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Aleksandr Romanovitch Lurija.

UNA MEMORIA PRODIGIOSA.

A cura di Luciano Mecacci.


Titolo originale: "Malenkaja knigika o bolshoj pamjati (Um mnemonista)".
Traduzione di Agostino Villa.
Copyright 1975 by Editori Riuniti, Roma.

Indice.

Prefazione.
Note.
Nota bio-bibliografica.

Premessa.
Introduzione.

L'inizio.
La sua memoria.
Note.

Il suo mondo.
La sua mente.
La sua volontà.
La sua personalità.
Uno sguardo al futuro.

Appendice.

Nuovi contributi al concetto di «memoria» in psicologia, biologia e


patologia.
I disturbi della memoria nelle lesioni cerebrali localizzate.

Bibliografia.

Note.

Prefazione.

Nell'ultimo decennio Lurija ha dimostrato un interesse sempre più


specifico per i problemi della memoria. Oltre che da questo libro del
1968, che pur basandosi su un materiale raccolto fin dagli anni '20 fu
preannunciato solo nel 1960, in un articolo apparso su "Voprosy
psichologii", questo interesse è documentato dagli articoli pubblicati
direttamente in occidente nella rivista inglese "Neuropsychologia". E'
imminente infine la pubblicazione di due volumi sulla "Neuropsicologia
della memoria" (1) che rappresenteranno la sintesi delle ricerche di
Lurija sul complesso problema dei disturbi mnestici nelle lesioni
cerebrali, sintesi della quale è stato dato un breve e lucido riassunto
nell'articolo apparso nel numero del dicembre 1971 della sopracitata
rivista e da noi riportata in appendice al presente volume, insieme a una
rassegna sui problemi della memoria pubblicata di recente dalla rivista
"Voprosy psichologii".
Lurija è forse il più noto, in occidente, degli psicologi sovietici
contemporanei. Nessun altro dei suoi colleghi infatti ha visto così
numerose traduzioni delle sue opere; d'altra parte nessun altro ha
scritto così tanto, e nei settori più vari della psicologia, sempre con
una incisiva influenza sulla ricerca successiva, come Lurija. La memoria,
infatti, non rappresenta oggi che l'ultimo elemento di una serie di
ricerche di psicologia il cui inizio risale oramai a cinquanta anni fa.
Dagli studi del 1923-26 sulla psicoanalisi a quelli del decennio 1920-
1930 sui rapporti tra ambiente sociale e sviluppo intellettuale infantile
(ricerche condotte in collaborazione con Vygotskij) e sulla
disorganizzazione «dinamico-oggettiva» del comportamento negli stati
emotivi e nelle nevrosi ("La natura dei conflitti umani", 1932); dalle
ricerche sui rapporti tra lesioni cerebrali e processi psicologici
("Afasia traumatica", 1947 e "La riabilitazione delle funzioni cerebrali
dopo i traumi di guerra", 1948) a quelle sulla funzione che il linguaggio
ha nella regolazione del comportamento ("Il linguaggio e lo sviluppo
psicologico infantile", 1956 e "La funzione regolativa del linguaggio nel
comportamento normale ed anormale", 1961); dai lavori di sintesi sulle
funzioni superiori della corteccia cerebrale ("Le funzioni corticali
superiori nell'uomo", 1962 e "Il cervello umano e i processi
psicologici", 1963 e 1970) fino ai citati studi sulla memoria, Lurija ha
tuttavia dimostrato una costante coerenza teorica che dà alla sua opera
una precisa caratterizzazione nel quadro della psicologia contemporanea
(2).
Recentemente, in una conversazione con lo specialista statunitense di
psicologia sovietica Michael Cole (3), Lurija ha riconosciuto in
Vygotskij la «figura decisiva dello sviluppo della psicologia sovietica».
«Quando Vygotskij - dice Lurija - comparve sulla scena, la psicologia
mondiale era in uno stato di crisi. La psicologia era divisa in due campi
separati. Da una parte, c'erano le ricerche di Pavlov e di Bechterev sui
meccanismi fisiologici sottostanti il comportamento. Queste ricerche non
fornivano, tuttavia, un metodo adeguato per l'analisi delle forme più
complesse dell'attività mentale cosciente dell'uomo, come il pensiero
astratto, il ricordo volontario e l'attenzione. Quest'area,
precedentemente, era stata lasciata ai filosofi idealisti e alle loro
analisi soggettivistiche. I giovani psicologi sovietici desideravano
avere come proprio tema di indagine le forme complesse dell'attività
cosciente dell'uomo, ma volevano studiarle in modo oggettivo e dare una
spiegazione scientifica dello sviluppo e delle leggi delle forme
superiori dell'attività mentale. Fu Vygotskij che fornì una soluzione
teorica al problema. Accettò l'idea che anche i più complessi processi
psicologici sono basati sulle combinazioni di riflessi elementari, ma si
rese conto che il tentativo di ridurre l'attività mentale ad un sistema
di riflessi era un modo sbagliato di procedere... le speciali
combinazioni rappresentate nell'uomo acquistano nuove proprietà. Qui
Vygotskij fece un passo decisivo che corrisponde alle idee di Marx.
Affermò che l'essenza dell'uomo, la sua coscienza, si sviluppa quale
risultato delle esperienze sociali degli uomini, della loro interazione
reciproca e del loro patrimonio culturale.»
La neuropsicologia, intesa in senso stretto - e specifico della scuola
sovietica - come la disciplina che studia i processi psicologici nella
loro correlazione con gli stati patologici del cervello, è il tipo di
indagine che ha permesso una tale collaborazione tra le ricerche di
neuropatologia e quelle sui processi psicologici, come il linguaggio, cui
si dedicò la scuola «storico culturale» iniziata da Vygotskij. Per Lurija
la sintesi completa dei dati della fisiologia e della psicologia
costituisce la meta della ricerca futura: «Credo che nel futuro - dice
ancora Lurija nella citata conversazione - la psicologia ci apparirà del
tutto diversa. Insieme ad una descrizione della struttura funzionale dei
processi psicologici, conosceremo la struttura dei processi fisiologici
sottostanti. I manuali prenderanno nota di un genere completamente
diverso di psicologia concentrata sulla descrizione della struttura
interna e delle basi fisiologiche delle attività psicologiche».
Oltre allo sviluppo di questa sintesi teorica elaborata con una ricerca
dalla impostazione prevalentemente neuropsicologica (fondamentali i suoi
studi sull'afasia traumatica e sui rapporti tra le funzioni dei lobi
frontali, le loro lesioni ed i processi psicologici) Lurija si è
distinto, nell'ambito della psicologia sovietica, per un'altra
caratteristica non affatto trascurabile. Mentre lo sviluppo degli
indirizzi fisiologici, rappresentati in particolare dalla scuola di
Pavlov e dalla «scuola di fisiologia di Leningrado» (Secenov (Satchenov)
Vedenskij, Uchtomskij) ha portato nell'ultimo decennio ad un
avvicinamento alle teorie modellistiche occidentali di tipo cibernetico
(si vedano i lavori più recenti di Anochin, Bernstejn, e Sokolov (4)),
Lurija è rimasto aderente, nello studio dei rapporti tra processi
psicologici e processi cerebrali, ad una impostazione clinica. Secondo
questa, tali rapporti possono essere studiati solo in un diretto e
costante confronto con l'uomo, sia fisiologicamente normale che anormale,
dando largo spazio ad un'analisi individuale prolungata nel tempo, con
scarsa accettazione di criteri di valutazione prevalentemente statistici
e di un atteggiamento di conseguente e facile generalizzazione. Il
concetto stesso di sistema cerebrale funzionale (5), di localizzazione
dinamica delle funzioni cerebrali (6), eccetera, rappresentano, d'altra
parte, la migliore prova teorica di un'interpretazione plastica dei
rapporti tra processi cerebrali e processi psicologici tale da
distogliere dalla pretesa di costruire un modello fisiologico esplicativo
del comportamento valido per ogni individuo, al di là del tempo e dello
spazio.
Le origini di questa impostazione sono da ricercarsi sia nella concezione
pavloviana delle differenze fisiologiche individuali, tema che ha
caratterizzato buona parte delle ricerche psicofisiologiche sovietiche
(7), sia nei concetti di individuo e di coscienza individuale e sociale,
sui quali ha insistito negli anni '20 il gruppo di psicologi
rappresentato soprattutto da Vygotskij, Leontjev e Lurija.
Il presente libro di Lurija è senz'altro il documento più esemplificativo
dell'interesse per l'individuo nel complesso delle sue caratteristiche
fisiologiche e psicologiche, che ancora oggi distingue la psicologia
sovietica. Dallo studio di una memoria eccezionale si passa alla intera
ricostruzione della personalità di un uomo analizzato giorno per giorno,
nelle ambizioni e nei conflitti che tale straordinaria qualità gli
procurava. Questa ricostruzione viene operata, tuttavia, alla luce di una
precisa indagine sperimentale alla cui oggettività e al cui rigore nulla
toglie l'atteggiamento partecipe ed umano che Lurija ha verso il suo
soggetto (8).
Dal testo di Lurija ricaviamo quindi più una lezione di metodo che una
teoria definitiva della memoria, ma questa lezione oggi ci pare la più
opportuna nell'ambito non solo degli studi sulla memoria, ma dell'intera
ricerca psicologica.
Luciano Mecacci.

NOTE.

Nota 1: Rispettivamente dedicati, il primo, ai problemi generali e


teorici, il secondo, all'analisi di casi clinici.
Nota 2: Lurija stesso ha scritto di recente due sintesi storico-critiche
della propria attività scientifica, le quali saranno pubblicate
prossimamente. Si tratta di due articoli di notevole interesse perché
Lurija ripercorre lo sviluppo delle proprie ricerche nel quadro della
storia complessa e multiforme della psicologia sovietica. Uno di questi è
compreso nell'antologia di A. R. Lurija, "Neuropsicologia e
neurolinguistica", in preparazione presso gli Editori Riuniti.
Nota 3: "P. K. Anochin, A. R. Lurija A. N. Leontjev, "Three giants of
Soviet psychology. Conversations and sketches by M. and S. Cole", in
"Psycology To-day", March 1971, pag. 43 segg.
Nota 4: Confronta anche P. M. A. RABBITT, "Some statistical and
cybernetic models in recent Soviet psychology", in M. O'Connor (Ed.),
"Present-day Russian psychology", Oxford, Pergamon Press, 1966, pagine
63-91.0
Nota 5: Confronta A. N. LEONTJEV, "I principi dello sviluppo mentale ed
il problema del ritardo mentale", in "Psicologia e pedagogia", a cura di
M. Cecchini, Roma, Editori Riuniti, 1969, pag. 79 sgg.
Nota 6: Confronta A. R. LURIJA, "Le funzioni corticali superiori
nell'uomo", Firenze, Giunti, 1967.
Nota 7: Le ricerche sulle differenze fisiologiche individuali furono, da
Pavlov condotte soprattutto sui cani. Cani oramai famosi come il
«sanguigno» Atlas, i «flegmatici» Golovan e Zolotisty, o Postrel «un cane
dai nervi di un eroe», furono definiti tali dopo essere stati studiati
ciascuno per diversi anni sulla base delle teorie pavloviane. La
psicofisiologia differenziale, animale e umana, è stata elaborata
teoricamente da B. M. Teplov, la cui scuola è tuttora attiva in questa
direzione di ricerche con i contributi di V. D. Nebylitsin e
collaboratori.
Nota 8: Lurija ha recentemente dato un altro esempio di indagine clinica
prolungata in un libro dedicato ad un uomo affetto da una lesione allo
emisfero sinistro e da lui curato per più di venti anni ("Un mondo
perduto e ritrovato", Mosca, 1971, in corso di pubblicazione presso gli
Editori Riuniti). Di Lurija gli Editori Riuniti hanno pubblicato il
saggio sulla funzione regolativa del linguaggio e il comportamento
normale e anormale con il titolo "Linguaggio e comportamento", Roma,
1971.

Nota bibliografica.
Aleksandr Romanovitch Lurija è nato a Kazan nel 1902. Laureatosi alla
Facoltà di scienze sociali nell'università di Kazan, dal 1923 cominciò a
lavorare nell'Istituto di psicologia sperimentale di Mosca. Nel 1937 si
laureò in medicina all'università di Mosca, dove attualmente dirige il
Laboratorio di neuropsicologia dell'Istituto Burdenko di neurochirurgia
ed è professore al Dipartimento di psicologia.
La bibliografia di Lurija è vastissima; le opere citate nella prefazione
non sono che le più note. L'elenco dei volumi tradotti nelle lingue
occidentali si trova in L. Mecacci. "Western literature on Soviet
psychology: a selected bibliography", in "Conditional Reflex" (in corso
di stampa). In lingua italiana è stato tradotto: "Le funzioni corticali
superiori nell'uomo", Firenze, Giunti, 1967; "Il ruolo del linguaggio
nella formazione di connessioni temporali e la regolazione del
comportamento nei bambini normali e oligofrenici", in "Psicologia e
pedagogia", a cura di M. Cecchini, Roma, Editori Riuniti, 1969,
"L'organizzazione funzionale cerebrale", in "Le scienze", 1970, n. 22;
"Linguaggio e comportamento", Roma, Editori Riuniti, 1971.

"... Venuto è il tempo - disse il tricheco - di raccontare tante e tante


cose... Come c'è un lago dove l'acqua bolle, come può darsi che un bue
voli in aria..."
(L. Carroll, "Through the looking-glass").

"... In compagnia della piccola Alice, noi passeremo oltre la fredda


faccia dello specchio, e ci ritroveremo nel paese delle meraviglie, dove
tutto è così noto e così prossimo a noi e, nello stesso tempo, così
strano e inconsueto..."

Premessa.

Questa estate l'ho passata lontano dalla città. Dalle finestre spalancate
arrivava il fruscio degli alberi e l'odore dei campi, sul mio tavolo
stavano sparsi appunti ingialliti: e io mi sono trovato a scrivere un
piccolo libro su uno strano individuo, musicista e giornalista mancato,
che era divenuto un mnemonista, era entrato in rapporto con molte
personalità della cultura e, fino alla fine della vita, era rimasto una
specie d'uomo incompiuto, sempre in attesa che qualcosa di bello gli
avvenisse. Molte cose egli ha insegnato a me e ai miei amici, ed è quindi
giusto che questo piccolo libro sia dedicato alla sua memoria.
Estate 1965.
A. R. Lurija.

Introduzione.

Questo piccolo libro su una grande memoria ha una storia assai lunga. Per
la durata di quasi trent'anni l'autore ha avuto modo di osservare
sistematicamente un uomo, la cui memoria eccezionale era da annoverarsi
tra le più forti che siano note alla letteratura sull'argomento.
Molto è il materiale che, nel corso di questo periodo, è venuto a
raccogliersi, tanto da permettere non solo lo studio delle forme e dei
procedimenti principali di tale memoria, che praticamente non aveva
limiti, ma anche di descrivere, in base alle osservazioni da noi
condotte, le caratteristiche salienti della personalità di quell'uomo
singolare.
A differenza di altri psicologi, che si sono dedicati a indagini su
persone dotate di una memoria eccezionale, l'autore non si è limitato
alla misurazione della estensione e della durabilità di quest'ultima, o
alla descrizione dei procedimenti che il soggetto delle sue esperienze
usava per la rievocazione e la riproduzione del materiale. Assai più
interessanti gli sono apparsi altri problemi. Quali riflessi ha una
memoria eccezionale su tutti gli aspetti principali della personalità
umana, cioè sul pensiero, sull'immaginazione, sul comportamento? Quali
alterazioni può subire il mondo intimo d'un uomo, il suo rapporto con gli
altri, il suo stile di vita, se uno solo dei lati della sua attività
psichica - la memoria - ha uno sviluppo abnorme, e quindi introduce un
mutamento in tutti gli altri lati dell'attività psichica?
Un approccio di questo genere all'indagine dei fenomeni psichici non è
cosa frequente nella scienza psicologica, che più spesso si occupa delle
peculiarità della sensazione e della percezione, dell'attenzione e della
memoria, del pensiero e dell'emozione, e solo raramente prende in esame
il problema della dipendenza di tutta la struttura psichica d'un
individuo da uno dei lati dell'attività psichica.
E' un genere di approccio, però, che ha la sua storia. Esso è stato
adottato universalmente in medicina, dove il clinico perspicace non
limita mai il suo interesse al sintomo, oggetto della sua indagine, ma
sempre si sforza di comprendere in che modo il disturbo d'un particolare
processo si ripercuota sul decorso di tutti gli altri processi
dell'organismo, e in che modo le alterazioni di tali processi (che in
ultima analisi hanno un'unica radice) conducano ad un'alterazione
dell'intero organismo, e all'insorgenza d'un quadro "morboso globale", di
quella cioè che in medicina si chiama una "sindrome".
Lo studio d'una sindrome include sia la conversazione col paziente, sia
una serie di speciali procedimenti sperimentali, a volte psicologici, a
volte fisiologici: non deve, insomma, limitarsi all'osservazione clinica
delle circostanze morbose. E altrettanto degne d'essere indagate sono le
alterazioni che l'abnorme sviluppo d'uno degli aspetti dell'attività
psichica ha l'effetto di produrre sull'intera struttura della vita
psichica, su tutta la personalità. Anche noi, in casi simili, ci
troveremo a che fare con delle "sindromi", alla base delle quali c'è un
unico fattore; solo che non saranno, le nostre, sindromi cliniche, ma
psicologiche. E' appunto dell'insorgenza d'una di tali sindromi - una
sindrome prodotta da una eccezionale memoria - che noi ci occuperemo nel
presente studio. L'autore spera che gli psicologi, quando lo avranno
letto, si sforzeranno di scoprire e descrivere altre sindromi
psicologiche, e d'indagare quali caratteristiche si determinino
nell'individuo in seguito all'abnorme sviluppo della sensibilità o
dell'immaginazione, della facoltà d'osservazione o del pensiero astratto,
della volontà di potenza o della soggezione a una sola idea. Sarebbe,
questo, l'inizio d'una psicologia concreta che non verrebbe a perdere
nulla del suo carattere scientifico.
Il fatto che un simile tipo d'indagine prenda le mosse dall'analisi d'una
memoria eccezionale, e dalla parte da essa esercitata nella formazione
della vita psichica d'un individuo, non è senza vantaggi.
In quest'ultimi anni, infatti, lo studio della memoria, che per lungo
tempo era rimasto stagnante, è tornato a trovarsi al centro di animate
ricerche e di frenetici sviluppi. Questo progresso è dovuto allo sviluppo
d'un nuovo ramo della tecnica: quello dei calcolatori e ad un nuovo
settore della scienza: la bionica, che ci ha costretto a considerare con
attenzione tutti i fenomeni riguardanti il funzionamento della nostra
memoria, e ad approfondire lo studio dei processi soggiacenti alla
«registrazione» del materiale recepito e alla «lettura» delle tracce.
Questo progresso è legato, altresì, alle ultime acquisizioni scientifiche
sul cervello, sulla sua struttura, fisiologica e biochimica.
Tutti questi campi non saranno da noi trattati nel presente studio allo
stesso modo che non sarà neppure trattata tutta la ricca letteratura
sull'argomento. Il nostro è un piccolo libro dedicato "a un solo"
individuo, il quale si trova in possesso d'una memoria, di tipo sensorio-
visivo, eccezionale per il suo sviluppo: questo ipersviluppo determina
nella sua personalità delle caratteristiche straordinarie. L'autore
cercherà di dare una descrizione quanto più possibile completa delle
peculiarità da lui osservate in quest'uomo nel corso d'un lungo periodo
di tempo; e non oltrepasserà, nel suo studio, i limiti di quanto gli è
stato fornito dalle osservazioni fatte intorno a un tale notevolissimo
"experimentum naturae".

L'inizio.

L'inizio di questa storia risale agli anni '20 di questo secolo.


Nel laboratorio dell'autore - che era ancora, a quei tempi, un giovane
psicologo - si presentò un individuo chiedendo un controllo della sua
memoria.
L'individuo (lo chiameremo S.) era reporter d'un giornale, e appunto al
redattore capo di quel giornale si doveva l'iniziativa della sua venuta
al laboratorio.
Ogni mattina, il redattore distribuiva gl'incarichi ai suoi
collaboratori: comunicava loro la lista dei luoghi in cui dovevano
recarsi, e segnalava le informazioni che con precisione essi dovevano
procurarsi in ciascuno di quelli. S. era uno dei tanti collaboratori che
avevano di questi incarichi. La lista degli indirizzi e delle commissioni
era abbastanza lunga: e il redattore, con meraviglia, notò che S. non ne
prendeva nessun appunto scritto. E stava già per fare una reprimenda al
negligente subordinato, quando, a sua richiesta, S. gli ripeté
esattamente tutto ciò di cui aveva avuto l'incarico. Il redattore,
allora, cercò di appurare meglio la cosa, e cominciò a far domande a S.
sulla sua memoria; senonché, quest'ultimo si dimostrò semplicemente
stupito: era dunque tanto singolare che egli si ricordasse di tutto ciò
che gli era stato detto? Dunque gli altri non facevano lo stesso? Che
egli fosse dotato di speciali capacità di memoria, tali da differenziarlo
da tutti, era un fatto di cui non si era mai accorto.
Il redattore lo aveva dunque indirizzato a un laboratorio, dove la sua
memoria potesse venir presa in esame: ed eccolo, ora, seduto di fronte a
me.
Aveva, a quell'epoca, un po' meno di trent'anni. Suo padre era
proprietario d'una libreria; la madre, sebbene non avesse seguito corsi
di studio, aveva letto molto, ed era una donna colta. Fratelli e sorelle,
che egli aveva numerosi, erano tutte persone normali, equilibrate,
qualcuna particolarmente dotata; nessun caso di malattia mentale in
famiglia. Dal canto suo, S. era cresciuto in un piccolo paese, e aveva
fatto la scuola primaria; poi, aveva rivelato un'inclinazione per la
musica, e si era iscritto ad un conservatorio, con l'intenzione di
diventare un violinista; ma, dopo una malattia dell'orecchio, l'udito gli
si era abbassato, e si era reso conto che ben difficilmente sarebbe
entrato con successo nella carriera di musicista. Per un certo tempo era
rimasto così, in attesa di dedicarsi a qualche altra attività: ed ecco
che il caso lo aveva condotto a impiegarsi in un giornale, in qualità di
reporter. Non aveva, egli, una chiara prospettiva di vita: i suoi
progetti erano piuttosto indefiniti. L'impressione che faceva sugli altri
era, del resto, quella d'un uomo un po' tardo, a volte perfino timido e
impacciato, nel quale ogni incarico destasse grande perplessità e
preoccupazione. Come si è detto, egli non scorgeva in se stesso niente di
particolare, e non si figurava neppure che la sua memoria si distinguesse
in qualche modo da quella di quanti lo circondavano. Non fu senza
sconcerto che mi riferì la richiesta del suo redattore; appariva pieno di
curiosità per i risultati dell'esame, sempre se fosse stato possibile
eseguirlo. Così ebbe inizio la nostra conoscenza, che doveva protrarsi
per quasi trent'anni: trent'anni di esperimenti, di conversazioni e di
corrispondenza.
All'esame di S. io mi accinsi con l'interesse abituale dello psicologo,
ma senza molta speranza che, dagli esperimenti, potesse risultare
qualcosa di notevole.
Tuttavia, già le prime prove mutarono il mio atteggiamento, e diedero
luogo a un turbamento e ad una perplessità, che stavolta non erano a
carico del soggetto in esame, ma dello sperimentatore.
Proposi a S. una serie di parole, poi di numeri, poi di lettere
dell'alfabeto che lentamente gli venivo leggendo o via via gli presentavo
per iscritto. Egli, attentamente, ascoltava l'elenco o lo leggeva, e poi,
nell'ordine esatto, ripeteva tutto il materiale propostogli.
Aumentai, allora, il numero degli elementi da sottoporgli fino a 30, 50,
70 parole o cifre: e neanche questo produceva difficoltà di sorta. S. non
aveva bisogno di nessun accorgimento mnemonico: mentre io gli presentavo
quegli elenchi di parole o di cifre, lui si limitava ad ascoltarle con
attenzione, rivolgendomi a volte la preghiera di soffermarmi o di
pronunciare più chiara la parola, o a volte, nel dubbio di non averla ben
distinta, a conferma me la replicava. Di solito, nel corso della prova,
teneva gli occhi socchiusi, o guardava fisso in un punto. A prova finita,
chiedeva di fare una pausa, controllava mentalmente quanto aveva
ritenuto, e poi, correntemente, senza esitazioni, ripeteva tutto
l'elenco.
Le esperienze dimostrarono che, con la stessa facilità gli era possibile
ripetere quei lunghi elenchi anche all'inverso, dalla fine al principio:
era in grado di dire senza difficoltà quale parola seguisse o precedesse,
nella fila, un'altra qualsiasi che gli si nominava. In tali casi, faceva
una pausa, come se cercasse di trovare la parola che ci voleva: quindi,
agevolmente, rispondeva alla domanda, senza commettere per solito errori.
Non aveva importanza per lui se le parole proposte fossero sensate o
senza senso, se si trattasse di cifre o suoni, se gli si presentassero in
forma orale o scritta: gli occorreva soltanto, che un elemento
dell'elenco fosse separato dall'altro da una pausa di due tre secondi, e
allora tutta la successiva ripetizione dell'elenco non trovava in lui la
minima difficoltà.
Ben presto lo sperimentatore fu preso da una sensazione che confinava con
lo smarrimento. Un aumento della lunghezza degli elenchi non procurava a
S. nessun percettibile accrescimento di difficoltà, cosicché si era
costretti a riconoscere che l'estensione della sua memoria non aveva
limiti precisi. Lo sperimentatore ne risultava impotente proprio (si
sarebbe detto) nel più semplice compito d'uno psicologo: la misurazione
dell'estensione della memoria. Convocai S. a un secondo, poi a un terzo
incontro. A questi, ne seguirono ancora moltissimi altri, separati tra
loro, alcuni da giorni o da settimane, alcuni da anni.
Da questi incontri la posizione dello sperimentatore riuscì sempre più
complicata.
Risultò che la memoria di S. non aveva limiti precisi, non solo quanto a
estensione, ma neppure quanto alla durata di ritenzione delle impronte
ricevute. Le esperienze dimostrarono che egli poteva con successo - e
senza sensibile fatica - ripetere qualsiasi lungo elenco di parole che
gli si fosse proposto una settimana, un mese, un anno, molti anni prima.
Alcune di tali esperienze, invariabilmente coronate da successo, furono
condotte perfino quindici e sedici anni (!) dopo la prima volta che
l'elenco era stato da lui mandato a memoria, e al di fuori di qualunque
preavviso. In casi simili, S. si sedeva, socchiudeva gli occhi, faceva
una pausa, e quindi diceva: «Sì sì... è stato in casa vostra, in
quell'appartamento... voi stavate seduto al tavolo, e io su una sedia a
dondolo... voi eravate vestito di grigio, e mi guardavate così... ecco...
vedo benissimo che mi dicevate..» e qui seguiva, senza errori, la
ripetizione dell'elenco recitato quella volta.
Se si considera che, in questo frattempo, S. era divenuto un famoso
mnemonista, e doveva tenere a mente molte centinaia e migliaia di
elenchi, il fatto apparirà più straordinario che mai.
Da tutto questo io mi trovai costretto a mutare indirizzo, e a dedicarmi
non tanto a esperienze di misurazione di quella memoria, quanto piuttosto
a tentativi di darne un analisi qualitativa, di descriverne la struttura
psicologica.
In un secondo tempo, a questa prospettiva se ne aggiunse un'altra (a cui
già si è accennato sopra): quella d'indagare attentamente le
caratteristiche dei processi psichici in questo fenomeno di mnemotecnica.
Sono queste, per l'appunto, le due mete verso le quali si è orientata
tutta l'ulteriore ricerca, dei cui risultati ora che sono trascorsi molti
anni - tenterò di dare una esposizione sistematica.

La sua memoria.

Lo studio della memoria di S. ebbe inizio nel 1925, quando egli svolgeva
il suo lavoro di giornalista. Si è protratto poi per molti anni, mentre,
tralasciate varie professioni, egli si era tutto consacrato alla
mnemotecnica, esibendosi in pubblico.
Durante questo lasso di tempo, i processi mnestici di S., pur conservando
la loro struttura iniziale, vennero ad arricchirsi di nuovi metodi, e
divennero psicologicamente diversi.
Noi prenderemo in esame le caratteristiche della sua memoria nelle tappe
successive.

Dati iniziali

In tutto il corso delle nostre indagini, la memoria ha conservato in S.


un carattere di "immediatezza", e i suo meccanismi si possono ridurre al
fatto che egli, o "continuava a vedere" le serie di parole o di cifre che
gli erano state prospettate, oppure convertiva le parole o cifre
enunciategli in immagini visive. D'una struttura quanto mai semplice era
poi il richiamo delle tabelle di cifre scritte col gesso sulla lavagna.
Con grande attenzione S. osservava quanto stava scritto nella tabella,
socchiudeva gli occhi, li riapriva un attimo si girava da un lato e, al
segnale convenuto, riproduceva la serie, riempiendo le caselle vuote
d'una tabella tracciata a fianco; oppure, rapidamente, recitava tutti i
numeri che gli erano stati detti di fila. Non gli costava nessuna fatica
riempire le caselle vuote della seconda tabella con cifre che gli
venissero proposte senz'alcun ordine fisso, né recitare una serie di
cifre in ordine inverso a quello con cui gli erano state mostrate. Poteva
agevolmente, altresì enunciare le cifre che entrassero a formare una
qualsiasi colonna verticale, o «leggerle» a memoria seguendo una
diagonale, o infine, comporre con cifre isolate un numero di moltissime
cifre.
Per imprimersi una tabella di 20 cifre, gli bastavano 30-40 secondi,
durante i quali la consultava più volte con lo sguardo; una tabella di 50
cifre gli prendeva un po' più tempo, ma senza difficoltà egli riusciva a
stamparsela in mente in due minuti e mezzo o tre, più volte fissando bene
la tabella e poi, con gli occhi socchiusi, provando tra sé.
Ecco un esempio tipico d'una tra le molte decine di esperimenti condotti
con lui (seduta del 10 maggio 1939).
La tabella (tab. 1), scritta su un foglio, è rimasta sottoposta alla sua
osservazione - comprese le pause e la verifica dentro di sé - per uno
spazio di tre minuti.

Tabella 1.

6 6 8 0
5 4 3 2
1 6 8 4
7 9 3 5
4 2 3 7
3 8 9 1
1 0 0 2
3 4 5 1
2 7 6 8
1 9 2 6
2 9 6 7
5 5 2 0
x 0 1 x

La riproduzione di questa tabella (enunciazione consecutiva di tutti i


numeri in fila) ha richiesto 40 secondi: le cifre venivano pronunciate da
lui ritmicamente, e senza quasi soluzione di continuità. La ripetizione
dei numeri della terza colonna verticale riuscì più lenta, richiedendo 1
minuto e 20 secondi. Quanto alla seconda colonna, le cifre furono
ripetute in 25 secondi, e in 30 secondi in ordine inverso; 35 secondi
occupò l'enunciazione delle cifre prese in diagonale (secondo quattro
linee a zig-zag), e 50 quella delle cifre disposte a cornice torno torno
alla tabella. La conversione, poi, di tutte le 50 cifre in un numero
unico, e la lettura di questo numero di 50 cifre, richiese a S. il tempo
di 1 minuto e 30 secondi.
Come già si è accennato, un controllo eseguito a distanza di parecchi
mesi dimostrò che S. riproduceva la tabella «stampata dentro la sua
mente» con la stessa completezza e, all'incirca, negli stessi tempi da
lui impiegati per la ripetizione originaria. La diversità, a questo
riguardo, consisteva nel fatto che ci voleva più tempo per «animare»
tutta la situazione in cui la prova si svolgeva: «vedere», cioè, la
camera dove si stava quella volta, «udire» la mia voce, «riprodurre» se
stesso in atto di guardare alla lavagna. Quanto al processo di «lettura»,
considerato in sé, non si registravano ulteriori perdite di tempo.
Analoghi risultati si ottenevano presentandogli una tabella composta di
lettere, scritte ben chiare su una lavagna o su un foglio di carta.
Per la «impressione» e la «lettura» di serie di lettere senza senso
l'esperimento fu condotto sulla tab. 2, (alla presenza dell'accademico L.
A. Orbeli), il tempo fu approssimativamente il medesimo che per la
«impressione» e la «lettura» della tabella delle cifre. Sempre con la
stessa facilità S. effettuava la riproduzione del materiale propostogli,
e, sia l'estensione, sia la persistenza del materiale in lui impresso non
avevano, a quanto pareva, nessun limite netto.

Tabella 2.

Z C S T I P R
K P O S M K S
L T O A L Ch T
M T Z S K R C
eccetera

Ma in che modo si svolgeva dunque, in S., il processo della «impressione»


e della consecutiva «lettura» delle tabelle che gli venivano proposte?
A tale domanda non c'era per noi altro modo di rispondere, fuorché
interrogando direttamente il soggetto dei nostri esperimenti.
A prima vista, i risultati di queste interrogazioni apparvero
semplicissimi.
S. dichiarava di "continuare a vedere" la tabella in lui impressa
(com'era stata scritta sulla lavagna o su un foglio), cosicché egli non
aveva che da farne la «lettura» enumerando le cifre o le lettere che
entravano consecutivamente a comporla. Pertanto, gli era completamente
indifferente se la «lettura» dovesse incominciare dal principio o dalla
fine, se bisognasse enumerare gli elementi d'una verticale o d'una
diagonale, o leggere le cifre disposte «a cornice» torno torno alla
tabella. Né la conversione delle cifre isolate in un numero unico gli
riusciva più difficile di quanto sarebbe per uno qualsiasi di noi, se ci
si proponesse di eseguire tale operazione con le cifre d'una tabella che
potessimo tener sott'occhio per lungo tempo.
Le cifre ormai «impresse» S. continuava a vederle sul nero di quella
medesima lavagna su cui gli erano state mostrate, o su quel medesimo
foglio di carta bianca; esse gli conservavano la medesima configurazione
con cui là erano state scritte: e, se per caso qualcuna non era stata
tracciata con esattezza, S. andava soggetto a farne la «lettura» in modo
erroneo, scambiando ad esempio un 3 per un 8, o un 4 per un 9.
Tuttavia, già a questo proposito, richiamavano la nostra attenzione
alcune particolarità che stavano a indicare come il processo di richiamo
non avesse davvero un carattere così semplice.

Le sinestesie.

Tutto incominciò da una piccola e (si sarebbe detto) trascurabile


osservazione.
Più volte S. aveva notato che, se lo sperimentatore pronunciava qualche
parola, diceva per esempio un sì o un no a confermare la giustezza del
materiale riprodotto o ad indicarne un errore, sulla tabella appariva una
macchia, che si spandeva e ricopriva le cifre, tanto che lui si trovava
costretto a «cambiare» mentalmente tabella. Lo stesso accadeva quando,
fra l'uditorio, nasceva un rumore: immediatamente quel rumore si
trasformava in «globi di vapore» o in «spruzzi», e il «fare la lettura»
della tabella incontrava difficoltà maggiori.
Dati di questo genere facevano supporre che il processo di ritenzione del
materiale non si riducesse a una semplice conservazione delle immediate
impronte visive, ma che vi si mescolassero altri elementi integrativi,
tali da denunciare la presenza in S. d'un alto sviluppo della sinestesi.
A credere ai ricordi che S. serbava della sua prima infanzia (e ad essi
ci avverrà di richiamarci ancora particolareggiatamente), sinestesie
consimili si potevano reperire in lui fin dall'età più tenera.
«Allorché (avrò avuto due o tre anni) cominciarono a insegnarmi le parole
d'una preghiera in ebraico antico, io non le capivo, e quelle parole
venivano a depositarmisi dentro in forma di globi di vapore e di
spruzzi... Ancora adesso io li vedo, quando sento pronunciare certi
suoni...»
Il fenomeno della sinestesi insorgeva in S. ogni volta che gli si
facevano sentire determinati toni. Della stessa natura (sinestesici), ma
ancora più complessi erano i fenomeni che insorgevano in lui nel
percepire le voci, e i suoni stessi del discorso.
Ecco un resoconto degli esperimenti condotti su S. nel Laboratorio di
fisiologia dell'udito presso l'Istituto di neurologia dell'Accademia
delle scienze mediche:

"Gli viene dato un tono della frequenza di 30 Hz e dell'ampiezza di 100


db. Egli dichiara di aver visto, dapprima, una striscia della larghezza
di 10-15 centimetri, d'un color argento vecchio: gradatamente la striscia
si restringe e sembra allontanarsi da lui, per poi trasformarsi in un
oggetto rilucente come acciaio. Gradatamente, il tono prende un aspetto
di luce crepuscolare, e il suono continua a variare d'un brillio
argenteo.
Gli viene dato un tono di 50 Hz e di 100 db. S. vede una striscia marrone
su un fondo cupo, screziato di lingue rosse; al gusto, questo suono
somiglia a una zuppa agrodolce di cavoli, e tale sensazione gustativa
invade tutta la lingua.
Gli viene dato un tono di 100 Hz e di 86 db. S. vede una larga striscia,
che al centro ha un colore rosso-arancione, gradatamente sfumante in rosa
verso gli orli.
Gli viene dato un tono di 250 Hz e di 64 db. S. vede un cordino di
velluto, coi peluzzi che si drizzano in tutti i versi. Il cordino è
colorato d'un tenue, gradevole rosa-arancio.
Gli viene dato un tono di 500 Hz e di 100 db. Egli vede un lampo che, in
linea retta, spacca il cielo in due parti. Se si abbassa l'intensità del
suono a 74 db, gli appare un intenso color arancione, come se un ago gli
penetrasse nella schiena; e poi, gradatamente, l'ago si rimpiccolisce.
Gli viene dato un tono di 2000 Hz e di 113 db. S. dice: «E' una specie di
fuoco d'artificio, d'un rosa-rosso... una strisciolina ruvida,
sgradevole... un gusto sgradevole, come di salamoia piccante... Potrebbe
fare una ferita alla mano».
Gli viene dato un tono di 3000 Hz e di 128 db. Egli vede una specie di
flabello color di fuoco. Il manico del flabello si espande in tanti
puntini di fuoco..."

Le esperienze si sono protratte per parecchi giorni, e i medesimi stimoli


hanno invariabilmente provocato le medesime sensazioni. Ciò dimostra che
S. apparteneva effettivamente a quel singolare gruppo di persone, a cui
va ascritto fra gli altri anche il compositore Skrjabin, nel quale
appunto si serbava in forma eccezionalmente vivace una sensibilità
sinestesica di grande complessità; ogni suono, in lui, provocava
immediatamente sensazioni di luce e di colore, e anche (come vedremo più
innanzi) di gusto e di tatto...
In S. le impressioni sinestesiche si verificavano pure quando prestava
ascolto alla voce di qualcuno.

"«Che voce gialla e sincopata è la vostra!» esclamò un giorno che L. S.


Vygotskij conversava con lui. E, in seguito, ebbe a dire: «Ci sono
uomini, sapete, che discorrono come a più voci, emettono una vera
composizione musicale, un "bouquet" di suoni... Una voce così aveva il
defunto S. M. Ejzenstejn ((1) pronuncia Ejzenshtein), da sembrare che una
specie di fiamma con tante nervature mi venisse addosso.. Io incomincio a
interessarmi d'una voce simile, e non riesco più a capire che cosa mi
stia dicendo...» «Oppure, ci sono anche delle voci incostanti: spesso, al
telefono, mi accade di non riconoscere una voce, e questo, non solo se la
ricezione è cattiva, ma per il fatto che un uomo, nel corso d'una
giornata, può cambiar voce venti o trenta volte... Gli altri non se ne
accorgono, ma io riesco a captarlo benissimo».
(novembre 1951)".

"«Dell'audizione colorata, non sono in grado, a tutt'oggi, di


liberarmi... Dapprima, il colore della voce si espande, poi si allontana:
è una cosa che impaccia, sapete? Basta che uno dica una parola, e io la
vedo: e, se a un tratto si sente un'altra voce estranea ecco che appaiono
delle macchie, vengono a comporsi delle sillabe, e io non riesco a
raccapezzare più nulla...»
(giugno 1953)".
Una «linea», delle «macchie», e degli «spruzzi» non erano solo un tono,
un rumore, una voce a provocarli qualunque suono alfabetico destava in
S., immediata mente, una vivida immagine visiva, e ciascuno aveva la sua
forma ben visibile, il suo colore, le sue peculiari qualità di gusto. Le
vocali erano per lui altrettante figure; le consonanti erano spruzzi,
qualcosa di palpabile e di friabile, che però manteneva sempre la sua
forma.

"A [a] è un non so che di bianco, di oblungo - diceva S.: - u [i] mi


distanzia, mi sfugge, impossibile disegnarlo, mentre [j] è più aguzzo...
IO [iu] è una cosa appuntita, più appuntita di e [je], e [ja] è qualcosa
di grosso, ci si può montar sopra e scarrozzare... O [o] esce dal petto,
è ben largo, ma il suono relativo cala in giù, mentre [ej] scivola di
sbieco: e d'ogni suono, intanto, lo sento il sapore. E se poi vedo delle
linee, anch'esse mi danno un suono: ecco, il segno (linea con angolo
ottuso) è qualcosa che sta fra e [ej], e [y] e [j]; (linea ondulata
obliqua da sinistra a destra) questo è un suono vocale... una specie di
"erre", ma non una erre pura: qui, però, non si sa se il segno vada dal
basso o dall'alto: dall'alto, è un suono, ma dal basso, non è più un
suono, è una sorta di gancio di legno, di quelli per attaccare i secchi
al bilancino... Questo segno è una cosa scura, ma, a tracciarlo
lentamente, è un'altra cosa... Ecco, se voi l'aveste fatto così: (c al
contrario attaccato a una linea curva che sale da sinistra a destra uno
stacco e un altro pezzo di linea curva), allora sarebbe stato una e
[je]."

Analoghe a queste le sensazioni che S. aveva delle cifre:

"Per me, il 2, il 4, il 6, il 5, non sono semplicemente dei numeri: essi


hanno una forma... L'1, indipendentemente dalla sua raffigurazione
grafica, è un numero aguzzo, un che di ben rifinito tornito, solido; il 2
è più piatto, a quattro angoli, biancastro, anzi dà sul cenerognolo; il 3
è una scheggia appuntita e gira su se stesso. Il 4 è anche lui quadrato,
ottuso, somigliante al 2, ma più imponente, più massiccio... mentre il 5
è un oggetto portato all'ultima perfezione, a foggia di cono, di torre,
ben fondato... Il 6 è il primo che gli vien dietro, dà sul bianco; l'8 è
immacolato, fra latteo e cilestrino, simile a calce... eccetera
eccetera."

Non esisteva dunque, per S., quel confine ben netto che, per tutti noi,
divide la vista dall'udito, l'udito dal tatto o dal gusto. Quei residui
di sinestesi che, in molti dei comuni individui, si conservano solo in
forma rudimentale (chi non sa che i suoni alti e bassi appaiono
diversamente colorati, che vi sono toni «caldi» e «freddi», che le parole
«venerdì» e «domenica» hanno un alone di colore diverso?), erano rimasti
in S. come la connotazione fondamentale della sua vita psichica. Apparsi
in lui assai precocemente e serbatisi poi fino agli ultimi giorni, erano
essi che - come vedremo in seguito - segnavano della loro impronta la sua
percezione, il suo apprendimento, il suo raziocinio, ed entravano come
componente essenziale nella sua memoria.
Il richiamo «per linee» e «per spruzzi» entrava in vigore nei casi in cui
S. veniva a trovarsi di fronte a suoni isolati, a sillabe senza senso, a
parole sconosciute. In questi casi egli segnalava che suoni, voci o
parole gli suscitavano dentro delle impressioni visive: «globi di fumo»,
«spruzzi», «linee diritte o spezzate»; a volte gliene nascevano
sensazioni gustative sulla lingua, altre volte sensazioni di morbido o di
pungente, di liscio o di ruvido.
Queste componenti sinestesiche d'ogni stimolo visivo, e specialmente
uditivo, erano, nel primo periodo dell'evoluzione di S., una
caratteristica essenzialissima della sua capacità mnemonica, e solo più
tardi - con lo svilupparsi della memoria concettuale e figurativa -
vennero a ritrarsi in un secondo piano, pur continuando a conservarsi in
ogni sua rievocazione.
Il valore obiettivo di tali sinestesie, per il processo rievocativo,
stava nel fatto che le componenti sinestesiche creavano una specie di
sfondo a ogni ricordo, apportando il complemento d'una informazione «in
soprappiù» e garantendo l'esattezza del ricordo stesso: se infatti (e lo
vedremo più innanzi) S. ripeteva una parola in modo inesatto, quelle
sensazioni sinestesiche complementari, non trovandosi a coincidere con la
parola originaria, lo avvertivano che, nella sua riproduzione, «qualcosa
non andava», e lo costringevano a correggere l'inesattezza sfuggitagli.

"Io sono informato non solo dalle immagini, ma sempre da tutto il


complesso delle sensazioni che queste immagini mi destano. E' difficile
definirle: non appartengono né alla vista né all'udito... Si tratta come
di sensazioni generali... Per solito, d'una parola, mi si dà a sentire
sia il gusto, sia il peso, e io non ho altro da fare: per conto suo essa
mi torna alla memoria... ma descriverlo è difficile. Sento che, nella
mano, viene a scivolarmi qualcosa di oleoso.. da una massa di puntini
minuti, leggerissimi... ecco, è un lieve vellichio nella mano sinistra...
e io non ho più bisogno di niente altro!
(22 maggio 1939)."

Le sensazioni! sinestesiche, insorgenti così apertamente nel ricordo


d'una voce, d'un suono isolato o d'un complesso di suoni, perdevano la
loro importanza primaria e si ritraevano in secondo piano quando si
trattava di ricordare le parole.
Soffermiamoci a precisare più in particolare questo punto.

Parole e immagini.

E' noto che, da un punto di vista psicologico, le parole hanno un duplice


significato. Da un lato, sono complessi convenzionali di suoni, d'una
complessità che può essere varia: è l'aspetto delle parole studiato dalla
fonetica. Dall'altro, stanno a indicare determinati oggetti, qualità o
azioni, vale a dire, hanno un loro proprio significato. Questo aspetto
delle parole è studiato dalla semantica, e dai settori affini della
linguistica (lessicologia, morfologia). In una persona normale in stato
di veglia, le connotazioni sonore delle parole hanno un posto di secondo
piano, cosicché, sebbene la parola "skripka" [violino] si distingua dalla
parola "skrepka" [fermaglio] per insignificanti sfumature d'una sola
delle sue lettere, un uomo può fare perfettamente a meno di rilevare
questa affinità di suono e, dietro a ciascuna di tali parole, scorge
oggetti completamente diversi (2).
Questa preponderante importanza del lato concettuale della parola si
conservava anche in S.: ogni parola suscitava in lui un'immagine
perspicua, e la differenza tra lui e le persone comuni si riduceva al
fatto che quelle immagini erano, nel caso suo, incomparabilmente più
vivide e più stabili, oltre al fatto che, infallibilmente, vi si
associavano quelle componenti sinestesiche (percezioni di macchie
colorate, di «spruzzi» e di «linee» ), che erano i riflessi della
struttura sonora delle parole e della voce di chi le pronunciava.
E' perciò naturale che il carattere visivo del ricordo (che già abbiamo
riscontrato sopra) conservasse in lui il suo valore preminente anche nel
caso che oggetto del ricordo fossero delle parole.
Allorché S. ascoltava, o enunciava, una determinata parola,
immediatamente questa gli si convertiva nell'immagine perspicua
dell'oggetto corrispondente. Si trattava di un'immagine estremamente
vivida, e tale che gli si conservava stabilmente nella memoria: quando S.
era distratto da altre cose, l'immagine dileguava; quando si rifaceva
alla situazione di partenza, l'immagine appariva di nuovo.

"Quando io sento la parola "verde", appare un vaso verde con dei fiori;
"rosso", appare un uomo con la camicia rossa, che mi si avvicina. Se
sento "azzurro", ecco da una finestra qualcuno che sventola una bandiera
azzurra... Perfino le cifre mi rammentano delle immagini... Così l'1 è un
uomo fiero, diritto; il 2, una donna allegra; il 3, un uomo accigliato,
non saprei perché... Il 6 è un tale a cui si è gonfiato un piede; il 7,
uno coi baffi; l'8, una donna molto grassa, un sacco su un altro... E
così, a sentire 87, io vedo questa grassona in compagnia d'un uomo che si
torce i baffi."

Non è difficile accorgersi che in queste immagini, che scaturiscono da


parole e da cifre, si mescolano insieme le rappresentazioni perspicue e
quelle impressioni che erano caratteristiche delle sinestesie di S. Se,
all'orecchio di lui, giungeva una parola che avesse un significato, le
immagini sovrastavano alle sensazioni sinestesiche; se la parola non
aveva significato, e non provocava nessuna immagine, S. l'accoglieva
nella sua memoria «per linee»: i suoni della parola si trasformavano in
macchie di colore, in linee, in spruzzi, e ciò che gli s'imprimeva dentro
era questo equivalente visivo, attinente in tal caso al lato sonoro della
parola.
Quando S. leggeva di seguito una lunga serie di parole, ciascuna di
queste gli suscitava un'immagine perspicua: ma le parole, per l'appunto,
erano molte, ed egli si trovava costretto a «scaglionare» le immagini in
tutta la loro serie. Molto più di frequente (e così ha continuato a fare
finché è vissuto) egli le «scaglionava» lungo una certa strada. Poteva
essere una via della sua città natale, col cortile di casa sua,
vividamente stampato nell'intimo fin dagli anni dell'infanzia; poteva
essere una delle tante vie di Mosca, non di rado via Gorkij, a
incominciare da piazza Majakovskij, e di lì lentamente procedendo in giù
e man mano «scaglionando» le immagini presso case, portoni e vetrine,
finché a volte, di sorpresa, non si ritrovava nella natia Torzok
(Torgiok), andando a terminare il suo itinerario... nella casa della sua
infanzia! Com'è facile vedere, lo sfondo che S. sceglieva per le sue
«passeggiate intime» non era lontano dal piano del sogno, e se ne
distingueva solo per il fatto che dileguava facilmente ogni volta che
l'attenzione se ne distraeva, per poi altrettanto agevolmente ricomparire
quando egli si trovava di fronte all'esigenza di ricordare la serie di
parole «registrate».
Questa tecnica di conversione della serie di parole proposte in una serie
perspicua d'immagini, rendeva comprensibile come mai S. potesse con tanta
facilità riprodurre una serie anche lunghissima nell'ordine dato o
nell'inverso, e rapidamente enunciare la parola che precedeva o seguiva
un'altra qualsiasi; e gli bastava, per far ciò, iniziare semplicemente la
sua passeggiata, o dal principio della strada o dalla fine, oppure
trovare l'immagine dell'oggetto richiamato, e poi «dare un'occhiata» a
quanto stava da un lato e dall'altro di quello. La differenza dalla
comune memoria visiva, nel caso di S., stava nel fatto che le sue
immagini erano di eccezionale vivezza e durata, e che egli poteva «voltar
loro le spalle» e poi, di nuovo «volgendosi» a loro, tornare a vederle a
suo piacimento (3).
Questa tecnica della memoria visiva immediata rendeva inoltre
comprensibile perché S. chiedeva sempre che le parole venissero
pronunciate con dizione precisa, ben staccate una dall'altra, e in modo
non troppo veloce. La conversione delle parole in immagini, e la
disposizione di quest'ultime, esigevano un certo (sia pur breve)
intervallo di tempo: e quando le parole gli venivano porte troppo
rapidamente, o lette di fila senza soluzione di continuità, le immagini
che esse evocavano si confondevano insieme, e tutto andava a finire in un
caos o in un frastuono, nel quale egli non poteva più raccapezzarsi.
La meravigliosa vivezza e persistenza delle immagini, la facoltà di
serbarle per lunghi anni e di risuscitarsele innanzi a suo arbitrio, dava
a S. la possibilità di tenere a mente un numero praticamente infinito di
parole, e di conservarle per un tempo illimitato. Tuttavia, una tale
capacità di «annotazione» delle tracce implicava altresì qualche
difficoltà.
Convinti, come ormai eravamo, che l'estensione della memoria di S. fosse
praticamente sconfinata, e sicuri che egli non aveva bisogno di
«apprendere», ma soltanto di «stamparsi dentro» le immagini, che poteva
poi richiamare a lunghissime scadenze (daremo più innanzi degli esempi di
come una serie propostagli fosse da lui riprodotta tal e quale dopo dieci
e perfino sedici anni), era naturale che noi perdessimo ogni interesse
per le prove di «misurazione» della sua memoria; ci volgemmo, così, alle
prove inverse, se cioè egli potesse "dimenticare": e cercammo di fissare
diligentemente i casi in cui gli avveniva di tralasciare una parola o
l'altra della serie che stava riproducendo.
Casi simili, infatti, si verificavano; e, cosa particolarmente
interessante, si verificavano con una certa frequenza.
Come spiegare dunque i casi di dimenticanza in un uomo di memoria così
potente? Come spiegare, inoltre, che in lui potessero darsi dei casi di
omissione fra gli elementi rievocati, ma non mai, invece, dei casi di
riproduzione inesatta (ad esempio, scambi della parola giusta con un suo
sinonimo, o con una parola vicina per associazione)?
Le indagini diedero una risposta immediata ad entrambi i problemi. Non
era che S. «dimenticasse» le parole che gli erano state proposte; egli le
«lasciava fuori» durante la «lettura» che ne faceva, e queste omissioni
erano sempre facilmente spiegabili.
Bastava che S. «collocasse» un'immagine qualsiasi in una posizione tale,
che gli riuscisse difficile «distinguerla a vista», per esempio la
situasse in un posto mal illuminato, o lasciasse che essa si confondesse
con lo sfondo, divenendo a stento ravvisabile, bastava questo perché poi,
alla «lettura» delle immagini da lui disposte, quella venisse
tralasciata, ed egli la «oltrepassasse» senza «avvedersene».
Tali omissioni, che non di rado avevamo rilevato in S. - specialmente nel
primo periodo delle nostre osservazioni, quando la sua tecnica mnemonica
non era ancora sufficientemente sviluppata - dimostravano così di non
essere difetti di memoria, bensì difetti di percezione: vale a dire, si
rivelavano attinenti non già a quelle particolarità neurodinamiche, ben
note agli psicologi, della ritenzione delle parole (inibizione pre e
retroattiva, estinzione delle tracce, eccetera), ma alle altrettanto note
particolarità della percezione visiva, quali la nettezza di contorni, il
contrasto, il risalto della figura sullo sfondo, alla luce favorevole, e
via dicendo.
La chiave per interpretare i suoi errori si trovava dunque nella
psicologia della percezione, non già nella psicologia della memoria.
Illustreremo questo punto con estratti di numerosi resoconti di
esperimenti.
Nel riprodurre una lunga serie di parole, S. aveva tralasciato la parola
«matita». In un'altra serie, era stata saltata la parola «uovo». Infine
in una terza serie, S. aveva tralasciato la parola latina - per lui
incomprensibile - "putamen".
Ecco la spiegazione che egli stesso ha dato dei suoi errori.

"Avevo situato la "matita" accanto a uno steccato (sapete, quel recinto


lungo la strada), ed ecco che la matita mi si è confusa con quello
steccato, e io sono passato oltre... Lo stesso mi è accaduto con la
parola "uovo": era stato situato sullo sfondo d'un muro bianco e si è
confuso con quest'ultimo. Come potevo discernere il bianco dell'uovo
sullo sfondo bianco del muro? ... Così pure, quel "dirigibile": era
grigiognolo, e mi si è confuso col grigio del lastricato... Anche la
"bandiera": era una bandiera rossa, e voi sapete che l'edificio del
Mossoviet (3) è rosso, io l'avevo collocata accanto a quel muro e l'ho
oltrepassata senza accorgermene... Quanto poi a questo "putamen", non so
che cosa sia. Si trattava d'una parola talmente scura, che io non l'ho
distinta... tanto più che il lampione restava lontano...
(dicembre 1932)".

"Anche altre volte mi accade di collocare la parola in un posto buio e mi


trovo ugualmente male: ecco, per esempio, la parola "cassetta": stava in
una nicchia d'un androne, e lì c'era buio, era difficile distinguerla...
O altre volte, quando viene fuori un rumore o una voce estranea, mi
appaiono delle macchie, ed esse ricoprono tutto; o vengono a intrufolasi
delle sillabe che prima non c'erano, e può darsi che io dica che
c'erano... Sono cose, queste, che impacciano la memoria...
(dicembre 1932)".

Cosicché, quei «difetti di memoria» erano in S., in realtà, «difetti di


percezione», o «difetti di attenzione»; e l'analisi che ne abbiamo fatta,
lungi dall'abbassare il valore della sua potenza mnemonica, ci ha
soltanto permesso di approssimarci maggiormente a una definizione dei
processi mnestici caratteristici di quell'uomo prodigioso.
E questo esame così approfondito ci ha messo in grado, nello stesso
tempo, di dare una risposta anche al secondo dei due problemi: come mai
non si dessero, in S., alterazioni nei suoi ricordi.
Questo fatto si spiega facilmente con la presenza delle componenti
sinestesiche nel corso dell'«annotazione» e della «lettura» delle
impronte del materiale accolto nella memoria.
Già si è detto come S. non si limitasse a trascrivere le parole
assegnategli in un cifrario d'immagini ben nette. Ogni parola che gli
venisse proposta lasciava anche una «informazione supplementare»,
composta da quelle sensazioni sinestesiche (visive, gustative, tattili)
che insorgevano dai suoni della parola pronunciata, o dalle immagini
delle lettere scritte. E' quindi naturale che, se S. avesse sbagliato nel
«fare la lettura» di una delle immagini a cui era ricorso, la
«informazione supplementare», scaturiente dalla parola originariamente
proposta, non avrebbe coinciso coi contrassegni della parola-sinonimo o,
dal punto di vista associativo, vicina, addotta nella ripetizione: ne
sarebbe risultato qualcosa di discordante, per cui egli avrebbe potuto
agevolmente constatare l'errore sfuggitogli.
Mi sovviene d'una volta che, insieme con lui, si ritornava dall'istituto
dove eseguivamo le nostre esperienze in collaborazione con L. A. Orbeli.
«Non vi scorderete mica da che parte si entra nell'istituto?» gli
domandai, dimenticando con chi avevo a che fare.
«Macché, cosa dite? - mi rispose subito: - com'è possibile scordarsene?
Tutto questo recinto, vedete, è talmente salato, talmente ruvido sulla
lingua, eppoi manda un suono così acuto e lacerante...»
E' dunque del tutto naturale che il confluire e l'accumularsi di quel
gran numero di contrassegni che, grazie alla sinestesi, venivano forniti
dalla complessa informazione supplementare a proposito d'ogni oggetto
impresso nella memoria, servisse di garanzia per l'esattezza della
rievocazione, e rendesse altamente improbabile qualsiasi scarto da un
materiale così perspicuamente determinato.

Difficoltà.

Nonostante tanti vantaggi, la pronta memoria visiva procurava a S.,


indubbiamente, anche delle difficoltà. Queste difficoltà divennero tanto
più evidenti, quanto più egli si trovò costretto a dedicarsi al
richiamare un ingente e incessantemente mutevole materiale; e il fatto si
verificò sempre più spesso allorché, abbandonate le primitive
occupazioni, egli divenne un mnemonista di professione.
La prima di tali difficoltà è già stata da noi descritta. Divenuto ormai
un professionista della mnemotecnica, S. non poteva più concedere che
delle immagini a sé stanti potessero confondersi con lo sfondo, o che la
loro «lettura» gli riuscisse male perché fosse difficile distinguerle a
causa d'una «messa in luce insufficiente».
Ormai, non gli era più possibile concedere che dei rumori estranei
facessero sì che delle «macchie», degli «spruzzi» o delle «linee»
venissero a ricoprire le immagini da lui distribuite, e a renderle «a
stento distinguibili».

"Ogni rumore, sapete, mi è d'ostacolo... Mi si trasforma in tante linee,


e mi spaventa... C'era, per esempio la parola "omnia": ci si è mischiato
un rumore, ed ecco che io registro un "omnion"... Eppoi basta che io dica
una parola qualsiasi, che dinanzi agli occhi mi appaiono subito non so
che tipo di linee... Io le palpo con le mani, e allora è come se, al
contatto delle mie mani, quelle si consumassero... appare un fumo, una
nebbia... E quanto più la gente parla, tanto più io mi trovo in
difficoltà... E così, del significato delle parole, finisce che non
rimane più nulla... (maggio 1935)."
Spesso accadeva che le parole, che gli si davano da ricordare,
risultassero talmente lontane per senso l'una dall'altra, da esser capaci
d'infrangere quell'ordine che lui aveva scelto per la «collocazione»
delle immagini.

"Avevo appena incominciato a inoltrarmi in piazza Majakovskij che ecco,


mi vengono a dire «Cremlino», e così, improvvisamente sono costretto a
trovarmi al Cremlino. Va bene, cambierò direzione al mio filo, e lo
getterò precisamente verso il Cremlino! Ma poi, ecco un «emistichio» e
così, di nuovo io sto in piazza Puskin (Pushkin)... Che se poi
pronunciassero un «indiano», dovrei per forza essere in America... E va
bene, getterei il mio filo di là dall'oceano.... Ma è talmente spossante
fare tutti questi viaggi... (maggio 1935)."

A complicare in peggio le cose, spesso gli astanti si mettevano a


proporgli delle parole lunghe, imbrogliate a bella posta, o prive di
senso. Questo lo spingeva naturalmente al ricordo «per linee», fondato
cioè sulle immagini visive di quei zigzag, aloni, spruzzi, in cui i suoni
vocali si trasformavano: ma era, questa, «una cosa tanto faticosa...».
Insomma, la memoria di S., a base d'immagini perspicue, veniva a
dimostrarsi non abbastanza economica; ed egli si trovò nella necessità di
fare un passo innanzi per adattarla alle nuove condizioni.
Ha inizio così, a questo punto, una seconda tappa: la tappa
caratterizzata da un lavorio per la semplificazione delle forme di
richiamo; la tappa dell'elaborazione di nuovi metodi, che rendessero
possibile un arricchimento della memoria, la rendessero indipendente
dalle circostanze contingenti, garantissero una rapida ed esatta
riproduzione di qualsiasi materiale in qualsiasi condizione.

L'eidotecnica.

Il primo punto intorno al quale S. dové iniziare il suo lavoro, fu la


liberazione delle immagini da quegl'influssi occasionali, che potevano
metterne a repentaglio la «lettura».
L'impresa risultò semplicissima.

"So che io debbo far attenzione a non lasciar fuori nessun oggetto: e
allora lo faccio più grande. Per esempio, vi ho detto la parola "uovo":
siccome era facile non avvedersene, non solo lo faccio più grande, ma lo
appoggio alla parete d'una casa, e lo metto meglio in luce con un
lampione... Ormai, non colloco più degli oggetti in un punto di passaggio
oscuro... Che ci sia una buona luce e allora mi riuscirà facile
scorgerli!
(giugno 1935)."

L'ingrandimento delle immagini, la loro messa in luce, la giusta


collocazione, costituirono il primo passo di quella «eidotecnica», che
doveva caratterizzare la seconda tappa nella evoluzione della memoria di
S. Un altro procedimento consistette nell'abbreviazione e simbolizzazione
delle immagini: cosa alLa quale S. non aveva fatto ricorso nel primo
periodo di formazione della sua memoria, e che divenne invece uno dei
metodi fondamentali nel periodo della sua professione di mnemonista.
"Prima, per ricordare, io ero costretto a rappresentarmi la scena nella
sua interezza. Ora mi basta prendere un qualsiasi dettaglio
convenzionale. Se mi hanno proposto la parola "cavallerizzo" mi è
sufficiente porre là un piede con lo sperone. Se, una volta, mi avessero
detto "ristorante", avrei visto l'entrata del ristorante, la gente seduta
dentro, l'orchestrina rumena che accordava gli strumenti, e tante altre
cose... Ora, quando mi dite "ristorante", io vedo soltanto una specie di
negozio, l'ingresso d'un edificio, il biancichio di qualche cosa: e mi
torna a mente il ristorante. Perciò
ora, anche le immagini diventano diverse. Un tempo, mi apparivano con
maggiore nettezza e realismo... Le immagini attuali non appaiono più con
la nettezza e la vivezza degli anni passati... Io mi sforzo di enucleare
quel che è indispensabile.
(dicembre 1935)."

Abbreviazione delle immagini, astrazione dai dettagli e loro


generalizzazione: ecco la linea sulla quale incomincia ad avanzare
l'«eidotecnica» di S.
Un analogo lavoro fu intrapreso da lui per liberarsi dell'eccessiva
aderenza alla perspicuità delle immagini.

"Una volta, per ricordare la parola "America", io dovevo protendere un


lungo filo attraverso l'oceano, da via Gorkij fino all'America, se non
volevo smarrire la strada. Ora non ne ho più bisogno. Se mi dicono
"elefante", io vedo il giardino zoologico; se mi dicono "America", pongo
là lo zio Sam; "Bismarck" - ed eccomi vicino al monumento di Bismarck. Se
mi dicono "trascendente", vedo il mio insegnante Scerbin (Stcherbin),
dritto su due piedi a guardare il monumento... Non ho più bisogno di fare
tutte quelle cose complicate, di trasferirmi in tante nazioni diverse...
(maggio 1935)."

Il metodo dell'abbreviazione e simbolizzazione delle immagini condusse S.


a un terzo procedimento, che a poco a poco acquistò per lui un'importanza
di primo piano.
Soggetto ad accogliere, nelle sedute in cui si esibiva, migliaia di
parole che, spesso, erano state scelte a bella posta complicate e senza
senso, S. si trovò costretto a trasformare parole simili, prive ai suoi
occhi d'ogni significato, in immagini in qualche modo significative. La
via più breve, per ottenere questo, era la scomposizione di quella parola
lunga e priva di senso (o di quella frase per lui inconcepibile) negli
elementi che la componevano, nel tentativo di enuclearne e renderne
significativa una sillaba giovandosi di un'associazione ad essa aderente.
In tale scomposizione di elementi senza senso in parti «sensate», e
nell'ulteriore, automatica conversione di queste parti in immagini
perspicue, S. riuscì, grazie al suo quotidiano esercizio di parecchie
ore, ad acquistare abilità veramente virtuosistiche. Alla base di questo
lavoro - che egli eseguiva con stupefacente rapidità e facilità - c'era
una «semantizzazione» delle immagini sonore, mentre, come procedimento
integrativo, restava il ricorso ai complessi sinestesici, che
continuavano pur sempre a «garantire» il ricordo.

"Mi dicono: 'ubi bene ibi patria'. Io non so di che si tratti... Ma,
d'improvviso, mi sorgono di fronte Bènja [Beniamino] ('bene') e 'pater'
(mio padre)... e non faccio che ricordare: stanno tutt'e due in una
casettina dentro ai boschi, e... litigano fra loro...
(dicembre 1932)."

Ci limiteremo ad alcuni esempi, che valgono a illustrare la virtuosità


con cui S. si serviva dei metodi della semantizzazione e della
eidotecnica. Tra le molte centinaia di resoconti che sono a nostra
disposizione, ne sceglieremo soltanto tre, dei quali il primo dimostrerà
la tecnica per ricordare le parole d'una lingua sconosciuta, il secondo
la tecnica per ricordare una formula senza significato, e terzo quella
per imprimere nella mente una serie di sillabe senza senso, che
presentava (secondo le parole dello stesso S.) un grado estremo di
difficoltà. Sono esempi interessanti anche per il fatto che chi scrive ha
potuto verificarne la riproduzione, eseguita dopo molti anni (e,
naturalmente senz'alcun preavviso che la verifica avrebbe toccato appunto
gli esempi in questione).

- 1. Nel dicembre del 1937, era stata letta a S. la terzina iniziale


della "Divina Commedia", fino al primo verso della seconda.

"Nel mezzo del cammin di nostra vita


mi ritrovai per una selva oscura,
che la diritta via era smarrita.
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura"
("Inferno" I)

Come sempre, S. aveva pregato che le parole della serie propostagli


venissero lette distintamente, facendo tra l'una e l'altra delle piccole
pause, sufficienti per lasciargli trasformare le associazioni di suoni
(vuote per lui di senso) in immagini significative.
Che egli ripetesse quei versi della "Divina Commedia" senza il minimo
errore, con le medesime cadenze con cui li aveva sentiti pronunciare, era
per lui più che naturale. E più che naturale era pure che questa
riproduzione gli fosse assegnata in una verifica che, senza preavvisi, fu
eseguita... quindici anni dopo!
Ecco i mezzi di cui egli si servì per conservare i ricordo dei versi:

"Nel": io avevo pagato la quota del club, e là, nel corridoio, c'era la
ballerina Nelskaja;
"mezzo": io sono un violinista e avevo posto accanto ["vmeste"] a lei un
violinista che suonava lo strumento;
"del": accanto ci sono delle sigarette "Dely";
"cammin": pure lì accanto c'è un caminetto ["kamin"];
"di": c'era una mano che indicava la porta ["dver"];
"nostra": c'era un naso ["nos"], un uomo batteva il naso in quella porta
e ce lo schiacciava contro;
"vita": l'uomo sollevava un piede attraverso la soglia dove giaceva un
bambino, cioè la "vita", vitalismo; ["vitalizm"];
"mi": avevo collocato lì un'ebrea, che appunto diceva «mi» (pronuncia
ebraica del russo "my": noi), «noialtri qui siamo di troppo»;
"ritrovai": questo era un alambicco ["retorta"], una specie di pipa di
vetro, trasparente, che ecco cadeva in terra e allora la mia povera ebrea
correva via gridando: «"vaj"», e questo era "vaj";
"per": quella fuggiva e intanto, all'angolo della Lubjanka, su una
carrozzella da nolo, ecco spuntare mio "padre";
"una": all'angolo di via Sucharevka c'era piantato un poliziotto dritto
impalato, che stava là come un bellissimo 1;
"selva": al suo fianco colloco un palco sul quale si mette a danzare una
certa "Selva"; ma perché non fosse la celebre Silva le assi del palco le
crepano sotto: questo è il suono della vocale "e";
"oscura": dal palco sporge in fuori un asse ["os"]: sporge proprio in
direzione d'una gallina ["kuritsa"]: cioè, "os-cura";
"che": potrebbe essere un cinese, Ce-cen [si noti che il "che" era stato
erroneamente pronunciato come un "ce" (n.d.a.)];
"la diritta": accanto colloco una donna, una parigina, cioè la mia
assistente Margarita;
"via": e lei che dice «via» ["vasa" (vasha), vostra] e mi tende la mano;
"era": ne accadono di fatti strani nella vita d'uomo: io ho bevuto una
bottiglia intera di champagne, è per me una cosa che fa epoca, apre
un'"era" nuova;
"smarrita": ed ecco che vedo un tram, dove la bottiglia di champagne fa
da conducente. Nel tram c'è seduto un ebreo col taleth sulle spalle, che
legge lo "Schma Israel", cioè "sma", e con lui sua figlia "Rita";
"Ahi": in ebraico equivale al russo "ahà!" Qui io avevo situato sempre
nella stessa piazza un uomo che starnutiva: apscí!, cosicché me ne
balenavano le lettere ebraiche "a" e "h"...;
2quanto": qui al posto di quinta musicale avevo messo un pianoforte e
siccome la vocale "a" ha per me un suono bianco si trattava d'un
pianoforte coi tasti tutti bianchi;
"a dir": a questo punto mi ero trasferito a Torzok, nella mia stanza col
pianoforte... Vedevo, lì sopra, il mio spartito in tedesco, che diceva
"dir" ossia «te»; per indicare la "a" precedente avevo semplicemente
posto sul tavolo... che cosa? "A" è un suono bianco ed ecco che mi si era
confuso col fondo della tovaglia: così, non me ne sono più ricordato;
"qual era": mi si era presentato un uomo a cavallo, col cappello
spagnolo, un antico cavaliere ["Kavaler"], ma poi scelsi altrimenti;
perché non ci fosse del superfluo feci uscire dai piedi di mio suocero un
ruscello [in ebraico: "qual"] e dentro ci scorreva dello champagne
«"Era"»;
"è": in quanto ad "e", io lo vedevo in Gogol: «Chi ha detto eh?»:
Bobcinskij (Bobtchinskij) e Dobcinskij (Dobtchinskij)?...
"cosa": la loro serva vede una capra ["koza"];
"dura": e le dice «Dove ti vai a ficcare, stupidona?» ["dura"].

Potremmo continuare con le annotazioni del nostro resoconto, ma i


procedimenti per ricordare sono già abbastanza chiari anche da questo
frammento. Sembrerebbe che la caotica accumulazione delle immagini
dovesse soltanto complicare il compito di tenere a mente quattro versi
d'un poema; ma il poema era stato proposto in una lingua sconosciuta, e
il fatto che S., non perdendo tra ascolto dei versi e composizione delle
immagini più di qualche minuto, sia stato in grado di riprodurre il testo
assegnato e ripeterlo... dopo quindici anni, «leggendo» i significati
sulle immagini che aveva scelto all'uopo, sta a dimostrare quale valore
assumessero per lui i metodi descritti.

- 2. Alla fine del 1934, fu assegnata a S. una formula matematica


artificiale (e senz'alcun significato), e precisamente:
N. - radice quadrata - d alla seconda per X 85 fratto vx per - radice
quadrata alla terza - 276 alla seconda per 86 x fratto n alla seconda per
v 264 per SV per 1624 fratto 32 alla seconda per S alla seconda;
S. guardò attentamente la tabella con la formula, più volte se la portò
vicino agli occhi, poi la lasciò lì, restando con le palpebre socchiuse,
fin tanto che non la restituì; allora fece una pausa, «passando in
rivista» dentro di sé quanto gli si era impresso nella memoria: e,
passati sette minuti, riprodusse con precisione la formula.
Ecco la sua risposta, che rivela quali fossero i metodi mnemonici da lui
impiegati:

"Neumann ("N") uscì e batté in terra con la punta del bastone


(.)... Guardò un albero alto, che somigliava a una radice (radice
quadrata), e pensò ch'era naturale che si fosse seccato e le radici gli
si fossero scoperte: c'era già, infatti, fin da quando lui costruiva lì
quelle due case ["doma"] (d alla seconda): e qui di nuovo batté col
bastone in terra ( il punto del "per")... Sono case vecchie, egli pensa,
bisognerà metterci sopra una croce (X), questo darà un grande aumento di
capitale; e così, vi colloca un capitale di 85 migliaia di rubli ("85").
Il tetto lo tien separato (la linea del fratto), e sotto, c'è un uomo che
suona su un "Fermenvox" ("vx"). Si trova accanto alla posta, e in un
angolo c'è una grossa pietra (punto del "per"), perché i carri non vadano
a urtare contro le case. C'è lì anche una piazza, con un grande albero
(radice quadrata), e sopra a questo tre cornacchie (alla terza). Qui io
ci ho messo un semplice 276, mentre, per indicare «al quadrato», ho messo
una scatoletta quadrata da sigarette con sopra scritto 86... Questa cifra
stava scritta dal lato opposto della scatoletta, non si poteva vedere dal
punto in cui io mi trovavo: trascurai di avvicinarmi di più e così, nel
rievocare la formula, l'ho lasciata fuori... Quanto a "X", era uno
sconosciuto in mantello nero che si appressava a un recinto (linea del
fratto), dall'altra parte del quale c'era una studentessa, e lui voleva
passar di là per trattenersi con quella giovane liceale "n", carina ed
elegante nel suo abito grigio; discorreva con lei, cercava di rompere i
paletti del recinto con un piede e con l'altro (alla seconda), ma quella,
la liceale, non era bella per niente... Là, nella scuola, c'è una grande
lavagna... la cordicella del cassino salta, e io metto un punto (punto
del "per")... Sulla lavagna c'è scritto 264: io ci scrivo di seguito "n
alla seconda b". Mi trovo nella scuola. Mia moglie ha posato una riga, e
lì siedo io, Solomon Venjaminovic' ("sv"), mentre il mio compagno ha
scritto un "1624 fratto 32 alla seconda". Io do un'occhiata a che cosa
sta scrivendo e intanto, di dietro, due studentesse (alla seconda)
guardano ed esclamano perché lui non se ne accorga: 'ss'... più piano!'
("s")."

Ebbene: una formula simile fu, senz'alcun errore, riprodotta da S.


immediatamente, e una riproduzione altrettanto esatta si ottenne a
distanza di quindici anni (nel 1949), allorché, senza preavvisi di sorta,
egli fu invitato a riprodurla.

- 3. L'11 giugno 1936, S. stava facendo un'esibizione di mnemonica presso


una casa di cura. Come raccontò più tardi, in quell'occasione gli venne
proposto un tema più difficile di quanti ne avesse mai incontrati:
tuttavia, se la sbrigò ugualmente con successo e, quattro anni dopo, fu
ugualmente in grado di riprodurre esattamente il materiale
dell'esibizione.
Gli era stato proposto di mandare a memoria un lungo elenco, costituito
da una serie di sillabe che s'alternavano in vario modo senz'alcun
significato:

1. MAVANASANAVA
2. NASANAMAVA
3. SANAMAVANA
4. VASANAVANAMA
5. NAVANAVASAMA
6. NAMASAMAVANA
7. SAMASAVANA
8. NASAMAVAMANA eccetera.

S. ripeté tutto l'elenco.


Quattro anni più tardi, pregato da me, rifece il cammino che aveva
seguito per imprimerselo nella mente. Ecco il suo resoconto:

"Nell'autunno del 1936 ho avuto una seduta, che mi è sembrata la più


difficile di quante ne avessi tenute in pubblico fino a quel giorno. Voi,
fin d'allora, incollaste su un foglio di carta un bigliettino, in cui mi
pregavate di descrivere quella seduta: ma, per circostanze indipendenti
dalla mia volontà, solo ora, passati più di quattro anni, mi accingo
finalmente a farlo. Sebbene ormai siano passati parecchi anni, tutto mi è
ribalenato dinanzi agli occhi con una nettezza, come se quella seduta
fosse lontana non quattro anni, ma quattro mesi.
Fra le altre prove, un assistente venne a leggermi delle parole
scomponendole in sillabe staccate: "ma-va-na-sa-na-va", eccetera. Appena
udii la prima di quelle parole, io mi trovai immediatamente su una strada
che attraversava i boschi nei dintorni del paesino di Malta dove da
bambino avevo abitato in villeggiatura. Da sinistra, al livello dei miei
occhi, sprizzò una linea sottilissima, d'un giallo grigiastro (tutte le
consonanti erano costruite sullo stesso suono "a"). Su quella linea,
vennero ad apparire rapidamente, in una grande varietà di tinte, di peso
e di densità, gomitoli, spruzzi chiazze, raggi di luce e altre cose del
genere, raffiguranti le lettere "M", "V", "N", "S", eccetera.
Fu pronunciata la seconda parola. E subito io riconobbi le medesime
consonanti della prima parola, soltanto disposte in ordine diverso.
Svoltai sulla sinistra della strada, e continuai la linea orizzontale.
Terza parola. Perbacco, di nuovo la medesima roba, ma l'ordine era ancora
diverso. Domando all'assistente: «Ce n'è ancora molte di queste parole?».
Risposta: «Su per giù, sono tutte così!». Mi sentii imbarazzato. Quella
insistente reiterazione di quattro consonanti, appoggiate alla monotona
vocale "A" (di foggia così primitiva), scrollava la mia abituale
sicurezza. Se, per ogni parola, dovevo cambiare sentierino nel bosco, e
tastare ben bene, fiutare, scrutare, acquisire insomma una sensazione
precisa d'ognuna di quelle chiazze, la cosa mi sarebbe riuscita d'aiuto,
ma mi avrebbe preso parecchi secondi in più, mentre, quando ci si
esibisce in pubblico, ogni secondo è prezioso. Infatti, scorgo già un
sorriso. E quel sorriso mi si trasforma in una spilla pungente: sento una
puntura acuta, diritta al cuore. Decido di far ricorso alla mnemotecnica.
Con un sorrisetto, prego l'assistente di tornare a leggermi le prime tre
parole correntemente senza scomporle in sillabe. Ed ecco che quella
uniforme vocale "A" viene a formare un certo ritmo e certe cadenze.
Risultano, dalla pronuncia dell'uomo: "mavá-nasá-navá"... Allora il
processo di memorizzazione si mette in moto senza più pause e sul tempo
richiesto dall'esibizione. Io ascolto e vedo: "mava,"nasa", "nava".
1. MAVÁNASÁNAVÁ. La mia padrona di casa (MAVA), da cui abitavo a Varsavia
in via Slizkaja, sta affacciata alla finestra che dà sul cortile: con la
sinistra indica verso l'interno della stanza (NASA), e con la destra fa
segno di no (NAVA) a un rigattiere ebreo, fermo in cortile col sacco in
spalla, come a dire che non ha niente da vendergli. "Muvi", in polacco,
significa parlare; "nasa" sta, convenzionalmente per il russo "nasa"
(nasha) [nostra], e io m'imprimo bene che ho mutato la "s" (con dieresis:
sh) in "s"; inoltre, quando la padrona ha detto «nasa», mi è lampeggiata
dinanzi una luce color arancione, caratteristica del suono "s". "Nava",
in lingua lettone, significa no. Le vocali, via via, non avevano
importanza: sapevo già che, fra tutte le consonanti, ricorreva sempre
soltanto la "a".
2. NASÁNAMÁVÁ. Il rigattiere, ormai, è uscito sulla strada accanto al
portone del cortile. Perplesso, allarga le braccia, ripetendo tra sé le
parole della padrona, che «di nostro ["nasim" Nashim)] (NASA) non c'è
niente da vendere», e ammicca a una donna che gli sta a fianco, alta di
petto, una balia (NAMA: in ebraico, balia è "a'n'am"). Un passante si
scandalizza e dice: «"vaj"!» «VA»; non sta bene, intende, che un vecchio
ebreo adocchi una balia.
3. SANÁMAVÁNÁ. Ecco l'inizio di via Slizkaja. Io sto sotto la torre
Suchareva, dal lato della Pervaja Mescanskaja (Meshtchanskaja) (chissà
perché, durante le mie sedute di mnemonica, io spesso mi ritrovo a questa
cantonata). All'ingresso della torre c'è una slitta ["sani"] (SANA), vi
siede sopra la mia padrona di casa (MAVA), e tiene in mano una lunga
tavola bianca (NA [grafia russa: HA]) che lancia all'interno del portone
della torre: ma dove? La lunga tavola è la figura emblematica di NA [HA]-
NAD [sopra] è quella stessa tavola, ma superiore alla statura d'un uomo,
superiore anche alle case di legno a un piano.
4. VASÁNAVÁNAMÁ. Ah, eccoci all angolo fra piazza Kolchoznaja e via
Sretenka: siamo ai grandi magazzini, e di fuori siedono le custodi: c'è
il ben noto viso bianco di mia sorella di latte Vasilisa (VASA). Con la
sinistra essa fa un gesto negativo, a indicare che il magazzino è chiuso
(NAVA). Il gesto è diretto alla balia (NAMA), che noi già conosciamo, e
che è apparsa lì: voleva entrare all'interno.
5. NAVÁNAVÁSAMÁ. Ehi!, di nuovo NAVA! Un istante, all'ingresso della
Sretenka, appare un'enorme, diafana testa umana tentennante come un
pendolo di traverso alla strada (figura emblematica per ricordasi del
«no»). Un'altra testa uguale tentenna più in giù, presso il Kuznetskij
Most. Proprio al centro di piazza Dzerzinskij (Zerginskij), ecco sorgere
una sagoma imponente: è il monumento d'una mercantessa russa (SAMA: così,
nelle opere degli scrittori russi, è stata chiamata la massaia).
6. NAMÁSAMÁVANÁ. Ricorrere di nuovo alla balia e alla mercantessa è
pericoloso. Scendo verso il teatro Bolsoj (Bolshoj), nella piazza del
quale trovo seduta la biblica Noemi (NAMA): essa si leva i piedi e, fra
le sue mani, appare un grande samovar bianco (SAMA). La donna lo porta
verso una vasca ["vanna"] (VANA), che sta sul marciapiede accanto al
cinema Vostok: vasca di lamiera bianca di dentro, verdastra di fuori.
7. SAMÁSAVÁNÁ. Oh, com'è semplice! Dalla vasca esce la grossa figura
della mercantessa (SAMA), sulla quale gettano un bianco sudario ["savan"]
(SAVANA): Io sto ormai vicino alla vasca vedo la donna di schiena. Essa
si dirige verso l'edificio dov'è il Museo storico. Che cosa mi aspetta
là? Lo vedremo subito.
8. NASÁMAVÁMANÁ. Una vera sciocchezzuola! Si tratta piuttosto di
combinare insieme, che di mandare a mente. NASA, però è un'immagine
aerea, che non si concreta. Ci arriverò indirettamente. Che ne verrà
fuori? "N'schama", in ebraico antico, è l'anima (NASAMA); l'anima, quando
io ero bambino, me la figuravo sotto l'aspetto dei polmoni e del fegato,
che spesso vedevo sul tavolo di cucina. Ed ecco: all'ingresso del museo
c'è un tavolo su cui sta un'anima - polmoni e fegato, cioè - e un piatto
di semolino ["mànnaja"]. Un orientale sta in piedi accanto al tavolo e
grida all'anima: «Vaj vaj! (VA). Mi è venuto a noia questo semolino!»
(MANA).
9. SANÁMAVÁNAMÁ. Nient'altro, ormai, che un'ingenua provocazione! Subito
riconosco la scena della torre Suchareva (alla terza parola), con
l'aggiunta della particella "ma" alla fine. Nel quartiere fra il Museo
storico e il recinto del giardino Aleksandrovskij, situo quel medesimo
identico quadro, e sulla lunga tavola colloco una donna con un lattante,
una mamma ["mama"] (MA).
10. VANÁSANÁVANÁ. Ah! anche fino a domattina potreste continuare di
questo passo! Nel giardino Aleksandrovskij, sul viale centrale, ci sono
due vasche di porcellana tutte bianche (a differenza di quelle del n. 6
). Rappresentano VANAVANA. E, nel mezzo fra le due, c'è un'infermiera
["sanitarka"] (SANA): ed ecco tutto!"

Sarebbe inutile andare innanzi col resoconto. Al monotono alternarsi


delle sillabe supplisce la pittoresca perspicuità delle immagini, la
«lettura» delle quali non presenta nessuna difficoltà.
Otto anni più tardi (il 6 aprile 1944), ebbi modo, sempre senz'alcun
preavviso, di proporre a S. la riproduzione mnemonica di questa prova, ed
egli la eseguì senza la minima fatica e senza cadere in un solo errore.
Orbene: dalla lettura dei verbali or ora citati, sarebbe naturale
formarsi l'impressione di un enorme - anche se personalissimo - lavorio
logico, che da S. venisse compiuto sul materiale mandato a memoria.
Niente di più lontano dalla verità. Tutto l'ingente e virtuosistico
lavorio di cui abbiamo riportato tanti esempi, porta il carattere d'un
lavoro fatto sull'"immagine", ossia (per usare il termine con cui abbiamo
intitolato questo sottocapitolo) di una originale eidotecnica,
lontanissima dai processi logici di elaborazione delle informazioni
ricevute. appunto per questo, S., eccezionalmente forte nello scomporre
il materiale assegnatogli in immagini significative, e nella scelta di
tali immagini, appare poi debolissimo nell'organizzazione logica di
questo materiale: e i metodi della sua eidotecnica dimostrano di non
avere niente di comune con quella «mnemotecnica» su basi logiche e
astratte, il cui sviluppo e la cui struttura sono stati oggetto di tante
indagini psicologiche (5). E' un fatto, questo, che rivela la
stupefacente dissociazione tra un'enorme memoria visiva e una completa
ignoranza d'ogni possibile metodo di memorizzazione logica, quale appunto
si poteva facilmente constatare in S.
Addurremo due soli esempi delle prove dedicate a questo scopo.
Ai primi esordi delle esperienze con S. - sul finire, cioè, degli anni
venti - L. S. Vygotskij gli propose di mandare a memoria una serie di
parole, fra cui rientravano alcuni nomi di uccelli. Qualche anno dopo -
nel 1930 A. N. Leontjev, che allora studiava a sua volta la memoria di
S., gli propose un'altra serie di parole, fra cui erano compresi dei nomi
di liquidi.
Fatte queste prove, fu proposto a S. di enumerare separatamente i nomi di
uccelli della prima serie e i nomi di liquidi della seconda. A
quell'epoca S. procedeva, nel ricordare, preminentemente «per linee», e
così, il compito di trascegliere le parole appartenenti a una determinata
categoria si dimostrò assolutamente superiore alle sue forze: il fatto
stesso che, fra le parole assegnategli, se ne trovassero di affini tra
loro, gli era passato inosservato, e se ne avvide solo quando ebbe atto
la «lettura» di tutte le parole, e le ebbe raffrontate reciprocamente.
Analogo il caso che si verificò anni dopo, in una delle sedute che S.
teneva a Saratov.
In una tabella di cifre da mandare a memoria, gli data la serie riportata
qui sotto. Con grandi ed insistenti sforzi S. riuscì ad imprimersi nella
mente questa serie di cifre, applicandovi i metodi per lui abituali di
mnemotecnica visiva, senz'accorgersi affatto del semplice ordine logico,
secondo il quale le cifre erano disposte:

TABELLA 3

1 2 3 4
2 3 4 5
3 4 5 6
4 5 6 7

"Se anche mi avessero dato addirittura l'alfabeto, io non me ne sarei


accorto, e mi sarei messo onestamente al mio lavoro spiegava S. più
tardi. - Forse, me ne sarei potuto avvedere nel ripetere la serie, ai
suoni della mia voce: ma, quando mi fu proposta, non ne ebbi il minimo
sentore..."

Si potrebbero dare dimostrazioni migliori di quanto lontano restasse il


tipo di ricordo, proprio di S., da quello logico, comune ad ogni
individuo?
Abbiamo detto così della sua straordinaria memoria quasi tutto quello che
ci è stato possibile apprendere dai nostri esperimenti e dalle nostre
conversazioni. Ed essa, a un sol tempo, è divenuta per noi così chiara,
ed è rimasta così incomprensibile!
Molte cose siamo venuti a sapere della sua complicata struttura, come
cioè alla sua base ci fosse una tenace ritenzione delle impressioni
sinestesiche, come fosse improntata a un vivo carattere di figuratività,
come poi venisse ad aggiungervisi una virtuosistica «eidotecnica», capace
di trasformare ogni complesso di suoni, appena udito, in un'immagine
perspicua, senza privarlo perciò delle vecchie componenti sinestesiche.
Siamo venuti a sapere come a S, fosse sufficiente, per conseguire quello
che egli definiva il modo più semplice e facile di ricordare le cifre, la
sola e immediata memoria visiva, e come la rievocazione delle parole
sostituisse questa memoria con quella delle immagini, e come il passaggio
alla rievocazione di suoni (o gruppi di suoni) senza senso, lo facesse
ricorrere a un quanto mai primitivo procedimento di ricordo sinestesico,
quale un «cifrario delle immagini», di cui si giovava nel suo lavoro di
professionista della mnemotecnica.
Eppure, quanto poco sappiamo di questa memoria meravigliosa! Come ci
possiamo spiegare la tenacia con cui le immagini si conservavano in lui
tanto a lungo, magari per diecine d'anni? Quale spiegazione possiamo dare
del fatto che le centinaia e migliaia di serie, impresse nella sua
memoria, non si ostacolavano a vicenda, e che egli poteva praticamente,
tornare a suo piacimento a qualsiasi di esse dopo un intervallo di 10,
12, 17 anni? Da che cosa pote dipendere una così incrollabile stabilità
delle tracce?
Abbiamo già detto che le leggi della memoria a noi note non sono
applicabili alla memoria di S.
Le tracce lasciate da un dato stimolo non ostacolavano in lui, le tracce
lasciate da un altro stimolo; non tradivano esse, sintomi di attenuazione
e non perdevano la loro disponibilità a venir trascelte fra le altre; non
era possibile ravvisare in S. né dei limiti alla sua memoria quanto a
estensione e a durata, né una dinamica di affievolimento delle tracce in
rapporto allo scorrere del tempo; impossibile, in lui, enucleare
l'«effetto di posizione» in forza del quale ciascuno di noi ricorda i
primi e gli ultimi elementi d'una serie meglio di quelli intermedi; e
impossibile, altresì, riscontrare quei fenomeni di reminiscenza, per cui
un breve riposo conduce alla riemersione (si direbbe) delle impronte già
cancellate.
Il processo di memorizzazione, peculiare di S., obbedisce - come già
abbiamo detto - piuttosto alle leggi del percezione e dell'attenzione,
che non a quelle della memoria; esso non riesce a riprodurre una parola
se non «vede» bene, o se «se ne distrae»; il riaffiorare del ricordo
dipende dalla luce in cui si trova l'immagine, dalle sue dimensioni,
dalla sua collocazione, dalla possibilità che una «chiazza» la offuschi,
insorgendo da una voce estranea.
E tuttavia, questa memoria, è completamente diversa da quella memoria
«eidetica», che fu studiata nei dettagli dalla scienza trenta o quaranta
anni fa.
Non si ha affatto, in S., quella sostituzione dell'immagine negativa
susseguente con un'altra positiva, che è una delle caratteristiche
specifiche dell'«eidetismo»: le sue immagini rivelano una mobilità
illimitata, divenendo un disinvolto strumento delle sue intenzioni. Alla
sua memoria viene a mescolarsi in modo decisivo l'influsso delle
sinestesie, che la rendono così complessa e così nettamente distinta da
una semplice memoria «eidetica».
E nello stesso tempo, nonostante la complicatissima «eidotecnica» da lui
sviluppata, la memoria di S. rimane un esempio stupefacente di memoria
immediata. Pur attribuendo complessi valori convenzionali alle immagini
di cui si serve, egli continua a vederle, queste immagini, a rivivere le
loro componenti sinestesiche; egli non ha bisogno di riprodurre
logicamente i rapporti a cui fa ricorso: di colpo essi gli si presentano
dinanzi, non appena restaura quella situazione in cui il processo di
memorizzazione si è svolto.
Siamo, indiscutibilmente di fronte a una memoria eccezionale, che rimane
una sua caratteristica innata e individuale (6) e tutte le tecniche che
egli adotta sono una semplice soprastruttura di tale memoria, non ne sono
una «simulazione», eseguita con metodi ad essa estranei e non congeniali.
Fin qui, noi abbiamo descritto le caratteristiche salienti, dimostrate da
S. nel ricordo di elementi staccati: cifre, suoni, parole.
Si conserveranno ancora tali caratteristiche se passeremo al ricordo d'un
materiale più complesso, come situazioni ben determinate, testi
letterari, visi d'uomini?
Lo stesso S. ha avuto ripetutamente a lamentarsi della sua... cattiva
memoria in fatto di visi!

"Sono talmente instabili, - diceva, - dipendono a tal punto dall'umore


della persona, dal momento dell'incontro, che di continuo mutano, si
confondono tra loro per colore, e quindi è tanto difficile imprimerseli
nella memoria."

Qui le sensazioni sinestesiche, che garantivano nelle prove sopra


descritte la conveniente esattezza dei ricordi del materiale ritenuto,
vengono a convertirsi in qualcosa del tutto apposto, e incominciano a
ostacolarne la ritenzione nella memoria. Quel lavoro di scelta di
elementi essenziali, saldi punti di riconoscimento, che ciascuno di noi
compie nell'imprimersi in mente i vari volti umani (processo che finora,
è stato assai poco studiato dalla psicologia (7)), subisce in S. una
flessione evidente; e la percezione dei visi si assimila in lui a quella
delle sempre diverse mutazioni di luce e d'ombra, che si osservano
quando, dall'alto d'una finestra, guardiamo al tremolio delle onde d'un
,fiume. E chi saprebbe, infatti, imprimersi nella memoria delle onde
tremolanti?
Non meno stupefacente potrà sembrare l'altro fatto, che la memoria di
brani letterari nella loro interezza non si dimostrasse in S. troppo
brillante.
Bastava che il racconto venisse letto rapidamente, perché subito egli
tradisse un'espressione preoccupata, ben presto cedeva allo smarrimento.

"No, così è troppa roba... Ogni parola mi desta delle immagini e queste
irrompono una sull'altra, e ne vien fuori un caos... Io non riesco a
raccapezzare niente... eppoi, c'è di mezzo anche la vostra voce... e per
di più queste chiazze... E così, tutto mi si mischia insieme!"

Era questo che spingeva S. a leggere più lentamente, situando via via le
immagini ai loro posti, e sobbarcandosi in tal modo (come vedremo più
innanzi) a un lavoro molto più arduo e sfibrante di quello che compiamo
noi tutti; in noi, infatti, non accade che, leggendo un testo, ogni
parola susciti tante immagini perspicue, e l'enucleazione dei principali
capisaldi concettuali, apportatori del massimo d'informazione possibile,
si svolge con assai maggiore semplicità e immediatezza di quanto S. non
riuscisse a fare, con la sua memoria a base di immagini e di sinestesie.

"L'anno scorso - leggiamo nel resoconto d'una delle sue sedute (14
settembre 1936) - mi venne dato il problema: «Un commerciante vendette
tanti metri di tessuto...» Non appena sentii pronunciare «commerciante e
«vendette», ecco che vedo un negozio, col commerciante nascosto dietro al
bancone fino alla vita... Egli commercia in stoffe, e io vedo un
avventore che mi sta voltato di schiena... Io sto presso l'ingresso,
l'avventore si sposta un pochino a sinistra, e io vedo la stoffa, vedo un
libro mastro, e tanti altri particolari che non hanno niente a che fare
col problema... e così l'essenziale mi sfugge... Ecco, ora un altro
esempio. L'anno scorso, sono stato presidente di un'organizzazione
sindacale, e dovevo appianare dei conflitti di lavoro. Vengono a
riferirmi di comizi tenuti a Taskent (Tashkent), nel circo equestre, poi
a Mosca, e così sono costretto a trasferirmi mentalmente da Taskent a
Mosca... Vedo ogni particolare, ma è tutta roba che debbo metter da
parte, tutta roba superflua, giacché in realtà non ha nessuna importanza
dove quelli si siano messi d'accordo, se a Taskent o in qualche altro
posto; l'importante è quali condizioni siano state stabilite. E allora io
mi trovo nella necessità di stendere come un grande lenzuolo, che tenga
nascosto tutto il superfluo, cosicché nulla che non sia necessario mi
appaia più alla vista..."

E' mai possibile imprimersi bene nella memoria e riprodurre un brano di


lettura se, intorno alle parti che lo compongono, rigoglia una simile
quantità d'immagini, così facili a portar fuori strada rispetto al
contenuto fondamentale di questo brano?

L'arte di dimenticare.

Siamo giunti così all'ultimo problema che ci resta da chiarire, per avere
un profilo completo della memoria di S. E' un problema, di per sé,
paradossale, non solo, ma la sua soluzione rimane confusa. E tuttavia,
non possiamo far a meno di affrontarlo.
Molti di noi pensano: come trovare un modo per migliorare la memoria?
Nessuno si cura del problema: quale il modo migliore per dimenticare? Nel
caso di S., accade tutto il contrario. Come imparare a dimenticare? Ecco
il problema da cui egli è assillato più che da ogni altro.
Già in quanto si è detto sopra, circa le difficoltà di comprendere e di
mandare a memoria un testo letterario, si è incontrato questo problema.
In un testo, i dettagli sono molti, ciascuno genera immagini nuove, le
immagini fan deviare dall'essenziale, e via via le parole ulteriori
suscitano nuove immagini: ne nasce un caos. In che modo liberarsene, non
vedere più tutto ciò che complica tanto la diretta comprensione del
testo? Non vedere più, arrestare il pullulio delle immagini: così S.
stesso formulava il compito che gli si parava innanzi. Ma il suo lavoro
di professionista della mnemonica lo poneva di fronte anche a un secondo
compito: in che modo dimenticare, in che modo scancellare le immagini,
che ormai non servissero più?
Al primo dei due problemi, è relativamente facile dare una risposta. Nel
suo lavorio sulla tecnica delle immagini S. si perfeziona sempre più
nell'abbreviazione di queste ultime, e i dettagli superflui si ritraggono
in secondo piano.

"Ieri sera, per esempio, ho ascoltato alla radio l'atterraggio di


Levanevskij. Un tempo, avrei veduto ogni cosa: l'aerodromo, folla, il
recinto:.. Ora non più. Io non vedo l'aerodromo, mi è indifferente se
l'arrivo sia avvenuto a Tusino (Tushino) o a Mosca: vedo soltanto un
piccolo spiazzo sul lastrico di Leningrado, dove riesce più comodo
accoglierlo... M'interessa di non perdere una parola di quanto egli dice,
ma dove la cosa si svolga, mi è indifferente. Se fosse stato un paio
d'anni fa, avrei sofferto a non vedere l'aerodromo, a non vedere tanti
particolari. Ora mi piace, invece, di non vedere nient'altro che
l'essenziale: la cornice non ha importanza, mi appare solo quello che è
necessario, mentre tutte le circostanze collaterali non appaiono più: e
questo costituisce per me un'enorme economia."

Quel lavorio di enucleazione dell'essenziale, di direzione


dell'attenzione, di universalizzazione dell'argomento, aveva portato i
suoi frutti; e se, anteriormente, S. si trovava costretto a «tenersi
nascosta, con una specie di lenzuolo impenetrabile, una parte di ciò che
vedeva», ora l'assunzione dei punti più efficacemente informativi, e
l'elaborazione di cifrari accelerati, avevano ottenuto il loro effetto.
Più difficile si dimostrò raggiungere il secondo scopo.
Frequentemente S. si esibisce più d'una volta nella stessa serata, in
sedute che possono svolgersi anche nella stessa sala, cosicché le tabelle
delle cifre vengono scritte sulla medesima lavagna.

"Io temo che sedute distinte non abbiano a confondermisi insieme. Perciò,
mentalmente, cancello la lavagna, e quasi la ricopro d'una pellicola
assolutamente refrattaria alla vista e impenetrabile. E' una pellicola
che (si direbbe) srotolo fuori dalla lavagna stessa, tanto che ne avverto
lo scricchiolio. Quando la seduta ha termine, scasso ben bene tutto ciò
che è stato scritto, mi discosto dalla lavagna e, tra me, strappo via
quella pellicola. Mi metto a discorrere e, intanto, è come se tra le mani
appallottolassi la pellicola... E tuttavia, non appena mi riavvicino alla
lavagna, quelle cifre potrebbero di nuovo apparire... Una minima
associazione di tal genere, e neanch'io mi avvedrei più di continuare la
medesima tabella."
("da una lettera del 1939").

I tentativi di crearsi una «tecnica per dimenticare» ai quali nei primi


tempi S. faceva ricorso, erano quanto mai semplici; non sarebbe stato
possibile - si chiedeva egli - procedere a un vero e proprio "atto" di
dimenticare, calato in un azione esteriore, magari "prendendo nota" di
ciò che bisognava dimenticare? Agli altri la cosa può sembrare strana, ma
per S. era più che naturale.

"Per ricordare, la gente prende nota... A me, questo pareva ridicolo, e


giudicavo la cosa dal mio punto di vista: una volta che costui prende
nota per iscritto, vuol dire che non aveva necessità di ricordarsene, ché
se gli fosse mancato il lapis, e non avesse potuto prender nota, allora
se lo sarebbe impresso nella mente! Dunque, se io mi annotassi per
iscritto qualche cosa, saprei che non ho necessità di ricordarmene... E,
così, incominciai a far applicazione di questo in piccole cose: numeri
telefonici, cognomi, commissioni d'ufficio. Ma non ottenevo nessun
risultato: continuavo a vedere, mentalmente, la mia annotazione... Cercai
pure di segnare le note su carta di tipo uniforme, e con lapis dello
stesso tipo: ma, pur sempre, non ne cavavo nulla di buono..."

Allora S. si spinse oltre: si mise a buttar via, e perfino a bruciare, le


carte su cui stava scritto ciò che doveva dimenticare. E qui c'imbattiamo
per la prima volta in un fatto, a cui ripetutamente torneremo in seguito:
la vivida immaginazione figurativa di S. non era nettamente separata
dalla realtà, e ciò che egli doveva fare interiormente sua coscienza,
tentava di farlo con gli oggetti esteriori.
Ma la «magia del falò» non si dimostrò efficace quando, una volta,
gettato nella stufa accesa un foglietto tutto segnato di cifre, si avvide
che sulla pellicola carbonizzata le tracce di quelle rimanevano ancora,
la disperazione lo assalì: dunque, nemmeno il fuoco poteva cancellare le
tracce di ciò che bisognava distruggere!
Il problema del dimenticare, non risolto dall'ingenua tecnica del falò,
divenne così uno dei suoi problemi tormentosi. E, a questo punto,
sopravvenne una soluzione, la sostanza della quale restò parimenti
incomprensibile per lo stesso S., sia per chi studiava il suo caso.

"Una volta (era il 23 aprile) mi ero esibito a tre riprese in una stessa
serata. Mi sentivo fisicamente stanco, e cominciai a pensare come
regolarmi con la quarta esibizione. Tra poco, le tabelle delle prime tre
esibizioni mi sarebbero potute sprizzare innanzi... Questo era per me un
problema terribile... Ecco, voglio proprio vedere se la prima tabella
viene a sprizzarmi di nuovo, oppure no. Quasi temevo che la cosa non
accadesse. Volevo e non volevo. E così, mi metto a pensare: quella
lavagna non mi riapparirà più; e il perché è semplice: perché io non
voglio! Ahàh... ma allora, se io non voglio, quella non riappare più...
Non c'era dunque altro da fare che prender bene coscienza di questo!"

Incredibile, ma questo metodo diede i suoi frutti. Forse, qui, avrà avuto
una parte la fissazione della mente sull'assenza dell'immagine; forse si
sarà trattato d'un rifiuto dell'immagine, d'una inibizione di questa,
aiutata dall'autosuggestione: ma a che scopo arrischiare congetture su
quel che ci resta oscuro? Certo è che il risultato fu evidente.

"D'improvviso mi sono sentito liberato. La consapevolezza che ormai, sono


garantito dagli errori, mi dà una maggior sicurezza. Discorro più
liberamente, posso permettermi il lusso di fare delle pause, so bene che,
se non voglio, l'immagine non apparirà: e così, mi sento
magnificamente..."

Ecco tutto quello che noi siamo in grado di dire della straordinaria
memoria di S., del ruolo in essa svolto dalle sinestesie, della tecnica
delle immagini e della «tecnica cronologica», i cui meccanismi ci restano
tuttora oscuri...
E' giunto ora il momento di affrontare una nuova parte del nostro
racconto.
Abbiamo esposto in che modo S. percepisse e mandasse a memoria ciò che lo
colpiva, quanto prodigiosamente esatti fossero i suoi ricordi, e quale
straordinaria capacità di durata avessero le immagini che insorgevano in
lui; abbiamo preso visione della loro bizzarra struttura, e del lavorio
che egli doveva compiervi attorno. Ora, ci resta da fare un'escursione in
quello che era il suo mondo: nel suo pensiero, nella sua personalità.
Potrà rimanere senza peso, tutto ciò che si è detto fin qui, di fronte
alla sfera delle sue percezioni, al mondo in cui viveva? Pensava, egli,
allo stesso modo che noi tutti pensiamo? Non si formavano dunque, dentro
di lui, nel suo comportamento, nella sua personalità, dei tratti
peculiari, inconsueti per qualsiasi altro uomo?
Stiamo per iniziare, come s'indovina, un racconto di cose meravigliose: e
molte volte, di qui innanzi, ci avverrà di sperimentare quell'impressione
che provò la piccola Alice quando, passata oltre la superficie dello
specchio, si ritrovò nel misterioso paese delle meraviglie...

NOTE.

Nota 1: Nel testo si riporta fra parentesi la pronuncia.


Nota 2: Soltanto in speciali casi patologici il valore concettuale delle
parole può ritrarsi in secondo piano, e cedere il suo posto preminente al
loro aspetto sonoro. Confronta A. R. LURIJA, O. S. VINOGRADOVA, "An
objective investigation of the dynamic of semantic systems", in "British
Journal of Psychology", 1959, v. 50, pagine 89-105.
Nota 3: Per tale tecnica della «dislocazione» e della «lettura visiva»
per immagini, S. si trovava assai vicino a un altro mnemonista, il
giapponese Ishihara. Confronta TUKASA SUSUKITA, "Untersuchungen eines
ausserordentlichen Gedächtnisses in Japan", in "Tohoku Psychologica
Folia", Sendai, 1933-1934, pagine 15-42, 111-134.
Nota 4: Il Soviet di Mosca.
Nota 5: Confronta A. N. LEONTJEV, "Razuitie pamjati" [Lo sviluppo della
memoria], Mosca, 1931, "Problemy razvitija psickiki" [Problemi dello
sviluppo della vita psichica"], Mosca, 1959. Inoltre, A. S. SMIRNOV,
"Psicologija zapominanija" [La psicologia della memoria], Mosca, 1948, e
altri.
Nota 6: Vi sono testimonianze che una memoria affine a quella qui
descritta distinguesse anche i genitori di S. Il padre - proprietario in
passato d'un negozio di libri - ricordava facilmente, a dire del figlio,
il posto in cui ogni libro si trovava, e la madre sapeva citare lunghi
versetti della Torah. Una comunicazione (risalente al 1936) del prof. P.
Dahle che si è occupato della famiglia di S., segnala che una memoria non
comune si è rivelata anche in un suo nipote. Tuttavia, testimonianze
abbastanza sicure sulla natura genotipica della memoria di S. non sono in
nostro possesso.
Nota 7: Basterà menzionare il fatto che lo studio dei casi di alterazione
patologica della facoltà di ravvisare le persone (la cosiddetta "agnosia"
delle persone o "prosopagnosia"), casi segnalati in gran numero negli
ultimi tempi sulla stampa neurologica, non è ancora giunta a nessun punto
fermo per una comprensione di questo processo quanto mai complicato.

Il suo mondo.

L'uomo vive in un mondo di cose e d'altri uomini. Egli vede degli


oggetti, ode dei suoni. Percepisce delle parole...
Accadrà in S., tutto questo, come in qualsiasi uomo normale? O il suo
mondo sarà completamente diverso nostro?

Le cose e gli uomini.

La singolare memoria di S. crea subito un vantaggio: si serbano in essa i


ricordi di quei lontani, primissimi periodi della sua vita, che invece,
in ciascuno di noi, o non sono rimasti impressi, o sono stati espulsi
dall'enorme quantità delle impressioni successive, oppure si sono
depositati in quello stadio in cui ancora non aveva terminato di formarsi
il discorso, strumento fondamentale della nostra memoria.
Che cosa resta a nostra disposizione, dei ricordi della prima infanzia?
Poche immagini confuse, evanescenti... Una figurina incollata al
coperchio d'un baule; i gradini d'una scala dove a quei tempi si stava
seduti; la sensazione della sciarpa di lana, che ci avvoltolavamo intorno
al collo...
Ma il mondo dei ricordi di S. è incomparabilmente più ricco del nostro: e
la cosa non può stupirci. La sua memoria, infatti, non si è trasformata
in quel semplice apparato di elaborazione verbale delle informazioni, a
cui da un pezzo si è ridotta in noi; essa ha conservato quei caratteri
d'immediata insorgenza delle immagini, che le erano proprie nel primo
periodo di formazione della coscienza. Possiamo credere più o meno a ciò
che egli ci racconta, e fare a volte dei tentativi di verificare quanto
gli sentiamo dire, anziché credervi ciecamente. Ma dobbiamo ascoltare con
tutta l'attenzione possibile le scene che ce ne sorgono innanzi, e
nutrire il massimo interesse, se non per i fatti in se stessi (dei quali
si può sempre dubitare), per quello stile in cui ci vengono riferiti, che
è quello tipico di S. Passiamo senz'altro a esaminarlo.

"Ero ancora piccolissimo, non avevo forse neanche un anno... Più chiaro
d'ogni altra cosa mi risale alla memoria l'arredamento che avevo
intorno... Non ricordo l'arredamento di tutta la stanza ricordo quello
dell'angolo dove si trovavano il letto di mia madre e la culla. La culla
era una specie di lettino con le balaustrine alle sponde e, sotto, due
assicelle arrotondate, su cui dondolava... Ricordo che il parato della
camera dava sul marrone, il letto era bianco.. Ecco mia madre che mi
prende su e poi mi posa di nuovo: io sento quel movimento... Ho
un'impressione di calduccio e una sgradevole impressione di freddo...
Chiarissimo, poi, è il ricordo della luce: di giorno era 'così', più
tardi, 'così' (questo, al crepuscolo), e ancora più tardi, la luce gialla
della lampada... e allora diventava 'così'". ("agosto 1934").

Fin qui, non si esce dai limiti di quelle immagini che possono facilmente
affiorare in chiunque, con maggiore o minore vaghezza.
Ma ecco subentrare nel racconto delle note ben diverse. Le immagini nette
si ritirano in secondo piano, e sorgono quelle confuse esperienze
sinestesiche, nelle quali le percezioni e le sensazioni non hanno limiti,
le immagini del mondo esterno vengono sostituite da impressioni sfocate,
tutto diviene labile, confuso, ed è difficile esprimere a parole quel che
si prova.

"Mia madre mi si è impressa dentro così: prima che io cominciassi a


ravvisarla, era 'qualcosa che faceva star bene'. Senza forma, senza
volto, è una cosa che si curva su me, e dalla quale mi verrà del bene...
Vedevo mia madre come quando si guarda nella camera d'un apparecchio
fotografico: dapprima non si scorge nulla, tranne una nuvoletta
tondeggiante, una chiazza... poi appare un viso... poi i tratti del viso
acquistano nettezza... Mia madre mi prende su... Io non mi accorgo delle
sue mani: c'era solo un'impressione che, dopo l'apparizione di quella
chiazza, qualcosa sarebbe capitato. Sono preso in braccio... E allora sì,
mi accorgo di quelle mani... Mi è subentrato un senso tra gradevole e
sgradevole... Evidentemente, quando mi asciugavano, lo facevano con
rudezza, e mi riusciva sgradevole... o quando mi tiravano su dal
lettino... Specialmente la sera... Io sto giù disteso: è così... Tra
poco, sarà 'così'... E io mi spavento, piango e, piangendo, mi metto a
piangere più forte che mai... Solo più tardi cominciai a capire che, dopo
quel 'così', sarebbe seguito un rumore... e poi, silenzio. Avevo sentito
il pendolo."
("agosto 1934").
"Mia madre, la vedo vividamente e con chiarezza: è una nuvoletta, poi una
cosa piacevole, poi un viso, poi un movimento... Mio padre, lo
riconoscevo dalla voce... La mamma mi dondolava da un lato della culla e
mio padre, dondolando anche lui, mi parava la luce dall'altro lato.
Probabilmente, ogni tanto, mi si accostava più da presso, giacché su me
si faceva buio, chinandosi egli dal lato della luce...
... Questa era poi, quasi sicuramente, la vaccinazione del vaiolo...
Ricordo una massa di nebbia, dei colori, so che c'era frastuono: forse un
chiacchiericcio, o roba del genere... Dolore, però, non ne sento... Mi
vedo sul letto di mia madre, dapprima la testa verso il muro, poi verso
la porta. Il rumore della voce, io già lo riconosco: ebbene, so che, dopo
questo, ci sarà un rumore, probabilmente il mio pianto... Mi si
affaccendano torno: dopo di che, rumore, nebbia: e dopo, deve venire
«quella tal cosa» e «quella tal altra».
...Per me, non si poteva chiamare un'impressione del lettino bagnato. Io
non sapevo se fosse bene o male... Ricordo in che modo, nel lettino, si
faceva umido: era dapprima una sensazione piacevole, di tepore, poi
sopravveniva un senso di freddo... un non so che di spiacevole che mi
scotta, e io mi metto piangere... Non mi castigavano per questo...
Ricordo un momento: dormivo con mia madre, ma ero già capace di scendere
dal letto. Sento la voce di lei... Da parte mia, forse, sapevo appena
balbettare...
Ed ecco, ancora: è qualcosa di sgradevole: sento freddo... il senso d'una
macchia... come quando mi mettono sul vasetto accanto alla porta e alla
stufa... Piango: quando mi mettono sul vasetto per forza, mi pare che mi
passi la voglia di farne uso. Ne avevo paura... All'interno era bianco,
all'esterno verdognolo; al centro, sulla vernice a smalto, c'era una
grossa macchia nera. Io pensavo che quella macchia fosse come uno
scarafaggio sul muro. Credevo che fosse «lo scarabeo»."
("16 settembre 1934").

Non è facile dire se un racconto simile rimandi alle sensazioni della


prima infanzia, o rispecchi quel tipo di sensazioni che appunto
attualmente era peculiare di S., seduto lì dinanzi a me. E' possibile
rispondere sia in un senso sia nell'altro: e sarebbe sterile rompersi il
capo a voler arzigogolare su questo.
Una cosa è indubbia: che un tale tipo di sinestesi diffusa - che in
qualsiasi uomo adulto (a dire dei neurologi) caratterizza esclusivamente
le più primitive forme «protopatiche» di sensibilità - si conserva nelle
esperienze di S. anche ulteriormente, e investe, si può dire, tutte le
forme delle sue sensazioni. Ecco per quale ragione è difficile trovare un
confine che divida, in lui, una forma di sensazione dall'altra, le
sensazioni dalle esperienze.

"Avevo dieci o undici anni, e stavo cullando la mia sorellina. Eravamo


molti figli, io ero il secondo, e così cullavo i più piccoli.. Avevo già
cantato, quella volta, tutte le cantilene e bisognava cantare forte, ci
voleva una nebbia per far venire il sonno... Ma come mai ci metteva
tanto, la sorellina, per addormentarsi? Socchiudo gli occhi, e mi provo a
intuire perché mai non si addormenterà. Alla fine, indovino: forse, sarà
anche qui «lo scarabeo»? Tolsi su, allora, un asciugamano e le bendai gli
occhi... E lei si addormentò."
("16 ottobre e 1934").
Non c'è forse, in questo brano, tutto ciò che ci interessa di più, da
quel sinestesico «bisognava cantare forte, ci voleva una nebbia per far
venire il sonno», a quelle infantili vaghe impressioni di terrore, a quel
tentativo di penetrare nelle impressioni d'un altro, chiudendo gli occhi
e rappresentandosi i motivi da cui l'altro è angosciato (punto su cui
torneremo ancora in seguito)? E si badi bene, tutto questo - a credere a
S. - in un ragazzo di dieci, undici anni!
No, non solo in un ragazzo... Sono tutte cose rimaste fino ad oggi nella
coscienza di S.: e quante impressioni sinestesiche ed esperienze diffuse
possiamo ritrovare in lui, se analizziamo ciò che tanto spesso ci si
offre nella sua sfera percettiva, e che caratterizza la sua coscienza!
Eccone qualche esempio soltanto.

"A questo punto ha squillato un campanello... mi è rotolato qualcosa di


tondo dinanzi agli occhi, una specie di gomitolo, e poi, un gusto di
sale... e un non so che di bianco..."

Qui c'è tutto: lo squillo suscita, in modo immediato un'immagine visiva:


esso è fornito di qualità tattili, d'un colore bianco, ed è salato al
gusto. Sinestesie cosiffatte si conservano in tutte le sensazioni, in
tutte le esperie del mondo esterno.

"... Sto seduto in un ristorante, e l'orchestra suona... Sapete perché


c'è musica, lì? Perché, con la musica, tutto cambia di sapore... E, se si
sa sceglierla come si deve, tutto diventa gustoso... Chi tiene i
ristoranti, deve saperlo benissimo."

E ancora:

"... Io ho sempre di queste impressioni... Montare su un tram? Sento nei


denti uno stridio... Ecco che mi vado a prendere un gelato, per starmene
un po' seduto, mangiare e non udire più quello stridio. Mi avvicino alla
gelataia e le domando che cosa ha di buono: «Un sorbetto con frutta
candita!» mi risponde lei, con una voce come se un mucchio di carbone, di
scorie nere, le fosse sgorgato dalla bocca: e io non posso più prendere
quel gelato perché lei ha risposto così... Eppoi, ancora: quando mangio,
io resto ben poco aperto alle percezioni: se leggo, il sapore del cibo mi
soffoca il significato."
("22 maggio 1939").

"... Scelgo i cibi secondo il suono. E' ridicolo a dirsi: la maionese è


molto gustosa, ma quelle 'esse' dolce ['majonez'] guasta tutto il sapore:
la 'esse dolce' è un suono antipatico... Per gran tempo non mi e stato
possibile mangiare i francolini di monte: «francolino», infatti, è
qualcosa di saltellante... E se, nel menu, ci sono errori di scrittura,
io non posso più mangiare: mi sembra che il piatto sia così vecchio,
logoro...
Sentite che cosa mi è successo... Entro nella sala da pranzo. Mi dicono:
«volete dei 'korziki' (pronuncia Korgiki) [una specie di 'chiffel']?» e
mi portano dei panini... No, questi non sono 'korziki'! I 'korziki' sono
così ben cotti, croccanti, pungenti..."

Tutto il mondo di S., insomma, non è come il nostro. Non ci sono, in


esso, confini ai colori e ai suoni, alle sensazioni di gusto e a quelle
di tatto. Suoni lisci e freddi, luci scabre, tinte salate, odori chiari,
luminosi, pungenti: e, tutto questo, intrecciato, mescolato insieme,
tanto che ormai è difficile separare una cosa dall'altra...
Ma siamo giunti, così, a un altro tema, e ad esso passeremo subito. Come
si manifestano le sinestesie di S. nella percezione delle parole? Che
cosa significano le parole per lui? Anche ad esse si mescoleranno quelle
stesse impressioni sinestesiche, che dei rumori facevano «globi di fumo»,
e mutavano il gusto del cibo, se il nome d'una pietanza veniva
pronunciato da una voce «sgradevole» e «pungente»? In che modo si
costruisce in S. il significato delle parole?

Le parole.

Il significato delle parole... Questo è per noi, del resto, un problema


non del tutto nuovo: già lo abbiamo incontrato un paio di pagine
indietro... Lo «scarabeo»! Qual era, in S., l'intima appercezione di
questa parola, che nella sua applicazione primitiva notava lo
scarafaggio, ma poi aveva assunto un così ampio senso traslato?

"«Lo scarabeo» (1): è una scrostatura del vasetto da notte... Queste


scrostature sono di color nero... Di sera, col comparire dei lumi,
compare anche «lo scarabeo»... Infatti, non tutto è illuminato, la luce
della lampada cade soltanto su un piccolo spiazzo, intorno è buio: ed
ecco «lo scarabeo»... I nei pelosi, anche quelli sono «lo scarabeo»...
Ecco che io vengo posto dinanzi allo specchio: c'è rumore... ridono... Ed
ecco là nello specchio, i miei occhi, scuri: è, ancora una volta, «lo
scarabeo». Ora sto coricato nella culla; poi nasce un gridio, un
fracasso, minacce... Stanno bollendo qualche cosa nella teiera
smaltata... nonna, sta facendo il caffè. Essa lascia cadere qualcosa di
rosso e lo tira fuori... «lo scarabeo!» Il carbone, anche quello è «lo
scarabeo»... Ecco che accendono le candele del Sabato: la candela arde
sul candeliere, il residuo di stearina non si scioglie, lucignolo
tremola, diventa nero... Io ho paura, piango: a questo è «lo scarabeo»...
E quando mescevano il tè trascuratamente, e dentro ci capitavano
frammenti di foglioline... ecco: nel piattino: era di nuovo «lo
scarabeo»."
("16 settembre 1934").

Oh, sono tutte cose che gli psicologi conoscono già così bene! Stumpf,
per esempio, osservando il suo figliolino, notò come, per lui, un «kva»
fosse insieme un'oca e un'aquila e la moneta stessa su cui quest'ultima
era e effigiata... O quel tanto noto «kch», con cui il bambino denota sia
il gatto, sia la sua pelliccia, sia la pietra aguzza che l'ha sgraffiato!
Sì, nei racconti di S. c'è un che di autentico, di aderente alla realtà,
che ci fa ritornare agli anni lontani de prima infanzia.
L'ampia capacità di traslato delle parole infantili ci è dunque ben nota
(2): in S., però, anche in questi conosciutissimi motivi incominciano a
intrecciarsi assai presto delle note nuove.

"... Ecco «mama», o «mame», come dicevamo da piccoli. E' una nebbiolina
luminosa... Così «mama» come tutte le altre donne, è qualcosa di
luminoso... e il latte nel bicchiere, e la lattiera bianca, e la tazza
bianca, tutto insieme è come una nuvola d'un bianco luminoso... E ora
ecco la parola 'ghiss' (in ebraico «mesci!»); questa è apparsa più tardi,
e denota una manica, qualcosa di stralciato, di lungo, come quel
rivoletto quando si mesce il tè... Nel samovar lucidato, il riflesso del
viso è anch'esso 'ghiss': risplende come il suono 'ss', ed è un viso
allungato, come un rivolo d'acqua, come il braccio che lentamente, nella
sua manica, si abbassa verso di me, quando versano il tè nella mia
tazza..."
("settembre 1934").

Qui non abbiamo più di fronte, semplicemente, un'ampia dilatazione del


significato d'una parola.
Infatti, una parola ha un dato senso, indica una certa connotazione, e
tale connotazione viene estesa ad altri oggetti, e la parola viene a
indicare tutti gli oggetti in cui quella connotazione sia palese: si
tratta, fin qui, d'un processo arcinoto. Ma la parola è espressa da un
complesso di suoni, vien pronunciata da questa o da quella voce: ed ecco
che il suono e la voce hanno anche un loro colore e sapore, e suscitano
«globi di fumo», «spruzzi», «chiazze», e, tra i suoni, gli uni sono lisci
e bianchi, gli altri color arancione, aguzzi come frecce: e i significati
delle parole incominciano a rispecchiare quei suoni che la parola
pronunciata include in sé. Questa è ormai una forma diversa di estensione
dei significati verbali: è un'estensione che si attua secondo le
peculiarità sonore - sinestesicamente sentite - della parola.
Noi, di solito, facciamo astrazione dal modo in cui la parola suona: la
distinguiamo dalle altre per il significato fondamentale,
convenzionalmente attribuitole. Ritraiamo forse una qualsiasi impressione
d'armonia o di contrasto, quando chiamiamo un albero «pino», un altro
«abete», un terzo «betulla»?
Ben diverse erano le esperienze di S. Egli aveva l'acuta sensazione che
ci sono parole in piena armonia col loro contenuto, altre che bisogna
correggere, e altre ancora il cui contenuto manifestamente ne discorda, e
che sono esclusivamente il prodotto d'un malinteso.

"... Avevo preso la scarlattina: di ritorno dal 'cheder', la testa mi


doleva... Mia madre dice: «lui ha il 'chiz'» [la febbre]. Ben detto,
questo! Il 'chiz' è una specie di lampo, qualcosa di abbagliante...
infatti, dalla testa mi esce un non so che di tagliente, di arancione...
veramente ben detto!
... Ma, per esempio, 'cholz' (per legna), proprio non lega. 'Cholz' ha un
alone chiaro, luminoso... E qui, invece, sta per un pezzo di tronco! No,
non va... qui c'è un malinteso!
Così pure, 'svinjà' [maiale]! E' possibile una cosa simile? 'Svinjà': è
qualcosa di snello, di elegante... Ben altro è il caso 'chavrònja' [in
russo, più volgarmente: porco], o di 'chazer' [porco in ebraico]. Qui sì,
con quelle 'ch-ch', il maiale c'è: grasso, col pancione, con le setole
ispide, col fango rappreso addosso: «'a chazer'!»
Ho cinque anni, mi hanno condotto al 'cheder': ma già da prima il rabbino
era stato a casa nostra... Quando mi hanno detto: «Tu andrai a scuola da
Kameraz (Kamerag)», io ho subito indovinato che c'era di mezzo quell'uomo
con quella barba così scura, con la giubba lunga e il tubino. Era chiaro
che quello era «Kameraz»! Non gli stava bene, invece, quella parola
'rebe' [rabbino]. 'Rebe' è qualcosa di bianco, mentre lui era così
scuro...
E ora un altro esempio: Nabucodonosor (che in ebraico Nabuchadneizer)...
No, qui c'è un equivoco! Quello era tanto cattivo, era capace di fare a
pezzi un leone: si sarà chiamato, piuttosto, 'Nabuchadreizer': così sì
che gli starebbe bene! Quanto a 'spits' (shpitz) [guglia], sì, è giusto:
bisogna che sia una cosa smilza e aguzza... e anche 'dog' [molosso]:
questo pure è comprensibile: è un cane grosso, e così dev'essere...
...E 'samovàr'! Indubbiamente, è un luccichio compatto: non proviene,
però, dal 'samovàr', ma da quella lettera 's'... I tedeschi invece,
dicono 'Teemaschine': non va bene! 'Tee' è qualcosa di cascante, ecco che
viene giù... Ohi! Ho avuto paura che cadesse in terra... Come
potrebb'essere mai, insomma, un 'samovàr'?"
("16 settembre e 16 ottobre 1934").

Il contenuto della parola deve quindi armonizzare con suono che essa dà:
se questo manca, S. è capace di piombare nello smarrimento.

"Il nostro medico di famiglia era il dottor Tigher... «'Me darf rufen den
Tigger'»... Io pensavo che dovesse arrivare una specie di bastone alto
alto, che si sarebbe ficcato giù in terra («e» «r»)... ma chissà chi era?
Mi risposero: il dottore!... E allora io vidi, "il dottore":
tondeggiante, una specie di pan pepato, delle nappine intorno, qualche
cosa che penzolava all'ingiù... e appunto lo collocai su quel bastone...
Quando poi entrò stanza un buon tipo di zio d'alta statura, acceso in
faccia, io lo squadrai da capo a piedi... Macché, non si trattava davvero
di quello!»."
("31 marzo 1938").

Ed ecco un'altra impressione simile di discordanza, ma in età assai più


tarda:

"... Stavo a scuola. Si leggeva di come Afanasij Ivanovitch e Pulcherija


Ivanovna mangiassero dei 'korziki' (korgichi) ['chiffel'] col lardo...
'Korzik': io capivo che si trattava d'un cibo, ma... 'korzik'... doveva
essere di forma oblunga quel panino, doveva avere assolutamente una
scannellatura, e la crosta assolutamente abbrustolita! Trovandomi molto
più tardi, nel 1931, in un caffè di Baku, che cosa vedo scritto?
«'Korziki' col lardo!» Se di 'Korziki' si trattava, bisognava che fossero
fatti in quel modo là, e non già diversamente. Ecco, invece, che mi
portano il caffè con due focaccine. Io dico: «Ho chiesto dei 'korziki'!».
E la venditrice: «E appunto dei 'korziki' col lardo vi ho portato io!».
Ma, evidentemente, si trattava di tutt'altro: quelli lì non coincidevano
neppure lontanamente..."
("ottobre 1934").

"Il significato d'una parola deve coincidere in pieno col suo suono. Il
tedesco 'Mütter', chissà perché, è un sacchetto scuro, color cannella,
appeso in posizione verticale con delle pieghe... La prima volta che lo
sentii pronunciare; subito mi apparve così... Il suono vocalico, in una
parola, è la cosa fondamentale, mentre quello consonantico ne forma lo
sfondo: io vedo, dunque, una sinuosità, ma la 't' e la 'r' qui sono
dominanti... mentre per esempio 'Milch' è una specie di cordino con un
borsello... 'Löffel' [cucchiaio] è un che d'intrecciato... e 'maim' [in
ebraico: acqua] è una nuvola e quella 'm' si allontana anch'essa chissà
dove."
("ottobre 1934").

Grandi difficoltà incontrava S. nei tentativi di adattare il contenuto


della parola al suo suono: e questa infantile sinestesi delle parole
rimase in lui ancora per lungo tempo.

"La parola, secondo il suono che dà, possiede un certo aspetto e colore,
mentre il significato ha un altro aspetto e peso, suona altrimenti... Di
tutto questo bisogna tener conto perché io possa applicare la parola al
momento e al luogo: da una parte, costituisce una complicazione,
dall'altra, un metodo mnemonico. Se io, in quel momento, penserò al fatto
che possiedo questa strana singolarità, e che debbo adattarmi a quanto mi
circonda, si avrà un risultato; se, invece, non ci penserò, potrà darsi
che io faccia l'impressione d'un uomo limitato, ottuso,
sconclusionato..."
("16 ottobre 1934").

Una simile percezione sinestesica della parola, per cui il suono è


altrettanto determinante del concetto quanto il significato, ha anche un
altro aspetto. Se alcune parole vengono percepite come non rispondenti al
concetto, tali da portare in un vicolo cieco, e da ostacolare la
percezione suono di altre viene a dar loro espressività. L'impressione
che S. ha delle parole, diventa la misura della loro espressività. Non
per nulla conversava con lui con tanto interesse S. M. Ejzenstejn, il
quale, della psicologia dell'espressività, aveva fatto il compito
centrale della sua vita.

"... In una bottega di salumaio si era intrufolato un ragazzetto, e aveva


sottratto dalla cassa una moneta da mezzo rublo ['poltinnik]. Io non
sapevo ancora che cosa fosse un 'poltinnik': doveva essere un oggetto
oblungo, inerte, scuro, giacché 'p', 'i' e 't' sono (non è vero?) suoni
scuri... Il bottegaio gli diede un 'paz' (in ebraico: schiaffo). Io
capisco che 'paz' è una brutta parola... e poi ecco, ancora, un 'frask'
(altra variante per schiaffo, quando questo rimbomba), e poi un 'chljask'
(altra variante della stessa parola, quando i denti scricchiolano)..."
("maggio 1936").

Ma forse l'esperimento più significativo, per la per la percezione


dell'espressività del suono, si ebbe quando S. fu invitato a definire la
differenza tra le varianti d'uno stesso nome di persona: Masa (Masha),
Mànja, Marúsja, Meri (Mary), in che cosa questi nomi differiscono?

"... Anche ora che sono un adulto, io li percepisco in modo diverso.


Maríja, Masa, Meri: macché, non sono mica la stessa cosa! Mànja, a quella
tale, le sta bene, ma Marúsja e Meri, proprio no. Mi ci è voluto molto
tempo a rendermi conto che una stessa donna si può chiamare così. Ma poi,
anche adesso, non riesco ad esserne ben persuaso... «Maríja»: è una donna
d'aspetto posato, pallida, biondina, di colorito delicato, di movimenti
calmi, con due occhi perfidi... «Màrja»: questa è d'aspetto simile, ma
piena, con le gote accese, grossa di petto... «Masa»: è un po' più
giovane, vestita di rosa, di carni morbide... «Mànja» è decisamente
giovane, diritta e ben fatta, fors'anche una brunetta, coi tratti del
viso ben netti, naso e guance senza nulla di particolare. Non riesco a
capire come possa esistere una «zia Mànja».
«Ma perché dev'essere giovane? - domando a S., ed egli mi risponde: - Il
suono 'n' è nasale... Mah, non saprei dire... certo è però, che è
giovane... mentre 'Músja', per esempio, è tutt'altra cosa... Qui salta
agli occhi una pettinatura vistosa, la statura è sempre piccolina, c'è
nella donna una certa rotondità: dev'essere per quella lettera 'u'...
'Meri', invece, è un nome molto asciutto....
«Qualcosa di scuro al crepuscolo, siede alla finestra... E quando mi
dicono: 'hai visto Masa?', io lì per lì non mi capacito che quella là
possa essere Masa... Eh, Masa, Mànja, Marúsja, non sono la medesima cosa!
A volte mi riesce assai difficile abituarmi al fatto che una data persona
porti uno di questi nomi, mentre altre volte, sì, non c'è dubbio: questa
sì che è Masa!.»"

Tutti sanno quanto sia squisita nei poeti la sensibilità per


l'espressività del suono. Ricordo che S. M. Ejzenstejn, facendo una
selezione fra gli studenti per l'ammissione ai corsi di regista
nell'istituto per il cinema, diede loro per tema che descrivessero come
vedevano «Maríja», «Meri» e «Marúsja». E, nello scegliere coloro che
avevano un senso vivo dell'espressività delle parole, si trovava a non
aver mai sbagliato.
Di tale facoltà, S. era dotato in grado altissimo: la espressività dei
suoni era da lui percepita in modo infallibile, riflettendo delle
caratteristiche espressive che, nei suoni, sono universali.
E' quindi naturale che delle parole che, alla nostra coscienza, appaiono
sinonimi, avessero per lui ciascuna il suo significato distinto.

"... Il ladro e il furfante... Il ladro ['vor'] è un tipo pallido


pallido, vestito poveramente, una tasca strappata, le guance cascanti,
patito, senza cappello, i capelli come paglia... Tutto è quell''o',
quell''o' così prolungato: 'vo-or': è qualcosa di grigio, di squallido...
e per giunta, poi, gli ebrei non pronunciano bene la 'erre', cosicché ne
vien fuori un 'voch': una cosa, insomma, completamente grigia. Il
furfante ['zulik' (giulik)], questo no, è tutt'altro... E' un tipo con le
guance rigonfie, lustre, gli occhi sfrontati, sul naso una cicatrice...
Prima, quando ero piccolo, io pronunciavo 'zzulik': era un bassino,
tarchiato, compatto: 'zz'... c'era una mosca che ronzava, mi pareva che
stesse lì alla finestra... ma poi ho inteso correttamente: zulik, e
allora è cresciuto di statura.
... Quanto poi a 'chanef' [in ebraico: ladro], è quando, di sera una
stanza è semibuia, che ancora non si è acceso il lume, e si sente un
fruscio, e quello prende un pezzo di pane del palchetto... Dove,
precisamente? Dev'essere in casa nostra, in dispensa...
Del 'vor' potrei avere pietà, ma del 'canef', mai più! Al 'zulik' si
potrebbe perdonare, ma al 'zulik', a quel muso massiccio?! Di solito, per
gli altri, tutto dipende da come uno è vestito, e per me, invece, da come
lo vedo, dal viso.
...Ed ecco, ancora: 'chvorat' [essere infermo] e 'boljet' [star male]:
sono due cose diversissime. 'Boljet' è una cosina da poco, ma 'chvorat' è
grave. 'Chvoroba' [stato d'infermità]: che parola grigia, ti cade
addosso, ti ricopre! «Egli è seriamente malato ['bolen']»: sì, questo può
andare: 'bolezn' [malattia] è una nebbia che può uscire da un uomo e
circondarlo tutto... Ma, quando si tratta di 'chvorat', allora egli se ne
sta coricato giù giù 'chvorat' è assai peggio: «Lui 'prichvaryvaet» [è
malaticcio]: cammina e 'prichramyvaet' [zoppica]... ma queste sono cose
che la comunanza di suono non lega: sono cose completamente diverse...»."
("31 marzo 1938").

Ma, a questo punto, noi stiamo già oltrepassando il limite di una


semplice «fisiognomica delle parole», ed entriamo in un campo diverso,
del quale ormai ci dovremo occupare...

La sua mente.

Abbiamo esaminato, finora, la memoria di S., e compiuto una fuggevole


escursione in quello che è il suo mondo. Ce n'è venuta la dimostrazione
che questo mondo è, per molti lati, diverso dal nostro. Abbiamo veduto
che si tratta d'un mondo d'immagini vivide e complesse, d'impressioni
difficilmente esprimibili in parole, nelle quali una sensazione sfuma
impercettibilmente nell'altra. E abbiamo veduto come sono costruite le
parole che egli percepisce, e quale lavorio egli debba compiere per
enucleare il loro autentico significato.
Ma quale, in modo più preciso, è la struttura della sua mente? Che cosa
caratterizza i suoi processi cognitivi? Come si svolge in lui
l'apprendimento delle cognizioni, e tutta la complessa attività
dell'intelletto? In che si distingue il suo pensiero dal nostro?
Qui entriamo di nuovo in un mondo di contraddizioni, nel quale i vantaggi
e le superiorità d'un perspicuo pensare per immagini s'intrecciano coi
suoi difetti, e dove, in modo davvero stupefacente, la sovrabbondanza si
associa con la povertà.
Cercheremo di descrivere, a un tempo, la forza e la debolezza d'una mente
cosiffatta: potremmo trovare, in questo, molto d'istruttivo.

I suoi punti forti.

Lo stesso S. dà al suo modo di pensare la definizione di «visività


mentale». Certo, non c'è in esso proprio nulla di comune col ragionamento
astratto e speculativo dei filosofi razionalisti... E' una mente, questa,
che lavora con l'appoggio della facoltà visiva, secondo una "visività
mentale".
Ciò che gli altri pensano, ciò che vagamente si rappresentano, S. lo
vede. Sorgono dinanzi a lui immagini chiare, la cui consistenza
sinestesica confina con la realtà: e tutto il suo pensiero si riduce a un
insieme di operazioni, eseguite ulteriormente su codeste immagini.
E' naturale che una così perspicua capacità di visione importi una serie
di vantaggi (alla serie degli altrettanto sostanziali difetti torneremo
più innanzi). Essa fa che S. disponga d'un più completo orientamento
nell'informazione del mondo esterno, non si lasci sfuggire il minimo
particolare, e a volte possa rilevare certe contraddizioni, che l'autore
stesso non aveva notate.

"... Ecco un esempio di come, spesso e volentieri, io mi accorgo delle


contraddizioni. Tutti avete letto quel racconto di Cechov (Tchechov). Il
'malintenzionato'. Ebbene, che ne dite: c'è, lì, nessun punto che non
vada? Ascoltate: il giudice istruttore dice al contadino: «Ah, e tu
pretenderesti di non saperlo, che ci vogliono dadi per fissare i binari
alle traverse?» Vi pare giusto, questo? No? Però, In Cechov, così c'è
scritto. Il fatto è che io vedo la cosa, e vedo che non corrisponde a
verità! Torno a leggere: macché, i dadi, qui, proprio non ci fanno!
... E chi ha letto 'Il camaleonte'? «Ocumelov (Otchumenov) uscì di casa
col mantello nuovo...». Poi, una volta uscito, alla vista di quella tal
scena, egli dice: «Suvvia, brigadiere, toglimi il paltò...». Io penso di
essermi sbagliato: riguardo il principio: sì, là c'era proprio
'mantello'... O si è sbagliato Cechov, o io non sono più io... E ancora
un altro esempio: prendete 'Il grasso e il magro'. I liceali d'un tempo
portavano la divisa, e lì è detto: «dapprima, egli sentiva un certo
impaccio a portare il cappello»: ['sapka' (shapka)], e poi «sentendo
d'essere un generale, si raggiustò il berretto» ['furazka' (furagika),
berretto a visiera e di ordinanza]. Tratti di questo genere si possono
riscontrare sia in Cechov, sia in Solochov (Sholochov). Gli è che loro
non vedevano la cosa, mentre io la vedo..."
("15 marzo").

Indubbiamente, il carattere di perspicuità dell'appercezione del testo


crea delle condizioni, che negli autori del "Malintenzionato" o del
"Placido Don" erano assenti. Essi esponevano un'idea e sviluppavano un
soggetto; S., invece, vede, e quindi non può non constatare le
contraddizioni, se nel testo ve ne sono. Per lui non c'è bisogno di
affinare l'osservazione: questa costituisce già una caratteristica
imprescindibile della sua mentalità.
E la «visione» perspicua lo esentava anche da altro che dallo spirito di
osservazione. Lo aiutava, altresì, a risolvere con invidiabile facilità
certi problemi pratici, che, da chiunque di noi, esigono lunghi
ragionamenti, mentre egli li risolveva agevolmente, con la sua «visività
mentale».
Nel tortuoso cammino della vita gli avvenne di occuparsi, una volta,
nientemeno che della razionalizzazione del lavoro nelle officine: e con
quanta facilità gli si presentavano le trovate giuste!

"Tutte le mie scoperte avvengono in modo semplicissimo... Non ho davvero


bisogno di rompermi la testa: vedo dinanzi a me, semplicemente, quel che
c'è da fare... Arrivo, per esempio, in una fabbrica di articoli
d'abbigliamento, e vedo le balle ammucchiate nel cortile: le balle stanno
là, legate con strisce di cimosa. Ed ecco che io, tra me e me, vedo
l'operaio che lega quelle strisce: le avvolge parecchie volte, la cimosa
si spezza, e io sento il crepitio con cui scoppia... Vado oltre, e mi
sovviene di quell'elastico per chiudere le agende: quello sì andrebbe
bene! Ci vorrebbe, però, un elastico ben grosso... E allora io lo
ingrandisco, lo ingrandisco, e vedo la camera d'aria di un'automobile. A
tagliarne tante strisce, sarebbe quel che ci vuole! E' una cosa che io
vedo: e subito propongo di farla.
... E ancora: vi ricorderete quando c'erano le carte annonarie, con quei
tagliandi: c'erano delle caselle con le cifre: rubli, copeche, eccetera.
Cosa fare per rendere più facile staccarli, ed evitare di perder tempo a
calcolare in che modo staccare il tagliando necessario, senza girare
intorno a troppi altri? Io vedo un tizio... ecco, sta presso la cassa...
è un furbacchione, e vuol fare in modo di staccare furtivamente un
tagliando... Lui stacca, e io sto a osservare. Macché non è così! Meglio
così, piuttosto! E trovo subito qual è il modo migliore! Ciò che gli
altri riescono a fare solo per mezzo di calcoli e sulla carta, io posso
farlo con la visività mentale..."
("6 ottobre 1937").

Ammettiamo pure che molte di queste proposte non siano poi troppo
pratiche: dove trovare, infatti, tante camere d'aria di automobile, da
poterle tagliare in anelli di gomma e introdurre così un nuovo sistema
d'imballaggio? Del resto, S. non si è mai distinto per praticità (e ne
vedremo in seguito la ragione). Ma resta il fatto che, «quanto gli altri
risolvono col calcolo e sulla carta», lui lo risolveva con la «visività
mentale»: e qui stava la sua gran superiorità. La quale, in modo
particolare, si dava a conoscere in quei cimenti, che a noi riescono
difficili appunto perché il «calcolo» verbale ci impedisce la perspicuità
della «visione».

"Ricorderete quel problema scherzoso: «C'erano su uno scaffale due volumi


di 400 pagine ciascuno. La tignola li traforò dalla pagina 1 del primo
volume all'ultima del secondo. Quante furono le pagine traforate?».
Voi, quasi di certo risponderete 800: e cioè, 400 del primo e 400 del
secondo volume. Ma io «vedo» immediatamente: no, furono traforate
soltanto due copertine! Infatti, vedo tutto benissimo: eccoli lì, dritti
in piedi, i due volumi, a sinistra il primo, a fianco il secondo. Ecco il
verme che attacca dalla prima pagina e va verso destra. Là c'è unicamente
la copertina del primo libro e poi quella del secondo: e così, ecco che
esso si trova all'ultima pagina del secondo libro... Sicché, in
conclusione, niente è stato traforato tranne le due copertine..."
("maggio 1934").

E con chiarezza anche maggiore i meccanismi di questo modo di pensare


perspicuo risaltano nella soluzione di quei problemi, nei quali i
concetti astratti, da cui si prendono le mosse, entrano più nettamente in
conflitto con qualsiasi rappresentazione visiva. S. resta immune da tal
genere di conflitti: e ciò che noi, faticosamente, riusciamo a
rappresentarci, egli agevolmente lo contempla.

"... Là, in via Bronnaja, avevamo una cameretta dove ci s'incontrava col
matematico G. Lui mi raccontava come risolveva i problemi, e mi proponeva
di risolverne qualcuno anch'io: lui seduto al tavolo, io in piedi.
«Figuratevi - mi diceva - di avere dinanzi a voi una mela, e che questa
debba essere circondata con un cordino o con una correggiuola: si otterrà
un circolo, con una determinata lunghezza di circonferenza. Ora, a tale
lunghezza di circonferenza, io aggiungerò 1 metro, e così questa nuova
lunghezza corrisponderà alla circonferenza della mela aumentata di 1
metro. Tornate di nuovo a disporre il cordino intorno alla mela: è chiaro
che, fra la mela e il cordino, resterà uno spazio maggiore di prima...»
Mentre egli mi viene dicendo così io vedo lì, di fronte a me, la mela mi
ci chino sopra, la circondo col cordino... Lui dice «correggiuola», e
subito io vedo lì quel laccio di cuoio. Quando mi ha parlato del metro,
ho visto un pezzetto di questo laccio, anzi no, era tutto intero, e l'ho
disposto a cerchio, e nel centro ci ho collocato la mela. Ora lui mi
dice: «Figuriamoci il globo terrestre». E, sulle prime, io vedo il grosso
globo della terra, anch'esso abbracciato torno torno da una correggiuola,
e poi i monti, i rilievi... «Ora, allo stesso modo, noi aggiungeremo alla
correggiuola un metro. Dovrà risultarne un certo intervallo di spazio.
Quale sarà questo intervallo?» La prima rappresentazione che mi faccio è
un enorme globo terrestre. Io lo abbraccio: no, mi sta troppo vicino. Lo
allontano... lo trasformo in un mappamondo, ma senza piedistallo... No,
neppure così va bene: somiglia alla mela... Allora, a un tratto, la
stanza dove ci trovavamo svanì, e mi apparve un immenso globo in
lontananza, a parecchi chilometri... Sostituisco il laccio di cuoio con
un cerchiello di acciaio: il compito è arduo: bisogna girare là attorno
con precisione. Poi aggiungo quel metro, e guardo l'intervallo di spazio
che ne scaturisce. Quanto spazio c'è? Debbo rifletterci sopra, farmene un
concetto, per ridurlo alle misure in uso fra gli uomini... Accanto alla
porta, mi dà nell'occhio una cassetta io la trasformo a uso di globo e,
attorno, ci giro la correggiuola. Fatto questo, ci aggiungo un metro,
attenendomi esattamente agli spigoli... Poi prendo la misura precisa,
taglio la correggiuola in quattro parti, e ciascuna risulta di 25
centimetri: per ogni pezzo della correggiuola resta un sopravanzo: la
lunghezza l'ogni lato della cassetta più una quarta parte... Naturalmente
a grandezza della cassetta è indifferente: se ogni lato misurasse 100o
chilometri, io dovrei aggiungerci sempre 25 centimetri. Abbiamo così 4
lati, e a ciascuno tocca una giunta di 25 centimetri... Ora discosto il
laccio di cuoio dai fianchi della cassetta, e ne risultano per ogni lato
12,5 centimetri, cioè dappertutto il laccio dista dalla cassetta 12,5
centimetri.
La cassetta potrebbe anche essere enorme, misurare un milione di
centimetri di lato, ma sarebbe sempre lo stesso: aggiungendo 1 metro,
toccherebbero a ciascun lato 25 centimetri... E ora la cassetta ritorna
alla sua condizione normale. Io non ho che da togliere gli spigoli e
trasformarla in una figura rotonda... Ebbene, il risultato è sempre lo
stesso... Ecco in che modo io ho risolto quel problema."
("12 marzo 1937").

Il lettore vorrà perdonare la citazione troppo lunga; c'è per l'autore


una giustificazione: il passo citato serve ottimamente a dimostrare quali
siano i metodi di «visività mentale», applicati da S., e come tali metodi
lo conducano a risolvere un dato problema per tutt'altre vie quelle da
cui fa ricorso chiunque operi «col calcolo e con la penna».
Noi che scriviamo, abbiamo passato molte ore con S. ad analizzare quali
prerogative offrisse il metodo della visività mentale nella soluzione dei
problemi matematici; molte sono le cose che il soggetto delle mie
esperienze mi ha insegnate attraverso l'analisi del ruolo che, nella
soluzione dei problemi, rivestono le immagini perspicue.
Indubbiamente, i «calcoli carta e matita», ovvero in base a schemi
intellettuali, non possono non restare pur sempre il modo fondamentale di
risolvere i problemi; ma, come spesso avviene nei problemi in cui calcoli
simili non poggiano su immagini perspicue, possono far deviare dalla
soluzione giusta, o sostituire una forma semplice di soluzione con
un'altra complessa e antieconomica.
Chi non sa quanto può apparire difficile un problema, che in fondo è
semplice, come questo: «Un mattone pesa 1 chilo, più tanto quanto è il
peso della metà del mattone. Quanto peserà il mattone?» Sarà molto
probabile che chi si concentra esclusivamente sui numeri, dia la risposta
erronea: 1,5 chili! Scivoloni di questo tipo, di rimando a domande
formali, restano completamente estranei a S., anzi erano per lui
addirittura impossibili. La forma di soluzione «mentale visiva», che gli
era propria, e che lo teneva sempre ben a contatto con gli oggetti,
collegando i numeri a cose perspicue, non gli permetteva soluzioni
formali: e i problemi che negli altri provocano una situazione di
conflitto, si svolgevano in lui senza le difficoltà che tali conflitti
derivano.
Ecco solo alcune illustrazioni della sua posizione a questo riguardo:

"... Mi viene proposto il problema: «Un libro rilegato costa 1 rublo e 50


copechi. Il libro costa un rublo più della rilegatura. Quanto costa il
libro e quanto la rilegatura?». Io ho risolto questo problema in modo
semplicissimo. Ho sul mio tavolo un libro con la rilegatura rossa: il
libro costa un rublo più della rilegatura. Strappo via dal libro una
parte, e penso che essa abbia il valore di 1 rublo... Rimane una parte
del libro che è pari al valore della rilegatura, 50 copechi. Poi attacco
questa parte al resto, e ne risulta 1 rublo e 25 copechi.
O ancora: un ingegnere mio amico mi diede il problema: «Un padre e un
figlio, presi insieme, hanno 47 anni; quanti ne avevano 3 anni fa?». Io
vedo il padre che tiene il figlio per mano: hanno in tutto 47 anni. Ci
sono con loro anche un altro figlio e un altro padre. Io tolgo 3 anni a
ciascuno dei due... Mi figuro che bisogna fare il doppio di questo.
Moltiplico per 2, il risultato è 6: e sottraggo appunto 6."
("12 marzo 1937").

Come si vede, le immagini perspicue delle cose preservano dagli errori


d'una soluzione formale dei problemi, e S. resta immune dalla tentazione
di sostituire la soluzione autentica con un'operazione di calcolo
numerico formale.
Faremo, ora un altro passo, e osserveremo in che modo, con la «visività
mentale», si risolvono dei problemi ai quali, comunemente, si applica il
calcolo convenzionale.

"Problema: «Un'agenda costa 4 volte la matita. La matita è di 30 copechi


meno cara dell'agenda. Quanto costano, rispettivamente, l'agenda e la
matita?».
S. risolve il problema così. Sul tavolo appare un'agenda, e con essa 4
matite (disegno la):

(descrizione del disegno: a) un quadrato che rappresenta l'agenda, a


fianco 4 linee orizzontali che rappresentano le matite; b) un quadrato, a
fianco una linea segnata 30 copechi, 3 linee.)

Una matita è di 30 copeche meno cara dell'agenda... Tre matite, come


superflue, vengono spostate verso destra (disegno b), e cedono il posto
al loro equivalente in denaro. Al seguito di queste immagini, appare la
raffigurazione delle due cifre 10 e 40... Si dà così risposta a quanto
costassero l'agenda e la matita separatamente."
("da appunti di S.").

E' facile scorgere quanto rapida e agevole sia la soluzione «mentalmente


visiva» d'un problema là dove, per via logico-verbale, la sua soluzione
richiederebbe l'integrazione di calcoli astratti.
E ancora più netta risalta la preminenza dei metodi «mentalmente visivi»,
quando si tratti di risolvere problemi di maggiore complessità. Ci
soffermeremo a darne due esempi:
"Viene dato a S. il problema: «Un saggio e un viaggiatore sedevano in una
radura. Il viaggiatore aveva 2 pani, il saggio 3. Essendosi avvicinato
loro un passante, essi gli offrirono da mangiare, e divisero il pane in
tre parti uguali. Dopo che ebbero mangiato, il viandante, in
ringraziamento del cibo, diede loro dieci uova. In che modo il saggio e
il viaggiatore divisero tra loro le uova ricevute?».
«...Ecco sorgermi dinanzi delle immagini: due persone (A e B) siedono in
una radura: a loro si unisce un passante (C). Tutto il gruppo si dispone
a triangolo. Fra i tre appaiono i pani. Scompaiono gli uomini e vengono
sostituiti dalle lettere A, B, C, e i pani (irregolari di forma), da
tavolette oblunghe. Le tavolette appartenenti ad A sono di color grigio,
a B di color bianco. Con due linee orizzontali taglio le tavolette in tre
gruppi uguali di cubetti. Ne risulta il seguente quadro:

(descrizione del disegno)


1)
A) 2 tavolette verticali oblunghe grigie, seguono B) 3 tavolette bianche
- sotto al centro delle 5 tavolette è messo C);
2)
le cinque tavolette così disposte vengono tagliate in orizzontale da due
linee che le dividono in tre parti uguali: ad ognuna corrisponde un terzo
delle 2 tavolette grigie e un terzo delle 3 tavolette bianche.

«Per cinque cubetti mangiati, C ha dato 10 uova- Ad A sono toccati 6


cubetti, dei quali ha mangiato la prima colonna verticale e 2 cubetti
della seconda colonna. Dal canto suo B, a norma della stessa figura, ne
ha mangiati altrettanti il successivo disegno mostra la quantità dei
cubetti lasciati a C da parte di A e di B.

(Descrizione del disegno)


2 file verticali grigie di 3 pezzi ciascuna
3 file verticali bianche di 3 pezzi ciascuna
una linea tratteggiata fatta a T rovesciato va a comprendere: 1 fila
verticale bianca più un pezzo grigio e un pezzo bianco. Totale 5 di cui 4
bianchi e uno grigio.

«Si può anche adottare un'altra soluzione, logica.


«Per comodità di calcolo, sostituisco la parola 'uovo' con 'rublo'. La
parte del pane mangiata dal passante abbia il valore di 10 rubli. Siccome
i tre hanno mangiato parti uguali, l'intera quantità del pane mangiato
dall'intero gruppo varrà 30 rubli (10 per 3 uguale 30), e uno dei pani ne
varrà 6 (30 diviso 5 uguale 6). I due pani di spettanza del passante
varranno 12 rubli (2 per 6 uguale 12). Il viaggiatore ha mangiato da
parte sua una quantità di pane del valore di 10 rubli, sicché ha potuto
dare al passante pane per non più di 2 rubli (12 meno 10 uguale 2). Il
saggio aveva 3 pani, il cui valore assommava a 18 rubli... eccetera
eccetera. Come si vede, mentre la soluzione visiva si svolgeva rapida,
quasi automaticamente, la forma di soluzione astratto-verbale esige un
severo lavoro di analisi, di ragionamenti deduttivi, e anche
d'intuizione. Il risultato che si ottiene, è identico»"
("da appunti di S.").

Ed ecco un altro esempio di soluzione consimile d'un problema:


"Viene dato a S. il problema: «Marito e moglie raccolgono i funghi. Il
marito dice alla moglie: dammi 7 funghi dei tuoi, così io ne avrò il
doppio di te! Risponde la moglie: no, dammene 7 tu, così ne avremo un
pari numero a testa... Quanti funghi ha ciascuno dei due?».
«Io ho veduto un sentiero nel bosco, con un uomo d'alta statura, con gli
occhiali. Egli tiene infilato al braccio un paniere bianco, pieno di
funghi. E' stanco... Ah, allora ne traggo la conclusione che ormai deve
averne raccolto una buona quantità. Quanto alla donna, mi sta voltata di
spalle: è il primo lui che ha cominciato a parlare, non la sua compagna
di dialogo... Io vedo me stesso, vedo i due... ed è quel mio 'io' che sta
lì in margine al bosco quello che fa i suoi accertamenti, mentre 'io'
come sono in realtà, come persona viva, non faccio che registrare ciò
quello accerta.
«Primo accertamento: non so con precisione se siano molti i funghi che ha
l'uomo, ma penso che dovrebbero essere molti: lui stesso parla d'una
quantità doppia rispetto alla moglie. Non so ancora, dunque, quale sia la
situazione esatta; ma quando pronuncia la sua replica, eh, allora tutto
mi diventa chiaro! Quando lui dice 'dammi 7 funghi', io vedo quel
mucchietto che ripone nel paniere; quando invece lei ribatte a modo suo,
ecco che lo toglie dal suo paniere: e io vedo bene che, in entrambi i
panieri, il livello è uguale.
«Quanto al mucchietto '7', esso porta il contrassegno, distintivo del
"sette".
«Ora l'uomo si discosta, io lo seguo... e, d'improvviso, appare il numero
14... Ho appurato, ormai, che quel tale 'io' ha calcolato giustamente 14:
giacché facciamo, noi due, lavori diversi :io lavoro con le cifre, e
'lui' converte ogni cosa in peso, in evidenza, in rappresentazioni.
«Non basta, però, che al marito siano stati tolti 7 funghi (eccolo là,
scivolato giù dal fondo del paniere, il mucchietto di 7 funghi): è anche
necessario che questi finiscano nel paniere della moglie, altrimenti, in
quello di lui, ce ne sarebbero 7 in più. Dunque, in tutto, lui ne ha in
più 14, pari a due mucchietti. Io dò un'occhiata nel paniere di lei, e
vedo che il suo livello diminuisce corrispondentemente, mentre quando si
aggiungono 2 mucchietti, s'innalza d'altrettanto.
«A questo punto viene ad acquistar valore quella prima parte che finora
non aveva importanza: 'Dammi 7 funghi, e allora io ne avrò il doppio di
te'. Tutto, fra i due, torna alla situazioni di prima: lui ha sempre i
due mucchietti pronti, ma se lei gliene toglie uno, lui non ne avrà più
il doppio: e non basta che dal paniere di lei, scivoli fuori un
mucchietto, bisogna che per l'appunto questo mucchietto passi nel paniere
di lui. Occorre, cioè che un mucchietto sia tolto, perché a lui restino
21 funghi in più, e che gli sia dato per giunta, perché ne abbia in più
28. Quando ne avrà in più 28, allora si troverà ad averne il doppio! Io
gi gli vedo il fondo del paniere: lui ora ha 8 mucchietti, e la donna ne
ha 4...
«E adesso mi metto a controllare, giacché tutte queste cose bisogna
tradurle, naturalmente, in linguaggio comune...
«Tutto dilegua, i due se ne vanno, ed ecco sorgermi innanzi due colonne
di color nero, che vanno a terminare in una nebbia (infatti, io non so
quanto abbia ciascuno dei due...).
«Ma dopo aver riflettuto, quando io mi chiarisco che lui ne ha di più,
l'estremità della prima colonna si fa più alta: ne ha di più lui! Qui
ragiono ormai in modo duplice: con le cifre e col diagramma; cerco, a
questo punto, di pareggiare le due colonne: dalla prima stacco un
pezzetto corrispondente a 7, e quando questo è tolto, essa rimane sempre
più alta: le colonne si pareggiano solo quando lo trasferisco su quella
di destra. Si tratta, evidentemente d'un 14. Le rimetto entrambe nella
posizione precedente; il pezzetto superiore è dunque 14! Ma lei dice a
lui: 'Dammi 7 funghi, e sarò il doppio più alta di te! 'Ora io stacco da
destra ancora un 7, e lui, così, diviene più alto in ragione di 21. Ma
ancora bisogna aggiungere a lui: sicché, lui è più alto in ragione di
28... Vedo. adesso, che il pezzetto inferiore di lei è alla pari col
pezzetto superiore di lui: dunque, in tutto, è 56! Faccio la sottrazione,
e ottengo: 56 meno 7 uguale 49; 28 più 7 uguale 35»"
("18 gennaio 1947").

Abbiamo riportato a bella posta questo ragionamento in tutta la sua


lunghezza, giacché esso ci introduce nel mondo intimo di S., e ci mostra
al vivo quelle perspicue vie della «visività mentale», lungo le quali
scorrono le soluzioni che egli dà ai problemi. Si può forse nutrire
ancora qualche dubbio che tali vie siano ben diverse da quelle a base di
«penna e carta», e che noi ci siamo affacciati sul mondo originalissimo
di questo modo di pensare «mentalmente visivo» (3)?

I suoi punti deboli.

Finora ci siamo sollevati alle quote alte del pensiero di S.: ora
dobbiamo scendere alle sue quote basse. Qui il nostro cammino diverrà più
difficile, e saremo costretti inoltrarci su un terreno infido, dove ad
ogni passo il piede può sprofondare nella palude...
Abbiamo visto quale efficace punto d'appoggio costituisca il pensare per
immagini, che permette di eseguire nella mente tutte le manipolazioni che
possono comunemente venir eseguite con gli oggetti nella realtà.
Tuttavia, non si nascondono forse in questo pensiero immaginativo tanto
più, sinestesico, anche dei pericoli? Non crea esso degli ostacoli a una
corretta esecuzione delle fondamentali operazioni conoscitive?
Soffermiamoci su questo.
S. legge il frammento d'un testo. Ogni parola genera in lui un'immagine.
«Gli altri pensano, ma io vedo! Appena incomincia una frase, le immagini
appaiono. Più innanzi si va, sempre immagini nuove. E via, e via di
questo passo...»
Abbiamo già parlato del fatto che, se il brano vien letto rapidamente,
un'immagine rincorre l'altra, e tutte si accalcano, si ammucchiano
insieme. Come raccapezzarsi, allora, in un tal caos d'immagini?
E se, d'altronde, il brano vien letto lentamente, mancano forse delle
altre difficoltà?

"Mi viene data la frase: «N. stava in piedi, appoggiato con la schiena a
un albero...». Io vedo già un uomo vestito d'un abito blu scuro, giovane,
magrolino. N. è un nome così elegante! Si trattiene sotto un grosso
tiglio e, tutt'intorno, c'è erba, c'è bosco... «Attentamente N. osserva
la vetrina d'un negozio...» Eccoti servito! Ma allora non si tratta d'un
bosco, né d'un giardino: costui fa sosta lungo una via cittadina, e
bisogna rifar tutto da capo!"
("marzo 1937").
L'acquisizione del senso d'un brano, la ricezione delle informazioni, che
in noi corrisponde sempre a un processo di scelta del più essenziale e di
scarto del meno essenziale - processo che si svolge in modo sintetico -
viene a rappresentare, qui, un tormentoso processo di lotta con le
immagini sempre ripullulanti. Così, le immagini possono riuscire, anziché
di aiuto, di ostacolo all'apprendimento: esse spingono fuori strada,
impediscono di enucleare l'essenziale, si affollano insieme, rigogliano
di nuove immagini, e poi, a un certo punto, salta agli occhi che esse non
sono affatto appropriate al filo conduttore del testo, e tutto va rifatto
da cima a fondo. Che lavoro di Sisifo non viene a costituire, allora, la
lettura d'un semplice frammento, perfino d'un semplice inciso? Né si
potrà mai avere la certezza che queste così vivide immagini sensibili
giovino ad orientarsi nel senso giusto: chissà che non ne portino
lontano?
Ma non finiscono qui le difficoltà: questo, piuttosto, ne è soltanto il
principio.

"... Le maggiori difficoltà nascono quando, in un testo, ricorrono dei


particolari che già c'erano in un altro testo. Allora io incomincio da un
posto e vado a finire in un altro completamente diverso, col risultato
che tutto si mescola insieme... Leggo, per esempio 'I proprietari di
Slarosvetsk': «Afanasij Ivanovitch uscì sul Poggiuolo di casa sua...». Ah
sì s', uno di quei poggiuoli alti alti e con quelle panchette
scricchiolanti... Ma diamine, un poggiuolo così c'è già stato! E' quello
della Korobocka (Korobotchka), quando Cicikov (Tchitchikov) arrivò da
lei! E così, avviene che Afanasij Ivanovitch possa incontrarsi, in me,
con Cicikov e con la Korobocka!
... O un altro esempio, che stavolta tocca proprio Cicikov: «Cicikov
giunse all'albergo». Io vedo tutto benissimo: è una casa a un sol piano:
entrando, c'è la stanza d'ingresso, poi una grande sala a pianterreno:
presso la porta una finestra, a destra il tavolo, al centro un'enorme
stufa russa... Ma queste sono cose che ho vedute! In questa casa, per
l'appunto, ci abita il grasso Nikiforovitch, e il magro Ivan Ivanovitch
sta anche lui lì, nel giardinetto lungo la facciata, e intorno gli corre,
tutto inzaccherato, Gapka: ed ecco che, insomma, io mi ritrovo ormai con
tutt'altra gente. Potete capire che lavoro sia per me raccapezzarmi fra
tutto questo!"
("marzo 1937").

Quali pericoli si annidano dunque nei testi, dove un dettaglio qualsiasi


può generare un'immagine che già si era incontrata in altri brani!
Giacché S. non dimentica nulla: una volta emerse, le immagini rimangono
lì ben salde, non si cancellano più... Niente di più facile, allora, che
salire al poggiuolo di Afanasij Ivanovitch e, d'improvviso, trovarsi in
casa della Korobocka!
Eppure, i pericoli che si celano nel pullulio delle vivide immagini, sono
ancora maggiori.
Vi sono infatti, in S., immagini di particolare vivezza e persistenza,
immagini che per migliaia e migliaia di volte si sono ripetute, immagini
che assai rapidamente acquistano il predominio sulle restanti, e che
insorgono al di fuori d'ogni controllo, non appena si tocchi il minimo
tasto collegato in qualche modo con loro. Sono le immagini d'infanzia, le
immagini della piccola casa in Rezica (Regica) (Regica), l'immagine del
cortile di Chaim Petuch, dove al riparo della tettoia stanno i cavalli, e
nell'aria c'è odore di fieno e stabbio.
Ecco come si spiega che, incominciando a leggere un testo, o ad
effettuare quelle «passeggiate per le vie», che si generano nel corso dei
suoi ricordi, S. constata, d'improvviso, di aver dato inizio alla sua
passeggiata in via Majakovskij, e di terminarla invariabilmente presso la
casa di Chaim Petuch, o in una piazza di Rezica.

"Incomincio, per esempio, a Varsavia, e mi ritrovo in casa mia a Torzok


(Torgiok) nell'edificio di proprietà di Alterman... Oppure, sto leggendo
La 'Bibbia': è il punto in cui re Saul si presenta a una fattucchiera.
Appena incominciai a leggere questo passo, mi parve dinanzi agli occhi
quella strega descritta nella 'Notte di Natale'; e quando continuai con
la lettura, mi apparve la casetta dove si era svolta una scena che avevo
visto quando avevo sette anni: la stalla dei montoni, l'abitazione
sotterranea accanto, eccetera eccetera. E pensare che avevo incominciato
dalla lettura della 'Bibbia'!"
("14 settembre 1936").

"Il fatto è che, quanto vedo mentre leggo, è fantastico, non corrisponde
al contenuto della mia lettura... Quando c'è la descrizione d'un
qualsiasi castello, le sale centrali, chissà come, finiscono sempre a
trovarsi in quell'appartamento dove abitavo da bambino... Così, quando
leggevo 'Trilby', in quel punto che si era dovuto prendere in affitto una
stanza sotto i tetti, questa, infallibilmente, veniva a trovarsi ai miei
occhi là da un nostro vicino, in quella stessa casa... Mi accorgevo che
la cosa non andava, ma, per forza d'inerzia, le immagini mi conducevano
pur sempre là... E così sono costretto a trattenermi, a fare uno sforzo
su me stesso, a mutare artificialmente le immagini che mi stanno dinanzi
agli occhi... Ne nasce un conflitto tremendo, che mi ostacola la lettura,
la rallenta, e mi distrae dall'essenziale. Foss'anche diversissimo
l'ambiente: ma quando arriva la descrizione del protagonista che esce
sulla scala, risulta che si tratta della scala di quella casa dove
abitavo una volta... Io gli vado dietro, mi distraggo dalla lettura, e
così non posso più leggere non posso più concentrarmi: è una cosa che mi
sottrae una enorme quantità di tempo..."
("12 marzo 1935").

Con che facilità, in tal modo, i processi dell'apprendimento possono


subire un'alterazione nel loro normale decorso; con che facilità il filo
lungo il quale il pensiero conduce le immagini, si trova sostituito da un
altro, in cui le immagini pullulanti vengono a condurre il pensiero!
E le difficoltà del perspicuo pensare figurativo non terminano neppure
qui. Ci sono in agguato, più oltre, scogli ancora più pericolosi, creati
- stavolta - dalla natura stessa del linguaggio.
Sinonimie... omonimie... metafore... Sappiamo tutti quanto posto esse
occupino nel linguaggio, e quanto agevolmente l'intelligenza comune si
sbarazzi di simili difficoltà. Noi, infatti, possiamo trascurare del
tutto il fatto che una medesima cosa sia designata con termini diversi;
troviamo anzi un certo incanto nella possibilità di chiamare un bambino
anche «piccino», un medico «dottore» o «sanitario», il disordine
«baraonda» e il bugiardo «mentitore». O che forse, noialtri, troviamo
qualche difficoltà se, una volta, leggiamo che al portone della casa si è
fermato un «equipaggio» ['ekipaz' (ekipag), carrozza], e un'altra volta,
che «l'equipaggio della nave si è distinto per valore in una tempesta
apocalittica»? Forse la locuzione «scendere in basso per una scala»
impaccia la nostra comprensione del discorso, se sentiamo dire di
qualcuno che è «moralmente sceso in basso»? E, infine, ci dà forse
fastidio che 'rucka' (rutchka) [diminutivo di 'ruka', mano], possa
contemporaneamente significare la manina d'un bambino, e la maniglia
d'una porta, e il cannello della penna con cui scriviamo, e chissà quante
altre cose?
L'uso comune delle parole - nel quale l'astrazione e la generalizzazione
rivestono una funzione di guida - spesso non avverte neppure simili
difficoltà, o ci si passa rasente senza il minimo attrito; alcuni
linguisti pensano addirittura che tutto il linguaggio consista
esclusivamente di metafore e di metonimie (4). Ma questo costituisce uni
inceppo per il nostro pensiero?
Completamente diverso è ciò che osserviamo nel ragionamento immaginativo
e sinestesico, peculiare di S.
Già si è visto quali difficoltà sorgessero in lui quando il suono della
parola non armonizzava col suo significato, e quando un medesimo oggetto
veniva indicato con termini diversi. Poteva egli mai conciliarsi col
fatto che uno 'svinijà' [maiale] potesse non avere, nella realtà, nessun
segno di quella leggiadria che recavano in loro i suoni della parola, o
che un 'korzik' [chiffel] non fosse inderogabilmente oblungo e
scannellato? O poteva mai accettare che le parole 'svinjà' e 'chavrònja'
[due nomi diversi del porco] potessero designare il medesimo animale (5)?

"... Ecco, per esempio, «equipaggio» ['equipaz']. Questo è per forza una
carrozza. Come faccio a capire che può essere un equipaggio di marinai?
C'è un gran lavoro da compiere, per liberarsi di tutti i dettagli e
rendersi conto di questo! Per farlo, io debbo rappresentarmi che, sulla
carrozza, non ci sia il solo cocchiere, ma anche il lacchè, e che essa
sia servita da un numeroso personale: soltanto allora riesco a farmi
questo concetto...
E «pesare le parole...». E' forse possibile pesarle? 'Pesare': io vedo
dei grossi pesi, come c'erano a R. nella nostra bottega, che in un piatto
ci si metteva il pane, nell'altro il peso, ed ecco la lancetta che si
sposta, ecco che viene a fermarsi al centro... E qui, invece, «pesare le
parole!» (6).
("maggio 1934").

Insomma, il ragionamento a base d'immagini è ben lontano dall'essere


sempre un aiuto nella comprensione del senso delle parole.
E difficoltà particolari esso incontra nella poesia... Poche cose
riuscivano a S. più ardue che leggere versi e ravvisarne il senso.
Molti credono che la poesia esiga un suo proprio pensiero a base
d'immagini. Non sembra possibile convenirne, purché vi si rifletta più a
fondo. La poesia non genera rappresentazioni, ma significati; dietro le
immagini si nasconde un senso intimo, un sottotesto; occorre far
astrazione dall'immagine perspicua per intendere il senso traslato della
poesia, che altrimenti non sarebbe tale... E che cosa accadrebbe,
infatti, se noi c'immedesimassimo nell'immagine della Sulamite al punto
di rappresentarci perspicuamente quelle metafore, con cui il 'Cantico dei
Cantici' la raffigura?
Leggendo i versi, S. s'imbatteva in ostacoli insormontabili: ogni
espressione generava un'immagine, cozzava con l'altra: com'era possibile
aprirsi il passo fra un simile caos d'immagini? Ci limiteremo a pochi
esempi.

"Il vecchio stava ritto nella tina,


coi piedi pigiava, tenendosi al palo con la mano.
Ma, dentro di lui, il lavoratore instancabile e avido,
alla vista del fiume dei grappoli, esultava...

Tuonava come al solito il tramonto titanico,


oscillavano l'erbe, il vento scompigliava la capanna.
Sgambò il vecchio oltre l'orlo della bassa vasca,
entrò scalzo nella baraonda dell'interno..."

(N. Tichonov, "Poesie georgiane")

Qual'era l'impressione che a S. facevano queste strofe?

"Vedevo chiaramente il vecchio, un po' più alto della media, somigliante


a Lev Tolstoj, con le fasce ai polpacci. Stava in una specie di
frutteto... la tina era, per me, un cespuglio di viti. Dapprima mi era
apparso un tavolo lucidato, di legno marrone... Vedo il vecchio 'en
face': pare che sgridi un servo per qualche cosa... Poi d'improvviso
appare un fiume di vino, di colore cupo: 'vinò' [vino] è una parola così
cupa... Quel fiume era quello di Rezica, la località si chiamava
«Basseves (Bassheves) Barg»... Anzitutto, il castello in rovina in cima a
quell'altura; nello sfondo, apparve un riverbero rosso, doveva essere il
sole che sorgeva... A destra, dove si trovava la segheria, apparve
dell'erba alta, che cominciò a piegarsi... Io non saprei spiegare che
cosa volesse dire questo... Quei fili d'erba spiccavano uno per uno: erba
robusta, falasco... Ero rimasto sulla riva, e tutte quelle cose stavano
in lontananza... Gli oggetti ingrandiscono... Balenò, trasvolò, diafana
come una garza, la figura del vecchio: di traverso a essa, io scorgo
l'erba in trasparenza, e mi sembra che, da sinistra, sia spuntata una
capanna col tetto aguzzo... L'arredamento della stanza mi è noto:
dev'essere quello di casa nostra... No, non capisco...
L'impressione che me n'è restata, è quella d'un discorso udito per caso:
frammenti d'immagini senz'alcun senso. In principio mi pareva che quel
vecchio si adirasse contro il servo, che colpisse il servo col piede, e
che fosse un riccone, e che avesse ai piedi pantofole: il servo non
protestava contro l'offesa, gli piaceva il vino... Poi è apparso il
fiume... e poi io ho smesso di fare attenzione... Una specie d'incubo..."
("12 marzo 1935").

Tre giorni dopo, la lettura viene ripetuta lentamente, una strofa alla
volta:

1.) Ah, ora ho visto tutt'altro: lui stesso è quello che lavora, in lui
c'è una gran bramosia, esulta di fronte a quel fiume di vino. Ho udito:
«dentro di lui»... ah, ecco, vuol dire che è l'operaio a giornata? Allora
deve provare delle sensazioni tremende...
(A questo punto lo sperimentatore spiega: sta pigiando l'uva!) Ah, sì! Ma
a me, dall'infanzia, è rimasta una visione diversa: delle travi
tutt'attorno, e il rabbino che mi dice: «'dreshen die Weintrubn'»; io
guardo dalla finestra: e tutto si svolgeva in quel vicolo là. Quando
debbo concepire un'immagine nuova, sono costretto a dominare quella
vecchia.
2.) «Entrò nella baraonda»... che pasticcio! Come sarebbe? Dalla capanna
usciva del fumo... Che roba è? «Tuonava»: questo l'ho tralasciato...
perché le gocce di pioggia vengono a battere sull'erba...
E' entrato nella capanna: ma dentro c'era una stanza... E' la stanza che
ho veduto leggendo Zoscenko (Zoshtchenko), dove un tale, in tempo di
mietitura, chiedeva amore a una donna... «Lei stava seduta e si grattava
una gamba»... Ed ecco la capanna: si trattava d'una stanza...
«Tuonava il tramonto»: questo, poi, non può stare... Il tramonto del
sole? Il tramonto è qualcosa d'idillico...
«Oscillavano l'erbe»: è inverosimile! I fili d'erba non oscillano,
oscillano gli alberi... Ma poi ho visto il falasco... Però, se il
tramonto è idillico, come mai «l'erbe oscillano?»
«Il vento scompigliava la capanna»: ma come poteva esserci il vento, con
un tramonto così? Scompigliava, scompigliava... vuol dire che spostava la
capanna? La capanna veniva spostata? Ah forse, all'interno la
scompigliava... ma no, non può essere: io mi trovo ancora all'esterno...
Solo quando «è entrato scalzo», solo allora la porta s'apre sull'interno
della capanna...
... Io sono un grande conservatore, nelle parole... Avevo sempre pensato
che delle 'misure profilattiche' potessero esservi soltanto in medicina,
e un 'intervallo' soltanto in musica... Mi domandavo: come mai con tanta
disinvoltura la gente applica le parole in campi diversi? E' un trucco, è
della sofistica... Sì, io ho bisogno di leggere con la massima sveltezza
possibile per poter capire, per impedire che le immagini insorgano:
altrimenti, ogni parola, io la vedo..."
("15 marzo 1938").

E ora un altro esempio, da una poesia di Pasternak:

"Fece un sorriso al ciliegio selvatico, scoppiò in pianto, umettò


la lacca delle carrozze, degli alberi il fremito...

"«Fece un sorriso al ciliegio selvatico»: io ho visto un giovanotto...


poi ho riconosciuto che si stava in via Motinskaja Rezica... Lui le ha
sorriso... ma qui c'è «scoppiò in pianto»: dunque già sono apparse le
lacrime, la irrorano... dunque già siamo di fronte al dolore... Mi
sovvenne una donna che andava al crematorio e lì restava seduta per ore
fissando un ritratto... Ma ecco la «lacca delle carrozze»: significa che
ormai arriva la padrona: è venuta in carrozza dal mulino di Juzatov
(Jugiatov) e io guardo che cosa fa. Essa s'affaccia al finestrino... Ma
di che cosa si tratta, qui? Per quale ragione "lui" è triste?... E quel
«degli alberi il fremito»... Il fremito degli alberi, sì, mi resterebbe
facile: io vedo bene il fremito, e poi gli alberi; ma così all'inverso,
«degli alberi il fremito», mi fa prima vedere un albero, e poi debbo
anche scrollarlo, e insomma mi tocca un sacco di lavoro..."
("15 marzo 1938").

C'è da stupirsi se un tipo di percezione, nella quale o parola genera


un'immagine, sia tale da non far comprendere nel modo giusto il senso
d'una poesia?
A S. piaceva distinguere i poeti in «complessi» e «semplici». Fra i
semplici annoverava anche Puskin (Pushkin): ma poi, perfino i versi di
Puskin gli provocavano notevoli difficoltà.
Ecco un'analisi del suo modo di percepire una delle poesie puskiniane: ne
mandò a me una copia, accompagnata da una lettera, dalla quale riproduco
testualmente la sua analisi.

"Alla Ogareva, alla quale un metropolita


inviò i frutti del suo giardino."

"Un metropolita, vantatore sfrontato


a te ha mandato i suoi frutti
volendo certo persuadere noialtri
che appunto lui è il dio dei suoi giardini.
Tutto è possibile a te, che sei una delle tre Grazie:
col tuo sorriso la decrepitudine vincere,
far girare la testa a un metropolita,
e la fiamma dei desideri in lui risvegliare.
Ed egli, incontrato ormai il tuo sguardo fatato,
si lascerà cader di mente la sua croce,
e intonerà appassionati Te' Deum
alla tua celestiale bellezza."

"Mi rendo conto che è immensamente difficile far nello stesso tempo da
sperimentatore e da oggetto dell'esperimento. Ma ho cercato di farlo
coscienziosamente e imparzialmente. Appena letta la poesia, mi sono
affrettato a scrivere i miei commenti, cercando di eseguir la cosa con
rapidità, in modo che non vi s'insinuassero particolari estranei.
La lettura è scorsa fino in fondo senza difficoltà. Tutto liscio. Senza
accorgermene, sono stato preso intimamente dal contenuto (si vede che lo
stile non faceva ostacolo allo srotolarsi dei quadri). Nella sala da
pranzo dell'appartamento dei miei genitori, in casa Ravdin, siede su
un'alta poltrona la bellissima Ogareva. La parte sinistra del suo viso è
illuminata. Alle sue spalle, il nostro orologio a pendolo. In grembo essa
tiene un cesto di frutta dal quale trae fuori una lettera: e lì, appunto,
legge: «volendo persuadere noialtri»... A chi si riferisca quel
«noialtri», per il momento lo ignoro. Che cerchi di persuadere, è chiaro,
ma il modo? Evidentemente, per mezzo della lettera... Dalla parte in
penombra della stanza viene ad emergere, trasparente, la figura del «dio
dei giardini»: un vecchio canuto, con la barba tutta inanellata. Cerco
ora una giustificazione di un'immagine simile. Ho indovinato! Argomento
del discorso è il metropolita: leggendo il secondo verso, vedo subito chi
è quel noialtri: lì sulla strada, presso la finestra aperta, ci sono
Puskin e due suoi compagni, e malignamente sghignazzano. Puskin indica
con la mano la finestra, e le arguzie si susseguono senza interruzione.
Io non ho tempo di ascoltare, giacché ormai sono passato alla lettura del
terzo verso. Il decrepito «dio dei giardini» si è come ispessito (era,
infatti, trasparente), è vestito d'una tonaca nera, sta dritto in piedi
e, come in atto di pregare, guarda alla Ogareva: ma la mano di lei, con
la lettera, si è rilassata, abbandonata giù. La grossa croce d'oro, sul
petto di lui, lentamente si fonde, lui solleva la testa e, con occhi
velati ma, chissà perché, alquanto brillanti (ah, ora è proprio bene in
luce tutto quanto), guarda la donna. Con la sua rauca voce di basso,
ecco, ha intonato una romanza nello stile dei canti di chiesa. La Ogareva
lo guarda stupita, sconcertata. Il soffitto della stanza, tappezzato di
carta lustra si è trasformato in nubi color del latte, sullo sfondo delle
quali viene a risaltare per primo il bel viso della donna, coi chiari
capelli sciolti. E' un viso di donna che mi è ben noto fin dagli anni
dell'infanzia, quando facevo i miei studi al 'cheder'. Essa mi si
presentava allora come la «voce di Dio», affacciato a guardare dalle
nuvole, e faceva parte delle predizioni dei profeti: in antico ebraico,
si chiamava «'Bas-Koil'», cioè la figlia della voce (divina)..."
("Da una lettera di S. in data 15 novembre 1937").

Ecco che cosa provoca in S. una poesia, quando è «semplice». E se, in


questo caso, le immagini non fanno ostacolo all'acquisizione del senso,
non si può dire davvero che la favoriscano.
Fin qui abbiamo sempre tenuto l'occhio al discorso narrativo,
all'immagine, al linguaggio poetico. Ma come si svolge, per S., la
comprensione d'un testo esplicativo, scientifico, astratto? Di fronte a
quest'ultimo, quali risultati ottiene il ragionamento basato sulle
immagini e sulla sinestesia?
Dalle poesie di Tichonov e di Pasternak trasferiamoci dunque ai trattati
scientifici. E incominciamo dal semplice.
«La giornata di lavoro era incominciata normalmente»: che cosa può
esserci di complicato in una frase simile? Infatti, S. riesce a
comprenderne il senso senza fatica. Senza fatica? No, nient'affatto!
Anzi, con grande, a volte, addirittura grandissima fatica...

"... Io leggo: «La giornata di lavoro era incominciata normalmente»... La


giornata di lavoro? Vedo lo svolgersi d'un lavoro... una fabbrica... ma
ecco: "normalmente": qui si tratta d'una donna grossa, colorita: insomma,
una donna normale... E «era incominciata»... Chi era incominciata? Che
diavolo può essere mai? L'industria, la fabbrica, la donna normale: come
mettere insieme tutto questo? Quante cose sono costretto a eliminare,
perché il più semplice significato mi divenga chiaro!"

Questo è un punto che già conosciamo: le immagini si generano da ogni


parola, dirottano dal retto cammino, offuscano il concetto.
Ma, in frasi talmente semplici, la difficoltà non è ancora tanto grossa.
Assai peggio avviene nei casi in cui il testo indica rapporti, formula
regole, illustra nessi causali.
Leggo a S. una norma semplicissima, che qualsiasi scolaro delle
elementari comprenderebbe senza fatica: "Se, al di sopra d'un recipiente,
si trova dell'acido carbonico, quanto più alta sarà la sua pressione,
tanto maggior quantità se ne scioglierà in acqua". Si direbbe che, in un
testo come questo, astratto ma tutt'altro che complicato, non dovrebbero
trovarsi inciampi di nessun genere.

"Quando voi mi avete dato questa frase, io ne ho subito avuto la


visione... Ecco il recipiente... lì, appunto, è collocato quell''al di
sopra'... Io vedo una linea ('a'), al di sopra della linea vedo una
nuvoletta, questa s'innalza... è l'acido carbonico ('b')...
Ora leggo più innanzi: 'quanto più alta è la sua pressione...' Il gas si
solleva... e poi qui c'è qualcosa di solido... è la 'sua pressione'
('c'). Ma questa si fa più alta... la pressione si solleva verso
l'alto... 'e tanto più gas si scioglie in acqua...' L'acqua è diventata
pesante ('d')... ma il gas? Siccome 'la pressione è più alta', è andato
tutto in su... Ma come mai, allora, se la pressione è più alta, avviene
che esso si scioglie in acqua?"

Egli, dunque, non riesce ad afferrare agevolmente neppure il senso, che


parrebbe semplicissimo, di questa legge. Ciò che, in tutti noi, resta
alla periferia della coscienza, e viene ignorato, messo in ombra dal
senso generale della frase, qui acquista valore di per sé, crea le sue
proprie immagini, e il significato complessivo svanisce.
In tutti questi esempi, tuttavia, abbiamo considerato un discorso che
trattava di oggetti e di fatti, e che era quindi, più o meno, concreto,
cosicché era possibile rappresentarsi alla mente quanto si diceva.
Che cosa avverrà, a maggior ragione, con ciò che non è possibile
rappresentarsi? Che cosa avverrà coi concetti puri, che designano
relazioni complesse, con quelle astrazioni che l'umanità ha elaborate in
millenni di pensiero? Esse esistono, noi le facciamo nostre: ma vederle
non è possibile... E invece, qui, «io capisco soltanto quello che
vedo...». Quante volte, da parte di S., non ci è stato detto così?
Ed ecco incominciare a questo punto un nuovo giro di difficoltà, una
nuova ondata di penosi tentativi, intesi a far coesistere ciò che
coesistere non può.

"L'eternità: è quello che sempre è stato così... ma che cosa c'era prima?
E dopo, che ci sarà? No, sono cose che non si possono vedere...
Per intendere a fondo il senso d'una cosa, bisogna vederla... Ecco, per
esempio, la parola «nulla». Ho letto attentamente: «nulla»... E' molto
profondo... Mi sono figurato che potesse essere meglio chiamare così,
«nulla» qualche cosa... Se io questo «nulla» ['ni-cto' (ni-tchto)],
diverrà qualche cosa ['cto-to' (tchto-to)]. me, per capire il senso
profondo, è indispensabile, a questo vedere... Mi rivolgo a mia moglie e
le domando. che cos'è il nulla? E' che non c'è niente! Ma, per me, non è
così... Io già vedo questo «nulla», sento che lei non pensa in modo
giusto... la nostra logica si è formata sulla base di una lunga
esperienza... Vedo bene come questa logica si è formata... Dunque,
bisogna risalire alle nostre sensazioni... Se vien fuori il «nulla»,
dev'esserci qualche cosa... Qui, qui è il difficile! Quando mi si dice
che «l'acqua è incolore», io mi ricordo di come mio padre doveva segnare
gli alberi sul fiumicello Bezymjannaja, perché era ostacolo alla
corrente... Comincio a pensare al fiumicello Bezymjannaja [senza-nome].
Esso, dunque, non ha nome... Quante immagini inutili mi nascono dentro da
una sola parola! E «qualche cosa»... «Qualche cosa», per me è una specie
di nuvoletta di vapore, condensata, d'un determinato colore simile a
quello del fumo. Quando invece mi si dice «nulla», allora è una nuvoletta
più rarefatta, perfettamente trasparente; e quando, da questo «nulla» io
cerco di captare qualche particella, ottengo qualche particella minima di
tale «nulla»."
("12 dicembre 1935").

Come sono strane e, nello stesso tempo, come note e familiari queste
esperienze! Esse sono inevitabili in qualsiasi adolescente che, abituato
a pensare per immagini perspicue, affronti la sfera dei concetti astratti
e si trovi nella necessità di assimilarli. Che cos'è il «nulla» ['ni-
cto'], se sempre qualche cosa ['cto-to'] c'è? Che cos'è l'«eternità», e
che cosa c'era prima di essa? E che cosa ci sarà dopo? E l'«infinito»...
che cosa ci sarà di là dall'infinito?... Sono concetti che esistono, che
si studiano nelle scuole, ma come rappresentarseli? E, se
rappresentarseli non è possibile, che imbroglio ne vien fuori?
Queste domande maledette, che sgorgano dall'impossibilità di coesistenza
fra le rappresentazioni perspicue e le concezioni astratte, assillano
l'adolescente, lo opprimono, destano in lui l'esigenza di battersi con
tutte le forze per venire a capo di ciò che è talmente contraddittorio.
Ma, nell'adolescente, esse fanno presto a ritirarsi: il pensiero concreto
cede il passo a quello astratto, il ruolo delle immagini perspicue passa
in secondo piano di fronte a quello che assumono i valori verbali
convenzionali, il pensiero logico-discorsivo; le rappresentazioni
perspicue restano in una zona periferica, dove è meglio non andare a
stuzzicarle, quando si tratta di maneggiare i concetti astratti.
In S., al contrario, questo processo non può svolgersi così rapidamente,
lasciandosi dietro soltanto il ricordo dei tormenti passati. Egli non può
capire se non vede: tant'è vero che si sforza di vedere il «nulla», di
trovare un'immagine dell'«infinito»... I tormentosi tentativi rimangono,
ed egli, per tutta la vita, conserva i conflitti intellettuali
dell'adolescente, dimostrandosi senz'altro impotente a varcare la soglia
«maledetta».
Ma le immagini, che quei concetti richiamano, non sono in alcun modo
d'aiuto: che può venirne dal fatto che, quando si dice «eternità», emerga
un antico vegliardo, probabilmente quel Dio di cui S. ha sentito leggere
nella "Bibbia"? E allora, al posto delle immagini, sorgono di nuovo
«globi di fumo», e «spruzzi», e «linee»... Che cosa rappresentano? Forse
quel contenuto dei concetti astratti, che egli si sforza di vedere in
forme perspicue? O si tratta di quelle immagini, già a noi note, dei
suoni attinenti alla pronuncia d'una parola, che sorgono quando il senso
della parola resta sconosciuto? E' difficile dire se qualche aiuto possa
venirne ad assimilare un concetto: certo è che, in lui, sorgono di
continuo, si affollano riempiono tutta la sua coscienza.

"... Bene, tutto questo è chiaro... Ma come. rappresentarsi la «reciproca


compenetrazione di due opposti»? Io vedo due cupe nubi di fumo: sono
quegli oscuri «opposti»... Ecco che muovono l'uno verso l'altro, si
compenetrano a vicenda... Ma ecco, per esempio, la «negazione della
negazione»... No, questo non riesco proprio a rappresentarmelo! A lungo
mi ci sono arrabattato intorno, ma, in coscienza, non ci ho capito
nulla...
... Ho letto i giornali, e qualche cosa me n'è entrato in mente: per
esempio, tutto ciò che toccava la vita economica: qui mi raccapezzavo
benissimo; alcune cose, invece, non mi entravano in mente lì per lì, ma
solo dopo un pezzo... Come mai? La risposta è chiara: erano cose che non
vedevo. Quel che non vedo, infatti, non mi entra in mente... E anche
quando ascolto dei pezzi di musica, del resto, io ne sento il sapore, e
allora va bene: ma quelli che non vengono a toccarmi la lingua, mi
restano incomprensibili. Dunque non solo ciò che è astratto, ma anche la
musica, anche quella bisogna che io la senta al gusto... Anzi perfino un
numero telefonico, sì, posso ripeterlo, ma se non mi ha toccato la lingua
io non lo conosco, debbo ascoltarlo di nuovo, debbo farmelo passare
attraverso tutti gli organi dei sensi: allora sì che lo so bene... Qual è
dunque la mia posizione di fronte ai concetti astratti? Ecco, quando
sento «malattia», vedo dei nastrini, delle pallottole, e poi nebbia. E
una nebbia simile è tutto ciò che è astratto."
S. tenta insomma di avvolgere tutto in immagini: se queste non ci sono,
in «nuvolette di fumo», in «linee»: e quale spreco di forze, per potersi
aprire il passo fra tanta calca di immagini! Eppoi, qui sorge un nuovo a
ostacolo: quanto più egli pensa, con tanta più insistenza emergono quelle
che sono le immagini più salde di tutte; immagini della lontana infanzia,
di Rezica, della casa paterna, dove - ancora bambino - gl'insegnavano la
"Bibbia", e dove per la prima volta cercava di formarsi il concetto di
ciò che tanto a fatica entra nella coscienza.

"... Per quanto riguarda l'arte, è noto che determinati periodi del suo
fiorire non trovano nessuna rispondenza nel generale sviluppo della
società, e neppure, di conseguenza, nello sviluppo del materiale
fondamento di quest'ultima, costituente per così dire lo scheletro della
sua organizzazione..." (7)
"L'inizio è stato buono. Ho visto, non so perché, l'antichità in cui
vivevano Aristotele, Socrate... Si trattava, semplicemente, della casa di
Chaim Petuch: là mi hanno fatto studiare l'antichità. Quando ho guardato
meglio, mi trovavo su certe rovine, che erano quelle della fortezza dei
Maccabei... Ma noi avevamo cominciato a parlare dell'arte... Io vedo
sempre Nerone, allo stesso modo che anche il Senato di Caligola mi si dà
a vedere nella nostra verde sinagoga: è là che si svolgeva il Sinedrio...
Ma, di tutta questa frase niente mi è rimasto dentro!
Sicché, allora, la vita della società... lo spirito sociale... non si
rifletteva nell'arte... I rapporti sociali e di classe della società non
trovavano riflesso nell'arte... E, in quanto allo «scheletro»... sarà
stato la carcassa di qualche cosa...
Oh, ecco, rileggendo una seconda volta, ora sì che capisco! Perfino
quello «scheletro», ora, mi sembra una cosa di secondo piano... In quanto
poi a quel 'non tengono conto del materiale fondamento della società', si
tratta per me di qualcosa di astratto, è una specie di cirro, di
nuvoletta..."

E' vero che, tutto sommato, S. riusciva pur sempre ad assimilare


l'essenziale, dove gli avveniva d'incontrarlo; è vero che riusciva pur
sempre a vivere nel consorzio civile, a seguire corsi di studio, a dare
esami. Ma per quale spinoso cammino si trovava costretto a procedere
allorché, dalle bassure infide, tentava di salire alle vette, ed ogni
passo provocava in lui tante immagini e sensazioni superflue, eppure così
implacabilmente ripullulanti!
No, il modo di pensare per immagini perspicue e per sinestesie,
caratteristico di quest'uomo, non aveva soltanto lati positivi, ma anche
negativi; non vi era connessa soltanto forza, ma anche debolezza. E quali
sforzi, per superare appunto questa sua debolezza, egli si trovava
costretto a compiere...

La sua «volontà».

Abbiamo dedicato molte pagine ai lati forti e della mente di S.


Occupiamoci ora della forza e debolezza della sua immaginazione.
Testimonianze obiettive.

Chi non ricorda una prova semplicissima, una prova che risale alla nostra
infanzia, intesa a dimostrare la forza dell'immaginazione?
Il vostro braccio è teso: fra le dita, tenete ben stretto un filo, al
quale è legato un piccolo peso. Voi incominciate a figurarvi con vivezza
che la mano stia compiendo un movimento circolare. E il piccolo peso,
dapprima lentamente, poi con sempre maggiore decisione, incomincia
descrivere il profilo d'un cerchio.
L'immaginazione ha condotto così al movimento: e la psicologia, ben
conoscendo i meccanismi dell'«atto motorio», ha già da gran tempo
dimostrato che la misteriosa «lettura del pensiero» si riduce forse senza
residui a una lettura dei movimenti che l'immaginazione provoca nella
persona osservata. E quanti altri fatti, attestanti la facilità con cui
una forte immaginazione (quella stessa che provocava nel medioevo, in
donne isteriche, le stigmate) può dar luogo ad alterazioni dei processi
somatici, sono stati raccolti ai nostri giorni dalla psicosomatica e
dalla medicina! Quanti spiragli su un mondo ancora ignoto si aprono i
fenomeni osservati negli yoghi indiani!
In che modo tutto questo si sarà riflesso in chi, come in S., la forza
dell'immaginazione superava tanto nettamente ogni altro esempio a noi
noto?
Potremo stupirci se un'immaginazione di eccezionale vivezza, com'era
quella di S., non mancherà di dimostrarcisi idonea a provocare dei
movimenti, e ,se il dominio sui processi del proprio organismo, attuato
per mezzo di una simile immaginazione, supererà quanto ci è noto
dall'osservazione condotta su oggetti normali?

"Quando io voglio una cosa, me la raffiguro, e non ho bisogna di fare


sforzi: la cosa si compie da sé..."
("maggio 1934").

Tuttavia, lo studioso non può credergli sulla parola: dovrà verificare


quali fossero, in questo caso, le reali possibilità di dominio sul
proprio organismo, e quali ne fossero i limiti.
Ebbene, non erano soltanto parole, che S. potesse regolare a suo
piacimento il lavoro del proprio cuore e la temperatura del proprio
corpo: egli era effettivamente capace di farlo, e di farlo in misura
assai rilevante.
Ecco, in condizioni di tranquillità, il suo polso normale: 70-72 battiti
al minuto. Ma ecco, dopo una piccola paura, il polso diviene più
frequente, accelera il ritmo, già raggiunge gli 80-96-100 battiti al
minuto. Dopo di che, assistiamo al processo inverso: la frequenza ritorna
nei limiti precedenti, il polso si fa più raro, fino ai 64-66 battiti.
Come avviene questo?

"E che cosa c'è di strano? Io mi vedo, semplicemente in corsa dietro un


treno: il treno si è appena mosso, mi distanzia... ma io ho necessità di
raggiungerlo, di saltare sul predellino dell'ultimo vagone. C'è da
meravigliarsi, allora, se il cuore si mette a lavorare così in fretta?
Dopo, invece, mi corico per dormire... me ne sto sdraiato immobile nel
letto... ecco che incomincio ad assopirmi e il respiro diventa regolare,
il cuore ricomincia a battere lentamente, uniformemente..."
Ed ecco un'altra esperienza:

"...voi mi chiedete che la temperatura della mano destra s'innalzi, e di


quella sinistra si abbassi? Ebbene, incominciamo..."
("giugno 1938").

Abbiamo con noi un termometro clinico; controlliamo la temperatura da


tutt'e due le parti: è la medesima. Restiamo in attesa per un minuto, per
due... «Ora, incominciamo!» ci dice S. Noi applichiamo di nuovo il
termometro alla pelle della mano destra: la temperatura è salita di due
gradi... E a sinistra? Ancora una pausa, poi: «Ora siamo pronti!». E la
temperatura della mano sinistra si è abbassata di mezzo grado.
Di che cosa si tratta? Com'è possibile regolare su ordinazione, a
capriccio, la temperatura del proprio corpo?

"No, anche qui non c'è niente di straordinario! E' che io vedo me stesso
in atto di accostare la destra a una stufa infocata... che calore
scottante! S'intende bene che la sua temperatura s'innalza! Nella
sinistra, invece, io ci tengo un pezzetto di ghiaccio. Io vedo questo
pezzetto di ghiaccio, mi sta lì nella sinistra, lo tengo ben stretto...
Sfido io che mi diventa più fredda!"
("giugno 1938").

Ma allora, per questa via, si potrebbe forse arrivare anche a vincere il


dolore? Più d'una volta S. mi ha raccontato come avesse cessato di
sentire un dolore acuto, e con quali mezzi vi fosse pervenuto.

"Debbo andare dal dentista... Sapete anche voi che piacere sedersi in
quella poltrona e sentirsi trapanare un dente! Prima, infatti, era una
cosa che mi faceva proprio paura. Adesso, però è diventato così
semplice... Ecco, mi dolgono i denti... S'incomincia da un filo d'un
rosso arancione, che mi dà inquietudine. So che, a lasciar le cose così,
il filo si allargherà, si trasformerà in massa compatta... Io accorcio il
filo, lo accorcio ancora, ancora... fin tanto che, ecco, non è più che un
puntino: e il dolore scompare... In seguito, però, ho adottato un metodo
diverso. Sto già seduto lì sulla poltrona: ma no, non sono io, è un
altro, è lui che ci sta seduto... E io, S., gli sto a fianco, e osservo
come a lui trapanano il dente... Lascia pure che, a lui, faccia male: già
non sono io che sento il male, ma lui! E, in questo modo, non sento più
nessun dolore..."
("gennaio 1935").

Questa esperienza - lo confessiamo - non è stata da noi condotta sotto un


controllo obiettivo; ma, anche con la collaborazione di altri colleghi,
abbiamo potuto constatare come mutino in S. i processi dell'adattamento
della pupilla quando «si vede» in una stanza oscura o luminosa; come in
lui appaia il riflesso cocleo-pupillare quando si raffigura un suono
stridente; e come, nell'elettroencefalogramma, si determini una netta
depressione del ritmo alfa, non appena egli immagina che la viva luce
d'una lampada da 500 W venga a battergli sugli occhi (8)!
Le ricerche fisiologiche (condotte nel Laboratorio di fisiologia della
Clinica neurologica dell'Istituto di medicina sperimentale, ad opera di
S. A. Charitonov e dei suoi collaboratori) hanno fornito solo qualche
indicazione - anzi pochissime, in verità - circa i possibili meccanismi
di tali fenomeni.
Non si sono riscontrate alterazioni apprezzabili nella soglia delle
impressioni tattili, ma i contatti vengono da lui percepiti in forma
d'immagini perspicue (sinestesiche). Le soglie della sensibilità
olfattiva e gustativa sono abbassate. Notevolmente abbassata è pure la
soglia dell'adattamento visivo gli ci vuole maggior tempo per adattarsi
all'oscurità. La stimolazione della cute per mezzo dei filamenti di Frey
non ha prodotto mutamenti apprezzabili della soglia, ma, invece, della
puntiforme sensazione di contatto, S. ha avuto la sensazione di un'onda
che si espandeva e dominava su notevoli zone dell'epidermide; la
sensibilità cutanea mostra sintomi di inerzia elevata, mentre alcune
caratteristiche dell'esperienza tattile indicano il predominio d'una
sensibilità protopatica. La soglia della cronassia ottica non esce dai
limiti consueti, ma le sensazioni soggettive, insorgenti nel corso delle
stimolazioni elettriche della cute, sono insolitamente brusche, mentre
l'intensificazione dello stimolo non conduce per lo più ad una
proporzionale esaltazione delle sensazioni una volta mutata, la soglia,
inerte, rimane tale e quale per un lungo tratto di tempo, e qualche
singolarità, piuttosto che sotto questo riguardo, si manifesta nella
dinamica delle eccitazioni provocate.
Da tutte queste cose si potrebbe concludere che, se le soglie delle
sensazioni non esorbitano dai limiti della norma, la loro qualità e la
loro dinamica presentano invece una notevole originalità; e lo
sperimentatore potrebbe parlare perfino di un certo abbassamento
dell'eccitabilità dei sistemi corticali, e di un'esaltazione
dell'eccitabilità di quelli sottocorticali. Se a questo si aggiunge il
rilevante abbassamento dei processi di adattamento, e l'intensificazione
di quelli di risonanza, il profilo fisiologico delle sensazioni e del
sistema vegetativo di S., quale si ricava da questi appunti, risulterà
esaurientemente delineato.
Senza dubbio, saremmo in diritto di aspettarci di più da un'indagine
obiettiva delle sue manifestazioni vegetative, sensoriali ed
elettrofisiologiche. Senza dubbio, i dati di fatto da noi riportati non
offrono che dei contributi relativamente insignificanti (e alquanto
indiretti) per una più aderente comprensione di quegl'importanti
fenomeni, che sono stati oggetto delle nostre descrizioni. Ma non sempre,
purtroppo, la prova di un'analisi obiettiva dei fatti indagati può venire
a soddisfare i desideri del ricercatore. Ora, però, torneremo alla
psicologia delle manifestazioni che ci interessano, e tenteremo di
aggiungere qualche interessante chiaroscuro a quanto già abbiamo
descritto.

...E una parola sulla magia.

Fin qui si è trattato di dati di fatto, veduti con l'occhio


dell'osservatore obiettivo.
Ma in che modo questi dati di fatto apparirebbero, se si guardassero con
gli occhi di S. medesimo?
Per pervenire a questo, dobbiamo prendere il cammino alla larga, e
soffermarci su alcuni punti, che non abbiamo toccato prima.
Ogni immaginazione ha dei confini, che la distinguono dalla realtà.
In noi - persone dall'immaginazione limitata - questi confini sono
nettamente segnati. In S., in cui l'immaginazione crea delle immagini
tali, da produrre a volte la sensazione della realtà, quei confini
finiscono col cancellarsi.

"... Ecco com'era quando io ero piccolo. Andavo a scuola al 'cheder'. E'
già giorno: bisogna alzarsi! Guardo l'orologio: no, c'è ancora tempo, si
può restare un altro po' a letto... E, intanto, continuo a guardar sempre
le lancette dell'orologio... Segnano, ora, le otto e mezzo... Dunque è
presto, ancora... E, d'improvviso, mia madre: «Come, non sei ancora
uscito, e tra poco sono le nove!». Ma come facevo, io, a saperlo? Io
vedevo la lancetta grossa che guardava in giù: all'orologio, erano le
otto e mezzo..."

La vivida immaginazione del ragazzo cancella i confini tra l'ideale e


l'immaginario: e sono appunto questi confini così cancellati che rendono
tanto inconsueto il suo comportamento. Ma, se si può far questo dei
confini tra il reale e l'immaginario, perché non si potrebbero cancellare
- o per lo meno attenuare - quelli tra l'immagine di «se stesso» e
l'immagine d'un «altro»?
E' una cosa che aveva avuto inizio fin dai primi anni di scuola. Chi non
conosce le magie dello studentello in erba? Ci vuol tanto, forse, a fare
in modo che il maestro non ti chiami? Basta, soltanto, che tu ti tieni
ben saldo al banco, e pensi fra te che lo sguardo del maestro passerà
oltre... D'accordo, non sempre la faccenda funziona: ma chissà, potrebbe
sempre giovare... Anche a S. avveniva questo, come a tutti, nei primi
anni di scuola. Senonché, negli altri, passa presto, e non ne resta che
ricordo fra i tanti dell'infanzia, qualcosa di mezzo tra un giuoco di
quei tempi e un'ingenua, simpatica magia di scolaretto... In S., invece,
la cosa è rimasta a lungo, e non sa nemmeno lui se vi crede o no.

"... Avevamo per insegnante un certo Fridrich Adamovitch... Noi facevamo


delle birichinate... «Chi è stato?» grida Fridrich Adamovitch entrando in
classe... Ed ecco che acchiappa proprio me... Allora io, con quanta forza
avevo, puntai su lui lo sguardo... No, così non potrà farmi nulla!
Infatti, lo vedo girarsi di là, proseguire da un'altra parte... No, non
mi chiamò nemmeno a dir la lezione!"

E ancora molte volte egli osservò su se stesso fatti simili, ma sempre


lasciandoli a mezzo fra un giuoco dell'immaginazione e azioni fatte sul
serio.

"... Non c'è per me gran differenza tra quello che mi raffiguro e quello
che esiste. E spesso, se mi raffiguro una cosa, proprio quella accade!
Per esempio, feci una scommessa con un collega, che la cassiera del
negozio mi avrebbe dato in resto più del dovuto. Io mi rappresentai alla
mente tutto per filo e per segno; ed effettivamente, quella mi diede in
resto non 10, ma 20 rubli... bene, so anch'io che si tratta d'un caso,
d'una coincidenza; ma nell'intimo, ho pur sempre l'impressione che ciò
avvenga perché io lo vedo... E se poi la cosa non mi riesce, mi pare che
si debba attribuire o al fatto che ero stanco, o che, in quell'altra
persona la volontà era diretta altrove...
A volte mi sembra perfino che potrei guarire me stesso, purché me ne
faccia una rappresentazione ben chiara... E anzi, che potrei guarire
anche gli altri... So che, se avverto i sintomi del male, subito mi
figuro che esso se ne vada: ed ecco, infatti, non c'è più, e io sto bene:
il male non è potuto venire avanti!
Sto partendo per Samara... D'improvviso Misa (Misha) (mio figlio) si
ammala di stomaco. Viene il medico e non riesce a capire che cosa abbia.
E invece, è tanto semplice: gli ho fatto mangiare troppo lardo... Io
vedo, dentro al suo stomaco, quei bocconi di lardo... Voglio che lui
riesca a digerirlo, cerco di venirgli in aiuto... Mi figuro, vedo quel
lardo che si scioglie. E Misa, a poco a poco torna a sentirsi bene...
D'accordo, non c'è dubbio, so che non è così: ma il fatto è che sempre,
tutto questo, io lo vedo..."

E quante non ce ne sono di queste briciole d'ingenua magia dove


l'immaginazione trapassa così in persuasione, e dove il raziocinio
sembrerebbe controllare ogni punto, ma lascia fuori, pur tuttavia,
qualche piccolo seme inconsapevole, per cui chissà dove, in chissà quali
cantucci della coscienza, rimane l'impressione: «eppure, eppure, se fosse
proprio così?». Quanti di questi fantastici ripostigli della coscienza,
dove l'immaginazione viene insensibilmente a fondersi con la realtà, non
si sono conservati in quest'uomo?

La sua personalità.

Ci resta soltanto di passare all'ultima parte del nostro racconto, che è


quella più inesplorata, ma forse anche la più interessante.
Sui mnemonisti di maggior rilievo c'è una vastissima letteratura. Sono
nomi ben noti agli psicologi quelli di Inodi e di Diamandi, e non è
sconosciuto il notevole mnemonista giapponese Ishihara. Ma tutti gli
psicologi che si sono occupati di costoro, si sono soffermati
esclusivamente sulla loro memoria.
Chi, in realtà, è stato Inodi, e come si è svolta la vita di Diamandi?
Quali i tratti caratteristici della personalità di Ishichara, e quale lo
svolgimento della sua vita?
I canoni fondamentali della psicologia classica facevano una distinzione
netta fra lo studio delle varie funzioni psichiche e quello della
personalità: restava come sottinteso, da tale punto di vista, che le
caratteristiche personali abbiano scarso rapporto con la struttura delle
funzioni psichiche, e che un individuo, in cui si manifestino
straordinarie particolarità mnestiche in laboratorio, possa poi non
distinguersi in nulla da tutti gli altri nella vita vissuta.
E' verosimile, questo?
E' mai possibile che un eccezionale sviluppo della memoria visiva e delle
esperienze sinestesiche non faccia sentire in alcun modo il suo peso
sulla formazione della personalità di coloro che ne sono i portatori,
cosicché un uomo che tutto vede» e che nulla può intendere a fondo, se
non a patto di «far passare» le impressioni attraverso tutti gli organi
dei sensi, un uomo il quale si trova costretto a «sentire i numeri del
telefono sulla punta della lingua», si sviluppi poi come tutti gli altri?
E' mai possibile che anche lui, come tutti, vada a scuola, abbia dei
compagni, inizi una vita professionale, e la sua biografia decorra allo
stesso modo di tutte le biografie dei suoi convicini? Un simile
presupposto pare a noi, di primo acchito, quanto mai improbabile.
Un uomo, nella coscienza del quale il suono si fondeva col colore e col
gusto, e qualsiasi fuggevole impressione suscitava una vivida e
incancellabile immagine; un uomo per il quale le parole avevano un valore
talmente diverso da quello che hanno le parole nostre, non poteva avere
una formazione identica a quella degli altri, un identico mondo
interiore, un'identica biografia.
Un uomo che tutto «vedeva» - e tutto sinestesicamente sperimentava - non
poteva essere alla pari con noi nel sentire le cose, nel vedere gli altri
uomini, nell'esperire se stesso.
In che modo, dunque, la personalità di S. si era formata? Quale la
strutturazione della sua biografia?
Inizieremo da lontano la storia dello sviluppo della sua personalità.
Egli è ancora un ragazzetto. Ha appena incominciato a frequentare la
scuola.

"... Ecco, è giorno: debbo andare alla scuola... Manca poco, ormai, alle
otto... Bisogna alzarsi, vestirsi, mettersi il paltò, il cappello, le
soprascarpe... Non posso più rimanere a letto: e, così, mi viene una
rabbia... Vedo, sì, che a scuola ci debbo andare, ma perché non ci va
«lui», piuttosto? Ed ecco che è «lui» ad alzarsi, a vestirsi... è «lui»
che prende il paltò, il cappello, s'infila le soprascarpe... è «lui» che,
ormai, è andato a scuola... Oh, adesso, finalmente, tutto è in ordine! Io
resto a casa, e «lui» se ne va. D'improvviso, entra mio padre: «E' tardi,
e ancora tu non sei andato a scuola?»."
("20 ottobre 1934").

Il ragazzo fantastica come tutti i suoi coetanei, ma la fantasia gli


s'incarna in immagini troppo vivide, immagini che vengono a creare in lui
un secondo altrettanto vivido mondo, nel quale egli si trasferisce tutto.
E così il sognatore smarrisce i confini tra ciò che esiste e ciò che lui
«vede»...

"... Questa è una cosa che è rimasta in me molto a lungo, e anzi, forse,
rimane tuttora... Guardo l'orologio e poi, per un pezzo, continuo a
vederlo... Le lancette stanno sempre lì allo stesso punto, e io non mi
accorgo che il tempo è già trascorso oltre. Ecco perché spesso mi avviene
di tardare..."
("ottobre 1934").

Ma come fare dunque, in tali condizioni, ad adattarsi alla mutevolezza


delle impressioni, una volta che le immagini provocate da quest'ultime
sono tanto sfolgoranti e tanto facilmente riescono a sovrapporsi al mondo
della realtà?

"Mi hanno sempre chiamato «'Kalter Nefesch'» [in ebraico: anima fredda]:
c'è, per esempio, un incendio, e io tardo a capire: «Che cos'è, un
incendio?»... Il fatto è che, prima, devo vedere ciò che mi vien detto...
E, in questo secondo d'intervallo che passa prima che io veda, accolgo
tutto freddamente..."
("giugno 1934").
A noi psicologi è ben nota quella immaginazione creatrice, dalla quale si
genera l'azione, e che puntualmente si coordina col mondo esterno. Da un
tal genere d'immaginazione sono discesi tutti i grandi inventori. Ma ci è
pure nota un'altra immaginazione, la cui attività non si orienta verso il
mondo esterno: un'immaginazione che nasce dal desiderio e che fa da
surrogato all'azione, rendendo quest'ultima superflua. Quanti inattivi
fantasticatori vivono nella sfera d'una tale immaginazione, trasformando
la loro vita in un «sogno ad occhi aperti», riempiendola tutta intera di
ciò che gli inglesi chiamano "waking dream"!
C'è da meravigliarsi se S., con le sue esperienze sinestesiche diffuse e
le sfolgoranti immagini sensibili, sia divenuto un fantasticatore
incallito?
Ma non sono, le sue, di quelle fantasticherie che approdano all'azione.
Sostituiscono, piuttosto, l'azione, poggiando sulle esperienze della
propria vita psichica, convertite in immagini. E' quanto già abbiamo
veduto nel frammento riportato qui sopra.

"Debbo andare alla scuola... Ed ecco che vedo me stesso... «E' 'lui' che
va a scuola!» Io mi stizzisco contro di «lui»: perché è così lento a
prepararsi?
Ho otto anni. Stiamo facendo il trasloco. Io non ho voglia di muovermi...
Mio fratello mi prende per mano e mi porta alla carrozza da nolo... Vedo
il vetturino che sta biascicando una carota... Ma io non ho voglia di
partire: e così rimango a casa. Vedo «lui» che se ne sta là, alla
finestra della vecchia camera, e non va in nessun posto." ("20 ottobre
1934").

E appunto una simile divisione: un «io» che ordina e un «lui» che esegue,
e che dall'«io» è veduto, permane in S. per tutta la vita. «Lui» è quello
che va dov'è necessario, «lui» è quello che ricorda, mentre l'«io» non fa
che comandare, guidare, controllare... Tanto che, a non sapere nulla di
quei meccanismi psicologici della vivida, perspicua «visione», sui quali
così particolareggiatamente abbiamo insistito nel corso della nostra
narrazione, sarebbe davvero facile confondere tutto questo con quella
«scissione della personalità», di cui tanto si occupano gli psichiatri, e
con la quale, in realtà, tanto poco di comune ha la «alienazione» della
propria personalità, quale in S. si verifica.
La possibilità di «vedere» e di «alienare» se stesso, trasformando le
proprie sensazioni ed azioni in una immagine a norma della quale è «lui»
che prova quelle sensazioni e compie quelle azioni su «mio» comando, può
anche riuscire a volte di grande aiuto per una libera regolazione del
comportamento: lo abbiamo già visto parlando del dominio sui processi
vegetativi, o della eliminazione del dolore mediante il trasferimento su
un'altra persona. Ma quanto spesso, viceversa, una simile «alienazione»
può essere di ostacolo a una valida direzione del comportamento!

"... Eccomi seduto in casa vostra, tutto immerso nei miei pensieri...
Voi, che siete un padrone di casa ospitale, mi domandate: «Che ve ne pare
di queste sigarette?». «Così così, una cosa di mezzo...» Io non avrei mai
risposto in questo modo, ma «lui» ci può rispondere. E' una mancanza di
tatto, ma spiegare a «lui» quale papera abbia commesso, non mi è
possibile. «Io» mi sono assorto in altro, e «lui» parla come non sta
bene."
("20 ottobre 1934").
In casi come questo, la minima distrazione conduce al punto che quel
«lui», che S. vede così chiaramente, esorbita da ogni controllo e viene
ad agire automaticamente.
E quanto frequenti sono i casi in cui le immagini pullulanti impediscono
di mantenere l'opportuna linea del discorso, e fanno dirottare di qua e
di là! In quei momenti egli si trova assediato dal rigoglio dei
particolari, dalle reminescenze collaterali; il discorso diviene verboso,
pieno di digressioni a non finire: e gli occorre un grande sforzo su se
stesso per tornare di nuovo al tema originario.
S. era il primo ad essere consapevole della sua verbosità, della
necessità di restar sempre ben vigile per conservare il tema del
discorso, e della impossibilità in cui si trovava di riuscirvi ogni
volta. Tanto a me, che lo tenevo in osservazione, quanto pure agli
stenografi, che annotavano le nostre conversazioni, questo era noto anche
meglio che a lui. E quanta fatica costava, a chi scrive, separare
l'essenziale dall'incessante ramificarsi e disviarsi della conversazione
con quest'uomo!

"...Tutto questo conduce all'incapacità di tenersi nella cornice del


tema. Non si tratta di loquacità: voi mi fate delle domande sul cavallo,
ma il suo colore e il suo «sapore» costituiscono una massa compatta
d'impressioni... E se «io» non prendo la situazione in mano, non si viene
a capo di niente. Infatti, «lui» non ha affatto il senso di essere uscito
d'argomento: si tratta pur sempre di quello stesso sapore, di quello
stesso cortile con stallaggio: e, da questo, non si è affatto usciti!
Solo da poco ho imparato a star dietro al tema e ad attenermi ad esso..."
("25 maggio 1939").

Quanto frequenti, però, sono i casi in cui le immagini sfolgoranti


entrano in conflitto con la realtà, e vengono a ostacolare la conveniente
realizzazione dell'azione a cui ci si è accinti!

"... Ho avuto una questione giudiziaria... Una questione semplicissima,


che dovevo vincere senza il minimo dubbio... Ecco che mi preparo alla
deposizione da fare in tribunale... E, ogni cosa, io la vedo:
diversamente non posso fare! Ecco dunque la grande sala del tribunale...
le sedie in fila... A destra c'è il tavolo del giudice: io sto a
sinistra, e pronuncio il mio discorso... Tutti restano soddisfatti delle
mie dimostrazioni: sono io, evidentemente, che l'ho spuntata! Quando,
però, sono entrato davvero nella sala del tribunale, tutto è risultato
diverso... Sia il fatto che il giudice sedesse non a destra ma a
sinistra, sia che io fossi dovuto entrare da tutt'altra parte da come
avevo veduto... E così, mi sono trovato sconcertato, smarrito... Non
potevo più dire una parola come si deve... E insomma, ho perso la causa!"
("maggio 1939").

Con quanta frequenza, dunque, le vivide immagini che S. vedeva, non


coincidevano con la realtà, e con quanta frequenza, abituato com'era a
far leva su queste sue immagini, egli veniva a trovarsi impotente di
fronte alla realtà che lo circondava!
Il caso del tribunale, sotto questo riguardo, è di una chiarezza
esemplare; ma di casi consimili la vita di S. è tutta piena, e appunto
per questo (come spesso si lamentava) gli altri lo consideravano un uomo
lento, esitante, trasognato.
Ma a livello ben più profondo il carattere di realtà dell'immaginazione,
e la labilità del mondo reale, avevano improntato, in S., la formazione
della personalità.
Di continuo egli era in attesa di qualche cosa, fantasticava e «vedeva»
più che non agisse. C'era in lui di continuo, l'impressione che dovesse
accadere qualcosa di bello, destinato a risolvere tutti i problemi, per
cui la sua vita sarebbe divenuta d'un tratto talmente semplice, talmente
limpida... E lui «vedeva» questo, e lo aspettava... E tutto ciò che
faceva intanto, era «provvisorio», era quel che si fa nell'attesa che ciò
che si aspetta finalmente arrivi.

"Io ho molto letto, e sempre mi sono identificato con l'uno o con l'altro
dei protagonisti: giacché io li vedevo... Ancora a diciott'anni, non
riuscivo a capire come mai i miei compagni si preparassero a diventare
ragioniere o commesso viaggiatore... Ciò che più importa, nella vita, non
è la professione: la cosa principale è quel non so che di piacevole, di
grandioso, che un giorno accadrà... Se a diciotto o vent'anni io mi tossi
creduto maturo al matrimonio, e una contessa o una principessa mi avesse
offerto di divenire mia moglie, nemmeno questo mi sarebbe bastato: chissà
che non potessi diventare un personaggio ancora più alto? Quanto a tutto
ciò di cui finora mi sono occupato - articoli scritti in terza pagina, o
il mio debutto nel cinema - è tutta roba che «non è ancora quel che dico
io», roba ancora provvisoria, temporanea...
Essendomi capitato, un giorno, di leggere il bollettino azionario, e
avendo dato prova di tenere a mente le quotazioni di borsa, diventai
agente di cambio; ma questo non era davvero «quel che dico io», era
semplicemente un modo di far quattrini... La vita, quella vera, è ben
altra cosa. Tutto stava, per me, nelle fantasie, non già nelle
faccende... E così, abitualmente, io restavo passivo. Non capivo che gli
anni passavano: si trattava sempre d'un «frattanto che...». Ed ecco
quell'impressione: «Ho solo 25 anni» «Ne ho solo 30»: e sempre avanti
così... Nel 1917, partii volontario per la provincia, deciso ad
abbandonarmi alla tendenza corrente: partecipai al 'proletkult', diressi
una tipografia, feci il reporter, ebbi un mio giro di vita... Così anche
adesso: il tempo passa, io potrei pervenire a tante affermazioni, ma
sempre continuo ad aspettar qualche cosa... Tale, ormai, sono rimasto..."
("25 febbraio 1937").

Era rimasto, appunto, un uomo costruito a mezzo, un uomo che aveva


cambiato dozzine di professioni, delle quali non ce n'era una che non
fosse «temporanea».
Espletava incarichi redazionali, si era iscritto al conservatorio di
musica, recitava al varietà, era stato negli uffici per la
razionalizzazione del lavoro, poi era diventato un mnemonista, e
d'improvviso si era ricordato di saperne abbastanza di ebraico antico e
di aramaico, e si era messo a curar la gente con le erbe, giovandosi
appunto di quelle antichissime fonti...
Si era anche fatto una famiglia: una buona moglie, un figlio
intelligente; ma, come tutto il resto, anche questo gli appariva come
attraverso un velo di nebbia... E sarebbe stato difficile dire che casa
fosse più reale, per lui: il mondo dell'immaginazione, nel quale viveva,
o il mondo delta realtà nel quale restava sempre come un ospite
temporaneo...

Uno sguardo al futuro.

La psicologia non è ancora una vera scienza della personalità umana nei
suoi aspetti vitali e reali.
Non è ancora giunta, infatti, al punto di poter descrivere il contesto
della personalità in modo tale, che ogni sua parte trovi la rispettiva
collocazione, e le leggi della sua formazione divengano altrettanto note
e trasparenti quanto quelle della sintesi dei corpi chimici composti.
Una psicologia di tal genere appartiene al futuro: a un futuro dal quale
sarebbe ancora più difficile dire quante decine d'anni ci separano
ancora...
Sul cammino che conduce a una tale psicologia della personalità, sono
molte tuttora le strade tortuose, sono molti i sentieri scoscesi,
difficilmente accessibili...
Non c'è dubbio, però, che un'indagine diligente del modo in cui si
configura la personalità in condizioni dello sviluppo anormale delle sue
varie parti, e la descrizione del processo a capo del quale vengono a
formarsi in essa le «sindromi», resta una delle principali vie
d'approccio a questo arduo problema.
E chissà che questa descrizione d'un uomo che tutto «vedeva», non possa
avere anch'essa il suo valore, lungo quel difficile cammino...

Appendice.

Nuovi contributi al concetto di «memoria».


in psicologia, biologia e patologia. (9)

Per vari decenni, si è parlato del processo di memorizzazione come di un


processo relativamente semplice: ridotto a impressioni (ricordi),
ritenzione e richiamo (reminescenza) di tracce. Tale semplicistica
concezione, già da tempo accolta in psicologia, è stata resa più
«complessa» solo da qualche tempo. Negli ultimi due decenni, sono venute
a consolidarla le ricerche fisiologiche relative al riflettersi - sulla
struttura molecolare di base della memoria - della stimolazione sul
consolidamento delle tracce: ricerche che hanno apportato nuovo e
prezioso materiale, senza riuscire peraltro a scuotere questa
semplicistica concezione della memoria.
Attualmente, tali grossolane affermazioni sono decisamente superate, ed è
cominciato a fervere, nelle file del nostro paese, un grande lavoro,
inteso a sostituire, alle antiquate, nuove e più moderne concezioni di
memoria.
Il ravvivarsi di quest'attenzione prestata ai problemi della memoria ha
precise origini.
Per un verso - è evidentissimo - appaiono alquanto rudimentali le
concezioni meccanicistiche del processo di memoria inteso come semplice
registrazione di stimoli e di legami associativi di reazione a questi, e
si è dimostrato scarsamente proficuo lo schema che, nel corso di mezzo
secolo, ha dominato nella letteratura psicologica americana.
Una radicale disamina, è iniziata già 30-40 anni fa, quando Tolman portò
l'attenzione sul ruolo di motivi e «esigenze», nella formazione dei
processi psichici, e Hull intraprese i primi tentativi di elaborazione di
ipotetici schemi, includenti un'analisi dettagliata (sebbene per altro
verso nettamente teoretica) di quelle «variabili intervenienti» che
separano lo stimolo dalla risposta, che hanno indotto a riproporre, in
maniera ben più dettagliata, il processo di strutturazione delle tracce.
Nell'ultimo decennio, un grosso impulso al superamento del mero
associazionismo si è avuto grazie alle minuziose ricerche effettuate
sulla strutturazione dei processi di memoria, in rapporto alla
codificazione degli stimoli, all'analisi delle correlazioni fra ricordi a
lungo e breve termine, è al moltiplicarsi degli studi relativi al
reperimento e adozione di un metodo valido per tali problemi, nonché di
una teoria esplicativa.
Altra origine del ravvivarsi d'interesse per i problemi della memoria
sono i progressi effettuati nella tecnica dei computers: da qui una
specifica attenzione all'analisi della memoria a breve e lungo termine, e
all'elaborazione di schemi che «spianassero», all'occhio dello psicologo,
tutta la complessità dei processi mnestici. Ultima e non meno importante
scaturigine a tale interesse: da un lato, le analisi della memoria su
base molecolare, da un altro, le indagini su alterazioni patologiche
della memoria, a seguito di lesioni cerebrali localizzate. Entrambi
questi settori, hanno consentito contatti più approfonditi con alcuni
meccanismi di apprendimento, quali i processi di impressione, ritenzione
e richiamo, come con i meccanismi sottostanti ai processi di oblio,
fenomeno la cui analisi è divenuta, negli ultimi tempi, uno dei problemi
centrali della scienza psicologica.
Tutti questi fattori hanno esercitato un influsso decisivo sugli studi in
questione, specie tra quelli della psicologia anglo-americani. Nonostante
il deplorevole, assoluto isolamento della stessa dalla psicologia
sovietica, sulla struttura dell'attività psichica, che tanto avrebbe
apportato alla conoscenza della memoria, la ripresa d'interesse per tali
problemi appare indiscutibilmente folta di positive implicazioni e
senz'altro in fase evolutiva.
Quest'impulso è rispecchiato dalla serie di simposi organizzati sulla
nozione di memoria a livello psico e biologico: come, anche dalla
pubblicazione di tre volumi, esponenti in forma sintetica quanto di nuovo
è stato «accertato» sulla memoria, a livello psicologico, biologico e
patologico, negli ultimi tempi.
Noi esporremo specificamente il contenuto di ciascuna delle tre opere.
Maggior interesse fra tutte presenta la prima, "Modelli della memoria
umana", pubblicata a cura di D. A. Norman. Essa è, probabilmente, la
fonte più ricca di elementi per una conoscenza dell'attuale stato degli
studi sulla memoria umana, nonché delle ricerche effettuate in questi
ultimi anni dalla psicologia americana, sull'argomento (10).
L'opera presenta notevole interesse, sia per il corpo dei partecipanti,
sia per le idee di base. Gli articoli in essa presentati riportano il
pensiero di tutti, più o meno, i principali psicologi americani e
inglesi: i loro nomi - D. A. Norman, W. A. Wickelgren, G. Sperling, J.
Morton, W. Reitman, eccetera - sono ben noti, e i lavori di altri - quali
M. I. Pozner, L. Postman, N. C. Waugh, V. K. Estes, e altri - sono citati
ampiamente dagli autori.
L'opera è dedicata all'elaborazione di un modello di memoria. Tale
termine non va assolutamente inteso come modello matematico. Nella
stragrande maggioranza delle relazioni, «modello» compare come un
tentativo di precisare la struttura del processo di memoria, specificarne
le componenti, presentare le tappe del processo di memorizzazione,
mettendo a punto le più complesse nozioni sull'organizzazione funzionale
della memoria, sostituendole a quelle superate e grossolane.
Per lo più, tale modello offre il risultato di un'analisi di ordine
puramente logico, a volte operata sulla base di dati sperimentali, altre,
di dati introspettivi, raramente espressa da una formulazione matematica.
Suo obiettivo fondamentale è fornire un sistema di riferimento sui
processi di memoria, che possa consentire predizioni sui risultati
dell'esperimento, se - tramite quest'ultimo - si vorrà verificare
l'esattezza dell'ipotesi di lavoro.
Risultato incontestabile, l'arricchimento e specificazione delle nostre
nozioni sui processi di memoria: pericolo reale è, invece, - come, del
resto, in ogni caso di «modelli» - nella possibilità di sostituire reali
fattori psicologici con ipotetiche congetture, e, talvolta, con
semplicistiche analogie.
Partendo da presupposti diversi, gli autori tendono a focalizzare i
differenti aspetti del problema; l'ipotesi su cui tutti, comunque,
concordano, è che «la memoria» si presenti come processo complesso,
protendentesi nel tempo, reso frammentario da una serie di successive
articolazioni (tappe), aventi ineguale struttura.
Per la maggior parte, essi ritengono che la memoria prenda le mosse da
un'immagine-lampo (consecutiva all'esperienza), sufficientemente ampia
quanto a «corredo», ma assai instabile (Sperling), che rapidamente evolva
verso la seconda tappa, di una ricodificazione acustica, incorporante
l'annotazione sonora del materiale; tale tappa possiede un ristrettissimo
«corredo» (limitato, talvolta, a pochi elementi), e durata molto breve.
Seconda tappa, quella del passaggio dall'impressione sensoriale alla
memoria per immagini: essa possiede grande corredo e notevole stabilità,
ma deve essere considerata a malapena come intermedia.
Alcuni autori sarebbero inclini a designarla come una sorta di «tampone»
fra recezione e codificazione dell'informazione ricevuta, tramite un
inserimento nei sistemi già noti, o matrici, che costituiscono la base
del ricordo, a breve e lungo termine, e assicurano, come un corredo
vastissimo, così anche una durata di ritenzione praticamente illimitata.
Ognuna di queste tappe, a giudizio concorde di molti autori, poggia sul
variegato sistema di segni impressi, costituenti la complessa trama dei
supporti che fungono da base del ricordo. Gli elementi di tale trama
presentano differente stabilità e comprensibilità: la loro
attualizzazione oscilla a seconda dello stato del soggetto e degli
obiettivi cui egli tenda. La pluralità e frammentarietà di tali elementi
rende assai complesso il processo di richiamo, che una tele quantità di
autori dell'opera (Feigenbaum, Kintsch, Murdock, Shiffrin, Reitman)
avvicinano al processo conoscitivo, e considerano come ricerca attiva,
compiuta secondo la consueta strategia. Proprio tali processi, di
codificazione e decodificazione dell'informazione, nella misura del loro
passaggio dal supporto delle componenti sensoriali, e della loro
inclusione nei corrispondenti sistemi complessi, risultano elementi
centrali nella funzione di elaborazione del modello di memoria umana, che
gli autori dell'opera si sono prefissi.
Varie sono le sfere di analisi, nell'opera.
Norman e Rumelhart (cap. 2) e Wickelgren (cap. 3) analizzano la complessa
e composita costituzione della tappa percettiva. Bernbach (cap. 4) si
studia di mostrare che tale complessa e composita costituzione è
caratteristica - a uguale livello - di qualsiasi tappa del processo di
memoria (sia a breve, sia a lungo termine). Reitman (cap. 5) traccia un
probabile schema di ricostruzione di tale complicato processo. Sperling e
Speelman (cap. 6) esaminano specificamente la memoria a breve termine,
soprattutto acustica, i cui elementi, a loro giudizio, sono praticamente
riscontrabili in qualsiasi forma, anche non acustica, di memoria.
J. Morton (cap. 7) sviluppa tale asserzione, e, inserendo un'analisi
linguistica del processo mnemonico, ne descrive dettagliatamente le tappe
«precategoriali» e «categoriali», soffermandosi in special modo sul ruolo
che nel ricordo gioca il contesto.
Una determinata parte dell'opera, è riservata all'analisi dei processi
associativi. In essa, Greeno (cap. 8) si sofferma sull'analisi della
correlazione di elementi logici (superassociativi) e immediati,
nell'impressione e richiamo di tracce, e considera il processo di
codificazione come una sorta di apprendistato agli schemi del richiamo;
mentre Murdock (cap. 9) prende in esame, specialmente, il rapporto fra
oblio e reminiscenza, descrivendo la natura instabile e fluttuante delle
tracce di memoria.
La parte dedicata ai meccanismi di impressione e richiamo di tracce
include una serie di specifici capitoli. Bjork (cap. 10) prende in esame
tale questione: come vengano a influenzare le tracce, da un lato, una
reiterata ripetizione del materiale, da un altro, un ripetuto, attivo
richiamo delle stesse. L'interessante e vasto lavoro di Kintsch (cap. 11)
analizza il processo di reminiscenza come «selettivo» entro la fitta rete
dei segni, e considera minuziosamente le condizioni di relazione
esistenti fra le complesse matrici (sensoriali e conoscitive) di tali
segni. Vedute affini sviluppa R. Shiffrin (cap. 12), trattando del
problema della reminiscenza come di processo di ricerca.
L'opera si conclude con due capitoli, in cui E. Feigenbaum dà una breve,
ma eloquente definizione del passaggio dalla memoria a breve termine
(sensoriale), all'intermedia (per immagini), a quella a lungo termine
(concettuale), e W. Reitman (cap. 14) si studia di tracciare l'effettivo
percorso della memoria nel soggetto che ricorda: memoria orientata
secondo una determinata strategia, che muta considerevolmente il
contenuto del sistema di tracce formatesi.
Per due aspetti, l'opera, il cui contenuto, ovviamente, abbiamo appena
sintetizzato nelle linee principali, presenta notevolissimo interesse.
Sotto un aspetto - ed è questo il lato positivo - essa dimostra quanto si
sia evoluta la contemporanea psicologia americana dalle acritiche
concezioni di memoria come risultato di ripetizione e consolidamento di
tracce precedenti; e quale sviluppo si sia avuto dalle semplicistiche
teorie finora perdurate negli studi fisiologici sulla memoria.
D'altro canto, suscita un comprensibile timore il fatto che, presso molti
studiosi, al posto dei «ponderati» esperimenti, siano subentrati o i dati
dell'analisi introspettiva, o ipotetiche costruzioni, quelle appunto di
cui sono così ricchi i contemporanei tentativi di «modelli» di memoria.
Proprio in relazione a questo, la lettura di alcune parti dell'opera,
suscita una vivace reazione, pari a quella che dovette provocare, 40-50
anni fa, la lettura delle opere della scuola di Würzburg, sebbene
l'oggetto dell'«introspezione sperimentale» sia sostanzialmente cambiato,
e il posto del problema dell'«immagine» sia stato preso dal problema
della «codificazione», della «strategia» e della «selezione».
Non possiamo non rilevare che in tale campo avrebbero degnamente figurato
gli studi di A. N. Leontjev, di L. V. Zankov sullo sviluppo della memoria
intermedia, quelli di A. A. Smirnov sull'analisi psicologica della
struttura del ricordo; quelli, ancora, di P. I. Zincenko (Zintchenko) sul
ruolo dell'apprendimento nell'organizzazione del ricordo spontaneo e non
spontaneo, e altri. E aiuto sicuro potrebbero offrire anche le ricerche
neuropsicologiche sulla memoria (pochissimo utilizzate dagli autori
dell'opera), nonché quei lavori sulla correlazione fra segni acustici e
semantici, la cui effettiva analisi è stata realizzata a suo tempo da
psicologi americani, come dai sovietici (confronta A. R. Lurija e O. S.
Vinogradova).
La seconda opera, "Biologia della memoria" (11) pubblicata a cura di due
noti esponenti della psicologia, per il suo contenuto, è già in parte
nota agli psicologici sovietici: essa raccoglie il materiale di due
simposi (sulle "Basi biologiche della memoria", e sulla "Memoria a breve
e a lungo termine"), del diciottesimo Congresso internazionale di
psicologia, tenutosi a Mosca nel 1966. Sostanziale complemento all'opera
è costituito da numerosi lavori, fra i più avanzati al riguardo, di cui
alcuni presentati al cinquantesimo Congresso degli psicologi americani,
tenutosi a Washington nel 1967.
Il libro consta di cinque sezioni fondamentali.
La prima passa in rassegna i principali problemi dell'impressione,
ritenzione e richiamo del materiale. Essa comprende una serie di
articoli, relativamente brevi, dei maggiori psicologi nel campo della
memoria, dal punto di vista psicologico: A. W. Melton, E. Tulving, B. B.
Murdock (USA); D. Broadbent (Inghilterra), P. Nevelskij (URSS), B. Milner
(Canada), J. L. Mc Gaugh e N. Waugh (USA).
Problema centrale di questa rassegna, è, da un lato, l'esame delle
questioni circa il rapporto fra memoria a breve e lungo termine; da un
altro, circa la natura dell'oblio.
E' sufficiente prendere un'attenta visione di tale parte, per accorgersi
di quanto differiscano i metodi proposti dai principali psicologi
riguardo a entrambi i problemi.
Se alcuni autori considerano memoria a breve, e memoria a lungo termine,
come due processi assolutamente diversi, altri propendono all'ipotesi che
in entrambi gli aspetti della memoria noi abbiamo un "continuum" - dalla
prima alla seconda tappa del processo - e, dunque, a ritenere
scientificamente non provata una rigorosa distinzione fra le stesse.
Se alcuni fra i congressisti formulano l'ipotesi che l'oblio rappresenti
un processo relativamente semplice di progressivo affievolimento di
tracce, altri inclinano a ritenerlo condizionato dall'influsso infrenante
di fattori accessori interferenti - perduranti e retroattivi - cui
pertanto rivolgono seria attenzione. Ricordiamo che, nella letteratura
sovietica, tali fattori da tempo sono stati oggetto di studio da parte di
numerosi autori, A. A. Smirnov e altri.)
Ne consegue, naturalmente, che, nella ricerca di una soluzione a entrambi
i problemi, vengano chiamati in causa specifici studi, utili a fungere da
supporto per le rispettive tesi, tramite un'accurata revisione del
contenuto di informazione di «memoria specifica», «fattori di richiamo»,
«ruolo dei fattori suppletivi accessori», e così via.
Dati interessanti circa la perturbazione della memoria, a seguito di
lesioni all'ippocampo, reca la Milner nel suo lavoro.
La seconda e terza sezione della rassegna vertono sull'analisi della
microstruttura di memoria, e sullo studio del problema del trasporto
chimico (umorale) dell'informazione. Da qui prendono le mosse articoli
relativamente ampi e esplicativi, di M. R. Rosenzweig e A. Riesen (USA),
H. Hyden (Svezia), A. Jacobson e J. McConnell e collaboratori (USA).
Gli articoli che costituiscono la seconda parte del volume, risultano una
rassegna di studi contemporanei sui problemi della memoria sulla base
molecolare, con particolare riferimento all'apporto arrecato dai vari
agenti chimici - colinesterasi, acetilcolina - nell'organizzazione delle
tracce nei ratti, con l'estirpazione di vari settori del cervello;
un'analisi dell'influsso esercitato dalla maturazione del cervello, come
dalle lesioni delle sue zone sensoriali, sul formarsi delle tracce (A.
Riesen); un esame approfondito del ruolo giocato dai fattori RNA, DNA,
sull'organizzazione delle tracce stesse; e, a conclusione, un articolo di
Hyden, di evidente interesse, con una completa rassegna dei dati da lui
reperiti.
Nella terza parte, due articoli (di A. Jacobson, Mc Culloch e
collaboratori), sulla possibilità di trasmissione per via chimica,
oltreché nervosa, dell'informazione. Vi troviamo ampiamente esposti i
noti «esperimenti cannibalici», in cui gli autori si studiano di
dimostrare che la introduzione di sostanze chimiche (ad esempio di
estratto di carne o di cervello di animali quali vermi e topi) su altri
animali possa risvegliarne non soltanto l'eccitabilità diffusa (globale),
ma apportarvi anche vera e propria informazione.
I risultati di tali esperimenti sono stati più volte oggetto di serie
critiche che li hanno posti in dubbio, ma è indiscutibile l'interesse
informativo presentato dai dati schematicamente forniti dagli autori.
La quarta parte è dedicata all'analisi - su base neuronica - dei processi
mnestici.
Vi compaiono articoli di I. Kupfermann e H. Pinker (USA), E. N. Sokolov,
A. Pakula, G. G. Arakelov e O. S. Vinogradova, T. P. Semënova e V. F.
Konovalov (URSS); L. Gerbrandt, J. Bures (Buresh) e O. Buresova
(Bureshova) (Cecoslovacchia).
Tutti forniscono materiale prezioso per la conoscenza dei meccanismi
plastici dei singoli neuroni e delle sinapsi, nonché dei meccanismi più
interni che appunto nel corpo della cellula e della sinapsi si
verificano, durante il prodursi delle tracce. Di particolare interesse le
relazioni accuratissime di E. N. Sokolov e della Vinogradova e
collaboratori. Oggetto della prima: i processi interni verificantisi nel
corpo del neurone isolato, sotto l'influsso di un'impressione, come anche
i meccanismi di eccitazione legati a tracce durevolmente impresse, e
ancora quelli di abituazione; nella seconda relazione, dati
sufficientemente significativi per poter includere nella globale
struttura architettonica del cervello il processo di impressione di
tracce all'interno di ciascun neurone; e vi è, almeno in parte, spiegato
il ruolo giocato dall'organizzazione del sistema «non specifico» della
zona limbica del cervello, e di altre strutture, sul formarsi di risposte
a nuovi eccitamenti, sui rapporti fra questi ultimi e altri precedenti,
sull'elemento «abituazione» agli stessi, e così via.
Entrambi gli articoli sono ampiamente illustrati e corredati da materiale
esauriente, che consente di controllare i dati sulla cui base gli autori
sono addivenuti alle relative conclusioni.
L'ultima sezione dell'opera è dedicata al problema della elaborazione del
modello di memoria.
A differenza degli articoli compresi nella prima opera da noi esaminata,
questi, figuranti nell'analogo settore della seconda, non rivestono alcun
carattere di pura astrattezza, basati, come sono, su precise analisi
psicologiche condotte sugli animali. Essi tendono a mostrare come si
diffonda il processo di eccitazione apportato al sistema nervoso
dell'animale, e quale ruolo modellatore esplichino le singole strutture,
nelle variazioni di tale circolazione.
La rassegna è conclusa da un originale articolo del collaboratore di K.
Pribram, O. N. Spinelli, sotto la curiosa denominazione di «OCCAM» dove è
proposto uno schema dei processi di memoria, basato su controlli
neurofisiologici, verificabili su specifici computers elettronici.
Evidente dunque l'interesse di questa panoramica sullo stato attuale
della biologia della memoria, presentata da Pribram e Broadbrent.
La terza opera da noi presa in esame, "Patologia della memoria" (12), ci
porta nel campo dei problemi patologici della memoria.
Il materiale in essa pubblicato è il risultato di un simposio, tenuto
negli Stati Uniti nel 1967, sulla patologia della memoria, per iniziativa
dello stesso Talland, ora defunto. Sia la problematica in sé, sia la
partecipazione di psicologi - quali D. Broadbent, J. Bruner, G. A.
Miller, O. Zangwill, M. Pozner, L. Postman - o di neurologi - quali N.
Geschwind, H. Hecaen, K. Pribram, e altri - rendono l'opera
significativa, nella letteratura finora apparsa in materia.
Idea base, e punto di partenza di quanto esposto, è che un soddisfacente
sviluppo della conoscenza della memoria richieda - da un lato -
l'utilizzazione, da parte degli psicologi, del materiale clinico, - da un
altro - l'apporto, in campo clinico, degli esatti metodi psicologici.
Proprio tale obiettivo ha indotto a conglobare, in un unico simposio,
psicologi e clinici, e a considerare la patologia della memoria come
materiale valido a un incremento di teorie esplicative.
L'opera consta di tre parti.
Oggetto della prima: i principali problemi dei disturbi della memoria,
nelle varie forme cliniche: aprassia, agnosia (N. Geschwind), afasia (H.
Hecaen), sindrome di Korsakov (S. Brion), amnesie senili (V. Kral),
lesioni cerebrali localizzate (J. Barbizet), epilessia temporale (J.
Bruner e E. Walker), trauma (M. Williams), stati da post-elettroshock (B.
Cronholm), isteria (J. Nemiah). In forma schematica, è presentata anche
un'analisi dei dati sul substrato cerebrale nei difetti di memoria (R.
Adams).
La seconda parte è dedicata all'esame fisiologico dei processi di
memoria. Comprende un'analisi dei meccanismi molecolari (S. H. Barondes)
e un importante articolo riassuntivo di Pribram, inteso a indicare, negli
esperimenti con le scimmie, il ruolo della codificazione nella fisiologia
della memoria.
La terza parte riveste carattere totalmente psicologico, dedicata com'è
ai meccanismi psicologici di base, reminiscenza e oblio. Rientrano in
tale settore: un rapporto di O. Zangwill, sui modelli neuropsicologici
della memoria, indicante i meccanismi di transizione dalla memoria a
breve a quella a lungo termine, con un'analisi critica del modello
proposto da L. Weiskrantz; una relazione di Broadbent, dedicata alle
tappe fondamentali del processo di richiamo, dalla percezione, alle
successive tappe della codificazione; un importante articolo di Posner,
sul ruolo delle varie forme e dei vari fattori della codificazione e del
richiamo; un altrettanto valido rapporto di Postman, sul ruolo delle
interferenze nell'oblio; un articolo di G. A. Miller, sui principi base
dell'organizzazione della memoria verbale (lessicale), e un altro, di
Bruner, sullo sviluppo delLa memoria selettiva nel ragazzo; uno di L. S.
Kubie, sul rapporto fra memoria cosciente e precosciente, e di A.
Koestler, sui due aspetti della memoria (astratta e per immagini), e
altre ancora.
L'idea base, dominante, più o meno, in ogni relazione, consiste nel fatto
che la memoria non possa assolutamente esser considerata processo
omogeneo, in quanto, come appunto ha sottolineato uno dei congressisti,
Kubie, «Il concetto di memoria, genericamente espresso, è una
astrazione»: e dunque lo psicologo (e, si capisce, anche il
neuropsicologo), deve conoscerne le successive tappe, i fattori
promuoventi la reminiscenza o l'oblio, e stabilire un rapporto fra tali
fattori e i meccanismi mnestici del cervello.
Tale posizione è di primaria importanza, ora che le pagine dei periodici
sono inflazionate dai dibattiti sui meccanismi «della memoria» -
genericamente espressa - ed è divenuta una moda, in dozzine di
conferenze, «puntare» sui «meccanismi mnestici, di ordine biologico e
fisiologico», senza ulteriori tentativi di precisare la complessa
struttura dei processi dell'altrettanto complessa attività mnestica.
Comprensibile, dunque, lo sforzo degli autori di «impadronirsi», da un
lato, della struttura psicologica della reminiscenza, da un altro, dei
meccanismi psicologici dell'oblio.
Circa il primo problema: Broadbent, Miller, Pozner, Kubie, Koestler
partono dal presupposto che la reminiscenza sia, in ogni caso una
codificazione dell'informazione ricevuta, e che, senza tale
codificazione, o organizzazione di tracce nei sistemi noti, non possa
praticamente darsi alcuna attività mnestica.
Partendo da questa posizione, Broadbent propone un modello di memoria, al
primo stadio, risultante come registrazione percettiva del materiale, al
secondo, codificazione dello stesso nei sistemi noti, al terzo,
ritenzione di questi codici, al quarto, passaggio dal sistema codificato
allo stato latente.
Posizione affine sviluppa M. Pozner, che parte da una analisi
dell'impressione non codificata (modalmente-specifica), considera quindi
il ruolo della denominazione (degli oggetti percepiti) nella
codificazione e ritenzione dell'informazione, e conclude con un'analisi
del ruolo dell'attenzione selettiva nella memorizzazione. Analogamente J.
Miller: con particolare dovizia di esempi, e una specifica attenzione
alla complessa rete di codici sottostanti all'uso dei termini, su cui -
egli sottolinea - è indispensabile documentarsi, per approfondire i
processi di memoria verbale. Affini a tali autori, appaiono L. Kubie -
inteso a puntualizzare come la memoria, non sempre risulti un processo
cosciente, e come, nella codificazione del materiale ricevuto, giochi
spesso un ruolo attivo l'esperienza inconscia; e C. N. Cofer, che formula
l'ipotesi di una codificazione sistematica (generalizzata), come
meccanismo base della memoria. Tutta questa sfera di rapporti è
logicamente conclusa dalla relazione di A. Koestler, cui dobbiamo una
decisa distinzione fra forma astratta (sistematizzata, basata su
codificazioni logiche), e forma per immagini (immediata), di memoria, che
rivela il diverso ruolo, giocato da entrambe le forme, nella vita
psichica del soggetto.
Appunto sull'assoluta necessità di valutare la codificazione come
esperienza fondamentale del processo di memorizzazione verte in sostanza
l'importante lavoro di K. Pribram, che a tale conclusione giunge proprio
sulla base di una vasta documentazione su animali.
Secondo Problema fondamentale dell'opera è lo studio dei meccanismi
sottostanti al processo di oblio.
Già nell'introduzione, N. Waugh rileva come sia tuttora irrisolto il
dilemma, se l'oblio debba essere imputato a instabilità e affievolimento
di tracce, o piuttosto a inibizione delle tracce stesse, per interferenze
accessorie. In proposito, ed esattamente sul ruolo dell'interferenza,
un'accurata analisi di Postman: se tale interferenza verta a impedire la
fissazione della nuova esperienza, o a inibire il ricordo (della
vecchia), o ancora a rendere impossibile una tempestiva eccitazione.
L'autore non giunge a una risposta conclusiva, ma hanno comunque
incontestabile interesse gli argomenti da lui addotti circa il carattere
sistematico dell'interferenza, e sul fatto che essa comporti, non tanto
un'inibizione di elementi individuali e distinti, quanto piuttosto quella
di sistemi generali. Altrettanto interesse riveste, nella relazione di
Postman, l'accento posto sulla difficoltà di valutare l'elemento
«affievolirsi di tracce», a seguito di lunghi intervalli di tempo (la
nota curva discendente di Ebbinghaus), proprio per il fatto che, in tali
lunghi periodi, è inevitabile il prodursi di interferenze accessorie, non
calcolabili durante l'esperimento.
Sull'importante ruolo che gioca l'interferenza (nel duplice aspetto di
interferenza perdurante e retroattiva) nei processi di oblio - sia
genericamente, sia nei casi patologici - si è infine espresso, con
considerazioni conclusive, il promotore del simposio stesso, J. Talland.
Pienamente apprezzabile, dunque, l'obiettivo fondamentale del simposio:
l'approfondimento delle nostre conoscenze sulla complessa struttura
psicologica dei processi mnestici, anche in vista di un'utilizzazione
delle stesse per una patologia della memoria.
Abbiamo presentato una sintetica esposizione delle tre principali fonti
in grado di metterci al corrente su quanto è emerso nella più recente
scienza psicologica straniera, Specie anglo-americana. Se a ciò si
aggiunge che, durante questi ultimi tre anni, sono state pubblicate opere
che espongono in maniera pressoché esauriente il contenuto di precedenti
pubblicazioni sui problemi della memoria (13) ne verrà che il lettore
potrà ben esser certo di essere stato informato dovutamente sullo stato
attuale di tale importante capitolo della psicologia.
Registrando tutta l'importanza dei dati esposti in tali fonti, non
possiamo non rilevare ancora una volta, e sempre con profondo
rincrescimento, l'assoluta assenza, nella loro informazione, di qualsiasi
cenno ai relativi studi psicologici sovietici.
Ciò, tanto più è deplorevole, in quanto, già da tempo nell'intero
complesso della ricerca sovietica - da noi sopra delineata (i lavori di
A. N. Leontjev, sullo sviluppo della memoria; o di A. A. Smirnov, sul
processo di richiamo; o di P. I. Zincenko (Zintchenko), sulla
registrazione spontanea; e molti altri) - erano stati trattati problemi
di psicologia della memoria, che solo negli ultimi anni, nella
letteratura straniera, sono cominciati ad apparire; e già da tempo erano
stati proposti metodi analitici della memoria umana, quali tuttora, nella
scienza occidentale quasi da nessuna teoria risultano utilizzati.
I disturbi della memoria
nelle lesioni cerebrali localizzate (14).

Si parla spesso dei disturbi della memoria associati alle lesioni


cerebrali localizzate, ma raramente essi vengono descritti con cura e mai
vengono analizzati nei termini dei meccanismi fisiologici di base dai
quali dipendono. Soltanto durante gli ultimi due decenni sono stati fatti
dei tentativi per dare un'impostazione più scientifica all'analisi del
problema dei disturbi della memoria (vedi, ad esempio, [1, 2]). Tenteremo
in questo articolo di passare in rassegna alcuni dei principi
fondamentali che governano i nostri studi clinici e di interpretare i
risultati, dove è possibile, nei termini dei principi psicologici
generali.

Fattori dei disturbi della memoria.

Sono state proposte due ipotesi per spiegare i difetti della memoria del
genere comune nelle lesioni cerebrali localizzate. La prima attribuisce
l'oblio al «decadimento della traccia» vedi, ad esempio, [3]). I
neurologi suppongono che negli stati patologici del cervello la velocità
di decadimento viene accresciuta, le tracce divengono instabili e la loro
consolidazione diviene difficile.
La seconda ipotesi attribuisce il disturbo della memoria non ad una
ridotta capacità di immagazzinare, ma ad una difettosa capacità di
recuperare; viene supposto che le difficoltà della memoria sono dovute ad
un accresciuto blocco delle tracce da parte di azioni o di impressioni in
interferenti [4, 5.]. Questo aumento della inibizione delle tracce a
causa di interferenze viene considerato come la causa principale
dell'oblio anormale negli stati patologici [6, 7].
Cercheremo di esaminare entrambe le ipotesi. Cominciamo con due serie di
esperimenti. Nel primo analizzeremo come le tracce possono essere
recuperate dopo un intervallo di 1-2 minuti libero da impressioni o
azioni interposte («intervallo libero»). Nel secondo ripeteremo
l'esperimento, ma con l'intervallo occupato da impressioni o azioni
interposte (cioè, «interferenti»). Queste possono essere «eterogenee»,
come quando viene richiesto al soggetto di fare dell'aritmetica
mentalmente, o «omogenee», come quando gli viene richiesto di ricordare
una seconda serie di parole. Se si trova che il recupero è normale dopo
il periodo libero, ma è bloccato dagli stimoli interferenti, ci sono dei
fondamenti per accettare la seconda ipotesi: l'oblio patologico è dovuto
ad un blocco della capacità di recupero a causa di una attività
interposta.
I nostri risultati sono chiari: si è trovato che una larga maggioranza di
pazienti affetti da lesioni cerebrali: localizzate (tumori, emorragie,
traumi cranici) è capace di ricordare una serie breve di forme
geometriche, disegni, movimenti, cifre, parole o frasi nella condizione
di «intervallo libero», mentre si è trovato che essi avevano una grossa
difficoltà nel ricordarli nella condizione di «interferenza». In tali
casi i pazienti dicevano che le tracce delle impressioni precedenti
«scomparivano» e che non erano capaci di ricordarle, oppure davano prova
di una «combinazione» della tracce della serie precedente con quelle
della serie successiva. Questi risultati dimostrano che gli stati
patologici del cervello, associati a lesioni focali, danno luogo ad un
aumento del blocco delle tracce causato dall'attività interposta tra la
percezione ed il richiamo e che i disturbi della memoria, osservati in
questi casi, sono dovuti ad un aumento della inibizione delle tracce
causata da ciascuna attività interposta.
Ebbene, si sono ottenuti dati con pazienti affetti da tumori profondi del
cervello [8, 9, 10], da aneurismi dell'"arteria communicans anterior"
[11], da lesioni focali del lato convesso dell'emisfero sinistro [9, 12],
ed anche con pazienti affetti da traumi cerebrali massivi [13]. Soltanto
le lesioni del lobo sinistro temporale e temporoparietale danno luogo ad
un'instabilità delle tracce immediate verbo-acustiche, e sono stati
osservati anche dei difetti nella loro consolidazione [9, 14].
Discuteremo più avanti questi casi.
L'inibizione delle tracce, che si è accresciuta patologicamente a causa
dell'interferenza, sembra essere un fattore fondamentale sottostante ai
disturbi della memoria associati a tutte le lesioni cerebrali. Ecco il
motivo per il quale consideriamo questo meccanismo come fondamentale.
I disturbi della memoria possono essere del tipo "generale" (cioè, di
modalità non specifica), come nella classica sindrome di Korsakov, o del
tipo "parziale" (modalità specifica), ad esempio, acustici, verbali,
spaziali. Essi possono essere presenti a tutti i livelli di codificazione
od essere limitati ad un livello soltanto, ad esempio, a quello inferiore
(sensoriale) o a quello superiore (intellettuale). Inoltre, possono
essere presenti in pazienti non affetti da stati di confusione o di
sonnolenza, sebbene la loro associazione con questi stati, o con
l'inerzia patologica dell'attività nervosa, non sia naturalmente incomune
[15]. Vedremo più avanti come possono essere importanti queste differenze
e considereremo il loro significato per la localizzazione ed il substrato
fisiologico dei disturbi della memoria.

Disturbi della memoria generale.

La memoria generale (non specifica) può essere osservata nei casi di


lesioni profonde degli emisferi che coinvolgono il tronco cerebrale, i
nuclei talamici e le vie provenienti dall'ipotalamo, i corpi mammillari e
l'ippocampo: il cosiddetto circuito di Papez. Questo tipo di disturbo
della memoria viene ben descritto negli studi ormai classici come pure
nei recenti articoli della B. Milner e dei suoi collaboratori [16]. I
disturbi vengono osservati in pari modo in ogni modalità e l'oblio viene
causato dalle influenze di blocco delle attività che intervengono tra la
percezione ed il ricordo e possono essere dovuti ad un deterioramento dei
neuroni non specifici dell'ippocampo che servono da centri di «confronto»
[17].
Sebbene l'amnesia generale sia comune a tutte le lesioni profonde del
cervello, il livello del disturbo e le due caratteristiche neurodinamiche
possono variare a seconda della partecipazione di diversi sistemi
funzionali del cervello e di diversi fattori eziologici, ad esempio, la
ipertensione, gli stati tossici e di carenza.

a) Disturbo lieve della memoria generale.


Tale disturbo si osserva nella disfunzione cerebrale lieve, ad esempio,
nei tumori pituitari che coinvolgono le parti mediali degli emisferi
[10]. Non è presente alcun disturbo delle funzioni corticali superiori o
nessuna perdita di coscienza, e i pazienti hanno una buona consapevolezza
del loro disturbo mnestico. Nessuna alterazione della memoria era
evidente nella prova di «intervallo libero», ma era evidente un disturbo
rilevante nelle condizioni di «interferenza». Ciò talvolta risultò anche
dopo 4-5 ripetizioni degli esperimenti.
L'osservazione seguente è tipica:
Veniva presentata una serie di tre parole, e non si osservava nessuna
difficoltà nella capacità di ricordare questa serie dopo una pausa
«libera» di 2 minuti. Quando (subito dopo la prima) veniva presentata una
seconda serie di tre parole e al paziente veniva richiesto di ricordare
questa seconda serie, allora le sue risposte diventavano confuse.

(schema disposto su quattro colonne)

colonna 1: casa-albero-gatto
colonna 2: notte-stufa-dolce
colonna 3: ?/1
colonna 4: ?/2
- prima risposta:
positiva (alla colonna 1.)
positiva (alla 2.)
no dimenticato (alla ?/1)
non riesco proprio a ricordarmi (alla ?/2)
- seconda risposta:
due risposte positive (alla 1)
due risposte positive (alla 2)
prima niente - seconda: no... dolce?... (alla ?/1)
prima niente - seconda: ...no ...non ricordo (alla ?/2)
- terza risposta:
positiva (alla 1).
positiva (alla 2.)
...gatto ...no... non so (alla ?/1)
...albero... dolce ...no ...non ci riesco (alla ?/2).

Qui l'effetto di blocco risulta molto chiaramente. In un tale paziente,


il richiamo corretto al 100 per cento è possibile solo dopo gli
«intervalli liberi», mentre lo è soltanto al 40-45 per cento negli
intervalli occupati da materiale «omogeneo» interferente.
Dati analoghi sono stati ottenuti in esperimenti sulla capacità di
ricordare una serie di disegni, movimenti, figure, eccetera. E'
significativo che non si sono osservati disturbi rilevanti in questo
gruppo di pazienti nel corso di esperimenti sulla ritenzione di semplici
tracce sensoriali (esperimento di Konorski), o di tracce senso-motorie
(esperimento di Uznadze sul "set") e di sistemi di strutture verbali bene
organizzate (frasi) che potevano essere facilmente ricordate anche dopo
che veniva presentata un'altra frase come fattore interferente; il numero
delle volte in cui si riusciva a ricordare adeguatamente la prima frase
rimaneva al livello del 90-100 per cento.

b) Disturbo grave della memoria generale.


Tale disturbo si osserva nei casi di tumori profondi e massivi agli
emisferi, specialmente in quelli che coinvolgono le superfici mediali,
nei tumori mediali profondi che coinvolgono il talamo, la formazione
reticolare del tronco cerebrale ed il sistema limbico, incluso
l'ippocampo. I casi riportati da Milner ed altri [16], Popova [8] e da
altri autori rientrano in questo gruppo. Uno speciale sottogruppo
comprende pazienti con aneurismi all'"arteria anterior communicans"
associati ad emorragie o costrizioni d'entrambe le arterie cerebrali
anteriori [11]; un analogo disturbo esteso della memoria si è osservato
anche nei casi di traumi cranici massivi con emorragie nella stessa
regione generale del cervello [13].
Questi deterioramenti massivi, non specifici, della memoria somigliavano
talvolta alla sindrome di Korsakov. Spesso erano associati a sonnolenza,
confusione, pseudoreminiscenze e confabulazione. Solo in un numero
limitato di questi pazienti la coscienza era del tutto chiara. Inoltre, i
pazienti si lamentavano dei disturbi della loro memoria e talvolta
sembrava che non ne fossero consapevoli.
In questi casi, le tracce delle impressioni immediate erano molto
instabili e scomparivano dopo ogni spostamento dell'attenzione e dopo
ogni interferenza. D'altra parte, le tracce ben consolidate delle
esperienze precedenti potevano rimanere intatte. Talvolta questi pazienti
, si dimenticavano della visita del medico solo dopo un minuto o due e lo
salutavano di nuovo se egli ritornava. Il disorientamento spaziale e
quello temporale (specialmente in quest'ultimo) erano assai rilevanti e
c'era poca o nessuna memoria del passato immediatamente precedente. La
confabulazione incontrollata era molto accentuata nei pazienti affetti da
lesioni coinvolgenti entrambi i sistemi frontali e diencefalici, sebbene
non ci fosse mai nei pazienti affetti da lesioni ippocampali
circoscritte.
Allo stesso tempo, sarebbe errato supporre che le impressioni immediate
scomparivano completamente. Spesso possono essere stabiliti semplici atti
motori [16] o riflessi condizionati e le unità di informazione conservate
ed isolate sono talvolta trattenute per lunghi periodi di tempo.
In tutti i casi di questo tipo, l'evidenza sperimentale suggerisce che i
disturbi della memoria sono dovuti non a un decadimento spontaneo della
traccia, ma ad effetti di interferenza. Ciò si rileva bene anche nei casi
di una chiara sindrome di Korsakov: tali pazienti possono facilmente
trattenere una serie di 5-6 elementi e ricordarla dopo un intervallo
«libero» di 1,5-2 minuti, e spesso possono ricordare il succo di un
paragrafo e riprodurlo dopo un intervallo «libero» della stessa durata.
Quando però l'intervallo è occupato da un'attività interposta, ad esempio
dal semplice computo o dalla presentazione di 2-3 unità successive, la
capacità di ricordare la prima serie decresce dal 90-95 per cento al 55
per cento, o, nei casi di frasi, dal 95-100 per cento al 60-70 per cento,
e negli esperimenti su paragrafi interi, dal 90-95 per cento al 45-50 per
cento [10]. Risultati simili sono stati ottenuti con esperimenti su
figure geometriche, disegni, movimenti, eccetera.
In questo gruppo, il disturbo della memoria è evidente a tutti i livelli
d'organizzazione mnestica e (a differenza di quanto si trova nei casi più
lievi) anche la organizzazione delle parole in frasi o brani non altera
la ritenzione.
Come si è detto, l'obnubilamento della coscienza, la confusione e la
confabulazione risultano associati ai disturbi della memoria solo nel
caso di lesioni coinvolgenti parti mediali del lobo frontale e del tronco
cerebrale. E' importante il fatto che le combinazioni, del tipo descritto
nell'esperimento sulla capacità di ricordare, spesso preannunciano lo
sviluppo della confabulazione a un livello clinico. Essa può durare, in
qualche grado, anche dopo un ristabilimento per altri aspetti buono da
uno stato amnesico-confabulatorio.
Può citarsi brevemente un caso rappresentativo di un disturbo della
memoria generale:

"Caso R.
Donna di quaranta anni. Tumore alle parti posteriori del corpo calloso
coinvolgente le aree ippocampali. Sindrome di amnesia grave con
disorientamento spaziale e temporale, e con gravi disturbi alla memoria
recente. Aumento patologico del blocco della incapacità di ricordare
causato da stimoli interposti.
1. 'Riconoscimento delle forme' (tecnica di Konorski). Veniva presentato
per 5-6 secondi un triangolo blu. Dopo un intervallo «libero» di 30
secondi, un minuto od un minuto e mezzo, veniva presentata una seconda
figura. Questa poteva essere lo stesso triangolo blu o un quadrato blu o
un triangolo verde. La paziente doveva dire se la seconda figura era la
stessa o era differente. Con gli intervalli «liberi» ella poteva
facilmente svolgere questo compito, ma esso invariabilmente non veniva
svolto se una attività (ad esempio, semplici computi, osservazione di un
disegno) veniva interposta tra la presentazione delle due figure. In tali
circostanze la paziente non poteva neppure ricordarsi che precedentemente
era stata presentata una figura.
2. 'Effetti del contrasto tra dimensioni' (tecnica del «set fisso» di
Uznadze). Due palle di legno di diversa dimensione venivano poste nelle
due mani, la più piccola nella sinistra. Alla paziente veniva richiesto
di dire quale palla fosse la più grande. Dopo 15 prove alla paziente
venivano presentate due palle identiche. Come di norma, la paziente
stimava la palla posta nella mano sinistra come la più grande e questa
illusione veniva conservata dopo un intervallo «libero» di due minuti
massimo. Se, tuttavia, l'intervallo veniva occupato da una attività
interposta, le stime della dimensione relativa divenivano casuali.
3. 'Ricordo di parole: interferenza «eterogenea»'. Non si osservavano
difficoltà nella ripetizione di gruppi di 3-4 parole dopo un intervallo
«libero» di due minuti massimo. Ma quando l'intervallo era occupato da
un'attività estranea come la descrizione di un disegno o un semplice
computo, potevano essere ricordati solo uno o due elementi.
4. 'Ricordo di parole: interferenza «omogenea»'. Dato un gruppo di 2-3
parole isolate e poi un secondo gruppo di uguale lunghezza e richiesto di
ricordare dapprima il primo gruppo di parole e poi il secondo, la
paziente non vi riusciva affatto. Diceva che il primo gruppo di parole la
confondeva completamente e che mentre cercava di ricordarlo dimenticava
anche il secondo gruppo. Ciò si vedeva dopo 5-6 ripetizioni
dell'esperimento, sebbene talvolta venisse riprodotto un gruppo
combinato.
5. 'Riproduzione di disegni o di azioni'. Risultati analoghi venivano
ottenuti se le parole venivano sostituite da gruppi di disegni o di
azioni non collegati tra di loro.
6. 'Ricordo di frasi'. Delle brevi frasi, con significato, di 4-7 parole
presentate oralmente potevano essere riprodotte senza difficoltà dopo
intervalli «liberi» di 2 minuti massimo. Quando tuttavia veniva
presentata immediatamente dopo la prima una seconda frase di lunghezza
paragonabile, e alla paziente veniva richiesto di ripetere la prima frase
e poi la seconda, ella non vi riusciva affatto o dava una versione della
seconda frase includente solo elementi della prima [combinazione]. C'era
poca o nessuna alterazione nella ripetizione.
7. 'Ricordo di brani'. Il succo di un racconto molto breve presentato
oralmente, poteva essere riprodotto subito dopo (con qualche omissione) e
tale capacità poteva essere alterata con 2-3 ripetizioni. Tuttavia, se
veniva letto e riprodotto, subito dopo il primo, un secondo racconto e
alla paziente veniva poi richiesto di ripetere il primo racconto, ella o
non riusciva a ricordare neppure il primo o ne dava una versione
combinata. La capacità non era alterata dopo 5-6 ripetizioni."

In questa paziente, i disturbi della memoria erano chiaramente del tipo


di modalità non specifica ed altrettanto chiaramente dovevano la loro
origine al blocco delle tracce di memoria recente causato da
interferenze. Si noterà che il disturbo della memoria era presente a
tutti i livelli dell'organizzazione semantica.

Disturbi della memoria parziale (modalità specifica).

Questo tipo di disturbi della memoria lo si osserva nei pazienti affetti


da lesioni localizzate delle parti posteriori del lato convesso
dell'emisfero sinistro. Non è associato a confusione od obnubilamento
della memoria, disorientamento o trasformazione della personalità. La
intuizione nei disturbi gnostici e mnestici è intatta.
La natura fondamentale di tutti i disturbi della memoria «parziale» è che
essi sono limitati dalla modalità sensoriale. I difetti nel ricordare le
relazioni visivo-spaziali si osservano nelle lesioni occipito-parietali e
quelli nel ricordare l'informazione verbo-acustica nelle lesioni delle
aree sinistre temporale o temporo-parietale.
Negli esperimenti precedenti [12] si è rilevato che i pazienti affetti da
lesioni temporali potevano ritenere facilmente un gruppo di 3-4 figure
presentate nella modalità visiva e recuperarle dopo un intervallo
«libero» di due minuti massimo, ma non riuscivano a ritenere un gruppo di
3-4 parole presentate nella modalità acustica; il recupero dopo un
intervallo «libero» di 1,5-2 minuti raggiungeva solo il 30-40 per cento.
D'altra parte, i pazienti con lesioni occipito-parietali di sinistra
ritenevano gruppi di 3-4 parole presentate oralmente, ma non riuscivano a
ritenere un numero equivalente di figure geometriche dopo un intervallo
«libero» di 1,5-2 minuti specialmente se tali gruppi erano organizzati in
relazioni spaziali complesse. In queste condizioni, essi ritenevano non
più del 50 per cento degli elementi presentati, e tale percentuale si
abbassava al 30-35 per cento se un fattore di interferenza complicava il
recupero.
Questi dati dimostrano che, in contrasto coi pazienti affetti da lesioni
mediali profonde, i difetti della memoria nelle lesioni corticali del
lato convesso sono dovute non solo ad effetti di interferenza, ma anche
ad una instabilità primaria e ad un facile decadimento delle tracce
all'interno di una modalità specifica. Per questa ragione, l'«effetto di
posizione» era molto accentuato; in questi casi, ad esempio, pazienti
affetti da lesioni temporali di sinistra tendevano a ricordare gli
elementi di un gruppo di parole nell'ordine inverso [14]. Una marcata
caratteristica del comportamento di questi pazienti è quella per la quale
rimangono conservate le strategie attive di ricerca, ed i pazienti che
non sono capaci di ricordare gli elementi separati spesso possono
afferrare il senso generale di una frase od anche di un brano. Nel
ripetere un racconto possono dire «un passero» invece di «un merlo», «una
mosca» invece di «una formica», ma possono ritenere facilmente il senso
generale dell'intero racconto. La conservazione di tutto il programma (o
il significato generale) associata all'instabilità per quanto riguarda
gli elementi particolari è la vera caratteristica essenziale di questa
forma di disturbo della memoria.

Disturbi della memoria dei sistemi specifici:


difetti nella scelta delle parole.

Si osserva uno speciale disturbo della memoria nei pazienti affetti da


lesioni dell'«area corticale del linguaggio», in particolare le aree
terziarie (temporale-parietale-occipitale ) dell'emisfero sinistro. Ciò
riguarda essenzialmente il recupero verbale nel corso normale del
linguaggio. E' noto che gli "input" in arrivo devono essere codificati, e
che la codificazione per mezzo del linguaggio ha un ruolo essenziale
nella memoria. Si riconosce, anche, che una "parola" non è affatto una
semplice associazione di un suono complesso con un'immagine; è piuttosto
una matrice pluridimensionale che ha una sua struttura fonetica,
morfologica e semantica. Dal punto di vista della sua organizzazione
acustica la parola "cat" [gatto] è assai connessa a "hat" [cappello]; dal
punto di vista della sua organizzazione morfologica, la parola
"blackbird" [merlo] è assai connessa a "whitehead"; dal punto di vista
del suo significato semantico, "cat" [gatto] può essere messo in
relazione a "dog" [cane], o a "kitten" [micino]; "school" [scuola] a
"college" [collegio], "library" [biblioteca] come pure a "teacher"
[insegnante], "student" [studente], eccetera. Solo una scelta corretta
della parola all'interno di una tale matrice può fornire un sistema
linguistico organizzato selettivamente.
Questa selettività presuppone alcune condizioni fisiologiche di base,
delle quali una è la «regola della forza» di Pavlov, secondo la quale
stimoli forti (o importanti) producono forti reazioni corticali, mentre
stimoli deboli (non importanti) producono reazioni deboli. Solo se questa
regola è messa in opera, la funzione selettiva dell'area del linguaggio
può aver luogo in modo appropriato. Negli stati patologici della
corteccia, tuttavia, la «regola della forza» può venir meno causando una
serie di «stati inibitori», nei quali sia gli stimoli forti che quelli
deboli possono produrre reazioni uguali (fase di uguaglianza) o quando
gli stimoli deboli producono reazioni più forti di quelle prodotte dagli
stimoli forti (fase paradossale). Queste condizioni (quando riguardano i
meccanismi corticali del linguaggio) possono disturbare grossolanamente
l'organizzazione selettiva del linguaggio e la selettività delle tracce
verbali. In questo modo tracce deboli o non-specifiche possono essere
evocate allo stesso tempo come se fossero forti ed importanti e la scelta
delle parole nella memoria verbale viene danneggiata. Così nel caso della
«afasia amnesica» che si osserva nelle lesioni delle aree terziarie
(temporale-parietale-occipitale) dell'emisfero sinistro.
Il paziente affetto da afasia amnesica può facilmente ritenere le tracce
degli stimoli non verbali e recuperarle anche dopo attività «interposte».
Si verificano delle grosse difficoltà quando egli cerca di ricordare una
parola e di recuperarla. In questi casi viene evocata un'intera matrice
di connessioni in egual modo probabili e la scelta corretta delle parole
diviene estremamente difficile. Così, cercando la parola "hospital"
[ospedale], il paziente può dire "school" [scuola] o "hotel" [albergo] o
"Red Cross" [Croce Rossa]. Cercando di recuperare la parola "teacher"
[insegnante] può dire "preacher" [predicatore] (somiglianza acustica o
morfologica) o "pupil" [alunno] (connessione semantica); l'accesso alla
parola richiesta è bloccato. Questa sembra che sia la base fisiologica
della "parafasia", la cui base neurodinamica è stata così poco esplorata.
Discuteremo questo problema in un articolo specifico.

Disturbi della memoria nelle lesioni dei lobi frontali.

Un tipo molto speciale di disturbi della memoria lo si osserva in alcuni


pazienti affetti da lesioni massive dei lobi frontali. In questi casi,
non vi sono difetti primari della ritenzione e la perdita apparente della
memoria è dovuta ad una trasformazione patologica di tutta la struttura
del comportamento. Ciò è dovuto ad un alto grado di distraibilità, da una
parte, e ad una inerzia patologica, dall'altra, che danno come risultato
"una perdita nelle forme programmate di attività" [15]. In questi casi
non c'è una vera e propria amnesia, generale o parziale, e si osserva una
buona ritenzione di una serie di elementi in qualsiasi modalità dopo
intervalli «liberi» di due minuti o più.
Il difetto nella capacità di ricordare di questi pazienti risulta da una
incapacità nel creare "uno stabile proponimento di ricordare, assieme ad
un fallimento nello «spostare» il richiamo da un gruppo di tracce
all'altro". In esperimenti sull'apprendimento, questi pazienti non
riescono a produrre una curva tipica di apprendimento e rimangono
indefinitivamente in una fase di "plateau". Non viene sviluppata alcuna
strategia e non vengono aggiunti nuovi elementi durante la ripetizione
del compito. Nei compiti di «recupero» descritti sopra non sono, inoltre
capaci di passare dalla prima serie alla seconda (inerzia patologica) e
non riescono a correggere i loro errori. Questo fenomeno è chiaro in
special modo nelle lesioni del lobo frontale sinistro (dominante) e, se
si estendono alla regione temporale, può associarsi a sintomi aggiuntivi
come la «alienazione del significato delle parole». Se ad un tale
paziente si richiede di ricordare il nome di tre oggetti avvalendosi di
una ripetizione inerte della stessa parola o delle parole ad essa
associate, ad esempio «mela... e pera... e una mela», eccetera. In
generale, questi dati indicano che i difetti della memoria nei pazienti
affetti da lesioni frontali sono legati ad un disturbo più generale
dell'attività programmata del comportamento assieme ad un'inerzia dei
processi nervosi superiori.
Si può fare l'esempio di un paziente con grave sindrome frontale.

"Caso K.
Studente di anni 26. Trauma massivo ad entrambi i lobi frontali. Stato di
incoscienza, durato 4-5 giorni, seguito da uno stato prolungato di
confusione. Il paziente mancava di spontaneità, era affetto da acinesi e
da ecolalia da perseverazione marcata e da disturbi della memoria. I dati
sotto riportati furono osservati in un arco di tempo compreso tra uno ed
i tre mesi dopo aver subito la lesione. Durante l'intervista, il
linguaggio del paziente era povero ed era molto perseverante.
'Ricordo di parole: interferenza «eterogenea»'. Il paziente poteva
ritenere gruppi di 2-3 o anche 4-5 parole e ricordarle dopo intervalli a
liberi» di un minuto e mezzo. Se veniva interposto un semplice computo
tra la presentazione ed il richiamo, il paziente sostituiva delle cifre
alle parole richieste e negava averle dette.
'Ricordo di parole: interferenza «omogenea»'. Il paziente ripeteva
facilmente due gruppi di 2-3 parole isolate presentate in successione
immediata. Se poi però gli si richiedeva di ripetere di nuovo il primo
gruppo, egli ripeteva semplicemente il secondo gruppo, senza correggersi.
'Riproduzione di disegni o di azioni'. Il paziente poteva ritenere delle
sequenze di 2-3 disegni o azioni e riprodurli dopo un intervallo «libero»
di 1,5-2 minuti. Quando però veniva presentata una seconda sequenza
simile e gli veniva richiesto di riprodurre la prima dopo aver riprodotto
la seconda egli falliva completamente, ripetendo semplicemente
quest'ultima senza alterazioni o dando una risposta «combinata» con
marcate perseverazioni.
'Ricordo di frasi'. Frasi potevano essere ricordate facilmente dopo
intervalli «liberi» di 1,5-2 minuti. Quando però si richiedeva di
ricordare una frase dopo aver ricordato una seconda, egli non faceva
altro che riprodurre semplicemente quest'ultima. Sebbene riconoscesse che
le due frasi erano differenti per significato e suono, egli sembrava
impotente ad inibire la perseverazione.
'Ricordo di brani'. Durante il primo periodo di osservazione il paziente
cominciava a riprodurre il brano presentato, ma non era capace di
fermarsi e continuava a produrre associazioni libere ed incontrollate che
potevano continuare per 15-20 minuti (confabulazione). Poche settimane
più tardi, egli era capace di riprodurre il paragrafo, ma quando veniva
presentato un secondo paragrafo, la sua riproduzione era assai
contaminata dal primo e venivano messi in evidenza degli errori
stereotipati. Gli sbagli non venivano mai corretti."

E' chiaro che i difetti apparenti della memoria nei pazienti affetti da
lesioni ai lobi frontali sono dovuti soprattutto ad una mancanza di
capacità di passare da un soggetto ad un altro, con conseguenti
perseverazioni e grossi insuccessi nella correzione degli errori
stereotipati. Il ricordo è di conseguenza reso difficile ed impreciso.

Bibliografia.

[1] MILNER B., "Material specific and generalized memory loss", in


Neuropsychologia, 1968, 6, pagine 175-180.
[2] WEISKRANTZ L., "Experimental studies of amnesia", in C. W. M. Whitty,
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learning on retroactive inhibition and the overt transfer of specific
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cerebrali"], Tesi, Scuola di medicina di Mosca, 1964.
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lesioni del lobo temporale sinistro"], Tesi, Università di Mosca, 1966.
[10] KIJASENKO (Kijashenko) N. K., ["Difetti della memoria nelle lesioni
cerebrali localizzate"], Tesi, Università di Mosca, 1966 e Edizioni
Universitarie, Mosca, 1972.
[11] LURIJA A. R, KONOVALOV A. N., PODGORNAJA A. Ja, [Disturbi della
memoria associati ad aneurismi dell'arteria 'anterior communicans'"],
Mosca, Edizioni Universitarie, 1970.
[12] PHAM MING HAC, ["Disturbi della memoria associati a lesioni focali
delle parti convesse dell'emisfero sinistro"], Tesi Università di Mosca,
1971.
[13] AKBAROVA N. A., ["Difetti della memoria nei traumi cerebrali
gravi"], Tesi, Accademia delle scienze mediche, Mosca 1961.
[14] LURIJA A. R., SOKOLOV E. N., KLIMKOVSKI M., "Towards a neurodynamic
analysis of memory disturbances with lesions of the left temporal lobe",
in "Neuropsychologia", 1967, 5, 1-11.
[15] LURIJA A. R., CHOMSKAJA E. D., BLINKOV S. M., CRITC M., "Impairment
of selectivity of mental processes in association with a lesion of the
left frontal lobe", in "Neuropsichologia", 1967, 5, 105-117.
[16] MILNER B., CORKINS S., TEUBER H. L., "Further analysis the
hippocampal amnesic syndrome: 14 year follow-up study of H. M.", in
"Neuropsychologia", 1968, 6, 215-234.
[17] VINOGRADOVA O., "Registration of information and the limbic system",
in G. Horn, R. A. Hinde (Eds.), "Short-term changes in neural activity
and behavior", Cambridge Univ. Press, 1970 pagine 95-140.

NOTE.

Nota 1: Nel testo, sempre, «a zuk (giuk)», dove il termine russo "zuk"
[scarabeo] è inscindibilmente preceduto, nella mente del bambino,
dall'articolo ebraico "a". (n.d.t.).
Nota 2: Confronta A. R. LURIJA, F. JA. JUDOVITCH "Rec (Retch) i razvitie
psichiceskich (psichitcheskich) protsessov rebenka" [Il linguaggio e lo
sviluppo dei processi psichici infantili], Mosca 1956.
Nota 3: Non appesantiremo il nostro racconto con esempi atti a dimostrare
i vantaggi che derivano al pensiero quando si appoggia ad immagini
perspicue. Abbiamo a nostra disposizione un gran numero di soluzioni di
problemi, descritte dallo stesso S., che potrebbero servire di esempio.
Nota 4: Confronta R. JAKOBSON, M. HALLE, "Foundations of language"
Mouton, Hague, 1956.
Nota 5: Reali difficoltà nell'apprendimento di tali significati sorgono
in casi particolari. Un esempio ce ne porge l'acquisizione del linguaggio
nei bambini sordomuti, nei quali l'apprendimento del significato
generalizzato delle parole è una delle più serie pietre d'inciampo.
Confronta R. M. BOSKIS, "Osobennosti recevogo (retchevogo) razvitija u
detej pri narusenii (narusheni) zvukovogo analizatora" [Particolarità
dello sviluppo del linguaggio nei bambini in caso di lesione
dell'analizzatore acustico], in Izv. AMN. RSFSR, 1953, n 48, e anche N. G
MOROZOVA, "Vospitanie soznatelnogo ctenija (tchtenija) u gluchonemych
skolnikov (shkolnikov)" [L'educazione alla lettura consapevole negli
allievi sordomuti], Mosca, Ucpedgiz (Utchpedgiz), 1953.
Nota 6: Tralasciamo qui altri due esempi, intraducibili in italiano.
(n.d.t.).
Nota 7: Confronta MARX, "Per la critica dell'economia politica",
Prefazione, Roma, Editori Riuniti, 1971.
Nota 8: Queste esperienze sono state condotte, a loro tempo, con la
partecipazione di S. A. Charitonov, N. V. Raevaja, S. D. Rolle, A. I.
Rudnik, che ringraziamo della collaborazione prestataci.
Nota 9: A. R. LURIJA, "Novoe v psichologii, biologii i patologii
pamjati", in "Voprosy psichologii". n. 2, 1971, pagine 164-152. (Trad. di
S. Sorrentino).
Nota 10: D. A. NORMAN (ed), "Models of human memory", New York, Academic
Press, 1970.
Nota 11: M. PRIBRAM, D. E. BROADBENT (ed). "Biology of memory", New York,
Academic Press, 1970.
Nota 12: G. TALLAND, N. WAUGH (ed), "The pathology of memory", New York,
Academic Press, 1969.
Nota 13: N. I. SLAMECKA (ed.), "Human learning and memory", saggi scelti,
Oxford university Press, 1967; L. POSTAM , G. KAPPEL, "Verbal learning
and memory", Penguin Books, 1969.
Nota 14: "Mernory desorders in local brain damages", in
"Neuropsychologia", n. 6, 1971. (Trad. di L. Mecacci.)

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