRISTIANE (Bernard Sesboiié) ................................ ................................. 492
I. La dichiarazione Dignitatis humanae sulla libertà religiosa .................. 493
1. Le tappe della redazione........................................................................... 494
Dal documento di Friburgo alla prima redazione conciliare .......................... 494
La seconda e 4z terza redazione conciliare ..................................................... 497
Le ultime tre redazioni .......................................................................... ,....... : 499
2. La ricerca dell'.argomento decisivo ........................................................... 500
3. «Aspetti generali della libertà religiosa»................................................... 501
La vera religion~ «sussiste» nella religione cattolica ..................................... 502
Natura della libertà religiosa: una doppia immunità ................ ..................... 502

INDICE GENERALE 573


L'argomento della verità ................................................................................. 503
I.:argomento della legge divina ...................................................................... 504
I.:argomento politico ... .. .. .. .. ... .. ........ .... ......... ........... ..... .... .. ......... ................... 505
4. «La libertà religiosa alla luce della rivelazione» ....................................... 506
I dati della Scrittura e della teologia .............................................................. 506
La libertà dell'atto difede .............................................................................. 506
Il modo di agire del Cristo e degli apostoli .................................................... 507
La testimonianza e la libertà della Chiesa ............. .............. ............. ............. 508
3. Le conseguenze della Dichiarazione......................................................... 509

Il. La dichiarazione Nostra Aetate sulle religioni non cristiane ................ 510
1. La genesi del documento .......................................................................... 511
Dall'ebraismo all'insieme delle religioni non cristiane .................................. 512
Verso un linguaggio strettamente controllato. Gli schemi Il-IV .................... 514
2. Le importanti affermazioni della Dichiarazione....................................... 517
I.:unica comunità umana (n. 1) .................................................................... - 517
Le religioni nelmondo (n. 2) ........................................................................ 518
La religione musulmana (n. J) ...................................................................... 520
La religione ebraica (n. 4) ................................................ ,............................. 521
3. Le conseguenze della Dichiarazione......................................................... 525
Un'attitudine di conversione ......................................................................... 525
Le conseguenze della Dichiarazione ............... ............................................... 526

Capitolo Quindicesimo
IL VATICANO II E LA PROVA DELLA «RECEZIONF» .............................................. 528

I. I tempi della recezione .............................................................................. 530


1. <<Recezione kerigmatica» e «recezione pratica»........................................ 530
2. Tentativo di definizione e di periodizzazione........................................... 533

II. Problemi di teologia fondamentale ........................................................ 535


1. La dichiarazione Mysterium Ecclesiae (1973) ........................................... 535
2. La «professione di fede» (1989) e la «Vocazione ecclesiale del teolo-
go» (1990) ........................................................................................................ 538
3. Conclusione................................................................................................ 542

CONCLUSIONE GENERALE (Bernard Sesboiié) .................................................. 545


Bibliografia generale ....... ......................... ................................. .. ................... 549
Indice dei temi principali ................................................................................ 551
Indice degli autori .................... :..................................................................... 553

57 4 INDICE GENERALE

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